E’ ora di cominciare a smascherare
un’altra delle tante menzogne che ci sono state propinate da
decenni a questa parte dai media occidentali, nessuno escluso,
come sempre, da
“sinistra” a “destra”.
Quella in base alla quale l’Iran, una delle culle della
civiltà mondiale, così come tanti altri paesi del mondo,
sarebbe una
sorta di inferno oscurantista e medioevale governato da
fondamentalisti sanguinari e popolato da masse di esaltati,
integralisti e invasati ma anche
da una minoranza (ma potenziale maggioranza) di persone che,
se potessero (se cioè non gli fosse impedito con la forza
bruta dai
“cattivi” e barbuti imam e dai loro seguaci), opterebbero
senz’altro per il “way of life” occidentale; ergo, a diventare
dei bravi cittadini democratici, “partecipativi”, civili e
tolleranti (consumatori passivi, mercificati e precari privi
di ogni coscienza
e identità?…) chiamati periodicamente a ratificare i propri
governanti-amministratori.
Peccato che questo “esercizio”
di democrazia, pur con tutti i suoi limiti (vale anche per
l’Iran ciò che vale per le democrazie occidentali) in Iran sia
già
ampiamente praticato, a differenza di tanti altri paesi
dell’area mediorientale e non solo.
L’Iran, infatti (audite, audite!), è un paese nella sostanza più democratico rispetto a tanti paesi occidentali dove ormai la dialettica politica maggioranza/opposizione è ridotta ad una finzione, a cominciare dagli USA dove i repubblicani/conservatori e i democratici/progressisti si dividono sullo spinello libero e sul matrimonio gay ma non certo sulla natura e sulla vocazione capitalista e imperialista della loro nazione, chiamata ad assolvere ad una sorta di compito messianico, di missione escatologica che la Storia le avrebbe assegnato (“gli USA, l’unica nazione indispensabile al mondo” come ha coerentemente dichiarato lo stesso Obama).
Leggi tuttoScriveva Robert Lucas (premio “Nobel” per l’economia): “Se abbiamo imparato qualcosa dagli ultimi vent’anni, è che c’è parecchia stabilità integrata nell’economia reale”. La stabilità di cui parla Lucas però è frutto di una spiacevole allucinazione. Le fluttuazioni nei mercati finanziari sono enormi e accadano spesso: quella cui assistiamo in questi giorni è l’ennesima dimostrazione che la visione dell’economia neoclassica riassunta da Lucas nel brano sopra riportato è falsificata dall’esperienza empirica.
Il punto è, come ha ben spiegato Mark Buchanan nel suo interessante saggio libro “Previsioni. Cosa possono insegnarci la fisica, la meteorologia e le scienze naturali sull’economia” (Malcor D’E, 2014).
“Negli ultimi trent’anni la teoria economica dominante ha incoraggiato e spinto i governi del mondo a privatizzare le proprie industrie e a deregolare il mercato con l’argomentazione tipica dell’efficienza derivante dal buon senso del mercato. Questo tipo di prospettiva, affermano spesso gli economisti, poggia su raffinate teorie matematiche sviluppate negli anni cinquanta ed evolute continuamente da allora. […] Se si studiano i teoremi economici che affermano di spiegare come i mercati funzionano e si analizzano le condizioni in cui questi teoremi sono stati sostenuti e le conseguenze che hanno implicato sui mercati reali, si nota una differenza esorbitante tra le affermazioni degli specialisti e la realtà.
Leggi tuttoIl funerale di Vittorio Casamonica è stato un'ulteriore dimostrazione di come un non-evento, attraverso l'orchestrazione dell'allarmismo mediatico, possa assurgere al rango di emergenza sociale e politica. A dirigere l'orchestra mediatica è stato, come sempre, il quotidiano di fintosinistra "La Repubblica", una vera e propria centrale della manipolazione dell'opinione pubblica a fini coloniali.
Uno dei tanti funerali pacchiani del boss di quartiere è così diventato un affare di Stato, anzi, una "sfida allo Stato". Una criminalità burina e casereccia viene accreditata di aver messo in crisi le istituzioni: un rione contro la nazione. Ad essere messo sotto accusa dai media è stato infatti più il quartiere che non il clan. Tutto ciò non è fine a se stesso, e lo scopo non è affatto di "distrarre", bensì di creare un'immagine distorta dei rapporti sociali. Il copione era già stato sperimentato lo scorso anno, durante la finale di Coppa Italia, elevando al ruolo di divo della "trattativa Stadio-Mafia" l'ultrà "Genny ' a Carogna".
Anche in quel caso la lettura degli eventi fu forzata al punto da offrire l'immagine di uno Stato "troppobuonista", debole e inerme davanti alla violenza, quindi vittima di "qualunque" prepotente; uno Stato che "chiunque", anche un Genny qualsiasi, potrebbe ricattare e prendere per i fondelli. I fatti successivi raccontano tutta un'altra storia, con un Genny condannato nell'aprile scorso a una pena sproporzionata rispetto alle effettive imputazioni, a riprova di come lo "Stato", sempre comprensivo e "garantista" nei confronti dei potenti come De Gennaro e Deutsche Bank, si riveli invece punitivo e vendicativo nei confronti dei soggetti deboli.
Leggi tuttoIl refrain “Euro sì, euro no”/L’errore dei “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico”/Tre notazioni per correggere la rotta/Il limite dell’approccio monetario e geografico/Il “contingente” elude la presa in carico di una progettualità umanistica e comunitaria//Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica/Qualche minimo contenuto per affrontare il problema/Le scorciatoie non esistono
Il refrain
“Euro sì, euro
no”
Oramai da qualche anno il dibattito pubblico delle forze più “radicali” nel panorama politico italiano, si incentra sul tema della permanenza dell’Italia nell’euro e nella Unione Europea. Associazioni, blog, perfino trasmissioni televisive, vivono sul refrain “Euro sì, euro no”. Rispetto ad altri temi, il dibattito in questo caso è anche sostenuto da una discreta schiera di studiosi, che hanno nel tempo apportato molti contributi.
L’errore dei “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico”
Ci pare tuttavia che la doppia tesi sostenuta dai “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico” – ossia: a) che l’uscita dall’euro e dalla UE sarebbe sicuramente benefica per le classi subalterne; b) che essa costituirebbe la principale condizione necessaria per favorire una progettualità anticapitalistica –, sia per la prima parte (a) incerta, e per la seconda parte (b) errata.
Per iniziare ad argomentare, chiariamo subito – per evitare che sussistano equivoci sul punto – di essere pienamente consapevoli che l’euro e l’Unione Europea sono strumenti del modo di produzione capitalistico, e come tali utilizzati solo in favore del capitale.
Leggi tutto- I
-
1. L'enorme trasformazione epocale del mondo negli ultimi decenni ha indicato drammaticamente che l'attuale teoria sociale e storica dev'essere intesa come centrale rispetto alle dinamiche storiche ed ai cambiamenti strutturali su larga scale, se vuole dimostrarsi adeuata al nostro universo sociale.
2. La categoria marxiana di capitale è di importanza cruciale per quel che riguarda la costituzione di una tale teoria del mondo contemporaneo - ma solamente se essa viene riconcettualizzata in modo da distinguersi sostanzialmente dai modi nei quali la categoria di capitale è stata recentemente usata nei diversi discorsi delle scienze sociali, così come nelle interpretazioni marxiste tradizionali.
3. La categoria di capitale che presenterò, allora, ha ben poco in comune con i modi in cui "capitale" viene usato da una grande varietà di teorici, che vanno da Gary Becker, passando per Bourdieu, fino ad arrivare a molti marxisti per i quali "capitale" generalmente si riferisce ad un surplus sociale di cui ci si appropria privatamente. All'interno di quest'ultimo quadro interpretativo, capitale è essenzialmente surplus di ricchezza nelle condizioni di sfruttamento di classe astratto e non palese.
Leggi tuttoOrmai da molto tempo, cioè ogni qual volta le migrazioni diventano un’«emergenza», un verbo si impossessa di molti italiani. Si tratta del verbo invadere. Di fronte a un governo inerme e spossato dall’uso spregiudicato delle parole vacue da parte del primo ministro Renzi, le declinazioni più svariate di questa parola dai contorni a dir poco vaghi prendono piede tanto nei media quanto nei discorsi da bar: Siamo invasi! Ci stanno invadendo! È in corso un’invasione di profughi! … e così via. Così, presi da un dubbio che nemmeno Amleto si sarebbe sognato, siamo andati a ricontrollare il significato di questa parola tanto in voga per capire che cosa vorrà dire che i profughi ci invadono e in che senso siamo invasi da clandestini. Invasi o non invasi? Questo è il dilemma.
Se il verbo vuole ancora dire che qualcuno o qualcosa ci sta venendo addosso con impeto, investendoci con forza, ci chiediamo quali migranti conoscano quelli come Fausto Biloslavo, giornalista del Giornale che ha pubblicato in questi giorni un articolo «rivelatore» sui viaggi dei migranti attraverso il Mediterraneo. Fausto, nel suo articolo sul prete «VIP» eritreo Mussie Zerai e l’attivista Nawal Souf, parla chiaramente di un’«invasione» di profughi e clandestini, permessa anche da chi come loro li va ad aiutare, e lascia intendere nemmeno troppo velatamente che senza l’aiuto di reti come Watch the Med
Leggi tuttoChe l’Expo sia stato un progetto pilota volto alla riforma del mercato del lavoro, derubricando la contrattazione nazionale in favore di apposite contrattazione speciali, istituendo il lavoro gratuito e/o volontario, sancendo il licenziamento economico, eccetera, non lo scopriamo di certo oggi ed è stato il cuore del ragionamento che ci ha spinti alla manifestazione del primo maggio a Milano. Un progetto da cui conseguentemente è scaturita la riforma denominata “jobs act”, basata proprio sulle novità in tema di mercato del lavoro sperimentate all’esposizione milanese. Fosse anche la più bella fiera mai vista, basterebbe questo fatto a decretarne la totale nemicità per gli interessi della popolazione lavoratrice, che proprio all’Expo deve l’abolizione del contratto nazionale a tempo indeterminato (sostituito dal contratto “a tutele crescenti”), a cui sono seguite tutta una serie di bazzecole accessorie come l’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Per di più l’esposizione, lungi dall’essere interessante, si presenta come immane boiata turbocapitalista ad uso e consumo del turismo benestante. Non è tanto il livello medio dei prezzi, dal biglietto d’ingresso al costo dei pasti, tutti ben al di sopra le normali disponibilità di una famiglia anche agiata, quanto l’idiozia dei padiglioni, una Disneyland della promozione turistica che ovviamente ha perso per strada qualsiasi riferimento al tema portante dell’esposizione, la questione del cibo e della sua accessibilità.
Leggi tuttoGeopolitica e arte nella crisi sistemica. Usano la narrazione del fondamentalismo islamico per distruggere le basi mitopoietiche della civiltà umana
Quando
visitai il tempio di Baal a Palmira rimasi affascinato e
commosso.
Era l'anno prima dell'inizio della cosiddetta (dai nostri media e intellettuali) "rivolta anti Assad", ovvero l'attacco imperiale con mercenari tagliagole alla Siria.
E tagliagole lo sono. L'ultima gola tagliata è stata quella di Khaled al-Asaad, ottuagenario direttore dei siti archeologici di Palmira.
Dopo la sua decapitazione l'ISIS ha distrutto il tempio di Baal. Me lo aspettavo da tempo. Lo hanno fatto ieri.
Chi non lo ha già visto non lo vedrà mai più.
L'impero in difficoltà, e pertanto pericolosissimo, non vuole davanti a sé nazioni, civiltà, società strutturate e potenzialmente solidali (e qui i devoti dellareligionelaicista, quella del genitore 1 e genitore 2, devono riflettere molto). Sono di ostacolo, anche quando non sono direttamente "competitor". Perché coi competitor possono allearsi o anche solo rimanere neutrali e quindi ostacolare le manovre imperiali di aggiramento, avvolgimento, conquista e minaccia.
Leggi tutto1.
Il ritorno dello “stato stazionario”:
la “stagnazione secolare”
La teoria economica ha recentemente riscoperto il concetto di «stato stazionario». È accaduto nel novembre 2013, allorché l’economista statunitense Laurence Summers ha parlato di «stagnazione secolare» (secular stagnation) in un discorso al Fondo Monetario Internazionale, per tornare sul tema pochi mesi dopo, nel febbraio del 2014, davanti agli economisti d’impresa statunitensi. In verità non si tratta di una teoria originale, ma di un revival: perché di «stagnazione secolare» aveva parlato nel 1938 l’economista Alvin Hansen rivolgendosi al presidente degli Stati Uniti1 .
Dopo Summers, l’idea è stata ripresa da altri economisti ed è attualmente al centro di un vivace dibattito, il cui contesto è stato così sintetizzato:
«Sei anni sono passati dallo scoppio della Crisi Globale e la ripresa non è ancora soddisfacente. I livelli di prodotto interno lordo sono stati superati, ma poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero. Inoltre, cosa preoccupante, la crescita recente ha un vago sentore di nuove bolle finanziarie. La lunga durata della Grande Recessione, e le misure straordinarie necessarie per combatterla, hanno originato una diffusa sensazione, non meglio definita, che qualcosa sia cambiato. A questa sensazione ha dato un nome a fine 2013 Laurence Summers, reintroducendo il concetto di ‘stagnazione secolare’»2 .
Leggi tuttoIl massacro delle ultime garanzie sociali rimaste in Italia continua imperterrito nel torpore estivo. Il copione è sempre lo stesso: si prende un episodio insignificante, lo s'ingigantisce, si descrive chi ha ancora la faccia tosta di usare i propri diritti come un privilegiato e/o un irresponsabile e poi si prepara il provvedimento ad hoc.
Che nel mirino ci fosse il diritto di sciopero era chiaro già a fine luglio, quando la macchina mediatica e la classe politica tutta (Renzi e Salvini uniti nella lotta) avevano dato una rilevanza nazionale a un episodio tutto sommato banale, la mancata apertura degli scavi di Pompei in ragione di un'assemblea sindacale. Il ministro Franceschini aveva allora parlato di "danno incalcolabile" causato dalle due ore di chiusura e Matteo Renzi aveva parlato di "rabbia incontenibile" contro l'assemblea. Per giudicare la malafede dem è bastato osservare il loro silenzio solo una settimana dopo, quando lo stesso Franceschini aveva inaugurato in pompa magna la Palestra grande degli scavi per poi richiuderla di soppiatto, tra la delusione dei turisti, fino almeno a metà ottobre vista la mancanza di personale causata dai loro tagli.
Leggi tuttoChe i media generalisti si stiano trasformando in accessori al servizio della perversione social, è un fatto da qualche anno sempre più evidente. Le pagine dei principali siti d’informazione sono sempre meno contenitori, per quanto ideologicamente schiarati, di notizie, e sempre più raccoglitori di likes e retweet. Sempre più le colonne destinate alle stronzate folkloristiche assumono centralità in quanto portatrici di valanghe di condivisioni che determinano la quantità di pubblicità e dunque di introiti delle maggiori testate nazionali. Tale fenomeno non può che riversarsi sulla carta stampata, imponendo una gerarchia delle notizie capovolta, per cui la priorità viene data non all’importanza oggettiva dell’evento ma alla sua potenziale “condivisibilità”. Se sommiamo questo fenomeno al contestuale obiettivo dei media mainstream, cioè quello di sviare l’attenzione dagli eventi centrali per focalizzarla sugli aspetti, nel migliore dei casi, sovrastrutturali della vita quotidiana, è possibile comprendere quale sarà il livello dell’informazione social del futuro, una valanga inarrestabile di notizie inutili su cui concentrare l’attenzione della grande maggioranza della popolazione. Internet, da questo punto di vista, lungi dall’aver generato forme di controinformazione o resistenza culturale di qualche tipo, ha evidentemente facilitato e accelerato un processo d’altronde già connaturato agli stessi strumenti informativi ufficiali (come d’altronde è la stessa rete, uno strumento controllato da multinazionali dell’informazione). Questo processo, d’altronde già evidente in tutti i mesi dell’anno, in agosto assume la sua forma più plateale. L’assenza (apparente) di notizie d’altro tipo eleva ogni scureggia a notizia da prima pagina, a fatto sociale, evento interessante, mondano, di tendenza.
Leggi tuttoAncora oggi,
l’opinione più diffusa fa coincidere i problemi della
sicurezza dello Stato con quelli di natura militare: la parola
guerra è
ancora associata all’idea di scontri di aerei, carri armati.
Ma da oltre mezzo secolo le cose sono andate mutando.
Proprio l’impossibilità di giungere ad una guerra aperta fra i due grandi blocchi – pena un conflitto nucleare reciprocamente distruttivo - spinse a cercare altre strade per piegare la volontà dell’altro alla propria, cioè, altre forme di guerra.
Il concetto di strategia andò affrancandosi dall’ originaria pertinenza militare, diventando un concetto molto più ampio:
<<...ho voluto di proposito collocarmi sul piano della strategia totale, quella che ha per oggetto di condurre i conflitti, violenti o insidiosi, contemporaneamente nel campo politico, economico, diplomatico, militare, e che presenta pertanto un carattere generale. Infatti, la strategia diventa in genere inintelligibile se si limita al campo militare, in quanto troppi fattori decisivi sono trascurati..>>
Dal momento in cui Beaufre scrisse queste righe (1963) è passato mezzo secolo in cui il concetto di strategia è diventato sempre più onnicomprensivo, inghiottendo l’economia, la ricerca scientifica, il sistema satellitare, la finanza, la propaganda politica, le reti telematiche, ecc. e le guerre sono sempre meno guerre aperte ed a carattere militare, mentre diventano sempre più commerciali, valutarie, finanziarie ecc.
Leggi tutto“Nessun giocatore deve essere più grande del gioco stesso”. La battuta di un film a suo modo chiave, Rollerball, veniva posta da Jean Baudrillard in esergo al terzo capitolo del suo De la séduction, pubblicato nel 1979 per i tipi di Galilée, edito in Italia da Cappelli e poi da SE, per la traduzione di Pina Lalli. Proprio da questo lavoro pubblichiamo un estratto, importante per la riflessione sul “destino politico della seduzione”. Un destino che si dipana, nel suo asse centrale, proprio attraverso le dinamiche del gioco e della regola. Un gioco che “assorbe non solo il giocatore, ma il mondo”, scriveva Baudrillard e lo consegna all’infinita deriva del ludico
È quello che
dice il Diario del seduttore: nella seduzione non
c’è nessun soggetto padrone di una
strategia, e quando questa si dispiega nella piena
consapevolezza dei mezzi posseduti,
è ancora sottomessa a una regola del gioco che le
è superiore. Drammaturgia rituale al di
là della legge, la seduzione è un gioco e un destino che
conduce ineluttabilmente
i protagonisti verso la propria fine, senza che la regola
sia infranta, poiché è lei che li
lega. E l’obbligo fondamentale è che il gioco continui,
sia pure a costo di morire. Una
specie di passione lega dunque i giocatori alla regola
che li lega, e senza la quale non sarebbe
possibile giocare.
Comunemente viviamo nell’ordine della Legge, anche e persino quando abbiamo il fantasma di abolirla. L’unico al di là della legge per noi concepibile è la trasgressione o l’eliminazione del divieto. Infatti, il modello della Legge e del divieto governa il modello inverso di trasgressione e liberazione. Ma in realtà, quel che si oppone alla legge non è affatto l’assenza di legge, è la Regola.
La regola gioca su una concatenazione immanente di segni arbitrari, mentre la Legge si fonda su una concatenazione trascendente di segni necessari. L’una è ciclo e ricorrenza di procedure convenzionali, l’altra è un’istanza fondata su una continuità irreversibile. Per l’una esistono soltanto obblighi, per l’altra costrizioni e divieti. La Legge può e deve essere trasgredita, perché instaura una linea di spartizione. Di contro, non ha alcun senso «trasgredire» una regola del gioco: nella ricorrenza di un ciclo, non c’è linea da oltrepassare (si esce dal gioco, punto e basta).
Leggi tuttoLe gerarchie contano.
Ma non quelle formali, regolate dalle leggi (Hayek direbbe dalla "legislazione", regolazione statale strettamente asservita alla Legge, naturale, fenomeno biologico - per lui- che riduce l'essere umano al "mercato"): quando le leggi stabiliscono una gerarchia, infatti, devono esplicitare, in qualche modo, per quale interesse generale, o quantomeno pubblico e collettivo, siano dettate.
Un compito estremamente fastidioso, specialmente in democrazia: e non tanto e non solo perchè poi occorre fare i conti con il consenso legato a questa scelta (se non prometto meno tasse per tutti-tutti, avrò inevitabilmente privilegiato qualcuno a scapito di altri), quanto perchè dalla scelta trapelano obiettivi e valori che vuole realizzare chi la compie.
E questo, se valori e obiettivi possono essere comparati con quelli legalmente superiori, cioè quelli scritti una volta per tutte, nelle Costituzioni, risulta evidentemente pericoloso.
Almeno finchè esista un sistema costituzionale e la sua gerarchia delle fonti (che è l'unica gerarchia garantista dei valori costituzionali e che dunque limita le gerarchie fra gli uomini, stemperandole nell'obbigo di realizzare solo gli interessi del popolo sovrano).
La popolarità di Renzi si squaglia tristemente come una palla di gelato cascata nella sabbia, per lui è troppo tardi per tentare la manovra Tsipras. Intanto le ambizioni di Salvini finiscono spiaccicate come zanzare sotto le ciabatte vaticane, ha tentato la volata troppo presto. A quale aspirante Cavaliere toccherà adesso provare ad estrarre l’Italibur, l’Excalibur italica, dalla montagna di merda nella quale è sepolta?
Matteo Renzi a La Ruota della Fortuna, Matteo Salvini a Doppio Slalom: se vogliamo sapere chi sarà il prossimo leader degli italiani, il vero erede di Berlusconi, non dobbiamo perdere tempo in inutili analisi politologiche, dobbiamo spulciare l’archivio dei telequiz Mediaset gestiti da Fatma Ruffini negli ultimi trent’anni, alla ricerca del terzo Matteo.
Il terzo pasciuto rampollo della borghesia post
democristiana che, superato il test di telegenia, è stato
avviato alla carriera politica, e
adesso aspetta il suo turno per spacciarsi da Rinnovatore
mentre in realtà prosegue la svendita del paese esattamente
come previsto
dell’agenda Monti.
Il partito in cui si trova adesso non ha importanza,
potrebbe essere uno qualunque, dall’NCD al M5S. A
prescindere dal punto di partenza, quando verrà il suo
momento si collocherá fra Renzi e Salvini, nello spazio
lasciato semilibero da
Berlusconi per raggiunti limiti d’età e di sputtanamento.
Recupererà tutti i voti di centrodestra latitanti, e
diventerà il
prossimo Re Sòla.
Che ne sarà di Renzi?
Leggi tuttoIl proletariato non
ha altra arma che
l’organizzazione nella lotta per il potere.
(V. I. Lenin,
Un passo avanti due indietro)
Nell’editoriale
Musica
d’avanguardia del 30 luglio 2014, il Collettivo Militant
constatava con non poca amarezza come, di fronte al massacro
sionista perpetuato nei
confronti della popolazione palestinese di Gaza e del golpe
neonazista in atto in Ucraina, nel nostro Paese le
mobilitazioni di solidarietà al
fianco di queste popolazioni non abbiano potuto vantare
iniziative di una qualche consistenza. Le retrovie
dell’imperialismo, per usare un
lessico forse un po’ datato, sembrano essere sostanzialmente
sicure. Neppure a livello simbolico il complesso militare –
industriale
imperialista è stato sfiorato, le sue sedi economiche e
commerciali sono rimaste intonse, mentre il personale
politico – diplomatico e le
sue strutture non sono stati vittime di alcuna
contestazione.
I tempi del Vietnam appaiono distanti anni luce. A conti
fatti, nel nostro Paese, i più attivi e incisivi sostenitori
della lotta del popolo
palestinese e della popolazione del Donbass si sono mostrati
due gruppi musicali le 99 Posse per quanto riguarda la
Palestina, la Banda Bassotti per
quanto concerne gli antifascisti ucraini. La presenza attiva
di queste due band al fianco delle resistenze popolari, in
una condizione di
normalità politica, avrebbe dovuto e potuto essere la
classica ciliegina sulla torta mentre, nell’asfittico
panorama politico nostrano,
le due formazioni musicali sono diventate la torta tout
court. Succede così che, a loro, sia destinato il compito
tanto di cantare quanto di
portare la croce. Di ciliegine, quindi, meglio non parlare.
Leggi tutto
«Fine
della guerra fredda e
recupero del
conflitto ottocentesco, quando gli operai
cominciavano a organizzarsi. I barbari
sono all’interno. La patria non può essere
la plebaglia. La patria è formata da
quelli
che hanno un reddito»
J.C. Monedero
«Nel XX secolo i
filosofi hanno cercato
di
cambiare il mondo. Nel XXI è ora che si
mettano a interpretarlo in modo diverso»
Manuel Castells
Una
riflessione sull’idea
alternativa di politica che sta imponendosi tra le nuove
generazioni spagnole, a partire dal libro “Corso urgente di
politica per gente
decente” di Juan Carlos Monedero, ex numero due di Podemos,
edito in Italia da Feltrinelli. Un testo che è la cartina di
tornasole delle
profonde difficoltà a pensare l’Altrapolitica in maniera –
al tempo – strutturata e strategica
Se buona parte dei giocatori del Barça sono il prodotto della “cantera” (alla lettera “cava/miniera”, significato traslato nel vocabolario della stampa sportiva come “allevamento/incubatore”), la scuola per calciatori junior della società catalana, allo stesso modo buona parte dei quadri medio-alti di Podemos provengono dal laboratorio dell’Università madrilena Complutense.
Vale per il leader – Pablo el colete Iglesias – vale anche per l’ex numero due della formazione politica emergente sulle ceneri del Movimento degli Indignados (o 15-M, da quel 15 maggio 2011 in cui la protesta si accampò alla Puerta del Sol), il professor Juan Carlos Monedero; autore del saggio sull’idea alternativa di politica che sta imponendosi tra le nuove generazioni spagnole e che – sulla scia del successo mediatico di tale parola d’ordine – è stato recentemente editato da Feltrinelli.
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Quella che segue, è la trascrizione di un'intervista collettiva fatta da un nutrito gruppo di persone a Moishe Postone, il 23 novembre del 2012, a Madrid, preso la Escuela de Relaciones Laborales. Le domande sono state riassunte, in modo da limitare l'estensione del testo
Domanda:
Come può aiutare, la lettura di Marx da lei svolta, i
movimenti sociali in generale?
Moishe Postone:
Quello che sto tentando di recuperare, è un concetto di
capitale che
credo sia stato perduto dai movimenti sociali di sinistra. E
non solo dai movimenti più recenti. Credo che esista una
tendenza a non capire
pienamente il sistema, ma di personalizzarlo nei banchieri (ad
esempio, nei banchieri tedeschi). E' ovvio che questi stanno
giocando un importante (e
pessimo) ruolo, ma dobbiamo capire che ci troviamo davanti ad
una crisi globale. Il mio lavoro è un tentativo di recuperare
categorie molto
astratte, come quella del capitale, per iniziare a ripensare
il modo in cui intendiamo la natura sistemica del capitalismo,
non solo della crisi, ma
anche di quello che accade nella crisi. Credo che, per quel
che attiene alla coscienza delle sinistre, la guerra fredda
sia stata disastrosa. Il
movimento comunista internazionale ha trasformato il termine
internazionalismo nello schierarsi con un bando, cosa che ha
ridotto la capacità
critica delle persone di sinistra. Potevano essere molto
critici con gli Stati Uniti, ma quello che facevano era
limitarsi a difendere quello che
stava succedendo in Unione Sovietica. Categorie storiche come
il capitalismo ed il socialismo si sono trasformate in
categorie spaziali: una zona ed
un'altra. Questo è importante in quanto la nuova sinistra ha
trasferito questo problema ai nazionalismi del Terzo Mondo.
[Questa forma di
pensiero] riduce la capacità critica delle persone di sinistra
nel trattare a fondo determinate situazioni, nel preciso
momento in cui è
urgente creare una nuova forma di internazionalismo, che sia
realmente internazionale, e non solo una somma di nazionalismi
buoni e cattivi. Leggi tutto
Prosegue su Palermograd il dibattito avviato dagli interventi di Totò Cavaleri (9 Aprile 2015) e Calogero Lo Piccolo (3 Giugno 2015) su disagio mentale, desiderio, lavoro e nuove forme di schiavitù del godimento. L’intento è quello di tracciare una cartografia in grado di individuare le forme della sofferenza psichica nell’attuale contesto sociale e di provare a legarle all’analisi della società capitalistica, alle forme contemporanee del lavoro e del suo sfruttamento
Alcuni articoli
comparsi negli ultimi mesi su
Palermograd hanno provato a sottolineare il nesso strettissimo
che lega le condizioni del benessere psicologico soggettivo e
l’assetto della
sfera dei rapporti sociali e di produzione dell’attuale
formazione sociale dominata dal modo di produzione
capitalistico. Mi riferisco, nella
fattispecie, alle riflessioni di Calogero Lo
Piccolo e Totò Cavaleri. Si
sottolineava, in particolare, come il campo dell’attuale crisi
economica abbia determinato un conseguente incremento di
infelicità e
malessere, aggravato peraltro dalla percezione di non
reversibilità di una tale condizione di naufragio e
spaesamento. In una recente
intervista, l’economista Emiliano Brancaccio ammoniva chi, in
Italia, si è recentemente esaltato per l’andamento
dell’economia e dell’occupazione ricordandogli che se alla
fine del 2015 l’occupazione, come previsto dalla Commissione
Europea,
dovesse crescere di 130.000 unità, ci troveremmo comunque con
un milione di posti di lavoro in meno rispetto al 2008. Stesso
discorso andrebbe
fatto per la tanto celebrata economia della Spagna che si
ritroverà, alla fine dell’anno, con due milioni e mezzo di
occupati in meno in
confronto all’anno in cui è esplosa la crisi dei mutui subprime.
Il governo greco, alla vigilia del referendum a seguito della
rottura delle trattative sul debito, rottura, è bene
ricordarlo, voluta dai “creditori” della Troika, ha pubblicato
alcune
significative informazioni sulla situazione economica del
Paese. L’austerità, imposta dalle istituzioni europee, dal
Fondo monetario
internazionale e dal governo tedesco, ha prodotto i seguenti
risultati: tra il 2010 e il 2014 la pressione fiscale è
cresciuta di 5 punti
percentuali rispetto al Pil, la spesa pubblica è diminuita di
un quarto e i salari monetari sono caduti di 20 punti
percentuali. Leggi tutto
Tempo fa
William
Buckley rimproverava Allen Ginsberg di comporre opere oscene
per via del suo linguaggio; invitato a una trasmissione
televisiva gestita dallo stesso
Buckley, Ginsberg rispose che oscene non sono le parole, ma le
morti durante l'allora guerra del Viet-Nam.
La biografia culturale di Elvio Fachinelli (1928-1989) sembra una genealogia Biblica. Il suo analista fu Cesare Musatti (1897-1989), il quale – considerato uno dei Padri della psicoanalisi italiana – si formò con Edoardo Weiss (1889-1970), il primo psicoanalista italiano. Weiss era, a sua volta, in supervisione dallo stesso Sigmund Freud. Nonostante le sue origini nobili e ortodosse, Fachinelli fu tra gli psicoanalisti che più cambiarono la psicoterapia in Italia.
In primo luogo rifiutò l'idea di “resistenza del paziente” a favore dell'accoglienza della “persona che frequenta l'analisi”, spostando la responsabilità della terapia sull'"esperto”. Negli anni Settanta nacque e si diffuse la strana idea che se c'è fallimento nella relazione tra il professionista e il suo utente, la responsabilità è del professionista, non dell'utente. Per esempio, se un tempo una persona moriva legata a un letto, si attribuiva la morte alla furia della persona. Basaglia per primo ebbe l'idea di invertire l'ordine delle responsabilità nei manicomi. Don Milani invertì l'ordine delle responsabilità nelle scuole. Lo stesso Fachinelli contribuì, con altri autori, a fondare una scuola libera, nell'epoca in cui veniva messo in discussione il ruolo dell'insegnamento.
Leggi tuttoKeynes o Hayek? Sullo scontro che ha definito l’economia moderna, in realtà, non si trova granchè in giro. Citazioni sparse e allusioni anonime, più che altro. Sul web, però, gira un video di Econstories che ha già raggiunto i 5 milioni di visualizzazioni, e il libro dell’inglese Nicholas Whapshott ha fatto il giro del mondo: in Italia è stato pubblicato da Feltrinelli, l’ultima ristampa risale a marzo 2015. Importante che se ne parli, dunque, vista l’influenza che il dibattito pluridecennale ha avuto (e ha tutt’ora) sulle nostre vite. Importante soprattutto vista la scarsa conoscenza diffusa sul tema. Di Keynes, più o meno, abbiamo tutti sentito parlare, ma Hayek? Chi è questo sconosciuto? E soprattutto: davvero il loro dibattito è stato così importante? Sembrerebbe di sì, anche se una delle poche pubblicazioni non accademica al riguardo è proprio “Keynes o Hayek” di Whapshott, giornalista del The Times e The New York Sun. I protagonisti dell’opera, come è facile intendere, sono il “brillante e carismatico” Keynes, inglese, paladino di Cambridge e fondatore della moderna macroeconomia, e il “pignolo e caparbio” Hayek, austriaco trapiantato alla London School of Economics, eroe della vecchia microeconomia e, pertanto, del liberismo. Il libro di Whapshott è essenzialmente storico, ma non tralascia certo i dettagli specificamente economici, la cui comprensione, forse, richiede una pregressa conoscenza minima dell’ economia politica.
La sua narrazione, piuttosto agevole, comincia in medias res: il giovane Keynes è membro del Partito liberale di Lloyd George che nel 1919, terminata la Grande guerra, lo porta con sé alle trattative di pace di Versailles, vista la fama già solida di economista pragmatico. Le vessazioni vendicative dei vincitori nei confronti della Germania preoccupano Keynes che, inascoltato dal premier, pubblica “Le conseguenze economiche della pace”.
Leggi tuttoEntro il 2020 la rivoluzione tecnologica rischia di cambiare in profondità il mercato del lavoro e di dare inizio a un nuova era senza-lavoro
Tra pochi anni Uber potrebbe essere nuovamente sulle prime pagine dei giornali. Non per avere messo in crisi i modelli attuali del traporto urbano tramite taxi, ma per il licenziamento dei suoi autisti a causa dell'affermarsi di auto senza autista. Un cambiamento che non sarà il solo e che porterà alla perdita di nuovi posti di lavoro.
Con percentuali di disoccupazione che si aggirano intorno al 13% i lavoratori italiani non possono stare tranquilli. Sia perché la percentuale di disoccupati non calerà facilmente, neppure in caso di ripresa economica, sia perché le molteplici rivoluzioni tecnologiche in corso, che stanno interessando tutti i settori di mercato, sono destinate a privare del loro lavoro nuove schiere di colletti blu e di colletti bianchi.
Il taxista milanese che si mobilità contro Uber dovrebbe già da oggi pensare a come sarà il suo lavoro quando, tra dieci anni, saranno disponibili le nuove automobili senza autista. La stessa cosa dovrebbero fare i lavoratori delle aziende manifatturiere sempre più robotizzate, i lavoratori dei fast-food ma anche gli impiegati di uffici amministrativi e contabili. A preoccuparsi per il loro futuro lavorativo dovrebbero essere anche farmacisti, operatori di call center e customer service.
Entro il 2020 la rivoluzione tecnologica rischia di cambiare in profondità il mercato del lavoro e di dare inizio a un nuova era senza-lavoro.
Leggi tuttoLa vertiginosa altalena sulle borse internazionali sta mettendo di nuovo in discussione la tenuta del sistema finanziario globale.
Non è l’effetto a catena del raffreddamento dell’economia cinese e la conseguente caduta dei listini di Shanghai, come molti, con una certa dose di opportunismo, vorrebbero spiegare. Si comincia invece a raccogliere i “frutti velenosi” seminati dai “quantitative easing” della Federal Reserve, della Bce e di altre banche centrali. Sta accadendo ciò che paventammo tempo fa su questo giornale.
Le eccezionali immissioni di nuova liquidità da parte delle banche centrali, per parecchie migliaia di miliardi di dollari, sono andate a gonfiare a dismisura i propri bilanci, a salvare le banche too big to fail in crisi e a rischio bancarotta, a comprare nuovi titoli di Paesi con crescenti debiti pubblici e a gonfiare i listini delle varie borse.
Tanta nuova liquidità aveva fatto temere una immediata esplosione inflazionistica. I grandi “gestori della crisi” sono invece stati capaci di “pilotarla” verso le borse che hanno immediatamente portato le loro quotazioni agli stessi livelli stratosferici di prima del 2007. Senza legame alcuno con l’economia sottostante in recessione.
L’inflazione in verità c’è stata, non sui prezzi ma sui valori borsistici!
Lo sottolinea anche la Banca dei Regolamenti Internazionali quando dice che “ Nonostante tutti gli sforzi per uscire dal cono d’ombra della crisi finanziaria, le condizioni dell’economia mondiale sono ancora lontane dalla normalità.
Leggi tuttoUscirà domani [4 settembre, n.d.r.] Il regime del salario, l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato che raccoglie tutti gli interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi in anteprima la prefazione di Ferruccio Gambino
Questa
premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del
lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in
Italia, in
considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo
in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo
circostanziato aspetti
cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in
Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche
coordinata per rammentare che
il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in
realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che
vanno di pari
passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti
e in particolare nell’Asia orientale. Dunque,
nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai
disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che
sono motivate
a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi
35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e
di conseguenza le
condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del
lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni
1970 negli Stati
Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla
guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente
aumento della disoccupazione
oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di
solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara
l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi
dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla
massa
salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento
dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio
(2008-2011) degli otto
anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale
europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato
nell’Eurozona, fino a
raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più
dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena
del
banchiere francese; né si vedono segni di significativa
flessione del fenomeno nello scorso triennio. Leggi tutto
(Ricevo da Federico Teani, che lavora in Rwanda dal 2010 come missionario laico “fidei donum”, queste pagine di riflessione sulla povertà e sulla cosiddetta vita indegna di essere vissuta, che volentieri pubblico. C.B.)
Ho letto
per la prima volta
Lettere luterane in Italia e non è successo niente, le
ho riprese quando già mi trovavo in Rwanda e il primo scritto,
I giovani
infelici, ha attraversato da parte a parte il mio
cuore.
Leggendolo è facile intuirne la ragione. Pasolini esordisce confessando di non aver mai compreso il motivo del teatro greco che fa ricadere la colpa dei padri sui figli, questo gli è sempre parso come qualcosa di estraneo ed appartenente ad un altro tempo, ma nel momento in cui scrive, siamo agli inizi del ’75, crede che per la prima volta sia possibile per il lettore moderno fare esperienza diretta di quella verità. Lui, che ormai appartiene alla generazione dei padri, prova infatti verso i figli un sentimento di condanna che nasce da una “cessazione di amore”, ma questi figli infelici sono puniti per una colpa che è stata commessa dai padri, una colpa senza dubbio gravissima, “forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana”. Qual è questa colpa? Non è né il vecchio né il nuovo fascismo dei consumi perché si tratta di una colpa condivisa da “fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari”. Per comprenderlo occorre prima rendersi conto di un fatto nuovo, i giovani di cui si sta parlando non sono soltanto figli borghesi né soltanto figli proletari poiché per la prima volta le due storie, quella del popolo e quella della borghesia, si sono unificate sotto il segno dello sviluppo. Nessuno si è opposto veramente a questo processo, perché?
Perché c’è – ed eccoci al punto –
un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a
tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la
povertà
e che quindi la cultura delle classi povere deve essere
sostituita con la cultura della classe dominante. In altre
parole la nostra colpa di padri
consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e
non possa essere che la storia borghese. Leggi tutto
Note preliminari sul metodo politico della trasformazione oggi
È ormai alle nostre
spalle il luglio
greco, con l’entusiasmante vittoria dell’OXI al referendum del
5 luglio e con il famigerato “accordo” di una settimana dopo.
La Grecia resta comunque al centro dell’attenzione, non solo
per quel che riguarda il dibattito all’interno della
“sinistra”
internazionale ma anche per gli scenari aperti dalle
dimissioni di Tsipras, dalla scissione di Syriza e
dall’annuncio di nuove elezioni a fine
settembre. Sono scenari complessi, in cui in gioco sono tra
l’altro la natura di Syriza e la democrazia interna al partito
dopo la nascita di
“Unità popolare”, le prospettive politiche ed elettorali di
quest’ultima formazione, il rapporto che i movimenti
intratterranno con le istituzioni nella nuova congiuntura.
Nessuna scorciatoia auto-consolatoria, nessuna ricetta
ideologica derivata dalle categorie
e dagli schemi del passato può funzionare di fronte alle
contraddizioni del reale, che qui si manifestano con inedita
violenza. In questo
intervento, non ci proponiamo tuttavia di affrontare
direttamente questi temi e queste contraddizioni. Quel che
vorremmo tentare, piuttosto, è
di formulare alcuni criteri di metodo che possano orientare in
questa fase, dal punto di vista di una politica che
punta alla trasformazione
radicale dell’esistente, il giudizio su una situazione come
quella greca, e inevitabilmente su quella europea che in essa
si
rispecchia.
In questa fase, abbiamo detto: in una fase che continua a essere segnata dalla crisi e da una transizione dall’esito incerto, tanto in Europa quanto su scala globale. La categoria gramsciana di “interregno” è parsa a molti, negli ultimi tempi, particolarmente calzante per descrivere alcuni tratti del nostro presente.
Leggi tuttoLiquidità? No, socialismo. Per far ripartire il Paese bisognerebbe seguire il programma di Jeremy Corbyn, che auspica un «Q.E. for the people»
Il crollo della Borsa di Shangai non è stato un incidente di percorso, ma il segno tangibile che anche il modello di accumulazione cinese è ormai subalterno alle dinamiche della finanza globalizzata. Nel modo di produzione capitalistico i crolli finanziari sono fisiologici e servono a redistribuire la ricchezza finanziaria dal basso verso l’alto, a contribuire decisamente a quel processo di concentrazione/centralizzazione del capitale che a metà del XIX secolo Marx aveva genialmente intuito.
Nel caso cinese, per spiegarci meglio, sono i novanta milioni di piccoli e medi risparmiatori che avevano investito nella Borsa di Shanghai ad averci rimesso le penne: colti dal panico hanno svenduto i titoli su cui avevano investito i propri risparmi. Di contro, i grandi gruppi finanziari, cinesi e non, hanno avuto l’opportunità di comprare queste azioni a prezzi stracciati e lucrare sulla loro risalita, come puntualmente si è verificato in questi ultimi giorni. Ma, la crisi finanziaria non si è chiusa e il mondo trema perché l’economia cinese ha avuto finora un ruolo di locomotiva rispetto al resto dell’economia-mondo.
Leggi tuttoI farfugliamenti sulla “grande politica” che hanno accompagnato il disarmo politico e morale della sinistra italiana nell’ultimo ventennio non depongono a favore del termine. Tuttavia la grande politica esiste. Solo che la fanno gli altri. Anche su temi come i migranti. Vediamo di imparare. Gesti semplici, calcoli precisi, parole comprensibili. Ovviamente su cose importanti, addirittura epocali. Per esempio, la tumultuosa migrazione dei popoli che oggi è manifestamente l’effetto e il sedimento dinamico di una profonda crisi economica e non solo.
Abbiamo registrato tre grandi risposte.
Papa Bergoglio l’ha messa al centro degli eventi e ha
proclamato un’accoglienza incondizionata e illimitata, che non
distingue fra
asilanti, profughi di guerra e migranti economici. Abbastanza
realistico, prima ancora che misericordioso: difficile fare
una cernita motivazionale da
chi scappa dalla morte (per fame, per persecuzione, per
conflitto). Quali sono le ragioni di Francesco? Beh, il
mestiere di papa implica nei casi
migliori una valenza profetica e accogliere i fuggitivi la
realizza (quanto soccorrere gli afflitti). Anche la tenuta
della Ditta ne risente
positivamente, migliorando il proselitismo o quanto meno
compensando gli attacchi della concorrenza. Leggi tutto
Tra le pagine de Il
regno Emmanuel
Carrère rileva che in materia di fede «la
neutralità non esiste. È come quando uno dice di essere
apolitico:
significa soltanto che è di destra.» (1) Il paradosso, già
affrontato
qui da Wu Ming 1, si ripresenta negli ambiti più
insospettabili – perfino nella divulgazione scientifica. Con
quale
credibilità il giornalismo scientifico può definirsi neutrale?
E più in generale, il lavoro del giornalista scientifico è
compatibile con l’espressione di una chiara e argomentata
posizione politica?
In Italia il dibattito sul punto è stato recentemente sollevato da Andrea Ferrero su Query N. 21 (2015), la rivista del Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze). Il suo articolo «Dai fantasmi agli OGM: affrontare la complessità» prende spunto da una trasformazione: nel 1989, quando il Cicap fu fondato da Piero Angela, l’acronimo si chiudeva con la parola «Paranormale»; nel settembre 2013 il termine venne sostituito con un più ampio riferimento alle «Pseudoscienze». Invitando colleghi e simpatizzanti “scettici” del Comitato a prendere atto delle conseguenze di una scelta del genere, Ferrero segnala la crescente complessità dei temi che ricadono nel nuovo perimetro:
«Quando ci chiedono di prendere posizione
su riscaldamento
globale, OGM, sperimentazione animale, rispondere diventa
molto più difficile. Ci sono sempre affermazioni da
controllare […] ma la
grossa differenza è che, una volta verificate le
affermazioni e smascherate le bufale, il problema non si
esaurisce, perché rimangono
degli aspetti fondamentali ai quali non può rispondere la
comunità scientifica. (2)» Leggi tutto
La “Laude” di Papa Francesco,
l’enciclica Laudato
si’, sulla cura della casa comune ha portata epocale ma è
banalizzata ad ecologia dai media e a decrescismo dai
progressisti. Non
nascondo il mio stato d’animo e dunque il mio preconcetto:
questo “Canto di Cura” mi ha commosso, che non significa solo
emozionato
ma interrogato nel profondo.
La scelta della decrescita
E’ certo “L’enciclica della complessità” come dice P.L. Fagan (http://www.linterferenza.info/contributi/lenciclica-della-complessita/) ed è inevitabile laddove pone un complesso mondo com’è la cattolicità di fronte alla complessa crisi della terra; tuttavia con il rischio di semplificare e renderla parziale ritengo si possa approssimare che l’enciclica faccia con decisione la scelta della decrescita e dunque indichi una sintesi. Nelle 10 tesi dalla 189 alla 198, Francesco d’Assisi si fa Cristo (il messia): fino a quel punto del testo c’è stato il vasto canto del creato (l’ambiente) e delle creature (il popolo) ora c’è l’irruzione nel tempio e la cacciata dei mercanti. La tesi 189, quella più nota, riprende il tema della crisi finanziaria della tesi 109 ma qui c’è la potenza di un fendente perché precipita il ragionamento in una determinazione storica “la crisi finanziaria del 2007-2008” e in uno schieramento di battaglia“il salvataggio ad ogni costo delle banche”. Nella prosa del testo l’episodio invera le argomentazioni generali “critiche” (alla tecnocrazia, all’antropocentrismo, alla finanza) sin lì sostenute, giustifica decisamente la Decrescita come prospettiva forte di uscita dalla complessità e distruttività della crisi.
Leggi tuttoDopo l’andata di Renzi al meeting di Cl, i giornali della
destra hanno iniziato a battere sul tado “Renzi vuole le
elezioni,
“Renzi ha aperto la campagna elettorale”. Addirittura si parla
di una scadenza vicinissima, in autunno. Poi anche Del Rio ha
detto che
“le elezioni non sono un tabù”. E’ credibile? Ragioniamoci su.
In primo luogo, quale potrebbe essere la performance del Pd?
Diversi sondaggi lo danno in picchiata, sotto il 30%, i più
pietosi intorno al 33.34%. Comunque una forte flessione sulle
europee che ormai
sono un traguardo irraggiungibile. Adottando una “forchetta
larga”, possiamo dire che si attesterà, salvo terremoti in un
senso o
nell’altro, fra il 30 ed il 35%, in base all’andamento della
campagna elettorale. Previsioni più “strette” sono
impossibili quando non si sa nemmeno quali saranno gli
effettivi schieramenti elettorali. Se si dovesse votare
subito, si voterebbe con il sistema
elettorale prodotto dalla sentenza della Corte Costituzionale:
proporzionale con clausole di sbarramento e preferenze. Questo
significa che,
realisticamente, non ci saranno coalizioni ma correranno tutti
per se: senza premio di maggioranza, l’unico incentivo
potrebbe essere, per i
partiti minori, cercare un apparentamento per abbassare al 2%
la soglia da superare per entrare in Parlamento e, forse
qualche partito maggiore
potrebbe concederglielo, ma, nel complesso, tutti dovrebbero
correre da soli. Leggi tutto
Lord Skidelsky analizza le proposte economiche di Jeremy Corbyn, il candidato di sinistra favorito nella corsa alla leadership del partito laburista britannico. Le proposte di Corbyn non sono così radicali come i suoi avversari vogliono far credere. E non sono buone solo per la Gran Bretagna, ma anche per l’Unione Europea
Nel Regno Unito l’austerità fiscale si è talmente consolidata nel senso comune, che chiunque vi si opponga pubblicamente è additato come un pericoloso sinistrorso.
Jeremy Corbyn , attualmente favorito come prossimo leader del partito laburista britannico, è l’ultima vittima di questo coro di disprezzo. Alcune delle sue posizioni sono insostenibili , ma le sue osservazioni sulla politica economica non sono insensate e meritano un vaglio adeguato.
Corbyn ha proposto due alternative alla attuale politica di austerità del Regno Unito: una banca d’investimento nazionale, da capitalizzare annullando sgravi fiscali e i sussidi dati al settore privato; e ciò che egli chiama “quantitative easing del popolo” – in poche parole, un programma di infrastrutture che il governo finanzia prendendo a prestito denaro dalla Banca d’Inghilterra.
La prima idea non è né estrema né nuova. Ci sono una Banca europea per gli investimenti, una Banca di Investimento degli stati del Nord e molte altre, tutte capitalizzate da Stati o gruppi di Stati con lo scopo di finanziare progetti su mandato [dei governi] prendendo a prestito dai mercati dei capitali.
Leggi tuttoCara Giulia Innocenzi.
Che dolore, leggere il suo reportage. Come essere umano sono dispiaciuto per le disavventure che ha vissuto in Iran, paese che ho visitato due volte e in cui ritornerei altre mille. Paese che ho convinto molti miei amici — e amiche — a visitare, ma non è molto importante in questa sede raccontarle il loro giudizio, al ritorno. Parrebbe come un’inutile battaglia a colpi di “a me ha fatto innamorare”, come a voler compensare la sua esperienza negativa, che certo non si può cancellare.
Ma sono addolorato, perché la risonanza delle sue parole ha un peso molto più forte di quello che potrei direi io sul paese, o le tante persone che viaggiano in Persia ogni anno (tant’è che il Corriere della Sera ha subito pubblicato le sue disavventure, non le mie, né quelle dei tantissimi viaggiatori che raccontano l’Iran con parole magnifiche).
Come si può rispondere o commentare a ‘palpate al sedere’, ‘inseguimenti’, ‘uomini che fanno mostra del proprio pene’ o ‘aggressioni fisiche’? Riportando esperienze diametralmente opposte vissute nel medesimo paese si farebbe il gioco della bilancia, e in questo caso non è la cosa più importante.
Leggi tuttoRenzi ha dichiarato che il suo Governo “ha
salvato il
Mezzogiorno”. È un’affermazione palesemente smentita
dall’evidenza empirica. Al di là della propaganda
governativa,
occorre prendere atto del fallimento delle politiche per il
Mezzogiorno degli ultimi decenni, e operare una radicale
revisione degli interventi
puntando a rafforzare il tessuto industriale dell’economia
meridionale
Il Presidente del Consiglio Renzi ha
recentemente dichiarato
che il suo Governo “ha
salvato il Mezzogiorno”. E’ davvero difficile comprendere il
senso di questa affermazione: stando all’ultimo Rapporto
SVIMEZ, il Pil
del Mezzogiorno è inferiore a quello greco, ha fatto
registrare una contrazione del 13% dal 2008 a fronte del 7.4%
del Centro-Nord,
configurando uno scenario che SVIMEZ definisce di
“sottosviluppo permanente”. Si tratta di un dato, fra i tanti
rilevati nel Rapporto, che
non può non destare preoccupazione e che smentisce in modo
inequivocabile la propaganda governativa[1].
E si tratta peraltro di un’evidenza confermata
dai dati recentemente diffusi dal Ministero delle Finanze,
dalla quale risulta che, a fronte di una riduzione del reddito
pro-capite in tutte le
regioni italiane, le contrazioni di maggiore entità si sono
manifestate nelle regioni meridionali e nelle Isole.
Occorre innanzitutto individuare le cause che hanno portato a questo esito. Cause sostanzialmente riconducibili alle seguenti.
1) In primo luogo, in assenza di interventi esterni, un’economia di mercato tende spontaneamente a generare divari regionali e ad amplificarli. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che una volta determinatasi un’agglomerazione di imprese in una data area, per l’operare di economie di scala e di network, e per l’esistenza di centri di ricerca e di facile accesso al credito bancario, le imprese operanti in quell’area sono in grado di realizzare maggiori investimenti (e di generare più intensi flussi di innovazione) rispetto alle aree periferiche.
Leggi tuttoSono in molti a interrogarsi sul repentino cambio di linea adottato dalla Germania sull'emergenza rifugiati, un cambio di rotta che ha immediatamente modificato l'agenda e le posizioni dell'Unione Europea.
Sgombriamo subito il campo da una tentazione, quella di affermare che era tutto programmato a tavolino da mesi. Il problema è un altro. Quando ha gli strumenti per farlo, un sistema di potere può volgere a proprio vantaggio anche fenomeni non previsti. Il fatto che l'onda di coloro che scappano da guerre, miserie e orrori in Medio Oriente e Africa stavolta fosse arrivato a ridosso del “cuore mitteleuropeo” dell'Unione, non era previsto nei tempi e nelle modalità. Se avesse continuato a premere solo sui paesi di frontiera del Sud Europa, non ci sarebbe stata traccia del piano straordinario della Commissione Europea presentato da Juncker o della politica della porta aperta della Merkel. Perchè dunque un cambiamento così radicale e così rapido?
Occorre sapere che un sistema di potere – soprattutto se è quello decisivo in un polo imperialista maturo costruito attraverso l'Unione Europea – ha a sua disposizione molti “esperti” e diversi scenari. Un evento latente che diventa palese viene così messo a proprio vantaggio quando le condizioni lo consentono.
Leggi tuttoIl dibattito apertosi sul caporalato, dopo la morte in Puglia di alcuni braccianti italiani e stranieri, solleva alcune questioni centrali. E, tuttavia, ci pare che la riduzione del fenomeno del caporalato all’agricoltura meridionale e all’alleanza tra mafia e aziende conserviere operata da alcuni autorevoli commentatori finisca per occultare la questione delle condizioni e dei rapporti di lavoro. Il riemergere di forme di intermediazione illegali è infatti diffuso in vari settori produttivi e in diverse aree italiane. Le prolungate lotte nella logistica, in particolare quella emiliana e veneta, portate avanti dai lavoratori migranti assunti da cooperative, etichettate prontamente come spurie, hanno svelato un sistema relativamente analogo; così anche nel turismo romagnolo agenzie di intermediazione rumene hanno rifornito per diversi anni gli albergatori di manodopera fresca e possibilmente a digiuno di esperienze all’estero. L’edilizia è poi un settore in cui l’intermediazione illegale o semi-legale di manodopera è diffusa dal nord al sud del paese. Certo, non tutte queste situazioni sono etichettabili sotto la forma del caporalato, ma tutte sono caratterizzate da una capacità di rapida movimentazione di manodopera e da un doppio comando sul lavoro che può poi estendersi nel territorio fino alle comunità di provenienza dei lavoratori in Italia come all’estero. Non si tratta solo di padroni o caporali crudeli e spietati, ma di un sistema produttivo che può appoggiarsi a un mercato del lavoro internazionale garantendosi il reclutamento potenziale di sempre nuova e diversificata forza lavoro sia dal Mediterraneo, per chi ce la fa, sia dall’Europa orientale. È una politica dello spazio che assicura il collocamento di lavoratori in contesti sovente a loro estranei, nei quali diventa problematico persino trovare un ufficio pubblico.
Leggi tuttoMatteo Renzi alla radio
Sono tre le cose che Matteo Renzi dimentica e che condanneranno l’Italia che lui governa alla stagnazione.
Prima dimenticanza: tagliare le tasse (o perlomeno annunciare di tagliarle) senza aver fatto (né messo in moto!) alcuna credibile riforma nel mondo degli appalti pubblici e degli stipendi pubblici (le due principali componenti della spesa pubblica che influenzano generazione di PIL e benessere collettivo) non serve a nulla. Perché la gente spende soldi che si ritrova in tasca solo se ha la certezza che non glieli chiederanno indietro pochi mesi o anni dopo. Ma un governo che non sa tagliare gli sprechi manda un messaggio chiarissimo ai contribuenti: che alla fine per pagare il buco che si crea nelle finanze pubbliche a causa del taglio delle tasse ricorrerà a un aumento di altre tasse. E quindi il saggio contribuente metterà da parte tutto il taglio/bonus ricevuto e non lo spenderà, in attesa di ripagare a breve quanto gli verrà richiesto con nuovi balzelli.
Seconda dimenticanza: se mai il Governo riuscisse invece a trovare le risorse per tagliare le tasse tramite il taglio della spesa farebbe un altro errore grosso come una casa.
Leggi tuttoIl 9 novembre 1989 il
muro di
Berlino veniva abbattuto fra gli applausi dell’opinione
pubblica di tutto il mondo. Il sogno di un pianeta senza
frontiere sembrava finalmente a
portata di mano. A neppure vent’anni da quell’evento, il
Congresso degli Stati Uniti votava, il 15 dicembre 2005, la
legge 6061, che
autorizzava l’innalzamento di un muro lungo oltre mille
chilometri al confine con il Messico. Non si trattava della
prima costruzione di questo
tipo, e non era neppure destinata a essere l’ultima. Sia prima
sia dopo, molti altri Stati hanno creato o progettato altri
muri un po’
dovunque. Ultimo, almeno per il momento, quello che l’Ungheria
sta costruendo al confine con la Serbia e che fa seguito a
scelte analoghe
compiute sia dalla Bulgaria sia dalla Grecia lungo i
rispettivi confini con la Turchia e con lo stesso obiettivo:
impedire ai migranti di entrare
illegalmente nei propri territori nazionali.
Eppure, sino a non molto tempo fa, alcuni salutavano la fine dell’era dello spazio – dell’epoca del limes, dei cordon sanitaires, del Lebensraum – come la “fine della storia”. E quindi della fine dei muri, perché solo nell’era dello spazio il territorio e le sue eventuali fortificazioni erano garanti della sicurezza collettiva e il loro controllo rappresentava la prerogativa sovrana del potere politico: quello degli antichi imperi (la muraglia cinese e il vallo di Adriano), delle città e dei signori feudali del Medioevo (fossati, ponti levatoi, fortificazioni), degli Stati moderni (linee Maginot e Sigfrido), dei blocchi militari contrapposti (muro di Berlino).
Leggi tuttoIl nostro tempo coincide con il
completamento del processo che ha
portato all’espansione della potenza sociale moderna. La
storicità non può più presentarsi come processo, ma diventa
semplicemente sospensione, “epokè”. Lo storicismo si converte
in ontologismo: grazie all’arresto della temporalità
è possibile cogliere l’essere e non più il divenire. E’ questo
il ragionamento di fondo che sta alla base di concetti come
quelli di “fine della storia”(Fukuyama) e “fine della
società”(Touraine): l’idea che sia la società,
cioè quella formazione sociale che si è imposta
definitivamente negli ultimi due secoli, ad aver prodotto una
sua specifica idea della
dimensione storica; ossia l’idea per cui è il mercato, nella
sua affermazione trionfante, la dimensione totalizzante
dell’esistenza, in cui si consuma tutta la dialettica sociale
e che riesce a soddisfare ogni bisogno umano.
E’ questo il cuore dell’egemonia neoliberale e dell’immaginario simbolico della rivoluzione neoconservatrice. Esso si fonda sulla neutralizzazione del nesso tra presente e passato, affinché il futuro non possa essere pensato come progetto. Vengono compressi lo spazio ed il tempo. La realtà viene presentata come a-storica e a-dimensionale. La globalizzazione dell’immaginario scandisce il nostro tempo come “ciclico”: è un tempo senza epoca, cioè senza un risultante che intenda il futuro come proiezione del presente sui fondamentali del passato. Il nostro è presentato come un “eterno presente”, come un eterno ritorno visibilmente rappresentabile con una ruota, i cui raggi sono talmente grandi da non tornare mai.
Leggi tuttoRichiamandosi a Marx le analisi del gruppo Krisis colgono puntualmente le strettissime relazioni che intercorrono tra l’attuale crisi economica e le profonde contraddizioni del processo d’accumulazione del capitale. Lo stesso gruppo di Krisis, sempre in nome di Marx, con un colpo di spugna cancella le differenze di classe e trasforma borghesi e proletari in vittime comuni del soggetto automatico capitalista
Ogni giorno
è sempre più evidente
che la crisi economica che attanaglia l’intero sistema
capitalistico sia destinata a perdurare ancora per un lungo
periodo di tempo. Non
è più un caso che le ottimistiche previsioni di ripresa
economica formulate in questi ultimi anni dai vari organismi
internazionali,
quali il Fondo Monetario Internazionale o la Banca mondiale,
per non parlare delle previsioni dei vari governi dei singoli
stati nazionali, sono
sistematicamente smentite alla prova dei fatti e la tanto
agognata crescita del Pil è rinviata sempre all’anno
successivo. Anche il 2014
a livello globale farà registrare una crescita economica
irrisoria che non permetterà al sistema capitalistico di
recuperare i livelli
macroeconomici precedenti lo scoppio dell’attuale crisi.
Le conseguenze sociali di questa crisi economica stanno diventando sempre di più drammatiche, con miliardi di esseri umani scaraventati nella miseria più nera o utilizzati come carne da macello in quella che ormai possiamo definire la guerra imperialista permanente. Infatti non passa un solo giorno durante il quale in qualche angolo del globo non si combatti una guerra funzionale ai processi d’accumulazione e alla conservazione capitalistica.
Non è più un caso che proprio a causa di questa lunga crisi economica molti intellettuali stiano cercando di spiegare il fenomeno recuperando i vecchi arnesi della critica dell’economia politica di Karl Marx. Ciò sta avvenendo non con l’intento di rilanciare una vera alternativa alle barbarie del capitalismo, ma con il preciso scopo di deformare e mistificare il pensiero di Marx
Leggi tuttoProprio a metà agosto, quando tutti erano distratti, il governo ha rettificato le cifre sulle assunzioni a tempo indeterminato in conseguenza dell'entrata in vigore del "Jobs Act". Gli assunti effettivi sarebbero in realtà poco più della metà dei seicentotrentamila annunciati in un primo momento. Probabilmente a Natale, o a Capodanno, dalla pagina interna di qualche quotidiano, verremo a sapere che anche questa seconda cifra sarà stata ulteriormente rettificata al ribasso.
Fin qui niente di strano, poiché alla spinta occupazionale del "Jobs Act" non aveva creduto nessuno, meno che meno quelli che avevano fatto finta di crederci. Il problema è che queste "riforme strutturali" falliscono anche, e soprattutto, laddove persino gli oppositori più decisi si aspetterebbero un risultato, cioè nell'aumento della produttività e della competitività nei confronti delle cosiddette "economie emergenti". La scorsa settimana l'agenzia Reuters ha raccolto una serie di pareri di esponenti del Fondo Monetario Internazionale e dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo, per spiegare come mai queste "riforme strutturali" non soltanto non raggiungano nessuno degli obiettivi di aumento della competitività, ma, all'opposto, deprimano ancora di più l'economia.
Le spiegazioni fornite da questi "prestigiosi esperti", come al solito, si dimostrano piuttosto fumose e contraddittorie. Sì, sono venti anni che in Italia si fanno "riforme strutturali" in tutti i campi, ma non sono poi strutturali-strutturali come dovrebbero essere. Come diceva Sergio Endrigo, manca sempre una lira per fare un milione.
Leggi tuttoImpressioni di settembre...
...o forse di luglio, infatti tanto
per battere un colpo pubblichiamo un pezzo, il terzo di
fila, che il manifesto ha
censurato a fine luglio - si sono arrabbiati perché ho usato
la parola censurato, e cosa sennò visto che hanno un
pensiero
unico!
Lasciando da parte la bassa bottega del potere, la questione europea costituisce senza dubbio il motivo divisivo più importante nella sinistra, ragione persino di lacerazioni inter-personali. Un tentativo di riconciliazione è lontano e forse impossibile. Sfortunatamente le vicende e l’analisi non sono dalla parte dei “più Europa”.
Nei riguardi della vicenda greca è apparsa persino penosa, nelle parole di Dino Greco (alla direzione del PRC), “la capacità (di cui la sinistra italiana ha credenziali da master universitario) di trasformare le sconfitte in vittorie, il che equivale a non elaborarne e a non apprenderne la lezione, rimanendo prigionieri di una sorta di coazione a ripetere”. L’analisi si basa in genere sull’assunto per cui la globalizzazione economica renderebbe inderogabile lo scioglimento delle sovranità nazionali in enti sovranazionali. Si dimostri tuttavia perché decine di paesi (della nostra dimensione o più piccoli) come la Corea del sud o, per rimanere nell’UE, la Polonia non pensino lontanamente a unioni monetarie o politiche. Almeno Salvatore Biasco ammette che l’euro è stata un’enorme sciocchezza anche se, a suo avviso, non si può tornare indietro. Naturalmente quella della rottura dell’euro è una problematica seria, ma che non risolve tutta la questione.
Leggi tuttoIl Venerabile Mario crede che le differenze dentro l'Europa siano piccole imperfezioni facili da piallare con la finanza. L'incompetenza al potere ci sta portando alla catastrofe
Leggo e rileggo la sconcertante dichiarazione di Mario Draghi in merito alla situazione europea: «Le imperfezioni della nostra unione sono fonte di instabilità». Dietro questa frase vi è la totale assenza di coscienza dei problemi dell'unione monetaria e più in generale dell'Unione Europea. E volendo metterci il carico, quest'uomo ignora totalmente le dinamiche della civiltà umana dalle sue origini ai giorni nostri, fino ad arrivare alla completa inconsapevolezza rispetto alle più elementari regole matematiche che sottendono alle dinamiche finanziarie ed economiche.
Una simile grossolanità ai piani alti del vero potere ci porterà alla catastrofe assoluta.
Non si può scegliere un governatore di banca centrale confidando solo sulla sua maestria in materia di finanza. L'uomo non è finanza. E anzi, oggi come oggi, la finanza è la catena con la quale è tolta la libertà all'Uomo.
È evidente che ci sono punti di frizione, contraddizione tra sistemi nazionali che rendono "disomogenea" l'area valutaria. Il problema è che questa situazione - che asetticamente il nostro felpatissimo governatore definisce "imperfezioni" - è il risultato di migliaia di anni di storia umana. È chiaro o no che la lingua è un elemento che blocca la perfetta circolazione della forza lavoro all'interno dell'area valutaria?
Leggi tuttoNon di tradimento bisogna parlare a proposito di Tsipras ma di una sconfitta annunciata di fronte a rapporti di forza impietosi e dell'incapacità politica di gestirla. Il tradizionale trasformismo di casa nostra si è ormai proiettato su scala continentale e fa della sinistra europea un pezzo della rivoluzione passiva in Occidente. Nell'imminente “Syriza italiana” si ricostituisce la maggioranza politica e culturale bertinottiana
Da Prodi a Tsipras, dall'Arcobaleno alla
“Syriza italiana”
Grazie alle scelte di Tsipras ci sarebbe ancora la "possibilità di difendere i redditi più bassi e di operare una progressiva resistenza all'applicazione delle parti più regressive del Memorandum”, fino a “riproporre condizioni per un diverso sviluppo", sogna a occhi aperti Alfonso Gianni nel momento in cui il governo greco vara misure draconiane di austerità; "una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la 'casa comune della sinistra e dei democratici'", annuncia Marco Revelli il giorno dopo l'esplosione di Syriza in almeno tre tronconi. Di fronte a simili prese di posizione il gioco è fin troppo semplice : si confrontino le argomentazioni dei pasdaran di Tsipras oggi con quelle degli ultimi giapponesi del PRC a sostegno di Prodi nel 2008, oppure si rilegga la campagna di “Critica Marxista” a favore della Sinistra Arcobaleno accostandone le tesi a quelle dei fautori della cosiddetta Syriza italiana, e si avrà la misura di come in sette anni non sia cambiata una virgola nel processo di apprendimento della sinistra di casa nostra. Una sinistra che sembra quasi candidarsi a gestire nuovi memorandum e che anche dopo la catastrofe che ne ha cancellato ogni effettualità è preda di un'irresistibile coazione a ripetere gli stessi errori di confusione analitica e subalternità politica.
Leggi tuttoAlla fine è
arrivato Capitan
America sfoderando un tasso di crescita dell’economia Usa che
nessuno si aspettava e il rinvio dell’aumento dei tassi di
interesse, e i
foschi cinesi sono rientrati nei ranghi facendo quello che
tutti si aspettavano dovessero fare, pompare soldi nel loro
sistema spompato. Le Borse
mondiali hanno rimbalzato di sollievo agguantando i rialzi, la
“tempesta perfetta” si è dissolta. Fino al prossimo round che,
a
leggere bene le cronache economiche rosa del giorno dopo, è
acquattato dietro l’angolo.
Ragion per cui l’immagine più vera di questa torrida estate di crisi finanziaria resta una sola. Quella di un mondo che, entrato nella seconda fase della grande crisi economica deflagrata nel 2008, non ha ancora capito a che santo votarsi per arginarla. Il disorientamento globale è tale infatti da far apparire surreale, anche alla luce del poi, il raccomandarsi spasmodico alla Cina che nella circostanza è apparsa anch’essa come una Pizia traballante sul suo trespolo fumoso, dal quale nei momenti più critici ha lanciato rimedi, senza apparentemente rendersi conto di dove sarebbero andati a parare.
Breve riassunto. Alle prime avvisaglie di squasso in Borsa,
il governo di Pechino prima interviene massicciamente per
bloccare il crollo, poi
lascia andare rendendosi conto che frenare il panico di 90
milioni di piccoli azionisti incoraggiati dal governo stesso a
entrare nel recinto
dei razziatori di professione è come andare contro la forza di
gravità, e soprattutto in quel momento non servirà a ridare
fiato
all’economia in panne. Leggi tutto
Approcciarsi a scrivere
un pezzo sul pensiero di Keynes è sempre un azzardo, sia per
l’immensa autorità dell’economista di
Cambridge, sia per la monumentalità della sua opera, di cui
sono un illuminante esempio i numerosissimi scritti di
critica, perfezionamento e
completamento sparsi nei decenni successivi ad opera di altri
influenti economisti, in primis Hicks, Modigliani, Tobin,
Samuelson e Hansen, sia per
l’assenza in tutto il suo scritto di una modellizzazione
formale, che fu lasciata ai successori.
Tratterò perciò della teoria keyesiana ortodossa, per quanto completata dalle riflessioni degli autori citati prima, intendendo con ciò soprattutto distinguerla dalla c.d. “sintesi neoclassica” che farà parte a sè in una serie di altri articoli.
La struttura del mio intervento è perciò la
seguente: nel presente articolo tratterò i principali
contributi
della teoria di Keynes all’occupazione, agli investimenti e
alla moneta; nel prossimo vedremo il ciclo economico e alcuni
pros e cons dei primi
due articoli; nel terzo parlerò della sua nuova politica
economica basata sulla spesa pubblica in deficit e della
politica del commercio
estero; in un quarto articolo condenserò alcuni commenti e
critiche relativi ai primi tre pezzi; in un quinto articolo
vedremo un semplice
modello keynesiano in economia aperta. Leggi tutto
Nel 2000 Londra ebbe il suo primo sindaco, Ken Livingston. Prima di esso esisteva una sorta di organismo complesso formato dalle 32 municipalità cittadine, la Greater London Authority, assemblea peraltro sciolta nel 1986 e non più riconvocata fino, appunto, al 2000, anno in cui per la prima volta a Londra ebbero luogo le elezioni dirette del prima cittadino. Se una delle città più importanti del mondo è rimasta senza governo comunale per 14 anni e senza sindaco per secoli, cosa sarà mai questo passaggio di consegne tra Marino e Gabrielli? Una bazzecola della storia locale, una storia locale così densa di vicende che non si farà certo impressionare dall’esautoramento dei poteri del sindaco di turno. Così probabilmente devono pensare tutti gli attori politici cittadini. Non si spiegherebbe altrimenti il silenzio tombale che ha accolto la decisione politica più importante per la città almeno dal secondo dopoguerra in avanti: quella di commissariare il comune delegando al governo – per tramite del prefetto – le decisioni politiche rilevanti. Questa è, o dovrebbe essere, la vera notizia di questi giorni: il tacito assenso verso l’esautoramento di Marino. Eppure, nonostante Marino, questa è una notizia pessima, tragica, che in altri tempi forse avrebbe scatenato una mobilitazione politica trasversale, la corsa ad intestarsi la protesta. La resa della politica cittadina è un dato che dovrebbe imbarazzarci. L’assenza di alternative credibili ha portato tutti a tirare un sospiro di sollievo per il mancato scioglimento del comune, che avrebbe imposto le elezioni in una fase in cui nessuno le vuole davvero, tranne forse il Movimento 5 Stelle, l’unico in grado oggi di raccogliere il rifiuto popolare verso questo comune.
Leggi tuttoNon sappiamo se addebitarla alla goebbelsiana capacità dei mass media mainstrem di travisare la realtà o alla dabbenaggine di tante “anime belle” della “Sinistra”. Di certo, c’è da riflettere sulla, prevedibilmente affollata, "Marcia delle donne e degli uomini scalzi” indetta, per l’11 settembre, anche da organizzazioni come CGIL e ARCI (che invocavano la No Fly Zone in Libia) o come Amnesty International, (che troppo spesso, negli ultimi decenni ha dato retta, per le sue accuse, a fonti di parte favorendo così interventi militari). insomma, da organizzazioni che la guerra (e il conseguente fiume di profughi) l’hanno nei fatti, fomentata.
Preceduta da una martellante campagna mediatica contro l’Ungheria e la Cecoslovacchia (che, almeno, la guerra contro la Libia e la Siria… non l’hanno fatta) basata, soprattutto, su una inverosimile fotografia (che accomunava il trattamento da essi dato ai profughi come una nuova Shoah) la tragedia di innumerevoli profughi che dalla guerra si riversano in Europa è stata, finalmente, “spiegata” su tutti i media nientedimeno che dal generale – Martin Dempsey, Capo di stato maggiore delle Forze armate Usa. Che una soluzione per arginarla ce l’ha: invadere la Libia e la Siria per impedire l’attività dei “trafficanti di esseri umani”. Insomma, altre guerre.
Leggi tuttoI risultati di un’inchiesta di Public Policy Polling, diffusi martedì, mostrano che due terzi dei sostenitori di Donald Trump (peraltro il meno peggio fra i candidati conservatori alla presidenza) credono che Obama sia un musulmano e che non sia nato negli Stati Uniti. Del resto un sondaggio ripreso da The Nation questa settimana rivela che il 29% dei repubblicani della Louisiana attribuisce a Obama la colpa dei ritardi della protezione civile federale dopo l’uragano Katrina benché all’epoca (dieci anni fa) il presidente fosse George W. Bush e Obama solo un senatore dell’Illinois, stato ben lontano da New Orleans.
Facile deridere questa ignoranza e questo fanatismo, entrambi cresciuti drammaticamente nel nuovo millennio, dopo il trionfo dei social media e la rinuncia della scuola a contrastarli per formare cittadini responsabili e menti critiche attraverso lo studio della storia, dei classici e delle discipline umanistiche (a che altro pensate che servissero?) – persino nell’eccellente distretto scolastico di Newton, sobborgo benestante e colto di Boston, in una zona ad altissima concentrazione di università, incluse Harvard e il MIT, l’insegnamento del latino è stato abbandonato a vantaggio di quello dell’iPad. In ogni caso stiamo parlando di milioni di persone, parecchie delle quali povere o ai limiti della povertà, infelici e spietatamente sfruttate e tuttavia pronte a votare per il partito delle corporation che li sfrutta e che apertamente promuove ulteriore liberismo. Che dovremmo farne di questa gente? Eliminarla o almeno privarla del voto per manifesta imbecillità?
Leggi tuttoGavin Mueller:
Il tuo
libro del 1999 Cyber-Marx è un ottimo sunto dell'approccio
marxista autonomo e post-operaista, e rappresenta una
riflessione rispetto alla loro
rilevanza nella lotta contro un capitalismo sempre più
pervaso di tecnologie comunicative e informazionali. Con
Cyber-Proletariat appari meno
ottimista rispetto all'abbraccio che usualmente il
post-operaismo propone rispetto alle tecnologie. Puoi
spiegare questo cambio di posizione? Che cosa
ha reso le tecnologie comunicative e informazionali sembrare
sempre più come una sfida alla classe operaia globale?
Nick Dyer-Witheford:
Il mio cambio di posizione riflette il coinvolgimento in due
momenti di lotta
– quello dell'alter-globalismo da metà anni '90 fino ai primi
Duemila; e poi, dal 2008 a oggi, i nuovi antagonismi sociali e
le lotte
emerse sull'onda del collasso finanziario. Entrambe le lotte
hanno rivelato nuove possibilità e nuovi problemi per i
movimenti anticapitalisti
rispetto all'uso delle tecnologie cibernetiche. Da un lato c'è
stato un evidente – e molto dibattuto – uso dei social media e
delle
reti di telefonia mobile in ciò che possiamo chiamare come le
rivolte del 2011 – i riot, gli scioperi, le occupazioni. Al
contempo, e
d'altra parte, tutti questi eventi hanno mostrato le
difficoltà insite nel considerare tali tecnologie come matrici
organizzative - ad esempio
quello che potremmo definire come sindrome "dalle stelle alle
stalle" che ha caratterizzato alcuni movimenti del 2011. Anche
durante questo ciclo, e
in particolare con le rivelazioni di Snowden in Nord America,
è divenuto chiaro lo scopo e l'intensità della sorveglianza
alla quale
sono sottoposti i militanti grazie a questo milieu
cibernetico. Leggi tutto
Nel 2003, la scrittrice
statunitense
Susan Sontag si interrogò, nel libro Davanti al dolore
degli altri, su come la continua riproposizione di
immagini di atrocità
sui media influenzasse e condizionasse le nostre opinioni, i
nostri valori, il nostro sostegno o la nostra opposizione a
guerre e «interventi
umanitari». Un libricino scritto quando Facebook ancora non
esisteva e i social networks erano pressoché
sconosciuti ai
più, ma ricco di spunti che ci sembrano molto attuali alla
luce degli avvenimenti delle ultime settimane. Qual è stata,
infatti,
l’influenza della riproposizione dell’immagine del cadavere di
Aylan, il bambino curdo siriano affogato durante un disperato
tentativo di
attraversare il lembo di mare che avrebbe condotto lui e la
sua famiglia a Kos (Grecia) e trovato morto sulla spiaggia
turca di Bodrum? In quale modo
la commozione che ha suscitato nell’intero pianeta ha
condizionato i sentimenti e le opinioni rispetto
all’immigrazione, la risposta dei
governi europei e, in un gioco di rimandi, l’immagine che di
se stessi offrono al mondo?
La commozione suscitata dall’immagine di Aylan ha spinto la
Germania a sospendere il patto
«Dublino
III» – che prevede che la richiesta di asilo vada fatta
nel primo paese in cui si arriva – e di garantire
protezione internazionale e accoglienza ai profughi
provenienti dalla Siria e, in misura minore, da Afghanistan e
Irak. Leggi tutto
Trascorso del
tempo dall'accordo tra Troika e Grecia si può provare a trarre
qualche considerazione di più ampio respiro, provando a uscire
dalla
logica manichea traditore versus eroe popolare, capitolazione
versus vittoria. Senza fare/farci sconti per capire cosa
comporta quell'accordo e, in
particolare, per considerare cosa fare per poter cambiare qui
e ora. Questa terribile vicenda, infatti, pone seri problemi
per una prospettiva di
trasformazione. Dopo anni di marginalità su scala
internazionale il cambiamento è parso alla portata nel piccolo
paese ellenico, o,
perlomeno, si è posta la concreta possibilità di iniziare un
processo di controtendenza, rimettendo in discussione debito e
austerità, cioè i pilastri della costituzione materiale del
neoliberismo sul piano europeo. Le conseguenze di ciò che è
accaduto, dunque, ricadono sull'agire politico di molteplici
paesi.
Il piano B e le sue banalizzazioni
Con tutte le cautele del caso e la consapevolezza di non
poter impartire lezioni ai greci, penso che nell'estenuante
trattativa di luglio fosse
necessario prevedere un piano B. Prima di spiegare perché
fosse necessario preferisco concentrarmi sulle difficoltà di
una sua
realizzazione. Non mi convince, infatti, come da diverse parti
esso sia stato banalizzato. Leggi tutto
E’ una storia che va avanti dal 1992, caratterizza la Seconda Repubblica, è la vera e propria costituzione materiale: la svalorizzazione della forza lavoro. E’ l’unica controtendenza alla caduta del saggio di profitto che il padronato italiano applica per sfuggire alla crisi da sovrapproduzione, applicando il modello tedesco dell’export led.
Il rallentamento del tasso di crescita dell’economia mondiale, da una media di 5.8 pre crisi, all’attuale 3,2% amplifica lo scontro per accaparrarsi mercati avendo come unica arma la flessibilizzazione completa e la liquidità della forza lavoro. Potrebbe andar bene, per i padroni, nel contesto tedesco, non certo in Italia.
Il motivo lo spiega in un’intervista a La Stampa del 5 settembre scorso Andrea Guerra, ex Ad di Luxottica, oggi principale consigliere di Renzi: le aziende medie sono troppo piccole rispetto ai loro concorrenti esteri e le aziende piccole in realtà sono microcosmi, inutili nella competizione globale. Per Guerra per decenni ci si è adattati incolpando la politica ma la realtà è che con l’evasione fiscale c’è stata la selezione del peggiore.
La domanda mondiale langue e dove c’è è troppo distante per
il 98% delle aziende italiane. Solo 13 mila sono stabili
esportatori, mentre circa 50 mila piccole imprese fanno un
tocca e fuggi nel mercato mondiale. Il 4 settembre il centro
studi Confindustria pubblicava
uno studio sulla stagnazione secolare che colpisce l’economia
mondiale, data dal crollo del tasso di natalità, dal crollo
della
produttività e degli investimenti e da scarse innovazioni
tecnologiche, oltre che dalle disuguaglianze. Leggi tutto
“Non mancare, non delegare, trasforma la tua indignazione nell’esempio del fare per gli altri” (Sergio De Caprio, “Casa Famiglia dei volontari Capitano Ultimo”)
Una cosa è da premettere ed è fondamentale: tutto questo gigantesco ambaradan politico-mediatico-misericordioso-colonialista sui popoli in fuga è finalizzato a trascinare l’opinione pubblica, basita e presa alle spalle, ad accettare la riconquista coloniale dell’intero Medioriente. Martellate menti e coscienze fino al necessario ammorbidimento, Cameron e Hollande, eredi e nuovi titolari dei più feroci colonialismi della storia, hanno annunciato la libizzazione della Siria. Partono i bombardamenti. Sulla Siria da spacciare, non sull’ISIS.
Dalla fogna della politica e dei media, come un nubifragio travolgente, ci piovono addosso deiezioni come neanche da Goebbels quando parlava del bolscevismo. Il più ciarlatano, cinico, e sull’argomento fallimentare, dei primi ministri europei, il nostro, sciacalleggia sul bimbo siriano Aylan e sui popoli in fuga da crimini di cui è correo. Alla Festa dell’Unità, l’accolita di lobotomizzati che tributano ovazioni a uno imbarazzante come Alfano e a quanto di destra sciorina stronzate dal palco, Renzi, sempre più caricatura del Puzzone sul Balcone, becero e strepitante populista, raglia contro le “bestie”, poverine. “Non è il PD contro le destre (quando mai la destra è contro la destra?), sono gli umani contro le bestie”. Riprendo l’ingiusta similitudine, chiedendo scusa alle bestie, per sottolineare il classico transfert freudiano del bue che dà del cornuto agli altri buoi. E non è altro che un capo della mandria dei bisonti (ancora scuse all’animale) uccidentale che lastrica di lacrime e misericordia, in perfetto sincronismo con il razzismo escludente dei Salvini e degli altri della presunta controparte, la marcia delle armate Nato sulla Siria, in soccorso ai propri surrogati jihadisti che non ce la fanno da soli, come già in Libia.
Leggi tuttoLe spiegazioni convenzionali delle recenti manovre valutarie cinesi non convincono. Pechino ha iniziato una trasformazione strutturale che potrebbe richiedere decenni e deve fare i conti con un classico problema dell’economia capitalista: la sovrapproduzione
In agosto il dollaro si è deprezzato nei confronti dell’euro. Dopo avere aperto il mese attorno a 1,09€/$, il 25 agosto il biglietto verde ha sfondato quota 1,15€/$ a causa del probabile rinvio da parte della Fed dell’atteso rialzo dei tassi d’interesse visti i dati non soddisfacenti di disoccupazione – soprattutto giovanile – e pil. L’apprezzamento di fine mese (1,12€/$) ha coinciso con una parziale revisione delle stime relative alla crescita economica e con un ritorno all’ordine del giorno della stretta monetaria.
Nel contempo, mentre la Bank of England decideva di non modificare i saggi d’interesse, dopo il crollo delle Borse di Shanghai e Shenzen al termine di tre anni consecutivi di rialzi, la People’s Bank of China ha adottato le seguenti misure di politica monetaria, nonostante “le famiglie cinesi investano poco nel mercato azionario (meno del 15% dei beni in loro possesso) e quest’ultimo rappresenti a sua volta solo il 15% del pil”:
Triplice svalutazione dello yuan nei confronti del dollaro;
Abbassamento dei tassi di interesse dello 0,25% (al 4,6% i prestiti ad 1 anno);
Abbassamento della riserva obbligatoria delle banche dello 0,5%;
Immissione di liquidità a favore del sistema bancario per complessivi 300 miliardi di yuan (46.8 miliardi di dollari);
Favorire il processo di aggregazione e fusione delle aziende quotate (anche quelle di Stato) in Borsa.
Leggi tuttoDifficile
ad oggi prevedere se il
crollo della borsa cinese, che ha trascinato con sé le correzioni
delle borse mondiali, sia l’innesco di una precipitazione
della crisi globale dopo la pausa, economica in realtà più che
geopolitica, degli ultimi due, tre anni. In ogni caso ne
rappresenta un
passaggio di fase: non solo la Cina sempre meno può, e vuole,
fare da volano per un Occidente in prolungata stagnazione, ma
si approssima un
secco redde rationem sui circuiti di debito globali.
Detto in altro modo: tende ad alzarsi il livello dello scontro
sullo scarico dei costi
della crisi a partire dagli scricchiolii del disequilibrio
bilanciato1
Usa/Cina perno finora della globalizzazione.
Presentiamo di seguito alcune provvisorie ipotesi di lettura e inquadramento degli sviluppi in corso tentando innanzitutto una lettura non scissa tra dimensione “interna” cinese ed “esterna”. Tutto all’opposto della narrazione, di netto segno politico, che va imponendosi in Occidente dove -dopo anni di idiozie giornalistiche sullo scontato “sorpasso” del Dragone ai danni degli Usa- come d’incanto si riscoprono ora i nodi irrisolti dello sviluppo capitalistico cinese (!) per ingiungere a Pechino i compiti da svolgere pena la messa a rischio dell’economia mondiale.
Primo. La svalutazione agostana dello yuan
secondo la narrazione corrente sarebbe stata la risposta al
rallentamento
dell’economia cinese che ha “naturalmente” innescato il crollo
di borsa. Risposta “disperata” (addirittura!), comunque
“scorretta” (come se gli stati occidentali in questi
anni non avessero socializzato le immani perdite dei
mercati…). Leggi tutto
Il lavoro ridotto a vincita di qualche lotteria patronale. Il salario diventato premio di una gara tra aspiranti lavoratori. Cosa si cela dietro la recente “ludizzazione” del lavoro? La lettura dell’illuminante saggio dal titolo “Ego. Gli inganni del capitalismo” di un grande intellettuale tedesco recentemente scomparso, Frank Schirrmacher, può aiutarci a trovare una sorprendente e inquietante risposta
Il lavoro è
diventato
un gioco. Sembra quasi uno slogan, ma la realtà quotidiana ci
fornisce un’immediata e tangibile conferma.
L’ultimo caso balzato agli onori delle cronache risale a questa estate, ed arriva dalla provincia di Piacenza, precisamente da Ponte dell’Olio. In occasione della festa patronale, infatti, un salumificio ha organizzato una tombola[1]. Primo premio, manco a dirlo, un posto di lavoro. E non si tratta di un caso isolato. Altre “lotterie del lavoro”, negli ultimi anni, sono state organizzate in Italia, da Nord a Sud, regalando ai più fortunati dei veri e propri contratti di lavoro, a tempo indeterminato o a termine.
E quando non è oggetto di una lotteria, allora la retribuzione (scopo primario del lavoro) si trasforma nel premio concesso al vincitore della gara organizzata tra una pluralità di aspiranti lavoratori: siamo dinanzi al crowdsourcing, moderna forma di “cottimo digitale” che abbiamo già incontrato sulla nostra strada[2].
Cosa significa questa trasposizione del lavoro nella forma
ludica ora della lotteria ora della vera e propria gara? E’
forse espressione
dell’homo ludens, per utilizzare una felice
espressione utilizzata nell’omonimo e storico saggio di Johan
Huizinga? Sembrerebbe
escluderlo lo stesso Huizinga che, in merito, ha espresso
parole inequivocabili: “Salario è situato completamente
fuori
dall’ambito del gioco: significa l’equa ricompensa al lavoro
prestato o ai servizi prestati. Non si gioca per un salario, si lavora per un
salario”[3]. Leggi tutto
Appunti per una discussione a venire, a partire dalla giornata seminariale dell’11 settembre nella Scuola estiva di Euronomade
Da più parti si
discute sul fenomeno di sostanziale cronicizzazione della
crisi capitalistica in Europa. Intendiamo riprendere questo
tema nelle nostre giornate della
scuola estiva, per tornare a discutere sulla nozione di
crisi e sull’ipotesi che questa congiuntura, più che essere
interpretata come una
fase ciclica che apre ad un nuova stagione di espansione,
sembra contenere invece tutti gli elementi di una “nuova
forma di regolazione”
di lungo periodo del sistema capitalistico. Sorprende che
alcuni economisti del mainstream marginalista, anche negli
ambienti da cui più
direttamente sono provenute le ricette di politica economica
centrate sulla austerità di bilancio e la liberalizzazione
dei fattori nel mercato
del lavoro, sia nata la preoccupazione sul futuro dello
sviluppo capitalistico. Lawrence Summers alla conferenza
annuale del Fmi nel 2013 suggerisce
l’ipotesi che l’economia statunitense in modo particolare,
si stia avviando lungo un sentiero di “stagnazione
secolare”,
aggiungendo che questa potrebbe essere la «questione
[principale] del nostro tempo» . Ciò che questi economisti,
insieme a tutte le
altre teste d’uovo dell’establishment europeo non potranno
mai vedere, è che alla base dell’ipotesi realistica della
“stagnazione secolare” opera una radicale trasformazione del
rapporto sociale capitalistico, maturata lungo il ciclo
neoliberale. Leggi tutto
Presidio davanti al Parlamento, il 15 e 16 settembre (ore 15-21) per dire stop alle sanzioni UE contro la Siria (decise senza l'avallo dell'ONU) e alle vendite di armi all’Arabia Saudita. Basta provocare nuovi morti e nuove migrazioni forzate!
La Rete NoWar-Roma indice un presidio a Roma in piazza Montecitorio il 15 e il 16 settembre, dalle 15 alle 21, per presentare ai parlamentari cinque rivendicazioni per la pace.
La Rete NoWar-Roma indice un presidio a Roma in piazza Montecitorio il 15 e il 16 settembre, dalle 15 alle 21, per presentare ai parlamentari cinque rivendicazioni per la pace.
La prima: che l'Italia si adoperi per la fine delle sanzioni contro il popolo siriano, già sfiancato da oltre quattro anni di guerra fomentata dall'esterno. E per la ripresa dei rapporti diplomatici con la Siria come da interrogazione parlamentare dello scorso luglio 2015, ancora in attesa di risposta.
Intrattenere rapporti diplomatici con un regime repressivo? "Sì, proprio come l'Italia li intrattiene con l'Arabia Saudita (che Amnesty Interazionale considera il regime più repressivo in assoluto) e con l'Egitto, il cui presidente ha ammazzato 1000 manifestanti dell'opposizione in piazza in un solo pomeriggio, un record per il Medio Oriente," commenta Patrick Boylan della Rete. "La Farnesina non fomenta guerre civili in questi due paesi per destabilizzarli; cerca invece, usando mezzi diplomatici, di portarli gradualmente verso una democrazia compiuta. Ebbene, che faccia altrettanto con la Siria."
Leggi tuttoLa Fed alzerà il costo del denaro? Questo dubbio, assieme a quelli su dimensioni e durata della crisi cinese, tiene in ansia i mercati finanziari del mondo, generando turbolenze. Negli Stati Uniti il dibattito fra gli economisti si fa serrato a mano a mano che la decisione si avvicina, come testimoniano vari articoli (vedi, fra gli altri, il NYT e l’Huff Post).
Leggendo le opinioni degli “esperti”, colpisce che costoro
dissentano soprattutto sulle strategie monetarie e sul loro
impatto (da un
lato: attenti a non alimentare l’inflazione e nuove bolle
speculative; dall’altro: occhio a non innescare una
stagnazione di lungo
periodo, associata alla deflazione). Su un punto invece
sembra esserci accordo: la ripresa è in atto e i posti di
lavoro crescono, al punto
che, fra non molto, si dovrebbe arrivare a un tasso di
disoccupazione (sotto il 5%) che negli Stati Uniti viene
assimilato alla piena occupazione.
Qualche timida voce, tuttavia, si alza a seminare dubbi: se
è vero che l’occupazione cresce, perché i salari crescono
(se
crescono) a un ritmo assai inferiore (risibile, ove
confrontato al tasso di aumento della produttività)? Basta
valutare i numeri, oppure
occorrere interrogarsi sulla qualità dei nuovi
lavori? Infine: è vero, come vanno predicando gli
industriali dei settori
più dinamici, che non ci sono abbastanza laureati per fare
fronte alla domanda di mansioni che richiedono elevate
competenze tecnico
scientifiche? Leggi tutto
È ormai quasi un quarto di secolo che il cosiddetto Scontro di Civiltà ha sostituito nella narrazione globale la Guerra Fredda. Proprio mentre si sgretolava la Cortina di Ferro, partiva la prima Guerra del Golfo, con l’operazione Desert Storm.
Dal punto di vista strettamente narrativo, la semplificazione è stata subito evidente: la Guerra Fredda era uno scenario articolato e complesso. Lo Scontro di Civiltà è molto più schematico e bidimensionale, ogni sfumatura viene brutalmente cancellata dall’immagine.
Una narrazione binaria ed elementare, che ha per questo bisogno di essere costantemente alimentata da shock: attentati sanguinosi, kamikaze minorenni, decapitazioni collettive, distruzione di monumenti e siti archeologici millenari.
Serviva una minaccia che sembrasse realmente incombente sulla vita quotidiana di tutti: gli sbarchi dei migranti, amplificati e moltiplicati dai media, stanno servendo perfettamente allo scopo.
Leggi tuttoLa questione migranti
può essere affrontata nei modi più disparati, ma tutti a
loro modo fruttuosi per la politica europeista. Lungi dal
costituire un
“problema”, i migranti sono lo strumento perfetto per
aggregare consensi o dissensi, a seconda dei casi. Possono
consolidare una
leadership o, all’inverso, essere utilizzati per combattere
la linea politica avversa. E’ la manna dal cielo per le
difficoltà in
cui spasima la politica continentale, l’elisir di lunga vita
che consente ai governi (e ai media dipendenti) di spostare
l’attenzione dai
problemi reali a quelli indotti, mentre al tempo stesso
alimenta il consenso delle opposizioni populiste e/o
direttamente razziste. Oltretutto, da che
mondo è mondo, i migranti fruttano anche e soprattutto
economicamente. Insomma, se non ci fossero, bisognerebbe
inventarli. In effetti, gli
attuali flussi migratori sono stati proprio inventati, nel
senso letterale del termine, con un ventennio di
bombardamenti in giro per il medioriente,
di regime change, di guerre umanitarie, di
ingerenze esterne. Sono in tutto e per tutto il frutto
avvelenato delle politiche occidentali nei
diversi territori col tempo trasformati in failed
states.
Nel giro di qualche giorno, la Germania si è trasformata da
“Stato canaglia”, inviso agli spiriti umanitari in
sofferenza per la
Grecia, a Stato illuminato, progressista, in linea con
l’umanitarismo cattolico e la solidarietà internazionale. Un
capitale di consenso
veicolato dalle più bizzarre interpretazioni mediatiche, che
descrivono in questi giorni la Germania come faro della
civiltà europea. Leggi tutto
Iniziamo con una
citazione tratta da un saggio sulla democrazia borghese in
Russia, scritto nel 1906 dopo la sconfitta della prima
rivoluzione
russa:
“è veramente ridicolo attribuire all’odierno capitalismo maturo (Hochkapitalismus), quale esso viene ora importato in Russia ed esiste in America, un’affinità con la democrazia e la libertà qualunque senso si voglia dare a queste parole […]. Ci dobbiamo invece domandare se la democrazia e la libertà siano possibili a lungo termine sotto il dominio del capitalismo maturo” (1).
Chi è l’autore di questo penetrante commento? Lenin, Trotskij o forse il precoce marxista russo Plechanov? In realtà è Max Weber, il ben noto sociologo borghese. Anche se Weber non ha mai sviluppato questa intuizione, qui sta suggerendo che esiste una contraddizione in termini tra capitalismo e democrazia.
La storia del ventesimo
secolo sembra confermare questa opinione: molto spesso,
quando è sembrato che il
potere della classe dominante fosse minacciato dal popolo,
la democrazia è stata messa da parte come un lusso
eccessivo ed è stata
rimpiazzata dal fascismo – come in Europa negli anni ’20 e
’30 – o da dittature militari, come in America Latina
negli anni
’60 e ’70. Fortunatamente non è il caso dell’Europa
attuale. Leggi tutto
Qualcosa si sta muovendo nelle viscere profonde del Pd: il governatore della Toscana, Enrico Rossi, annuncia di volersi candidare come segretario del Pd, quello della Campania De Luca, già da tempo ha mugugnato contro Renzi, ora è la volta del governatore della Puglia, Emiliano, che si permette apertissime frecciate contro il Premier reo di aver disertato l’inaugurazione della Fiera del Levante.
Poi sappiano dei malumori di Marino e Zingaretti che non si sono sentiti abbastanza difesi per la storia di Mafia-Capitale, mentre Fiano e Majorino non hanno apprezzato l’aperta sfiducia di Renzi nei loro confronti.
Quello che colpisce è che la maggior parte di questi nomi non appartengono affatto alla minoranza bersaniana del Pd, ma sono personaggi che, a suo tempo, hanno votato per Renzi.
E’ una situazione che mi ricorda il capitombolo di un altro
famoso toscano negli anni cinquanta, Amintore Fanfani da
Arezzo (ricordate
sempre il nome di questa città: Arezzo…). Anche lui non si
contentò di fare il Presidente del Consiglio ma volle restare
segretario del partito e mal gliene incolse, perché l’anima
profonda del partito (la provincia triveneta e lucana, i
boiardi di Puglia,
Campania e Liguria, i padri nobili sardi) non gradì e, con una
congiura tessuta nel convento romano di Santa Dorotea, lo
depose da tutte due le
cariche. Non c’era nessun dissenso sostanziale di linea, anzi
i congiurati si collocavano tanto alla sua destra quanto alla
sua sinistra, il
punto era la distribuzione del potere nel partito. Leggi tutto
1. Traduco, per maggior beneficio dei lettori, la parte finale dell'ultimo commento di Bazaar:
"Il debitore ha concluso un contratto con il creditore e si è impegnato nel senso che, se non dovesse restituire il dovuto, darà in sostituzione qualcos'altro che possiede, qualcosa su cui ha il controllo, per esempio, il suo corpo, sua moglie, la sua libertà...
Chiariamo la logica di tale forma di compensazione: è alquanto singolare.
Un'equivalenza è stabilita dall'atto del ricevere del creditore, in luogo di una letterale compensazione (monetaria ndr.) per qualsiasi danno (da inadempimento) (così, al posto del denaro, terra, possedimenti di ogni tipo), un vantaggio apprezzabile nella forma di un tipo di piacere - il piacere di essere autorizzato a dar liberamente sgofo al suo potere sopra chi ne sia totalmente privo, il piacere voluttuoso "di fare il male per il piacere di farlo", il godimento del violentare...Nel "punire" il debitore, il creditore partecipa del diritto (illimitato) dei padroni...La compensazione, allora, consiste in una garanzia "di" e in una legittimazione "a" la crudeltà" (Corey Robin 2015, sulla Grecia).
2. Questa impressionante, ma non sorprendente, citazione sul
modo neo-liberista di intendere i vincoli contrattuali e
creditizi,
è in realtà l'essenza del "mondo moderno" che si afferma con
il Rinascimento e la Riforma innescata
dalla
predicazione di Lutero, in Germania. Leggi tutto
Ciò che mi differenzia dal mio amico Diego Fusaro, che da tempo afferma l’indistinguibilità di destra e sinistra, è il fatto di ritenere, con pervicacia, che ha ancora senso pensare a ‘una cosa’ che si chiami sinistra, che abbia le sue coordinate teoriche ed ideologiche, e un suo pensiero politico riconoscibile e perfettamente distinguibile. Bene: una tale ‘cosa’ può collocarsi topologicamente dove le pare, a sinistra a destra sopra sotto! Ciò che occorre come indispensabile criterio distintivo è il fondamento marxiano e gramsciano della sua prassi, riveduto e corretto, se si vuole, con tutto ciò che ha sviluppato quel pensiero: l’operaismo di Tronti e Negri, anche la lezione strutturalista di Althusser, fino all’attuale dibattito sull’accelerazionismo e ad autori come Williams e Srnicerk.
Una simile cosa, che sarà imparentata con la creatura aliena del film di Carpenter solo per il suo irrompere subitaneo sulla scena, è da tempo dissolta nei mille cristalli in cui si è frammentata l’esperienza socialista e comunista nell’occidente del capitale trionfante.
Ritengo che uno dei temi portanti della sua azione dovrà essere quello del rapporto col potere e dell’obiettivo di governare ma, ciò essendo irrinunciabile, fuori da una logica iperrealistica di alleanze arbitrarie e dissennate.
Lo confesso: trovo infinitamente più sano, convincente,
coerente che una simile sinistra, che ovviamente abbia
accresciuto notevolmente il
suo bacino elettorale, si allei con movimenti civili come il
M5S che con le vecchie volpi del centro-sinistra. Riproporre
stantie riedizioni del
compromesso storico non serve più al paese, ammesso che sia
mai servito. Leggi tutto
Episodi recenti: politiche greche e del Regno Unito; regionali italiane e spagnole. Evaporazione della democrazia parlamentare, astensione su larga scala, radicalismi anti-europei e genericamente “antagonisti”. In breve: la “pancia” vince sulla “testa”.
L’analisi ormai è chiara e diffusa: il potere delle centrali finanziarie produce un potere tecnocratico che si sovrappone, dominandolo, all’intero ambito della sfera del “politico” tradizionalmente inteso. Occorre però aggiungere che il principio fondante tale “dominio” non coincide solamente con il disinteresse per la politica e per i progetti di crescita sociale, ma consiste in un interesse contrario. Mira, cioè, all’annientamento del “politico”, così come si è costruito nel Secondo Novecento, con la stabilizzazione delle democrazie parlamentari, attraverso l’istituzionalizzazione dello “Stato sociale”.
Con espressione sintetica: l’ “effettività” del potere finanziario si fonda sull’ “ineffettività” della politica.
Il
pragmatismo politico, succeduto alla stagione
dell’ideologismo, si è
trasformato, nell’epoca della globalizzazione finanziaria e
tecnocratica, in un affarismo di sistema, indifferente al
colore politico, ed in un
lobbismo che permea trasversalmente la vita stessa delle
istituzioni. Ricaduta, questa, sul piano operativo, della
mentalità nella quale si
sono formate, negli anni ’90, le generazioni che oggi
occupano lo scenario pubblico. Leggi tutto
L’intera architettura dell’Unione
Europea poggia le sue
basi sull’apodittico assunto che il debito pubblico
rappresenti un vincolo insostenibile per la crescita di lungo
periodo, nonché un
grave ostacolo a una corretta e completa integrazione
economica fra i Paesi. Si tratta chiaramente di un modello di
stampo ortodosso, che
dimentica l’essenza stessa del capitalismo, ossia la
possibilità/opportunità di prendere denaro a prestito e di
contrarre
debiti/crediti.
Da qui l’idea che lo Stato sia assimilabile al buon pater familias e che il consolidamento delle finanze pubbliche rappresenti l’unico viatico possibile per rilanciare consumi e investimenti. Un paradigma antitetico a quello proposto da Keynes (1936), che vedeva nella spesa di matrice statale uno strumento di perequazione e di composizione dei fallimenti privati, nonché una leva fondamentale per azionare una crescita sostenibile e bilanciata.
Secondo l’approccio classico mainstream, dato che la crisi sarebbe da ascriversi principalmente a un eccesso sistematico di spesa pubblica, che avrebbe favorito in sequenza, prima l’accumulazione e poi l’implosione dei debiti pubblici, sarebbe necessario – per riattivare il sistema – tagliare drasticamente la spesa di matrice nazionale (Reinhart e Rogoff 2013).
Tuttavia, il rapporto di causazione non sembra reggere alla prova dei fatti, né a quella empirica. Innanzitutto, come dichiarato apertamente dallo stesso vicepresidente della commissione UE, Victor Constâncio (2012), il debito pubblico è semmai l’effetto, non la causa della crisi.
Leggi tutto[SPOILER: Contributo di due paginette, con numeri, dati e spiegoni. Ma questa non è l'osteria delle emozioni, per le analisi in 160 caratteri rivolgetevi a Palazzo Chigi. #ciaogufi]
Oggi a mezzanotte
[11
settembre ndr] scade il termine ultimo per l'accettazione
delle proposte di assunzione della cosiddetta fase B, cioè
distribuite su tutto il
territorio nazionale.
Una fase che è stata un mezzo flop per il Governo: 16.210 posti messi a bando, solo 10.780 le domande presentate al 14 Agosto, 8.776 le proposte di assunzione effettive. Insomma, per una serie di motivi, legati anche a leggerezze e opacità procedurali sulle quali è partita anche una interrogazione parlamentare, poco più della metà dei posti messi a bando sarà finalmente occupata da un docente assunto a tempo indeterminato. Virtualmente: molti, infatti, hanno già accettato un incarico annuale nella propria provincia, l'ultimo possibile prima di prendere effettivamente il ruolo, per cui anche quest'anno molte cattedre saranno coperte da supplenti.
Quanti saranno, allora, i docenti assunti a tempo indeterminato da domani? Il conto è presto fatto: 47.476 erano i posti disponibili per le prime due fasi di assunzione, 16.210 quelli “avanzati”, quindi il totale degli assunti al 31 Agosto era 31.266. A questi vanno aggiunti gli 8.760 della fase B che hanno detto SI nel momento in cui scriviamo (al 10/09, 16 hanno rifiutato). Totale: 40026.
Il numero è considerevole se lo si somma ai 55.258 posti messi a bando per la cosiddetta fase C, ma ammesso che tutti i rimanenti posti verranno coperti – cosa non facile né scontata – 95.000 assunti restano ben distanti dai 150.000 circa promessi a Settembre scorso, specialmente se opera di un Governo che ha gridato ai quattro venti di voler mettere fine alla ultraventennale piaga del precariato.
Inoltre, quando da domani il Governo e il suo tweeting
staff canteranno vittoria imbrodandosi nelle lodi, ricordate
che la pena,
per chi rifiutava queste proposte di assunzione, era la
cancellazione da ogni graduatoria. Leggi tutto
Va
preliminarmente sgomberato il
campo da una rappresentazione della produzione dell’opinione
pubblica che vede una polarità tra vecchi e nuovi media. Da
una parte, viene
sostenuto, attingendo e al lessico di Marshall McLuhan, ci
sono la carta stampata, la radio e la tv, che sono medium
freddi o caldi dove si esprime
l’egemonia dello stile enunciativo televisivo, data la
rilevanza del visuale – le immagini rivelano una immediatezza
comunicativa che
manca invece alla parola orale o scritta -; dall’altra c’è la
Rete, regno indiscusso del caos comunicativo e dall’assenza di
una gerarchia che seleziona i fatti e i punti di vista. Da una
parte un ordine del discorso facile da decrittare e mettere a
critica; dall’altra
una trasparenza radicale della comunicazione che produce un
rumore di fondo che distoglie l’attenzione e favorisce una
colonizzazione della
discussione pubblica da parte dei governi e delle imprese.
Speculare a queste, c’è l’altra rappresentazione, dove i
“vecchi
media” sono una sofistica tecnologia del controllo sociale,
mentre il web sarebbe uno spazio comunicativo difficile da
manipolare e ribelle a
qualsiasi eterodirezione palese o nascosta.
Entrambe le rappresentazioni inducono all’equivoco che la
Rete sarebbe, di volta in volta, una tecnologia della
liberazione dal potere
performativo e autoritario di televisione, carta stampata e
radio; o uno strumento di manipolazione dell’opinione
pubblica, possibilità
preclusa ai vecchi media visti gli elementi di autogoverno
che regolano il loro funzionamento, a partire dalle regole
deontologiche dei
giornalisti che consentono proprio ai giornalisti di vigliare
sull’operato degli editori e dei direttori. Leggi tutto
La vittoria di Jeremy Corbyn nella corsa alla leadership laburista in Gran Bretagna, anche se prevista nelle ultime settimane, è giunta come una valanga sulla maggioranza “centrista” e vicina a Tony Blair dei vertici del partito. I risultati della sfida, annunciati ufficialmente qualche giorno fa, hanno rivelato in maniera incontrovertibile il profondissimo senso di alienazione dal sistema politico d’oltremanica sentito dalla gran parte della popolazione.
Allo stesso tempo, i tentativi di leader e burocrati del partito di provare a impedire un esito praticamente mai in discussione con tattiche di dubbia legalità e di sicura inopportunità democratica hanno mostrato ancora una volta il divario incolmabile tra la politica ufficiale e i bisogni e le aspirazioni dei lavoratori e della classe media britannica.
L’improbabile ascesa di un relativamente oscuro deputato laburista alla guida di uno dei due principali partiti della Gran Bretagna è stata resa materialmente possibile in primo luogo da una recente modifica delle norme che regolano le procedure di voto e da un colossale errore di valutazione di alcuni suoi leader.
Allo scopo di rinvigorire un partito screditato da decenni di
costante spostamento a destra e scosso dalla sconfitta
elettorale del mese di maggio,
il Partito Laburista aveva deciso di garantire la possibilità
di votare per il proprio nuovo leader a chiunque avesse pagato
la somma simbolica
di tre sterline. Leggi tutto
1. Nell’agosto del 2015 a Budapest né autobus né treni erano disponibili per il trasporto dei profughi siriani verso l’Austria. Fatte le debite proporzioni, il loro destino rammentava vagamente la situazione dei profughi eritrei, etiopi e sudanesi che per molto tempo rimanevano appiedati attorno all’oasi di Kufra, nel Sud della Libia. Ma la Mitteleuropa è la Mitteleuropa. Ai primi di settembre, il governo ungherese di Orbàn ha messo a disposizione i mezzi pubblici, una misura analoga a quella del 1989, quando il governo Németh lasciò passare i tedesco-orientali, decisi sì a emigrare all’ovest ma evitando finalmente il tiro al piccione lungo il muro di Berlino.
Nell’ormai lontano agosto
del 1989 la questione dei mezzi di trasporto riguardava
qualche centinaio di
«turisti» della già traballante Repubblica democratica
tedesca (Rdt). I «turisti» avevano attraversato
l’Ungheria giungendo fino alla frontiera austriaca. La
questione era: alla lunga, quel flusso avrebbe ridotto il muro
di Berlino a un residuato
bellico? In effetti, il 19 agosto 1989, circa 600
tedesco-orientali erano entrati in Baviera, dopo aver passato
alla spicciolata il confine
ungherese-austriaco sotto lo sguardo benevolo delle guardie di
entrambi i Paesi. Il governo della Rdt aveva protestato. Per
rabbonirlo, i governanti
ungheresi arrestarono e rimpatriarono un gruppo di
tedesco-orientali. Poi, nel giro di una ventina di giorni,
cambiarono idea e diedero autobus e
treni ai partenti. Che cosa era successo in quell’arco di
tempo? Semplicemente che il governo conservatore della
Repubblica federale tedesca
(Rft) aveva oliato le ruote dei mezzi di trasporto ungheresi.
Leggi tutto
Toute chose qui perd son idée est comme l'homme qui a
perdu son ombre
-
elle tombe dans un délire où elle se perd.
(Baudrillard)
Luoghi storici in cui la merce si celebrava feticizzandosi mentre il capitalismo prendeva coscienza di sé, le prime Esposizioni universali (Londra 1851 e Parigi 1855) hanno inaugurato la modernità.
Marx pare sia rimasto affascinato dalla fantasmagoria delle merci esposte a Londra, e Baudelaire ha visitato e descritto l'Expo di Parigi. Siamo lontani!
Fiera non più delle vanità ma delle velleità, non più delle merci ma dei simulacri, non più della realtà ma delle rappresentazioni, non più dei messages ma dei media, non più dei feticci ma del fittizio, Expo 2015 ha aperto le porte del suo celebratissimo falansterio nel silenzio delle merci e sul vuoto delle pure immagini. Una via di mezzo tra Disneyland e L'Artigiano in fiera!
Nei padiglioni le merci (com'è noto) non ci sono e sono state
sostituite dai segni o dai simboli agroalimentari con cui i
vari Paesi
partecipanti hanno voluto rappresentare se stessi e onorare il
tema. In sostanza, ciò che si trova nei padiglioni (al di là
della loro
architettura, sovente molto bella, e a un certo numero di
assistenti che sembrano terminali di un computer) sono
scritte, foto, installazioni
più o meno allegoriche, simulazioni video, immagini, filmati
3D e filmicchi, musichette repellenti e qualche "oggetto"
alimentare sparso qua e
là. Leggi tutto
Dovendo una buona volta tirare le somme di tutto il nostro percorso, cercando di esporre la conclusione delle conclusioni, per parafrasare la Bibbia, o la madre di tutte le conclusioni, per parafrasare il Corano, potremmo ben dire che aveva ragione Hans Magnus.
Hans Magnus chi? Hans Magnus Enzensberger, poeta, professore, traduttore, saggista tedesco e innamorato dell’Italia. Era già piuttosto noto, in Italia, quando una ventina di anni or sono un film, e che film!, contribuì al sensibile incremento della sua popolarità qui da noi.
Si tratta di Caro diario di Nanni Moretti, per la precisione del secondo degli episodi di quel film, «Isole», in cui è narrata l’imprevedibile metamorfosi di un austero professore: costui, ritiratosi a Lipari, per scrivere il libro della vita, si trasforma a poco a poco in un teledipendente, fanatico delle soap-opera più corrive. Che c’entra Enzensberger? C’entra, c’entra. Dato che in una delle ultime scene l’austero professore, gridando ai quattro venti la sua nuova passione per le serie televisive triviali, finisce per mandare letteralmente a quel paese Enzensberger. E perché? Perché Enzensberger, in quegli anni, scrisse un saggio sulla televisione che fece epoca e che, tra l’altro, fu assai ridimensionato se non demolito da Beniamino Placido, allora critico televisivo del quotidiano «la Repubblica».
Tutto l’episodio «Isole» è costruito intorno al saggio di
Enzensberger, o meglio intorno a quello che ne scriveva
Beniamino
Placido in vari articoli, usciti per la sua rubrica di
recensioni televisive intitolata A parer mio. Il
saggio di Hans Magnus Enzensberger,
Il medium zero ovvero perché tutte le lamentele sulla
televisione sono inconsistenti, sosteneva, in estrema
sintesi, che è del
tutto inutile lamentare il vuoto d’idee dei programmi
televisivi, perché gli spettatori – che non sono degli
stupidi, come
comunemente si crede – lo cercano, quel vuoto d’idee, lo
desiderano, lo agognano. Leggi tutto
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Più sotto la tagliente dichiarazione di Varoufakis all'uscita dal seggio.
La vera vincitrice, in Grecia, è stata la rassegnazione. E la rassegnazione, di norma, premia l'astensione ed il "male minore". Tsipras ha ottenuto il 35% dei voti, ma con una percentuale dei votanti scesa dal 64% di gennaio al 51 di oggi. Tsipras festeggia ma la fiducia di cui gode ancora (e siamo sicuri per poco, poiché ora dovrà tenere fede ai patti siglati con la troika) è quella di una minoranza ben più esigua, essendo, il 35% del 51, meno del 20% dell'intero corpo elettorale.
E siccome rassegnazione e astensione si sono rivelati i tratti salienti di questa tornata elettorale, di converso, sono restate al palo le forze che hanno condannato come una "capitolazione umiliante" la firma del "terzo memorandum", chiamando dunque a punire le forze che lo hanno sottoscritto, SYRIZA in testa.
Unità Popolare (siamo, mentre scriviamo, ore 00:30 del 21 settembre, all'86% delle schede scrutinate) sembra, seppure per un soffio, non riuscire nemmeno a superare lo sbarramento del 3%. Una sconfitta, se si considera che la speranza dei compagni era quella di oltrepassare di slancio questa soglia.
Leggi tuttoNon so se il governo britannico metterà effettivamente in pratica il divieto di residenza per i cittadini comunitari disoccupati, come annunciato dal suo ministro degli interni Theresa May. Da un lato esso sembra più un’uscita estemporanea nel quadro della campagna sul referendum sulla cosiddetta Brexit ( ossia l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea), sia perché il primo ministro Cameron non si è esposto in prima persona su un provvedimento così pesante sia perché le norme per impedire il cosiddetto turismo del welfare ( disoccupati che si trasferiscono da un paese UE all’altro in cerca di un sussidio di disoccupazione migliore) esistono già; dall’altro lato c’è da dire che da quelle parti il paroliberismo nei politici non è cosi apprezzato come da noi e, se qualche esponente di primo piano del governo presenta una progetto del genere, cercherà di attuarlo.
Nel caso venisse realizzato qualcosa di simile a quanto prospettato da Theresa May, soprattutto in forme socialmente percepibili, la città di Londra si troverebbe paradossalmente a subirne notevoli danni: infatti bisogna pensare che Londra è il vero polo di attrazione dell’emigrazione verso la Gran Bretagna, molto più di quanto lo siano Parigi per la Francia, Berlino per la Germania o addirittura New York per quella verso gli Stati Uniti. Riferendomi agli svantaggi non alludo a quelli finanziari e in particolari fiscali, che pure ci sarebbero secondo gli economisti Tommaso Frattini e Christian Dustmann citati da Il sole 24 ore, ma a quelli simbolici e in definitiva ideologici.
Leggi tuttoFa piacere sapere che nel proprio piccolo si è contribuito a rimpinguare le casse del debito pubblico che hanno visto un aumento nei primi sette mesi del 2015 pari a 224,9 miliardi, rispetto -nientepopodimeno – ai 224 dello stesso periodo dell’anno precedente, come annunciato con gran pompa da Bankitalia. Eh si, vista l’entità del formidabile incremento, è improbabile che sia da attribuire al poderoso e tenace contrasto all’evasione, azione rimossa prudentemente dall’agenda del governo. Forse è più plausibile che si debba a qualche inspiegabile balzello, qualche indecifrabile sanzione comminata a noi mortali, quel formidabile successo, la cui epifania è stata offerta ai cittadini insieme al festoso calo, registrato a luglio, del debito pubblico, presentato come se le oscillazioni mensili significassero qualcosa – lo ha dovuto ammettere lo stesso Padoan “sappiamo già che il valore assoluto del debito crescerà fino al 2019”. E come è ovvio che sia in un paese senza investimenti, senza occupazione, senza ripresa, senza speranza.
Ma la comunicazione del governo è prodiga di buone notizie,
quando non le ha le costruisce ad arte oppure fa proprie
quelle altrui, come
dimostrato dal successo tennistico di Renzi precipitatosi, ma
ha ricordato “lo fece Pertini”, a fregiarsi delle medaglie
d’oro
conquistate da due sportive fortunatamente più competenti dei
suoi ministri nel palleggio, nei diritti e nei rovesci, se non
nel tirar colpi.
Leggi tutto
La Grecia è scomparsa,
o quasi, dalle prime pagine.
È prevedibile ci tornerà dopo le elezioni del 20 settembre. Ma
non saranno certo le imminenti elezioni, quale che sia il loro
esito, a
risolvere la “questione greca”. Le sue coordinate, infatti,
sono extra-parlamentari. Attengono alla crisi del capitalismo
e ai rapporti di
forza tra le classi. E sono già chiare da anni. Le vicende del
referendum e del dopo-referendum, con la resa di Tsipras e di
Syriza ai diktat
della Troika e dei capitalisti greci, le hanno ulteriormente
confermate. Perché dicono che nonostante la catena di lotte
degli scorsi anni, e
nonostante il rifiuto dei memorandum sia stato ribadito dalla
vittoria del No al referendum del 5 luglio, per i lavoratori e
i giovani deprivilegiati
della Grecia la strada è ancora tutta in salita.
Come lo è, del resto, per i proletari dell’intera Europa (e
del
mondo).
Qui in Italia diversi esponenti della extra-sinistra hanno tratto spunto dalle grandi difficoltà attuali del movimento di massa anti-memorandum, per spargere a piene mani disfattismo nei confronti della lotta dei lavoratori, in Grecia e ovunque, e per rilanciare un nazionalismo ‘sociale’, un social-nazionalismo, funesto per le sorti del proletariato. Abbiamo scritto queste note in polemica con loro, ma non certo per convincere loro. Il nostro intento è, invece, quello di promuovere il confronto, finora deficitario, tra quanti ricercano una via d’uscita dalla profonda crisi ideologica, politica e organizzativa in cui versa il movimento proletario su scala europea e internazionale senza nulla concedere al riformismo e al nazionalismo.
Leggi tutto0. Se non lo
affrontiamo da un punto di vista
esclusivamente sociologico o meramente anagrafico, sappiamo
bene che quello di generazione è un concetto materialistico. È
cioè
uno degli elementi centrali che rende peculiare la
collocazione sociale dei singoli dentro i rapporti di
produzione e di classe. Nell’ultimo
ventennio, per esempio, la precarietà e poi la crisi hanno
progressivamente dilatato la categoria di giovani, fino a
farla esplodere. Se
nell’epoca definita “fordista” il giovane medio era colui che
studiava e/o era in attesa di entrare nel mercato del lavoro,
di
passare dalla famiglia di provenienza a una propria famiglia,
oggi che ne è di quella categoria a fronte della scomparsa del
tradizionale
rapporto tra formazione e lavoro, della rottura della supposta
linearità delle successioni temporali di vita, della
precarietà e
disoccupazione che diventano elementi strutturali e
permanenti? La precarietà e la crisi ci rendono giovani in
modo duraturo, nel segno
dell’impoverimento e dell’assenza di tutele.
Fondandosi su una struttura materiale e storicamente
determinata, il concetto di generazione è importante per
analizzare anche le forme
della militanza. È indispensabile, cioè, per comprendere la
costituzione della soggettività militante, al di fuori delle
mitologie o dei fallaci racconti basati sull’eroismo
individuale. Leggi tutto
La Siria è di attualità per motivi tragici. Regaliamoci un intermezzo comico analizzando la più recente conversione sulla via di Damasco: quella di Francesco Giavazzi. Il 7 settembre 2015 il nostro ha pubblicato con Richard Baldwin sul prestigioso portale Voxeu un eBook dall’altisonante titolo di La crisi dell’Eurozona: l’opinione dominante sulle cause e sulle poche soluzioni. Quale sarebbe questa opinione dominante (consensus view) secondo Giavazzi?
Ovviamente la sua ad oggi (settembre 2015): “La crisi dell’Eurozona non nasce come crisi di debito pubblico… nasce come una classica crisi da ‘arresto improvviso’ dei finanziamenti esteri (al settore privato, ndr). Quando il boom diventa recessione i governi perdono gettito fiscale e devono accollarsi i debiti privati (per salvare le banche, ndr), creando una crisi di debito pubblico”. Se il problema non era il debito pubblico, l’austerità non era la soluzione. Anzi! Il giudizioso Giavazzi ci segnala che essa è stata controproducente, ha “backfired”. Come quando Wile Coyote cerca di sparare un razzo a Beep Beep, ma il razzo rimane fermo (come l ’economia) e il coyote resta abbrustolito. I tagli “hanno avviato un ciclo di austerità”, cioè una situazione in cui “stringere la cinghia ha alimentato una recessione”, che ha poi causato l’insostenibilità anche dei conti pubblici.
Flashback: 22 gennaio 2013, Corriere della Sera, sempre
Giavazzi (la spalla per l’occasione era Alesina). “Si sta
diffondendo una
sciocchezza, cioè un’opinione che non ha riscontri
nell’evidenza empirica. Il rigore nei conti pubblici sarebbe
la ragione per cui
la recessione si prolunga e la disoccupazione non scende. Lo
ripete da alcuni mesi Stefano Fassina”. Leggi tutto
Che l’elezione di Jeremy Corbyn a segretario del Labour avrebbe provocato la rabbiosa reazione dell’establishment blairiano era scontato. Meno scontata l’intensità della campagna di denigrazione partita subito dopo l’elezione. Vecchio, conservatore, nostalgico, votato alla sconfitta elettorale e palesemente inadatto a governare: queste le accuse più ricorrenti.
Peccato che i sondaggi rivelino come a sostenere il vecchio nostalgico siano, in maggioranza, giovani cittadini inglesi infuriati per la sistematica svendita dei loro interessi da parte di un Labour convertito al credo liberista. Quanto all’impossibilità di vincere le elezioni e governare, la sensazione è che, a ispirare tale profezia, sia il terrore che possa essere smentita, come è avvenuto in Grecia (anche se i diktat europei hanno subito rimesso le cose a posto) e come potrebbe succedere fra poco in Spagna.
Su un punto i laburisti di regime però hanno ragione: Corbyn
non è un segretario adatto per un partito che da tempo non era
più espressione degli interessi delle classi lavoratrici,
radicato nelle fabbriche, negli uffici e nei territori, ma un
partito di centro che,
assieme ai socialdemocratici tedeschi, ai socialisti francesi
e spagnoli e ai democratici italiani, ha celebrato i funerali
della socialdemocrazia. Ma
se Corbyn vincerà la sua scommessa non sarà perché avrà
resuscitato la socialdemocrazia, bensì perché
avrà dato vita a una nuova forza politica antiliberista, della
quale si intravedono tracce anche negli altri “populismi di
sinistra” che turbano i sogni degli oligarchi europei. Leggi tutto
La stampa generalista italiana in questi giorni ha dedicato
ampio risalto al supposto intervento russo in Siria contro
l’Isis. Ma la
narrazione di giornalisti ed “esperti” dello scenario
mediorientale ha mostrato fin da subito la natura
sostanzialmente ideologica dei
fatti riportati. Per qualche giorno era passato un messaggio
più o meno di questo tipo: la Russia è pronta ad invadere la
Siria per
sottrarre pezzi di territorio agli interessi occidentali
aiutando Assad a sterminare i “ribelli siriani”. Tralasciando
il fatto che non
è alle porte alcun intervento militare diretto russo in Siria,
da tutto il velenoso racconto scompare come per incanto la
“questione
Isis”, il fatto che la Siria sia in guerra da anni contro il
fondamentalismo islamico di marca occidentale e che il governo
siriano non
controlla più gran parte del proprio territorio. Magicamente,
*tutto* il contesto geopolitico mediorientale che ha prodotto
la crisi
generalizzata e il fallimento di taluni Stati sovrani, la
nascita della reazione islamica e il trasferimento di
popolazioni in Stati terzi, lascia il
campo alla visionaria invasione russa, a braccetto con Assad
nel reprimere gli istinti liberali della popolazione siriana.
Soprattutto, tonnellate di
retorica anti-Isis da parte dell’Occidente, i finti
bombardamenti, i soldi tolti con la mano Nato e raddoppiati
dalla mano saudita,
letteralmente scompaiono dal racconto dei fatti. E’
interessante comprendere questo procedimento performativo
sull’opinione pubblica. Leggi tutto
Il rifiuto
del lavoro
è stato patrimonio dell’autonomia operaia degli anni settanta,
intesa sia con la A maiuscola di organizzazione politica sia
con la a
minuscola di egemonia di pratiche nel movimento di quegli
anni[1].
La prima considerazione da fare riguarda la mancanza di ricerca storiografica sul tema, dal punto di vista della teoria e della prassi messe in campo dagli autonomi. Finora, infatti, l’interesse della gran parte degli storici si è concentrato su altri aspetti quali la violenza e l’illegalità teorizzate e/o praticate dagli stessi[2].
L’attenzione accordata a questi temi ha messo in ombra quello che invece è stato un nodo centrale attorno a cui si è sviluppata l’autonomia e larghi strati del movimento di quegli anni fornendogli forza e, soprattutto, originalità. La teoria e la pratica, appunto, del rifiuto del lavoro.
Uno studio storico di quella stagione da questo punto di vista comporta una certa difficoltà. Le piccole e grandi realtà nascono e muoiono velocemente, vi è un continuo scambio e ricambio di militanti e mancando una direzione centrale o centralizzata le stesse regole per venire inclusi e autodefinirsi appartenenti a quest’area non sono rigide[3]. Un ulteriore problema per lo storico consiste nella difficoltà di reperire documenti d’archivio perché il tipo di organizzazione di questi gruppi ha comportato una perdita notevole di materiale.
Leggi tuttoLogica finanziaria
versus logica
economica
La conclusione della trattativa tra Bruxelles e Atene (la capitolazione greca) è l’esito di una scelta politica che di economico non ha nulla. Anzi irride profondamente qualsiasi razionalità economica, quella razionalità dell’homo oeconomicus che viene ritenuta alla base di qualsiasi scelta economica efficiente e continuamente sbandierata dai manuali di economia politica, dalla stampa e dagli stessi politici di governo per giustificare decisioni che di economico hanno invece ben poco.
L’accordo imposto alla Grecia con il ricatto della stretta di liquidità prevede per 10 anni un avanzo primario del 3,5%, la costituzione di un fondo di garanzia patrimoniale da alienare (leggasi privatizzare) del valore di 50 miliardi di euro (poco meno del 25% del Pil Greco, una cifra che in Italia equivarrebbe a più di 450 miliardi!), misure fiscali che incidono negativamente sulla domanda interna grazie all’aumento dell’Iva (con il duplice effetto di colpire 1. settori –turismo, in primo luogo, da cui “la Grecia –come giustamente rileva Paolo Pini – trae un flusso positivo di risorse estere per compensare almeno in parte il saldo negativo complessivo della bilancia commerciale” e 2. penalizzare i redditi più bassi), nuovi interventi sulla previdenza e sanità pubblica oltre a quelli già adottati negli anni precedenti e via di questo passo.
Leggi tuttoIl più grande Luna Park d’Italia è il passato: specie d’estate, quando la Penisola è attraversata da decine, forse addirittura da centinaia, di feste ‘medioevali’. Da ben venticinque anni Monteriggioni «di Torri si corona», ma nel frattempo un numero incredibile di località toscane meno note (da Malmantile a Momigno, da Fosdinovo a San Casciano, a Scansano con la sua «Giubilanza») ha preso ad offrire, in agosto, un temporaneo ritorno all’Età di Mezzo. Ma non è solo la Toscana: dal Piemonte (con Novara e Pernate) alla Puglia (Altamura), dalla Romagna (Brisighella) alla Campania (Vairano Patenora), dall’Abruzzo (Pizzoli) alla Sicilia (Randazzo) gli italiani sembrano felicissimi di abbandonare il presente per sprofondare nei cosiddetti secoli bui.
Naturalmente si tratta di un Medioevo fantasy, che non ha
nulla a che fare con la storia, e che si risolve in un
simpatico ibrido tra Disneyland,
il gioco di ruolo e la rievocazione folcloristica con annessa
sagra gastronomica. «Non lasciatevi scappare il processo
pubblico e la condanna
pubblica alla gogna, e i duelli della piazza d’armi praticati
da veri professionisti», suggerisce il sito un po’
giustizialista di
Festa Nova (rievocazione medievale di Fossanova, in Lazio):
perché anche i cosiddetti ‘musei’ della tortura hanno posto
nella
bizzarra genealogia di questi improvvisati festival del
passato, cui in fondo appartiene pure la rievocazione del
mitico Giuramento di Pontida,
celebrata ogni giugno dalla Lega (già) di Bossi. Non mancano,
bisogna riconoscere, affondi più selettivi: a Castignano,
nelle Marche, ci
si dedica monograficamente agli immancabili Templari. E se a
Viterbo si tiene «Ludika 1243», nella longobarda Cividale del
Friuli si
risale all’inizio del Medioevo, con l’iperspecialistico «Anno
Domini 568». Leggi tutto
Insieme a sfida, merito, valutazione, selezione, la parola competizione ricorre oggi nel discorso pubblico con una frequenza quasi ossessiva. L’idea che una competizione generale debba animare le relazioni sociali tra persone, imprese, istituzioni, organizzazioni, stati, blocchi di potere transnazionali, domina la maggior parte dei programmi politici, di destra e di sinistra. Ingenti risorse vengono ovunque impiegate per stabilire classifiche precise, frutto della comparazione dei più svariati parametri, al fine di stabilire l’esatta posizione di ciascun concorrente.
Eppure le analisi dedicate specificamente alla competizione
sono piuttosto rare. È come se questa idea fosse
immediatamente comprensibile,
evidente a chiunque. Come se fosse un dato naturale. Non la si
discute, non la si esamina. Se ne danno per scontate le
valenze positive, di
conseguenza si incoraggia il pieno dispiegamento di forze e
condotte sempre più competitive e la soppressione degli
ostacoli –
solidarietà tra gruppi sociali, difesa dei più deboli ecc. –
che si suppone la frenino. Anche quando si prendono le
distanze dagli
imperativi a gettarsi nel rischioso gioco della competizione,
quando finalmente si comincia a contestare la tenuta di un
modello di sviluppo
imperniato sulla crescita della produttività, sull’efficienza
e sull’accelerazione, il significato preciso e le implicazioni
della
competizione stessa restano stranamente fuori scena. Ci si
aspetterebbe allora dalla filosofia innanzitutto un
supplemento di riflessione cirtica, una
messa tra parentesi di una nozione in realtà non così chiara
né innocente come sembra. Leggi tutto
«La razionalità digitale» del filosofo Byung Chul Han e un’inchiesta sull’uso di Internet come strumento politico aiutano a demistificare l’idea che il web sia il protopito di una forma inedita di democrazia diretta
Il rapporto tra Rete e democrazia è uno dei fenomeni più studiati dalle scienze sociali contemporanee. Questo accade perché, sin dal loro apparire, questi mezzi di comunicazione si caratterizzano per l’interattività e la possibilità data agli utenti di comunicare senza i tradizionali filtri alla circolazione di opinioni e contenuti del passato (mass media, partiti e intellettuali). Se nell’Ottocento il fantasma che «s’aggira per l’Europa» era stato il comunismo, il Novecento ha nutrito le proprie classi dirigenti del culto della delega e del rifiuto della partecipazione diretta al governo della cosa pubblica, sino ad arrivare ad un punto, alla fine del XX secolo, nel quale il nuovo fantasma che «s’aggira» è rappresentato dalle ondate di destabilizzazione e di riassestamento delle post-democrazie contemporanee favorite dall’ascesa delle tecnologie digitali.
Di destabilizzazione e riassestamento si deve parlare
perché l’orizzonte della
democrazia diretta, partecipativa e deliberativa,
come pratica di sostituzione delle
tradizionali forme di democrazia rappresentativa, si
è presto rivelata come uno dei
possibili esiti legati allo sviluppo della Rete, ma
senz’altro né l’unico né tanto meno il più
probabile: se ad un primo periodo pioneristico di ascesa
di Internet corrispondeva un forte legame tra le
culture tecno-libertarie e hacker dei primi
utenti\sviluppatori della Rete (tra i quali forti erano ancora
gli echi della
cultura del Sessantotto statunitense)
e interpretazioni quasi palingenetiche
delle potenzialità democratiche della Rete, si è passati
ad una «fase lunga» nella quale
la moltiplicazione delle pratiche politiche in Rete ha
diffuso un sostanziale
pessimismo circa la possibilità di realizzare una
democrazia diretta digitale. Leggi tutto
Viviamo
circondati da immagini, in un numero
enorme se confrontato con qualsiasi società che ci abbia
preceduto. Gran parte di queste sono pensate per intrattenere,
per raccontare, per
sedurre, come quelle della fiction, dei videogiochi o della
pubblicità. Un’altra parte è fatta per testimoniare o per
spiegare: si
tratta delle foto giornalistiche e delle immagini
scientifiche. In entrambi i casi si mostra qualcosa e si
afferma che quanto si sta mostrando
è “vero”. Sarebbe però più corretto dire che si pretende sia
vero, visto che il rapporto delle immagini con la
verità non è dato una volta per tutte ma sempre frutto di un
accordo, di una negoziazione tra chi mostra e chi guarda.
Condizione
stringente nel caso delle immagini scientifiche che esibiscono
spesso cose non visibili a occhio nudo: l’atomo, un virus o il
DNA li conosciamo
infatti attraverso raffigurazioni e non tramite esperienza
diretta. C’è dunque da chiedersi quali strumenti figurativi
vengano impiegati
a questo scopo e perché questi e non altri.
Il 25 aprile 1953 Francis Crick e James Watson presentano su “Nature” l’articolo epocale sulla struttura dell’acido deossiribonucleico che li avrebbe portati qualche anno dopo al premio Nobel. Vi compare un’immagine che, in forme diverse, sarebbe stata destinata a un enorme successo: la prima effigie del DNA sotto forma di elica. Per l’occasione il disegno viene realizzato dalla moglie di Crick – che è pittrice – partendo da uno schizzo del marito. Una nota in calce dice che l’immagine è niente più che uno schema: “purely diagrammatic” recita la didascalia.
Leggi tuttoIn calce "Un piano B per l'Europa"
I fatti
hanno la testa dura,
andiamo ripetendo spesso. E costringono tanti a cambiare idea,
visione, progetto politico. Nel panorama disastrato della
sinistra radicale europea
questo è certamente un bene, vista la miseria mostrata negli
ultimi 25 anni.
Ma intorno a cosa si sta cambiando idea? Intorno al problema principale, discriminante, politico per definizione: quale rapporto tra movimenti sociali contro l'austerità e Unione Europea?
Ora ben quattro leader politici della sinistra europea, in alcuni casi ex ministri (o vice) delle finanze dei rispettivi paesi (Lafontaine, Varoufakis, Fassina, Melenchon) hanno firmato e diffuso, da Parigi, un documento-appello intitolato “Un piano B per l'Europa” in cui dichiarano di di “essere determinati a rompere con questa Europa”, con una visione che prevede anche una revisione totale del sistema della moneta unica e il ritorno alle monete nazionali. Vedremo tra poco quelli che secondo noi sono i limiti di questa impostazione, ma non si può negare che si tratti di un notevole passo in avanti rispetto al “riformismo europeista” ancora sbandierato dalla parte meno reattiva della cosiddetta sinistra radicale.
Nel dire questo, e nell'invitare alla discussione i nostri
lettori e tutti gli attivisti sociali e politici di questo
paese, consigliamo di
concentrarsi sull'evoluzione dei processi storici, anziché sui
nomi e cognomi dei singoli. Non perché le biografie o la
formazione
individuale non abbiano la loro importanza, ma per la forza
irresistibile dei processi storici, che producono i propri
interpreti anziché
esserne determinati. In fondo, è l'essere sociale
(complessivamente) a produrre la
coscienza, non
viceversa... Leggi tutto
Che cosa
vuol dire procedere per astrazione? Che cosa dobbiamo
intendere con il termine astratto?
“L’astrazione è uno strumento indispensabile all’interno del processo conoscitivo e di indagine scientifica” ma (o forse proprio per questo) sul significato e dunque sull’uso di questo concetto prevalgono idee confuse, spesso fuorvianti. Per chi non abbia familiarità con i concetti, astratto potrebbe sembrare sinonimo di irreale, per cui concreto sarebbe – per contrasto – il reale: non è così. Qualcuno potrebbe pensare che astratto significhi vago, e di conseguenza concreto starebbe a intendere preciso: non è così.
In prima approssimazione possiamo definire astratto come generale e concreto come particolare, per cui la nostra analisi dell’economia, lo studio dell’economia politica procederà dall’astratto al concreto: partiremo da alcune condizioni e dunque da alcune categorie molto generali per poi procedere verso l’analisi di situazioni più particolari che richiedono l’utilizzo di categorie diverse da quelle utilizzate nella I parte del corso.
Che una categoria come merce o capitale sia astratta non vuol
dire perciò che “la merce non esista”, che sia qualcosa di
“irreale” o di “vago”, come se ciò che esiste debba
presentarsi necessariamente sotto le forme di un qualche
oggetto
materiale; l’amicizia e l’amore esistono, così come la
competizione e lo sfruttamento: è che si tratta di concetti,
ma
– per l’appunto – anche i concetti esistono e sono importanti
perché ci consentono di “dare un ordine” alla
confusione del mondo che, senza concetti, non sarebbe
conoscibile, almeno non in senso scientifico. Leggi tutto
Quello che
vorrei mettere in luce in questa
parte del nostro intervento è la centralità della figura di
Luciano Bianciardi come intellettuale, centralità rispetto
alla
questione strategica dell’«aura» nel lavoro contemporaneo, e
sulla quale il nostro deraciné grossetano finì
per inciampare, non riuscendo a trovare una via di fuga
percorribile rispetto al «ruolo» che gli era stato cucito
addosso
dall’industria culturale e nel quale a tratti lui stesso finì
per trovarsi anche a proprio agio.
Un’ambivalenza di Bianciardi quindi delle sue intuizioni rispetto al ruolo dell’intellettuale e alle trasformazioni del lavoro culturale nella metropoli contemporanea, ma anche dei suoi limiti che gli impedirono di capire fino in fondo tutte le conseguenze di quella grande trasformazione che lui stesso si trovava a vivere nell’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. Bianciardi è autore, come è noto, di una cosiddetta trilogia della rabbia che comprende Il Lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960) e La vita agra (1962), il suo libro di maggior successo. Di questi il primo è dedicato al lavoro culturale in provincia nell’Italia del secondo dopoguerra, gli altri due al lavoro nell’industria culturale in un’Italia metropolitana attraversata dal boom economico e sociale. Molti tratti dell’ambivalenza di Bianciardi emergono da queste due opere di ambientazione milanese, ma anche dalla corrispondenza privata e da scritti e interventi di varia natura che Bianciardi disseminò nella sua frenetica attività di collaboratore su testate diverse; una piccola parte di questo materiale proveremo qui a prenderlo brevemente in esame.
Leggi tuttoI rigori dell’autunno hanno iniziato a spirare assai prima di quanto comandasse il calendario sull’ampia panoplia che raccoglie i cosiddetti paesi emergenti. I disordini sui mercati cinesi, e adesso quelli che agitano il Brasile, sono solo la punta di un iceberg ben piantato sui fondali della finanza e che oggi le cronache riportano all’attenzione dei distratti, ossia tutti coloro che finora non hanno voluto vedere ciò che era evidente da diverso tempo.
Sicché si moltiplicano gli allarmi, e non a caso. L’ultimo l’ha lanciato la Bis nella sua quaterly review di settembre, che alle vulnerabilità delle economie emergenti dedica un approfondimento. E’ opportuno leggerlo per non dire, domani, che l’iceberg sul quale il Titanic dell’economia internazionale rischia di infrangersi non fosse chiaramente visibile.
Al momento l’emergenza degli Emergenti viene declinata nella possibilità di un rallentamento dell’economia globale, ossia l’evento che più di tutti si teme, visto che il calo del prodotto ha influenze nefaste sulla sostenibilità dei debiti. E giocoforza, poi, occuparsene, quando ormai si è alla vigilia di una sempre più ipotizzata inversione del lungo ciclo accomodante della politica monetaria Usa, alla quale così tanto devono i cicli finanziari di queste economie.
La cronaca ci racconta che la svalutazione cinese ha avuto un
effetto analogo sulle principali valute dell’area asiatica, e
poi di altri EME
accrescendo insieme i timori degli investitori per la tenuta
di queste economie a fronte di un paventano quanto probabile
raffreddamento del gigante
cinese. Leggi tutto
È un fenomeno paranormale.
Pare proprio che Alberto Sordi sia il nostro Palmer Eldritch, il Demiurgo che continua a plasmare la realtà italiana e i suoi protagonisti a sua immagine, o meglio a immagine dei personaggi che interpretava.
Le caratteristiche comuni coi leader italiani, dal nord al sud, locali e nazionali, sono innumerevoli: cialtroneria, arroganza, egotismo, arrivismo opportunismo, doppiezza, avidità, ipocrisia, vanagloria… quelle riconoscibili come principali però sono tre:
Esibizionismo
Il Sordido non resiste lontano da telecamere e microfoni.
Quando non riesce a fare notizia da sé,
s’imbuca da parassita nella notizia di qualcun altro. Una
vittoria sportiva, un vertice internazionale, un fatto di
cronaca locale,
l’importante è che i riflettori restino accesi. Quand’è al
governo il Sordido predilige le buone notizie, i set
lussuosi ed eleganti. Quand’è all’opposizione va a caccia di emergenze
vere o presunte, spontanee oppure orchestrate, da
amplificare con toni apocalittici. E questo ci porta
alla seconda caratteristica. Leggi tutto
«Nostra patria è il
mondo
intero / nostra legge è la libertà / ed un pensiero / ribelle
in cor ci sta». Era il 1898 quando Pietro Gori pubblicò
l’inno dell’internazionalismo libertario che aveva scritto nel
1895. Il 1898 è anche l’anno della dura repressione dei moti
di Milano contro il prezzo del pane, stroncati dalle cannonate
del generale Bava Beccaris («il feroce monarchico Bava»,
canterà un’altra canzone di quegli anni: un centinaio di morti
e più di quattrocento feriti), premiato da Umberto I con la
Gran
Croce dell’Ordine militare di Savoia e un seggio in Senato.
Due anni dopo, nel 1900, Gaetano Bresci giustiziò il re per
vendicare i morti
di Milano. «Internazionalismo», «libertà»: due parole,
storicamente nate in Europa, che avranno una storia gloriosa e
travagliata nel Novecento, terreno di conflitti, equivoci
stalinisti, tradimenti riformisti, imposture liberali, fino ai
disastri
dell’internazionalismo finanziario del mercato globale e alla
“libertà dei servi”, liberi di servire, promossa a colpi di
guerra economica dall’affarismo neoliberista.
Lo scenario attuale delle migrazioni
(soprattutto da sud a sud, in piccola parte da sud a nord e da
est a ovest),provocate da
guerre senza confini e dalla devastazione occidentale
(climatica, geopolitica) del pianeta, rimette al centro della
dinamica storica le tensioni
conflittuali tra “chiusura” e “apertura”, in una fase in cui
le tradizionali sovranità nazionali sono travolte da
determinazioni superiori (di capitalismo globale) e i popoli
sono consegnati a oligarchie fiduciarie sempre più ristrette.
Leggi tutto
Durante le scorse
settimane, sono state
frequenti le notizie delle proteste, in Ecuador, contro il
governo di Correa promosse da alcune organizzazioni indigene –
in primis la
Conaie (Confederación de Nacionalidades Indígenas del
Ecuador) – e da alcuni settori consistenti della
borghesia e delle
destre, che fin da giugno si sono opposte alla proposta
governativa, poi ritirata,
di tassare le grandi eredità (leggi
e leggi):
come
ha scritto la sempre acuta Geraldina Colotti sul Manifesto,
«le destre sono insorte, subito raggiunte da quelle
organizzazioni
che, apparentemente, sembrano contestare la gestione Correa
da sinistra, ma che non si fanno scrupolo di aprire la
strada a quei settori ansiosi di
riprendere i propri privilegi». Si è trattato di
proteste – in realtà ben poco consistenti dal punto di vista
numerico,
visto il consenso maggioritario di cui gode Correa nel paese
e, in particolare, negli strati popolari e proletari – che
hanno fatto ipotizzare
al governo ecuadoriano (leggi)
e a quello venezuelano (leggi)
un nuovo tentativo di colpo di stato, dopo quello
di cui Correa è stato vittima nel
2010. Le parole di Juan Meriguet, dirigente della governativa
Alianza PAIS (Ap), sono state chiare:
Nell’arco di forze che appoggia la coalizione Alianza Pais vi sono molte componenti marxiste-leniniste e di estrema sinistra, ma è una dialettica tutta interna al cambiamento che si è messo in moto con la revolucion ciudadana. Esiste poi una piccola componente dogmatica che avanza rivendicazioni corporative e che scende in piazza con l’oligarchia, senza tener conto che la rivoluzione è un processo, si costruisce ogni giorno e con una rappresentanza vera.
Leggi tutto“Anche il fatidico rapporto nominale tra deficit e PIL che quest’anno chiude al 2,6%, il prossimo anno salirà al 2,2% dall’1,8% fissato dal DEF varato nella primavera scorsa: in totale si tratta di un “salto” dello 0,8% per cento rispetto al tendenziale (cioè in assenza di politiche) che lo scorso anno andava virtuosamente verso l’1,4%. Dunque una politica espansiva, che fa perno sul deficit, il quale potrà raggiungere – come ha confermato lo stesso Padoan – il 2,4% se verrà approvata la clausola migranti“.
Roberto Petrini, la Repubblica di oggi.
E’ ripartita la campagna di disinformazione autunnale, in coincidenza con la presentazione urbi et orbi della modifica di politica fiscale del Governo in carica. Ovviamente la stampa come quella citata sopra non analizza, fa meramente da grancassa del potere.
Da dove cominciare?
Forse dalla definizione di cosa sia una politica fiscale espansiva, magari su questo siamo più d’accordo che su altri temi: diciamo che possiamo concordare nell’individuarla in una politica capace di aumentare il livello del deficit pubblico sul PIL? Ma sì, dai.
Siccome il Governo Renzi porterà il deficit dal 2,6% del PIL
di quest’anno al 2,2% o al 2,4% del 2016, riducendolo, la
manovra del
Premier è da definirsi a tutti gli effetti come restrittiva e
portatrice di ulteriore austerità. Punto e basta. Leggi tutto
Succede che nel polo archeologico più importante d’Italia gli straordinari non vengano pagati da un anno. Succede che i lavoratori del polo archeologico più importante d’Italia decidano di indire un’assemblea sindacale per discutere di questo e di altre non irrilevanti questioni, e lo comunichino l’11 settembre alla Soprintendenza. Succede che la Soprintendenza decida di non coprire i turni dei lavoratori in assemblea come è sempre stato fatto, non comunicando né ai turisti né alla cittadinanza alcunché. Succede che il giorno dell’assemblea sindacale, una settimana dopo la convocazione della stessa, i due principali quotidiani online lancino la notizia in contemporanea - facendo passare l’idea che si tratti di uno sciopero a sorpresa e non di un’assemblea comunicata e autorizzata dalla dirigenza1. Succede, a questo punto, che il Governo invece di cacciare il Soprintendente responsabile del caos appena suscitato - nominato dallo stesso Governo pochi mesi prima - decida di lanciare una pesante campagna contro i sindacati e i lavoratori, accusati dal Primo Ministro in persona di essere “contro l’Italia” - nonostante non abbiano alcuna responsabilità nell'inefficienza della propria dirigenza. Succede, infine, che la giornata di gogna mediatica e politica si concluda con l’approvazione in Consiglio dei Ministri di un decreto legge d’urgenza con cui i musei diventano al pari degli ospedali e del trasporto ferroviario “servizi pubblici essenziali”, ponendo la possibilità di indire assemblee e scioperi sotto l’autorità dell’apposito garante.
Quello che colpisce di questa giornata di passione - oltre la virulenza degli attacchi ai sindacati da parte del Governo e del Pd2 - è l’assoluto consenso con cui si sono mossi giornali e politici. Nessun giornalista - tanto meno dell’illuminata Repubblica - ha pensato di ricostruire la vicenda in modo corretto3. Nell’individuare nei sindacati il nemico giornali, politici e commentatori sono stati unanimi - e incredibilmente coordinati.
Leggi tutto«Il revisionismo storico. Problemi e miti» di Domenico Losurdo, per Laterza. Una ricostruzione delle vicende del Novecento, a partire dal colonialismo degli States e dalle loro proibizioni razziali che tanto piacevano a Hitler
«Guai a vinti!», secondo la celebre espressione attribuita da Livio e altri storici romani a Brenno, capo dei Galli Sènoni che invasero Roma nel IV secolo a.C. Guai per tante ragioni, fra le quali è una a prevalere di gran lunga: che saranno i vincitori a scrivere la storia. In questo modo una semplice sconfitta (dettata da rapporti di forza) si trasformerà in una volontà suprema (del Fato, di Dio, della Civiltà o Razza superiore), e i più deboli verranno marchiati a guisa di «dannati della terra», perché così hanno decretato le leggi superiori e insindacabili della Storia.
Eppure, a volte un solo piccolo episodio
riesce a smontare i costrutti manichei
dell’ideologia dominante. Come quello riferito da Hannah
Arendt in una lettera a Karl Jaspers del 3 gennaio
1960: «A tutte le ultime classi delle scuole medie di New York
è stato assegnato un tema (Immaginarsi un modo per
punire Hitler). Ed ecco cosa ha proposto una ragazza nera:
si dovrebbe mettergli addosso una pelle nera, e poi
obbligarlo a vivere negli Stati Uniti!». A raccontarci la
vicenda quanto mai centrale della
mistificazione storica, con tanto di una mole
impressionante ma sempre pertinente di aneddoti,
riferimenti, citazioni, è Domenico Losurdo (professore
emerito di filosofia nell’Ateneo
di Urbino, in questi giorni insignito di una laurea
honoris causa da parte della prestigiosa Universidade
Federal Fluminense in Brasile), di cui è uscito Il
revisionismo storico. Problemi
e miti, Laterza, pp. 345, euro 24
(contemporaneamente all’edizione inglese, ancora più
ampia: War
and Revolution. Rethinking the Twentieth Century,
traduzione di Gregory Elliott, pp. 359, Verso, London).
Leggi tutto
La rivista
brasiliana Correio da Cidadania ha intervistato Luciano
Vasapollo, economista marxista, direttore del Cestes e
docente
dell'Università La Sapienza di Roma. La crisi sistemica ha
determinato nei paesi dell’Unione Europea situazioni
economicamente
anacreontiche e politicamente paradossali, nel senso che
molti dei partiti della cosiddetta sinistra europea,
legati all’Internazionale
Socialista, dopo essere entrati nelle sale del Potere si
comportano alla stessa maniera dei partiti di destra o di
centro-destra. Le riforme
strutturali sbandierate nelle campagne elettorali dei
partiti di destra come quelli di sinistra per favorire la
crescita, in realtà diventano
l’alibi per nuove privatizzazioni, tagli ai servizi
pubblici, programmi di austerità, attacchi al mondo del
lavoro per legittimare le
“risoluzioni oggettive” delle eccellenze della borghesia
transnazionale europea attraverso le politiche
antisociali della Troika
(BCE, FMI, Commissione Europea). Una situazione che giorno
dopo giorno approfondisce nei paesi dell’Unione Europea il
fosso tra i partiti della
cosiddetta sinistra e i movimenti sociali e sindacali
conflittuali anticapitalisti.
Correio da Cidadania — Perché, in Europa, le nuove forme di organizzazione e gli stessi comportamenti politici dei movimenti sociali, giovanili, territoriali, ambientali sono sempre più distanti dai tradizionali partiti della sinistra?
Luciano Vasapollo:”... Oggi siamo alla chiusura definitiva di un ciclo politico che è stato dominato dai partiti della sinistra riformista e che in questo periodo hanno operato una lunga e complessa revisione teorica e politica, al punto di abbandonare qualsiasi prospettiva di classe, per poi diventare partiti, che non solo difendono il potere ma che lo cogestiscono.
Leggi tuttoGli uccelli migrano a
primavera e in autunno.
Migrano anche le balene, gli gnu, le antilopi, le zebre, e i
salmoni per riprodursi. Lo fanno da sempre, è la loro natura.
Le migliaia di donne
e uomini, con figli al seguito, che quest’estate stanno
scappando dai loro paesi, imbarcandosi su navi di fortuna o
percorrendo chilometri a
piedi lungo le frontiere del nostro continente non lo fanno
per natura. Scappano da una condizione di miseria, di fame, di
guerra, che ha precise
responsabilità nel modo di produzione capitalistico, nel
potere indiscusso dei monopoli transnazionali, nell’attività
dei paesi
imperialisti che impongono regimi politici favorevoli al
potere economico dei grandi monopoli, anche attraverso la
guerra e il terrorismo. Solo
perbenisti e benpensanti possono pensare che assegnando a
questa condizione drammatica un nome mite e romantico possano
rendere un servigio alla
condizione reale di chi è costretto ad emigrare.
A differenza degli uccelli, delle balene e delle antilopi gli
uomini non sono fatti per migrare. È vero che la storia
dell’umanità è piena di fenomeni di questo tipo, anzi si può
dire che i popoli, per come oggi li conosciamo, sono il
prodotto di queste storie, che ciascuno di noi nel suo dna
porta impressa questa caratteristica millenaria. Ma dietro
ogni migrazione di massa
c’è sempre stata una catastrofe, una carestia, una guerra.
Dietro la decisione di lasciare la propria terra e i propri
affetti non
c’è mai una scelta naturale, scontata, ma un dramma personale,
storico e sociale che spinge centinaia di migliaia di persone
ad un gesto
così drammatico e innaturale. Leggi tutto
La città in
quanto tale, e a maggior ragione quella contemporanea, emerge
oltre il mero accumulo del costruito. L’urbanistica, la
sociologia urbana, la
statistica ne riflettono la natura demografica. La studiano,
la sorvegliano, ne vigilano i processi complessivi.
Costituiscono la rappresentazione
sintomatica su cui s’installano i discorsi che producono
l’immagine in cui la città si riconosce. Vi è però un resto,
un’eccedenza che si salva da questo meccanismo di potere: lo
spazio dell’abitare, ossia quello spazio all’interno della
città
dove si possa vivere.
In un volumetto Eterotopia, composto di due
scritti, Michel Foucault affronta la questione dello spazio
con un approccio relativamente
trasversale. Ne isola le parti costitutive del problema, per
lo meno entro i discorsi architettonici e urbanistici, per
porre la questione
dell’intelligibilità dello spazio, ossia lo spazio dove si è
soliti abitare o trattenersi con il corpo e con il pensiero.
Tra le
faglie del potere, Foucault registra l’esistenza di veri e
propri «stati topologici d’eccezione»: «le utopie e le
eterotopie». Queste ultime sono «spazi differenti […], luoghi
altri, una specie di contestazione al contempo mitica e reale
dello
spazio in cui viviamo»1. Le eterotopie sono
dunque «luoghi altri» in cui
trovano spazio territori ontologicamente ibridi sospesi tra
reale e immaginario, faglie fra i discorsi assoggettanti in
cui esercitare
contro-condotte, spazi dell’alterità, della libertà e
dell’uguaglianza. In altro modo, sono quegli spazi che Italo
Calvino
inserisce tra le confidenze di Marco Polo all’imperatore dei
Tartari Kublai Khan. Tra Le città invisibili,
«nell’inferno che abitiamo tutti i giorni», vi sono due modi
per non soffrire le città infernali: «il primo riesce
facile a molti, accettare l’inferno e diventarne parte fino al
punto di non vederlo più […] il secondo è rischioso ed esige
attenzione e apprendimento continui: cercare e saper
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e
farlo durare e dargli
spazio»2. Leggi tutto
Benvenuta tra noi! La Cina comunista ha finalmente conosciuto i dolori del capitalismo, unendosi a tutti noi che viviamo da molto più tempo in questa religione dal culto incessante (Benjamin) che promette il paradiso in terra e che è chiamata abusivamente libero mercato. Anche la Cina si è dunque fatta pienamente capitalista, subendo una pesante crisi, come è regola del capitalismo. La sua passata ambivalenza, quel suo voler essere insieme formalmente comunista ma strutturalmente e antropologicamente capitalista era (per chi è ancora idealista e/o crede nel senso delle parole) davvero imbarazzante e disorientante oltre che contro natura, come se si volessero coniugare gli opposti, far convivere il diavolo e l’acqua santa, ma tutti sappiamo che questo non è possibile. Dunque, bisognava scegliere: comunisti o capitalisti. Come per l’Occidente: democrazia o mercato. Alla fine, nessun dubbio: capitalismo. Che, come ben sappiamo e come ci insegnano ogni giorno media e mercati ed esperti e tecnici, è molto meglio del comunismo. E anche della democrazia.
E così, finito il sogno (ricchezza facile per molti,
grattacieli sempre più alti, voler essere prima potenza
economica del mondo),
anche i cinesi si sono risvegliati in un incubo – come è
avvenuto per noi molte volte nel passato, noi che da molto più
tempo dei
cinesi conviviamo in allegria (l’orchestra continua a suonare
per noi) con il capitalismo e le sue crisi e le disuguaglianze
che lo fanno vivere
e prosperare: perché il capitalismo è dissipativo e
distruttivo per natura e ontologia, è evangelico per vocazione
(tutto
è mercato, nulla al di fuori del mercato, non avrai altro
dio che il mercato ), è nichilista per propria
teleologia, è
omologante e unificante (totalitario) per propria teologia. Leggi tutto
Come era prevedibile, la questione dei danni ambientali causata dalla base statunitense del MUOS (Mobile Users Object System) di Niscemi, si è avvitata in quel consueto stillicidio di perizie di segno opposto e di sentenze in parte rimangiate. Il movimento di opposizione al MUOS si ritrova quindi invischiato in quel rituale roleplay, per il quale a chi cerca di prospettare seriamente questioni tecniche si replica con un tipo di comunicazione irresponsabile; perciò non solo qualunque rischio viene aprioristicamente escluso, ma poco ci manca che il MUOS venga presentato come una fonte dell'eterna giovinezza.
Criticare i movimenti non ha senso, poiché i loro limiti non sono soggettivi, ma oggettivi; non dipendono cioè da carenze di chi ne fa parte, ma dalla natura stessa dei movimenti. Sin dalla loro formazione i movimenti si delineano in base a "valori condivisi", come la salute o la legalità costituzionale. Solo che questi "valori condivisi" non sono affatto condivisi dal governo e dai media. Anche la "democrazia" si riduce al diritto di manifestare, il che, concretamente, comporta solo il diritto di farsi manganellare dalla polizia, con l'obbligatorio strascico di condanne per resistenza all'arresto (quando colpisce corpi solidi, il manganello incontra resistenza).
D'altra parte la comunicazione irresponsabile del potere, pur
nel suo intento di ridicolizzare e banalizzare, talvolta
finisce involontariamente
per riportare le questioni al nodo cruciale, che è quello
dell'imperialismo e del colonialismo. Leggi tutto
Il grande frullatore delle immagini
gioca con il Caso, con
risultati sorprendenti: oggi mescola le bandiere rosse della
Ferrari che festeggiano la vittoria di Sebastian Vettel
assieme alle bandiere rosse che
ondeggiano per celebrare la vittoria di Alexis Tsipras alle
elezioni greche.
Mondi lontanissimi, la Formula Uno e la politica europea del 2015, ma non privi di analogie.
Ho seguito distrattamente il Gran Premio, ma l'amico Emilio, che l'ha guardato con più attenzione, pronuncia una requisitoria durissima:
«Che senso ha guardare la Formula Uno oggi? Nessuna sfida epica tra piloti in pista, solo una patetica finzione, un baraccone circense di bolidi rombanti esibiti pateticamente in giro per il mondo come animali feroci che non mordono, che verrebbe voglia di liberare nella savana delle celesti piste del cielo. È la negazione dello sport. Vale la pena annoiarsi per due ore guardando una sfilata di macchine potentissime che non si sorpassano in pista ma nelle soste obbligatorie ai box, quindi fuori dal terreno della contesa, in cui la prestazione del pilota conta meno della velocità dei meccanici a fare il pieno di carburante e cambiare le gomme? Che corsa automobilistica è quella in cui un vantaggio di molti secondi viene vanificato dalla Safety Car che entra e azzera tutto?
Leggi tuttoApparentemente le
ennesime elezioni che si sono tenute in Grecia ieri – le
quinte in soli sei anni – hanno riportato il paese esattamente
al punto di
partenza del 25 gennaio. Syriza ha ottenuto il 35.47% dei
voti, solo un punto in meno rispetto alle elezioni di inizio
anno, e anche i nazionalisti di
destra di Anel, che i sondaggi avevano già cancellato dalla
mappa parlamentare, riescono invece a superare l’asticella del
3% e ad
ottenere 10 seggi con il 3.69% dei voti.
Volendo, Alexis Tsipras - che nel discorso tenuto ieri sera ad Atene davanti ai suoi sostenitori ha accuratamente evitato di citare il Memorandum da lui firmato a luglio – potrà formare in pochissimi giorni un esecutivo fotocopia rispetto a quello che era andato in pezzi solo poche settimane fa, anche se ricorrendo solo a Panos Kammenos avrebbe a disposizione solamente pochi deputati in più di quelli richiesti per governare: 155.
Ma solo apparentemente il risultato di ieri ricalca quello
del 25 gennaio, e solo un analista disattento o interessato
può non notare le
enormi differenze. Intanto la scarsa affluenza alle urne: ieri
ha votato solo il 56.5% degli aventi diritto, mentre a gennaio
alle urne si erano
recati il 64% dei greci. Le elezioni di ieri hanno fatto
registrare uno dei tassi di partecipazione tra i più bassi
della storia della Grecia
del secondo dopoguerra, e non si tratta di un bel segnale.
Fisiologico, hanno messo le mani avanti in molti commentando
il dato, visto il frequente
ricorso alle urne che ha ‘stancato’ gli elettori. Peccato che
solo pochi mesi fa, a inizio estate, il referendum
sull’accettazione o
meno del terzo memorandum a base di austerity, privatizzazioni
e tagli abbia invece mobilitato assai di più l’opinione
pubblica. Leggi tutto
Le vicende greche, la
crisi che si estende alla Cina, gli
imponenti flussi migratori e il rafforzamento della tendenza
alla guerra caratterizzano il quadro generale degli ultimi
mesi. In Italia e in Europa
siamo davanti ad uno stravolgimento del piano economico,
sociale, istituzionale e politico. Di fronte alla complessità
degli eventi appare
utile assumere un posizionamento chiaro per aggregare forze e
consensi. Per farlo occorre provare a comprendere fino in
fondo la realtà, capire
le nuove dinamiche sociali e economiche, proporre una
prospettiva a medio termine e un modello di società
alternativa a lungo termine
A monte dello stravolgimento della realtà, c’è la crisi di lunga durata del capitalismo. Alcuni economisti, tra cui l’ex Segretario al Tesoro statunitense Larry Summers, parlano di “crisi secolare”. Altri economisti paragonano la crisi attuale alla grande crisi ventennale che si sviluppò tra 1873 e 1895, dando luogo alla fase imperialista del capitalismo e alla competizione tra potenze che sfociò nella Prima guerra mondiale. La crisi attuale è iniziata con lo scoppio dei mutui subprime nel 2007 ed è proseguita come crisi del debito sovrano, ma non è specificatamente una crisi finanziaria. Quella finanziaria è solo la forma esteriore che assume. Il contenuto della crisi è la sovraccumulazione di capitale che ha raggiunto livelli assoluti e determina crescenti difficoltà nel mantenimento di adeguati saggi di profitto. Come in ogni grande crisi, anche in questa occasione il capitale sta generando una riorganizzazione profonda dei processi di produzione e di circolazione. Quelle che osserviamo ogni giorno ne sono le conseguenze più o meno dirette.
Le politiche di stampo neoliberista rappresentano un aspetto sicuramente cruciale della riorganizzazione generale del capitale, al quale, però, va aggiunta l’internazionalizzazione crescente dei processi produttivi, che segnano il passaggio dalla fase del capitalismo monopolistico di stato alla fase del capitalismo globalizzato.
Leggi tuttoLa decisione della Germania di aprire le frontiere per accogliere i rifugiati per poi richiuderle ha messo in discussione un caposaldo dell’Unione Europea. Ma ha provocato un allargamento politico dell’Europa. Ad entrare non sono Stati, ma uomini, donne e bambini
Mentre
i ministri dei ventotto paesi Ue non sono riusciti
a mettersi d’accordo sull’attuazione del piano di
ripartizione proposto dalla Commissione europea,
è senza dubbio arrivato il momento di
rendersi conto dell’entità dell’avvenimento storico a cui
deve far fronte la «comunità»
delle nazioni europee, e delle contraddizioni che questo
avvenimento ha messo in luce. Estendendo
a tutta l’Europa il pronostico che la Cancelliera Angela
Merkel ha formulato —
«questi avvenimenti cambieranno il nostro paese» —
bisogna dire: cambieranno l’Europa.
Ma in che senso? Non abbiamo ancora la risposta. Stiamo
entrando in una zona di fluttuazioni brutali, dove dovremo
dar prova di
lucidità e determinazione.
Quello che sta avvenendo è un allargamento dell’Unione
e della stessa costruzione europea. Ma,
a differenza dei precedenti allargamenti, questo
è imposto dagli avvenimenti nel
quadro di uno «stato d’emergenza» e non c’è unanimità. Più
che per gli
allargamenti del passato, quindi, andrà incontro
a difficoltà e provocherà
scontri politici. Soprattutto, questo allargamento
è paradossale, perché non
è territoriale ma demografico: ciò che «entra in Europa»
in questo momento non sono nuovi
stati, ma uomini, donne e bambini. Sono dei cittadini
europei virtuali. Questo allargamento,
essenzialemente umano, è anche morale: è un allargamento
della definizione di Europa,
dall’idea che ha di se stessa fino agli interessi che difende
e agli obiettivi che si pone. In sostanza è un
allargamento politico, destinato a «rivoluzionare»
i diritti e gli obblighi dei paesi
membri. Può fallire, ma allora la costruzione europea
stessa avrà poche possibilità di
resistere. Per questo motivo molti oggi in Europa parlano
di momento di verità. Leggi tutto
Negli ultimi decenni, la
contraddizione fra i
miliardi che circolano nel settore finanziario e la miseria
dei salari di chi ha ancora un lavoro non ha mai smesso di
aggravarsi. La maggioranza dei
sette miliardi di esseri umani del pianeta, rimane in
un'economia del centesimo; i residenti dei quartieri di
lamiera delle megalopoli di tutto il
mondo intravvedono a malapena il colore dei soldi e, in
seguito al collasso dell'economia locale, rimangono impigliati
nella rete barbara della
dipendenza personale postmoderna. Negli ultimi anni, le classi
medie dei paesi centrali hanno sperimentato la valorizzazione
fittizia degli attivi
finanziari e degli immobili, rispetto al lavoro (il cui
rendimento continua a cadere), con le banche costrette a
svolgere solo dei servizi
minimi per non lasciar fuori quella parte della popolazione
ancora solvibile.
L'abolizione volontaristica del denaro in una società di
produzione di merci può dare luogo solamente ad una burocrazia
totalitaria,
quale è stato il regime di Pol Pot negli ultimi dieci anni
dello scorso secolo. E l'emissione arbitraria di moneta dà
luogo ad
un'iperinflazione, come quella della repubblica di Weimar
negli anni 1920, o nei vari paesi latinoamericani negli anni
1980, o più recentemente
nello Zimbabwe, che ha finito per adottare il dollaro
americano, dopo un'immensa catastrofe sociale provocata dalla
svalorizzazione che ha portato
alla scomparsa della moneta locale. Leggi tutto
In una nota di qualche giorno fa sul mio profilo Facebook ho scritto di non capire l’esultanza con cui vari amici, più o meno collocabili nell’area della sinistra radicale (concetto sempre più vago) celebravano la vittoria di Tsipras. Per motivare le mie perplessità elencavo una serie di fatti:
1) è la vittoria di un governo che si è impegnato applicare senza se e senza ma le condizioni imposte dai creditori che (ricordiamolo) sono assai più dure di quelle che il 60% dei Greci aveva respinto con il referendum (convocato e successivamente ignorato da Tsipras);
2) è una vittoria accolta con sollievo dai media e dagli oligarchi europei come un segnale di stabilità e una garanzia dell’effettuazione delle “riforme”;
3) l’astensione ha sfiorato il 50%, per cui il 35% di Syriza vale un 20% scarso degli elettori e il partito ha perso 300.000 voti (non pochi in un piccolo paese);
4) dai sondaggi risulta che la maggioranza dei voti persi riguardano elettori giovani (il "Guardian" parla infatti di uno slittamento della base elettorale verso le classi medie e le fasce di età più elevate). Dov’è allora la vittoria?
Il post ha ottenuto molti gradimenti ma anche i commenti
risentiti dei true believers di Tsipras (con
argomentazioni che ricalcano quelle
dei partitini della sinistra radicale “ufficiale” e della
galassia di forze impegnate nella costruzione di una
formazione
socialdemocratica alternativa al centro renziano). Non ho la
presunzione di spiegare a costoro perché sbagliano, mi limito
a chiarire quali
sono le differenze di prospettiva che ci dividono. Leggi tutto
Il progetto di riduzione del capitale umano in eccedenza (ossia le persone in carne ed ossa) ha fatto un altro passo in avanti. Prima l'innalzamento dell'età pensionabile e adesso la riduzione drastica degli standard sanitari, non possono che produrre quell'abbassamento dell'aspettativa di vita che tante preoccupazioni suscita tra i tecnocrati del Fmi, dell'Ocse e dell'Unione Europea. Qualcosa lo avevamo intuito negli anni scorsi leggendo tra le righe documenti e ragionamenti che provenivano da quegli ambienti. Ma adesso quella che sembrava “fiction” sta diventando realtà.
Il governo, attraverso il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha calato le sue carte (o meglio i suoi tagli) sulle prestazione sanitarie. Le prestazioni che saranno soggette a restrizioni salgono da 180 a 208 e riguardano tra l’altro odontoiatria, radiologia, prestazioni di laboratorio e non solo. Clicca QUI per vedere l'elenco completo.
Il Ministero ha presentato ieri ai sindacati dei medici una lunga lista di prestazioni sotto la lente con annesso il parere del Consiglio Superiore di Sanità. Queste prestazioni, se ritenute non necessarie, saranno a pagamento da parte degli utenti, e se ritenute “inappropriate” prevederanno sanzioni contro i medici che le hanno prescritte.
I medici non ci stanno e criticano sia le sanzioni ( previste
dal Dl Enti locali) sia la limitazione della libertà di agire
in scienza e
coscienza. Entro venerdì verranno avanzate le contro proposte
medici, mentre per l’approvazione definitiva si dovrà
attendere la
conferenza Stato-Regioni. Leggi tutto
Guardare le cose
dalla ristretta visuale europea, o peggio ancora italiana,
impedisce di cogliere le dinamiche globali, nascondendo
molto di quel che avviene - di
vitale - sul piano macro.
Questa intervista con Joseph Halevi, docente di economia all'università di Sidney fin dal 1978, consente invece di guardare al mondo da un angolo visuale diametralmente opposto. Spiazzando molte delle visioni consolatorie che girano nel dibattito pubblico, italiano e non. Una visione marxista nei fondamenti teorici, ma soprattutto una "analisi concreta della situazione concreta" che non concede nulla alla falsa coscienza.
Buona lettura.
*****
Proviamo a ragionare sulla partita crescita dopo che per sette anni si era retta – livello globale – soltanto sulla Cina e i paesi emergenti. E invece esplode il caso cinese...
La crescita cinese e quella dei paesi emergenti non sono
compatibili, nel senso che era la Cina a trainare la loro
crescita. Io non vedrei la Cina
come un paese “emergente”. E' un paese con un processo di
accumulazione di tipo capitalistico-statalista, con le
multinazionali, ecc. Se
prendiamo ad esempio l'Argentina, non è mica detto che dopo la
crisi del 2001 potesse recuperare davvero. Certo, riducendo o
non pagando il
debito, ha ammorbidito o attenuato di molto gli effetti
sociali. Leggi tutto
Che cosa è un pensiero?
Di che cosa
è fatto? Qual è il suo luogo d’esistenza? Parrebbe una domanda
semplice, eppure diverse scuole filosofiche hanno dato e
continuano
a dare risposte completamente diverse a questo quesito. Uno
scienziato cognitivo risponderebbe che un pensiero è fatto da
un insieme di
processi neurofisiologici che avvengono nel nostro cervello.
Un filosofo platonico direbbe invece che le forme del nostro
pensare hanno una
realtà indipendente e autonoma dalla storicità del nostro
mondo. A partire dalla svolta kantiana – ovvero a partire da
un momento
nella storia dove la filosofia è diventata ricerca delle forme
a priori della conoscenza umana – il pensiero è diventato in
primo
luogo l’attività di un essere umano. Da allora un pensiero è
sempre un pensiero di qualcuno; è sempre un
pensiero
messo in atto da parte di un essere umano. È questa
la celebre tesi del capitolo IX de Le parole e le cose di
Michel
Foucault: tutta la filosofia post-kantiana non è nient’altro
che un’antropologia trascendentale. La filosofia non parla più
del pensiero in sé, parla del pensiero dell’uomo. A
partire dall’Ottocento ma poi ancora più compiutamente nel
Novecento, l’orizzonte imprescindibile dell’atto di pensare è
diventato quello della centralità dell’uomo (e infatti
tutte le scienze per Foucault non possono che essere nel
profondo scienze dell’uomo). Dunque che ne è del
terreno più
propriamente speculativo? Nulla, è semplicemente finito. Per
le filosofie post-kantiane il pensiero non può che essere un
correlato
della mente finita dell’uomo.
Questa centralità imprescindibile della finitudine
umana è diventato uno degli aspetti più raramente messi in
discussione nelle filosofie del Novecento: dalla fenomenologia
di Heidegger o di Merleau-Ponty, fino all’esistenzialismo di
Sartre; da tutte le
correnti del neokantismo fino all’inferenzialismo di Sellars o
di Brandom, tutti sono d’accordo sul fatto che il pensiero, e
dunque la
filosofia, non possa esistere senza il supporto dell’uomo. Sta
qui l’originalità di un pensatore atipico come Gilles Deleuze
che
invece ha sempre rivendicato la propria più assoluta
estraneità a tutto quel lessico e quella fascinazione per la
finitudine, la
negatività e la caducità che invece sembrano avere dominato
ogni forma di pensiero debole e di nichilismo del Novecento. Leggi tutto
L’economista Emiliano Brancaccio commenta le elezioni in Grecia e la nascita del secondo governo di Syriza. «Quelli del memorandum sono obiettivi insostenibili», dice, e punta il dito sulle privatizzazioni: «Aggraveranno la deflazione e ne guadagneranno solo gli acquirenti. Occorre prepararsi a nuove crisi e all’eventualità di uscita dall’eurozona»
«Il nuovo esecutivo farebbe bene a prepararsi comunque all’eventualità di un’uscita dall’euro». Ottimista non è, la conclusione di Emiliano Brancaccio, economista dell’Università del Sannio. Lui però dice di applicare solo logica ed esperienza: «Syriza può mitigare alcune misure, ma la direzione che seguirà il parlamento greco – svuotato di ogni potere – è stata decisa altrove, a Bruxelles, ed è la solita: austerity e attacco ai salari. La conseguenza è che gli obiettivi di bilancio risulteranno insostenibili». Il problema, allora, è capire come attrezzarsi, e se arriverà «un finanziatore estero» capace di sostenere il Paese in caso di uscita dall’Euro. Ma andiamo con ordine.
Alexis Tsipras vince le elezioni e continua nel suo obiettivo dichiarato: governare da sinistra il memorandum siglato con le autorità europee. È un’impresa possibile?
«Temo di no. Tsipras ha compiuto un capolavoro tattico che ha
sbaragliato il dissenso interno, ma controllerà un parlamento
che
è stato ancor più svuotato delle sue funzioni. Il memorandum
imposto dai creditori stabilisce fin nei minimi dettagli
l’agenda
politica alla quale la Grecia dovrà attenersi: dal taglio
ulteriore della spesa pensionistica, all’aumento delle tasse
in caso di
sforamento degli obiettivi di bilancio, fino all’ulteriore
indebolimento della contrattazione collettiva. Leggi tutto
Per carità, va bene tutto.
Va bene, ad esempio, che se la maggioranza delle persone non si interessa di automobili – dato che non è un obbligo e forse non è nemmeno particolarmente interessante – e legge nei titoli dei giornali “Scandalo Volkswagen” finisca per crederci, crollino i titoli in borsa, guaiscano i cani e le balie perdano il latte.
Va benissimo.
Quello che non va bene è che un giornale lo faccia, un titolo così.
Perché non va bene?
Non va bene perché, si suppone, un giornale dovrebbe occuparsi di informare i lettori, se invece si occupa di proporre le stesse cose che, come diceva bene un amico questa mattina su Facebook, si sentirebbero da un pensionato avvinazzato la mattina al bar, tanto varrebbe non comprarlo questo giornale, giusto?
Facciamo le cose bene, partiamo dall’inizio.
Il gruppo Volkswagen AG è proprietaria dei marchi Volkswagen, Audi, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini (Lamborghini in realtà è di proprietà Audi ma Audi è al 99% di Volkswagen e comunque no, non è più italiana da un pezzo) Porsche e Ducati.
Nel settore autotrasporti è poi proprietaria di Scania e Man.
Quando si parla di Volkswagen, insomma, si parla
della stragrande maggioranza di automobili prodotte da case
europee e vendute nel
mondo. Leggi tutto
Vorrei parlarvi non della lettura e dei rischi che essa comporta, ma di un rischio che è ancora piú a monte, cioè della difficoltà o dell’impossibilità di leggere; vorrei provare a parlarvi non della lettura, ma dell’illeggibilità.
Ciascuno di voi avrà fatto esperienza di quei momenti in cui vorremmo leggere, ma non ci riusciamo, in cui ci ostiniamo a sfogliare le pagine di un libro, ma esso ci cade letteralmente dalle mani. Nei trattati sulla vita dei monaci, questo era anzi il rischio per eccellenza cui il monaco soccombeva: l’accidia, il demone meridiano, la tentazione piú terribile che minaccia gli homines religiosi si manifesta innanzitutto nell’impossibilità di leggere. Ecco la descrizione che ne dà san Nilo:
Quando il monaco accidioso prova a leggere, s’interrompe inquieto e, un minuto dopo, scivola nel sonno; si sfrega la faccia con le mani, distende le dita e va avanti a leggere per qualche riga, ribalbettando la fine di ogni parola che legge; e, intanto, si riempie la testa con calcoli oziosi, conta il numero delle pagine che gli rimangono da leggere e i fogli dei quaderni e gli vengono in odio le lettere e le belle miniature che ha davanti agli occhi finché, da ultimo, richiude il libro e lo usa come un cuscino per la sua testa, cadendo in un sonno breve e profondo.
La salute dell’anima coincide qui con la leggibilità del
libro (che è anche, per il Medioevo, il libro del mondo), il
peccato
con l’impossibilità di leggere, col diventare illeggibile
del mondo. Simone Weil parlava, in questo senso, di una
lettura del mondo e di
una non lettura, di un’opacità che resiste a ogni
interpretazione e ogni ermeneutica. Vorrei suggerirvi di
fare attenzione ai vostri
momenti di non lettura e di opacità, quando il libro del
mondo vi cade dalle mani, perché l’impossibilità di leggere
vi
riguarda quanto la lettura ed è forse altrettanto e più
istruttiva di questa. Leggi tutto
Il voto dei cittadini conta sempre di meno, i margini di manovra dei governi eletti - quando sono davvero eletti - sono sempre più ridotti. La logica dell'"autoritarismo emergenziale" fa il resto. Un vizio che, secondo il sociologo, ha origine negli anni Ottanta e nell'avvento del neoliberismo. Così le riforme volute dal presidente del consiglio "rispetto alla gravità della crisi si collocano tra il dramma e la barzelletta". Come venirne fuori? "Affancando all'euro una moneta parallela. A meno che non sia la Gemania a buttarci fuori"
“La
società in realtà non esiste: ci sono uomini e donne, e le
famiglie”, spiegava Margaret
Thatcher nel lontano 1980. L’inizio della fine
della democrazia che l’Europa sta vivendo nel 2015,
l’annus horribilis in
cui Banca centrale Europea e Fmi
piegano il volere di cittadini e governo greco, è lì.
All’origine dell’applicazione pratica delle politiche
neoliberiste, sostiene il sociologo Luciano
Gallino. Fosse stato
per la Scuola di Chicago di Milton Friedman,
i Chicago Boys, i pensatori che costruirono l’impero
teorizzando che il mercato si
regola da solo, e che meno stato nell’economia meglio è,
si sarebbe già potuto iniziare nei primi anni Settanta.
Giusto il tempo
degli ultimi fuochi keynesiani dei “Trente Glorieuses”
(1945-75), quelli della ripresa economica improntata sul
risparmio e sul welfare,
sulle istituzioni statali indipendenti e sovrane rispetto
ai fondi monetari, alle banche mondiali, alla rapacissima
finanza. Il big bang lo fa
deflagrare quella signora dalla permanente un po’ blasé,
assieme all’ex attore hollywoodiano Ronald Reagan,
che
cominciano ad asfaltare sindacati e sindacalizzati, a
cancellare il sistema di welfare a protezione delle fasce
più deboli. Le tornate
elettorali cominciano a diventare un optional. Governi
conservatori o progressisti, europei o statunitensi,
agiscono tutti verso la stessa direzione:
smantellare lo stato sociale e privatizzare i servizi
pubblici. Tanto ci pensa il mercato.
“Il potere economico nella forma che conosciamo si chiama capitalismo e per un certo periodo nel dopoguerra al capitalismo sfrenato si è potuto opporre qualche ostacolo favorendo prima di tutto la crescita economica e sociale di lavoratori e ceti medi”, spiega Gallino, ordinario di sociologia all’Università di Torino dal ’71 al 2002, e autore di un volume sul tema intitolato “Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa” (Einaudi).
Leggi tuttoLe vicende delle
ultime settimane con
l’esplodere dei flussi migratori dalla Siria, che si
aggiungono a quelli dall’Afganistan, Irak, Palestina e
dall’Africa sub
sahariana, in particolare da Eritrea, Somalia, Nigeria e
altri paesi, impongono la necessità di un’analisi che si
emancipi dalla penosa
discussione politica nazionale (e internazionale) orientata
dalla disinformazione di massa operata dalle centrali
mediatiche. L’obiettivo di
questa narrazione è che l’opinione pubblica occidentale si
strutturi tra xenofobi e compassionevoli.
E che non sia prevista una lettura alternativa che individui responsabilità, prospettive, vantaggi e svantaggi oggettivi per i paesi da cui si parte e in cui si arriva e per la condizione soggettiva delle masse di persone che si muovono nel loro duro percorso di inserimento nei nuovi contesti; questioni che non saranno superata in sé, con una modifica degli accordi di Dublino sull’asilo e con la distribuzione dei profughi tra i 28 paesi UE: questa è una questione importante, ma di breve termine, riguarda l’emergenza, ma non la risolve nei suoi tempi lunghi, che, come ammonisce quel grande pianificatore storico di catastrofi che è il Pentagono, dureranno almeno 20 anni.
Un’altra distinzione interessante che serve alla
strutturazione del depistaggio culturale in corso è quella
tra profughi e migranti
economici, cioè alla ricerca di lavoro o di condizioni di
vita minimamente dignitosi. E’ una distinzione che fa
riferimento a un diritto
internazionale che contempla il diritto ad essere accolti
allorchè si provenga da paesi con regimi totalitari o da
contesti di conflitti e di
guerra, ma non ncesariamente se si proviene da situazioni di
desertificazione sociale ed economica indotte dagli attuali
modelli di globalizzazione e
di sviluppo fondati sul supersfruttamento dei territori. Leggi tutto
Ho come
l’impressione che siamo entrati in una seconda crisi della
regione Europa e sento la necessità di adottare un approccio
indiziario per osservare la direzione che possiamo o
dobbiamo intraprendere, allo stesso modo di come il
cacciatore osserva la piuma d’uccello
sul cespuglio per capire da che parte andare. Ad agosto mi
sembra sia successo qualcosa che abbia a che fare con la
fine di un ciclo: mi sembra che la
crisi cinese dichiari la fine di quella forma che il
capitalismo ha assunto negli ultimi trent’anni e che è stata
definita impero, dove
la colonizzazione della concorrenza, del mercato e della
finanziarizzazione ha dispiegato dei confini senza un oltre,
senza un fuori. Il lavoro di
Michael Hardt e Toni Negri ha sottolineato la
materializzazione di questa ragione imperiale che la crisi
cinese sembra segni la fine dei suoi
equilibri geopolitici, economici e finanziari.
La Cina, dopo forti investimenti nel settore immobiliare e dell’export – che hanno giovato non poco all’occidente in questi anni – e politiche espansive che hanno spinto verso la finanziarizzazione, da quanto si riesce a intuire vive una forte riduzione della crescita e delle esportazioni. Proprio per far fronte a questa situazione, il 12 agosto 2015 il renminbi è stato svalutato (un gesto salutato positivamente dal Fmi, considerato il primo passo per far entrare questa valuta nel novero dei diritti speciali di prelievo) e, per contenere questa svalutazione, gli stessi cinesi hanno venduto qualcosa come cento miliardi di buoni del tesoro americani. Ecco la piuma dell’uccello, ecco l’indizio.
Il flusso di risparmio dal Giappone e dalla Germania verso
gli US negli anni Settanta, a cui è subentrata la Cina, ha
permesso agli Stati
Uniti di sviluppare forme di post-industrializzazione
attraverso la finanziarizzazione e, allo stesso tempo, ha
reso possibile a questi paesi di
concentrarsi sulla crescita economica e una produzione
orientata all’esportazione. Leggi tutto
Da La Repubblica, 22 settembre 2015
L’ITALIA ha due buoni motivi per uscire dall’euro, un tema di cui si parla ormai in tutta Europa (Germania compresa). Il primo è che, sovrapponendosi alle debolezze strutturali della nostra economia, l’euro si è rivelato una camicia di forza idonea solo a comprimere i salari, peggiorare le condizioni di lavoro, tagliare la spesa per la protezione sociale, soffocare la ricerca, gli investimenti e l’innovazione tecnologica e, alla fine, rendere impossibile qualsiasi politica progressista.
Risultato: otto anni di recessione, che hanno provocato la perdita di quasi 300 miliardi di Pil al 2014 rispetto alle previsioni del 2007; 25% di produzione industriale in meno, un mercato del lavoro di cui è difficile dire quale sia l’aspetto peggiore fra tre milioni di disoccupati, tre-quattro di precari e due o tre di occupati in nero. Grazie ai quali l’Italia detiene il primato dell’economia sommersa tra i Paesi sviluppati, pari al 27% del Pil e circa 200 miliardi di redditi non dichiarati. I costi economici e sociali dell’euro superano i vantaggi.
Il secondo motivo per uscire dall’euro è l’eccessivo
ammontare del debito pubblico, il che rende di fatto
impossibile per
l’Italia far fronte agli oneri previsti dal cosiddetto
Fiscal compact e a una delle clausole fondamentali
dell’Unione economica e
monetaria. Il Fiscal compact prevede infatti che in
vent’anni dal 2016 il rapporto debito/ Pil, che si aggira
oggi sul 138%, dovrebbe scendere
al 60, limite obbligatorio per far parte dell’eurozona. In
tale periodo detto rapporto dovrebbe quindi scendere di 78
punti, cioè 3,9
l’anno. In termini assoluti si dovrebbe passare dal rapporto
2200/1580 miliardi di oggi a 948/1580 nel 2035 (da
convertire nel rispettivo valore
del ventesimo anno). Leggi tutto
Come e perché redistribuire l’immensa quantità di denaro della Bce. La proposta per l’agenda politica della sinistra
La Fed ha deciso di rinviare la fine della pratica del
rinviare, cioè quella che Wolfang Streeck descrive come la
logica
del «prendere tempo comprandolo con l’aiuto del denaro»
per allontanare i problemi. La scelta di
perdurare con il denaro a costo zero, però, costituisce
solo un rinvio verso una nuova e più
delicata fase, in cui probabilmente aumenterà il
livello di conflittualità non solo
commerciale di un’economia mondiale che, con il suo
elevato tasso di interdipendenza, comincia
a scricchiolare da più parti. L’espansione della funzione
della moneta a debito di questi anni
comincia a creare scompensi globali. Sul «Sole 24 Ore» in
queste settimane Donato Masciandaro ha
ripetutamente denunciato come la Fed non stia
applicando una «regola monetaria», cioè una
strategia da annunciare ex ante e su cui rendere conto
ex post. La mancanza di regole, a suo dire, potrebbe essere
giustificata in tempi straordinari, ma il suo
protrarsi ostacola il ritorno alla normalità. Quello
che chiede, dunque, è un esplicito giudizio della Fed
sulla fase in cui siamo (stagnazione secolare
o ripresa?) e delle scelte definite intorno a dinamiche
interne (gli incontrovertibili tassi di
disoccupazione e inflazione). Un vecchio adagio di chi
considera l’economia scienza esatta
e che rimuove la logica che guida le scelte della Fed, cioè
quella di considerare gli effetti delle proprie
decisioni su scala nazionale coniugati con quelli
internazionali. Il dollaro, infatti, costituisce
ancora
la moneta di riserva mondiale e le ripercussioni vanno
dal locale al globale e viceversa. Leggi tutto
“Più tutele in cambio di produttività. Benvenuti nella società post-sindacale”: così titola un articolo di Dario Di Vico che occupa l’intera pagina 25 del “Corriere della Sera” del 27 settembre. Titolo che coglie il succo di quello che non esiterei a definire un vero e proprio manifesto programmatico della borghesia italiana nell’era ordoliberista. Leggendolo è infatti difficile non rendersi conto come questo articolo vada al di là dell’obiettivo che il capitalismo italiano, sulle tracce di quello mondiale, persegue dagli anni 80 del secolo scorso, vale a dire il drastico indebolimento del sindacato e il conseguente abbattimento della capacità contrattuale delle classi lavoratrici: qui si mira all’eliminazione totale del sindacato.
Di Vico spiega perché è oggi possibile realizzare un
obiettivo tanto ambizioso: “a condurre il sindacato verso
l’irrilevanza è un’erosione combinata nella capacità di
leggere il mutamento, nell’autorevolezza e nella
rappresentatività”. Altrove sottolinea che gli iscritti sotto
i quarant’anni sono oggi solo il 27%. Ecco perché, aggiunge,
“se una volta il governo delle relazioni industriali era
appannaggio della coppia imprese-sindacati, ora gli
industriali cominciano a pensare
che sia possibile (o doveroso) far da soli”. Così nasce
l’iniziativa di un “welfare aziendale” (traduzione: di una
serie di concessioni paternalistiche che dimostrino
l’inutilità del welfare sociale e l’opportunità di sgravare la
spesa
pubblica del suo peso); così l’azienda di domani (“una
comunità che deve obbedire al mercato”) si prepara a
“costruire una società più giusta con meno sindacato”. Leggi tutto
Se e quando
il flusso migratorio verso l’Europa finirà o
almeno si normalizzerà, si potrà valutare meglio la maggiore o
minore eccezionalità del fenomeno che è dilagato negli
ultimi mesi e soprattutto nelle ultime settimane. La storia
registra processi migratori che hanno di fatto cambiato il
mondo plasmando e riplasmando
la geografia e la demografia dei continenti. Le Americhe,
l’Australia, il Sud Africa ma anche la Turchia e Israele sono
il prodotto di
spostamenti massicci di popolazioni. Non sempre i nuovi
insediamenti sono avvenuti nel vuoto. Le terre senza popolo
per popoli senza terra sono
più spesso una pia illusione o una pura e semplice ipocrisia
per nascondere travasi o sostituzioni di massa con la forza.
L’ultimo
spostamento di milioni di persone in Europa è avvenuto a
seguito della Seconda guerra mondiale come effetto dello
slittamento verso ovest dei
confini e della reazione alla “sovietizzazione”. La normativa
internazionale sul diritto d’asilo ha avuto come spunto
contingente
proprio gli eventi in Europa degli anni quaranta.
Se si sta ai numeri, i profughi che approdano in Europa sono
una quota minima rispetto ai profughi che si muovono
all’interno delle stesse
aree che soffrono le conseguenze di guerre, carestie, calamità
naturali, persecuzioni e regimi autoritari. Leggi tutto
Anche
quest'anno
oltre 200 mila persone hanno partecipato al Festival Filosofia
aperto all'insegna del tema ereditare. Oltre 200 appuntamenti
fra lezioni magistrali,
mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche, si sono
sviluppate tra le piazze di Modena, Carpi, Sassuolo, occupate
da numerosissimi studenti e
adulti di ogni età. Tutti attenti ad ascoltare il verbo in
riflessiva meditazione. Tra i suoi protagonisti filosofi non
poteva mancare, come
ormai da diversi anni, Zygmunt Bauman che ha deciso di
presentare una lezione magistrale su Educazione Globale
soffermandosi più precisamente
sulle origini dei Confini e sulla loro ereditarietà.
Ovviamente una scelta voluta con uno specifico obiettivo:
collocare l'innaturale
migrazione verso l'Europa, causato dalle guerre, alle origini
della paura che questo stesso flusso immigratorio incute.
Bauman percorre un interessate cammino storico intellettuale, cercando di non tralasciare nulla, conducendoci verso ciò che oggi siamo.
La questione dei confini, la loro nascita e il motivo della loro creazione, sono per Bauman il punto da cui cominciare. Un legame con il passato che ci può aiutare a comprendere le radici culturali della necessità di rivendicare un confine, istituito a partire del 1648 a seguito dell'accordo di pace di Vestfalia, che pose fine alla cosiddetta guerra dei trent'anni, iniziata nel 1618, e alla guerra degli ottant'anni, tra la Spagna e le Province Unite.
“In pratica – riassume Bauman brevemente - si è riusciti ad arrivare ad un periodo apparentemente di pace, solo grazie ad una separazione”.
Un fatto non di poco conto.
Leggi tuttoBisogna cominciare a guardare la luna e non il dito che la indica: la vicenda Volkwagen più che i trucchi sulle emissioni denuncia quelli messi in atto da una governance che da una parte finge attenzione e cura per l’ambiente per accreditarsi come responsabile, dall’altra strizza gli occhi ai potentati dell’auto in crisi di sovrapproduzione, inventando meccanismi di riduzione progressiva fatti apposta per essere di stimolo alle vendite e facilmente aggirabili. Una ipocrisia globale ben conosciuta, ma che è stata “denunciata” solo grazie a una guerra fra multinazionali per mercati meno brillanti del passato e per giunta, almeno negli Usa, sempre più aggredito dalle vendite subprime.
L’Icct, l’organizzazione indipendente che più di un anno fa
ha scoperto lo stratagemma di Vw per far apparire le emissioni
sempre dentro i limiti e che poi stranamente non ha provato
altri tipi di auto, ora sostiene che nel mercato
automobilistico il gap tra i valori
ufficiali e la realtà è andato crescendo dall’8% del 2001 al
40% del 2014 il che in pratica riduce i progressi reali a poco
più di zero: un peccato che l Icct non lo abbia detto prima e
che si sia dedicata a sputtanare soltanto la casa di
Wolfsburg. Ma non
c’è bisogno di alcuna prova ufficiale per capire che il
meccanismo è truccato in sé: com’è possibile
pretendere che un Suv da due tonnellate e con al minimo 200
cavalli abbia emissioni pari a quelli un’utilitaria? E’
tecnicamente
impossibile, ma lo si è fatta diventare una realtà ufficiale
in quasi tutti i Paesi attraverso prove di omologazione che
consistono in
venti minuti sui rulli: per 780 secondi viene misurato il
consumo nel percorso urbano, per 400 secondi quello di un
viaggio extraurbano, per un
tempo massimo di 10 secondi, infine, si raggiunge la velocità
di 120 chilometri orari, nemmeno il massimo stabilito dal
codice in numerosi
Paesi. Leggi tutto
Il 17 settembre scorso le Nazioni Unite hanno ufficializzato la nomina dell’ambasciatore saudita all’Onu, Faisal bin Hassan Trad, come presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il Consiglio in questione, come suggerisce il suo stesso nome, dovrebbe occuparsi di rilevare casi internazionali di gravi violazioni dei diritti umani per poi sottoporli all’Assemblea Generale dell’Onu. Il fatto che a capo di questo organismo sia stato eletto il rappresentante diplomatico di una monarchia assoluta, teocratica e oscurantista quale l’Arabia Saudita non sembra aver causato particolare sdegno fra le fila dei cosiddetti stati democratici (da identificarsi ovviamente con gli Stati Uniti e l’Unione Europea) , nonostante l’opinione pubblica sia stata abituata, negli ultimi venticinque anni, a vedere in questa “comunità internazionale” il più grande baluardo dei diritti umani e della democrazia in tutto il mondo. Non è comunque difficile capire il perché del silenzio da parte del mondo “libero” capitalistico: l’Arabia Saudita, gioiello delle petro-monarchie del Golfo, da decenni dipende dalla rendita esterna per l’esportazione di petrolio in Occidente e da altrettanto tempo è, assieme a Israele, uno degli avamposti più importanti dell’imperialismo statunitense in Medio Oriente. Le relazioni fra Washington e Riyad si sono intensificate negli anni ’70, in particolar modo dopo la crisi petrolifera del 1973, e già l’amministrazione Nixon iniziò a aumentare le forniture di armi e consiglieri militari statunitensi all’Arabia Saudita, la quale si impegnò a sua volta a mantenere il prezzo del greggio favorevole agli interessi della Casa Bianca e ad influenzare in tal senso anche gli altri membri dell’Opec.
Leggi tuttoLo “sfruttamento” è proprio non già di una società corrotta o imperfetta e primitiva, ma appartiene all'essenza del vivente come funzione organica fondamentale; è una conseguenza della vera e propria volontà di potenza, che è la volontà stessa della vita. (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male)
Il discorso
del
generale cinese Qiao Liang, pronunciato di recente presso
l'Università della Difesa di Pechino e riportato nel n.7 della
rivista Limes1,
offre l'occasione per dare uno sguardo dentro le “visioni
del mondo” delle classi dominanti
contemporanee. Capire cosa pensano, cosa anima le loro
strategie, in che modo organizzano i
conflitti che, ogni giorno che passa, con sempre maggior
forza delineano gli scenari della politica internazionale, è
qualcosa di più
che un semplice vezzo intellettuale. Sappiamo da tempo che
ogni Weltanschauung ha
ricadute materiali e
oggettive non meno reali dei “fatti” anzi, a ben vedere,
sono proprio le visioni del mondo e le idee forza che esse
veicolano a dare senso
e significato ai fatti. Se così non fosse ben difficilmente
diventerebbe comprensibile, ad esempio, la partita mortale
che intorno alla Storia
e alla sua narrazione/interpretazione si gioca. Al contempo
altrettanto inspiegabile sarebbero la quantità di risorse ed
energie dedicate dalle
intelligenze delle classi dominanti a ordinare il mondo e il
corso delle cose in un certo modo piuttosto che in un altro.
Per ricordare quanto grande sia il peso delle parole può essere utile riportare alla mente la famosa asserzione di Margaret Thatcher: “La società non esiste”. Lì per lì poteva sembrare come una boutade dal sapore vagamente dadaista ma, ben presto, tutti dovettero riconoscere come, in una semplice battuta, fosse racchiusa tutta la Weltanschauungdi un intera fase storica. Certo tutto ciò che forma la società non cessava ovviamente di esistere solo perché Thatcher ne aveva decretato l'estinzione ma, ed è questo il punto, attraverso quella sorta di aforisma venivaarchiviato un intero modello politico che, a partire dal riconoscimento della “questione sociale”, aveva influenzato complessivamente il modo politico di gestire e amministrare la vita degli individui.
Leggi tuttoSarà la
coincidenza del mese, ma molti commenti sui risultati
dell'ultima elezione in Grecia mi hanno fatto scattare
un'associazione con
l'originale lezione che Enrico Berlinguer trasse dalla
tragedia del golpe cileno. Ragionando a partire dal colpo di
Stato in Cile, tra settembre e
ottobre del 1973 il segretario del Pci mise a punto la linea
del «compromesso storico», in effetti già delineata da un anno
a
quella parte e che altro non era se non una versione
aggiornata della strategia togliattiana dell'«avanzata
dell'Italia verso il socialismo
nella democrazia e nella pace». Come è noto, la lezione che
Berlinguer traeva dalla terribile tragedia cilena consisteva
nella asserita
necessità, per i comunisti italiani, di giungere a un «nuovo
grande "compromesso storico" tra le forze che raccolgono e
rappresentano la
grande maggioranza del popolo italiano». Non si trattava,
dunque, di alimentare e concentrare le possibilità di
radicalizzazione politica
ancora esistenti nella società italiana, ma di piegare la
forza contrattuale del movimento operaio all'alleanza con la
piccola e media
borghesia e con il padronato; non si trattava di colpire la
Democrazia cristiana, allora nel momento di massima crisi, ma
di riabilitarla come
«forza popolare» costituzionale e con essa collaborare
strettamente.
Implicitamente, Berlinguer affermava che per la «via democratica al socialismo» non era sufficiente, in termini istituzionali, neanche conseguire il 51% dei suffragi.
La tragedia cilena costituiva una conferma, di portata
mondiale, dei limiti insuperabili della via elettorale e
parlamentare al socialismo; eppure
Berlinguer ne trasse la lezione opposta, rovesciando le
ragioni che avevano permesso la riuscita del golpe, viste non
nel moderatismo di Unidad
Popular e nell'illusione di Allende della fedeltà alla
Costituzione di Pinochet e dei militari, ma in un eccesso di
radicalità, nella
frattura con un partito «popolare» come la Democrazia
cristiana. Leggi tutto
Quando nell’aprile del 2013 Letta nominò Beatrice Lorenzin ministro della salute non c’era da farsi illusioni: chiamare a dirigere un settore così delicato una incompetente a 360 gradi, una salottiera fancazzista della corte di Silvio che nemmeno era riuscita a prendersi uno straccetto di laurea, denunciava l’intenzione di affossare la sanità pubblica. E non a caso la Lorenzin è l’unico personaggio riconfermato da Renzi al medesimo incarico.
Le opinioni sempre sul filo reazionario espresse più volte dal ministro sono il meno, quello che conta, che ne fa uno strumento prezioso è che non abbia gli strumenti per rendersi minimamente conto di quello che firma, che sia totalmente in balia di qualsiasi piano le venga presentato, magari formulato nelle sue direttive generali a migliaia di chilometri di distanza: visto e firmato. Le turbolenze degli ultimi due anni hanno forse rinviato l’applicazione di un devastante piano di tagli che se non tocca per nulla gli sprechi, la natura di bancomat della politica che la sanità ha assunto da qualche decennio e in particolare dalla sua regionalizzazione, mutila invece pesantemente il diritto alla salute dei cittadini costringendolo a rischiare o a rivolgersi a strutture private. Ma alla fine è arrivato, dimostrando che anche la Lorenzin ha un senso, ovvero la sua ragion sufficiente come direbbe Leibniz.
Dopo trent’anni di filosofia della prevenzione presentata
come chiave di volta per la salute, si cambia registro e tutto
questo viene presentato come “inappropriato”: è stata stilata
una lista di 208 prestazioni ritenute inutili che vanno dalla
radiologia, alla diagnostica, dalla medicina nucleare alla
dermatologia, dagli esami di laboratorio all’odontoiatria (di
fatto cancellata)
e via dicendo. L’elenco e i relativi link li potete trovare qui, ma
è chiarissimo che
tutti i cittadini dovranno sopperire di tasca propria a
prestazioni che ormai non vengono più fornite, ma che sono
entrate con gli anni nella
logica di vita delle persone e nella pratica medica. Leggi tutto
Vorrei pubblicamente ringraziare Jeremy Corbyn per il servizio reso alla politica e all’informazione. No, non alla politica e all’informazione britanniche (questo si vedrà) ma a quelle di casa nostra. Grazie per aver rivelato ancora una volta come tutto quanto – ma proprio tutto, dallo sbarco sulla luna e pure prima – venga distorto e reso caricatura se visto da qui, provincialissima provincia, periferia dell’impero.
Le ironie sul “papa straniero” sono già state fatte, ogni volta identiche. C’è una sinistra culturalmente ostaggio di un centro-centro-centro-sinistra che ogni volta si innamora perdutamente di chiunque sappia fare la sinistra meglio di lei. E prima Zapatero, e poi Tsipras, e ora Corbyn. e così via, forse aspettando un leader socialista in Kamchatka o alle isole Fiji, in modo che il pellegrinaggio sia più esotico e avventuroso. E vabbé. E poi ci sono tutti gli altri: grandi giornali e leader moderati, renzisti di prima, seconda, terza generazione, Blairisti rinati del Settimo Giorno, e tutto il resto. Va da sé che mister Corbyn non c’entra niente, è solo un detonatore. E’ come se, incapace di affrontare in modo autonomo il dibattito ideologico (uh, parolaccia!) tra le varie sinistre possibili, ci si aggrappi a chi, ovunque nel mondo, quel dibattito lo pratica nei fatti.
Una grossa mano, a mister Corbyn, l’ha data Tony Blair,
certo. La sua dichiarazione agli iscritti del Labour (“Anche
se mi odiate non
votate per lui”) è stata una specie di benedizione: ai
laburisti inglesi sta talmente sulle palle Blair per come li
ha snaturati che
avrebbero votato chiunque pur di seppellire una volta per
tutte il suo fantasma cinico e traffichino. Qui da noi, invece
– l’unico angolo
del mondo in cui c’è gente che si dice ancora blairista (che è
un po’ come dirsi Borbone, o filo-uno) – è
partita la sistematica distruzione del personaggio Corbyn. Leggi tutto
«SYRIZA è stata normalizzata, addomesticata e trasformata nella mano sinistra del capitalismo globale, di cui la troika è il braccio politico»
«La Grecia è ora un paese normale. Le elezioni sono state normali. La campagna è stata normale, senza interferenze esterne; le poche, favorevoli. Il clima politico, normale, un miscuglio contraddittorio tra rassegnazione e "non poteva essere". L'astensione, normale, cioè, è in crescita e molto, non è buono per la politica susciti passioni — i populismo terribili, così dannosi per la stabilità—, la politica dov’essere essere ragionevolmente sorda e distante. Non c'è stato alcuna polarizzazione reale, solo lotta per l’alternanza tra la buona destra e, adesso, la buona sinistra. I media hanno fatto il loro gioco ordinario, pendendo a destra, ma sapendo —vedi i sondaggi— che Tsipras avrebbe potuto vincere, il tutto tuttavia mantenendo un basso profilo, ostentando una certa neutralità. Tutto normale, la Grecia, grazie a Tsipras, è stata normalizzata ed i greci hanno accettato la sconfitta come inevitabile, almeno per ora.
Cosa è stato eletto veramente eletti in queste elezioni? Chi
e come dovrà gestire il programma della troika, perché di
questo
si trattava e di questo si tratta. Gli uomini neri da tempo
sono tornati in Grecia avendo accesso diretto alle statistiche
pubbliche. Come veri e
propri commissari politici quelli della troika, discuteranno
con i funzionari greci, ogni punto, ogni legge, ogni decreto
amministrativo, ogni
risoluzione. La Grecia normalizzata, addomesticata, applicherà
adesso, democraticamente legittimato, il programma imposto dai
nemici del popolo
greco. Leggi tutto
Ridiventare
comunisti, rompere con le formazioni attuali e unirsi in
una nuova organizzazione, espandersi oltre la sinistra.
Queste sono le tre cose da fare,
senza le quali i problemi dell’unità popolare,
dell’autonomia nazionale, della riappropriazione pubblica
delle grandi imprese
(problemi ineludibili per chiunque voglia divenire davvero
egemone nel paese), saranno posti e risolti da altri,
magari simili al fascismo, magari
populisti, o magari nazional-democratici. O forse non
saranno affrontati da nessuno: ed il paese scivolerà ancor
più velocemente verso
il degrado economico e civile con l’attiva complicità dei
comunisti, incapaci di situarsi all’altezza del proprio
nome e delle
proprie migliori intuizioni.
Per provare a svegliare i comunisti dalla loro letargia, e convincerli della possibilità concreta (e in particolare in Italia) del socialismo, io ho cercato qui di riproporre la riflessione sulla contraddizione fondamentale, vista da Marx per primo, tra socializzazione della produzione e proprietà privata, consapevole sia del discorso neomarxista sulla varietà delle forme concrete di quella contraddizione e dei soggetti che la interpretano, sia della critica postmarxista alla centralità assoluta del potere politico. Ho provato inoltre a delineare una nuova concezione dello stato “consiliare”, capace di superare la vecchia illusione per cui il comunismo può e deve superare ogni contraddizione tra stato e popolo.
La mia sola aspirazione è che si crei un luogo collettivo in cui le idee qui proposte (e che conto di esprimere presto in maniera più completa) possano essere confutate e superate da una migliore soluzione del problema del socialismo in Italia. E nel mondo.
Leggi tuttoCos’è la moneta e come viene
creata? Queste dovrebbero essere due delle domande più
semplici a cui rispondere in economia; dopo
tutto, la moneta è l’unica cosa che tutti noi usiamo in
un’economia; ma davvero sappiamo di cosa si tratta, e da dove
viene?
Purtroppo conosciamo la moneta allo stesso modo in cui i leggendari ciechi di Hindustan sanno cos’è un elefante: colui che ha afferrato il tronco sa che è “come un albero”, mentre quello che ha afferrato la zanna sa che è “come una lancia “, e così via. La moneta è un elemento così sfaccettato e onnicomprensivo del nostro sistema – il proverbiale “elefante in salotto” [qualcosa così ovvia da non poter non essere vista, ndt] – che la nostra attitudine a fissarci su un suo singolo aspetto ci impedisce di sviluppare una comprensione corretta di cosa è realmente.
Non sapendo cosa sia, diamo vita a “miti della creazione” riguardo la sua origine, scontrandoci poi su questi come bande di fanatici religiosi rivali. A un estremo troviamo persone come Paul Rosenberg, le quali sostengono che il nostro sistema monetario è basato sulla frode :
“Possiamo voi ed io scrivere assegni “emessi a nostro nome”? Ovviamente no. Dobbiamo sostenerli con un valore. La Fed non lo fa. E così, il potente dollaro USA non è sostenuto né da oro né da argento né da niente altro; è semplicemente un trucco contabile.” (da “That Couldn’t Possibly Be True”: The Startling Truth About the US Dollar).
All’altro estremo ci sono economisti mainstream come Paul Krugman, i quali sostengono che come si crea la moneta non è un grosso problema e che quindi quando si fanno modelli economici la si può ignorare
Leggi tuttoQuesto contributo, che
trae spunto da alcune ipotesi
formulate nel corso degli anni Ottanta e Novanta da Romano
Alquati sulla società iperindustriale, intende
riprendere e problematizzare
la categoria di lavoro cognitivo e porla in tensione
con alcune tendenze che potrebbero legittimare l’ipotesi
esplorativa di una
contraddittoria (e “discutibile”) tendenza all’industrializzazione
del cognitivo.
Allo scopo di situare il tema sono necessarie alcune avvertenze preliminari. La prima è di metodo. Il contributo, focalizzato su ciò che continuiamo a chiamare processo di produzione immediato, è consapevolmente parziale, poiché assume questo punto d’osservazione senza preoccuparsi d’inquadrarlo nella molteplicità delle contraddizioni del capitalismo dei giorni nostri, rischiando dunque di restituirne una visione estremamente semplificata. E’ tuttavia questo livello della realtà che s’intende indagare.
In secondo luogo, allo scopo di fugare eventuali ambiguità
sull’uso del termine industriale, si premette che
nel testo esso
sarà utilizzato con due significati differenti. Nel primo
paragrafo per indicare una specifica forma dell’accumulazione,
la
“classica” produzione di beni o servizi venduti sul mercato
per la realizzazione di un profitto. Industriale è da questo
punto di
vista giustapposto ad altre forme di realizzazione del valore
(finanziaria, da rendite speculative, ecc.), ma non indica in
alcun modo uno specifico
settore merceologico; non è contrapposto, in altre parole, a
terziario o a servizi. Nei paragrafi successivi, ed è questa
seconda
accezione che presiede all’ipotesi esplorativa proposta,
industriale sarà inteso in senso ancora più ampio, come
modalità trasversale diorganizzare la
produzione e l’agire umano, anche nella sfera riproduttiva,
dei consumi,
dell’amministrazione. Leggi tutto
Il modello tedesco, che da anni orienta (eccome) le politiche in seno all’Unione europea, è un insieme piuttosto coerente dei seguenti ingredienti: politica di austerità, bassi salari, restrizioni del Welfare State, utilizzo di mano d’opera straniera e politiche aggressive di sostegno all’export.
Da non dimenticare l’idea morale e virtuosa della competitività e della neutralità della moneta, incarnate in quell’etica protestante che divide il mondo in due, chi lavora sodo e chi vivacchia sulle spalle degli altri. Si tratta di un vero e proprio modello, ne sanno qualcosa i greci ma anche tutti i paesi membri della Ue costretti nella loro diversità ad adeguarsi agli imperativi della signora Merkel e di quell’altro campione di moralità che è il ministro delle finanze tedesche, Schaeuble.
Questo modello ha una lunga
storia, nasce nel corso degli anni trenta da un gruppo di
economisti e giuristi tedeschi
(Walter Eucken, Franz Böhm e Hans Grossmann-Dörth)
confrontati da una parte con il capitalismo di stato nazista
e, dall’altra, con la
dottrina del laissez-faire anglosassone. Ad esso venne dato
il nome di economia ordoliberale,
dove
“ordo” sta per ordine per una ragione
precisa: occorre che l’azione governativa sia subordinata
alla stretta
osservanza di un ordine, l’ordine dell’economia di mercato.
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Una nuova biografia non autorizzata sul premier britannico David Cameron racconta diversi episodi della gioventù dell’attuale leader del partito conservatore. Fra tutti, quello che ha catturato maggiormente l'attenzione è l'episodio che vede Cameron partecipe, da studente a Oxford, di uno strano rito iniziatico, durante il quale Cameron avrebbe messo le sue private parts (il pene) nella bocca di un maiale, rigorosamente morto.
La biografia è stata scritta da Michael Ashcroft in collaborazione con Isabel Oakeshott, una stimata giornalista con ineccepibili credenziali. Ashcroft è un ricco uomo d'affari che una decina d’anni fa salvò il partito dei Tory dalla bancarotta e contribuì alla vittoria di Cameron nel 2010. Ashcroft ha ammesso candidamente di aver scritto libro per vendicarsi. Cameron non gli diede il posto da ministro che gli aveva promesso come ricompensa per i servizi resi. Ashcroft dice però che, indipendentemente dalle sue motivazioni, le fonti dei fatti narrati nel libro sono tutte attendibili e verificate. E infatti non ci sono state decise smentite ufficiali da parte di Cameron.
Sesso e genitali, soprattutto se in associazione con contesti
che elicitano ribrezzo e ripugnanza, non mancano mai di
suscitare attenzione. Dunque
non sorprende che i social media e la stampa ufficiale si
siano scatenati. L’unica eccezione sono stati i telegiornali
della BBC, che hanno
studiatamente evitato di menzionare la vicenda, con
conseguenti polemiche e accuse di censura politicamente
motivata. Leggi tutto
Il governo millanta una manovra di finanza pubblica espansiva, ma i numeri del Def lo smentiscono. Il deficit programmatico viene ridotto rispetto a quello di quest'anno, e anche il saldo primario sale. Inoltre l'abolizione delle tasse sulla prima casa darà spiccioli a chi ha più propensione al consumo, quindi l'effetto moltiplicatore sarà quasi nullo. E la crescita resta irrisoria
Già in primavera (Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2015, occhio alla data) Padoan annunziava un Def espansivo. Ora sembra che non vi sia più nessun dubbio: per la prima volta da anni (magari non settanta) abbiamo una manovra di bilancio espansiva. Ma è proprio così?
La recente Nota di aggiornamento presenta i seguenti dati, in percentuale del Pil:
Tabella I
Anni | 2016 | 2017 | 2018 |
Deficit tendenziale | 1,4 | 0 | -0,7 |
Deficit programmatico | 2,2 | 1,1 | -0,2 |
Saldo primario tendenziale | 2,9 | 4,1 | 4,8 |
Saldo primario programmatico | 2 | 3 | 3,9 |
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Le trappole dell’euro
L’euro è ormai diventato il simbolo di questa Europa “malata del mondo”. Creato sul modello del marco tedesco, ed esteso a un’area continentale, la sua architettura presenta quattro difetti strutturali:
Attualmente c’è chi (come Wolfgang Schaeuble, il ministro
tedesco delle Finanze) vorrebbe imporre una riforma
autoritaria del sistema
per andare verso una maggiore centralizzazione, verso
l’integrazione fiscale oltre che monetaria, garantendo la
leadership e la primazia delle
nazioni “più virtuose”: tuttavia, l’integrazione fiscale
presupporrebbe l’integrazione politica, per la quale,
però, non c’è alcuna volontà da parte dei principali paesi. È
ingenuo credere che i principali paesi
dell’Eurozona (in particolare Germania e Francia) rinuncino
alla loro piena sovranità in campo politico, fiscale, della
sicurezza interna
ed esterna, e della politica estera. Leggi tutto
Nel 1987, anno del 150°
anniversario
della morte del poeta di Recanati e dunque traboccante di
contributi celebrativi, appariva, inaspettato e preceduto da
un’intervista esplicativa
dell’autore, per i tipi di Sugarco, un volume di Toni Negri,
intitolato Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia
di Giacomo Leopardi. Per quanto non sia sempre facile
distinguere i contributi
d’occasione, e ce ne furono tantissimi in quell’anno, da
quelli nati da un autentico bisogno di comprensione, quello di
Negri apparteneva
senza ombra di dubbio al secondo gruppo. Negri infatti - come
ha dichiarato nella Prefazione alla seconda edizione del libro
pubblicata da Mimesis nel
2001 - oltre a pubblicare saggi sul marxismo, su Spinoza e
Descartes e a insegnare Dottrina dello stato, non solo ha
amato e studiato Leopardi
“fin dall’infanzia”, ma è stato spinto a scrivere quel libro
da una “fondamentale consonanza” tra la propria
storia personale e quella del poeta di Recanati. Consonanza
che si ritrova, a suo giudizio, nella “formidabile violenza di
un …
transitare dalla miseria della prigionia e della guerra alla
gioia della liberazione, di una nuova speranza di vita”.
Niente di illecito, come
ha scritto Sergio Quinzio, nell’istituire “una corrispondenza
tra la lettura leopardiana di Negri” e “la storia
dell’interprete”, anzi, un “tentativo di stabilire un rapporto
reale con il poeta e la sua opera”. Il punto, però,
è un altro. Occorre chiedersi se e fino a che punto il
Leopardi che scaturisce dalle pagine di Lenta ginestra,
cioè il
suo Leopardi, per quanto sostenuto da un’ampia e non
epidermica conoscenza testuale e bibliografica, risulti
attendibile o meno. Dopo
una accurata lettura delle oltre 400 pagine dell’opera, a noi
sembra che esso assuma troppo da vicino le fattezze del
professore padovano
ritratte sulla copertina del volume e riprodotte, a ogni buon
conto, anche nella pagina di chiusura. Ma non voglio
anticipare. Leggi tutto
Una rosa di dieci «scriventi», alcuni dei quali guidano oggi la speranza di una grande coalizione sociale, si è fatta promotrice sulle pagine del «Manifesto» del 29 settembre 2015 di una proposta che ambisce a risolvere in un colpo solo un insieme di problemi epocali: l’immigrazione, lo spopolamento di vaste aree geografiche, l’invecchiamento della popolazione. La proposta consiste nel fare del primo problema la soluzione degli altri due, con costi sostanzialmente irrisori e un lieto fine assicurato. Vale quindi la pena vederla nel dettaglio.
La descrizione dei problemi è chiara: ci sono uomini, donne e bambini che arrivano sulle «nostre terre» e che quando va bene possono aspettarsi solo solidarietà e temporaneo soccorso, quando va male la politica della paura e dell’odio. Ci sono le aree interne e l’osso dell’appennino, soprattutto al Sud, che sono abitate da poco più del 30% della popolazione, con esiti piuttosto gravi visto che lo spopolamento disincentiva la costruzione di argini contro disastri naturali. Ci sono, infine, le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione, che pare si facciano sentire soprattutto nell’incuria delle terre fertili, nell’inselvatichimento dei boschi, nel declino del patrimonio edilizio, delle infrastrutture e dei servizi.
La soluzione è semplice: in questi luoghi
ormai quasi disabitati, in queste terre lasciate a se stesse,
sulle rigogliose e
selvagge pareti appenniniche, portiamoci i migranti! No, non
come argini contro frane, smottamenti e inondazioni (certi
pensieri, suvvia, lasciamoli a
Salvini!), ma come «popolazione, energie, voglia di vivere,
lavoro umano» che possa valorizzare la biodiversità, creare
reddito con
nuove forme di allevamento, rimettere in sesto il patrimonio
abitativo e, perché no, creare borghi in cui «anche i nostri
giovani»
possano sfuggire alla frenesia della vita moderna prima di
darsi all’alcol. Leggi tutto
Le elezioni catalane ci confermano alcuni dati che andiamo dicendo da tempo. Il primo dei quali, che l’astensionismo è una caratteristica intrinseca al modello neoliberista e ordoliberale europeista. Dove c’è alternativa politica, dove c’è battaglia di idee, di programmi, di visioni di lungo periodo, di modelli di sviluppo differenti, la politica è ancora una cosa importante e i cittadini si mobilitano e votano. La scorsa domenica ha votato il 77% degli aventi diritto, il 10% in più delle elezioni precedenti del 2012. E’ la mancanza di alternativa che atrofizza la politica dei paesi europei e anglosassoni, e dove questa si materializza si riaffaccia l’incubo novecentesco della partecipazione politica, della mobilitazione costante, della condivisione di scelte e prospettive. Tutti fattori che l’impianto liberale europeista cerca di disattivare presentando i governi nazionali – e ancor di più il governo sovranazionale Ue – come “tecnici”, “impolitici”, “né di destra né di sinistra”, eccetera. Questo risultato non è però frutto di improbabili contenitori politici, rassemblement improvvisati di trombati della politica, costituenti rosa o ammucchiate elettoralistiche. E’ l’ultimo passaggio di una mobilitazione politica perdurante, capace di inserirsi nella società catalana toccandone le corde giuste. Facendo politica, insomma.
Le elezioni catalane sono state un momento importante. La
Catalogna ha un Pil maggiore di quello greco, per dire, e si è
recato a votare
quasi lo stesso numero di persone delle tristi elezioni
greche. Impossibile allora circoscriverlo a mero fatto
regionale o locale. Le elezioni
catalane sono un fatto europeo che inverte la rotta della
disillusione e dell’apatia politica. Leggi tutto
Ecco perché la soluzione militare non basta a ricostruire un mondo che non c’è più
Nessuno dei leader mondiali che si incontrano all’Onu forse passeggerà mai più per una strada del Medio Oriente, o salirà in cima alla cittadella di Aleppo. Nessuno attraverserà piazza Firdous a Baghdad, dove nel 2003 venne abbattuta la statua di Saddam, o alzerà gli occhi al cielo per osservare i grattacieli medioevali di Sanaa in Yemen. L’orizzonte da cui sono nate millenarie civiltà è un cumulo di rovine. E neanche il più ottimista dei rifugiati giunto in Europa dalla Siria può pensare di tornarci perché la distruzione materiale ed economica della guerra è stata accompagnata da quella morale, dalla scomparsa di ogni residuo di tolleranza e convivenza civile.
Per questo se mai ci sarà un giorno la ricostruzione della
Siria, dell’Iraq, dello Yemen o della Libia, e anche del
lontano
Afghanistan, tutto ci apparirà soltanto una replica
dell’originale, come avvertiva l’archeologo
italiano
Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla. Ma se si può rifare un
capitello di Palmira, è impossibile replicare una società
sradicata
dalle fondamenta. Fondamenta assai fragili perché l’80% del
Medio Oriente è l’eredità della disgregazione
dell’Impero Ottomano e delle successive sistemazioni coloniali
anglo-francesi, cui sono seguiti i tragici fallimenti degli
Stati laici e
autocratici. Leggi tutto
Alla fine sta diventando una maschera della commedia dell’arte, una specie di marionetta che giù botte quando compare in scena. Il Marino che va a Philadephia ( sarebbe interessante sapere a spese di chi) per intrufolarsi tra gli ospiti del Papa beccandosi persino lo scherno e il rimprovero del pontefice, il Marino cui crolla la metropolitana addosso senza che si faccia domande, l’onesto per antonomasia che per occuparsi del traffico e dei trasporti va a prendere incompetenti dalla cintura torinese, che non sa comunicare e che spesso aggrava la sua posizione dichiarando e blaterando. Giù botte sulla maschera che è tuttavia un prodotto della politica, delle sue logiche dissennate.
Asceso al trono del Campidoglio solo in quanto personaggio in vista, di quelli che in Italia non restano a mai a piedi anche se devono occupare posti del tutto estranei alla loro natura e alla loro esperienza, anche se non sanno da dove cominciare, la maschera Marino ha accettato, in cambio della corsa per Roma, di togliersi dalle scatole della pattuglia parlamentare del Pd, dove rappresentava la parte dei diritti civili, ovvero proprio quella che avrebbe potuto rendere più difficoltoso l’abbraccio con la base berlusconiana. Poi è stato travolto prima dalla sua stessa incapacità di mettere mano ai problemi in una capitale saccheggiata da decenni, poi è stato travolto dagli scandali, non suoi certo, ma a cui non ha saputo dare risposte convincenti.
Marino è un ostaggio del famelico appetito del pd locale
delle sue alleanze segrete, ma non sa reagire, non intende
tentare di cambiare la
politica romana, né può seguirla, è una sorta di totem di un
improbabile governo degli onesti costruito sopra il
termitaio dei poteri capitale e che proprio per questo
commette errori su errori: non vorrebbe fare ciò che fa, non
vuole fare
ciò che potrebbe. Leggi tutto
C’è vita a sinistra,
afferma (non si
domanda) perentorio il manifesto aprendo uno stanco
dibattito dominato dal pensiero unico di un gruppo di soliti
noti - lo dico con il
rammarico dell’antico militante di quel gruppo e quotidiano.
Fuori dal coro solo l’intervento di Stefano
Fassina e quello del prof. Luciano
Canfora che si è posto grandi e importanti domande. Gli
altri contributi non
varrebbe neppure la pena discutere.
L’astuto Hayek e l’europeismo ingenuo
La maggior parte si crogiola tenacemente nell’idea della riformabilità dell’Europa mentre si indigna al solo sentir parlare di riconquista della sovranità democratica nazionale. Riferendosi a un saggio dell’iperliberista (ma astuto) Friedrich Hayek, Oskar Lafontaine ha spiegato poche settimane fa perché un’Europa politica e dunque solidale non può esistere:
<Già nel 1976 [sic, 1939 in realtà] il maestro di questa ideologia, Friedrich August von Hayek, ha dimostrato in un suo articolo che ha avuto una profonda influenza che il trasferimento di autorità sul piano internazionale apre chiaramente la strada per il neoliberismo. Ed è per questo che l’Europa del libero mercato e di scambio non regolamentato dei capitali non è mai stato un progetto di sinistra>.
Ci piace pensare che quanto avevamo scritto poche
settimane
prima (anche in
inglese) abbia avuto un’influenza su questa opinione. Leggi tutto
La casa editrice Il
Saggiatore ha ripubblicato da pochi mesi a questa parte, a
vent’anni dalla prima pubblicazione in inglese, Il lungo
XX Secolo, un testo di Giovanni Arrighi, storico
dell’economia e
sociologo italiano. Recentemente scomparso, Arrighi
rappresenta una delle punte di diamante di quella scuola di
teorici del
“sistema-mondo”(al pari di Immanuel Wallerstein con cui ha
collaborato in diverse occasioni), che affonda le sue radici
nelle riflessioni
del grande storico francese Fernand Braudel, appartenente a
quella scuola strutturalista che tanta influenza ha avuto in
Francia ed in Europa degli
anni ’60 e ’70.
Lo scopo del testo di Arrighi è dare ragione
della condizione di crisi all’interno della quale si trovava
il
sistema-mondo all’altezza dei primi anni ’90 e di leggerne
le trasformazioni. La domanda di fondo è la seguente: la
conversione in
termini finanziari dell’economia e l’incrinatura
dell’egemonia statunitense, lo scivolare nel caos del mondo,
sono fenomeni
estemporanei e di assoluta originalità o possono essere
ricondotti a processi storici di più lungo periodo? Non si
tratta semplicemente,
per Arrighi, di tracciare la genesi della nostra condizione
presente. Si tratta anche di leggere il nostro momento
storico come coerente con una
struttura determinata che è quella del sistema-mondo
capitalistico e di negarne conseguentemente l’assoluta
originalità.
Tentiamo di ricostruire per capi sommari
l’argomentazione di Arrighi. Per lo storico milanese la
storia del capitalismo
è storia di cicli di accumulazione; ogni ciclo è da
intendersi come un periodo di tempo, più o meno lungo, nel
corso del quale
una potenza (coincidente con una formazione economico
politica in generale identificabile con uno Stato o con una
città-Stato) guida
l’accumulazione di ricchezza a livello mondiale, risultando
essere il centro economico e finanziario del sistema mondo;
struttura il mondo
stesso in un centro ed in una periferia. Leggi tutto
“Pratica il dubbio ogni
volta che l’agire collettivo contrasta col tuo sforzo di
essere libero”. Le parole di Pietro
Ingrao, ad oggi, mi suscitano riflessioni sul valore
dell’evoluzione personale. Nell’introdurre l’intervista di Stefano Fassina su Left Avvenimenti
del 19 settembre 2015 vorrei premettere che non sono un
economista, quindi ho cercato di
snodare il percorso cognitivo secondo una logica
etimologicamente essenzialista, laicamente scettica. Con
colpevole ritardo, sto studiando gli scritti
del professor Alberto Bagnai,
l’econometrista che da anni sta cercando di spiegare agli
italiani la
nocività dell’Unione monetaria europea. “L’Italia può
farcela”, secondo saggio di successo dopo Il Tramonto
dell’euro, è un compendio di dati statistici, rigorose
analisi, aneddoti che limitando al necessario il tecnicismo
chiariscono i passaggi
chiave. In sostanza avvalorano convinzioni maturate anche in
coloro i quali per lavoro si occupano d’altro (dalle inchieste
giudiziarie alla
geopolitica) favorendo la comprensione delle dinamiche della
struttura macroeconomica. Ad esempio Bagnai rende
intellegibili i meccanismi con cui la
gabbia dell’aggancio valutario fornisce al capitalismo
finanziario una serie di strumenti per massimizzare i profitti
e riprodursi al Potere,
accrescendo le disuguaglianze. Nella fattispecie l’Euro
favorisce le esportazioni tedesche impedendo la rivalutazione
del marco a fronte di un
surplus commerciale della Germania e, simmetricamente,
penalizza i paesi con deficit di partite correnti che in un
sistema di tasso di cambio
variabile avrebbero beneficiato della svalutazione
competitiva. Leggi tutto
C'è vita a sinistra. Per il 5 o anche il 10% forse c’è vita. Per una svolta sociale e politica del mondo non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile. Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato
L’organismo della sinistra è assai poco vitale, ma comprensibilmente non vuole dirselo e nemmeno sentirselo dire. E se provassimo ad affrontare la questione da un punto di vista un po’ meno prevedibile? Se cominciassimo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.
Perché questa è la verità: non c’è vita, se mai c’è sopravvivenza eroica ma stentata di un vasto numero di associazioni e organismi di base che cercano di garantire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.
Se cominciassimo col dirci la verità che dal tronco della sinistra del Novecento non sboccerà più alcun fiore, forse allora riusciremmo a vedere la realtà presente in maniera più realistica e forse anche a immaginare una via d’uscita per il prossimo futuro.
Se sinistra vuol dire una formazione capace di
raggiungere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse
può esserci vita a sufficienza. Grazie alla demografia,
grazie all’ampiezza dei ranghi degli
ultra-sessantenni possiamo ancora sperare di costituire una
formazione che mandi in parlamento qualche
deputato prima di esaurirsi per estinzione prossima della
generazione che si formò negli anni della democrazia.
Leggi tutto
E’ difficilissimo (pare assurdo, ma è così) far passare nell’opinione pubblica un paio di concetti elementari quali:
a) il valore del capitale finanziario è un valore molto più grande di quello di ciò che viene prodotto nel mondo in un anno: c’è chi dice 10, chi 30, chi, addirittura, 100 volte;
b) il capitale finanziario, se, come è nella sua natura, deve distribuire un utile per accrescersi, può farlo non attingendo a se stesso, ma al prodotto mondiale.
Vediamone le implicazioni. Supponendo, per semplicità, che il capitale finanziario sia 20 volte il prodotto mondiale (ovvero quest’ultimo vale il 5% del primo) e il capitale finanziario si accontenti (nel suo insieme) di un misero dividendo del 2,5% annuo, ebbene la metà di quello che viene prodotto al mondo deve andare a remunerare il capitale finanziario, lasciando l’altra metà per sfamare i sette e passa miliardi di umani.
Evidentemente, la realtà non è così lineare, ma tali semplificazioni possono contribuire a rendere comprensibile ad esempio, perché un paese così virtuoso come l’Italia abbia un debito pubblico così elevato.
L’abbinamento tra le parole “Italia” e “virtuosa” è
probabilmente, percepito dal lettore come un ossimoro, ma
non è così. Ripeto: l’Italia è un paese oggettivamente
virtuoso. Il sistema-paese ha affrontato, dal 1992, uno sforzo
enorme per risanare i conti dello Stato. Esso passa, da una
parte, nella crescita della pressione fiscale e, dall’altra da
una contrazione dei
servizi e prestazioni offerti ai cittadini. Leggi tutto
Barcellona, il giorno dopo. Contati i voti è ora il momento di misurare le volontà politiche. E le cose si complicano. Come prevedibile, visto il risultato delle urne. Il fronte indipendentista ha la maggioranza dei seggi (72 contro 63), ma non quella dei voti, essendosi fermato al 47,8%. Da qui le diverse interpretazioni sulle elezioni-plebiscito di domenica tra Artur Mas e la sinistra indipendentista della CUP (Candidatura d'Unitat Popular).
Che si sia trattato di un plebiscito non c'è dubbio. Mai si era vista, dalla fine del franchismo, una simile partecipazione alle urne (77%), con un aumento dei votanti del 10% rispetto al 2012. Ben poco valore hanno dunque i ragionamenti di certi commentatori che vorrebbero conteggiare tra gli anti-indipendentisti anche chi ha scelto di non esprimere alcun voto. Il problema è un altro: può una maggioranza di seggi del parlamento catalano avviare un processo secessionista?
E' ben noto che dal punto di vista della costituzione spagnola nessun tipo di secessione è possibile, neanche se venisse richiesta dal 100% dei cittadini di una Comunità autonoma, come quella catalana. Dunque, giuridicamente, il problema del 50%+1 dei voti è del tutto ininfluente. Non così dal punto di vista politico. E qui nascono i primi problemi all'interno del fronte indipendentista.
Problemi che hanno, evidentemente, anche una natura politica
che va ben oltre l'interpretazione del dato elettorale. Se da
una parte è
naturale che uno schieramento indipendentista abbia al suo
interno forze anche diversissime, il problema sorge quando si
passa a discutere su chi
può rappresentare quel fronte garantendone gli equilibri e
l'unità. E' questo il primo nodo che dovrà essere sciolto. Leggi tutto
Recensione di «I Rothschild e gli altri» di Pietro Ratto
«Il denaro fa la guerra» si usa dire, e certo il vecchio
proverbio viene continuamente ribadito nella sua attualità
contemporanea, per cui dietro ogni conflitto, anche quelli di
tipo religioso o nazionalistico, ricompare sempre e
immancabilmente lo spettro del
soldo, da cui non a caso deriva anche la parola “soldato”. E
così, ovviamente, possiamo dire anche il contrario cioè che
è la guerra a fare il denaro, come dimostrano le plusvalenze
dei venditori di armi e il fatto che ogni nazione, anche a
fronte di problemi
socialmente significativi come la fame, il sottosviluppo, le
malattie, trovi sempre i finanziamenti per gli armamenti e
difficilmente quelli per
risolvere altri problemi. Ma, più in generale, è proprio la
preponderanza dell’economia, specie di quella finanziaria, che
configura la cifra portante del nostro tempo, in cui solo le
compatibilità economiche sembrano in grado di stabilire le
leggi su cui è
possibile orientare le scelte politiche. Lo studioso della
Tradizione René Guénon, in un suo celebre libro, «Il regno
della
quantità», dedica a questa degenerazione nell’uso del
denaro, oramai assurto all’unica divinità realmente
immanente, un’abissale riflessione in cui delinea quanto ci si
è oramai scostati da un uso strumentale del danaro per farlo
diventare il
metro di ogni cosa, assimilando le qualità, anche degli esseri
umani, alle loro quantità. Ma se tutto questo è vero, allora
chi
«fa» il denaro, chi lo fa girare, chi decide come e dove
investirlo, le guerre da finanziare, i governi da sostenere o
quelli da far
cadere, chi alla fine decide il nostro stile di vita, quelli
che possono e cosa possono consumare e quelli che invece sono
esclusi dal supermercato
globale? Leggi tutto
C’è un
gioco che
condiziona tutti gli altri giochi. Condiziona significa che ne
determina le condizioni di possibilità e, talvolta, financo
gli esiti. Che sia
l’euro o l’Europa o la sovranità nazionale o la Siria o i
migranti o la disoccupazione o il bilancio dello stato o il
ruolo di
certe élite, tutti i giochi si giocano in un gioco più ampio
di cui, soprattutto in Italia, c’è assai scarsa conoscenza.
Paese che ha perso la guerra, capitalistico per certi versi ma
ancora “ancien règime” per altri, umanistico e financo
religioso
quanto mai estensivamente scientifico, più idealista che
illuminista, ancora fratturato dalla questione meridionale,
ripiegato nel confort del
proprio paesaggio, tradizione e gastronomia, sempre più
estraneo al mondo. Sarà bene allora far pratica di conoscenza
con questo gioco
di tutti i giochi perché anche se facciamo finta di non
saperlo, noi siamo anche pedine di questo gioco.
Quando analizziamo lo stato di potere, di forza e di salute di una civilizzazione, di uno stato, di un sistema economico, dobbiamo prioritariamente riferirci a quali sono i suoi rapporti con l’ esterno. Il suo esterno è ciò che lo contiene e i tre stati qualitativi dipendono in gran parte dall’assetto della relazione che il sistema intrattiene con ciò che lo contiene. Lo scenario ultimo, quello che non dipende da altri ma da cui tutti dipendono è quindi, semplicemente, il mondo. Il mondo è il contenitore di tutti i sistemi.
Leggi tuttoC’è forse un elemento
chiave della storia del PCI in cui Ingrao è protagonista,
insieme ad un parte rilevante della generazione dei dirigenti
comunisti
dell’epoca. E’ la sostanziale incapacità dialettica di
ricondurre ad una coerente e moderna teoria marxista-leninista
–
che cioè analizzasse sotto questa lente le novità storiche
intercorse – il dibattito e la critica che si sviluppa nel
PCI, e in generale in una parte rilevante del movimento
comunista internazionale, specialmente europeo in quegli anni.
La critica allo scivolamento
del PCI su posizioni socialdemocratiche e riformiste non viene
compiuta in questo senso, ma nell’opposta critica al
centralismo democratico, al
ruolo e alla funzione del partito. A una socialdemocrazia
della “destra”, concreta e pragmatica, tipicamente riformista,
e in ottica
storica vincente, finisce per opporsi una socialdemocrazia
della “sinistra”, più movimentista, eclettica e idealista,
inconcludente
e perdente, ma fondamentale per far detonare ogni possibile
alternativa in chiave comunista. Quello che mancò, o meglio
risultò
estremamente minoritario, fu proprio il punto di vista
comunista in questo scontro. Per i marxisti non è paradossale
che negli opposti possa
esistere una sostanziale unità: è quello che avviene tra le
visioni della destra e della sinistra del partito, che
partendo da posizioni
opposte finiscono per diventare complementari nel processo di
distruzione del PCI. E una prova può essere forse l’idea che a
chiudere la
storia del PCI sia stato proprio l’idealista Occhetto che in
gioventù era annoverato nelle file degli ingraiani, salvo poi
essere
spazzato via dalla concretezza dalemiana, a sua volta
falcidiato da quella democristiana. Leggi tutto
A pensarci bene, questa
Europa
costituisce il compimento del post-moderno in ambito
politico-istituzionale ed economico. Letteralmente, di ciò che
“viene dopo”.
Ma “dopo” che cosa? Non c’è dubbio: “dopo” la stagione in cui
lo Stato ha tentato di “contenere” e
governare il capitalismo, di addomesticarne le crisi ed
influenzarne le scelte, mediante la “politica economica”, la
programmazione,
l’intervento pubblico in economia. D’altro canto, per tutto il
secolo XIX e parte degli anni venti, per dirla con James K.
Galbraith,
«il grande problema del capitalismo era stato la crescente
gravità dei cicli economici, tra rapide espansioni e dure
recessioni»[1],
alle quali,
salvando il capitalismo stesso, si era reagito, per l’appunto,
con l’interventismo pubblico ed il welfare state. In
ambito
teorico, parliamo, più semplicemente, del salto di qualità
dall’analisi di ciò che è
(economia politica) all’elaborazione di ciò che
deve essere (politica economica)[2].
La politica economica, com’è noto, si basa sulle relazioni
tra variabili, “variabili-strumentali” e
“variabili-obiettivo”[3].
Le prime
rappresentano i mezzi attraverso i quali gli “agenti della
politica economica” mirano al raggiungimento dei propri scopi,
che coincidono,
evidentemente, con le seconde variabili, quelle “obiettivo”.
Agenti-strumenti-obiettivi: questa, quindi, la triangolazione
alla base di
qualsiasi modello di strategia economica. Ma chi
sono gli “agenti di politica economica”? Beh, non potrebbero
che essere gli
Stati attraverso i loro governi, a loro volta legati al
parlamento (o direttamente al corpo elettorale) da un vincolo
di tipo fiduciario. Nondimeno,
nella storia economica contemporanea, con la crisi del ’29 che
ha segnato una nuova svolta in tal senso, l'azione degli Stati
in ambito
economico non si è mai dispiegata isolatamente, bensì “in
concorso” con le banche centrali, autorità monetarie
nazionali, “strumentalmente” legate al potere politico. Leggi tutto
Avevamo scritto parecchie volte che la distruzione dell'Alitalia, a far data dagli accordi di Maastricht, era un piano economico preciso. Voluto dall'Unione Europea - che aveva deciso che nel Vecchio Continente c'era spazio per tre soli vettori globali (Air France, British Airways e Lufthansa) - era stato realizzato molto "all'italiana". Ossia facendo deperire il gioiello con una serie di operazioni commerciali sbagliate, apparentemente folli (come il taglio dei voli sul lungo raggio, quelli intercontinentali, gli unici ad alto guadagno), e con altre semplicemente finalizzate a ingrassare le tasche di una serie di amici.
Il "piano", alla fine, doveva portare Alitalia nelle capaci braccia di AIr France. Ma saltò per le esigenze elettorali di Berlusconi, che mise in piedi quella famosa "cordata" cui venne di fatto regalata scaricando i debiti sui conti pubblici. Pochi anni, nuova crisi e nuova vendita a Etihad. Fine della storia, per ora...
Ma il processo contro le antiche gestioni è ora arrivato alla sentenza. E si sono viste condanne abbastanza consistenti soprattutto per il principale "rottamatore" della gloriosa azienda con base a Fiumicino: Giancarlo Cimoli.
Sotto indagine era tutta la gestione 2001-2007, e quindi il
tribunale di Roma ha condannato l'ex presidente e ad della
compagnia (da 2001 al 2004)
a otto anni e otto mesi di reclusione. Leggi tutto
Come sicuramente saprete, un gentiluomo e cavaliere inglese, di nome Michael Anthony, Barone Ashcroft, KCMG (Knight Commander of St Michael and St George) e PC (Privy Councillor of Her Majesty) ha appena pubblicato una biografia del suo (ex) amico, David Cameron, attuale primo ministro dell’Inghilterra.
Il Barone Ashcroft di mestiere fa il miliardario e l’elusore fiscale grazie anche alla sua seconda e addirittura terza cittadinanza (Belize e Turks and Caicos Islands). Ciò gli ha permesso di comprare le elezioni del 2010 per il Partito Conservatore, di cui era stato a un certo punto anche vicepresidente. E ha fatto anche un buon lavoro per le elezioni del 2015, quando con un immenso lavoro di sondaggi, fece scegliere ai candidati conservatori gli slogan vincenti.
Per simili meriti, il signor Barone era stato nominato pari a vita da Sua Maestà nel 2000 e quindi per diritto di censo, sedeva nella Camera dei Lord fino alle sue recentissime dimissioni (aveva cose più importanti da fare).
Il libro di Ashcroft sottolinea una cosa che già sapevamo: cioè che il primo ministro è un figlio di papà viziato, educato in postacci per figli di papà viziati, che – avendo fallito in ogni altro possibile mestiere – si è dato alla politica.
Si sapeva, anche prima che uscisse il libro di Ashcroft, che il primo ministro era stato arrestato per qualche atto di esuberante teppismo da figlio di papà viziato, assieme all’attuale sindaco di Londra, il cittadino statunitense Alexander Boris de Pfeffel Johnson.
Leggi tuttoNel paragrafo 5 del Quaderno
15, scritto nel febbraio del 1933, Gramsci elabora
un’originale teoria della crisi. Respinge
ogni lettura riduzionista di tipo economicistico: sarebbe
erroneo e fuorviante, dice, di fronte ad una crisi economica
di dimensioni mondiali,
ricercare od isolare una sola causa; si deve invece
ricostruire un intero periodo storico, inquadrando al suo
interno le manifestazioni economiche
della crisi ed analizzando le strategie dei vari attori
mondiali volte alla ricostruzione di un nuovo equilibrio.
Applicando questo criterio all’andamento della crisi tra il 1929 e il 1932, Gramsci ne individua l’origine nel contrasto tra “il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica”, e perciò propone di leggere quella fase all’interno di un periodo storico molto più lungo, caratterizzato dal manifestarsi di quella contraddizione e dalla incapacità delle classi dirigenti di risolverla nell’unico modo possibile, cioè adeguando le forme e gli spazi della regolazione politica a quelli di un’economia sempre più pienamente mondiale.
La crisi non è un fatto prodotto da una unica causa, ma un
processo, il quale ha molte manifestazioni, che si accavallano
e si complicano.
Non ha dunque un “inizio”, ma piuttosto ci sono solo alcune
“manifestazioni più clamorose” di questo processo, che
vengono “erroneamente e tendenziosamente” identificate come il
punto d’attacco della crisi. Secondo Gramsci, “tutto il
dopoguerra è crisi” ed addirittura la Prima Guerra Mondiale
potrebbe essere letta anch’essa come una manifestazione della
crisi. Leggi tutto
Considerazioni in margine ai saggi di Loren Goldner raccolti in Il concetto di razza e il secolo dei lumi (1997), parte I: Prima dei Lumi: La Spagna, gli Ebrei e gli Indiani; parte II: L’Illuminismo anglo-francese e oltre (1998)
Nella precedente newsletter 48
(1) avevamo concluso, in merito
alla «libertà», che il suo vessillo venne impugnato
storicamente come bandiera dei
ceti radicali borghesi, allora in ascesa e rivoluzionari,
contro il principio d’autorità, contro l’assolutismo feudale
aristocratico, per evolvere poi nella forma di un radicalismo
espressione dei ceti medi e di borghesia grande o piccola di
volta in volta proprietaria
benestante o in crisi come nell’attuale fase di regressione
sociale, oscillante tra una visione della libertà come
«trasgressione», violazione della legge, rifiuto delle
«costrizioni», e una forma tipica di segno opposto, di
garantismo e
legalitarismo della pletora dei parassitari delle scartoffie,
dei funzionari e burocrati pubblici e privati, politici e
sindacali, che ormai infestano
il corpo sociale in putrefazione nella fase del capitale
stramaturo e marcio, il capitale fittizio, ceti che prosperano
sulle miserie, le tragedie e
le guerre in cui si dibatte il capitalismo da sempre.
Entrambi sono ossessionati dalla «gerarchia»,
dall’«autorità», dal «dominio» e dal
«potere», e si è visto che in definitiva i loro progetti sono
conservativi del sistema capitalista della proprietà, della
legge del valore. Quanto al progetto di libertà come
propugnato dal marxismo, che essi avversano senza sapere
neppure di cosa parlano,
esso prevede il comunismo molto semplicemente come:
l’abolizione del valore, che rende inconcepibile la proprietà
privata dei mezzi di
lavoro, l’abolizione della produzione di merci, del lavoro
salariato e del proletariato in quanto forma mercificata della
forza-lavoro nel
capitalismo. Leggi tutto
Non a tutti è piaciuto il discorso di Obama all'Assemblea Generale dell'Onu, ma ancora meno, a quanto pare, piace l'attuale posizione degli Stati Uniti di fronte alla proposta di Putin di creare una vera e propria alleanza internazionale contro lo Stato Islamico, o Daesh che dir si voglia
In una intervista esclusiva a Sputnik Italia il professore Manlio Dinucci, uno dei massimi esperti di cose militari in Italia, fa luce sulle dinamiche in atto in Siria rispetto alla posizione di Russia e Usa.
-Prof. Dinucci, come giudica il tentativo di Obama di rimettersi in primo piano dopo la mossa di Putin?
— Considero davvero grottesco il tentativo del presidente
americano di ergersi come il paladino della lotta contro
l'Isis. Ci sono prove
documentate, fornite anche dal New York Yimes, che la CIA e il
Pentagono hanno armato e addestrato forze estremiste islamiche
prima per rovesciare
Gheddafi e poi trasferendole in Siria per demolire il governo
e il regime di Bashar al-Assad. Quello che è accaduto negli
ultimi tre anni
in Siria, distruzione e morte, è il risultato delle scelte
americane, in primo luogo. Senza dimenticare che, nel maggio
2013 il
senatore USA McCaine incontrava in Turchia colui che sarebbe
divenuto il califfo dello Stato Islamico, il cosiddetto Al
Baghdadi. E' un tentativo
propagandistico per perseguire la stessa politica. Visto che
non sono riusciti a rovesciare il governo di Damasco, adesso
ci riprovano fingendo di
combattere l'Isis, ma sotto la condizione che, prima, Bashar
al-Assad dovrà andarsene. Leggi tutto
Yanis "Allstar" Varoufakis ha pubblicato un articolo sul Frankfurter Allgemeine Zeitung, l'organo centrale del PPT (Partito dei padroni tedeschi) un articolo che ci lascia sbalorditi, a cui ritieniamo necessario rispondere
Come Kador, il cane dei Bidochon, Varouf è dunque un lettore di Kant. Questo lo sapevamo dallo scorso febbraio, quando, appena nominato ministro delle Finanze, una volta aveva citato il filosofo di Königsberg, ma con una buona dose di ironia. Questa volta, tutta l'ironia è scomparsa. Nel suo articolo, da leggere come un omelia dominicale - pubblicato nell'edizione di domenica di FAZ - Varouf si lascia andare a una inverosimile lucidatura di scarpe berlinesi. Ai nostri lettori, che sono in genere gente di corsa e indaffarata, offriamo una sintesi del messaggio kantiano di Varouf, seguito da un breve commento. I lettori che hanno il desiderio e tempo possono leggere l'intero articolo, pubblicato in inglese, tedesco, italiano, portoghese e francese.
Innanzitutto una premessa: non abbiamo aspettato che il
Magnifico Yannis diventasse famoso nel mondo, dopo la sua
nomina a ministro da Tsipras lo
scorso febbraio, per pubblicare e tradurre suoi articoli. Lo
abbiamo pubblicato da settembre 2012; e da allora, Tlaxcala ha
pubblicato non meno
di 134 testi di Varoufakis in varie lingue. possiamo essere
accusati di tutto, ma non di essere i suoi nemici. Ma quando è
troppo
è troppo. Andiamo avanti. Leggi tutto
La sceneggiatura del prossimo decennio.
“Non si tratta di avvertire il pericolo quando è ormai presente, ma di scorgerne gli indizi, valutarli, interpretarli, insomma, considerarli in modo critico.
Per esempio: quei nuvoloni all’orizzonte, significano che arriverà una pioggia passeggera, quale sarà la sua intensità, si dirigerà di qua o si allontanerà?
O si tratta di qualcosa di più grande, più terribile, più distruttivo? Se così fosse, bisognerà allertare tutt@ dell’imminenza della Tormenta.
Noi, zapatiste e zapatisti, vediamo e sentiamo che sta arrivando una catastrofe in tutti i sensi, una tormenta.
… vediamo che si continua a ricorrere agli stessi metodi di lotta. Si continua con i cortei, reali o virtuali, con elezioni, con sondaggi, con riunioni. Come se lo Stato fosse sempre lo stesso, come se avesse le stesse funzioni di 20, 40, 100 anni fa. Come se anche il sistema fosse lo stesso e uguali le forme di sottomissione, di distruzione. Come se là in alto il Potere avesse mantenuto invariato il suo funzionamento. Come se l’idra non avesse rigenerato le sue molteplici teste.” (La sentinella e la tormenta, comunicato dell’EZLN, aprile 2015).
Progettando questo convegno ci siamo sentiti un po’
disorientati: non è chiaro chi saranno i convenuti, non
sappiamo da dove veniamo
né dove vogliamo andare. Leggi tutto
Le immagini
che segnano inequivocabilmente l’estate 2015, i crimini
globali dell’Europa del capitale e dei
profitti, dei diritti violati e negati, dell’apartheid e delle
discriminazioni. I raid aerei in Iraq, Pakistan e Afghanistan.
E quelli in Libia
e Corno d’Africa. Centinaia di bombe sganciate in Siria,
Kurdistan, Yemen. L’esodo forzato dei sopravvissuti, le
tragiche marce per i
deserti, i naufragi negli abissi del Mare Mostrum. La stazione
di Budapest come Auschwitz, i treni dei rifugiati bloccati,
sequestrati e piombati dai
poliziotti e dall’esercito in tenuta antisommossa. Un nuovo
filo spinato di 200 km al confine con la Serbia, protetto da
tank, cingolati, carri
armati e dalle truppe d’élite addestrate per i conflitti Nato
del Terzo millennio. Chi fugge attraverso i Balcani dagli
inferni di guerra
mediorientali e africani non deve arrivare in Austria o in
Germania. Altri treni sono bloccati dalle forze armate della
Repubblica Ceca. Gli
avambracci dei profughi, bambini compresi, vengono marchiati
con numeri indelebili. Le autorità di Praga e Vienna ordinano
il trasferimento di
decine di migliaia di militari ai valichi di frontiera
sud-orientali. In Macedonia è decretato lo stato d’emergenza,
ogni sospetto di
migrazione può essere arrestato o deportato, il confine con la
Grecia è armato e ipermilitarizzato. Pugno di ferro anche a
Sofia,
tolleranza zero per siriani e afgani, la Gendarmeria e i
cingolati dell’esercito schierati ai valichi con Macedonia,
Grecia e Turchia, ancora un
muro elettronico e altro filo spinato a presidio dell’Europa
lager-fortezza. Leggi tutto
Il recente volume di Mario Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (il Saggiatore, Milano, 2015), può essere considerato l’autobiografia teorica di un «politico pensante». Partendo da quei «frammenti», questo articolo si propone rileggere le tappe che, nell’arco di quasi sessant’anni, hanno scandito l’itinerario teorico di Tronti. Perché forse solo oggi se ne possono cogliere fino in fondo le linee di continuità, i salti, le innovazioni
Nel cuore
di tenebra
Già dalla fine degli anni Sessanta, dopo la conclusione delle riprese di C’era una volta il West, Sergio Leone iniziò a progettare un film sull’assedio di Leningrado. La pellicola avrebbe dovuto ispirarsi a The 900 Days. The Siege of Leningrad, un libro in cui il giornalista Harrison E. Salisbury ricostruiva la vittoriosa resistenza dell’Armata Rossa e dell’intera città dinanzi all’offensiva tedesca, durata dal giugno 1941 fino al gennaio 1943. Più volte accantonata, l’idea non fu però mai abbandonata da Leone, che tornò a elaborarla dopo aver girato C’era una volta America. Di quel progetto ambizioso rimangono solo alcune cartelle dattiloscritte, da cui è possibile ricostruire solo molto vagamente la direzione che Leone avrebbe imboccato per trasferire sul grande schermo la cronaca di Salisbury.
Ma grazie a quegli appunti è
possibile immaginare il lunghissimo, affascinante
piano-sequenza che il regista
aveva ideato come inizio. L’apertura doveva essere infatti
un primo piano sulle mani di Dmitrij Šostakovič, che
scivolavano sui
tasti bianchi e neri del pianoforte, alla ricerca delle note
della Sinfonia di Leningrado, la sinfonia che il
musicista iniziò
effettivamente a comporre nel 1941 e che fu eseguita per la
prima volta, nella città assediata, un anno dopo.
L’inquadratura si sarebbe
dovuta poi lentamente allargare, scoprendo la figura del
compositore e il suo appartamento. Leggi tutto
In vista della
«Legge di Stabilità», ma guardando soprattutto al dopo
Eccoci ad ottobre, il mese della Finanziaria, oggi pudicamente chiamata «Legge di Stabilità». Come al suo solito Renzi fa squillare le trombe: a suo dire quella in arrivo sarebbe una «finanziaria espansiva». Falso, come al solito, dato che avremo al massimo una manovra soltanto un po' meno recessiva del previsto. Esattamente come già avvenuto per l'anno in corso.
A questo proposito, non traggano in inganno gli zerovirgola della crescita del Pil. Essi non derivano certo da un (inesistente) abbandono delle politiche austeritarie, bensì da un'irripetibile congiunzione astrale fatta di svalutazione dell'euro, calo dei prezzi dell'energia e (pur con tutti i suoi limiti) quantitative easing della Bce. A questo aggiungiamo il naturale rimbalzo fisiologico dopo ben 3 anni e mezzo di recessione ininterrotta, e non sarà difficile capire come la modestissima crescita di questi mesi non abbia nulla a che vedere con le famose «riforme» di Renzi.
Detto questo, non bisogna far finta che nulla sia cambiato. Vantando i suoi presunti successi politici, il capo del governo ha detto nei giorni scorsi che laddove prima c'era il Fiscal Compact adesso c'è la flessibilità. Una evidente forzatura propagandistica, dato che l'Italia non mette affatto in discussione l'applicazione del Fiscal Compact (né, tantomeno, l'Unione Europea mostra segni di disponibilità in tal senso), ma una baldanza che ha un suo perché.
Leggi tuttoLa storia del rasoio di Occam è molto lunga e articolata, ma quel che è certo è che esso potrebbe ancora oggi servire per differenziare in modo adeguato le conoscenze scientifiche da quelle circostanziali e per escludere gli usi ideologici delle conoscenze scientifiche. Ma la sinistra si mostra fortemente allergica a queste operazioni
Quando è
comparso il blog filosofico di Micromega intitolato Il
rasoio di Occam mi sono stupito e rallegrato. Mi sono
rallegrato, perché il
richiamo a Guglielmo d’Ockham e al suo rasoio hanno da sempre
significato austerità nelle spiegazioni e rifiuto di sprechi
ontologici, ma
mi sono anche stupito, perché non sembra che nel patrimonio
culturale della sinistra ci sia posto per cure di questo
genere. Non è il
caso di aprire una discussione sul significato
dell’espressione “di sinistra”, stucchevolissima faccenda, ma
ci si capisce, se si
dice che Micromega è di sinistra e che molte persone (tutte?)
che collaborano a Micromega credono di esserlo. E se si guarda
alle filosofie
popolari nelle manifestazioni culturali di sinistra, compreso
questo stesso blog, ci si accorge che gran simpatia per
l’austerità teorica
non ci sia e che la deflazione ontologica sia sospettata di
empirico cinismo ideologico.
Molti anni fa Giulio Preti provò a mettere insieme empirismo, marxismo e ideologia comunista. Fece un po’ un pasticcio, ma le ramanzine che si attirò erano costruite in stile hegeliano, familiare alla sinistra italiana, più o meno marxista. Se si voleva qualcosa di originale, e di italiano, c’era Gramsci, che si muoveva tra Croce e Lenin, due personaggi che con il rasoio d’Occam e l’austerità filosofica non c’entravano proprio. Quando il gramscismo ufficiale del comunismo nazionale o il diamat di quello sovietico non accontentavano, c’era sempre la Scuola di Francoforte o addirittura il ricorso diretto al Marx giovanile o ai Grundrisse.
Leggi tuttoLavoro gratuito. Se si ammette lo scambio diretto tra il lavoro e un debito che non può essere pagato, si attenta alla libertà della persona. Come nella Francia. Prima della rivoluzione. Capita oggi con lo «Sblocca Italia»
La macchina infernale del lavoro gratuito, saldamente piantata nel cuore del sistema-paese, si va arricchendo di un settore molto promettente nella sostituzione di quello retribuito, a vantaggio delle amministrazioni comunali.
Si tratta del cosiddetto «baratto amministrativo», fondato sull’articolo 24 del decreto Sblocca-Italia. Si prevede che singoli e associazioni possano proporre interventi, «pulizia, manutenzione, abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale», in cambio di sconti fiscali.
Con una interpretazione alquanto estensiva, per non dire
capziosa di questa generica norma, diverse
amministrazioni comunali vi hanno scovato lo strumento
per recuperare crediti fiscali altrimenti
inesigibili. Tra i primi a sperimentare questa strada
fu un comune della provincia di Novara
che aveva offerto a un cittadino in arretrato con la Tasi
e il canone di affitto di un appartamento comunale
di sdebitarsi svolgendo gratuitamente lavori di
manutenzione. L’episodio fu prontamente
celebrato su diversi organi di stampa come edificante
esempio di collaborazione tra cittadini
e istituzioni pubbliche, come nuova forma di
partecipazione, sia pure non proprio
volontaria, ai bisogni della collettività. Leggi tutto
1. Da "The walking debt" traiamo questo interessante grafico:
Per commentarlo, ci limitiamo a rammentare che l'output
gap è il minor reddito che consegue a una situazione (nel
periodo
di riferimento) di mancato pieno impiego dei fattori
della produzione. Leggi tutto
Prendiamo lo spot proiettato in anteprima alla fine della conferenza internazionale dei Ministri della Cultura che si è tenuta all’Expo il 31 luglio e il 1 agosto scorsi, e che da allora viene trasmesso: è un punto di partenza buono come un altro, ricco e denso di spunti utili per indagare la percezione diffusa della cultura nel nostro Paese.
Giancarlo Giannini, uno dei più noti attori nazionali, interpreta un maître che – all’interno della ‘splendida cornice’ del Palazzo Farnese di Caprarola – offre a noi spettatori il menu della cultura italiana. Un menu che consiste in: archivi e biblioteche; “arte in generale” (sic); siti archeologici; beni storici e antropologici (“per i palati più raffinati”); il cinema, lo spettacolo dal vivo e quello circense, presentati come “alcune delle nostre specialità”; il patrimonio paesaggistico. Lo slogan è: Italia: il cibo per la mente è in tavola.
Ora, questo catalogo ci mostra innanzitutto come la metafora
“gastronomica” continui a ossessionare l’immaginario politico
e
mediatico in materia culturale. L’inizio di questa storia si
può datare, naturalmente, alla famigerata frase dell’allora
ministro
Tremonti, che conviene qui citare nella sua versione
integrale: “Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi
un panino alla cultura e
comincio dalla Divina Commedia.” Rispetto a quel modello, qui
siamo in presenza di un chiaro avanzamento: al posto del bar
(alla buvette del
Parlamento), con la vetrinetta da qui viene estratto il
“panino alla cultura”, qui il contesto è di alta cucina e i
piatti sono le
eccellenze italiane. Non uno snack, ma un pasto
mentale sofisticato. Leggi tutto
Sul sito di “Le
parole e le cose” (qui), in
occasione della morte di Pietro Ingrao, è apparso un
articolo di Francesco Pecoraro intitolato «Ma quale
rivoluzione». Questa è la mia replica. [E. A]
Quando spolveri il sacro
ripostiglio
che chiamiamo “memoria”
scegli una scopa molto
rispettosa
e
fallo in gran silenzio.
Sarà un lavoro pieno di
sorprese
–
oltre all’identità
potrebbe darsi
che altri interlocutori si presentino –
Di quel regno la polvere è
solenne
–
sfidarla non conviene –
tu non puoi sopraffarla – invece lei
può ammutolire te –
(Emily Dickinson, Tutte le poesie, 1273, pagg.1277-1279, Mondadori, Milano 1997)
Gentile Francesco Pecoraro,
sono quasi un suo coetaneo (4 anni più di lei, credo) e pure io in quegli anni (non più “formidabili” ma appannatissimi e vituperati) ho parlato assieme a tanti di Rivoluzione (a Milano e dintorni, dal 1968 al 1976, in Avanguardia Operaia). Mi permetterò perciò, sulla falsariga del suo scritto, di dirle con massima sincerità e analiticamente cosa penso del modo in cui ha trattato il tema.
Leggi tutto1. «Uno dei segni più
nitidi del declino dell’intelligenza critica è l’incapacità di
un numero
crescente di nostri contemporanei di immaginare una
figura dell’avvenire che non sia una semplice amplificazione
del presente».[1]
In questo breve articolo, rimandando a una
trattazione maggiormente sistematica,[2]
effettuo
un esercizio d’immaginazione critica: come possiamo oggi
concepire un futuro che valutiamo “migliore” secondo criteri
esplicitamente
argomentati e da chiunque contestabili? Quali caratteristiche
avrebbe un “buon posto per vivere” che colga e rafforzi alcune
tendenze
storiche che stanno spingendo le persone a divaricare il mondo
della vita dal mondo delle merci?
2. Il buon posto per vivere che qui evoco s’ispira all’ideale
secondo cui la mia libertà si esprime soltanto alla condizione
che
si manifesti la vostra, e viceversa. «La regola della
convivenza non consiste nel fatto che la mia libertà finisce
dove comincia la
libertà dell’altro; cioè non sta nel fatto che la libertà
dell’altro è il limite della libertà mia; sta
nel fatto che la libertà dell’altro è la condizione
della libertà mia; se l’altro non è libero, non
sono libero neanche io».[3]
Non posso
scindere la mia libertà dalla vostra, o la vostra dalla mia:
la libertà è collettivamente indivisibile, o non è. Tuttavia,
si vive in un buon posto non perché esso sbandiera un
magnifico ideale, bensì perché ne approssima la realizzazione.
Leggi tutto
Quando l’unica nazione
occidentale a non aver ratificato il protocollo di Kyoto sul
riscaldamento ambientale denuncia con tanta
veemenza i danni per la salute e l’ambiente derivanti dal
mancato (e truffaldino) rispetto dei regolamenti USA
sull’emissione di gas da
parte dei veicoli circolanti c’è da porsi più di una domanda.
Si sta parlando, evidentemente, dell’enorme tegola caduta
sulla testa di una delle più importanti industrie
automobilistiche mondiali, la Volkswagen, dopo la scoperta del
raffinatissimo trucco messo in
atto da quella azienda per beffare i controlli sugli scarichi
delle auto diesel negli Stati Uniti e in Europa.
Lo scandalo si è rapidamente propagato nei paesi dell’Unione Europea e tocca, attualmente, la bellezza di 11 milioni di veicoli circolanti. La ditta tedesca ha reagito sostituendo l’AD e scaricando le colpe su un ristretto gruppo (“un piccolo gruppo” come è stato definito) di responsabili tecnici ed amministrativi, mentre Angela Merkel, per allontanare da sé e dal proprio governo qualsiasi ombra di sospetto o connivenza, ha promesso un’inchiesta rigorosa .
Film già visti ed ampiamente prevedibili, soprattutto da
parte di chi sa che i motori che ci vengono presentati, quasi
quotidianamente, come
innovativi, non inquinanti e a basso consumo non sono altro
che una continua riproduzione del vecchio motore a scoppio
messo a punto, sul finire
dell’Ottocento tra il 1876 e il 1892, da tre tecnici tedeschi
(guarda caso la continuità): Otto, Benz e Diesel. Motori che
sono cambiati
da allora ben poco, mantenendo quasi intatte le loro
caratteristiche di alto spreco energetico, elevati consumi,
scarso rendimento ed elevate
capacità di inquinamento. Leggi tutto
Per diversi giorni i mass
media, completamente disumanizzati e privi di qualsiasi
autonomia di giudizio o di un’identità
che non sia quella fornita loro dalle veline dei governi o
dagli uffici stampa delle zaibatsu industriali e finanziarie
internazionali, hanno cercato
di convincerci che le recenti prese di posizione di Angela
Merkel in tema di immigrazione fossero principalmente dovute
alle foto del bimbo siriano
affogato nel braccio di mare tra Turchia e Grecia mentre, con
la sua famiglia cercava di raggiungere la salvezza da una
guerra spietata e devastante
che sta radendo al suolo ogni possibilità di convivenza civile
in vaste regioni del Vicino Oriente.
Naturalmente nulla è più falso di questa “benevola”
rappresentazione della cancelliera tedesca e degli altri capi
di
Stato europei che hanno versato lacrime di coccodrillo su una
situazione politica, militare ed umanitaria che hanno
ampiamente contribuito a creare,
anche solo tacendo per viltà e/o convenienza sulle ragioni
reali del conflitto in atto. Infatti quello a cui stiamo
assistendo, con buona pace
delle anime pie, non è un risveglio della “coscienza” europea
ed europeista, ma soltanto un altro passo verso quel III
conflitto
mondiale di cui da tempo vado scrivendo. Leggi tutto
La morte di Pietro Ingrao sta innescando un sentimento collettivo di nostalgia generazionale. La nostalgia, se coltivata privatamente, è un sentimento come un altro. Ma quando diventa collettiva assume consistenti sfumature di oscenità. La più ripugnante è questo ri-pensarsi delle generazioni italiche novecentesche, considerandosi come ex-rivoluzionarie.
Non so voi, ma io, ripercorrendo l’intera mia esistenza di
non-militante (e tuttavia fedelmente immancabilmente votante
PCI), mi accorgo di
non essere mai stato un rivoluzionario, anche se ho molto
parlato di Rivoluzione. Non solo io non lo sono mai stato, ma
la gran parte del Partito, dal
’46 in poi, non lo fu mai. Non lo fu Ingrao, non lo furono le
ali estreme, non lo furono i fuoriusciti del Manifesto, non lo
furono partiti come
il PSIUP: nessuno che nel PCI contasse qualcosa fu mai un vero
rivoluzionario. «Non ci sono le condizioni», si diceva in
continuazione:
certo che non c’erano. L’Italia faceva parte della metà del
mondo occidentale che nella spartizione di Yalta si assegnava
all’impero americano, era nella Nato: non solo non ci sarebbe
stata consentita la rivoluzione proletaria, ma era impossibile
anche
l’ingresso del PCI in una coalizione di governo, per non
parlare di una maggioranza parlamentare e conseguentemente di
un governo a conduzione
comunista. Ma non furono queste le vere cause del nostro
parlare di Rivoluzione senza essere rivoluzionari, cioè senza
essere realmente
disposti alla Rivoluzione. Secondo la mia visione i
veri motivi furono altri. Leggi tutto
Con il voto sulla riforma costituzionale, la “sinistra” Pd si è definitivamente arresa a Renzi. Poco importa che il fiorentino abbia concesso qualcosa (peraltro irrilevante ai fini dei nuovi equilibri istituzionali), anche se avesse concesso la piena elettività di tutto il nuovo Senato, non cambierebbe nulla dal punto di vista politico perché quello che conta è che:
a- Renzi ha dimostrato di aver avuto la forza di fare la più radicale riforma costituzionale dal 1948 in poi e che si tratti di una riforma peggiorativa non ha peso;
b- Renzi ha piegato la minoranza del suo partito;
c- La minoranza ha perso l’ultima occasione per dimostrare di essere altro dal renzismo: se, dopo la riforma elettorale e il job act, ha votato anche la riforma della Costituzione, non ha senso che, d’ora in poi, minacci di votare contro qualsiasi altra cosa: in primo luogo perché non le crederebbe più nessuno, in secondo perché, a questo punto, nessun elettore capirebbe un improvviso irrigidimento su qualsiasi altra cosa, dopo che si è ceduto sulla Costituzione. Vedrete che voteranno anche la legge antisciopero.
d- La “unconditional surrender” di questi giorni azzera anche ogni potere di contrattazione di Verdini, Sel, Ndc eccetera perché ormai è chiaro che Renzi avrebbe comunque la maggioranza e quindi, ormai, siamo in pieno “regime”;
Leggi tuttoRitratto di Pietro Ingrao, protagonista di svolte mancate dentro e fuori il Pci, riformista di sinistra, simbolo della sinistra italiana
La sinistra italiana
(quel che ne rimane) piange in queste ore Pietro Ingrao,
storico dirigente “eretico” del Partito
Comunista Italiano deceduto nella sua abitazione romana
domenica 27 settembre, all’età di cento anni. Per lui si
sprecano non solo i
necrologi e le inflazionate etichette giornalistiche di
“grande vecchio”, “guru”, “padre nobile”, “papa
laico della sinistra italiana” e simili, ma anche le menzioni
e i ricordi ufficiali da parte delle più alte cariche dello
Stato, dal
Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha
affermato di considerare la figura di Ingrao un “patrimonio
del paese”, al
presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi, che ha
pagato pegno alla cospicua componente ex-comunista del partito
di cui è leader
definendolo “uno dei testimoni più scomodi e lucidi del
Novecento e della sinistra”. Perfino Giuliano Ferrara, un
tempo comunista e
poi passato armi e bagagli prima al Psi di Bettino Craxi e in
seguito direttamente alla corte di Silvio Berlusconi, lo ha
ricordato con affetto in
un’intervista concessa al quotidiano Il Messaggero:
“è venuto a mancare un pezzo della mia vita”.
Un simile unanimismo, se è almeno in parte comprensibile data
l’elevata statura morale e culturale di un uomo che ha
realmente fatto
la storia dell’Italia repubblicana e del comunismo italiano,
prima come giovane membro della Resistenza, poi come dirigente
e intellettuale del
Pci, parlamentare di lungo corso, presidente della Camera dei
Deputati e infine come punto di riferimento per molti versi
indiscusso di un
“popolo di sinistra” ormai orfano di grandi organizzazioni
politiche, di certo non aiuta a capire la specificità e il
significato
del personaggio. Se è vero infatti che Ingrao è, come in tanti
ripetono, il “simbolo della sinistra italiana”, va detto che
probabilmente lo è in tutti i suoi aspetti, incarnandone
risorse e vitalità ma anche i tanti limiti storici. Leggi tutto
A breve dovrebbe decidersi che fine farà il progetto di nuovo soggetto di sinistra, la “Cosa Rossa” di cui si parla dalla tarda primavera. Le cose per la verità non sembrano affatto promettere niente di buono.
a- Landini sembra essersi sfilato per fare una cosa che non si capisce che è, anche perché si è messo anche lui a ripetere questa fesseria del “non sono né di destra né di sinistra” che, ovviamente, lo escludo programmaticamente da una cosa che vuol essere la nuova forza di sinistra;
b- La brigata Kalimera (io, ormai, la direi Kalispera) ha difeso Tsipras, nonostante l’indecente capriola post referendum, ma ha capito che è un brand “freddo” che non porta consensi e si sta dirigendo verso il nuovo astro di Podemos che, però, sembra in difficoltà a sua volta;
c- Vendola ha lasciato intendere di essere pronto a fare lista comune con Renzi, assestando una mazzata alla residua credibilità della sua formazione politica che, peraltro, è l’unica ad avere un gruppo parlamentare;
d- L’incauta mossa di Civati (mi spiace dirlo di un amico) di lanciare i referendum da solo si è conclusa con il prevedibile insuccesso (ma come si fa a lanciare una raccolta di firme con agosto di mezzo?!);
e- Rifondazione continua a non esistere né politicamente né organizzativamente;
f- Fassina sembra colpito da improvvisa afasia.
Non pare un bel panorama.
Leggi tuttoLa mossa "caspica" della Russia e lo shock della Nato e dell'Occidente. Una flottiglia al centro di un continente può colpire in un raggio di 2500 km
Il bombardamento russo - contro ISIS & Co. - con missili da crociera partiti dal Caspio deve essere stato uno shock di proporzioni enormi per gli occidentali. Lo si nota dalla reazione dei principali mass media alla notizia: all'inizio hanno provato a negare i fatti insinuando che il filmato del lancio dalle corvette russe sul mar Caspio fosse un filmato falso. Poi sono passati all'accusa che i missili russi avessero colpito tre ospedali di una fantomatica ONG con sede legale a New York. Infine la CNN ha strillato che alcuni missili non hanno raggiunto il bersaglio e sono caduti in Iran. E tutti a riprendere questa notizia senza riscontri, sebbene in linea di principio sia possibile che un lancio così devastante come quello russo - se non altro per il gioco delle probabilità - abbia qualche percentuale di insuccessi.
Fatto sta che risulta palese la volontà prima di negare e poi di sminuire questa azione militare. Ma per quale motivo?
Innanzitutto perché l'attacco russo va in contrasto con la narrazione occidentale dominante, la quale vuole che solo la NATO e gli Stati Uniti abbiano armi tecnologicamente avanzate, mentre tutti gli altri - quando va bene - sono rimasti al tempo della seconda guerra mondiale.
Ma l'azione russa è stata scioccante anche per un altro
motivo: i russi hanno dimostrato di essere
riusciti
a non farsi imbrigliare dal trattato INF (Intermediate-Range
Nuclear Forces Treaty) - siglato nel 1987 da Ronald
Reagan e
Mikhail Gorbaciov - che vieta il posizionamento di missili
a raggio intermedio sul suolo dell'URSS
e dei paesi
aderenti alla NATO. Leggi tutto
Alla vigilia di ogni
legge di stabilità il dibattito sulla pressione fiscale
ritrova un suo
asfittico momento di vita. Difficilmente si spinge però
oltre una materia buona per demagoghi
e commercialisti. Un pensiero forte sulla fiscalità
sembra fermo da decenni e, soprattutto,
saldamente ancorato a una destra che sa bene quello che
vuole. Gli si oppone da sinistra, con spirito
egualitario e scarso ascolto politico, la denuncia della
«regressività» del sistema fiscale
e la proposta di un suo rivoluzionamento portate avanti
da Landais, Piketty e Saez1.
Sul fronte opposto, per quanto detestabili, i nipotini di Hayek, hanno saputo dimostrare un certo rigore e insediarsi stabilmente nell’orientamento di politiche governative impegnate nella competizione per la migliore offerta di vantaggi fiscali. Il loro totem, la celebre «curva di Laffer» nella quale si dimostra che oltre un certo limite di imposizione fiscale il gettito decresce perché decrescerebbe l’imponibile più rapidamente dell’aumento dell’imposta, sta ancora in piedi, sia pure in virtù di brutali rapporti di forza. Anche se l’ipotesi paradossale da cui muove, secondo cui una imposizione del 100% corrisponderebbe alla disincentivazione di qualsiasi attività è banalmente incontrovertibile, almeno in una economia di mercato.
Da qui discende, per vie non proprio limpide, l’avversione per qualsivoglia progressività fiscale, la difesa dei patrimoni e delle rendite, il dirottamento dell’imposizione verso i consumi, il concetto che il welfare se lo devono pagare soprattutto quelli che ne usufruiscono (e dunque non i più ricchi).
Insomma la destra, sul fisco, ha le idee assai chiare. Leggi tutto
Gli Stati
Uniti accusano la Russia di attaccare i ribelli moderati
anziché le milizie dello Stato Islamico. Il New
York Times del 30 settembre scrive, citando ufficiali
americani, che “gli attacchi non erano diretti contro lo Stato
Islamico ma contro gruppi di opposizione che combattono il
regime di Bashar
al-Assad, a cui Putin ha assicurato il proprio appoggio. Le
forze aeree russe hanno bombardato i sobborghi a nord di Homs,
dove la presenza dei
militanti dell’ISIS è scarsa o nulla”. Cita inoltre un
comandante ribelle, tale Saleh: ” Siamo in prima linea contro
l’esercito di Bashar al-Assad. Siamo ribelli moderati e non
abbiamo alcuna affiliazione con l’ISIS. L’ISIS è almeno a 100
chilometri lontano da qui”.
Lo scorso maggio il Dipartimento della Difesa USA aveva dato il via a un programma di addestramento dei ribelli moderati siriani, da usare come truppe locali sul terreno sia contro lo Stato islamico che contro Bashar al-Assad. Il programma prevedeva l’addestramento di 5.400 ribelli all’anno.
Cinque mesi dopo, davanti a un’allibita Commissione del
Senato, il generale
Lloyd J. Austin III ha
dovuto ammettere che i 500 milioni di dollari spesi a
questo titolo avevano prodotto “poche dozzine” di combattenti.
Una buona parte
di questi, in luglio, era stata attaccata dalla propaggine
al-qaedista in Siria, il Fronte al-Nusra: molti erano fuggiti
o rimasti uccisi, altri
si erano aggregati alle milizie del Fronte, consegnando loro
armi ed equipaggiamenti ricevuti dalla CIA. Leggi tutto
1. La riflessione di
Gramsci negli scritti politici
Quello dell’intellettuale collettivo è un tema classico dell’elaborazione gramsciana, e in parte si collega a quella estrema attenzione al terreno della formazione e dell’approfondimento, al lavoro culturale organizzato, tipica della sua impostazione. Per Gramsci, cioè, come già era stato per Gobetti, “la cultura è organizzazione”, e agendo sulla formazione della coscienza di singoli e masse ha ricadute decisive sul piano politico1.
Già nel dicembre 1917, dinanzi alla proposta di una
“Associazione di cultura” emersa nella sezione torinese del
Partito
socialista, Gramsci osservava: “Una delle più gravi lacune
dell’attività nostra è questa: noi aspettiamo
l’attualità per discutere dei problemi e per fissare le
direttive della nostra azione”, il che fa sì che non tutti si
impadroniscano “dei termini esatti delle questioni”, cosa che
provoca “sbandamenti”, disorientamento, “beghe
interne”. Non esiste cioè “quella preparazione di lunga mano
che dà la prontezza di deliberare in qualsiasi momento”,
perché chiari sono i presupposti teorici della decisione
politica. “L’associazione di cultura dovrebbe [quindi] curare
questa
preparazione […]. Disinteressatamente, cioè senza aspettare lo
stimolo dell’attualità, in essa dovrebbe discutersi tutto
ciò che interessa o potrà interessare un giorno il movimento
proletario”2. Leggi tutto
Muoviamo insieme queste
mani/Come farebbero i
marziani
(E.Vianello)
Sopravvissuto - The Martian regia di Ridley Scott
La versione italiana di questo film propala l’errata informazione che presso il ristorante newyorchese dell’Algonquin si svolgessero delle “tavole rotonde”. E chissà se alla fin fine è un bene che l’unica citazione colta di tutto il film[1] fallisca clamorosamente nelle sale del nostro paese, mantenendo al cocktail servito da Ridley Scott l’immacolata purezza dei suoi due ingredienti: una parte scientifica desunta dai fumetti dei Fantastici Quattro e una parte “umana” da far impallidire i fumetti cinesi dell’epoca di Mao, in cui tutti incessantemente si sacrificavano per la patria e per il popolo.
Indicare le due fonti e componenti di questo Sopravvissuto – The Martian non equivale però a un “verdetto” necessariamente negativo. In primo luogo perché il regista è lo stesso de I duellanti, Alien e Blade Runner (certo, è anche lo stesso di Il Gladiatore e Hannibal, come potreste ribattere voi!), pur sempre capacissimo di proiettare ambiguità sul soggetto francamente fascista (ecco, ce l’avevo sulla punta della lingua) che ha per le mani. In secondo luogo perché la trasparenza dei contenuti (e non c’è contraddizione con l’ambiguità di cui sopra, come vedremo) è pur sempre un valore: e il film ci spiattella davanti i problemi e le prospettive, le tensioni e le fobie della fase attuale della dominazione di classe - negli USA, in tutto il pianeta e potenzialmente in tutto il sistema solare – con una chiarezza encomiabile, talché poco mi preme far l’imitazione della Guida Michelin e valutarne con una o due stelle la riuscita “artistica”.
Leggi tuttoCome mi è capitato dire allo scoppio dello scandalo Volkswagen, qualche traccia di verità e di realtà si ha ormai solo quando una guerra tra potentati o gli interessi delle oligarchie, spingono a strappare qualche angolo del sipario: così solo grazie alla guerra che le case americane hanno deciso di fare a quelle europee che attraggono i clienti più sicuri e solventi, abbiamo appreso che i limiti di emissione per le auto sono poco più di una barzelletta per spingere all’acquisto di nuovi modelli.
In questi giorni poi gli stessi media e think tank che da due anni fanno gli aedi della ripresa americana e la pongono come faro che brilla grazie al falò dei diritti nella notte della crisi, hanno cambiato registro e mostrano come in realtà tutto questo nasca da dati fasulli, manipolati ad hoc o semplicemente fatti brillare senza alcune spiegazione come il brillocco scambiato per diamante. Naturalmente ci si riferisce agli ultimi numeri, non si fa un discorso globale pericoloso, ma ristretto al presente e al passato prossimo, tuttavia la valanga di osservazioni negative è tale che anche il Sole 24 ore è costretto a mettere in rilievo come i dati sull’aumento dell’occupazione a settembre siano ingannevoli:
“Aggiungendo la beffa all’inganno, la settimana lavorativa si è accorciata in settembre a 34,5 ore dalle 34,6 ore di agosto, uno sviluppo che equivale di fatto a una perdita di 348.000 posti di lavoro.Vale a dire che l’economia americana non ha affatto sostenuto la creazione di lavoro, piuttosto ne ha decretato una contrazione significativa: dell’ordine netto di 265.000 impieghi, una volta sommate le revisioni al ribasso di circa 60.000 posti relative ai due mesi precedenti.”
Altro che 142 mila nuovi posti (cifra che come fa giustamente notare Contropiano è comunque inferiore al turn over naturale).
Leggi tuttoA quanto pare, lo scandalo si va allargando ed i controlli dell’Epa si stanno estendendo anche ad altri marchi, ad altre ditte tedesche ed anche europee ed americane come la General Motors. Beh, la presenza di sigle americane è ovvia, a meno non volerla fare proprio sporca…
Siamo di fronte ad uno scandalo senza precedenti nel settore dell’auto, ma, soprattutto, siamo alla vigilia di un terremoto industrial-finanziario che avrà ripercussioni geopolitiche di vasta portata, per cui conviene iniziare a studiarlo da più punti di vista e ci torneremo diverse volte. Oggi partiamo da qualche constatazione e qualche deduzione facile facile a partire da una stima di cosa costerà la questione alla VW.
Partiamo dalla spesa più ovvia: la multa che verrà irrogata negli Usa e che potrebbe oscillare dai 12 ai 18 milioni di dollari. Ovviamente seguiranno quelle europee, che però potrebbero essere più basse paese per paese, sia per le dimensioni più ridotte di ciascun paese, sia perché la normativa europea in materia di emissioni NOx è molto più permissiva ed ambigua. Però va considerato che il grosso degli 11 milioni di auto taroccate è stato venduto qui in Europa dove, peraltro i tedeschi hanno fatto di tutto per non essere amati (a proposito: io non odio affatto i tedeschi come qualcuno pensa, anche se mi sono insopportabili alcuni loro comportamenti) e, peraltro, quello che conta è la somma totale delle multe. Direi che un’altra quindicina di miliardi sono da prevedere.
Leggi tuttoPer non tediare chi legge, sarò breve:
a) non è vero, come si affrettano a dire i media mainstream, che il Portogallo abbia “premiato” gli autori dell’austerity: le due forze politiche responsabili dell’austerità, il Partito socialista (dal 2009 al 2011) e la Coalizione di Centro Destra (dal 2011 ad oggi), prendono complessivamente poco meno di 4 milioni di voti, circa il 41% del totale dei voti abilitati. Il grande vincitore è l’astensionismo, come oramai avviene un pò ovunque, Grecia esclusa. Il 43% degli elettori non vota nemmeno più, ed al netto di quel 10-15% di astensionismo fisiologico, si tratta di un enorme messaggio di sfiducia per la politica, e di un segnale, percioloso perché foriero di potenziali nascite di nuovi caporali austriaci, di disperazione;
b) Non è del tutto esatto dire che il Bloco de Esquerda, che
fa un eccellente risutato, raddoppiando il suo consenso
rispetto alle Politiche
del 2011 ed alle Europee del 2014, sia la Syriza portoghese.
Sebbene nato anche esso come fusione di diversi movimenti
della sinistra radicale
(trotzkisti, maoisti e socialdemocratici radicali) non ha
affatto commesso la cazzata di Tsipras di andare in giro a
professare il suo assoluto
europeismo. Una dei due coordinatori nazionali, l’ottima
compagna Catarina Martins, ha detto con estrema chiarezza,
alla vigilia del voto, che
“sebbene noi non difendiamo una uscita dall’euro, il
Portogallo deve essere praparato a tutti i ricatti e le
minacce. Il Portogallo deve
essere preparato ad uscire dall’euro, se vuole evitare i
ricatti del signor Schaeuble. Se dobbiamo vivere con dignità o
con l’euro,
scegliamo di vivere con dignità” (http://www.tvi24.iol.pt/politica/en…).
Leggi tutto
Già tre anni fa ci occupammo su questo sito della crisi siriana ipotizzando che si trattasse di una complessa partita a scacchi tra la Russia (che appoggia al Assad) e gli USA (che appoggiano più o meno apertamente le forze che vorrebbero rovesciare il governo in carica). Non ci siamo sbagliati: siamo di fronte ad una partita a scacchi che potrebbe cambiare radicalmente i rapporti di forza nella regione medio orientale e data la sua importanza strategica ii rapporti di forza su scala globale.
Da una settimana assistiamo infatti al diretto intervento della Russia nella crisi tramite l’uso della sua forza militare. Tale intervento – a detta di molti esperti militari – sta letteralmente demolendo le forze anti Assad che ormai riattraversano il confine per mettersi al sicuro.
In questa situazione evidentemente favorevole alla Russia e ad Assad si sono levate alte le proteste degli occidentali che prima hanno protestato perchè l’aviazione russa bombarda anche i cosiddetti “oppositori moderati addestrati dalla CIA” e poi hanno preteso (così ha dichiarato l’ambasciatrice all’ONU degli Stati Uniti Samantha Power) che la Russia comunicasse i propri bersagli precisamente e con una settimana d’anticipo. E’ evidente che tali pretese sono state fatte cadere nel vuoto dalla Russia che ha continuato nella sua azione militare.
Oggi però il New
York
Times ha disvelato la nuova strategia occidentale: gli
USA hanno deciso di appoggiare, anche con raid aerei,
un’offensiva
(immaginiamo pianificata su due piedi) di una coalizione curda
e dei cosiddetti “oppositori moderati” contro Raqqa, la
capitale siriana
del cosiddetto stato islamico (ISIS). Leggi tutto
Con la frase
“sarà probabilmente
appropriato alzare il livello obiettivo dei tassi d’interesse
federali entro la fine dell’anno” Janet Yellen,
presidente della Federal Reserve, pare aver tolto ogni dubbio
sul fatto che ci stiamo avvicinando al primo rialzo dei tassi
d’interesse
negli Stati Uniti. Sono passati circa 6 anni da quando vennero
fissati allo 0-0,25% per far uscire il gigante americano dalle
secche della Grande
Recessione.
Da allora la prima economia del mondo è riuscita a recuperare quasi interamente i posti di lavoro persi, anche se non è riuscita a riavvicinarsi ai ritmi di sviluppo avuti negli anni precedenti al crollo della Lehman Brothers. Dalle parole della Yellen l’abbandono dei tassi a zero sembra pertanto giustificato dal fatto che, con l’occupazione vicina al pieno impiego e l’attività economica in fase di recupero, l’inflazione potrebbe tornare a far capolino. La “normalizzazione” della politica monetaria avrebbe anche lo scopo di contrastare il pericolo di formazione di “bolle” finanziarie, visto il lungo periodo trascorso con tassi a zero e continue immissioni di liquidità.
Però, se dopo i ripetuti messaggi del board della Fed è
ragionevole attendersi il molto annunciato rialzo dei tassi e
un progressivo
percorso di normalizzazione della politica monetaria
statunitense, l’analisi del modo in cui i mercati hanno
anticipato questa decisione e
l’economia globale sta attualmente reagendo porta a
conclusioni non più così scontate. Leggi tutto
Il tasso di
disoccupazione giovanile, che riguarda individui di età
compresa fra i 15 e i 24 anni, ha raggiunto,
nell’ultima rilevazione ISTAT di giugno, il 44,2%, in aumento
di 1,9% rispetto al mese precedente, raggiungendo il livello
più alto dal
primo anno di stima (il 1977). La rilevazione esclude i
giovani inattivi, ovvero coloro che non cercano lavoro.
L’ISTAT rileva che
nell’ultimo anno, il tasso di disoccupazione complessivo è
aumentato di 0.3 punti percentuali.
A ben vedere, l’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo Governo. La propaganda governativa è prevalentemente concentrata nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti. Molti commentatori fanno osservare che la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. E, seguendo questa interpretazione, è prevedibile che alla scadenza del periodo durante il quale le imprese potranno godere di decontribuzioni, molti contratti verranno ri-trasformati in contratti a tempo determinato. Ma soprattutto la propaganda governativa è impegnata in una tenace battaglia volta a dipingere il sindacato come una forza reazionaria, la cui azione frena la crescita.
L’aumento della disoccupazione giovanile è imputabile al
fatto che, come
registrato da Banca d’Italia, fin dal 2010, la
riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di
riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti. Leggi tutto
Il testo pubblicato nel volume collettivo Velocità. Tempo sociale tempo umano (a cura di Marco Manzoni e Sergio Scalpelli, Guerini e Associati, Milano, 1988, pp. 113-116) venne ripreso con alcune varianti in Elvio Fachinelli, La mente estatica (Adelphi, Milano 1989, pp. 90-95).
Una
singolare linea culturale percorre l’Ottocento e attraverso
Poe e Baudelaire giunge fino a Walter Benjamin e oltre. Essa
trova nella
folla, nel brulichio e nella promiscuità della folla, una
fonte di affascinamento e di ebbrezza. Una citazione, da Les
fleurs du
mal di Baudelaire:
Dans les plis sinueux des vieilles capitales, /Où tout, même l’horreur, tourne aux /enchantements, /Je guette, obéissant à mes humeurs fatales, /Des êtres singuliers, décrépits et charmants. [1]
Oppure ancora, questi due versi trovati non so più dove:
L’apparizione di questi volti nella folla / petali su un ramo nero bagnato (Ezra Pound, In una stazione del metro).
Qui l’esplosione della parola «petali», contrapposta e legata al «ramo nero bagnato», costituisce una traccia di ciò che Benjamin chiamava una «illuminazione profana».
Estasi metropolitane e “velocità divina”
È da notare che la folla è
storicamente un antecedente della massa. Secondo Benjamin,
la folla è
il velo che nasconde al flâneur la massa.[2]Nella folla
gli individui conservano la loro
fisionomia, sia pure come granelli affiancati gli uni agli
altri. Passando a massa, questa fisionomia si perde. Leggi tutto
La conduttrice si gira verso il ministro.
– Ancora una volta i voti del suo partito, il Nuovo Centro
Destra, sono stati decisivi per il
governo. Qualcuno ipotizza che la riproposizione del progetto
del ponte sullo Stretto di Messina da voi sempre sostenuto sia
in qualche modo collegata
all’approvazione della riforma del Senato.
Il ministro sgrana gli occhi bulbosi con aria indignata.
– Respingo decisamente
questa volgare insinuazione, oltretutto basata su una
grossolana falsità. Non c’è stata nessuna riproposizione del
ponte sullo
Stretto. La grande opera attualmente in programma è molto più
ambiziosa e innovativa: il ponte con Brooklyn.
– Il ponte di
Brooklyn?
– No, il ponte con Brooklyn, che collegherà
direttamente la principale comunità italoamericana con le sue
radici in Sicilia.
– Ma… c’è di mezzo l’oceano.
– Questo non sarà un problema per la nuova
tecnologia modulare architettonica flessibile allo studio
della fondazione Bridge is Beautiful, che riceverà i
finanziamenti statali e
distribuirà gli appalti.
– Una fondazione creata apposta per una sola grande opera? Leggi tutto
Leggendo i sondaggi (da prendere, come sempre, con le molle) sembra che ci sia generale accordo su queste tendenze:
a- il centrodestra si aggira ancora intorno ad un 30% nel suo complesso, ma solo sommando Lega, Fdi, Fi, diaspora di Fi (Alfano, Verdini, Fitto) e gruppo Casini;
b- il fenomeno Lega si sta gradualmente sgonfiando (è la seconda settimana di seguito che cala di circa 1 punto in percentuale a volta) ;
c- Forza Italia si sta polverizzando e non stupirebbe che scendesse sotto il 10%;
d- il Pd sta gradualmente risalendo dalla botta delle amministrative, ma è sempre lontano dalla soglia del 40%;
e- il M5s tende a risalire ed andare oltre il massimo storico del 25%, ma pur sempre fermandosi sotto il 30%;
f- l’area della “cosa rossa” arranca e fatica a raggiungere il 5%.
E sono tendenze stabili almeno dai primi di settembre. Ragioniamo nel caso si voti con l’Italicum non ulteriormente modificato. Sulla carta questo dovrebbe portare ad un ballottaggio Pd-Centro destra unito. Ma l’ipotesi di una alleanza di centro destra da Casini a Salvini appare fuori della realtà: non troverebbero un candidato che vada bene a tutti, ci sono troppe ruggini antiche e recenti, non riescono ad accordarsi per un candidato sindaco neppure a Milano (ne riparleremo), soprattutto si tratta di una sommatoria puramente matematica che non reggerebbe alla prova dei fatti (si sa che le grandi coalizioni non totalizzano mai la somma dei voti di tutti i componenti).
Leggi tutto«Se non faremo l’impossibile ci troveremo di fronte l’impensabile». Murray Bookchin
Alla fine
dell’agosto scorso il generale in pensione ed ex direttore
della Cia David Petraeus ha suggerito di armare
alcune componenti di al-Nusra, il ramo siriano di al-Qaida,
per combattere il sedicente Stato islamico. Di primo acchito
potrebbe sembrare
l’ennesimo riflesso pavloviano del Pentagono: armare gli
islamisti ha funzionato contro i sovietici negli anni ’80,
funzionerà
contro l’Isis, poco importa che il califfato sia l’esito
finale di quella stessa operazione afghana. Si tratta invece
di una
predisposizione al patto con il diavolo che pare affliggere
buona parte degli analisti occidentali orientati a una
soluzione “realista”
della crisi. Una pulsione che, considerato il numero di
diavoli in azione nel conflitto siriano, potrebbe costare
caro.
Il monumentale Diplomacy di Henry Kissinger dipinge
con efficacia l’alternarsi, nella storia della politica estera
americana, di due
correnti di pensiero: l’eccezionalismo messianico, volto a
perseguire la missione storica degli Usa come faro della
libertà nel mondo, e
un realismo d’impronta più europea. Il primo è storicamente
associato ai presidenti democratici, il secondo a quelli
repubblicani.
L’equazione è rimasta pressoché valida fino alla presidenza
Clinton. George W. Bush e i circoli neoconservatori hanno
rovesciato i
termini della questione in otto anni di amministrazione
radicalmente interventista e unilaterale. I risultati sono
noti. Dopo la sbornia neocon, il
realismo è tornato di moda: alla fine del suo mandato il
presidente Barack Obama, in patria accusato spesso di avere un
atteggiamento
naïve, ha dimostrato invece di aver appreso
discretamente le lezioni della scuola di Kissinger. Leggi tutto
(S. Luna, Woman as a river between borders, da Pity the drowned horses, 2004)
I confini sono per
definizione mobili. Cambiano, si spostano, avanzano e
indietreggiano in virtù delle vicissitudini largamente
imprevedibili
della storia. Pensare che i confini definiscano realtà fisse,
identità stabilite una volta per tutte e culture omogenee è
una
stoltezza che solo i neo-nazionalisti delle patrie locali
possono impunemente proclamare, in un’epoca in cui le grandi
compagini statali sono in
crisi. E soprattutto i confini si moltiplicano senza sosta.1
Le crisi degli imperi
sovranazionali e coloniali, tra inizio del XIX secolo e fine
del XX (impero ottomano, austriaco, inglese, francese,
sovietico, federazione iugoslava
ecc.) hanno causato la moltiplicazione degli stati sulla carta
geografica del mondo, trasformandola in una sorta di
patchwork. Allo stesso tempo,
all’interno dei confini, si stanno creando entità, enclave,
autonomie che pretendono di essere distinte imponendo, con
vario successo,
nuovi confini. L’arretramento dei nazionalisti catalani e
scozzesi (come l’armistizio tra baschi e stato spagnolo e tra
cattolici
nord-irlandesi e Regno Unito) non segna affatto la fine dei
nazionalismi locali e la diminuzione dei confini, ma semmai
uno stallo che può dar
vita, come dimostrano la guerra a intensità variabile tra
Ucraina e Russia e l’annessione della Crimea, a nuove contese
sui confini.
La tendenza alla frammentazione e quindi alla moltiplicazione dei confini ha ovviamente subìto una battuta d’arresto immediatamente dopo la seconda guerra mondiale
Leggi tuttoAprès moi le deluge! E’ il motto di ogni capitalista come di ogni nazione capitalista. Perciò il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita di un operaio, finché la società non la costringa ad averne
La
storia del progresso – ci viene detto- è una continua avanzata
verso il benessere di tutti, di modo che il lavoro sarà il
mezzo di
emancipazione delle masse, non più intese come un mostro
pericoloso ed ebbro di idee di rivoluzione, bensì come un
insieme di individui
isolati, caratterizzati sempre di più dall’utilizzo della
tecnologia e da una religione del consumo quale reazione
“naturale”
rispetto al totale dominio dell’uomo sulla natura.
Invece, ripercorrendo le tracce lasciate da Marx e da Engels sul finire della prima metà dell’Ottocento ci si accorge che già allora i due maestri del socialismo ravvisavano i termini di una battaglia solo apparentemente storiografica: i mezzi dialettici con cui entrambi combatterono sul fronte del proletariato e contro la nascente borghesia industriale si rivelarono diversi ma complementari; Engels nel 1844 si recò in Inghilterra tra gli operai di Manchester e della zona di Liverpool, dove poté appurare personalmente le condizioni di vita misere e l’abbrutimento generale della classe appena nata; Marx nel primo libro del Capitale dedica un’ampia parte del suo studio alle legislazioni sul lavoro nelle fabbriche tra il 1833 e il 1864: ovvero, quella fase che egli stesso definisce come “paradigmatica” per un’efficace comprensione della ferocia e della sete di plusvaloro che animarono da principio la borghesia industriale inglese. Dicevamo, che i mezzi dialettici furono parzialmente diversi: perché Engels redasse un resoconto che oggi definiremmo “etnografico” mentre Marx si dedicò a un vero trattato economico e giuridico con gli inevitabili prelievi storici e documentari forniti dalla documentazione scritta allora esistente sulla vita delle classi popolari a contatto con l’industria cotoniera, manifatturiera, della panificazione e così via.
Leggi tuttoDybala dovrà moltiplicare di 7 volte il suo attuale numero di goal per poter raggiungere il record attuale di Totti. Il Mississippi è lungo 8 volte il Tevere. Il diametro di Giove è 11 volte più grande di quello della Terra.
L’esposizione della Deutsche Bank in strumenti finanziari derivati è 20 volte superiore al PIL tedesco. Venti fottute volte, in un rapporto 2.7 contro 54.7 bilioni di euro, o 54.7 milioni di milioni di euro, o 54.7mila miliardi di euro. Insomma, so’ssoldi.
Certo, questa è la cosiddetta esposizione lorda. Una volta nettata delle esposizioni favorevoli, la cifra si riduce a soli 0.02 bilioni, ovvero a 21mila milioni. Che so’ccomunque soldi, ma sono solo lo 0.03% dell’esposizione lorda. Il punto quindi è: Deutsche Bank quanto sta rischiando, l’importo netto o quello lordo?
Un attimo, facciamo qualche passo indietro.
Zerohedge , un sito impostato sulla linea “andrà molto peggio prima di andare peggio”, e il suo leggendario autore Tyler Durden (esatto, Tyler Durden) ci spiega come spesso l’esposizione delle banche nei confronti di vari tipi di rischio – rischio tassi, rischio cambio, rischio Paese – sia celata dal fatto di aver assunto posizioni opposte in merito a tal rischio, che quindi si nullificano tra loro praticamente azzerando o quasi possibili impatti negativi.
Leggi tuttoPer anni si è sorriso di quelli che ipotizzavano un’altra verità sull’11 settembre e l’abbattimento delle torri, degli irriducibili complottisti che gridavano all’attentato compiuto dallo stesso potere americano per avere mano libera in Medio Oriente e Asia Centrale oltre che per ridurre la libertà interna. Adesso dobbiamo dare loro una parte di ragione, nel senso che hanno colto comunque una verità di fondo, ossia la creazione di uno scenario tutto strumentale per il terrorismo. Adesso hanno moralmente ragione visto che gli Usa hanno vivacemente e grottescamente protestato contro i raid russi diretti contro le le postazioni di Al Quaeda oltre che dell’Isis a ridosso della base di Tartus, ossia di quella organizzazione terrorista accusata di aver organizzato l’attentato alle twin tower. Dov’è finita la guerra infinita e la caccia all’uomo nei confronti di Bin Laden dal cui scalpo è nata la rielezione di Obama?
Le povere vittime dell’attentato si rivolteranno nella tomba
e nelle oscurità del ground zero ora che sono state vendute a
nuovi
e diversi disegni imperiali in cui i terroristi
presumibilmente autori della strage sono divenuti alleati,
pagati e armati nemmeno sottobanco, ma con
una specifica delibera del Congresso. Ora che il senatore
McCain protesta contro l’attacco ai ” CIA-trained
rebels.”, Leggi tutto
Il nesso tecnologia/capitalismo è tornato recentemente alla ribalta, interpretato in termini ottimistici, nel fortunato libro di Paul Mason, "Postcapitalism" (che a breve uscirà anche in Italia). L'errore è pensare che la tecnologia abbia il potere di liberarci dal capitalismo. È piuttosto il contrario: è la tecnologia che permette al capitalismo di sopravvivere ai suoi problemi
E’ arrivato un nuovo profeta che
promette un postcapitalismo meraviglioso, umano,
collaborativo, intellettuale,
gratuito. Un postcapitalismo che sta nascendo dal capitalismo
stesso e che, come il proletariato di Marx cancellerà questo
capitalismo
e ci porterà gioia, felicità, condivisione libera, la
liberazione dalla fatica, eccetera eccetera. Perché si compia
il passaggio
al postcapitalismo basta confidare nella potenza
rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie, confidare
nel loro potere liberatorio e liberante
nonché libertario, nella loro capacità di diffondere nuovi
modi di lavorare e di consumare liberando il tempo dal lavoro
e permettendo a
noi mortali attività in rete finalmente libere e quindi non
capitalistiche. Basta credere che il web sia la nuova fabbrica
e che
svolga la stessa funzione delle fabbriche del XIX°
secolo e che il suo proletariato digitale, diverso
da quello industriale
perché più informato e più connesso, possa abbattere questo
capitalismo.
Tutto bello e affascinante. Dimenticando però che se il vecchio proletariato – che era classe in sé ma anche per sé avendo una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo – è stato ormai in-corporato nel (è parte del corpo politico e culturale del) sistema capitalista, si è progressivamente sciolto nel capitalismo e ne condivide l’egemonia, questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista, non ha alcuna idea di una possibile alternativa, ha assunto in sé l’imperativo della propria integrazione nel sistema (il dover essere connessi) e pur essendo forse ancora classe in sé
Leggi tuttoLe foto del dirigente di Air France che sfugge seminudo al linciaggio dei dipendenti ha girato il mondo: è l’icona del malessere che affligge l’Esagono. Il “motore franco-tedesco” è infatti grippato a causa del guasto al cilindro francese: è l’effetto del logorio prodotto dall’euro, moneta insostenibile per l’economia francese nel lungo periodo. Dall’industria alle finanze pubbliche, la Francia è in condizioni simili all’Italia, con l’aggravante che l’alto livello di sindacalizzazione e l’orgoglio nazionale, rendono inattuabile qualsiasi cura “Monti-Renzi” di svalutazione interna. Non è un caso che il terrorismo targato ISIS si concentri principalmente in Francia, bomba a orologeria che ticchetta inesorabile sotto l’euro
Air
France, specchio di un Paese “en panne”
Lunedì mattina, 5 ottobre, riunione del comitato centrale di Air France. L’aria è tesa, fuori e dentro dal quartiere generale della compagnia aerea: i lavoratori sono in agitazione dopo la notizia trapelata il venerdì precedente che il vettore procederà con un ulteriore taglio di posti. Le indiscrezioni parlano di di cifre a tre zeri. Il direttore delle risorse umane (mestiere infame di questi tempi), Xavier Broseta, conferma: a essere soppressi saranno 2.900 posti, essenzialmente tra il personale di terra. La sala dove è riunita la dirigenza esplode: alcuni salgono sui tavoli, poi altri scavalcano e tra le urla premono sempre più i dirigenti verso le pareti di fondo. Cul de sac. Con le giacche lacere e scortati dagli addetti alla sicurezza, Boseta ed il vicepresidente dello scalo di Orly riescono a guadagnare l’uscita, ma all’esterno il clima è ancora più infuocato: premuti dalla calca in escandescenza, i due avanzano a fatica. Nelle riprese successive si vede Xavier Broseta, ormai a torso nudo, che incespica e ruzzola a terra, si rialza e riprende a correre verso le cancellate: la sicurezza lo issa a peso oltre recinzione e gli ultimi fotogrammi lo ritraggono allontanarsi semi-nudo e sotto choc.
È questo il
video1
che ha fatto il giro del mondo e sarà ricordato come un
momento saliente non solo della crisi di
Air France ma anche della, sottaciuta ma acuta, crisi
dell’economia francese. Se le compagnie di bandiera riflettono
il prestigio e la ricchezza
del Paese, allora le loro condizioni di salute sono indicatori
importanti per il sistema socio-economico nel suo complesso. Leggi tutto
Considerando l’enorme influenza su scala mondiale della chiesa cattolica, è un contributo cruciale allo sviluppo di una coscienza ecologica critica. E’ stata accolta con entusiasmo dai veri difensori dell’ambiente, ha al contrario suscitato inquietudine e disprezzo da parte dei religiosi conservatori, rappresentanti del capitale e ideologi dell’«ecologia di mercato». Si tratta di un documento di grande ricchezza e complessità, che inaugura una nuova interpretazione della religione giudaico-cristiana – in rottura con «il sogno prometeico di dominio sul mondo» – e propone una riflessione profondamente radicale sulle cause della crisi ecologica. In diverse parti, come per esempio nell’inseparabile associazione del «grido della terra» con il «grido dei poveri», si percepisce che la teologia della liberazione – in particolare dell’eco-teologo Leonardo Boff – è stata una delle fonti d’ispirazione.
Nelle brevi note che seguono mi interessa enfatizzare una
dimensione della Enciclica che spiega le resistenze presenti
nelle
establishment economico e mediatico: il suo carattere
antisistemico. Leggi tutto
Sabato sera, da Fabio
Fazio, un attore intelligente e sincero – Pierfrancesco
Favino – si è posto,
e rivolto a tutti quelli “al di qua del tavolo, noi che siamo
guardati”, la semplice domanda: “che cosa io ho venduto di
me, per
arrivare dove sono?”. È la domanda che si fa, a scopo
professionale, prima di affrontare l'interpretazione di un
personaggio molto
lontano da lui – un politico corrotto, in questo caso – per
trovare in se stesso la misura necessaria a calarsi in quei
panni.
È una domanda che è inutile rivolgere ai giornalisti italiani, specie quelli dei grandi media e dai grandi stipendi (Gramellini, in tv, era non per caso imbarazzatissimo), anche se le risposte sarebbero certamente rivelatrici. Ben più di un'inchiesta che peraltro non fanno.
Scusate il lungo giro di parole, ma leggendo l'editoriale di
Franco Venturini, sul Corriere della sera
di oggi, quella domanda ci è riesplosa nella testa. Titolo
promettente (Noi e la paura di una guerra
mondiale), incipit
farsesco, che
rende pressoché inutile la lettura del lungo e
incompleto elenco dei “pezzettini” di guerra che vanno
componendosi in un mosaico complesso, articolato, a molte
facce: Leggi tutto
Poche cose in politica hanno più forza del luogo comune. E così quando a ripetere stanchi cliché razzisti è nientemeno che Ernesto Galli della Loggia, apprezzato (dai neocon di tutto il paese) maitre a penser della destra muscolare italiana, nientemeno che dalle colonne del Corriere, ecco che il luogo comune si rafforza e assume il valore di un dato di fatto. L’attacco avvenuto ieri dalle colonne del Corriere della Sera all’Islam e al mondo arabo in quanto tale è paradigmatico di un certo modo di pensare, che solletica gli istinti sottoculturali della popolazione spacciandosi per “pensiero alternativo”. In realtà, è esattamente ciò che pensa la maggior parte della gente, è in tutto e per tutto pensiero medio, “ovvinionismo” un tanto al chilo detto però come se si stessero riaffermando chissà quali verità occultate dai media e dalla politica, ovviamente “dominata da una cultura di sinistra legata al Pci di gramsciana memoria” eccetera…
Il pregio dell’articolo è quello di procedere per punti
chiari, dunque, senza girarci troppo intorno come di solito
fanno i media
liberali, l’autore stila cinque punti “minimi” per instaurare
un vero rapporto paritario con il mondo arabo, oggi necessario
di
fronte all’invasione di “milioni di immigrati musulmani che
popolano l’Italia e l’Europa”. La premessa descrive da
sé l’intento ideologico di Galli della Loggia, un esempio
palese di distorsione dei fatti e degli avvenimenti storici.
Serve
all’autore per inquadrare la vicenda e dare avvio alla vis
polemica successiva. Il dato di fatto da cui partire
sarebbe “la
disintegrazione di fatto dell’intero sistema di Stati nati
dopo la Prima guerra mondiale sulle rovine dell’Impero
Ottomano, dunque la
ridefinizione di interessi, alleanze, rivalità…”. Leggi tutto
Nato. «Mosca viola la Turchia e attacca i ’nostri’»
Il Consiglio Nord Atlantico si è riunito ieri d’urgenza a Bruxelles, a livello dei ministri della difesa, «in un momento decisivo per la nostra sicurezza». La Nato è «fortemente preoccupata dalla escalation dell’attività militare russa in Siria», in particolare dal fatto che «la Russia non sta prendendo di mira l’Isis, ma sta attaccando l’opposizione siriana e i civili».
Non specifica la Nato quale sia «l’opposizione siriana»
attaccata dalla Russia. Il Pentagono ha
dovuto ammettere, il 16 settembre, di essere riuscito ad
addestrare in Turchia, spendendo 41 milioni di
dollari, appena 60 combattenti attentamente
selezionati, ma che, una volta infiltrati in Siria con
l’insegna di «Nuovo esercito siriano», sono stati «quasi
completamente spazzati via da forze del
Fronte al-Nusra». L’«opposizione siriana», che la Nato
vorrebbe non fosse attaccata, è una galassia
di gruppi armati, formati per la maggior parte da
combattenti stranieri, finanziati dall’Arabia Saudita
e altre monarchie del Golfo, molti dei quali sono passati
dai campi di addestramento della Cia e delle Forze
speciali Usa in Turchia. Il confine tra questi gruppi
e l’Isis è assai labile, tanto che spesso armi
fornite all’«opposizione» finiscono nelle mani dell’Isis.
Ciò che li accomuna
è l’obiettivo, funzionale alla strategia Usa/Nato, di
abbattere il governo di Damasco. Leggi tutto
Doveva testimoniare, Mario Draghi, nel corso delle udienze al processo di Trani contro “Standerd & Poor’s“. Era stato citato dal PM Michele Ruggiero, ma non verrà. Già, perché – ha detto – “è un momento delicato per l’economia mondiale” e “teme clamori mediatici“. Un altro modo per dire che più sali in alto, più sei intoccabile. E’ vero che l’imputato non era lui, ma l’agenzia di rating che il 21 maggio 2011 preannunciava in un report l’instabilità dell’Italia e che nel gennaio 2012 la declassava da A a BBB+, però nel corso di un’audizione un teste viene interrogato e potrebbe correre il rischio di rispondere a domande scomode, che poi verrebbero riprese dai giornali e – guarda un po’ – finirebbero in pasto all’opinione pubblica. Che non deve sapere, mi raccomando! Così bisognerà accontentarsi delle dichiarazioni che già aveva reso quando venne sentito, quattro anni fa a Roma, dal pm Michele Ruggiero e dalla Guardia di finanza di Bari in merito al pericolo di un contagio greco per il sistema finanziario italiano. Per l’occasione, aveva dichiarato che il sistema nazionale era solido (e quindi, perché declassarlo?).
Invece, lo scorso 24 settembre i giudici hanno ascoltato
Mario Tremonti, che all’epoca dei fatti era il Ministro
dell’Economia,
il quale ha dichiarato: «Il quadro economico
finanziario dell’Italia era solido; l’economia del Paese
correva più di
Francia e Germania, esposte molto più per i prestiti alla
Grecia; e non c’era rischio di una paralisi politica».
Leggi tutto
La crisi
che stiamo vivendo ormai da quasi un decennio e che
rappresenta solo una forma determinata di una crisi generale
che attraversa tutto il sistema capitalista-finanziario
globale, non è solo indice di una ristrutturazione economica,
per dirla in termini
marxiani, ma ci parla di una mutazione profonda che investe la
soggettività e la sua dialettica quotidiana con i processi
storici in cui
è immersa e che è chiamata a vivere o a sopportare a seconda
dei casi e della posizione che questa stessa soggettività
ricopre
all’interno dei rapporti attraverso cui si produce e si
riproduce la ricchezza complessiva della società.
Una ristrutturazione di una soggettività potremmo dire “orfana” di idee e valori, estromessa da qualsivoglia spinta utopista e di concreta appartenenza ad un tutto o ad una comunità che lotta – attraverso identità e riconoscimento reciproco (da e nella società) – per imporre gramscianamente una nuova egemonia e un’alternativa di sistema, che tenta a fatica di costruirsi come soggetto cosciente, figlia di quella soggettività umanistica che ha marcato la differenza – nei secoli – tra l’Occidente e l’Oriente, tra un approccio attivo, in questo precipuo senso critico-filosofico al mondo e alle cose e, viceversa, un approccio naturalistico nei confronti del tutto, in quanto eterno mutamento in cui il soggetto era “istintivamente” immerso.
Ovviamente la tendenza alla generalizzazione in questo mio
contributo è necessaria, dato che non è possibile qui entrare
in tali
conflitti. Leggi tutto
L’innovazione è il vangelo del
capitalismo. Non è così per Joseph Schumpeter, che la
considera un fenomeno raro. Un
sentiero di lettura a partire dal saggio «Il fenomeno
fondamentale dello sviluppo economico» pubblicato dal Mulino
Un’operazione editoriale ardita questa del Mulino che ha avuto la regia accorta, ma discreta di Adelino Zanini, filosofo, ma anche storico del pensiero economico, avendo dedicato molta della sua attività di ricerca teorica a Joseph A. Schumpeter e Adam Smith, con felici incursioni nell’opera di John Maynard Keynes e nel campo della critica dell’economia politica di Karl Marx. L’operazione consiste nella pubblicazione di due capitoli scritti da Schumpeter per la sua Teoria dello sviluppo economico e poi soppressi dallo stesso economista austriaco perché «devianti» rispetto al corpus centrale dell’opera. Nella sua introduzione, Zanini ritiene, in maniera convincente, che invece sono testi rilevanti, perché danno la misura del laboratorio teorico di Schumpeter e della messa a fuoco della figura cardine del suo pensiero economico, cioè quella figura dell’imprenditore che ha, per Schumpeter, la capacità di rompere l’equilibrio inerente l’agire economico grazie alla sua capacità di proporre una nuova combinazione di elementi noti – nelle tecnologie, nel credito, nel processo produttivo e nella sfera della circolazione, nella domanda di beni – tale da produrre una discontinuità nello sviluppo economico.
Adelino Zanini argomenta, sempre nell’introduzione a Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico (Il Mulino, pp. 200, euro 18), la decisione della pubblicazione di questi due capitoli, archiviati e mai più ripresi da Schumpeter, non tanto per offrire allo studioso materiali che vanno a comporre, come tasselli persi, il puzzle di un pensiero economico centrale tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento, ma perché consentono, dato il loro carattere introduttivo e riassuntivo – si tratta in origine del 2 capitolo e del 6 capitolo della Teoria dello sviluppo economico – di evidenziare la sua presa di distanza dall’economia neoclassica allora dominante nelle università, visti i non sono pochi rinvii proprio alla critica dell’economia politica di Marx.
Leggi tuttoLa Russia è un
continente culturale, per me, di difficile decifrazione.
Ammetto prioritariamente la mia ignoranza
sostanziale epperò, proprio questa ignoranza mi muove a cercar
di colmare almeno i vuoti più gravi. E’ come sempre, una
sollecitazione esterna a muovere la curiosità di comprensione.
Sono stato abbonato a Foreign Affairs, la rivista di
geopolitica e relazioni internazionali che fa da riferimento a
gli ambienti di Washington. Mi
mandano perciò una newsletter ed ho accesso libero ad un
articolo a numero. Questa settimana (oggi 26.09.15) mi ha
colpito il titolo di un
articolo su “Il filosofo di Putin”, Ivan Ilyn e l’ideologia di
Mosca, di A. Barbashin e H.Thoburn. Poiché mi incuriosiva il
fatto che Putin avesse un filosofo di riferimento e non
conoscendo affatto Ivan Ilyn, ho fatto un po’ di ricerca. Il
secondo scatto di
curiosità che mi ha spinto poi più in là nella ricerca,
ampliandola, è stato un articolo del New York Times del
03.03.14 a
firma David Brooks in cui si dava notizia (riprendendo Maria
Snegovaya dal Washington Post) del fatto che Putin aveva
inviato in dono ai governatori
regionali, una trilogia di titoli che comprendeva, oltre al “I
nostri compiti” di Ilyn, la “Filosofia della
diseguaglianza” di Berdjaev e la
“Giustificazione del Bene” di Soloviev (o
Solove’v,
Solovyov). Beh, l’idea che il capo di un sistema così forte e
potente avesse inviato tre libri di filosofia al secondo
livello di
gestione territoriale del sistema, era intrigante assai. Di
primo acchito, la faccenda si configurava come l’invio di una
linea ideologica il
che era interessante, soprattutto per un modestissimo
“pensatore in proprio” come il sottoscritto. Interessante
perché qui da noi
sembrerebbe strano che Obama o Cameron o più modestamente
Renzi, inviassero tre libri in dono ad una struttura di
secondo livello. Peggio
ancora, di filosofia. Interessante anche il fatto che non si
trattasse di un documento di Putin ma di tre libri, di
altrettanti autori, del
XIX° e XX° secolo (Solovyov nasce nel 1853 e Ilyn muore nel
1954, Berdjaev sta in mezzo) noti e pubblici, tra le colonne
portanti della
tradizione culturale russa, almeno i primi due (Soloviev e
Berdajev). Cosa voleva dire a livello di contenuto? Qual’era
l’idea che voleva
trasmettere Putin? Cosa dicono questi tre autori e come sono
tra loro correlabili in un unico discorso che dovrebbe
rivelarci qual è
l’idea che Putin ha del destino russo? Leggi tutto
Il successo di Renzi al Senato: regime o vittoria di Pirro?
Ormai è chiaro: la contro-riforma costituzionale sta passando. Il Senato diverrà un ente inutile, al di là del ridicolo (e non ancora definito) sistema elettorale che ne determinerà la composizione. Il governo avrà ancora più potere di fronte ad una Camera asservita al premier, frutto di un premio di maggioranza ben peggiore di quello previsto dal Porcellum. La platea che andrà ad eleggere il presidente della repubblica sarà ancora più sbilanciata a favore del partito di maggioranza relativa.
Renzi ha dunque avuto la sua vittoria d'autunno. Il mostro antidemocratico sta ormai prendendo la sua forma definitiva. Ad agosto avevamo ipotizzato quattro scenari per il passaggio autunnale a Palazzo Madama della sua contro-riforma. Il primo prevedeva l'approvazione del progetto renziano senza modifiche sostanziali, il secondo ipotizzava cambiamenti non solo cosmetici concordati con la minoranza del Pd, il terzo un nuovo accordo con Berlusconi in cambio di una modifica dell'Italicum, il quarto la bocciatura della contro-riforma o comunque di sue parti essenziali.
Abbiamo invece avuto un mix delle prime tre ipotesi: la
controriforma non ha subito cambiamenti sostanziali, la
minoranza Pd si è
accontentata di un confuso ritocco di facciata sull'elezione
dei futuri senatori, Berlusconi (almeno ufficialmente) non ha
ottenuto nulla in cambio,
ma i suoi senatori sono spesso corsi in soccorso del vincitore
predestinato. Totale e senza freni, invece, l'appoggio del
nuovo gruppo parlamentare
messo insieme dal trafficone Verdini. Suo, in definitiva, il
marchio apposto sulla contro-riforma renziana. Un marchio che
potrebbe presto tornare
scomodo al capo del governo... Leggi tutto
Poiché le brutte notizie camminano sempre in compagnia, non mi stupisco di leggere, sfogliando un capitolo dell’ultimo World economic outlook del Fmi, una preoccupata analisi sull’andamento dei mercati delle materie prime, che solleva una questione parecchio importante: l’effetto del calo delle quotazioni delle commodity sull’economia dei paesi esportatori.
Questi ultimi, essendo paesi emergenti, vedono quindi complicarsi una situazione già resa complessa dagli alti livello di indebitamento che hanno raggiunto le loro economie, in un contesto finanziario che inizia ad esser loro avverso. Un rallentamento delle commodity implica necessariamente un calo degli introiti, da un parte, e ha effetti sulla crescita, dall’altra, andando a impattare sul funzionamento profondo di questi paesi. Ne deriva che dovranno faticare ancor di più per ripagare i propri debiti e insieme garantire la sicurezza economica delle loro popolazioni.
Qualche cinico penserà che in fondo sono problemi loro. Anzi
sarà pure contento, visto che il calo delle quotazioni finisce
col
provocare un sostanzioso trasferimento di ricchezza dai paesi
esportatori a quelli importatori. Ossia da molti poveri a
pochi ricchi. Ma costui
dovrebbe ricordare che le interconnessioni
del nostro
meraviglioso mondo tendono a esportare i problemi ben lungi da
dove sono originati, come sa chiunque abbia dimestichezza con
l’analisi dei
flussi bancari fra le economie avanzate e quelle emergenti. Leggi tutto
Quando si decide di intraprendere una lotta, il primo problema che ci si dovrebbe porre è il riconoscimento del nemico.
Non è questione da poco o da sottovalutare altrimenti rischiamo di combattere “contro sole” e, non vedere chi abbiamo di fronte, significa perdere in partenza.
Lo abbiamo già detto tante volte, siamo calate nella fase imperialista del capitalismo, nella sua fase che tende al monopolio. Il neoliberismo non è altro che il punto a cui è arrivato il capitale nel suo processo autoespansivo, è una vera e propria scelta ideologica e non il prodotto di un momento di crisi. O meglio, la crisi c’è ma è per tutti quelli attaccati dalle politiche neoliberiste, siano strati sociali o Stati, qui o nel terzo mondo, e nulla di quello che succede è il prodotto di una difficoltà del capitale, bensì di una precisa scelta.
Stiamo assistendo ad un lotta spietata senza esclusione di colpi per la ridefinizione dei rapporti di forza tra le multinazionali e gli Stati e con gli oppressi tutti.
Ma il neoliberismo è un prodotto ideologico statunitense che, testato nel Cile di Pinochet, attraverso l’Inghilterra è arrivato fino a noi in Europa.
Sono proprio gli Stati Uniti ad avere la pretesa egemonica e a porsi come Stato del capitale.
Dire questo non significa fare dell’antiamericanismo, ma
leggere gli avvenimenti che scorrono davanti ai nostri occhi
per quello che sono, un
attacco a tutto campo da parte degli Usa a tutti coloro che
sono asimmetrici agli interessi statunitensi, un passo dopo
l’altro, dalla
Jugoslavia, all’Iraq, passando per l’Afghanistan, dalla Libia
alla Siria o che possono essere funzionali al progetto
espansivo come per
l’Ucraina. Il progetto di dominio e di controllo mondiale
degli Usa cammina senza soste e non riconosce neppure alleati,
ma solo vassalli. Leggi tutto
Quali sono le cause
della crisi e cosa la distingue dalle crisi del passato?
Quali sono le prospettive politiche e
ideologiche in questa fase? È possibile un secondo New Deal
keynesiano o è in discussione l’intero assetto dell’egemonia
capitalistica? Cosa hanno ancora da insegnarci Marx, Lenin e
Gramsci? In definitiva, come dovranno agire nei giorni, nei
mesi e negli anni che ci
aspettano le sinistre di classe di tutto il mondo?
Cerchiamo di rispondere a queste domande con il Prof. Luciano Vasapollo, marxista, critico dell’economia e docente all’Università di Roma "Sapienza" e alle Università de La Habana e Pinar del Rio (Cuba), nonché direttore del Centro Studi CESTES dell’USB-Unione Sindacale di Base e dirigente politico comunista da oltre quaranta anni.
L’intervista è di Ettore Gallo, studente e militante del Collettivo Economia La Sapienza. Questa lunga e approfondita conversazione costituisce l’intervista conclusiva di un ciclo iniziato quest’anno e che ha toccato come temi il fallimento delle trattative fra Grecia e Unione Europea ( “A cu’ si fa’ pecura, lu lupu si lu mangia!”- Tsipras doveva rompere la gabbia) e le prospettive politiche dei Paesi dell’ALBA (L'Alba euromediterranea: da provocazione teorica a percorso reale). Ricordiamo inoltre un’intervista-conversazione alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2014 (link) e la partecipazione dello stesso Prof. Vasapollo a un’iniziativa promossa lo scorso maggio dal Collettivo Economia sullo sviluppo economico e le prospettive politiche dei Paesi dell’ALBA (video).
Leggi tuttoPacifisti del mondo svegliatevi: non avete altro da perdere che la vostra sfiducia!
Il Pentagono è furioso.
Grazie ad una “gola profonda”, il Corriere della Sera
ha potuto
rivelare in prima pagina, ieri mattina il 6 ottobre, che il
Ministro della Difesa Roberta Pinotti e il suo omologo
statunitense Ashton Carter avevano
già deciso l'uso, per missioni di bombardamento, dei caccia
italiani attualmente in Iraq per i soli compiti di
ricognizione. Decisione presa,
dunque, ancor prima dell'arrivo del sig. Carter in Italia ieri
pomeriggio per la sua visita ufficiale di due giorni, e ancor
prima che il Parlamento
italiano potesse discutere l'intera questione, come imporrebbe
la Costituzione.
La reazione alla notizia di Corsera e la successiva controreazione del governo sono state immediate: grida di scandalo da più parti seguite dal dietrofront del Presidente del Consiglio Matteo Renzi e dei suoi ministri. “Si tratta solo di un'ipotesi”, hanno rassicurato in coro sia Pinotti che il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni; “Sottoporremo senz'altro la questione al Parlamento prima di decidere definitivamente qualsiasi cosa.”
Quindi Carter lascerà la Capitale oggi sicuramente a mani
vuote. Grazie all'anonimo “Chelsea (Bradley) Manning” italiano
che
svelò la tresca, il governo Renzi fallisce il tentativo di
replicare il colpo di mano che il governo di Mario
Monti
realizzò invece nel luglio
del 2012. Infatti, Monti e l'allora Ministro della Difesa
Giampaolo Di Paola riuscirono ad
autorizzare alla chetichella – e sempre in barba alla
Costituzione italiana – l'impiego bellico dei caccia tricolore
che erano stati
inviati in Afghanistan in precedenza per i soli compiti di
ricognizione. E i parlamentari, con poche eccezioni, scelsero
di sonnecchiare. Leggi tutto
“La
trasformazione fisica
del mondo implica la trasformazione mentale dei simboli,
delle immagini e delle idee che a esso si riferiscono.”
Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione
In L’uomo a una
dimensione Marcuse riprende il concetto filosofico di
‘pensiero negativo’ come pensiero critico: è
la capacità individuale di sviluppare un discorso che si
oppone all’esistente (il ‘pensiero positivo’ della società),
che immagina, progetta, crea un’alternativa; che utilizza il
potere critico della Ragione, la logica dialettica
bidimensionale, per giudicare la
realtà, distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che
è da ciò che
dovrebbe essere, l’Essere dal Non-Essere.
Per il pensatore della Scuola di Francoforte, perdere la capacità di elaborare il pensiero negativo è inevitabile nella società industriale tecnologica, che crea ‘falsi bisogni’ per sostenere la costante crescita di produzione e consumo di merci; una produzione e distribuzione di mas-sa che reclamano l’individuo intero, e annullano quella dimensione interiore della mente nella quale un tempo prendeva forma il pensiero di opposizione a una realtà che imprigiona l’uomo anziché liberarlo, che lo mercifica, dal processo di sfruttamento lavorativo alla sua trasformazione in consumatore. “I prodotti indottrinano e manipolano; promuovono una falsa coscienza che è immune dalla propria falsità. E a mano a mano che questi prodotti benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior numero di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità: diventa un modo di vivere. E un buon modo di vivere – assai migliore di un tempo – e come tale milita contro un mutamento qualitativo” (1).
Leggi tuttoMessa una toppa ai danni causati in questi anni dalla finanza creativa con generose operazioni di ricapitalizzazione degli istituti di credito, in Europa può ripartire, più forte e più veloce di prima, la grande giostra della speculazione. Ne sono così convinti ai piani alti della Commissione europea, che, per lubrificarne gli ingranaggi, hanno appena approntato un "piano d'azione" per abbattere ogni residua barriera al movimento dei capitali in ambito Ue.
Presentata come un "pilastro" del piano triennale europeo di investimenti da 315 miliardi, più noto come "Piano Juncker", l'iniziativa, denominata Capital Markets Union (CMU), avrebbe come scopo quello di "contribuire a creare un vero mercato unico dei capitali in tutti i 28 Stati membri dell'Ue", per "diversificare le fonti di finanziamento per le imprese" e, di conseguenza, per "incentivare l'occupazione". Nobili obiettivi, verrebbe da dire. Peccato che si tratti di una strada già abbondantemente battuta negli ultimi trent'anni, che ha condotto l'economia mondiale sull'orlo del baratro appena otto anni fa.
In cima agli obiettivi del piano c'è, difatti, il "rilancio
delle cartolarizzazioni", ovvero di quel sistema che consente
alle banche di
disfarsi dei propri crediti, cedendoli, a titolo oneroso, a
società-veicolo (Special Purpose Vehicle) che li spezzettano,
li ricompongono, ne
fanno titoli negoziabili, pacchetti di prestiti bancari da
vendere sul mercato. Leggi tutto
La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da CGIL CISL UIL, con richieste salariali medie di 30 Euro lordi all'anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio soccorso agli industriali, come imprenditore, con il blocco dei contratti pubblici, e come legislatore con l'annuncio della legge sul salario minimo. Quest'ultima in realtà dovrebbe essere definita come legge per rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi all'ora, è poco più della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobsact, una impresa potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge.
Naturalmente il minimo salario non dovrebbe essere
applicato indistintamente a tutti, anche il manager più feroce
sa che ci sono
lavori e attività che non possono essere gestiti con paghe
così basse. Qui viene in soccorso il modello di relazioni
sociali proposto
con grande risalto dal Corriere della Sera. Questo
giornale, da quando Marchionne e la famiglia Agnelli ne hanno
rafforzato il
controllo, è diventato l'organo ufficiale di propaganda del
nuovo regime padronale. Così, qualche giorno fa, il quotidiano
milanese ha
lanciato il modello sociale aziendalistico, che non è certo
una novità nella storia del capitalismo imprenditoriale. Una
volta non solo
il salario, ma anche la casa, il cibo, le cure sanitarie, la
pensione, la scuola dei figli, le vacanze, persino i funerali
erano aziendali. Una volta
non solo la Fiat, ma tanti padri padroni affermavano così il
loro dominio sul lavoro. I conti Marzotto a Valdagno avevano
costruito un sistema
per cui si era dipendenti aziendali dalla nascita alla tomba.
Leggi tutto
Mentre i media all’unisono esaltano il più grande accordo di “libero scambio” della storia recente siglato il 5 ottobre tra gli USA e 11 paesi del Pacifico, il premio Nobel Joseph Stiglitz, in un articolo a quattro mani con Adam S. Hersh pubblicato su Project Syndicate, si incarica di diradare il fitto fumo negli occhi che come sempre tenta di annebbiare e stravolgere una visione più onesta e chiara. Niente a che fare con la concorrenza e il libero commercio, solo un accordo nell’interesse e per conto delle grandi multinazionali che ormai da tempo hanno catturato i governi. Prossimamente la grancassa si scatenerà sul TTIP tra USA ed Unione europea, con grandi titoli trionfalistici e qualche dubbio che non si può negare infilato tra le ultime righe
NEW YORK – Mentre i negoziatori e i ministri degli Stati Uniti e degli altri 11 paesi del Pacifico si incontrano ad Atlanta per definire i dettagli dell’accordo senza precedenti noto come Accordo Trans-Pacifico (TPP), un’analisi più seria si rende necessaria. L’accordo più importante della storia sul commercio e gli investimenti non è come sembra.
Si sentirà parlare molto dell’importanza del Tpp
per il “libero scambio”. La realtà è che si
tratta di un accordo che punta a gestire i rapporti
commerciali e di investimento tra i suoi membri – e a farlo
per conto e nell’interesse
delle più potenti lobby di ciascun paese. Badate bene: è
evidente, considerando le principali questioni sulle quali i
negoziatori stanno
ancora contrattando, che il Tpp non
ha niente a che fare con il
“libero” scambio. Leggi tutto
“Non riconosco più le ragioni per cui ho demonizzato il capitale. Il mostro che fagocita tutto? Il Leviatano che succhia l'anima e il sangue dei lavoratori? Sconfesso quest'analisi. Il capitale è fatto dagli uomini, dalla loro intelligenza, dalla loro fantasia, dalle loro fatiche; è il risultato del lavoro, è ciò che gli uomini hanno fatto, è quanto di buono ci circonda e ci aiuta ad abitare il pianeta, a dominare una natura spesso ostile. Perciò è bene che chi ne è il detentore lo possa stabilmente possedere e ne tragga il giusto frutto” (Karl Marx, luglio 2015)
Avrei
dovuto
aspettarmelo, dal momento che l’Autore [1] – si legge nella
quarta di copertina – è un docente universitario che ha
iniziato
la sua carriera alla Bocconi, luogo in cui si plasmano i
cervelli in grado di produrre i disastri culturali e di
giustificare quelli materiali che
sono davanti agli occhi di tutti. Però il titolo era troppo
accattivante, Marx & Keynes. Un romanzo economico,
e l’invito nella
stessa quarta di copertina prometteva “rigore scientifico,
originalità narrativa, humor e suspense” con tanto di “finale
imprevedibile”. Maledetta la mia curiosità! Così nello stand
dei libri della festa di Rifondazione, non ho resistito alla
tentazione di portarmi a casa il libro, per la modica cifra di
12 euro.
Non sono di palato fino, ma già nel primo capitolo mi ha infastidito un’affermazione secondo cui Marx avrebbe preferito il giornalismo all’accademia. Chi scrive della sua vita, sia pure in forma romanzata, dovrebbe sapere che l’attività giornalistica per quotidiani borghesi fu per il Moro un ripiego per mettere insieme il pranzo con la cena, visto che, dopo la laurea, pensava di ottenere la libera docenza a Bonn, dove insegnava il suo amico Bruno Bauer. Ma Bauer venne allontanato dall’Università. Non si schiuse così la carriera accademica di Marx, che passò al giornalismo diventando redattore della militante “Gazzetta renana”, prontamente interdetta dalla censura prussiana nel 1845.
Mi direte che un romanzo è anche frutto della fantasia. Ma allora perché promettere rigore? Meno sorprendente è un’altra affermazione di dolore attribuita al Marx fantastico per avere avuto come eredi/mostri Stalin, Mao, Che Guevara e Castro. Una dose di anticomunismo da parte di un bocconiano sta nel conto…
Leggi tuttoMaurizio Franzini cerca di collegare le riflessioni contenute nel libro appena pubblicato dai premi Nobel Akerlof e Shiller sull’economia dell’inganno e della manipolazione al caso recente, e clamoroso, che ha coinvolto la Volkswagen. Franzini sottolinea l’importanza delle riflessioni di Akerlof e Shiller che portano a considerare l’inganno endemico al mercato ma osserva che il caso Volkswagen prova che le forme dell’inganno sono molte, di diversa gravità e non possono essere contrastate soltanto con la regolazione
Il 22
settembre è stato
pubblicato negli Stati Uniti il nuovo, e atteso, libro di due
Nobel per l’economia, George Akerlof e Robert Shiller, dal
titolo (singolare)
“Phishing for Phools: The Economics of Manipulation and
Deception” che potrebbe, un po’ liberamente, essere tradotto
così:
“A caccia di sprovveduti: l’economia della manipolazione e
dell’inganno” .
La tesi centrale del libro è questa: l’idea di mercato che gli economisti hanno contribuito a diffondere è, quanto meno, parziale perché manca di considerare che il mercato (attraverso il profitto) fornisce un incentivo forte e sistematico a cercare vantaggi anche attraverso l’inganno e la manipolazione; peraltro, questi vantaggi si realizzano facilmente perché i consumatori possono essere manipolati e ingannati a causa sia delle limitate informazioni di cui dispongono sia delle falle che si aprono nella loro razionalità, – e che non sono né poche né occasionali come dimostrano numerose esperienze concrete (brillantemente documentate nel libro) e molti esperimenti di laboratorio.
Scrivono Akerlof e Shiller: “”Raramente i mercati liberi e
non regolati premiano …l’eroismo di coloro che si astengono
dal
trarre vantaggio dalle debolezze psicologiche o informative
dei consumatori. La concorrenza fa sì che i managers che si
autodisciplinano in
questo modo tendono a essere rimpiazzati da altri con meno
scrupoli morali. Leggi tutto
La missione di The Martian sul pianeta Roma pare definitivamente fallita, e non certo perchè non sia riuscito a procurarsi il cibo.
Cosa farà Ignazio Marino adesso? È un chirurgo. S’è liberato
un posto in Grey’s Anatomy. La sua vita non
cambierebbe di molto, continuerebbe a passare quasi tutto il
suo tempo a sparare cazzate dagli USA. Doverebbe soltanto
rassegnarsi ad apparire in Tv
una sola volta a settimana.
Impallinato Marino, adesso però Renzi ha un unico sistema per
sottrarre Roma a un sempre più probabile
trionfo grillino: restituirla con tutto il Lazio al Vaticano,
che ha attivamente collaborato al Marinicidio. La popolarità
di Papa
Bergoglio agevolerà la transizione. Peccato che non durerà.
Gli toccherà gestirsi da solo il Giubileo Straordinario.
In futuro ci penserà due volte prima d’inventarsene un altro.
Se lo scorporo dovesse funzionare, Renzi deciderà
di risolvere in questo modo anche tutti i suoi altri problemi
di controllo del
territorio.
Per scaricare l’imbarazzante De Luca, cercherà di convincere
la Spagna a riprendersi la Campania in sostituzione della
secessionista Catalogna. De Luca è già un perfetto vicerè
borbonico.
Il Napoli sostituirà il Barcellona nel
campionato spagnolo, con prevedibile sollievo delle altre
squadre. Leggi tutto
Immagino che in queste ore ad Ankara ci si affanni a decidere su chi far ricadere la colpa dell’attentato contro curdi e pacifisti, ossia si stiano mettendo a punto gli ultimi particolari delle strategie di politica estera e interna a cui la strage deve far fronte. Siccome non sono una mosca che vola nel nuovo, costosissimo e peraltro orribile palazzo di Pasha Erdogan, non posso formulare che qualche ipotesi, sulla scia di un protagonista che finora pare essere il grande assente delle analisi che si fanno: ovvero la recessione che da due anni sta tormentando un Paese che sembrava in grande ascesa, con numeri di crescita del Pil a doppia cifra e che adesso stenta a fare anche piccoli passi in avanti. Un empasse che non riguarda solo la caduta della domanda europea che anzi è sostenuta in qualche modo dal crollo progressivo della lira turca, ma soprattutto dalla contrazione del mercato interno dovuto all’enorme taglio di spesa pubblica.
Dunque da una parte Ankara potrebbe addossare tutta la colpa ai curdi per polarizzare il voto all’estremo e superare la crisi di immagine di Erdogan, dovuta in gran parte proprio dalla crisi in cui ha infilato il Paese, riducendo tutta la questione a un fatto interno. Ma potrebbe anche darsi che la soluzione sia un’altra, ossia scoprire che l’attentato viene dall’Isis o da gruppi fiancheggiatori dello stesso. Con questo artificio la Turchia si toglierebbe dall’imbarazzante situazione in cui si trova oggi, ossia quella di membro ufficiale della coalizione anti Daesh, ma allo stesso tempo di fiancheggiatore del Daesh: con l’intervento della Russia nel teatro di guerra le speranze di fondare le aspirazioni neo ottomane su un crollo totale della Siria si sono molto ridimensionate e del resto la forza del Califfato si è rivelata assai inferiore alla propaganda non appena qualcuno ha cominciato a fare sul serio.
Leggi tutto«Il regime del salario», le analisi di un gruppo di ricercatori e attivisti raccolte in un volume. Dal jobs act al job sharing, la discesa negli inferi della condizione lavorativa. Dai quali uscire senza sperare in facili scorciatoie
L’inferno
degli
atelier della produzione non è necessariamente un luogo
dove ci sono forni accesi, rumori assordanti,
caldo insopportabile e dove gli umani sono ridotti
a bestie. Il lavoro può essere infatti svolto in ambienti
lindi
dove viene diffusa musica rilassante e piacevole; oppure
in case dove la sovrapposizione tra vita
e lavoro è la regola e non l’eccezione. L’immagine più forte
del lavoro non è data certo da
«Tempi moderni» di Charlie Chaplin. L’omino con baffetti,
cappello e bastone risucchiato negli
ingranaggi delle macchine rappresenta con lievità
l’orrore della catena di montaggio. Strappa un
sorriso di fronte la disumanità dell’organizzazione
scientifica del lavoro. Ma la
rappresentazione del lavoro non è viene più neppure dalla
folla rabbiosa di
Metropolis di Fritz Lang. Sono due film dove
è presente l’imprevisto dell’insubordinazione, della
rivolta. Ma in tempi di precarietà diffusa, occorre
leggere le pagine o far scorrere i fotogrammi del
film tratto dal libro di Herbert George Wells La
macchina del tempo per avere la misura di come
è cambiato il
lavoro.
Il romanzo dello scrittore inglese è utile non tanto perché
ci sono gli eloi, umani ridotti a ebeti che
possono consumare di tutto in attesa di essere divorati
dai morlock umani-talpa che vivono nel
sottosuolo per produrre chissà cosa. La macchina del tempo
è un testo significativo
perché rappresenta una società che ha occultato gli
atelier della produzione, li ha sottratti
allo sguardo pubblico. Sono come le community gated
delle metropoli: zone dove lo stato di eccezione –
limitazione dei diritti e della libertà personale — è la
normalità. Per gli
attivisti e ricercatori del gruppo «Lavoro
insubordinato» sono espressione di un regime che
non conosce faglie distruttive e dove la crisi è la chance
che il capitale ha usato per affinare
e rendere più sofisticate, e dunque più potenti, le forme
di assoggettamento e di
compressione del salario del lavoro vivo. Lo scrivono in
un ebook dal titolo programmatico Il regime del
salario che può essere scaricato dal sito internet
www.connessio
niprecarie.org. Leggi tutto
1. “Che
cos’è un’economia e, ancor prima, dov’è un’economia?”
Si può
riprendere la domanda di Immanuel Wallerstein1 per
impostare un ragionamento sul rapporto che il capitale
intrattiene in epoca moderna e
contemporanea con i confini e le frontiere. Ogni economia –
ogni “reticolo di processi produttivi più o meno strettamente
interdipendenti” – si sviluppa all’interno di determinati
“confini spazio-temporali”, aggiunge Wallerstein: la
storicità di un sistema economico, la sua origine, la sua
crescita, le sue trasformazioni corrispondono cioè a una
specifica
(ancorché mutevole) collocazione all’interno dello spazio,
circoscritta da un insieme di “limiti”. Sorge dunque
immediatamente il problema di comprendere “come questi confini
si colleghino e interagiscano con quelli definiti da altre
dimensioni sociali, in
particolare dalla dimensione politico-legale e da quella
culturale”.2
Posta in questi termini generali la questione, occorre
specificare il modo in cui essa si pone a fronte dei caratteri
storicamente specifici del
capitalismo moderno. Particolarmente rilevante, da questo
punto di vista, è il rapporto tra la produzione di spazio che
contraddistingue il
capitalismo e le modalità con cui lo spazio è prodotto e
organizzato sotto il profilo politico. Molti studi hanno
ricostruito i processi
che hanno condotto all’emergere in Europa del confine lineare
come astrazione geometrica, capace di circoscrivere (di
produrre) lo spazio
omogeneo della moderna forma-Stato3. Leggi tutto
Questo articolo nasce come risposta all’articolo di Philippe Godard apparso su A – Rivista Anarchica n. 398. È nato come riflessione collettiva tra il sottoscritto e altri tre compagni. Un estratto è stato pubblicato nella rubrica della corrispondenza su A – Rivista Anarchica numero 401. Qua appare la versione integrale, come apparsa anche su Umanità Nova numero 30 anno 95. Si ringraziano G, G e C per gli spunti e le correzioni
Ben volentieri
recepiamo l’invito
al dibattito apparso su A Rivista numero 397 in merito
all’articolo di Philippe Godard sulla ricerca scientifica. Da
tempo pensiamo che sia
necessario avviare una riflessione in campo anarchico in
merito alla questione della scienza e della tecnica, sia nei
risvolti applicativi della
metodologia scientifica, le tecnologie, che nel merito della
metodologia scientifica in sé e per sé.
È oramai fatto accertato che l’ultimo secolo e mezzo di storia umana abbiano visto una profonda accelerazione sia delle scoperte scientifiche “di base” che dell’invenzione di tecnologie basate sulle scoperte stesse. Questa accelerazione, riscontrabile in più campi, si è sviluppata insieme all’attuale sistema sociale, basato su determinati rapporti di produzione, ma al contempo mostra i limiti dell’ambiente stesso in cui si è sviluppata.
Al contrario del Godard noi non crediamo che la “scienza” sia legata in modo inestricabile con un sistema di dominio. Intanto bisogna capire di che cosa stiamo parlando: la scienza non è un oggetto, o meglio una collezione di oggetti-nozioni, ma bensì è un metodo. La metodologia scientifica è, a nostro modo di vedere, una metodologia intrinsecamente libertaria: l’onere della prova, la falsificabilità, la verificabilità, la riproducibilità, ovvero i capisaldi dei modelli di spiegazione scientifici, hanno sostanzialmente permesso di strappare dalle mani dei sacerdoti la spiegazione del mondo eliminando l’autoritaria dimostrazione per ipso-dixit e facendo stracci dei modelli finalisti e teologici cari alla tradizione cristiana e in generale alle tradizioni trascendentali.
Se pensiamo alla storia del pensiero umano come ad una storia
di successioni di diversi modelli di spiegazione del mondo non
possiamo notare quella
gigantesca linea di frattura, frastagliata certo, che separa
l’epoca medioevale in cui tutto veniva ricondotto all’azione
divina
dall’epoca moderna in cui i modelli di spiegazione del mondo
devono essere continuamente rimessi in discussione e non
peccano di una visione
finalistica e antropocentrica. Leggi tutto
Continua la serie di quelli che l’avevano detto. Dopo le ammissioni di Giavazzi, e dopo quelle del capo economista della BCE Peter Praet, ora di nuovo l’ex del Fmi Olivier Blanchard, che già aveva ammesso l’errore sui moltiplicatori fiscali in Grecia, in una intervista al Telegraph riconosce che l’unione fiscale non risolverà i problemi dell’unione, i quali possono essere affrontati soltanto con un abbassamento dei salari.
Secondo l’ex capo economista del Fondo monetario internazionale, l’euro sarà condannato ad uno stato di crisi permanente, poiché una più profonda integrazione non porterà nessuna prosperità all’unione in crisi.
In un duro avvertimento, Olivier Blanchard – che ha trascorso otto anni a contrastare la peggiore crisi finanziaria globale della storia – ha detto che il trasferimento di sovranità dagli stati membri a Bruxelles non sarebbe la “panacea” per i mali dell’euro.
Questi commenti – da parte di uno degli economisti occidentali più importanti degli ultimi dieci anni – sono una doccia gelata sulle visioni grandiose di un “Superstato Ue” quale prossimo passo verso l’integrazione dell’unione monetaria.
In seguito alle turbolenze di questa estate in Grecia, il
leader francese Francois Hollande, Jean-Claude Juncker della
Commissione europea, e il
capo della Banca centrale europea Mario Draghi, si sono fatti
promotori della necessità di creare nuove istituzioni
sovranazionali, come un
tesoro e un parlamento della zona euro. Leggi tutto
Un “nuovo” ordine mondiale produce, inventa e alimenta guerre ed esodi per dare spazio e proteggere i nuovi poteri finanziari. Opporsi sembra impossibile. “La governance dei nuovi poteri – spiega Bruno Amoroso – è assicurata da istituzioni militari come la Nato, dal business energetico industriale e tecnologico, e da pochi centri di potere della finanza internazionale. Impedire a questa governance di funzionare mettendo sabbia nei suoi meccanismi e distruggendo le sue istituzioni, è il passo necessario per ridare spazi di democrazia…”. La prima fortezza da espugnare è la Bce: per questo occorre intensificare “la denuncia del ruolo svolto dai sicari dell’economia, a iniziare da Mario Draghi” e sostenere campagne come la Dip (Dichiariamo Guerra alla Povertà). Sì, è tempo di resistenza e di organizzare un movimento di disobbedienza civile
Destabilizzazione politica, marginalizzazione economica: il risultato è un sistema di apartheid globale. Dal caos sapientemente prodotto e governato (guerre e migrazioni) si sta alimentando la domanda di un “nuovo” ordine mondiale, quello della globalizzazione. Questo viene oggi servito per garantire che tutto cambi per dare spazio e proteggere i nuovi poteri finanziari e militari.
Diritti, sindacati, partiti, democrazia, società civile,
cosviluppo sono un ricordo del passato, il crollo di
un’utopia. Il nuovo
ordine si chiama Globalizzazione e le sue istituzioni
governano il disordine mondiale. Opporsi sembra oggi
impossibileperché
dalla disperazione non nascono solidarietà e unità, ma solo
divisioni e “guerre civili”. Infatti, i sistemi di
welfare europeo sono stati travolti senza alcuna resistenza. Leggi tutto
Dicevamo, qualche giorno fa, a proposito del fatto che i mercati sembrano attendersi altre misure di allentamento monetario in Europa e in Giappone (ma anche in Cina) e un differimento (o sospensione) della stretta sui tassi Usa.
Giovedì sera sono state pubblicate le minute della riunione della Federal Reserve dello scorso 16/17 settembre dalle quali sono emersi timori, da parte di parecchi delegati del Fomc, in merito all'impatto del rallentamento della crescita economica in Cina sugli Usa, al rafforzamento del dollaro, e al calo dell'inflazione che viene prevista sotto il 2% almeno fino al 2018.
Il tenore delle preoccupazioni espresse nei documenti della Fed ha irrobustito l'idea del differimento dell'intervento sui tassi: cosa che, come vedremo a breve, sta avendo un notevole impatto nei paesi emergenti.
Per quanto riguarda la zona euro, venerdì scorso, da Lima -dove si è tenuto il meeting del fondo monetario internazionale- ha parlato Mario Draghi che ha affermato:
Alla luce di rinnovati rischi che sono emersi sul retro dei recenti sviluppi a livello mondiale e dei mercati finanziari e delle materie prime, stiamo monitorando attentamente tutte le informazioni in entrata pertinenti e siamo pronti a utilizzare tutti gli strumenti disponibili all'interno del nostro mandato di agire, se giustificato, in particolare modificando le dimensioni, la composizione e la durata del programma di acquisto di asset.
Quindi, le prospettive di un estensione (o ampliamento) del
Qe appaiono assai concrete. E lo sono ancora di più se si
considerano i brutti
dati economici che stanno giungendo dalla Germani e di cui
abbiamo detto QUI. Leggi tutto
L'intervento militare
russo in Medio Oriente sembra
avere completamente spiazzato gli osservatori occidentali: il
monopolio occidentale delle operazioni di "polizia
internazionale" a leadership
anglo-sassone, a partire dal 1991, improvvisamente sembra
essere stato infranto dalla decisione della Duma russa di
colpire le forze anti-governative
in Siria, siano esse affratellate o meno all'Isis.
Molti sono in effetti i risvolti paradossali di questo pesante intervento militare: la Russia che, a seguito della crisi ucraina, pareva relegata ai margini della comunità internazionale, sembra ora prendere a pretesto la lotta contro l'estremismo islamista per affermare con forza la legittimità del governo Assad. Si tratta quindi in definitiva, più che di un intervento dettato da ragioni ideologiche, di una netta ripresa della più classica delle Reapolitik: la difesa di un alleato storico della Russia, con la quale si pone anche in seria difficoltà uno dei più tradizionali avversari della Russia, la Turchia.
Elemento non meno importante, che Putin sta debitamente
enfatizzando, è che la Russia si è così posta di fatto anche
alla
testa di una coalizione di forze (Siria, Iran e Iraq) che
costituiscono un "fronte" arabo sfacciatamente antitetico a
quello sunnita-wahabbita guidato
dall'Arabia Saudita, proprio ora che quest'ultimo paese si
trova impantanato, fra molte critiche anche al suo interno, in
un intervento nello Yemen
che sembra stia drenando senza costrutto importanti risorse
militari dei paesi del Golfo. Leggi tutto
A fine settembre, l’iter legislativo che valida il Jobs Act si è compiuto, nell’indifferenza più totale. Eppure con gli ultimi 4 decreti (immediatamente operativi) , si conclude il progetto di ristrutturazione completa del mercato del lavoro in Italia, si sancisce la precarietà come forma “normale” e “strutturale” del rapporto di lavoro, si ribadisce il primato del “padrone” (chiamiamo le cose con il loro vero nome) e si definiscono i contorni biopolitici del controllo diretto e indiretto sulla nostra vita. Mentre all’orizzonte, si prospetta la nuova fregatura del “divenire occupabile” e della diffusione del lavoro gratuto
Completata la
macelleria sociale
Sono stati pubblicati il 24 settembre ultimo scorso
(immediatamente entrati in vigore) gli ultimi quattro decreti
legislativi che completano il
Jobs Act: portano numerazione dal 148 al 151. Il governo ha
approvato i testi solo il 4 settembre e li ha trasmessi a
Mattarella il 12 settembre; la
firma pare sia del 14 settembre, con un esame lampo.
La legge fissava un termine, e quel termine era scaduto il 26
agosto, come hanno fatto
inutilmente notare i parlamentari dell’opposizione (5 stelle).
Ma l’ineffabile ministro Poletti ha liquidato ogni protesta
spiegando che
il problema, semplicemente, non esiste. Sarebbe in effetti
pura ingenuità sperare che con queste eccezioni (fondate
forse, ma pur sempre
cavillose) si possa bloccare la macchina autoritaria del
governo, in assenza di significative reazioni sociali e a
fronte (sul fianco sinistro) di una
piena connivenza comportamentale, di sostanziale complicità.
Il partito democratico, nella sua complessiva struttura, ha
completato dunque l’operazione di macelleria sociale,
eseguendo gli ordini
trasmessi dalla cabina europea di comando. Naturalmente le
nuove norme sono presentate come un progresso, come una
riforma capace di attuare
finalmente la flexicurity; ma dal vecchio partito comunista i
parlamentari democratici hanno ereditato solo le
caratteristiche peggiori, ovvero una
grande disinvoltura nel falsificare i dati e nel mentire in
pubblico, occupando le posizioni di controllo, promuovendo la
delazione. Leggi tutto
Due mesi fa,
quest’estate, ho assistito a
Londra a una giornata della campagna elettorale di Jeremy
Corbyn alla Union Chapel. Tra le molte cose (belle) che mi
hanno sorpreso ne ho appuntate
mentalmente un paio.
La prima è che l’intervento finale di Jeremy Corbyn durava da programma venti minuti, e venti minuti è durato. Tanto carismatico quanto sintetico, tanto chiaro quanto radicale.
Pantaloni larghi con le pinces, senza cravatta, aria da middle class novecentesca, ha parlato di rinazionalizzare le ferrovie, di abbassare le tasse universitarie, di rendere di nuovo pubblico ed efficiente il servizio sanitario nazionale, di sostenere un’alternativa economica chiara. Ha detto: “Non è possibile che la classe politica britannica abbia studiato tutta a Oxford o a Cambridge”, “dobbiamo avere una risposta umana e umanitaria alla questione delle migrazioni”, e ha concluso i suoi venti minuti con una frase di grande efficacia: “Immagino un mondo in cui tutte le persone si prendono cura delle altre, e questo mondo si chiama socialismo”.
Ma il suo intervento, convincente, perfetto, da leader che avrebbe effettivamente stravinto le primarie del Partito laburista, non è stato nemmeno il migliore della giornata.
Ad aprire infatti era stato un giovane attivista, opinionista
del Guardian, che si chiama Owen Jones. I venti minuti di Owen
Jones sono stati il
miglior discorso di sinistra che ho sentito negli ultimi anni.
Leggi tutto
«Exit» del filosofo tedesco Tomasz Konicz per Stampa Alternativa. Cancellato il lavoro come fonte della ricchezza, la produzione di merci è costellata di soluzioni alle sue crisi che rinviano solo la sua fine
Appena richiuso Exit di Tomasz Konicz (Stampa alternativa, pp. 158, euro 14) , il lettore ha la sensazione perturbante di essersi risvegliato in un mondo estraneo e ostile. Il crollo della società del lavoro, gli obitori di El Salvador e Guatemala, «in cui si ammucchiano a dozzine» i cadaveri dei ragazzini uccisi dalle maras, il «Leviatano ritornato allo stato selvaggio» descritti da Konicz, rendono di colpo esplicito ciò che nella quotidianità occidentale sembrava ancora nascosto fra le righe.
Tomasz Konicz è un pubblicista di lingua tedesca, e uno dei pochi autori rimasti, dopo la morte di Robert Kurz, in grado di fondere risultati teorici raggiunti dalla «critica del valore» (una corrente nata alla fine degli anni Ottanta sulla rivista Krisis), con un’analisi originale dell’attuale dissesto finanziario e politico.
Dopo l’esplosione della bolla immobiliare del 2008,
infatti, le diagnosi economiche sono cambiate solo in
apparenza. Se è vero che l’idea di una «crisi strutturale»
del capitalismo non
è più rimossa dal dibattito; se è vero che persino l’ex
segretario del Tesoro
statunitense Larry Summers e il Nobel Paul Krugman sono
arrivati a descrivere la nostra come una
società dipendente dal debito e incapace di sostenersi da
sola; è altrettanto vero che le cause della
crisi continuano ad essere del tutto ignorate. Leggi tutto
Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″
Allo scoppio della crisi mondiale del 2008, la Cina si
trovava in una situazione fiscale favorevole, con surplus di
bilancio. In risposta alla
crisi mondiale la dirigenza cinese attuava una politica
fiscale espansiva data da un piano infrastrutturale di 600
miliardi di dollari, finalizzato
alla costruzione di ferrovie, autostrade e porti e avente come
fine lo sviluppo della logistica e, da qui, l’aumento della
produttività
totale dei fattori produttivi, che cresceva a due cifre. Tale
politica fiscale espansiva trascinava l’aumento del commercio
mondiale,
soprattutto dei paesi emergenti con l’import di materie prime.
A livello fiscale il piano infrastrutturale era accompagnato
da una politica di
reflazione salariale, cioè aumento dei salari medi annui del
12%, per stimolare la domanda interna. A livello monetario si
notava invece una
politica restrittiva tesa a parare l’enorme aumento di
liquidità della Federal Reserve. Tale politica si attuava con
un aumento dei tassi
di interesse e soprattutto con un aumento della riserva
obbligatoria delle banche, portata al 21%. Ciò portò ad una
progressiva
rivalutazione dello yuan che, nel giro di 6 anni, aveva avuto
un apprezzamento reale di circa il 45%. Dunque, da una parte
abbiamo politica fiscale
espansiva, dall’altra politica monetaria restrittiva. In
Occidente si è fatto l’opposto, con i risultati che
conosciamo. Leggi tutto
Sette economisti (fra cui Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e la sottoscritta) hanno accettato di fare da consulenti economici per Jeremy Corbyn, il nuovo leader del Partito laburista britannico. Mi auguro che il nostro scopo comune sia aiutare il Labour a creare una politica economica fondata sugli investimenti, inclusiva e sostenibile. Metteremo sul tavolo idee diverse, ma voglio proporvi le mie considerazioni riguardo alle politiche progressiste di cui il Regno Unito e il resto del mondo hanno bisogno oggi.
Quando il Partito laburista ha perso le elezioni, lo scorso maggio, in tanti, anche esponenti del Governo ombra, gli hanno contestato di non aver saputo interloquire con i «creatori di ricchezza», cioè la comunità imprenditoriale. Che le imprese creino ricchezza è evidente.
MA anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, le
organizzazioni della società civile creano ricchezza,
promuovendo crescita e
produttività nel lungo termine. Un programma economico
progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento
che la creazione di
ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato
sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori
di
ricchezza». Dobbiamo abbandonare la falsa dicotomia “Stato
contro mercato” e cominciare a ragionare più chiaramente su
quali
risultati vogliamo che il mercato produca. Investimenti
pubblici “mission-oriented”, con un obiettivo chiaro, hanno
molto da insegnarci.
La politica economica dovrebbe impegnarsi attivamente per
plasmare e creare mercati, non limitarsi a ripararli quando si
guastano. Leggi tutto
La
riforma del Senato è
fatta. “Il sacrificio della patria nostra è consumato”
direbbe oggi l’eroe foscoliano Jacopo Ortis. La legge
costituzionale
è passata con 179 voti favorevoli, 17 no (SEL e Fittiani), 7
astenuti e mezzo Senato assente. Una maggioranza ampia che
supera di 18 voti i 161
necessari corrispondenti alla metà più uno dei componenti
della seconda Camera.
Sono stati determinanti i 13 voti del gruppo di Verdini, i 2 della coppia Bondi-Repetti, i 3 del gruppo GAL ed i 2 in dissenso di Forza Italia. La minoranza Dem, fino a ieri forte di 29/30 dissidenti, è stata silente, allineata e dissolta. Hanno resistito votando no o astenendosi solo Mineo, Tocci, Casson e la senatrice Amato assente. Assistendo al dibattito, meritoriamente trasmesso in diretta dalla RAI e guardando le facce, i sorrisi, le strette di mano – singolare quella tra Verdini e Napolitano – mentre si faceva scempio della Carta costituzionale, tornavano a mente le accorate parole di Ugo Foscolo. Tuttavia si spera, diversamente da Jacopo Ortis, che non tutto sia perduto e che il referendum ribalterà questo vergognoso risultato.
E’ stato detto ed illustrato efficacemente che il combinato disposto tra Italicum e Senato prefigura una drastica diminuzione della democrazia, uno schiacciante prevalere dell’esecutivo sul parlamento ed un potere assoluto del Presidente del Consiglio sempre più dominus, uomo solo al comando.
Leggi tuttoSecondo alcuni, il
capitalismo, chiamato anche
economia di mercato più democrazia, vive, malgrado le sue
crisi, una fase storica di grande espansione. Secondo altri,
questi trionfi non sono
altro che una fuga in avanti la quale maschera la sua
situazione ogni giorno sempre più precaria. Ad ogni modo, si
può dire che viviamo
in un'epoca che non somiglia a nessun'altra. Questo appare del
tutto evidente - salvo a quelli che hanno fatto della critica
al capitalismo il loro
mestiere. Si sarebbe potuto sperare che la fine definitiva del
"socialismo di Stato", nel 1989, avesse anche messo fine a
quel genere di marxismo
legato, in un modo o nell'altro, alla modernizzazione "di
recupero" che aveva avuto luogo negli "Stati operai". Il campo
sembrava ormai sgombro per
l'elaborazione di una nuova critica sociale, all'altezza del
capitalismo postmoderno e capace di riprendere le questioni di
base. Ma il rapido
impoverimento delle classi medie, un'evoluzione che pressoché
nessuno aveva previsto, ha ridato un vigore inaspettato a
delle recriminazioni
che rimproverano al sistema capitalista soltanto le
ingiustizie della distribuzione, e i danni collaterali che
producono, senza mettere mai seriamente
in discussione la sua stessa esistenza ed il tipo di vita che
impone. E' appoggiandosi spesso ai concetti più obsoleti del
marxismo
tradizionale, che troskisti elettorali, negriani ed altri
cittadinisti espongono la loro richiesta di una diversa
gestione della società
industriale capitalista. Qui, la critica sociale si riduce
essenzialmente al dualismo fra sfruttatori e sfruttati,
dominanti e dominati, conservatori
e progressisti, destra e sinistra, cattivi e buoni. Quindi,
niente di nuovo sotto il sole. I fronti sono sempre gli
stessi. Ed è un Karl Marx
ridotto a cacciatore di "profitti immorali" che esercita
nuovamente un diritto di presenza nei grandi media. La crisi
finanziaria della fine del 2008,
ha fatto tuttavia guadagnare dei punti a questa spiegazione
del mondo. Leggi tutto
Pochi
giorni fa (il 9 ottobre),
il Censis ha presentato a Milano una ricerca realizzata per il
Padiglione Italia di Expo 2015 intitolata «Vita da
Millennials: web, new
media, startup e molto altro. Nuovi soggetti della ripresa
italiana alla prova». Oggetto dell’indagine sono i giovani
italiani di
età compresa tra i 18 e i 35 anni, i cosiddetti Millennials
appunto. A questa ricerca è stato dato grande risalto, e
molti dei
principali giornali e agenzie di stampa nazionali hanno
diffuso i risultati, a loro dire, incoraggianti di questo
studio. Ma cosa sono i
Millennials?
Con i termini Generazione Y, Millenial Generation o
Millennials si indica la generazione dei nati in occidente
tra gli anni ottanta e i primi
duemila; seguono ai Baby Boomers (nati tra i ’50 e i ’60) e
alla Generation X (nati tra i ’60 e gli ’80). Giornalisti e
sociologi di tutto il mondo occidentale negli ultimi anni
– oltre ad assegnare nomi fastidiosissimi a qualsiasi
fenomeno –
hanno descritto abitudini e caratteristiche di questa
generazione: nati nell’era digitale, utilizzatori abituali
di tecnologia,
iscritti ai social network e sempre connessi in rete.
La ricerca del Censis pretende di dimostrare una
straordinaria capacità di adattamento e spirito di sacrificio
da parte della
gioventù italiana, doti che sarebbero dovute ad un nostro
innato spirito imprenditoriale: “alle barriere di accesso
al mercato del
lavoro e ai rischi di incaglio nella precarietà” ci
spiega il Censis “i Millennials italiani hanno opposto
una forza
vitale partendo da una potenza italiana consolidata:
l’imprenditorialità”. Leggi tutto
Qualche giorno fa ci è capitato di ascoltare la speaker di una radio di movimento fare propria la richiesta dell’istituzione di una No-fly zone in Siria. Una parola d’ordine che gira ormai da tempo tra i sostenitori dei “ribelli” anti Assad, ma che ha ripreso vigore da quando i russi (su richiesta del governo siriano) sono intervenuti direttamente nell’area. Messa così la richiesta di bloccare il volo degli aerei da guerra sembrerebbe un atto di puro e semplice “buonsenso pacifista”, del resto chi ci legge non faticherà a convenire con noi sul fatto che le bombe che cadono dall’alto non sono mai “intelligenti” o “selettive”, a prescindere dal fatto che a sganciarle sia un F-16 o un Mig. I lettori più attenti ricorderanno però che in Libia, non più di 4 anni fa, si produsse qualcosa di molto simile. Ricorderanno, ad esempio, la maniera ossessiva con cui le immagini di un cimitero libico vennero spacciate come foto delle fosse comuni utilizzate da Gheddafi per liquidare i ribelli (vedi). E ricorderanno pure come, sull’onda dell’emozione per quei “crimini” (perpetrati sempre e solo dal Rais, ovviamente), settori consistenti dell’opinione pubblica mondiale e della sinistra occidentale si arruolarono nelle fila di chi chiedeva un intervento immediato per fermare il “genocidio”. Si trattò della messa in opera di quello che in altre sedi abbiamo chiamato il terrorismo dell’indignazione, ovvero il cannoneggiamento mediatico e ideologico a cui siamo sistematicamente sottoposti, che fa leva sul monopolio delle emozioni da parte delle classi dominanti e che si avvale di una vera e propria neolingua di orwelliana memoria. Una neolingua in cui “portare la pace” significa “fare la guerra”, in cui “diritti umani” si traduce in “neocolonialismo” e in cui “No-fly zone” sta ad indicare i “bombardamenti Nato”. Ciò che colpisce è che a far proprio questo vocabolario siano settori anche consistenti della sinistra.
Leggi tuttoIn un articolo apparso sull’Huffington Post il 6 ottobre scorso, Bill George, esperto di management e docente della Harvard Business School, si rivolge al proprio pubblico (evidentemente composto da quadri di impresa) chiedendo “Are You An Empowering Leader?”. Il pezzo sembra scritto apposta per avvalorare le tesi di Boltanski e Chiapello sul “Nuovo spirito del capitalismo” (cfr. il libro pubblicato da Mimesis): finiti i tempi della gerarchia e dell’autoritarismo, viviamo in un’epoca in cui la prima preoccupazione dei capi non è più farsi obbedire, bensì fare in modo che i subordinati siano sempre più autonomi e capaci di decidere da soli. Per realizzare tale obiettivo, scrive George, bisogna essere capaci di: 1) trattare come pari tutti i colleghi; 2) ascoltare con attenzione ciò che hanno da dire; 3) imparare da loro; 4) condividere/scambiare le rispettive storie di vita; 5) ottenere il consenso generale sugli obiettivi dell’impresa.
Da un altro articolo, uscito qualche giorno dopo sulla stessa testata, scopriamo un sistema infallibile per creare questo clima di cameratismo, familiarità reciproca, condivisione ed entusiasmo per la “missione” comune: basta convincere i dipendenti a svolgere lavoro volontario (e gratuito) nei weekend e al di fuori del normale orario di lavoro! L’autrice del pezzo, Emily Peck, si propone di denunciare una pratica sempre più diffusa nel mondo del lavoro statunitense.
Inizia citando il caso di Urban Outfitters, un’azienda che sollecita i propri impiegati ad aiutare volontariamente e gratuitamente i magazzinieri a impacchettare e spedire prodotti nei fine settimana. Dopodiché fa una serie di esempi analoghi che dimostrano come non si tratti di un caso isolato, ma di una politica di rafforzamento dello “spirito di gruppo” adottata da molte altre società.
Leggi tuttoLa causa palestinese è innanzitutto l’insieme di ingiustizie che questo popolo ha subito e continua a subire. Queste ingiustizie sono gli atti di violenza‚ ma anche la mancanza di logica‚ i ragionamenti viziati e le false garanzie che pretendono di compensarli o di giustificarli. Arafat aveva soltanto una parola per parlare delle promesse non mantenute‚ degli impegni violati al momento dei massacri di Sabra e Shatila: shame, shame.
Si dice che non è un genocidio. E tuttavia c’è una storia che si porta dietro molti Oradour, fin da principio. Il terrorismo sionista non si dirigeva solo contro gli inglesi, ma anche contro villaggi arabi che dovevano scomparire: l’Irgun è stato molto attivo in questo senso (Deir Yassin). Dappertutto si farà come se il popolo palestinese, non solo non dovesse più essere, ma non fosse mai stato.I conquistatori facevano parte di coloro che avevano subito il più grande genocidio della storia. E di questo genocidio i sionisti avevano fatto un male assoluto. Ma trasformare il più grande genocidio della storia in male assoluto è una visione religiosa e mistica, non è una visione storica. Non ferma il male; lo propaga, invece, lo fa ricadere su altri innocenti, esige una riparazione che fa subire a questi altri una parte di ciò che gli ebrei hanno subito (l’espulsione, la ghettizzazione, la scomparsa come popolo). Con mezzi più “freddi” del genocidio si vuole ottenere lo stesso risultato.
Gli Usa e l’Europa dovevano riparazione agli ebrei. E questa
riparazione l’hanno fatta pagare a un popolo, di cui il meno
che si possa
dire è che non c’entrava affatto, che era stranamente
innocente di ogni olocausto e che non ne aveva nemmeno sentito
parlare. Ed è
qui che comincia il grottesco, come pure la violenza. Il
sionismo, e poi lo stato d’Israele esigeranno che i
palestinesi li riconoscano di
diritto. Leggi tutto
All'interno della 4 giornate romane di
Sfidare il Presente si sono tenuti una serie di dibattiti
interessanti, che ci auguriamo
possano fornire qualche bussola utile alla costruzione di
percorsi di contrapposizione e lotte sociali dentro la
crisi. A tal proposito,
riportiamo qui di seguito la sbobinatura dell'intervento di
Raffaele Sciortino, ospite insieme a George Caffentzis,
Davide Caselli e un' attivista di
UIKI Onlus, del tavolo di discussione “Camminare sul campo
minato. Oltre le promesse tradite dal Neoliberismo”.
La lucidità e la puntualità dell'intervento di Sciortino pensiamo sia un importante contributo alla discussione per quelle le realtà di compagn* che cercano di dare una lettura politica macro della fase attuale. L'intervento parte dal dato di fatto che il neoliberismo è vivo e vegeto, premettendo però che con “neoliberismo” non si vuol intendere una serie di politiche ma una "fase del capitale". Nel neoliberismo il capitale si ristruttura, si trasforma e ingloba vecchie e nuove istanze di lotta, a partire dall'onda lunga del '68, in cui il capitale ha saputo sussumere-trasformando istanze di classe e collettive in istanze di “autonomia individuale”.
Una prima fase della crisi si è chiusa oggi. Essa ha tentato un “salvataggio” capitalistico che non ha avuto alcun effetto duraturo: immissioni di liquidità e misure di austerity prima, scarico della crisi sull'Europa, frammentandola, poi. Da questa incapacità di rilancio economico, nascono forme di protesta massificate (Occupy, Indignados, paesi arabi e USA) capaci di costruire un immaginario di cambiamento pensato però non in termini radicali ma come capitalismo a misura d'uomo.
Leggi tutto«Testimone di
una volontà di censura della parola»: così Erri De Luca ha
definito se stesso. Non può esserci migliore descrizione di
quello che accade non a Erri De Luca, ma attraverso Erri De
Luca – se non nelle parole dell’avvocato A.M., che difende la
ditta promotrice
della causa contro lo scrittore: «chiediamo che la sentenza
emani in messaggio, che redarguisca giuridicamente e
processualmente». Dunque
si chiede che la parola di uno scrittore sia sanzionata in
modo esemplare, affinché altri imparino e si regolino di
conseguenza:
l’inutile ridondanza degli avverbi in -mente risuona
come il ribattere del martello sulla testa del chiodo piantato
nel legno.
Il capo d’imputazione per aver constatato, rispondendo a una domanda, che gli attrezzi sequestrati ad alcuni compagni «servono a sabotare la TAV» non è “apologia”, ma “istigazione”: la differenza che passa fra un “hanno fatto bene” e un “andate e fate”. Si noti che il reato di istigazione a delinquere «riguarda, o dovrebbe riguardare, solo i comportamenti concretamente idonei a provocare la commissione di altri reati, ferma però la libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione»: così Giovanni Palombarini [qui], ex Procuratore Generale Aggiunto presso la Corte di Cassazione, che di certo non manca di esperienza e cognizione di causa.
Chiunque si sia occupato, anche solo per sostenere un esame
universitario, di diritto, sa che il diritto è intrecciato con
la logica e la
retorica, e che questo viluppo non si scioglie: non bastasse
il buon senso, si potrebbe citare l’autorità di Norberto
Bobbio. La logica
(modale) ci insegna a distinguere fra la possibilità e la
necessità: e ci ammonisce che chiunque istituisca una
connessione fra il
presente e il futuro, a meno che non stia enunciando una legge
scientifica – ogni corpo immerso in un liquido riceve(rà) una
spinta dal
basso all’alto ecc. – va a collocarsi nel campo del possibile.
Leggi tutto
«Facciamola breve. Marino ha dimostrato un'incapacità assoluta, ha scelto di rimanere al suo posto quando un anno fa l'inchiesta sul malaffare romano avrebbe imposto lo scioglimento del consiglio e l'indizione di nuove elezioni, ha mostrato una dignità pari a zero quando ha accettato di farsi accudire dalla badante (parole sue, riferite a Gabrielli) inviatagli da Renzi, e potremmo continuare...»
Una classe dirigente alla frutta, altro che complotti!
Essendo
politicamente uno zero, potremmo anche evitare di
occuparci del signor Marino Ignazio Roberto Maria, chirurgo,
senatore piddino, sindaco di Roma, trasvolatore seriale
dell'Atlantico e candidato al
guinness dei primati come re degli scontrini.
Ci tocca invece occuparci della cosa per almeno due motivi. Il primo è che, non più tardi di ieri, ci è capitato di vedere una discreta folla di scapestrati inneggiare al sindaco dimissionario in Piazza del Campidoglio. Il secondo è che il caso Marino non è frutto del caso, ma neppure di un complotto, essendo piuttosto una pittoresca ma significativa manifestazione del degrado complessivo della classe dirigente del paese.
Se il primo punto è semplice da inquadrare, è il secondo quello su cui focalizzare l'attenzione.
Partiamo dunque dal più semplice. La folla inneggiante ieri a Marino ci ricorda un po' quella che il 12 novembre 2011 festeggiava per il cambio della guardia a Palazzo Chigi tra l'uscente Berlusconi e l'entrante Monti. «Dal pagliaccio con la bandana al killer dei "mercati"», titolammo allora. In quel caso si brindava ad una cacciata senza affatto riflettere su quel che sarebbe venuto dopo. Oggi si manifesta invece per il timore del futuro, senza però fermarsi per un attimo a ragionare sui fatti che hanno portato Marino alle dimissioni.
Due situazioni apparentemente opposte, ma invece tenute
assieme dallo stesso atteggiamento fideistico. Allora chi
manifestava pensava che i mali
dell'Italia, ed addirittura la stessa crisi economica,
dipendessero da un solo uomo: il Buffone
d'Arcore. Ora, probabilmente, alla luce di quel che è
venuto dopo, molti avranno forse cambiato idea. Non lo
sappiamo. Leggi tutto
Maurizio Ferraris ci ha abituato, da Dove sei? Ontologia del telefonino (Bompiani 2005) ad Anima e Ipad (Guanda 2011), a un uso spregiudicato della filosofia come strumento idoneo alla comprensione del presente. Il suo nuovo libro, Mobilitazione totale, si inserisce sulla stessa linea, e lo fa seguendo quello che appare essere un medesimo principio di fondo: leggere le tecnologie sociali contemporanee come realizzazioni di tendenze implicite nella natura umana. L’idea è che il telefonino, la rete, lo smartphone, l’Ipad, i social media non producano alcuna «mutazione antropologica» (da guardare alternativamente con atteggiamento esaltato o catastrofista, come se potessero rappresentare un nuovo inizio della storia umana o decretassero piuttosto la fine dell’umanità come l’abbiamo conosciuta), ma piuttosto consentano l’emergenza di alcune tendenze di fondo, da sempre virtualmente sussistenti, dell’uomo come animale sociale. Ne consegue un’indagine capace di mettere in luce le ambivalenze degli attuali strumenti di comunicazione, le loro possibilità e i loro limiti: la capacità, che essi possono manifestare, di ampliare gli spazi di libertà e le forze dell’emancipazione e, insieme, anche il rischio che quegli stessi dispositivi possano invece incentivare le tendenze autoritarie che nelle nostre società si manifestano in maniera piuttosto evidente.
La prima parte di Mobilitazione totale
è dedicata quasi esclusivamente a mettere in luce i diversi
modi in cui la
connessione continua, garantita in particolare dall’uso degli
smartphone, approfondisca in maniera inquietante il dato
strutturale per cui ogni
individuo è esposto alle pretese che la società ha su di lui.
Così che ci si trova a chiedersi, quasi subito, se non stiamo
vivendo in un mondo che l’onnipresenza dei dispositivi di
connessione alla rete rende tendenzialmente totalitario. Leggi tutto
IL NOSTRO tempo sembra vivere, come ha mostrato anche Bauman, l’esasperazione del carattere liquido dell’identità: cambiamento di sesso, di pelle, di razza, di religione, di partito, di professione, di immagine. Anche il New York Times recentemente si pone la domanda: «Chi crediamo di essere?». L’identità vacilla, barcolla, diventa un concetto sempre più mobile, borderline.Mentre l’età moderna aveva sempre ricercato una identità (anima, spirito, cogito, ragione, Io) che avesse, come scrisse Descartes, la stessa solidità della roccia sotto la sabbia, nel tempo ipermoderno, quale è il nostro, l’identità si pare dissolversi in un camaleontismo permanente. Anche il contributo della psicoanalisi, almeno per un verso, sospinge in questa direzione: la malattia psichica non deriva tanto da una liquefazione dell’identità, ma da un suo rafforzamento. Non è il deficit dell’Io a causare la sofferenza mentale, ma una sua amplificazione ipertrofica. Lacan scherniva la supponenza identitaria dell’Io quando ci ricordava che se un pazzo che crede di essere Napoleone è chiaramente un pazzo, ma non lo è affatto di meno un re che crede di essere un re.
Freud si era una volta paragonato a Copernico e a Darwin come
fustigatore del narcisismo umano. Copernico aveva inferto il
primo colpo mostrando
che la terra non è il centro dell’universo; Darwin il secondo
affermando la nostra derivazione dai primati. Ma il passo più
scabroso e decisivo, nel limitare le ambizioni narcisistiche
dell’Io, fu quello di Freud che ha evidenziato come l’Io non
sia
«padrone nemmeno in casa propria ». L’identità dell’Io non è
un centro statico dal quale si irradia la
personalità; essa assomiglia piuttosto ad un arlecchino
servitore di tre padroni: tirato dall’Es, dal Super-Io e dalla
realtà
esterna in direzioni differenti e spesso inconciliabili. Leggi tutto
Una bellissima nostra intervista a Silvano Tagliagambe. Offriamo ai lettori un autentico saggio di alto valore culturale, fra i più degni della rubrica 'Pensieri Lunghi'
Prof.
Tagliagambe, nei suoi studi, a cavallo tra filosofia,
scienza e psicoanalisi, ha guardato
al mistero della psiche da una prospettiva estesa e
transindividuale. Può descrivere, oltre alle implicazioni
teoriche della questione, gli
effetti pratici ed etici di un approccio siffatto alla vita
della mente?
Il modello della "mente estesa" è stato proposto ed efficacemente descritto da Gregory Bateson in una conferenza dal titolo Forma, sostanza, differenza, tenuta il 9 gennaio 1970 per il diciannovesimo Annual Korzybski Memorial, nella quale egli dava la seguente risposta alla domanda: "Che cosa intendo per 'mia' mente?": «La mente individuale è immanente, ma non solo nel corpo; essa è immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più vasta mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. [.] La psicologia freudiana ha dilatato il concetto di mente verso l'interno, fino a includervi l'intero sistema di comunicazione all'interno del corpo (la componente neurovegetativa, quella dell'abitudine, e la vasta gamma dei processi inconsci). Ciò che sto dicendo dilata la mente verso l'esterno» [1]. In estrema sintesi questo modello afferma che i processi mentali sono esempi di elaborazione cognitiva incorporata e distribuita. Il che significa:
a) Che non solo il cervello, ma anche il corpo e l'ambiente cooperano al raggiungimento dei nostri fini cognitivi;
b) Che ciò è ottenuto in un modo così fluido e interconnesso da originare un unico flusso causale integrato, nel cui ambito (e per gli scopi scientifici dell'analisi del comportamento) le usuali distinzioni di interno ed esterno perdono ogni utilità ed efficacia.
Leggi tuttoMezzo secolo fa si
consumava una delle più grandi stragi della
Storia.
A partire dall'ottobre del 1965, i militari indonesiani, con
il sostegno attivo e diretto dell'imperialismo nordamericano,
massacrarono circa un
milione di comunisti, di sindacalisti e membri dei forti
movimenti di massa indonesiani. Il genocidio indonesiano è uno
degli episodi
più sanguinosi della grande guerra di classe mondiale con cui
l'imperialismo ha cercato di contenere e sconfiggere l'ascesa
del potente
movimento di liberazione nazionale e sociale della seconda
metà del XX secolo, sull'onda della sconfitta del
nazi-fascismo e dell'immenso
prestigio dell'Unione Sovietica e del movimento comunista
internazionale. Il genocidio indonesiano è un chiaro esempio
di come la barbarie
imperialista dei nostri giorni non sia un fenomeno nuovo, ma
una caratteristica intrinseca e permanente del dominio
imperialista. Come affermato nel
1967 dall'ex presidente Usa Richard Nixon,"con il suo patrimonio
di risorse naturali, il
più ricco della regione, l'Indonesia è il tesoro più grande
del Sud-est asiatico" [1]. Per impossessarsi di questo
"tesoro", l'imperialismo affogò nel sangue il popolo
indonesiano. Dieci anni dopo, i militari indonesiani
"filo-occidentali" scatenarono un
nuovo genocidio contro il popolo di Timor Est, ancora una
volta in stretto coordinamento con l'imperialismo
statunitense. Leggi tutto
Quella
che segue, è la recensione critica di Paul Mattick, scritta
nel 1975, al libro di Karl Heinz Roth, "L'altro movimento
operaio: storia della
repressione capitalistica in Germania dal 1880 a oggi"
(pubblicato in Italia, da Feltinelli, nel 1976). Si tratta
di un importante punto di vista su
alcune questioni ricorrenti in quegli anni nell'ambito
dell'operaismo italiano, quali l'aristocrazia operaia e la
designazione stessa di classe
operaia, il riformismo ed il burocratismo sindacale.
L'analisi svolta da Roth nel suo libro, così come più generalmente quella della corrente detta "operaista", intende porsi dal punto di vista dei lavoratori più sfruttati ed oppressi; quel punto di vista, la cui resistenza costringerebbe il capitale a rispondere, a sua volta con la violenza, la repressione ed il progresso tecnologico. Si propongono quindi (gli "operaisti") di mettere in rilievo la condotta, presente e passata, di un soggetto rivoluzionario misconosciuto e denigrato ("l'operaio-massa") e di restituire significato radicale sia alle sue lotte selvagge, spontanee, autonome, che alla sua ostilità nei confronti di quell'ideologia del lavoro, produttivista e pro-capitalista, che anima le correnti dominanti del marxismo ufficiale. Una prospettiva, questa, che sfocia conseguentemente in una critica, altrettanto radicale, delle organizzazioni operaie tradizionali, sia riformiste che rivoluzionarie, e della separazione di cui esse si nutrono: l'economia e la politica, la coscienza e l'azione, la teoria e la pratica.
Ora, la
critica svolta da Mattick alle tesi di Roth non si colloca
in alcun modo nel quadro
della difesa delle organizzazioni operaie tradizionali, né
esprime paura o preoccupazione a fronte della spontaneità
delle masse, dei
movimenti autonomi, degli scioperi selvaggi. Leggi tutto
Una Nota diffusa dal Centro studi di Confindustria (CsC) denuncia che i salari reali italiani sono cresciuti, dal 2000 fino al 2014, più della produttività del lavoro (28% contro un misero 10,9%), con l’ovvia conseguenza di spostare quote di reddito a favore della componente lavoro (che include i contributi sociali) e a scapito dei profitti, con effetti negativi su investimenti e competitività internazionale. Il presidente Squinzi chiede che sia dato più spazio alla contrattazione aziendale per legare le retribuzioni alla produttività. La ricetta che egli propone non è nuova, ed è fondata sul pregiudizio che lo spaventoso arretramento nella capacità di produrre reddito che il nostro paese subisce da un ventennio, sia dovuto all’eccessivo costo del lavoro e alla scarsa flessibilità del mercato del lavoro, ostacolata dai sindacati.
Questa tesi, se si guarda alla storia economica (recente) del
nostro paese, non è corroborata dai dati. I quali suggeriscono
piuttosto che
negli anni in cui la forza lavoro era maggiormente
sindacalizzata (anni ’70-’80) e il mercato del lavoro più
rigido[1],
la produttività del lavoro (segnatamente nella manifattura,
settore in cui
è più facile misurarla) cresceva più che in Francia, Germania,
Stati Uniti [2].
Uno dei più grandi economisti italiani contemporanei, Paolo
Sylos
Labini (Torniamo ai classici, Laterza, 2004,
pp. 47 – 51), spiegava questo fenomeno attraverso il
cosiddetto “Effetto
Ricardo”: sindacati forti portano ad un aumento del
costo del lavoro ( e una certa rigidità nei licenziamenti),
che incentiva le
imprese a sostituire lavoro con macchinari, che incorporano
il progresso tecnologico e spingono all’insù la produttività
del
lavoro. Leggi tutto
L’euro sta de-industrializzando gli stati europei a tutto vantaggio della Germania. L'esempio di Syriza dimostra l’impossibilità di un governo di alternativa. La sinistra italiana deve unire le forze e lavorare a un nuovo sistema monetario
Care compagne, cari compagni,
la sconfitta del governo greco guidato da Syriza davanti all’Eurogruppo ha portato la sinistra europea a domandarsi quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei.
La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un paese soggetto ai trattati europei.
Non esistono possibilità di mettere in atto politiche di sinistra se un governo cui la sinistra partecipi non dispone degli strumenti tradizionali di controllo macroeconomico, come la politica dei tassi di interesse, la politica dei cambi e una politica di bilancio indipendenti.
Per migliorare la competitività relativa del proprio
paese sotto l’ombrello dell’euro,
restano al singolo paese sottoposto alle condizioni dei
trattati europei solo la politica salariale,
la politica sociale e le politiche del mercato del lavoro.
Se l’economia più forte, quella tedesca,
pratica il dumping salariale dentro un’unione
monetaria, gli altri paesi membri non hanno altra
scelta che applicare tagli salariali, tagli sociali
e smantellare i diritti dei lavoratori, così come
vuole l’ideologia neoliberista. Leggi tutto
Giorgio Squinzi, al termine di un recente incontro con i rappresentanti delle 40 categorie che nei prossimi sei mesi dovrebbero rinnovare il contratto nazionale, ha annunciato il fallimento delle trattative: “Le posizioni dei sindacati sono ormai irrealistiche sul piano monetario e anche per il futuro del Paese”.
Il Sole24Ore del 7 ottobre ha ripreso la notizia in prima pagina, corredandola di un grafico che mostra l’evoluzione della produttività oraria calcolata come valore aggiunto a prezzi costanti per ora lavorata. Sebbene utilizzata spesso, quest’ultima è una misura della produttività scorretta per almeno tre ordini di ragioni.
In primo luogo, senza entrare nei dettagli di un dibattito teorico molto ampio, la produttività del lavoro è un concetto fisico, correttamente da misurarsi in termini settoriali. Calcolarla a livello aggregato, specialmente per produrre argomentazioni a favore del superamento della contrattazione nazionale, è fuorviante.
Il secondo è di natura contabile. Il valore aggiunto ai prezzi base è calcolato, per ogni branca, come la somma di tre componenti: redditi da lavoro dipendente, imposte nette sulla produzione, e risultato lordo di gestione. In altre parole, il concetto di valore aggiunto emerge come aggregazione del valore di merci non omogenee e capiti di altra natura. Il calcolo di una grandezza a prezzi costanti implica l’applicazione di un indice di prezzo calcolato rispetto a un paniere di merci come media ponderata dei prezzi di merci omogenee.
Il terzo ordine di ragioni è collegato al fatto che un calo
del valore aggiunto orario può dipendere dalla corrispondente
variazione
di una delle tre componenti di cui sopra; ad esempio, un calo
del risultato lordo di gestione (in poche parole, dei
profitti) attribuibile ad un
aumento dei costi di gestione non imputabile al
rendimento dei lavoratori. Leggi tutto
Tante imprese hanno licenziato lavoratori assunti a tempo indeterminato per riassumerli dopo sei mesi con il nuovo contratto a "tutele crescenti" ed avere 8.000€ in regalo dal Governo sotto forma di sgravi fiscali. I lavoratori si trovano così con un contratto più precario del precedente e il Governo può esultare per l'aumento dei contratti a tempo indeterminato. Di seguito vi spieghiamo come è successo, i tentativi di lotta dei lavoratori per bloccare la truffa e perché è necessaria una risposta collettiva a quest'attacco. Qui invece potete riascoltare la diretta con Radio BlackOut
A inizio 2015 il
governo ha varato i primi decreti
che riformano il mercato del lavoro, il cosiddetto Jobs Act,
con lo scopo dichiarato di aumentare l'occupazione stabile
mediante un nuovo contratto a
tempo indeterminato, denominato a “tutele crescenti”. In
sostanza, chi è stato assunto col nuovo contratto in vigore
dal 7 marzo,
non dispone più della protezione contro i licenziamenti
illegittimi garantito dal discusso articolo 18 che non
tutelava i lavoratori da
tutti i licenziamenti, ma soltanto da quelli
riconosciuti come illegittimi in sede giudiziale. Col nuovo
contratto, invece, si potrà
essere licenziati anche senza giusta causa o giustificato
motivo, perché a crescere non sono le tutele, ma soltanto
l'indennizzo cui si ha
diritto: due mensilità dell'ultima retribuzione considerata
per il Tfr per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro
e un massimo di 24
mensilità. Un lavoratore può dunque venire licenziato in
qualunque momento, senza una motivazione valida. Una volta
avrebbe potuto
ricorrere contro il licenziamento e, constatata
l'illegittimità del provvedimento, poteva avere diritto al
reintegro nelle vecchie mansioni,
oltre al ricevimento degli arretrati. Ora, invece, anche nel
caso in cui il giudice accertasse l'illegittimità del
licenziamento, il lavoratore
avrebbe soltanto diritto all'indennizzo, ma non ritornerebbe
mai al suo posto. Un bel regalo per i padroni che potranno
così liberarsi di
lavoratori indesiderati, ad esempio perché particolarmente
combattivi nel far rispettare i diritti loro e dei loro
compagni sul luogo di
lavoro.
Per altro, per ricevere l'indennizzo, il lavoratore dovrebbe
intentare una causa all'azienda con tempi e costi crescenti
che non tutti potrebbero
sostenere, tanto più in assenza del reddito da stipendio. Leggi tutto
Rampini è un reporter
sul fronte del presente con un occhio alle avanguardie che si
proiettano verso il futuro.
La sua cronaca del presente è passata dalla New economy, alla
Cina, a Cindia (Cina + India), all’India, alla banco-finanza
con un
occhio sempre attento alla rete, per poi tornare ogni tanto
all’America, all’Occidente, all’Europa e sempre meno,
all’Italia.
Fa il giornalista e non gli si può chiedere di far di più.
Oggi si occupa di caos, la cifra della contemporaneità che
tende al
futuro.
Il suo libro è quindi un report in nove capitoli più intro e conclusioni, sullo stato caotico della contemporaneità. Rampini non spiega e non giudica, racconta a modo suo, scegliendo esempi, casi, fenomeni che non angoscino troppo ma diano il senso di quanto potente sia un cambiamento che si annuncia permanente, ad un pubblico che si trova al confine tra la cultura e l’informazione.
Di tutti i casi che racconta due mi sembrano emblematici per inquadrare il suo punto di vista. Uno è sparpagliato nelle narrazioni e ci dice che il genovese, migrante a Bruxelles all’età di due anni e poi globetrotter prima per il Sole, poi per Repubblica, ha ottenuto la doppia cittadinanza ed è quindi italiano ma anche statunitense. Il suo punto di vista occidentale è quindi per nulla italiano, molto poco europeo ed ormai abbastanza interno alla mentalità “colta” americana ovviamente di sinistra e progressista tipo Rifkin, Stiglitz, Sachs, Mason, Reich . L’altro è il racconto della scelta di Andrew Sullivan, uno dei primi blogger di successo e pioniere del giornalismo on line indipendente che ha improvvisamente chiuso la sua attività sulla rete dopo quindici anni (Daily Dish). Leggi tutto
Derek Bok (Harvard University)
1.
Abbiate fiducia!
È divenuto costume ricorrente dei Presidenti del Consiglio italiani invocare una maggiore ‘fiducia’ come chiave di crescita e sviluppo. Dagli inviti berlusconiani all’ottimismo, da tradursi in spesa liberale al ristorante, al refrain renziano della fiducia nel paese contro i ‘gufi’ che remano contro, è tutto un prodigarsi a rafforzare l’autostima italica nel nome dei poteri taumaturgici della ‘fiducia’. Questi appelli alla ‘fiducia’ sono tuttavia, probabilmente, dovuti ad un’impropria comprensione del nesso tra ‘fiducia’ e progresso economico.
In una certa accezione la fiducia è realmente uno dei fattori cruciali nella crescita economica e nello sviluppo sociale di un paese, tuttavia questa fiducia non è un tratto psicologico soggettivo, come se bastasse una pillola di antidepressivo, ma un tratto cognitivo e una funzione sociale. La fiducia di impatto economico dipende dalla capacità cognitiva di affrontare la realtà circostante (capitale umano) e dal buon funzionamento delle relazioni sociali (capitale sociale).
In sociologia prende il nome di capitale sociale, la capacità di instaurare relazioni sociali costruttive e di lungo periodo. Ridotti tassi di corruzione ed elevato rispetto delle regole sono corollari tipici di un alto livello di capitale sociale. La distruzione del capitale sociale è da sola in grado di annichilire un’economia ed una società. Un esempio di Joseph Stiglitz può aiutare a comprendere la natura del capitale sociale: all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, il potere coercitivo centrale in Uzbekistan venne meno, mentre il paese si trovava in una condizione di elevata disgregazione sociale. Leggi tutto
In Europa la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare
All’indomani della
crisi finanziaria del 2008, quando il sistema fu salvato per
il rotto della cuffia solo grazie a
massicci interventi di spesa in deficit da parte dei governi
di tutti i paesi avanzati (dimostrando la validità
dell’assioma keynesiano
secondo cui l’unico strumento in grado di risollevare
un’economia in recessione è la politica fiscale) furono in
molti a sinistra
– tra cui il sottoscritto – a credere che il neoliberismo
avesse i giorni contati. Cos’era la crisi, in fondo, se non la
conclamazione del suo fallimento? Come ha scritto Paul
Heideman, «l’impressione al tempo era che l’era della
mercatizzazione assoluta stessa volgendo alla fine, e che la
crisi dei
mercati avrebbe condotto inevitabilmente al ritorno di una
qualche forma di nuovo keynesismo».
Come sappiamo, è accaduto l’esatto opposto. Non solo il regime neoliberale continua a godere di perfetta salute in tutti i paesi avanzati (sì, qualche tabù è stato infranto – si vedano le politiche di quantitative easing – ma solo nella misura necessaria per garantire la sopravvivenza del sistema stesso); in Europa la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare; e più in generale, per ristrutturare le economie e le società europee in una chiave ancor più radicalmente neoliberista di quella esistente. «Una distruzione creatrice – ha scritto Alberto Burgio – finalizzata alla sostituzione del modello sociale postbellico (il capitalismo democratico incentrato sul welfare pubblico e sulla riduzione delle sperequazioni in un’ottica inclusiva) con un modello oligarchico (postdemocratico) affidato alla “giustizia dei mercati globali” e caratterizzato dal binomio povertà pubblica-ricchezza privata». Leggi tutto
Su lavoce.info, il professor Francesco Daveri analizza i tagli d’imposta della legge di Stabilità 2016, e giunge a conclusioni analoghe alle nostre (non era difficilissimo, comunque), cioè che essenzialmente trattasi di gioco di prestigio, dove i tagli di tasse sono fittizi mentre l’aumento di deficit è reale.
Il punto, ancora una volta, è la distinzione tra lordo e netto, che è ormai la cifra stilistica di questo esecutivo. Qui parliamo di riduzione dell’imposizione, in presenza della clausola di salvaguardia che è stata “disinnescata” per il 2016 semplicemente facendo deficit, e che nel 2017 tornerà a bussare alla nostra porta. Un espediente finanche banale, dopo tutto, nella descrizione di Daveri:
«Il calo di entrate per 19,8 miliardi è infatti calcolato rispetto alla legislazione vigente che include lo scatto delle clausole di salvaguardia, cioè degli aumenti di Iva (per 2 punti percentuali) e altre accise sui carburanti per un totale di 16,8 miliardi a partire dal primo gennaio 2016. Tali incrementi di imposta – introdotti da finanziarie precedenti per far quadrare i conti degli anni passati – saranno cancellati se la legge di stabilità sarà approvata»
E sin qui ci siamo: è quello che vi dicevamo ieri, con la piccola precisazione che questi “incrementi d’imposta introdotti da finanziarie precedenti” sono quasi tutti Made in Renzi.
Leggi tuttoDocenti preparati, improvvisati o incompetenti, volonterosi e non pagati una miseria e spesso non pagati, ma rette sontuose di molte migliaia di euro strappate a famiglie disperate e illuse: con queste premesse il Cepu avrebbe potuto benissimo prosperare, se qualcuno lì dentro avesse avuto una mezza idea didattica e non l’intenzione di rastrellare sempre più denaro e farlo sparire nel lindo Lussemburgo di Juncker. Così adesso si è al fallimento, con la Procura di Roma intenzionata ad aprire un’indagine per bancarotta fraudolenta e agli avvisi di garanzia per evasione fiscale all’Ad Franco Bernasconi.
La vicenda è interessante perché costituisce una sorta di Bignami di tutti i vizi dell’Italia liberale, cialtrona e disonesta rappresentata dal berlusconismo, un esempio estremo, ma proprio per questo chiarissimo, di cosa voglia dire la privatizzazione dell’istruzione e il suo passaggio dal campo della trasmissione del sapere a quello del business. Il Cepu infatti – nato da da una precedente scuola per corrispondenza, la umbra Marcon che nel tempo si era sviluppata al punto da acquisire nel ’95 la più celebre Scuola Radio Elettra di Torino -, si espande all’università e al recupero corsi in tutta Italia sotto l’ala di Silvio di cui il patron dell’impresa, Francesco Polidori, era amico dopo esserlo stato anche Di Pietro quando gli attribuiva attribuiva una chance di successo politico. Leggi tutto
Intendo dire la persona, il potenziale premiato. La parte monetaria, il premio, è qui affare suo e non lo è di questa riflessione. Mi occupo del resto: di chi usa chi. E del come il chi numero 1 usa il chi numero 2. E del come il chi numero 2 si comporta in modo di ricevere il premio dagli amici del chi numero 1.
Prendiamo un esempio a caso, la signora S. Aleksievic, che ha appena conquistato il Premio Nobel per la letteratura. Una scrittrice di talento? Probabilmente sì, ci mancherebbe anche che non lo fosse! Non ho letto una riga di quello che ha scritto e non è escluso che la leggerò, prima o dopo. Ma, se la signora in questione fosse nata nel Burundi, o in Islanda, dubito fortemente che avrebbe preso il Nobel nel 2105.
Infatti, ammaestrato dall’esperienza, penso che coloro che influenzano gli erogatori finali del Premio Nobel per la letteratura abbiano lo sguardo fisso sulla sua utilizzazione politica. La neo-laureata lo sapeva benissimo e ha agito di conseguenza. Lei sa, come tutti gli artisti di vaglia, di avere scritto cose preziose per gli utilizzatori. Le ha scritte prima, a prescindere; non le ha scritte su commissione. Dunque è inattaccabile. Leggi tutto
Una finanziaria berlusconiana e di classe. Tutto per il consenso, nulla per uscire dalla crisi
Chiariamo subito una
cosa: la manovra reale contenuta nella Legge di Stabilità
varata dal governo nei
giorni scorsi non è di 27, bensì di circa 10 miliardi (mld).
Per l'esattezza 9,8 sul lato delle uscite ed 11,9 su quello
delle entrate
(ma di questi, 2 miliardi e mezzo sono solo entrate una
tantum). Quello di gonfiare i numeri per gonfiarsi il
petto è un antico
vizietto del prestigiatore di Palazzo Chigi. Fece così anche
lo scorso anno, parlando di una manovra da 36 mld, quando
invece i numeri reali si
fermavano a 16 (leggi
QUI). Considerata dal punto di vista
macro-economico, quella del duo Renzi-Padoan è in definitiva
una manovricchia. Ma
naturalmente anche 10 mld sono una cifretta di tutto rispetto.
Ed il posizionamento delle varie voci in entrata ed in uscita
illustra assai bene la
natura della seconda Legge di Stabilità di questo
governo: una finanziaria berlusconiana e di classe, con molte
misure tese alla
costruzione del consenso e nulla di concreto per uscire dalla
crisi.
Ma, ormai da anni, la finanziaria non si scrive solo a Roma ma anche a Bruxelles. Bisogna dunque chiedersi come la manovra appena varata nella capitale italiana vada ad incastrarsi nelle compatibilità stabilite dagli eurocrati residenti in quella belga. Questione non burocratica, bensì tutta politica, dato che riguarda da vicino le stesse prospettive dell'Unione Europea. Leggi tutto
Il T-tip – Partenariato
Transtlantico tra Usa e Ue per un mercato comune sul commercio
e gli investimenti –
è ormai in fase conclusiva e sarà sottoposto nei prosimi mesi
alla approvazione dei 28 paesi membri dell’Ue. I contenuti di
questo
accordo non sono noti
all’opinione pubblica perchè, secondo la tradizione
“democratica”
dell’Occidente, le cose serie si discutono in famiglia e
solo dopo aver deciso sono sottoposte all’attenzione dei
cittadini che,
ovviamente, devono approvarle se non vogliono passare per
guastafeste e irriducibili ignoranti sul modo come funziona
oggi l’economia mondiale.
Arriva dopo circa sette anni di elaborazione e trattative per
recuperare il filo spezzato nel 1998 dall’opposzione popolare
al progetto
dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Il T-tip è la terza gamba del
tavolo della
Globalizzazione, cioè
del nuovo potere affermatosi dagli anni Settanta, insieme
a quella della finanza e
dell’industria militare.
Il progetto viene presentato come una grande iniziativa di liberalizzazione e apertura dei mercati che introduce nella vasta area transatlantica regole comuni, uguali standard e controllo di qualità, e forme più omogenee di prezzi di mercato. Leggi tutto
Ripubblichiamo, con il permesso dell'autore, un vecchio saggio di Fabio Petri del 26.1.1995 che ci sembra tuttavia ancora utile come introduzione all'importanza che una solida base di analisi economica ha per trarre valide conclusioni di politica economica [Sergio Cesaratto]
Premessa
C'è da chiedersi
innanzitutto se problemi come la disoccupazione siano da
considerare come mali inevitabili, da addebitare ai lavoratori
che
si ostinano a pretendere salari troppo alti, o se invece si
tratti di qualcosa di curabile attraverso interventi
governativi che non rendano
necessaria una diminuzione dei salari. Questo è un primo
gruppo di questioni per le quali aderire ad una scuola teorica
o ad un'altra fa una
grande differenza. Mi soffermerò su questa differenza e poi
parlerò del problema del debito pubblico che è la questione di
cui si
più si parla in Italia. Come vedremo, anche in questo caso ci
si chiederà: il debito pubblico nel nostro Paese va o no
azzerato in tempi
brevi, mediante un attivo del bilancio dello Stato -cioè
tramite entrate dello Stato superiori alle spese?
Il punto da cogliere è che gli economisti non sono d'accordo su quale sia la migliore descrizione di come funziona un'economia di mercato, e proprio per questo non sono neppure d'accordo su quale siano le risposte - in termini di scelte di politica economica - da dare alle domande che ci siamo posti. Leggi tutto
Anche le amministrazioni locali sono espressione di quella «microfisica del potere» che agisce a livello globale. Per questo il Comune e la Regione chiedono forze alternative
«Partito dei padroni», «Servo dei padroni»: si tratta di espressioni che hanno accompagnato per lungo tempo l’agire politico/sindacale della grande maggioranza delle forme organizzate delle classi subalterne sia nei momenti di resistenza, sia in quelli (pochi) favorevoli all’offensiva. In genere quasi tutte le espressioni utilizzate come strumenti di battaglia, nel contesto di una lotta di classe esplicita, si caratterizzano per il forte valore emotivo e l’impreciso valore denotativo. Non che i «padroni delle ferriere» non fossero chiaramente individuabili, ma neppure quando essi formavano la parte più evidente del dominio del capitale, tale dominio si esauriva in quella forma.
Nei periodi in cui, però, la tipologia del «padrone delle ferriere» era quella più immediatamente visibile anche i «partiti dei padroni», i «servi dei padroni» si trovavano ad avere una configurazione precisa nella catena del dominio. Si configuravano come strumenti politici di servizio (servi appunto) rispetto a strategie necessarie che avevano come input la sfera del potere economico. Il modello interpretativo rimaneva forse approssimativo, ma non era certamente staccato dalla realtà. Leggi tutto
Che roba contessa, all'industria di Aldo / han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti; /volevano avere i salari aumentati, / gridavano, pensi, di esser sfruttati. (Contessa, Paolo Pietrangeli, 1966)
Sbarre
Un certo evitamento concettuale sta pervadendo l'accademia.
Il senso del lemma derridiano di “sotto cancellatura” – che
sottolinea la preoccupazione di imporre concetti – è stato
talmente esagerato da produrre la scomparsa del concetto
stesso, da farlo
sprofondare nel nulla. Così sfruttamento, per esempio,
viene talmente barrato da non essere più leggibile, in modo da
prevenire
ogni possibile “violenza linguistica”. La pulizia del
linguaggio porta a un confronto senza confronto, al terrore
per la discussione, per
il conflitto. Che poi si manifesta fuori, nel mondo.
Capita di osservare che l'uso del termine sfruttamento
venga sconsigliato nella valutazione di un saggio, di una
tesi, di un componimento,
persino di un tema al liceo. Si suggerisce di usare parole
meno dirette e accusatorie, di evitare di prendere posizione.
Che cosa evoca
sfruttamento per essere oggetto di censura?
La regola, a tratti esplicita, è: non forzare, diluire le affermazioni che producono responsabilità soggettiva. Leggi tutto
Su il
manifesto di mercoledì 30 settembre 2015 è uscito
un intervento di Franco Bifo Berardi che
consiglio. Pur non condividendone le conclusioni, penso che
l’articolo di Bifo eviti di alimentare la nebbia con cui gli
“intellettuali ed
i politici di ciò che ancora si chiama sinistra” coprono
l’evidenza. Ne riprendo alcuni elementi, riscrivendoli nel mio
universo
concettuale, sapendo di operare delle forzature.
1. La morte della sinistra era già stata certificata da Luigi
Pintor nel suo
testamento politico (l’ultimo editoriale su il
manifesto, Senza confini, del 17 maggio
2003, che consiglio di imparare
a memoria). È la premessa per cominciare a ragionare. Non si
tratta di rinnegare una storia ricchissima di grandiose
tensioni etiche, né
di cancellare una ricchezza enorme di riflessioni teoriche
(concetti e analisi storiche). Si tratta semplicemente di
prendere atto di una fine. Punto.
(Altra cosa è la lucida, ma difficilissima, analisi sul perché
questa fine si è prodotta).
2. La prima
operazione (preliminare) che Bifo consiglia è quella di una
radicale pulizia linguistica. Elementare atto di verità, senza
il quale
è impossibile vedere il mondo, ché il vedere passa sempre per
l’insieme dei significanti con cui le immagini vengono
strutturate.
Leggi tutto
Se sono morte le grandi narrazioni del passato, oggi trionfano le narrazioni d’impresa e di brand, lo storytelling d’impresa e di rete. Alienazione, mascherata da comunità e da collaborazione
Che il sindacato fosse
in crisi lo sapevamo da tempo. Ma pensare di essere già
entrati nella società
post-sindacale, questo ancora non lo avevamo
immaginato, né lo ritenevamo possibile. Eppure, se ha ragione
Dario Di Vico (Più
tutele in cambio di produttività. Benvenuti nella società
post-sindacale, nel Corriere della sera del 27
settembre) questo è
quanto si starebbe verificando e questo è negli obiettivi (o
nei sogni) degli industriali – ma un incubo per la società e
per la
democrazia, perché se viene meno uno dei soggetti forti della
rappresentanza del lavoro, se si scioglie anche il sindacato
insieme alla
società civile, se il sistema non ha più corpi intermedi, se
viene meno il bilanciamento del potere dell’impresa, allora
entriamo
non solo in una società post-sindacale ma, e peggio in una
società (non tanto post-democratica quanto)
non-più-democratica. E allora vediamo di capire cosa
sia o cosa potrebbe essere questa società post-sindacale e
soprattutto se
sia una rottura/cesura col passato o non sia invece, e
piuttosto l’ultimo pericolosissimo stadio di un processo di
incessante
divisione/scomposizione del lavoro per la sua successiva
totalizzazione/integrazione in un apparato d’impresa, di rete,
di consumo. Un processo
iniziato con la prima rivoluzione industriale (la fabbrica di
spilli di Adam Smith, per semplificare), transitato per fordismo
e taylorismo e
organizzazione scientifica del lavoro, arrivato al
toyotismo e ora alla rete. Leggi tutto
Massimo Cacciari è uno dei protagonisti della vita culturale italiana. Con questa intervista ci siamo però concentrati su una stagione precedente del suo impegno politico-filosofico, quella che va dagli anni dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. Le ragioni di questo interesse stanno nella straordinaria importanza che quella fase assume, sia come periodo di transizione e di crisi che contribuisce a determinare un assetto del mondo i cui effetti si dispiegano tuttora, sia per la compenetrazione tra riflessione teorica e impegno politico che era prerogativa di quella stagione e che ora pare scomparsa. Le domande mirano dunque all’approfondimento di questa vicenda storico-teorica e al ruolo che Cacciari gioca in essa
Lei ha iniziato il
suo percorso intellettuale e politico insieme ai principali
esponenti dell’operaismo italiano
(Mario Tronti, Antonio Negri, Alberto Asor Rosa). Quali sono
i motivi per cui a suo parere quella stagione ha assunto un
rilievo filosofico oltre che
politico?
Credo che si tratti di questo: si è trattato dell’ultima stagione in cui è comparso un marxismo creativo. Non ci si trovava cioè di fronte ad una scolastica marxista ma ad un pensiero che riprendeva i temi filosofici di Marx. Questo era evidente in autori come Negri, che provenivano da un percorso di studi sulla tradizione del pensiero politico, sulla filosofia tedesca tra Otto e Novecento, sullo storicismo di Dilthey ed altri temi consimili. E questo vale anche per Tronti, che era stato uno degli ultimi allievi di Ugo Spirito e aveva iniziato a leggere Marx attraverso quella prospettiva, da un punto di vista molto lontano da quello gramsciano -per non dire ovviamente crociano- che andava allora per la maggiore. Si trattava quindi di una scuola di politica e di filosofia che credo fosse abbastanza innovativa nel quadro non solo italiano, ma anche europeo. Non a caso questo filone di studi ebbe poi grande diffusione anche fuori d’Italia. Leggi tutto
Non basta l’appoggio dei «poteri forti» per capire come può l’attuale premier fare a pezzi la democrazia. Le dinamiche di potere coinvolgono anche gli alleati nelle amministrative e pezzi di società civile
Dinanzi all’enormità di quanto sta accadendo occorre essere esigenti sul terreno analitico. Com’è possibile che tutto questo avvenga? Chi ne è responsabile?
Certo, Renzi è oggi l’incontrastato protagonista della scena politica italiana. Chi si è a lungo baloccato col mantra del politico «senza visione» riconsideri le decisioni assunte in questi venti mesi di governo.La buona scuola e il Jobs Act; le privatizzazioni e i tagli alla spesa sociale; il forsennato attacco al sindacato; il combinato tra Italicum e devastazione iper-presidenzialista della Costituzione; l’occupazione militare dei vertici Rai; lo scempio sistematico dei regolamenti parlamentari; lo sdoganamento di politici pluri-inquisiti.
Tutto questo non sarà «visione», sarà semplice istinto, ma di certo non è difficile leggervi una traiettoria lineare di stampo autoritario e thatcheriano. Leggi tutto
La manovra finanziaria di quest’anno è concepita per agevolare chi possiede una villa come prima casa, e maneggia abitualmente grosse somme di denaro in contanti. È la Manovra della Magliana.
Il canone verrà inserito nella bolletta dell’energia
elettrica, ed è logico, visto quanto la Rai somiglii
all’Istituto
Luce.
Il resto delle misure economiche si riduce ai soliti tagli
lineari contemporaneamente vessatori e inefficaci, e qualche
ritocco inutile a
favorire la crescita quanto a tingere la ricrescita.
Alle slide di Renzi – “L’Italia con il Segno Più” –
mancava quella che da sola sarebbe bastata a descrivere tutta
la manovra: Più Cazzate.
Sempre più minoritaria nel paese, la maggioranza governativa di Renzi, che minacciava stizzoso di defogliare i “cespugli”, è oggi in realtà ostaggio dei capricci, dei ricatti, e degli appetiti di tutte le minoranze parlamentari possibili e immaginabili: Verdiniani, Alfaniani, Bersaniani, Centromediani, Espulsi, Fuoriusciti, Scissionisti, Gruppimistici, Sellini, Tirolesi, Quagliarelli… al mercatone mancano solo i Ferengi, ma sicuramente anche tutti gli altri hanno ben chiare le Regole dell’Acquisizione. Leggi tutto
I famosi moltiplicatori della spesa pubblica. Quelli che ci dicono di quanto aumenterà il PIL (e con esso l’occupazione) se aumentassimo la spesa pubblica produttiva e quanto diminuirà il PIL (e con esso l’occupazione) se la riducessimo. Quelli che le varie autorità dei paesi occidentali hanno ignorato durante la fase più acuta della crisi per odio ideologico di tutto ciò che è pubblico, commettendo errori mostruosi di valutazione dei danni dell’austerità. Danni che hanno generato disoccupazione e sofferenza, specialmente in quella parte di Europa che più aveva bisogno di ossigeno dalla politica economica. Danni con effetti duraturi che non permettono alle economie, ancora oggi, di riprendersi. Danni non ancora incorporati nella logica austera del Governo Renzi che continua a ridurre il deficit verso il pareggio, malgrado annunci l’opposto sbandierando il vessillo della “lotta all’austera Europa”.
E generando grande confusione nella testa degli operatori. Un amico e bravo giornalista della Stampa, Stefano Lepri, a un mio tweet che indicava come questo Governo rimanga austero perché riduce il deficit, ha replicato: “però penso abbia ragione Prometeia a sospettare che (il deficit) non scenderà, anzi potrebbe risalire”. Leggi tutto
Il conformista non
è forse il romanzo più importante di Alberto Moravia, ma le
sue pagine restituiscono nitidamente
la visione del rapporto fra individuo e società che
contrassegna molti lavori dello scrittore romano. Dalla trama
aggrovigliata del racconto
emerge sicuramente un ritratto impietoso del ceto medio
impiegatizio che si strinse attorno alla causa del fascismo.
Ma l’Italia degli anni del regime era solo il simbolo di una condizione più generale, perché Moravia concepì il romanzo come una sorta di indagine sul «conformismo», e cioè sulle radici di quel fenomeno – sociale, psicologico, culturale – che spinge il singolo verso la «massa». Secondo lo schema che strutturava il romanzo, Marcello Clerici, il protagonista, cercava infatti costantemente di negare a se stesso la ‘diversità’ in cui si era imbattuto in occasione di un episodio traumatico dell’infanzia. E proprio per negare questa ‘anormalità’, tentava di confondersi nella «massa» degli individui mediocri. Così, sebbene il sostegno al regime esemplificasse chiaramente in cosa consistesse, in termini politici, il conformismo di Marcello, per Moravia non si trattava di un fenomeno circoscritto all’esperienza autoritaria. Marcello infatti si lasciava andare a un «compiacimento quasi voluttuoso» in tutte le occasioni in cui scopriva di essere «eguale agli altri, eguale a tutti», e cioè anche quando riconosceva di essere un consumatore identico a tutti gli altri che compravano «le sigarette della stessa marca» e che avevano «gli stessi gesti suoi»[1]. E accettava con entusiasmo persino il disagio degli autobus gremiti di folla, perché proprio «dalla folla» gli giungeva «il sentimento confortante di una comunione multiforme», che andava «dal farsi pigiare dentro un autobus fino all’entusiasmo delle adunate politiche»[2]. Leggi tutto
Si è
cominciato, al principio degli anni ottanta, con il divorzio
tra la Banca d’Italia e il Ministero del
Tesoro, ovvero con la rimozione dell’obbligo in capo alla
prima di acquistare i titoli del debito pubblico che il
secondo non riusciva a
collocare. Seguì un forte incremento degli interessi,
indispensabile a indurre gli investitori a concedere credito
allo Stato italiano,
all’origine di una drammatica spirale: il notevole aumento del
debito pubblico, a sua volta produttivo di un ulteriore
incremento degli
interessi. Di qui la spinta a cedere all’Europa la sovranità
monetaria secondo le modalità descritte nel Trattato di
Maastricht,
prima fra tutte quelle riguardanti il rapporto tra debito e
deficit da un lato, e prodotto interno lordo dall’altro. Si
pensò infatti che
gli aspetti negativi della cessione avrebbero bilanciato
quelli positivi, primo fra tutti l’abbassamento dei tassi di
interesse e quindi, in
prospettiva, del complessivo debito pubblico italiano.
Il tutto funzionò, ma solo per poco: con lo scoppio dell’attuale crisi economica[1], i tassi di interesse tornarono a salire, sino a raggiungere livelli che ebbero notevoli conseguenze per la vita politica italiana. Con il mitico spread oltre quota 500, l’Unione europea fece pressione affinché Mario Monti formasse un esecutivo detto tecnico, incaricato di realizzare condizioni squisitamente politiche per un ritorno alla normalità: l’ulteriore diminuzione della spesa sociale e nuove riforme del mercato del lavoro nel solco di quanto voluto dai cultori dell’austerità neoliberale. Il tutto ripreso poi da Enrico Letta e, se possibile con maggiore aderenza al pensiero unico, da Matteo Renzi. Leggi tutto
La prospettiva analitica
I libri di Streeck e di
Dardot-Laval[1] sono tra i più importanti e
ambiziosi tra quelli che hanno volto la loro analisi a capire
come
l’egemonia neo liberale sia venuta in essere e si sia man mano
consolidata ed estesa. Per lo meno, questo è il terreno più
rilevante su cui sviluppano la loro analisi e sul quale li
seguirò, colmando anche una parte che nel mio libro Ripensando
il
Capitalismo, dedicato alle conseguenze di
quell’egemonia, non avevo ritenuto di sviluppare[2].
Scelgono fuochi diversi. L’uno (Dardot-Laval, da ora in poi D-L) concentra l’attenzione principale sulle trasformazioni soggettive, e quindi sociali, introdotte dal neo liberismo, come riflesso di logiche istituzionali e normative che fissano e condizionano comportamenti e culture. L’altro la concentra sui connotati via via diversi che il capitalismo prende a partire dagli anni ’70, a seguito del conflitto distributivo e di potere ingaggiato dai “capitalisti” per sfuggire alle strettoie di regolamentazioni e rapporti di forza che ne imbrigliavano l’azione e schiacciavano pericolosamente i profitti.
La “nuova ragione del mondo” è la razionalità del neo capitalismo estesa all’intera esistenza. Quella nuova ragione è tanto nella pervasività dei comportamenti concorrenziali, ormai introiettati da persone e istituzioni, quanto in un ordinamento globale che tende a imporli ai vari livelli e ad agire come fonte disciplinare. D-L sottolineano da subito che il neo liberismo non ha nulla a che vedere con il laissez faire tradizionale, vale a dire con quella visione che postula la libertà di mercato e per la quale la sfera statale è una sovrastruttura, ed è parte separata da quella economica, che segue le sue regole e, se non disturbata, determina gli esiti ottimali. Il neo liberismo, invece, nasce da subito come tendenza a una nuova organizzazione di uno Stato compenetrato all’economia (tutt’altro che “leggero”). Uno Stato che tende a organizzare il mercato e fissarne la logica in norme giuridiche e comportamentali e in organizzazione burocratica e tecnocratica, che nel loro insieme estendono la competizione come principio oltre le frontiere tradizionali del mercato. A quelle regole di competizione viene assoggettato lo stesso Stato all’interno delle sue articolazioni. Leggi tutto
Le potenze imperialiste (Stati Uniti e Europa) non hanno mai digerito la nazionalizzazione del 1956 e l’esercizio della piena sovranità egiziana sul Canale. Hanno perfino fatto la guerra all’Egitto per ristabilire il precedente statuto “privato” (dominato dalla Gran Bretagna e dalla sua alleata Francia) di gestione del Canale. Guerra, all’epoca, persa
I poteri dominanti nei paesi del blocco imperialista nutrono la speranza di ritornare sulla nazionalizzazione in occasione dei lavori di ampia portata necessari per raddoppiare la capacità di servizio del canale (permettere il passaggio di 90 navi al giorno, di grande tonnellaggio, in luogo di 45). Hanno detto e ripetuto che l’operazione richiederebbe un finanziamento internazionale poi la realizzazione di progetto ed esecuzione da parte delle multinazionali occidentali. In altre parole, il ritorno all’appropriazione di fatto del Canale da parte del capitale internazionale, annullando la portata della nazionalizzazione e l’esercizio della sovranità egiziana. Il governo dei Fratelli Musulmani e di Morsi avevano accettato questo piano di riconquista coloniale e questa è stata, senza dubbio, una delle ragioni principali per cui le potenze occidentali hanno sostenuto Morsi, nonostante le pratiche fasciste del suo governo.
John Kerry lo ricordava qualche giorno fa: dopo aver fatto l’elogio del Presidente Sissi, gli suggeriva di reinserire i Fratelli Musulmani nel suo governo, in nome della “democrazia”! Che penserebbero i francesi, per esempio, se l’Egitto suggerisse a Hollande di inserire Marine Le Pen nel suo governo, in nome della riconciliazione nazionale? Leggi tutto
Questo non è un articolo. Non è equidistante, non è imparziale, non è neutrale. Racconta una storia. La storia di Hashem al-Azzeh, numero 48, ucciso a Hebron dopo una vita passata a resistere
Succede così. Che scorrendo tra le notizie del giorno che arrivano da
quella terra, un nome nella lista delle
persone da piangere sia più vicino al tuo cuore. E allora
trovare le parole per descrivere la frustrazione per come
viene raccontato dai media
quello che accade diventa inutile.
E’ una stanchezza, quella che coglie, fatta di rabbia, di nomi che negli anni si sono susseguiti, di definizioni sbagliate, di parole a vuoto, dette a caso, dette male. Di cronache tanto ignoranti da essere violente, di luoghi comuni da sfatare, pregiudizi da smontare, battaglie perse un giorno dopo l’altro.
“Non riesco più a scriverne, non serve a niente”, si sfoga un amico, un collega. Un altro che ha attraversato quei luoghi e quando accende la tv pensa, probabilmente, che quegli inviati mica stiano dicendo sul serio. Non è possibile.
Ci hanno insegnato che il giornalismo deve essere neutrale. Imparziale, equidistante, equilibrato, non coinvolto, non schierato.
Io invece dico che il giornalismo deve essere denuncia. Spazio dato ad un dolore, voce prestata a chi non ne ha, occhi che hanno il coraggio di guardare, corde che hanno la forza di suonare, scarpe che hanno l’onestà di attraversare i mondi di cui parlano, lasciando che siano i fatti a parlare.
E allora, facciamo che questo non è un articolo.
Facciamo che non è imparziale, non è equidistante, non è deontologicamente corretto e non è tecnicamente perfetto. Non rispetta le regole, non si allinea, semplicemente racconta.
Leggi tuttoI makers sono giovani, intraprendenti, ridotti a incarnare la figura neoliberale dell’«imprenditore di se stesso»
I cacciatori di innovazione si muovono accorti. Frequentano le università, ma anche le strade; sono come i «cacciatori di tendenza» per il mondo dorato delle fashion house. Devono cioè essere interni a uno stile di vita, ma mantenere la giusta autonomia, perché rispondono ai loro committenti. Possono però trasformarsi in società di intermediazione tra gli «innovatori» e le imprese. Ma per fare questo significa organizzare un «evento» che raccolga entrambi gli «attori» in uno stesso spazio. Il Maker Faire italiano segue questa logica. L’appuntamento che si è svolto tra giovedì e domenica della scorsa settimana ha costituito la sperimentazione di una dispositivo che garantisce un flusso di innovazione tra makers e imprese basato sulla «cattura» da parte di quest’ultime delle conoscenze e dei prototipi sviluppati al di fuori delle loro mura.
Antenati blasonati
Ma se questa riduzione dell’innovazione a merce da acquistare sul mercato è il dato che emerge dai successi delle fiere dei makers, sono altri gli elementi che sono aggressivamente entrati in scena. Si tratta di quel processo, variamente declinato teoricamente negli scorsi anni, che vede la condivisione delle conoscenze trasformata da possibile alternativa all’economia di mercato a nuova frontiera di un «capitalismo estrattivo» che attinge al lavoro di ricerca di giovani laureati in cerca di successi imprenditoriali. Leggi tutto
Uscire dall'Unione monetaria è davvero l'unica strategia possibile per i paesi della periferia dell'Unione per ritrovare un sentiero di crescita? Una sintesi del dibattito ospitato da Etica ed Economia
La crisi greca e la drammaticità
delle sue fasi finali hanno
contribuito al ravvivarsi del dibattito politico ed accademico circa
l’opportunità, da parte dei paesi periferici dell’eurozona, di
procedere
all’abbandono dell’area valutaria quale unica strategia
possibile per ritrovare un sentiero di crescita. Con questo
contributo si intende fornire una sintesi del dibattito
ospitato dal Menabò di Etica ed Economia a
cui hanno preso parte gli economisti Giorgio Rodano, Salvatore
Biasco e Massimiliano Tancioni.
Il primo ad intervenire sulle pagine del Menabò è stato Rodano, con un articolo apparso ad inizio luglio di quest’anno. Il giudizio sulla moneta unica espresso da Rodano è netto: l’euro non è stato una buona idea, è nato come un compromesso politico tra Francia e Germania ed è figlio di una visione particolarista. La significativa eterogeneità delle economie europee, spiega Rodano, rende irrealizzabile quella che tecnicamente viene definita un’area valutaria ottimale. Mancando i requisiti qualificanti un’area di questo tipo, le economie più fragili della zona euro sono costrette a ‘rientrare’ dalle crisi comprimendo il costo dei fattori produttivi e, in particolare, il costo del lavoro. L’austerità, e le connesse sofferenze sociali che segnano il quotidiano dell’economie periferiche nell’eurozona, sono, dunque, un inevitabile portato della loro permanenza nell’Unione Monetaria.
Quale risposta, dunque, alla fatidica domanda ‘Uscire dall’euro allora?’. Utilizzando il tipico modus operandi dell’economista Rodano pone a confronto benefici e costi delle alternative a disposizione. Nel caso di un eventuale abbandono dell’Unione Monetaria.
Leggi tuttoLiberare tutti i dannati della terra, prima edizione Lotta Continua 1972, ristampa 2015 reperibile presso le librerie di movimento, pp. 256, € 5,00
C’è stata una stagione fortunata in cui,
parafrasando un romanzo americano di qualche anno fa, “ogni
cosa era
illuminata”.1 La coscienza di
classe formatasi direttamente
nell’esperienza delle lotte rendeva tutto più chiaro e non vi
potevano essere fraintendimenti. Oggi, a quarant’anni di
distanza,
ricordarlo non è un’operazione di carattere nostalgico, ma un
dovere. Un dovere militante, per ricordare alle generazioni
più
giovani che il diritto al sogno è strettamente intrecciato con
le lotte che intendono abolire l’orrendo stato presente delle
cose.
Questo libro, ristampato nel formato originale e con l’aggiunta di pochissime e brevi note introduttive da un gruppo di compagni che ancora si occupano di questioni carcerarie, è un frutto importante di quegli anni. Non per la sigla politica che allora lo accompagnò, ma perché costituiva il frutto di un lavoro diretto e politico sul carcere e nel carcere. Una raccolta di testimonianze dirette dall’interno dell’istituzione concentrazionaria per eccellenza. Come affermano i curatori: “non «un’inchiesta sul carcere» ma un rendiconto di un lavoro politico iniziatosi in modo sistematico nella primavera del ‘71”.
Nelle carceri italiane, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, si erano andati incontrando i figli del proletariato e del sottoproletariato con i giovani studenti politicizzati che la repressione statale aveva accomunato. Molti dei secondi appartenevano alle file di Lotta Continua e, sotto un altro punto di vista, non importa se molti di loro, da lì a qualche anno, avrebbero radicalmente modificato la propria traiettoria politica. In quelle carceri erano però entrati nel frattempo lo spirito di rivolta e gli scioperi (inimmaginabili prima)che agitavano già le piazze, le fabbriche e le scuole.
Quell’esperienza contribuì a dar vita ad una Commissione carceri che, soprattutto a Napoli, avrebbe visto intersecarsi l’azione politica sul territorio e nei quartieri con quella sulle problematiche inerenti alla carcerazione e alle condizioni di vita dei detenuti. Spesso i soggetti coinvolti (proletari disoccupati, contrabbandieri di piccolo cabotaggio, sottoproletari che si mantenevano con i mille artifici che andavano dal mercato nero alla spaccata) transitavano con facilità da una condizione di libertà relativa a quella di detenuti.
Leggi tuttoZero Hedge
riporta come la strategia USA per destabilizzare la Siria –
utilizzando cinicamente l’ISIS che si
finge di combattere – va avanti da decenni come parte della
guerra per metter fine al monopolio della Russia sulle
forniture di gas
all’Europa, ed è ampiamente documentata nelle comunicazioni
diplomatiche riservate che sono trapelate. Ora forse
anche i media americani cominciano a mettere in dubbio
l’autenticità delle motivazioni alla guerra. Nel frattempo
tanti paesi
sono distrutti e milioni di rifugiati si riversano in Europa
17 Ottobre 2015
– La guerra civile infuria in Siria, in un conflitto che va
avanti ormai da 5 anni, con ben 11
milioni di
profughi e quasi 300 mila persone uccise. La Siria, alleato di
lunga data della Russia, riceve sostegno dal gigante orientale
già dal 1940.
Come anti-Media ha
riferito il
mese scorso:
“Il sostegno russo alla Siria risale al 1946, quando la Russia ha contribuito a consolidare l’indipendenza della Siria. I due paesi sono giunti a un accordo diplomatico e militare, sotto forma di un patto di non aggressione, firmato il 20 aprile 1950. In questo patto la Russia ha promesso sostegno alla Siria appena costituita, contribuendo a sviluppare il suo esercito e a fornire supporto tattico. In sostanza, Russia e Siria hanno collaborato per decenni sia militarmente che economicamente, e la Russia ha mantenuto una base navale sul Mediterraneo siriano”.
Ma anche gli Stati Uniti hanno dei piani sulla regione. Nel 2013, il presidente Obama, insieme a John Kerry, ha tentato di ottenere il consenso della pubblica opinione per un cambio di regime in Siria, toccando le corde dell’amore per la diffusione della democrazia e della libertà così vive nel cuore del pubblico americano. Gli americani hanno risposto con il massiccio movimento di protesta #NoWarWithSyria, cosicché questo tentativo di rovesciamento del governo siriano non è riuscito. Tuttavia, la spinta per un cambio di regime non si è fermata per il semplice fatto che il governo ha smesso di parlarne. La CIA ha continuato ad armare praticamente qualsiasi gruppo disposto a combattere contro il governo di Assad. Il Pentagono ha anche cercato (ma non ci è riuscito) di metter su un esercito alleato dell’America di cosiddetti ribelli siriani moderati, al costo di $ 500 milioni – che, sulla carta, dovrebbe opporsi all’ISIS, ma in realtà lavora per cacciare Assad. Leggi tutto
Premessa: è difficile discutere una una "legge di stabilità" che ben pochi hanno visto. I ministri l'hanno approvata prima che fosse scritta, le due Camere non l'hanno ancora ricevuta, il Presidente della Repubblica, ieri sera alle 22, non l'aveva ancora tra le mani. Figuratevi noi, poveri cronisti sprovvisti di "entrature a palazzo"...
Ma qualcuno ne ha sicuramente dovuto assaggiare le conseguenze. Per esempio i presidenti di Regione - quelli pomposamente chiamati "governatori" - almeno per la parte riguardante la sanità, per Costituzione (quella emendata in solitudine dal Pd quasi venti anni fa, introducendo il principio suicida della "legislazione concorrente" tra regionie Stato, solo per "recuperare i voti alla Lega") affidata appunto alle Regioni.
Chi l'ha capita meglio sembra essere Sergio Chiamparino, presidente piemontese e "renziano della prima ora", che si è dimesso dall'identica carica nella Conferenza Stato-Regioni. Non è proprio una dichiarazione di guerra, anzi, ribadisce di "vedere il bicchiere della legge di stabilità mezzo pieno", ma sul punto della sanità - dove si prevede che le Regioni in deficit dovranno aumentare Irpef e Irap locali, anche facendo ricorso all'aumento del costo dei ticket, ha deciso che non poteva far altro che dimmettersi. In modo "irrevocabile", ossia non a là Marino.
«Una regione in queste condizioni non può stare in testa alle altre e per questo ho presentato le mie dimissioni, ma il problema – chiarisce Chiamparino a La Stampa - rischia di diventare esplosivo anche per le altre amministrazioni. Non chiediamo più soldi o di sanare il debito ma un decreto che costituisca un fondo patrimoniale ad hoc dove far affluire le anticipazioni assegnate dall’Economia». Leggi tutto
Lafontaine, insieme a Varoufakis, Melanchon e Fassina,ha presentato recentemente a Parigi un Manifesto titolato: "Piano B".
E' un primo tentativo di uscire dal cono d'ombra lasciato dall'avventuristica impostazione di Tsipras. Si tenta, infatti, di dare una prima risposta alla demenziale assenza del Piano B. Piano necessario proprio a causa dei rapporti di forza, dal potere della Finanza, la durezza dei governi dell'euro zona, l'irriformabilità dell'Unione.
Lafontaine recentemente ha anche pubblicato una lettera sul Manifesto per invitare la sinistra radicale italiana a darsi una mozza e a scrollarsi di dosso l'adesione acefala all'immodificabile euro. Nella lettera conferma la sua proposta di ritornare allo SME.
Sempre sul Manifesto risponde Gabriele Pastorello dicendo della sorpresa e preoccupazione della sinistra italiana per le proposte avanzate. In buona sostanza sostiene che il vero problema non sono tanto la BCE e Bruxelles ma il governo e la banca tedesca; che tornare allo SME sarebbe un disastro, e che in realtà si tornerebbe alle monete nazionali: e questo sarebbe un'apocalisse.
Del nostro sinistrato Pastorello si potrebbe dire che quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito.
Cosa dicono Lafontaine ed il piano B?
1) La lezione da trarre - dicono i quattro – è che: “L’euro è diventato uno strumento di dominio economico e politico da parte di un’oligarchia europea che si fa schermo del governo tedesco,..”. Affermano, inoltre, che l'euro non ammette democrazia paragonando la situazione alla sovranità limita di Breznev. Leggi tutto
L’egemonia del neoliberismo nella società. Anticipiamo la relazione che il filosofo francese terrà in un convegno* ad Alessandria organizzato da «Critica marxista» e Fondazione Luigi Longo
I grandi dibattiti
sulla società hanno sempre posto al centro la relazione tra
mercato
e organizzazione, fra questi due modi di coordinazione
razionale dell’azione sociale. Marx indaga
il capitalismo in termini di struttura, come
strumentalizzazione del mercato, della
razionalità mercantile, avvenuta attraverso la
mercificazione della forza-lavoro. Ma
è in termini di tendenza storica di questa struttura
concorrenziale che egli giunge
all’organizzazione, trattata a partire dallo sviluppo della
grande impresa. Egli interpreta l’organizzazione come
un altro tipo di razionalità, oggi nelle mani dei
capitalisti, ma che finirà per sfuggire loro e che
fornirà, quando la proprietà privata e il mercato saranno
aboliti, il tessuto stesso del
socialismo. È questo il nucleo duro del grande mito
emancipatore del XX secolo.
Oggi ne misuriamo i limiti. La riflessione critica ha del resto preso molteplici forme. Per parte mia, io propongo di riprendere, di correggere e di allargare il procedimento di Marx a partire dal suo «cominciamento». La società moderna si caratterizza per il suo riferimento alla ragione. Ma questa non è che la sua metastruttura, che non è posta, come pretesa presuntamente condivisa di libertà-eguaglianza-razionalità, che nelle condizioni della struttura di classe, che a sua volta la presuppone.
Appropriazioni privilegiate
La società moderna è analizzabile dunque nei termini di una strumentalizzazione della nostra ragione sociale. Questa si declina secondo le due mediazioni primarie che sono il mercato e l’organizzazione. Le quali, in effetti, sono due modi della microrelazione interindividuale posti al di là dell’immediatezza discorsiva. La loro strumentalizzazione li trasforma in fattori di classe co-costitutivi dei macro-rapporti di classe moderni. Leggi tutto
Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ” La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″
Ai giorni nostri è un
luogo comune parlare di restaurazione del capitalismo a
proposito della Cina scaturita dalle
riforme di Deng Xiaoping. Ma su che cosa si fonda tale
giudizio? C’è una visione più o meno coerente di socialismo
che si possa
contrapporre alla realtà dei rapporti economico-sociali
vigenti nella Cina odierna? Diamo un rapido sguardo alla
storia dei tentativi di
costruzione di una società postcapitalistica. Se analizziamo i
primi 15 anni di vita della Russia sovietica, vediamo
susseguirsi rapidamente il
comunismo di guerra, la NEP e la collettivizzazione integrale
dell’economia (compresa l’agricoltura). Ecco tre esperimenti
tra loro ben
diversi, ma tutti e tre caratterizzati dal tentativo di
costruire una società post-capitalista! Perché mai dovremmo
scandalizzarci per
il fatto che, nel corso degli oltre ottanta anni che hanno
fatto seguito a tali esperimenti, ne siano emersi altri, ad
esempio il socialismo di
mercato e dalle caratteristiche cinesi?
Concentriamoci per ora sulla Russia sovietica: quale dei tre esperimenti appena visti si avvicina di più al socialismo teorizzato da Marx ed Engels? Il comunismo di guerra viene così salutato da un fervente cattolico francese, Pierre Pascal, in quel momento a Mosca: «Spettacolo unico e inebriante […] I ricchi non ci sono più: solo poveri e poverissimi […] Alti e bassi salari s’accostano. Il diritto di proprietà è ridotto agli effetti personali». Questo populismo, che individua nella miseria o nella penuria il luogo dell’eccellenza morale e condanna la ricchezza come peccato, è criticato con grande precisione dal Manifesto del partito comunista: non c’è «nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una mano di vernice socialista»; i «primi moti del proletariato» sono spesso caratterizzati da rivendicazioni all’insegna di «un ascetismo universale e un rozzo egualitarismo» (MEW, 4; 484 e 489). Leggi tutto
Penso che la prima cosa
che si debba dire in una recensione di un libro è se è bello o
brutto. Questo è bello e
interessante. Ha un unico difetto, del quale dirò subito, per
poi concentrarmi sui molti pregi. Per ammissione della stessa
autrice, si tratta
di una versione allungata di un rapporto scritto per un think
tank a servizio del governo britannico nel 2011… e si
vede. Alcuni
argomenti sono ripetuti più e più volte (al limite
dell’ossessività, tanto da far pensare che l’autrice ritenga i
suoi lettori un po’ duri di comprendonio), altri, pur
interessanti, c’entrano relativamente poco con la tesi del
libro. Sì,
perché è un libro a tesi, ma questo non è un difetto, se la
tesi è valida e ben argomentata.
La tesi che Mariana Mazzucato vuole dimostrare è che lo Stato può, e deve, assumere il ruolo di guida nell’innovazione tecnica e conoscitiva, assumendo di conseguenza un analogo ruolo per la crescita economica, nel quadro della teoria distruttiva-creativa di Schumpeter. “Può” perché lo ha fatto molto spesso nel recente passato. “Deve” perché il mercato, le imprese private e i venture capitals non sono in grado per la loro stessa natura di farlo. Corollario di tale tesi è che lo Stato avrebbe tutto il diritto di appropriarsi di parte dei profitti che questo suo ruolo genera, per finanziare nuove ricerche e per coprire i costi di ricerche che non hanno portato a risultati positivi. Ma ciò non avviene, in quanto i capitali privati (soprattutto i venture capitals) si appropriano dei risultati della ricerca di base[1] i cui rischi di fallimento sono già stati socializzati tramite la spesa pubblica per ricerca e sviluppo (R&S), privatizzandone i profitti. Si tratta di un vero e proprio free-riding: da un lato l’orizzonte temporale dei venture capitals raramente supera i 5 anni (ma di solito è tra i 3 e i 5), dopodiché c’è il realizzo, tramite cessioni o fusioni; dall’altro le imprese più grosse, che hanno avuto successo grazie all’applicazione delle tecnologie frutto delle ricerche pubbliche, spesso riacquistano le proprie azioni rafforzando il valore del titolo, a tutto beneficio di manager e alti dirigenti, che godono di stock-options. E’ un meccanismo che non crea valore aggiunto ma rende più facile “spremere” il valore aggiunto creato dalla ricerca finanziata dal settore pubblico. Leggi tutto
Dopo il jobs act e i recenti accordi interconfederali (a
breve potrebbe essere pure limitato il diritto di sciopero
per il Giubileo e altri
“grandi eventi”), continua la strategia di attacco ai
lavoratori che è stata adottata di recente anche dal governo
Renzi. Governo
che, insieme ai precedenti, ha fatto della deflazione
salariale il perno principale della politica economica per
superare il problema di
competitività della nostra economia.
In questo articolo - che segue questo contributo
della settimana scorsa - gli autori spiegano come i dati
pubblicati dagli organi di ricerca e
di stampa possano essere utilizzati strumentalmente per
convincere l’opinione pubblica e le istituzioni deputate a
legiferare che occorrono
ulteriori sacrifici dei lavoratori per rilanciare
l’economia.
Ricordiamo che la co-autrice dell’articolo Nadia Garbellini sarà nostra ospite il prossimo 28 ottobre a Palermo per discutere delle forme di produzione statuali (qui maggiori dettagli).
***
Il presidente di Confindustria ha recentemente motivato la rottura delle trattative con i sindacati affermando che le richieste di questi ultimi “sono ormai irrealistiche [...] per il futuro del Paese”.
La base di tali affermazioni è una nota di CSC (Centro Studi Confindustria) le cui argomentazioni fondamentali si possono così riassumere: le retribuzioni dei lavoratori sono cresciute, nell'ultimo triennio, più della produttività. Leggi tutto
Obama sta entrando nell’ultimo anni della sua presidenza ed è tempo di un primo bilancio storico. Marc Bloch sostenne che i contemporanei hanno diritto ad essere i primi a scrivere la storia del proprio tempo.
Ovviamente, si tratta sempre di una storia diversa da quella che scriveranno le generazioni a venire: nessuno, come i contemporanei, sarà mai in grado di apprezzare le più sottili sfumature di linguaggio, le pieghe della mentalità, i particolari delle istituzioni e dell’economia, in una parola, il “colore di quel tempo”.
In compenso, i posteri godranno il vantaggio del distacco, conosceranno cose prima segrete, individueranno meglio le tendenze e lo stesso giudizio storico dei contemporanei sarà un pezzo della loro analisi. Dunque, due forme di conoscenza diverse ma non per questo una di maggior pregio dell’altra, ed in qualche modo, complementari.
Dunque, che giudizio possiamo iniziare a formarci di questa presidenza? Obama arrivò alla Casa Bianca in un momento certo non facile: la crisi finanziaria si era appena conclamata, la situazione in Iraq ed Afghanistan si era incancrenita, la crisi georgiana rivelava al mondo una Russia tornata potenza decisa a ripristinare la propria influenza di area e le olimpiadi di Pechino rivelavano una Cina in anticipo di circa venti anni sul ruolino di marcia immaginato. Ed il progetto monopolare americano entrava in crisi mentre sorgeva la sfida degli emergenti per un mondo multipolare. Obama promise l’uscita dalla crisi, la riforma della finanza, una cauta ripresa delle politiche di welfarestate (riforma sanitaria), una parziale redistribuzione della ricchezza ed una America sempre unica superpotenza, ma prima fra pari, insomma un progetto egemonico fatto di forza ma anche di consenso, a metà fra il mono-polarismo unilateralista di Bush e il progetto multicentrico degli emergenti. Leggi tutto
Introduzione
Sul rapporto tra marxismo e filosofia sono state scritte intere biblioteche. Il “dilemma” è ricondotto alla questione, posta dai filosofi “di professione”, dell’insufficiente, nascosto, frainteso o addirittura mistificato “statuto filosofico” del marxismo.
Nel parlare di marxismo e filosofia si va da chi afferma che il vero problema del marxismo è l’assenza di uno spazio filosofico specifico a chi afferma che un po’ di buona filosofia c’è, ma bisogna disseppellirla da sotto una montagna di deformazioni economicistiche, storicistiche, umanistiche, a chi sostiene che in Marx è posto in modo esauriente il problema filosofico fondamentale. E così via.
Più in generale i filosofi vogliono più filosofia. E' normale: gli economisti vogliono più economia, i sociologi più sociologia, ecc… Raramente si ricorda che una delle acquisizioni fondamentali di Marx consiste proprio nel superamento della divisione disciplinare della conoscenza (si potrebbe dire, della “divisione del lavoro nel campo della conoscenza”) e nell’inaugurazione di un nuovo approccio ai problemi filosofici, economici, storici, sociali, ecc…
«il marxismo non si lascia collocare in nessuno dei comparti tradizionali del sistema delle scienze borghesi, e anche se si intendesse approntare appositamente per esso... un nuovo comparto chiamato sociologia, esso non vi rimarrebbe tranquillamente, ma continuerebbe a uscirne per infilarsi in tutti gli altri. “Economia”, “filosofia”, “storia”, “teoria del diritto e dello Stato”, nessuno di questi comparti è in grado di contenerlo, ma nessuno di essi sarebbe al sicuro dalle sue incursioni se si intendesse collocarlo in un altro» [1].
La maggior parte dei filosofi critica “benevolmente” Marx
Leggi tuttoL’attuale processo di de-emancipazione rischia di ridurre il pensiero critico a strumento delle classi dominanti. Anche la filosofia corre il rischio di esser ridotta a sofistica, per essere inglobata nel pensiero unico. In tal modo da strumento di emancipazione sociale, la formazione filosofica rischia di divenire mero mezzo di perpetuazione della classe dominante, cooptando le poche teste pensanti delle classi subalterne
La filosofia, favorendo
lo sviluppo di un sapere critico e di una visione del mondo
scientifica, è stata sempre considerata con
sospetto dai ceti sociali dominanti. Inoltre, ponendo la
questione della verità come un compito collettivo, da
realizzare attraverso un
costante dialogo fra diversi, essa non può che essere
avversata da chi auspica soluzioni autoritarie fondate sul
diritto del più forte,
la legge di natura quale legge della giungla. Un modo di
pensare che parte dal sapere di non sapere non può che essere
combattuto da ogni forma
di fondamentalismo, di totalitarismo, di fanatismo.
D’altra parte, essendo fondata sull’amore per la verità, la filosofia non può che, ancora, essere avversata da chi, per mantenere i propri privilegi, deve mantenerla celata, dal momento che la verità è rivoluzionaria. Il pensiero filosofico, come riconosceva lo stesso Benedetto Croce, è un sapere in sé e per sé democratico, in quanto si fonda sulla ragione quale caratteristica peculiare del genere umano, di cui ogni uomo è almeno potenzialmente portatore. Quindi non solo essa offre a ognuno la possibilità di uscire dallo stato di minorità, quale “incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”, per dirla con Kant, ma è presente in sé in ogni uomo, in quanto tale potenzialmente filosofo. In tal modo essa è animata da uno spirito radicalmente egualitario, tanto che i suoi più acerrimi nemici - quali Nietzsche - imputano al suo fondatore, Socrate, di essere il primo responsabile della rivolta degli schiavi e accusano il fondatore della filosofia moderna, Cartesio, di essere il nonno della rivoluzione. Leggi tutto
1. Non mi è semplice
intervenire sul tema che mi è stato proposto. Non mi è facile
per almeno due motivi. Il primo concerne la
mia riluttanza a tornare su quello che, in ambito filosofico
politico almeno, viene sedimentandosi come il «canone»
filosofico della
biopolitica. Foucault, Benjamin, Arendt e poi l’uso che di
essi è stato fatto da Agamben, Negri-Hardt o Esposito. Il
secondo per la
difficoltà che ho, una difficoltà probabilmente solo mia, a
impostare un intervento sui saperi e sui poteri della
biopolitica che si
sforzi di passare per così dire all’esterno
dell’ordine del discorso su cui si impegna questa parte, una
parte che
è in fondo anche la mia, della filosofia politica
contemporanea. Non entrerò pertanto nel merito della questione
di come è venuta
evolvendosi questa discussione, né mi addentrerò nei problemi
di filologia sollevati dall’uso che è stato fatto delle
categorie foucaultiane da parte di autori che vi si sono
riferiti con modalità molto differenti e, almeno in alcuni
casi, sottoponendole
consapevolmente ad una torsione. Ciò che mi propongo di fare
in questa occasione è qualcosa di diverso, ed in particolare
di
cartografare processi dentro i quali saperi e poteri
agiscono gli uni sugli altri in un processo di co-produzione
circolare
surdterminato dall’assiomatica del capitale e da alcune
delle sue forme contemporanee di accumulazione. Mi scuso in
anticipo se sarò
piuttisto sommario e se, proprio per questo, rinvierò troppo
spesso e in modo davvero poco elegante a miei altri lavori.
Non uso ovviamente a caso il termine «surdétermination» che Althusser riprende da Lacan (Althusser, 1965). Quanto intendo chiarire a premessa delle pagine che seguono, è che non intendo riferirmi ad una trasformazione del capitale (o a una sua particolare fase che segnerebbe un’«epoca») cui potrebbe essere direttamente riferita, in senso causale, una messa a valore o un’occupazione della «vita», quanto piuttosto ad un rapporto contestuale all’interno del quale saperi e poteri evolvono appoggiandosi gli uni sugli altri e sulla materialità dei processi che – cercherò di mostrarlo – essi concorrono a istituire come segmenti per la valorizzazione del capitale e per l’attività di impresa. Di qui, perciò, alcune cautele che preferisco enunciare. Leggi tutto
La tesi che intendo sostenere è che uno dei motivi di ispirazione di Pasolini per la nota dottrina della mutazione antropologica è stato un discorso di Eugenio Cefis sulla globalizzazione. Gli articoli in cui Pasolini utilizza la formula “mutazione antropologica” risalgono all’ultimo periodo della sua vita. Si tratta di tre testi usciti sul “Corriere della sera” e sul “Mondo” tra giugno e luglio 1974. Essa venne poi ripresa, nel corso del suo ultimo anno di vita, in numerosi articoli facendola diventare, da breve formula, vero discorso. Quello sulla mutazione antropologica è l’ultimo grande discorso di Pasolini, è il discorso dell’ultimo Pasolini, è la sua tesi di filosofia della storia. Mutazione antropologica è espressione da teorico della cultura, è propria cioè di colui che si solleva dallo stretto orizzonte dell’attualità per abbracciare spazi vasti della cultura globale al fine di individuarne il suo senso e la sua direzione. Ci si può legittimamente aspettare una tale visione complessiva più da un filosofo che da un poeta. Ma Pasolini nella sua veste saggistica è anche filosofo, è in grado cioè di leggere la realtà nella sua globalità, di leggerla come «semiologia generale». La dottrina della mutazione antropologica ogni tanto compare con delle variazioni, per esempio nella forma di «degradazione antropologica», che è però il significato specifico della mutazione antropologica, essendo essa considerata da Pasolini una forma del male, un autentico genocidio antropologico, e quindi una vera e propria degradazione. In una occasione Pasolini arriva all’iperbole parlando del «cataclisma antropologico» del consumismo. Non è inutile ricordare, per cercare di spiegare toni così accesi, che il punto di partenza e il presupposto del ragionamento di Pasolini sono due eventi recenti, due eventi del 1974. Il referendum sul divorzio e la strage di Brescia. Leggi tutto
…carni lacerate dal filo spinato, bambini annegati sulle coste, affamati nelle piazze, folle accalcate che pregano per i loro documenti…
Molti di noi hanno visto e hanno vissuto queste scene vergognose prima che arrivassero sulle prime pagine e nei telegiornali, sul fiume Evros e sulle isole, là dove ci hanno mandati per svolgere obbligatoriamente il servizio dell’assurdo. Lavoratori schiavi e contemporaneamente carne per i loro cannoni.
Queste scene ci scioccano, monopolizzano i nostri discorsi. Non vogliamo, però, che diventino routine. Come non ci siamo abituati e non riconosciamo i memorandum e le politiche anti-popolari, gli interventi imperialistici e le loro sporche guerre, così non accetteremo e non ci abitueremo al dramma dei profughi. È il dramma delle nostre genti, del nostro mondo, del mondo del lavoro, indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione o dal sesso!
Il cosiddetto «aumento dei flussi migratori» è in realtà fuga dalla guerra e sradicamento. Non è un fenomeno naturale, ci sono dei responsabili. È la loro crisi capitalistica. Per far sì che passi, aboliscono i nostri diritti, ci lasciano nella fame, nella povertà, nella disoccupazione, nella nuova necessità di migrare. Sono gli USA, la NATO, l’Europa, la Cina e la Russia. Impongono i loro interessi economici con la paura e la morte, mantengono e resuscitano nuovi alleati e nemici, alimentano il fondamentalismo religioso. Sono le forze della periferia dell’impero (Turchia, Israele, Grecia, paesi Arabi), che inaspriscono gli antagonismi di quest’area.
Leggi tuttoUfficialmente è un anno che gli USA sono in guerra contro l’Isis. Con risultati trascurabili, per non dire nulli.
Tra l’altro, un paese che è stato capace di scoprire l’acqua
su Marte e che dispone di un controllo satellitare
potentissimo e
estremamente dettagliato, non è stato tuttavia in grado di
accorgersi delle colonne di Toyota dei miliziani dell’Isis che
avanzavano nel
deserto (nel deserto!) verso Palmira o verso altri siti.
Ci doveva pensare la Russia.
Chiamata dal Presidente Assad (eletto dal suo popolo con l’88% dei voti), l’aviazione russa nel giro di tre settimane ha distrutto decine e decine di centrali operative, di campi di addestramento, di depositi di armi e munizioni e di roccaforti dello “Stato Islamico” e di Al Nusra (ossia Al Qaeda, gli stessi presunti attentatori delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, e che, non si sa bene per quale motivo, adesso gli USA li considerano l’opposizione “moderata” ad Assad e da sostenere).
L’esercito siriano, grazie a questi interventi, sta riprendendo a poco a poco il controllo di vaste aree nelle province di Hama, Latakia, Idlib, Homs, Aleppo e nella stessa Damasco.
I miliziani tagliagole dell’Isis sono in ritirata un po’ dappertutto nel territorio siriano. Numerosi di loro sono fuggiti soprattutto in Turchia (guarda caso…) e si moltiplicano i casi di diserzione. Leggi tutto
Pubblicato negli Stati Uniti nel 1964, L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse conserva ancora oggi – o forse ancora di più oggi – la sua attualità e lucidità di analisi
Pubblicato negli Stati
Uniti nel 1964 e in italiano nel 1967, L’uomo a una
dimensione di Herbert Marcuse conserva ancora oggi –
o forse ancora di più oggi, dopo questi maledetti
trent’anni di neoliberismo, di tecnocrazie, di
globalizzazione e di rete
– la sua attualità, la sua lucidità di analisi. Dunque è tempo
di toglierlo dagli scaffali e di farlo circolare di nuovo.
Anche se rileggere oggi Marcuse è imbarazzante, ci consegna
infatti alla penosa consapevolezza esistenziale di avere
fallito, di avere buttato
nel cestino l’intelligenza e lo spirito critico, di vivere
nuovamente in società bloccate forse ancora più bloccate,
irrigidite,
pesanti (altro che modernità liquida di
Bauman) di allora.
Rileggerlo ci permette però di capire perché la classe operaia si è sciolta nel capitalismo che avrebbe dovuto contrastare, perché lo stanno facendo via rete anche i giovani (che però allora accusavano gli operai di essersi integrati nel sistema) e perché anche i nuovi modelli di economia (sharing, smart, soft, green, social, a costo marginale zero, eccetera) rischiano di essere parte strutturata e funzionale (e non il post che avanza) del sistema tecnico e capitalista.
Partiamo dall’Introduzione, che ha come sottotitolo: La paralisi della critica: la società senza opposizione. Perfetta rappresentazione della società di allora e ancor più di oggi, con l’aggravante, per noi, che dopo di allora un tentativo di cambiamento ci fu (il sessantotto), mentre oggi l’integrazione (definitivamente compiuta?) di tutti nel sistema tecnico e capitalista ha cancellato non solo la voglia di cambiamento, non solo la consapevolezza che questo mondo non funziona, ma ha prodotto un consenso totalitario alla propaganda neoliberista e tecnologica per cui non vi sono alternative - e se non ci sono è inutile affannarsi a cercarle o criticare l’esistente (meglio adattarsi). Leggi tutto
L’attenzione
e talvolta la passione per lo studio dei diversi aspetti dei
cambiamenti nel campo delle conoscenze sul
pianeta Terra sono sempre state circoscritte alle cerchie
degli archeologi, biologi, geologi, alcuni antropologi, mentre
non hanno mai suscitato
interesse fra le scienze politiche e sociali. Si sa, sin da
Platone e Aristotele sino ai vari filosofi politici
(Sant’Agostino, Ibn Khaldoun,
Tommaso Moro, Machiavelli, Tommaso Campanella, Hobbes e Locke)
e poi Durkheim e alcuni contemporanei, queste «scienze» sono
state quasi
sempre condizionate soprattutto dall’imperativo
«prescrittivista», cioè dalla pretesa di fornire «ricette» per
«risolvere» i problemi dell’organizzazione politica della
società. Spesso in nome della prosperità e posterità,
della pace e persino della felicità «per tutti» (come la
«giustizia uguale per tutti»). La storia del mondo recente e
anche l’attuale congiuntura, al contrario, mostrano sempre
crescenti diseguaglianze, atrocità e genocidi. Più guerre che
periodi
di pace. La pretesa prescrittivista si è rivelata dunque
fallimentare, se non peggio: visto che molto spesso queste
scienze, di fatto, hanno
prodotto saperi utili ai dominanti, cioè i primi responsabili
della riproduzione del peggio. La parresia – da Socrate a
Foucault –
è stata sempre osteggiata, o confinata in una nicchia concessa
dal potere. Il quale si può permettere di essere criticato o
dissacrato,
anche perché di pari passo cresce sempre più l’asimmetria fra
dominanti e dominati, ridotti oggi a qualche tentativo di
resistenza
spesso disperata o semplicemente all’impotenza, a fronte
dell’erosione delle possibilità di agire politico (il caso
della Grecia
è assai eloquente). Di fronte al trionfo dei think tanks
liberisti, le prospettive opposte si sono rivelate nei fatti
tardive e infine
perdenti, malgrado la crisi evidente in cui versa il modello
liberista. Il quale sopravvive senza grandi intralci proprio
perché non si
concretizza un’alternativa capace di affermarsi. Leggi tutto
L'appuntamento è tra
circa un anno, ma già se ne discute. Potrà il voto popolare
rovesciare quanto appena approvato
dal Senato in materia costituzionale?
A parere di alcuni sì, a giudizio di altri no. Chi scrive ha
cercato di argomentare più volte - (vedi ad esempio QUI)
- le ragioni che
inducono a valutare come ragionevolmente possibile la
cancellazione della contro-riforma Renzi-Verdini.
Altri, sempre nel campo dei difensori
della Costituzione del 1948, sono assai più pessimisti. E'
questo il caso del nostro amico Luciano Barra Caracciolo
(alias Quarantotto), che ha
esposto le sue convinzioni in un
articolo di qualche
giorno fa.
Barra Caracciolo divide sostanzialmente il suo ragionamento in tre parti. Nella prima spiega l'impossibilità che il referendum si svolga nella piena consapevolezza dei temi e dei problemi sui quali l'elettore dovrà pronunciarsi. Nella seconda, strettamente legata alla prima, vengono elencate le gravi violazioni della legalità costituzionale compiute da Renzi, senza che gli elettori possano avere gli strumenti culturali per fronteggiarle in sede di referendum. Nella terza, l'autore giunge alla conclusione che, in virtù di quanto affermato nelle due parti precedenti, non vi è sostanzialmente nessuna possibilità che il referendum possa correggere il "legno storto" della riforma renziana. Leggi tutto
Ad una decina di giorni dal tragicomico epilogo della giunta Marino, e forse è il momento di un bilancio e di guardare ai compiti che ci aspettano nei prossimi mesi. Soprattutto perché già si fa strada la retorica del “menopeggio” e del sindaco “di sinistra” contro il ceto dirigente Pd. Partiamo dal nodo politico che si dipana da questa vicenda, le cui radici sono lontane e le cui ricadute hanno un inevitabile peso anche nazionale, visto il ruolo di Roma nelle scelte politiche generali. La débâcle del chirurgo dem e della sua giunta, caduto sulla buccia di banana degli scontrini, è maturata tutta all’interno della lotta intestina che nell’ultimo anno ha dilaniato la potente macchina clientelare del Pd e dalle pressioni crescenti del Vaticano. Il commissariamento cittadino del Partito democratico, seguito alle note vicende dell’inchiesta giudiziaria “Mafia capitale”, ha accelerato questa resa dei conti. Marino, il dem dalla spocchia antipopolare, l’uomo della “società civile” prestato alla politica, il volto “nuovo” delle primarie del Pd romano, ci ha messo del suo in questa tragica e grottesca vicenda. Nelle periferie di questa città, degradata e dissestata, dove più forte è il morso della crisi sociale ed economica, questa giunta è stata sempre più vista come il solito giro di politici e burocrati distanti dai bisogni delle masse popolari, dalle esigenze concrete della città, la città che lavora, studia e che fatica ad arrivare alla fine del mese. Una città in cui la sinistra liberista e affarista si è fatta apparato di governo e clientelare, ha consolidato posizioni di potere e di controllo in ogni campo della vita cittadina. Marino è in qualche l’ultimo capitolo e speriamo l’epigono di questo blocco di potere. In particolare nell’ultimo anno questa giunta ha sferrato continui attacchi al mondo del lavoro pubblico, tentando di farsi esecutore delle scelte assunte dal governo centrale attaccando il salario accessorio dei dipendenti comunali, scatenando una vergognosa campagna di criminalizzazione dei lavoratori dei trasporti pubblici, rei di essere responsabili del dissesto secolare del sistema di trasporti urbani. Leggi tutto
Vendola al manifesto di fatto ripropone la sua metafora dell’anguilla. Vuole cioè restare sempre in contiguità con il Pd. Ma la costruzione di una forza politica di antitesi al renzismo non può passare per una coalizione con l’elemento centrale delle forze del governo attuale. Neanche nelle città
Nell’intervista a Nichi Vendola pubblicata su questo giornale il 16 ottobre scorso su alcune questioni, e non certo secondarie, le parole si sono chiarite. Su altre, invece, mi sembra permangano tracce evidenti di una metafora teorizzata qualche tempo fa da lui stesso: la metafora dell’anguilla. «Non voglio essere lo scorpione sulla spalla del Pd, ma neppure un grillo parlante o un camaleonte. Dobbiamo essere un’anguilla nei confronti del Pd per sfuggire alla cattura di chi ci vuole portare indietro».
Sulle spalle, vicino alle orecchie, o sgusciante tra le mani, comunque sempre in contiguità col Pd, perché c’è il pericolo di essere riportati «indietro», verso «rinculi minoritari».
In verità tutti siamo stati «riportati indietro» e tutti siamo di fatto «minoritari». L’uso di queste espressioni come arma contundente della polemica politica è il segnale di quanto siano ancora presenti le dinamiche della dissipazione di quella parte del patrimonio ideale ed analitico che in qualche modo era sopravvissuto all’azzeramento di «tutti i laboratori, tutti i luoghi di elaborazione, (…) dell’enorme mole di passioni» (Asor Rosa) che erano stati la vita concreta del Partito comunista italiano. Leggi tutto
Pubblichiamo l’interessante intervista all’economista James Galbraith, che ha collaborato col primo governo Tsipras dal suo insediamento a luglio. L’intervista ripercorre i giorni precedenti alla “capitolazione” di Tsipras e pone alla luce le divaricazioni all’interno del governo sul cosiddetto “piano B” (ndr.)
L’economista è rimasto ad Atene da febbraio a luglio per lavorare a fianco del governo. Racconta i dibattiti su un’eventuale uscita dall’euro. «Abbiamo esagerato le difficoltà. Per la prossima volta sapremo come fare» dice.
Due parole gli vengono spontaneamente per riassumere la situazione attuale della Grecia dopo il nuovo piano di austerità. Due parole delle quali l’economista americano James Galbraith assume la violenza, per spiegare, questo venerdì 16 ottobre, all’istituto Veblen, davanti ai suoi colleghi francesi, l’ampiezza del disastro greco: colonizzazione e liquidazione. «È a questo che assistiamo oggi. Una perdita di indipendenza totale e una liquidazione dello Stato greco. La Grecia non è più un paese indipendente. Il governo ha perso ogni margine di manovra. Gli è proibito di introdurre la minima legge senza l’accordo preventivo dei suoi creditori», dice l’economista americano.
Mentre il Parlamento greco ha appena adottato la prima raffica di riforme imposte nel quadro del nuovo piano europeo di luglio, James Galbraith spiega il retro dello scenario. «Questi 48 progetti di legge prioritari sono scritti sotto dettatura a Bruxelles e poi tradotti in greco» dice. «Non sono riforme per migliorare le condizioni economiche della Grecia. Sono riforme costruite dalle lobby», prosegue. Leggi tutto
È tempo di provare
un’analisi che vada oltre il mero risultato del primo turno
presidenziale argentino, ma che
da questo parta. È finito, anche se vincesse Daniel Scioli, il
ciclo kirchnerista che ha ricostruito il paese dopo il default
del 2001, e da
tempo, in particolare con le difficoltà brasiliane e
venezuelane degli eredi di Lula e Chávez, sembra giunto alla
fine un ciclo
storico progressista e integrazionista dell’America latina
post-neoliberale. Per allargare il discorso, partiamo
brevemente dall’oggi,
dalla foto di famiglia con il borghese Scioli in cravatta e il
suo candidato proletario alla vicepresidenza Zannini, una
figura bicefala che non
ha per ora risolto le contraddizioni.
Dunque per la prima volta nella storia argentina ci sarà un ballottaggio. Questo partirà da un pareggio tecnico tra il candidato appoggiato dalla maggioranza, Daniel Scioli, e quello della destra neoliberale Mauricio Macri (accentato sulla ‘a’, non sulla ‘i’: Màcri). I sondaggi, ai quali per una volta sarebbe ingiusto dare tutte le colpe, erano tutti appiattiti sul voto nelle primarie obbligatorie di agosto, quando il 38% degli elettori scelse di partecipare a quelle del Frente para la Victoria, che aveva il solo Scioli come candidato, e il 31% appoggiò la coalizione di destra. In due mesi, non rilevati dalla demoscopia – una scienza sempre meno esatta, se mai lo è stata – il FpV non ha guadagnato quel paio di punti che avrebbe permesso la vittoria al primo turno, e Macri ha sfondato quel bacino del 30% nel quale le destre erano relegate anche quando governavano col menemismo (voti peronisti per il neoliberismo). Non è interessante qui vaticinare cosa accadrà tra quattro settimane, e quanto eventualmente sarà profonda una restaurazione neoliberale. Leggi tutto
Ai nostri amici, l’ultimo
libro del Comitato Invisibile, è un libro da
leggere. In
parte studiando quello che gli autori dicono, in parte
studiando i lettori, reali o potenziali, che lo leggono. A chi
si rivolge, infatti? La risposta
è contenuta nel titolo, indubbiamente azzeccato: agli amici.
Sono gli amici di un “partito” invisibile e disperso,
immaginario e
privo di organizzazione. Anzi, che rifugge l’organizzazione. È
un partito che emerge laddove vi è un’insorgenza,
“là dove l’epoca si incendia”, si inabissa laddove vi è
apparente calma, quando si torna a registrare lo “scarso
entusiasmo della ‘gente’ nel lanciarsi in una battaglia
perduta in anticipo”. Il libro parla agli amici concreti e
virtuali di
questo partito: a quelli che già lo sono, rafforzando le loro
convinzioni, a quelli che lo possono diventare, offrendo
argomenti affascinanti
per diventarlo.
Il linguaggio è adatto allo scopo, a volte colto e altre popolare, con diversi richiami filosofici, espliciti o impliciti, e con numerose citazioni di amici del partito, che prendono parola dal vivo delle lotte in Egitto o in Grecia. Gli obiettivi polemici sono spesso centrati con cura, i principali sono rivolti alla sinistra e agli anarchici, ovvero al senso profondo di sconfitta di cui la prima è portatrice, ai guaiti ideologici dei secondi. Più problematica ci pare, su diversi nodi, la direzione data alla critica, peraltro coerente a un’impostazione di fondo del libro.
Procederemo in modo rapido sui punti di accordo, ci soffermeremo invece sui problemi che riscontriamo. L’obiettivo di questo testo non è infatti una semplice recensione, ma è contribuire a una discussione militante, chiara e produttiva. Anche i nostri amici pensiamo condividano questo proposito. Leggi tutto
Europe’s Many Economic Disasters
1. La situazione è seria. Ma non ancora grave (ma lo diventerà presto).
Analizzarla in tutta la sua complessità geo-politica è un compito praticamente impossibile: il condizionamento mediatico occidentale, che seleziona, riformula e manipola i fatti, in una narrazione ossessiva, che spinge sempre e soltanto verso la direzione paradossale di confondere la democrazia con le politiche deflattive (che preserverebbero i consumatori e quindi, si dice, i lavoratori), è troppo intenso per poter avere un quadro fattuale completo e compiere una valutazione attendibile.
2. Prendiamo la vicenda portoghese.
Qui prendiamo le mosse dall'articolo del "solito" A.E. Pritchard sul Telegraph, tradotto da Voci dall'estero.
Il "pezzo" è sufficientemente eloquente e condivisibile, riportando elementi di comprensione che abbiamo più volte sottolineato su questo blog.
In pratica, sappiamo che il Presidente della Repubblica, Anibal Cavaco Silva, preferisce, dopo le elezioni, attribuire l'incarico al primo ministro uscente, che ha perso la maggioranza (pur conservando la sua formazione politica la qualità di partito maggioramente votato), - e dunque non può, con ogni probabilità ottenere la fiducia del parlamento-, pur di non consentire l'insediamento di un governo di effettiva maggioranza (parlamentare), formato dalla coalizione tra socialisti di Costa e le due formazioni di sinistra contrarie all'euro e al fiscal compact (le due cose, comunque la pensi Tsipras, coincidono nei presupposti e negli effetti socio-economici).
Leggi tuttoFino all’altro giorno, cioè fino a quando si sperava che fosse possibile un governo di coalizione tra la destra liberista e i socialisti, il Portogallo era portato ad esempio della bontà delle ricette europee e della crescita, ma adesso che si è fatta avanti l’ipotesi di un governo della sinistra, comprese le formazioni contrarie all’euro e ai trattati capestro, il Paese è diventato improvvisamente fragile e le stesse cifre che servivano da peana per i massacri sociali sono diventate sospette: guai ad allontanarsi dalla retta via seguita fino ad ora. Il sistema bancario fa sapere attraverso alcuni suoi rappresentanti che “saremo molto riluttanti a investire nel debito portoghese”(Rabobank) o che, guarda un po’, ” il Portogallo ha molte delle patologie economiche della Grecia, con gli indici d’indebitamento già al di là del punto di non ritorno (Citygroup al Telegraph), mentre l’Fmi avverte che i guadagni derivanti dall’aumento dell’export “devono essere utilizzati in modo restrittivo”, ossia non devono essere redistribuiti.
Tutti media che nell’ultimo anno e mezzo si sono fatti tappetino del presunto miracolo portoghese ora rilanciano il contrordine della sala macchine e mostrano un’economia portoghese sull’orlo del collasso e dunque non in grado di uscire dalle ricette austeritarie. Non so esprimere a pieno la nausea che mi dà questo teatrino costruito sugli equivoci statistici, sui dati interpretati in maniera del tutto falsata, se non falsi proprio alla radice. Come per esempio il giubilo per la diminuzione della disoccupazione giovanile in un Paese di 10 milioni di abitanti che ha visto emigrare 500 mila giovani o il tripudio per l’aumento dell’export che è passato dal 30 al 40 per cento del Pil dal 2010 ad oggi, non tenendo conto però della diminuzione del prodotto interno lordo intervenuto nel frattempo, non considerando la notevole quantità di oro che le famiglie sono state costrette a vendere per sopravvivere, finito tutto all’estero e trascurando il fatto che questo boom di fantasia non abbia portato alcun aumento del valore aggiunto. Leggi tutto
Meno di un anno fa, Matteo Renzi lanciava l'ipotesi dell'abolizione degli scontrini fiscali in nome della "tracciabilità assoluta"; uno slogan che, tradotto, indicava addirittura la prospettiva dell'abolizione del denaro contante per adottare un denaro elettronico, o "digitale", che dir si voglia. Lo slogan fu lanciato da Renzi pochi giorni dopo aver ricevuto la visita a Palazzo Chigi di Melinda Gates, la numero due della maggiore lobby internazionale del denaro digitale, la Bill&Melinda Gates Foundation. Renzi si dimostra infatti un essere incapace di intendere e di volere, che si comporta come una banderuola al vento del lobbying.
Pochi giorni fa è diventato definitivo un provvedimento governativo di segno opposto, cioè l'innalzamento a tremila euro della soglia per i pagamenti in contanti. La notizia ha immediatamente suscitato critiche. La maggiore preoccupazione è che l'innalzamento della soglia possa favorire sia l'evasione dell'IVA, sia il riciclaggio di denaro da parte delle organizzazioni malavitose.
Nell'attuale parodia del "politicamente corretto" adottata dalla sedicente "sinistra", il contante sarebbe di "destra", mentre il denaro digitale dovrebbe consentire una maggiore equità fiscale. Questa mitologia non trova riscontri nella realtà. Le organizzazioni malavitose hanno tutte basi d'appoggio in Germania, dove non esistono limiti all'uso del contante (come del resto non esistono negli USA), quindi, quando devono riciclare grosse partite di banconote, possono farlo comodamente lì.
Le limitazioni all'uso del contante sono invece tipiche dei Paesi più poveri, dove vengono imposte in funzione di una colonizzazione finanziaria. Limitare il contante incentiva infatti la fuga dei capitali "illegali" (ammesso che ne esistano di legali) verso i Paesi meglio piazzati nella gerarchia imperialistica, i quali si concedono regole meno restrittive. L'altro scopo delle limitazioni al contante è di costringere le popolazioni dei Paesi più poveri ad accedere forzosamente ai "servizi" bancari. Leggi tutto
Ottima riuscita della manifestazione di Imola, anche se le stime degli organizzatori e della polizia divergono in modo impressionante. Comunque, bastava seguire la diretta per capire che di gente ce n’era tanta e non sono molti i partiti che, di questi tempi, portano in piazza tante persone.
Il M5s si è candidato a vincere le elezioni affermando di essere pronto a governare ed i sondaggi gli danno ragione dandolo dietro al Pd di 4-5 punti (un anno fa erano 20) e nettamente sopra la somma Fi-Lega, affiancati nel caso sia della partita anche FdI. Persino gli editorialisti del Foglio (17 ottobre scorso) danno quasi per scontata la vittoria a Roma e paventano quella nazionale e, d’altra parte, se il pericolo non fosse così concreto, Napolitano non sarebbe così spaventato. A proposito: mi divertirebbe molto una vittoria del M5s, perché, fra l’altro, potrebbe essere seriamente presa in considerazione della messa in stato d’accusa dell’ex Presidente della Repubblica. Chissà…
Dunque, per ora vento in poppa. Però non vorrei che si trascurassero le molte insidie che ci saranno di qui alle elezioni e contro le quali metto in guardia i miei amici del M5s.
In primo luogo invito a diffidare di sondaggi ed editoriali, anche se per motivi opposti a quelli di tre anni fa. Tre anno fa, i sondaggi tiravano verso in basso preannunciando un risultato che erano alla metà del risultato effettivo che poi ci fu. Questa volta il gioco sarà opposto: gonfiare via via le previsioni con due scopi: in primo luogo, creare una situazione di allarme fra i “moderati” con il richiamo del “voto utile” al Pd per svuotare la destra e Sel già dal primo turno, e raggiungere così il 40%che eviterebbe un pericoloso secondo turno.
Leggi tutto
Venerdì il sito
del Guardian segnalava che l’immobile di Time
Square nel cuore di Manhattan, sulla cui facciata è
visualizzato il debito
pubblico americano, non ha più abbastanza spazio per contenere
la quantità astronomica di miliardi di dollari a cui ammonta,
precisamente 10. 299. 050. 383, un’enormità dovuta soprattutto
al finanziamento del piano Paulson e alle flebo per Freddie
Mac e Fannie
Mae. Si è dovuto eliminare il simbolo “$” che occupava
l’ultima casella del display, in modo che il passante potesse
gustare
questa amara cifra fino alla feccia”2. Chi
se ne ricorda più ora? La grande paura
dell’ultimo ottobre sembra già più lontana che la “grande
paura” degli inizi della Rivoluzione francese. Un anno fa,
tuttavia, si aveva l’impressione che numerose falle si fossero
aperte e che la nave colasse a picco. Si aveva anche
l’impressione che
tutti, senza dirlo, se lo aspettassero da tanto tempo. Gli
esperti si interrogavano apertamente sulla solvibilità degli
Stati, anche dei
più potenti, e i giornali evocavano in prima pagina la
possibilità di un fallimento a catena delle casse di risparmio
in Francia. I
consigli di famiglia discutevano per sapere se sarebbe stato
necessario ritirare tutto il denaro dalla banca e conservarlo
in casa; acquistando un
biglietto in anticipo, gli utenti dei treni si domandavano se
questi avrebbero ancora circolato due settimane dopo. Parlando
della crisi finanziaria,
il presidente americano George Bush si indirizzava alla
nazione in termini simili a quelli impiegati dopo l’11
settembre 2001, e Le
Monde intitolava il suo magazine di
ottobre 2008: “La fin d’un monde”. Tutti i
commentatori erano
d’accordo nel ritenere che quanto stava accadendo non era una
semplice turbolenza passeggera dei mercati, ma la peggiore
crisi dalla Seconda
Guerra mondiale o dal 1929. Leggi tutto
Dopo Pritchard, anche il prof. Sapir denuncia i recenti avvenimenti in Portogallo, dove, in nome dei mercati e delle istituzioni europee, il volere dell’elettorato è stato ignorato contro ogni norma democratica (il Presidente ha deciso di non dare il mandato per formare il governo a una coalizione di sinistra, nonostante questa abbia ottenuto la maggioranza assoluta). Nel finale Sapir preme per un coordinamento a livello europeo di tutte le forze che si battono per il recupero della sovranità democratica
Il
Portogallo è stato vittima, nei giorni scorsi, di un colpo di
stato silenzioso organizzato dalla classe dirigente europeista
del suo paese [1].
Si tratta di un evento particolarmente grave. Esso si verifica
in un modo che ricorda il golpe condotto contro il governo
greco tramite la
combinazione di pressioni politiche da parte dell’Eurogruppo e
pressioni economiche e finanziarie da parte della Banca
Centrale Europea. Esso
conferma la natura profondamente anti-democratica non solo
della zona euro, ma anche, e ce ne dobbiamo rammaricare, della
stessa Unione Europea.
I risultati delle elezioni portoghesi
È stato ampiamente detto dalla stampa, specialmente in Francia, che la coalizione di destra è uscita vincitrice dalle elezioni legislative portoghesi. Ciò è falso. I partiti di destra, guidati dal primo ministro Passos Coelho, non hanno totalizzato che il 38,5% dei voi, e hanno perso 28 seggi in parlamento. La maggioranza degli elettori portoghesi ha votato contro le recenti misure di austerità, per un totale del 50,7%. Questi elettori hanno dato il loro voto alla sinistra moderata, ma anche al Partito Comunista Portoghese e ad altre formazioni politiche di sinistra radicale. Infatti il Partito Socialista Portoghese ha ottenuto 85 seggi, il Blocco di Sinistra (di sinistra radicale) 19 seggi, e il Partito Comunista 17 seggi. Sui 230 seggi del parlamento portoghese, si tratta di 121 seggi ottenuti dalle forze anti-austerità, una cifra superiore alla soglia assoluta, di 116 seggi [2]. Leggi tutto
Il seguente intervento è parte di una coppia di articoli. Va dunque letto insieme al suo omologo Miseria del complottismo
Una premessa per
entrambi gli
articoli
Complottismo e anticomplottismo, innanzitutto, non sono ideologie bensì costellazioni ideologiche che, da una parte, risultano estremamente eterogenee nella loro composizione interna e, dall’altra, stanno col passare del tempo acquisendo tratti politici e valoriali sempre più definiti.
Entrambe le costellazioni ideologiche hanno altresì in comune tre aspetti:
a) sono figlie del Web 2.0 e, precisamente, delle modalità proprie e specifiche di trasmissione ed espressione che quest’ultimo ha sviluppato;
b) rappresentano la fenomenologia di nuove forme di polarizzazione ideologica, che stanno soppiantando quelle del secolo scorso; a differenza di quelle del Novecento, però, le nuove polarizzazioni non afferiscono ad alcun pensiero sistematico né ad alcuna filosofia politica strutturata;
c) come cercherò di argomentare nei due articoli, entrambe le polarità sono funzionali alla riproduzione dell’ideologia dominante.
Data simbolica d’inizio: 11 settembre 2001
Mentre le teorie cospirative sono sempre esistite, l’anticomplottismo è un fenomeno per certi aspetti inedito: esso si sviluppa, per reazione, nel momento in cui le teorie del complotto, in seguito ai fatti dell’11 settembre 2001 , assumono dimensione di massa nonché caratteristiche di costellazione ideologica. Leggi tutto
Il seguente intervento è parte di una coppia di articoli. Va dunque letto insieme al suo omologo Miseria dell’anticomplottismo
Una premessa per entrambi gli
articoli
Complottismo e anticomplottismo, innanzitutto, non so no ideologie bensì costellazioni ideologiche che, da una parte, risultano estremamente eterogenee nella loro composizione interna e, dall’altra, stanno col pa ssare del tempo acquisendo tratti politici e valoriali sempre più definiti.
Entrambe le costellazioni ideologiche hanno altresì in comune tre aspetti:
a) sono figlie del Web 2.0 e, precisamente, delle modalità proprie e specifiche di trasmissione ed espressione che quest’ultimo ha sviluppato;
b) rappresentano la fenomenologia di nuove forme di polarizzazione ideologica, che stanno soppiantando quelle del secolo scorso; a differenza di quelle del Novecento, però, le nuove polarizzazioni non afferiscono ad alcun pensiero sistematico né ad alcuna filosofia politica strutturata;
c) come cercherò di argomentare nei due articoli, entrambe le polarità sono funzionali alla riproduzione dell’ideologia dominante.
Data simbolica d’inizio: 11 settembre 2001
Le teorie cospirative, ovviamente, esistono da sempre ma la loro configurazione attuale di forma mentis opposta all’ideologia dominante e all’informazione mainstream – nonché di costellazione ideologica di massa – è cosa molto recente e alla quale potremmo attribuire un inizio simbolico con gli eventi dell’11 settembre 2001.
Leggi tuttoLa narrazione più conosciuta sulle ragioni della crisi – è tutta colpa degli americani – omette, semplificando a uso degli ascoltatori, il ruolo rilevante che il sistema finanziario europeo ha svolto nella disgraziata vicenda che ci tiene impegnati da oltre un settennio. Per fortuna c’è chi di tanto in tanto aggiunge un capitolo a questa narrazione, che ormai somiglia a un tomo enciclopedico, aiutandoci a capire che la realtà è assai più complessa delle suggestioni veicolate a mezzo stampa, e al contempo più semplice.
La storia potrebbe essere raccontata persino con la vecchia filastrocca del girotondo, dove al termine si finisce tutti giù per terra senza sapere bene come sia successo e con un notevole capogiro, che il girotondo ha alimentato fino a farci perdere l’equilibrio.
Se invece delle persone nel girotondo ci mettete i dollari, l’immagine si precisa e diventa quasi fedele. Un enorme girotondo di dollari fra gli Usa e l’Europa è cresciuto nell’ultimo ventennio fino al punto che si è smarrito l’equilibrio e si è finiti tutti giù per terra. E ancora piangiamo.
L’immagine mi è stata suggerita da un grafico che ho trovato in un paper della Bis estremamente interessante (“Breaking free of the triple coincidence in international finance”) che discorre di un tema per palati monetari fini (l’inadeguatezza dei saldi di conto corrente a descrivere gli effetti dei flussi finanziari) che vi risparmio, ma al cui interno è riportata un’analisi assai interessante delle relazioni che hanno interessato le due principali economie mondiali negli ultimi tempi.
Prima di approfondire il discorso, tuttavia, è opportuno partire da una premessa. Nel tempo, in virtù della crescente liberalizzazione dei flussi finanziari, si è registrata una notevole evoluzione delle transazioni offshore classiche. Leggi tutto
Proprio centodieci anni fa, di questi tempi, la Corte Suprema statunitense nella causa Lochner contro New York dichiarava incostituzionale la “limitazione” a dieci ore lavorative giornaliere (ovvero 60 ore settimanali) introdotta dallo Stato di New York a favore dei dipendenti dei panifici. Nella motivazione di tale provvedimento, è dato leggere che “la norma priva queste persone della libertà di lavorare finché lo desiderano”[1].
Una sentenza analoga desterebbe oggi ilarità e stupore; eppure, nell’era del Jobs Act si considerano con serietà le affermazioni di uno degli ispiratori delle moderne “riforme del lavoro”, Pietro Ichino, che nel brandire il vessillo della “protezione nel mercato del lavoro e non dal mercato del lavoro” [2] e nell’auspicare un regime nel quale il licenziamento “è considerato come evento appartenente alla normale fisiologia della vita aziendale, in qualche misura utile anche alle stesse persone che lavorano” [3], afferma perentoriamente che “non c’è legge o contratto collettivo, non c’è giudice, o ispettore, o sindacalista, che possano assicurare a una persona che vive del suo lavoro la libertà e la dignità che le è data dalla possibilità di andarsene sbattendo la porta dall’azienda dove è trattata male, perché sa dove trovarne un’altra dove la trattano meglio. Un mercato del lavoro fluido e innervato da buoni servizi per l’incontro fra domanda e offerta può fare molto di più, per la dignità e libertà dei lavoratori, di quanto possa la Gazzetta Ufficiale” [4].
A parte il secolo di distanza, tra i principi sanciti dalla Corte Suprema e le tesi espresse da Ichino non c’è proprio nessuna differenza: la “libertà di lavorare finché lo si desidera” e la “libertà di andarsene via sbattendo la porta” sono pure mistificazioni, nello stile della neolingua orwelliana[5], costruite ad arte allo scopo di isolare il lavoratore e il suo prodotto, il lavoro, abbandonandoli alle leggi di mercato. Leggi tutto
Che mangiare ingenti quantità di carne rossa non facesse bene, lo si sapeva da tempo. È, peraltro, un precetto che si rinviene in molte religioni: basti qui ricordare il venerdì consacrato al pesce dalla religione cristiana. Nulla di nuovo, dunque.
Mai, tuttavia, era stata intrapresa una campagna mediatica di demonizzazione del consumo della carne come quella a cui abbiamo assistito in questi giorni. Ed è di questo che occorre discutere. Lo sappiamo, ormai: quando a reti unificate, su tv, radio e giornali, si ripete ossessivamente un messaggio, ciò avviene per tutto fuorché per caso. E deve destare sospetto, almeno in chi non voglia seguire inerzialmente le correnti del pensiero unico politicamente corretto e mediaticamente manipolato.
Il sistema mediatico del consenso universale e dell’omologazione di massa procede così: demonizza senza possibilità di appello qualcosa o qualcuno, crea per questa via dissenso di massa verso quel qualcosa o quel qualcuno, e poi, dopo aver guadagnato il consenso dell’opinione pubblica, procede operativamente contro quel qualcosa o quel qualcuno. Anni di bombardamenti umanitari in nome della democrazia da esportare, dei diritti umani violati e dei dittatori baffuti additati come nuovi Hitler dovrebbero averci insegnato qualcosa.
E, allora, domandiamoci in riferimento a questa demonizzazione della carne: cui prodest? A chi giova? In fondo, anche il fumo o l’alcol sono nocivi, e mille altre cose: eppure non sono oggetto di simili campagne di mobilitazione di massa. Perché nessuna campagna di sensibilizzazione di massa contro i fast-food, ad esempio? Leggi tutto
Si
è svolta sabato scorso l'assemblea nazionale di Sinistra
ecologia libertà (Sel). L'incontro ha partorito un documento
utile
a chiarire tre cose. La prima è che non c'è nessuna "Cosa
Rossa" alle porte. La seconda è che non c'è una vera rottura
strategica con il Pd. La terza è che l'adesione totale ai miti
ed ai dogmi della globalizzazione ne esce pienamente
confermata. Dunque, nulla
di nuovo sotto il sole, ma il solito mix di opportunismo e
globalismo. Il tutto servito servito in salsa rosa, non rossa.
Entriamo nel merito,
procedendo in ordine inverso d'importanza. In primo luogo,
quindi, il non-evento di un aborto sostanzialmente annunciato.
In secondo luogo, la
conferma della linea delle alleanze con il Pd, in terzo luogo
l'atteggiamento da ultras sfegatati del globalismo e
dell'eurismo, un'impostazione che
neppure le lezioni greche dell'estate scorsa hanno minimamente
scalfito.
La "Cosa Rossa" non nascerà. Al più vedrà la luce una
cosuccia rosa pallida
Se i documenti hanno un senso, quello uscito dall'assemblea del 24 ottobre ci dice che la cosiddetta "Cosa Rossa" non vedrà proprio la luce. Per "Cosa Rossa" si intendeva l'unificazione in un unico soggetto politico di almeno 4 componenti: Sel, Rifondazione Comunista, Possibile (civatiani) e Futuro a sinistra (fassiniani). Tralascio qui per semplicità altre componenti minori (o comunque sovrapponibili), come pure ritengo francamente trascurabile l'apporto di alcuni transfughi di M5S.
Leggi tuttoL’utopia
gode
oggi di buona reputazione. Rispetto ai tempi in cui i
« socialisti utopisti » passavano semplicemente per
precursori del
« socialismo scientifico » di Marx ed Engels, il rapporto si
è quasi rovesciato. La speranza che « there must
be a better world somewhere », come cantava B. B. King, non
in’un altra parte del mondo esistente ma come possibilità
futura,
gioca senza dubbio un ruolo essenziale nei movimenti e nei
momenti antagonisti di oggi e in tutti coloro che ancora non
si arrendono all’idea
che questa realtà è tutto quello che può esistere, perché
« there is no alternative ».
Un’utopia descrive, per definizione, un mondo migliore di quello esistente; molto spesso funge anche da sprone per impegnarsi in vista della sua realizzazione. Ma tutte le utopie meriterebbero di essere realizzate, se consideriamo la questione dal punto di vista dell’emancipazione sociale contemporanea ? Questo è un aspetto non sempre preso in considerazione. Se non vogliamo considerare l’utopia come un semplice oggetto di studio erudito, ma anche per quello che ha da dirci oggi (e poche espressioni del passato sembrano avere tanto da dirci!), dobbiamo prenderci la libertà di giudicare le utopie.
Come ha sostenuto l’anarchica Maria Luisa Berneri in uno studio pubblicato nel 1950[1], ci sono utopie autoritarie e utopie anti-autoritarie. Alcune propongono delle visioni dell’avvenire che, pur risolvendo certi mali del mondo presente, sembrano nel complesso peggiori del presente. Leggi tutto
È da qualche mese che Renzi
ha deciso arbitrariamente che grazie al Jobs Act l’occupazione
in Italia è finalmente in ripresa e quindi ogni due
telegiornali dobbiamo
sentirci dire sta cazzata. Per carità, a noi farebbe piacere
se ci fossero nuovi occupati, ma abbiamo forti dubbi che sia
così e che
soprattutto sia merito di Renzi. Innanzitutto, pensando in
termini economici, potremmo obiettare che l’occupazione è
sempre
l’ultimo indicatore a crescere, perché prima dovrebbero
crescere gli ordinativi delle imprese, la produzione, gli
investimenti, la
domanda, ecc. E che generalmente, oltre che comprensibilmente,
solo dopo questi (al momento non pervenuti) avviene una
crescita occupazionale. Ma
anche mettendo in conto che gli economisti sbagliano, o che i
miracoli esistano e che a un certo punto le imprese in crisi
decidano che la cosa giusta
da fare per riprendersi sia assumere, non ci è comunque ben
chiaro di quanto, in cosa e soprattutto perché si dovrebbe
essere ripresa
esattamente l’occupazione.
1) Di quanto. Forse emozionarsi per una STIMA della crescita dell’occupazione di uno zerovirgola rispetto al mese o all’anno precedenti è una mossa un po’ azzardata. Soprattutto perché siamo bravi tutti a celebrare una crescita dell’occupazione nei periodi estivi, quando il numero degli occupati aumenta per via dei lavoratori stagionali (come conferma il fatto che a crescere sono stati soprattutto i contratti a tempo determinato, che poi sono quelli che col Jobs Act c’entrano meno). Basta andare sul sito dell’Istat per vedere che OGNI anno il tasso di disoccupazione scende nel secondo e terzo trimestre – da aprile a settembre – per poi risalire puntualmente nel successivo.
Leggi tuttoDalle urne polacche e dal colpo di Stato europeo in Portogallo arrivano cinque lezioni formidabili.
I fatti: il Presidente della repubblica portoghese Anibal Cavaco Silva si è rifiutato di dare l'incarico per formare il nuovo governo al segretario socialista Antonio Costa —malgrado questi disponesse della maggioranza parlamentare grazie all'accordo (pur traballante) siglato con i comunisti no-euro e la nuova sinistra euro-critica. L'incarico è stato assegnato al primo ministro uscente, fedele alla setta ortodossa eurista ed austeritaria, Pedro Passos Coelho, e ciò malgrado questi non disponga della maggioranza dei seggi. Nascerà dunque un governo di minoranza. Un vero e proprio golpe compiuto per conto dell'eurocrazia ed in nome dell'Unione europea germanizzata.
Perché questo atto d'imperio? Il Presidente portoghese ha testualmente affermato:
«In 40 anni di democrazia, nessun governo in Portogallo è mai dipeso dal sostegno delle forze anti-europee, vale a dire forze che hanno fatto una campagna per abrogare il trattato di Lisbona, il Fiscal Compact, il Patto per la crescita e la stabilità, forze che hanno fatto appello allo smantellamento dell'unione monetaria per portare il Portogallo fuori dall'euro, oltre ad aver chiesto lo scioglimento della NATO. (...) "Questo è il momento peggiore per un cambiamento radicale dei fondamenti della nostra democrazia. (...) Dopo che abbiamo eseguito un programma oneroso di aiuti finanziari che comporta pesanti sacrifici, è mio dovere, usare i miei poteri costituzionali, fare tutto possibile per evitare che vengano inviati falsi segnali a istituzioni finanziarie, investitori e mercati».
Si apre in Portogallo una fase di acuta instabilità politica. Leggi tutto
Una riflessione adeguata sul ruolo degli intellettuali ai tempi della Rete dovrebbe partire da una ricognizione critica dei suoi stessi termini: si dovrebbe ricostruire, seppur brevemente, la storia e le fortune del termine “intellettuale”; si dovrebbe dar conto, anche se solo a mo’ di elencazione, delle diverse concezioni esistenti e dei molteplici punti di vista (dal pessimismo di Bauman alle simpatiche tassonomie di Berardinelli, passando per le casistiche di Walzer); bisognerebbe senz’altro fornire le coordinate minime del campo d’analisi socio-storica descritto da un’espressione così inflazionata e vaga – e proprio per questo così immediatamente comprensibile – come “ai tempi della Rete”.
Ancora, non si potrebbe prescindere dall’identificare, sebbene per sommi capi, i tratti somatici di chi si definisce o viene definito intellettuale, magari facendo qualche nome. E sarebbe essenziale fornire un tratteggio dettagliato del macro-contesto culturale attuale, in cui si scontrano due schieramenti compositi: da una parte un intellettualismo un po’ cialtrone e parvenu si accompagna al timor panico dei grandi intellettuali, i venerati maestri, succubi di una reazione emotiva di fronte agli sviluppi tecnologici che sfocia spesso in un irrazionale conservatorismo; dall’altra, il cinico, pericoloso, virale anti-intellettualismo di un Italia con il 47% di analfabeti funzionali. Bisognerebbe adottare infine una prospettiva allargata e porsi i problemi – che sono a un tempo di forma e contenuto – dell’autorevolezza, della rilevanza, della sostenibilità del lavoro intellettuale. In attesa di lavorarci più approfonditamente in un’altra sede, qui darò tutto ciò per scontato e proverò a buttare giù alcuni appunti, del tutto provvisori ed embrionali, avendo come scopo quello di indagare se e come mutano le funzioni sociali ricoperte dagli intellettuali in un’epoca in cui il lavoro culturale non può fare a meno delle tecnologie digitali. Leggi tutto
Gianfranco Pala, Pierino e il lupo*, 2015, F. Angeli Editore
Grazie alla
volontà di un coraggioso editore, nonché alla pressione
militante di Sinistra Anticapitalista, è stato ripubblicato il
libro di
Gianfranco Pala, Pierino e il lupo, dopo
trentaquattro anni dalla sua prima uscita. Pierino e il lupo
narra, ripercorrendo Prokofiev, in
forma di favola economica, del rapporto tra Sraffa e Marx, che
tanto affascinò le cattedre universitarie negli anni settanta,
e tanto
influenzò il dibattito nell’ambito della sinistra politica e
sindacale. Tuttavia, così tanto è mutato il clima culturale e
politico, negli ambienti accademici e non, che il dibattito
attorno alle tesi di Sraffa ha fatto decisamente il suo tempo,
essendo stato dimenticato
persino il nome dell’illustre economista italiano. Perché
allora la necessità di una nuova pubblicazione?
La prima risposta banale sarebbe quella di rendere omaggio a un vero e proprio capolavoro di critica dell’economia politica, ovviamente coscientemente trascurato dall’accademia dominante, sempre più meschinamente ideologica e oscurantista. La seconda risposta militante è che la crisi economica a cui stiamo assistendo è anche una crisi dell’economia borghese e della sua capacità mistificatoria. Infatti, l’opera, pur narrando di come Pierino, ovvero Piero Sraffa, riuscì a mettere in gabbia Marx, ovvero il lupo, si conclude, tuttavia, con un lupo vivo e agitato all’interno di una gabbia neanche troppo resistente.
Oggi mentre Pierino e i suoi nipotini sono dimenticati da tutti, torna alla ribalta lo spettro del lupo, che resta soltanto in attesa che un nuovo movimento di classe sia in grado di riaprire finalmente quella gabbia costruita dai suoi presunti amici.
Leggi tuttoL’intento che qui ci proponiamo di svolgere è
quello di fornire una presentazione generale delle origini
della teoria politica del Comune, soffermandosi
in particolare sulla prospettiva elaborata da Pierre Dardot e
Christian Laval nel loro ultimo libro tradotto da poco in
italiano per Derive Approdi con il titolo “Del Comune o
della rivoluzione nel XXI secolo”. É un libro molto
corposo e articolato che si pone immediatamente come un
tentativo di ripensamento complessivo del concetto di Comune.
Come vedremo è importante distinguere fin da subito il tema
del Comune da quello dei cosiddetti Beni Comuni poichè essi
hanno storie e
significati radicalmente diversi, anche se spesso e volentieri
vengono evocati negli stessi contesti di discussione. Inoltre,
chiunque può intuire quanto il Comune, qui assunto come
termine di discussione e non come semplice aggettivo, abbia
origini antichissime,
anzi, si può dire che da sempre nella storia occidentale si
parla di Comune. Tanto per fare alcuni esempi basti pensare
all’oikos greco, termine che letteralmente significa
‘casa’ ma, viene utilizzato anche per indicare le più
importanti realtà sociali greche come la famiglia o lo Stato
inteso appunto quale insieme di queste famiglie. Esso indica
insomma le dimensioni collettive in cui vi è produzione di e
in Comune. Oppure si pensi al termine aristotelico koinònein,
cioè
il “mettere in comune” che indica l’azione dei cittadini di
deliberare in comune per determinare ciò che conviene alla
città e ciò che è giusto fare.
Facendo un salto di alcuni secoli si può pensare al Comune e alla sua nascita come realtà politica reale nella forma di quell’ente territoriale di base, sorto dopo la scomparsa dei regimi feudali, dotato di un certo grado di autonomia amministrativa e rivolto agli interessi dei sui abitanti o comunque della popolazione locale.
Leggi tuttoCominciamo con questo testo di Nicolas Martino a pubblicare alcuni degli interventi che sono stati presentati al Convegno di Effimera “Sovvertire l’infelicità”, il 3 e 4 ottobre scorsi. Per rilanciare i temi e le riflessioni emerse, diffondere contenuti, accendere discussioni, far fiorire nuove idee e pratiche creative
Notava significativamente
Alfred Sohn-Rethel che l’intellettuale stesso «ignora
assolutamente l’origine sociale delle sue forme concettuali» .
È
bene tenerle a mente queste parole – e in realtà tutta la
geniale e troppo poco valorizzata ricerca di Sohn-Rethel sul
rapporto tra forma
denaro e forme del sapere – per provare a svolgere qualche
riflessione sulla felicità e l’infelicità nel lavoro della
conoscenza, ricordando che proprio qualche mese fa la storica
rivista di filosofia «aut aut» ha dedicato un numero al lavoro
intellettuale
in epoca neoliberale, un fascicolo significativamente
intitolato «Intellettuali di se stessi» . Essì, perché
l’intellettuale è ormai interamente colonizzato dalla forma di
vita neoliberale che ha fatto di ogni vivente un inprenditore
di se
stesso, e quindi lo ha catturato in quel marketing del se che
non sembra lasciare alcuna via di scampo. Eppure proprio a
partire da questa figura
iperindividualizzata è possibile che emergano figure di vita
comune, è possibile aprire un discorso che sottragga il lavoro
intellettuale all’infelicità di un narcinismo (narcisismo +
cinismo) esasperato.
Quella dell’intellettuale è una storia lunga e complessa che ha segnato di se il Novecento, ma quella dell’intellettuale imprenditore di se stesso è relativamente recente ed è possibile farla risalire alla metà degli anni Settanta, in coincidenza con la grande controrivoluzione neoliberista. È il risultato da una parte della consumazione di quella figura dell’intellettuale separato chiamato a distinguere il vero dal falso e il bene dal male dall’alto del suo isolamento – consumazione indotta dalla trasformazione postfordista imperniata sulla fine della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e sulla valorizzazione del lavoro intellettuale e creativo diffuso – e però anche del fallimento della risposta che a quella grande trasformazione tentò di dare quell’intellettualità di massa prepontentemente emersa sulla scena delle metropoli occidentali dopo i cosiddetti trenta gloriosi. Leggi tutto
Marty McFly indica la prima pagina.
– Guarda, non ha funzionato, siamo nel 2001!
Doc afferra il giornale, e legge il titolo :
”Meno tasse per tutti”. Controlla la data.
– 21 ottobre 2015? Com’è possibile che qui ci sia ancora
Berlusconi al
governo?
– Forse siamo in un 2015 alternativo.
– Come il 1985 del Biff Tanner miliardario?
Doc si mette le mani ai
capelli.
– Grande Giove! Cosa abbiamo sbagliato stavolta?
Fissa la foto sotto il titolo del giornale.
– Come ha fatto
Berlusconi a ringiovanire?… Aspetta, questo non è Berlusconi,
qui c’è scritto “il premier Matteo Renzi”.
– Ma dice esattamente le stesse cose di Berlusconi. Il
traduttore universale è chiarissimo: meno tasse per tutti,
l’economia
è in ripresa, la stampa e la sinistra remano contro… le uniche
differenze sono il nome e la faccia, che comunque è simile. Leggi tutto
Al tempo in cui la politica subisce un discredito di massa, i media dominanti orchestrano la pessima musica che ha per tema ossessivo la perdita d’identità, il declino della cultura, il «suicidio» della nazione. Gli Zemmour, Onfray, Sapir o Finkielkraut non generano tutto questo vocio per effetto della potenza del loro solo pensiero. Come la banda dei «nouveaux philosophes» non era a suo tempo composta da intellettuali seri, cioè da produttori di pensiero forte e di conoscenza originale, i componenti della banda dei vecchi pamphlettisti amareggiati – che ci propina la propria visione malinconica, le proprie passioni tristi e il proprio risentimento malato – non sono « intellettuali » se non per la grazia ricevuta dal «marketing letterario o filosofico».
L’efficacia della loro impresa si deve alla presunta trasgressione dell’ «ipocrisia benpensante» di cui questi falsi ribelli si pregiano e che i giornalisti amplificano in tante trasmissioni e riviste.
Secondo i diretti interessati, gli «intellettuali» prenderebbero coraggiosamente le difese del « popolo » disprezzato dalle élites politiche.
Si comprende così fino a che punto la figura classica dell’intellettuale subisca una trasformazione inedita : non siamo più di fronte allo scrittore che insorge in nome dei diritti della coscienza umana, né all’intellettuale «universale» di cui Sartre fu l’ultimo rappresentante , meno ancora all’intellettuale «specifico» caro a Foucault, ma a una pura postura mediatica tanto più aggressiva quanto gelosa delle proprie prerogative.
Al tempo spesso piromani e pompieri, i media accelerano il deterioramento causato dai discorsi dell’ultra-destra[1], contribuiscono così a rendere l’aria sempre più irrespirabile, stimolano per esempio le piccole frasi abiette sulla «razza bianca», per meglio scandalizzarsene e punzecchiare il «populismo». Leggi tutto
Tutto come previsto: l'aumento dell'IVA è solo rimandato di un anno, i tagli alla Sanità sono ben più pesanti di quanto annunciato
Siamo costretti a tornare sulla Finanziaria. Il Bomba è in Sud America, mentre la sua Legge di Stabilità arriva al Senato. Il testo ufficiale, quello "bollinato" dalla Ragioneria dello Stato, mette in luce alcune verità, prima nascoste dalle cortine fumogene della propaganda governativa.
Questa pratica non è nuova, ma da quando a Palazzo Chigi è arrivato il rignanese lo scarto tra gli annunci e la realtà è diventato davvero abissale.
Tutti hanno sentito dire che Renzi ha «ridotto le tasse». Più esattamente il suo governo ha deciso di non far scattare nel 2016 il previsto aumento dell'IVA e delle accise sui carburanti. Tasse cancellate si è scritto. Non su questo sito, dove invece abbiamo chiarito da subito che gli aumenti chiesti da Bruxelles non sono cancellati, ma solo rinviati. La differenza non è piccola...
La conferma è arrivata da quanto scritto oggi dal Corriere della Sera:
«La manovra sull’Iva, intanto, è stata definita. E sostanzialmente è un rinvio degli aumenti, non una loro eliminazione. L’aliquota Iva del 10% salirà al 13% nel 2017, invece che crescere al 12% nel 2016 e di un altro punto l’anno successivo. Così l’aliquota del 22%, che passerebbe al 24% nel 2017 e al 25% l’anno dopo, invece che aumentare di un punto l’anno prossimo, di due nel 2017 e ancora di uno 0,5%, per finire al 25,5% nel 2018. Solo quel mezzo punto è definitivamente risparmiato».
Avete capito la sostanza della manovra del Bomba? Leggi tutto
Pare che la
Corte dei Conti non sia particolarmente entusiasta (solo per
usare un eufemismo) della Legge di Stabilità varata dal
Governo qualche settimana
fa.
E' quanto emerge dall'audizione al Senato del Presidente della Corte dei Conti, Raffaele Squitieri, che ha ammonito il Parlamento sui rischi nascosti della manovra.
Nel segnalarvi che il documento completo potete leggerlo QUI, mi limito ad evidenziarvi alcuni passaggi significativi dell'audizione al Senato:
Nella valutazione del disegno di legge di stabilità, che dà attuazione alla programmazione economico-finanziaria esposta nella Nota di aggiornamento del Def, non si può prescindere dal quadro di incertezza che caratterizza l'economia internazionale. Esso è destinato a riverberarsi, nell’orizzonte della previsione, su un’economia italiana la cui ripresa, dopo una così lunga fase recessiva, è per ora basata su dati incoraggianti ma non univoci. Il rallentamento dell’area dei paesi emergenti, che ha sostenuto la domanda mondiale nel lungo periodo di contrazione dell’economia europea, costituisce, infatti, un rischio evidente per il consolidamento della ripresa in corso. Il rischio di deflazione e di interruzione della ripresa in atto, con le relative implicazioni per la sostenibilità del debito, è, del resto, ben presente nel dibattito di politica economica e argomento di attenzione da parte delle Istituzioni europee, come confermato dalle valutazioni espresse, proprio in questi giorni, dal Governatore della Banca centrale europea: nel rilevare come l’inflazione europea resti al di sotto del target prefissato, è stata annunciata l’intenzione di ricorrere già nel breve termine all’utilizzo di ulteriori strumenti di espansione monetaria.
Leggi tuttoUna proposta di Paolo Virno per riarticolare sempre e di nuovo le forme dell’azione, muovendo dalla capacità recitativa propria dell’uomo: ciò che gli rende possibile pensare sé come un altro e un altro come sé
«La vita è praxis, non
poiesis», dice Aristotele in un passo famoso della
Politica. Entrambe, praxis e poiesis, sono per lui modelli
di azione che caratterizzano la forma di vita degli
animali umani. La poiesis ha come proprio fine la
produzione di un oggetto che, una volta arrivato
a esistere, è qualcosa di altro e di estraneo
rispetto all’attività che lo ha prodotto. Un letto, un
computer, una casa, giunto il termine del processo che li
ha realizzati, godono, in qualche modo, di una vita
propria: non dipendono più dal falegname,
dall’assemblatore, dall’architetto, dal muratore che li hanno
portati a essere ciò che sono. Più
radicalmente, l’oggetto esiste solo quando l’azione
finalizzata alla sua produzione trova il
proprio termine. Finché l’azione produce non c’è ancora
l’oggetto e quando l’oggetto
è realizzato l’azione viene meno.
La praxis, invece, è secondo Aristotele quella azione che trova il proprio fine in se stessa, che si compie svolgendosi. È quell’azione, cioè, che non trova il suo compimento in un oggetto. Il fare musica, per riprendere un esempio aristotelico che poi Heidegger utilizzerà come proprio nei suoi corsi universitari, non si realizza in un fine esterno: il suo compimento è già nello stesso fare musica. Una vita che si realizza in un prodotto altro da sé è una vita del tutto alienata, espropriata di se stessa: come il fare musica, appunto, la vita trova compimento nell’essere vissuta bene e non si acquieta una volta giunta al risultato, alla realizzazione di uno scopo esterno. Smettere di agire è, per la vita, smettere di essere se stessa: equivale alla morte.
È soprattutto grazie a Hannah Arendt e attraverso i suoi scritti che questa classica distinzione tra praxis e poiesis è stata riportata al centro della discussione filosofica nel secolo scorso. La sua riattualizzazione consente infatti alla filosofa tedesca di svelare e decostruire il pensiero politico dell’occidente e in particolare quello moderno. Essendo rivolta alla costruzione delle condizioni che consentono la legittimazione del governo, dunque alla elaborazione delle mitologie che reggono la legittimità dello Stato (lo Stato di natura hobbesiano, la volontà generale rousseauiana, tutte le forme di contrattualismo e neo contrattualismo) la teoria politica è un fare piuttosto che un agire, è una poiesis piuttosto che una praxis.
Leggi tutto1. “Quel bastardo
è morto”
Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.
Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.
Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.
Leggi tuttoRoma fa
schifo,
la livorosa bacheca razzista filo-padronale, ha purtroppo
assunto nel corso del tempo il ruolo di voce “dell’uomo
qualunque”,
del “cittadino” romano mediocre, sfogatoio qualunquista del
peggior odio anti-proletario, aiutata in questo da un supporto
mediatico senza
precedenti volto ad elevare ad “opinione pubblica rilevante”
qualsiasi espressione del malcontento purchè (apparentemente)
non
organizzata politicamente. Il qualunquismo a-partitico e
anti-politico, superficialmente criticato, è invece il
requisito fondamentale per
essere presi in considerazione dall’informazione mainstream.
Partito con l’obiettivo (anche qui apparente) di
denunciare il
“degrado” cittadino fatto di muri sporchi, tombini otturati,
marciapiedi ingombri di immondizia, il sito è rapidamente
evoluto in
denuncia permanente della povertà, accusando i poveri, i
lavoratori dipendenti, i militanti politici, i migranti, del
declino economico,
sociale e culturale della città. Ovviamente la fortuna del
covo razzista-qualunquista è dovuta anche ad una situazione
oggettiva, quella
del suddetto declino, che riguarda la città e che non è stato
minimamente compreso dalla sinistra cittadina, che da una
parte ha
governato questo declino per un ventennio, mentre dall’altra
ammiccava al “buongoverno” centrosinistro interpretato come
“male
minore” rispetto alle opzioni politiche di centrodestra. Per
altro verso, quello della sinistra non compromessa con i
passati governi cittadini,
il tema del declino metropolitano è stato abbandonato
cedendolo alle retoriche di una destra reazionaria che
ovviamente oggi cerca di cavalcare
un malcontento popolare che pure è legittimo e anzi
sacrosanto. Bene, questa la premessa. Oggi però il ruolo e gli
obiettivi polemici
del sito in questione sono cambiati smascherando non solo
l’intento reale del suo curatore, Massimiliano Tonelli, cioè
quello di
incolpare lavoratori e disoccupati del declino cittadino, ma
soprattutto manifestando la propria ideologia proprietaria
neoliberista, volta a
difendere la proprietà dei possidenti dalle pretese dei
“diversamente ricchi”. Insomma, da sito moralistico-perbenista
si è
trasformato in sito della destra cittadina in campagna
permanente contro l’economia pubblica, i lavoratori dipendenti
e i militanti politici. In
realtà, ovviamente, lo è sempre stato, ma se prima copriva
questa sostanza da una patina politicamente accettabile o
spendibile venendo
per l’appunto ripreso dall’informazione generalista, oggi il
Tonelli ha gettato la maschera per motivi che magari capiremo
in
primavera.
Ogni volta che vorrei dire qualcosa su immigrazione, profughi e argomenti simili, mi sento costretto al silenzio dall’assurdità delle due posizioni contrapposte.
Chi dice che bisogna Salvare la Nostra Civiltà dalla Conquista Islamica, e chi dice che bisogna Salvare la Nostra Civiltà dall’Insensata Barbarie Razzista.
Mi chiedo davvero in che mondo vivano entrambi. Ecco come funzionano le cose nel mondo che conosco io.
In questi giorni, ben sessanta sindaci di città di tutto il mondo verranno ospitati, nutriti ed esibiti in vari tavoli rotondi nella Nostra Città, per un evento spettacolare intitolato “Unity in Diversity”. Questa volta si punta sui paesi “meno sviluppati” e sulle “aree di conflitto”. Ci sarà pure il sindaco di Mogadishu, e saremmo curiosi di conoscere con quale procedura sia stato eletto.[1]
Il Corriere Fiorentino spiega:
“Il filo conduttore dell’evento graviterà intorno al ruolo chiave che il patrimonio culturale, unitamente all’istruzione, occupano come fattori fondamentali per la costruzione di un processo di pace e sviluppo.”
E aggiunge una nota interessante:
“Ingenti i costi per l’organizzazione dell’evento, che, assicurano da Palazzo Vecchio, saranno coperti da sponsor.”
Confidiamo nello spirito di responsabilità degli sponsor verso i propri azionisti, e siamo certi quindi che ci sarà un ritorno concreto e tangibile per le ingenti spese che sosterranno. Leggi tutto
No, per una volta non parlo di economia, almeno non in senso stretto. Ecco qui, invece, la versione integrale di alcune mie note (scritte per un quotidiano locale) sulle dichiarazioni recenti di Tony Blair in merito alla Seconda Guerra del Golfo e sul movimento di protesta contro quella guerra. Correva l’anno 2003, raggranellavo qualche euro con lavori saltuari (volantinaggio, ripetizioni, montaggio strutture per i concerti) e mai avrei pensato di diventare un economista. Rincasavo tardi la notte, mi alzavo a stento la mattina, e nella mia testa, oltre a Lei, c’era solo la voglia di spaccare tutto. In breve, ero una persona migliore.
Non ero un pacifista. Non lo sono mai stato. Ai tempi della Prima Guerra del Golfo, poco più che adolescente, avevo vissuto con distacco l’evento che avrebbe inaugurato l’era dei conflitti mediali. Certo, ben altro era stato il mio coinvolgimento emotivo nella Guerra del Kosovo e nei bombardamento di Belgrado, nella primavera del 1999. Iniziavo allora a comprendere che, dietro le ragioni ufficiali, i conflitti armati combattuti dalle grandi potenze occidentali celano sempre mire espansionistiche o necessità di contenimento di vecchie e nuove potenze regionali. Ecco perché, allo scoppio della Seconda Guerra del Golfo, nel marzo 2003, non ho avuto alcuna esitazione. Il grande movimento pacifista, che partito dalle capitali d’occidente si diffondeva rapidamente anche nelle sue periferie, aveva ragioni da vendere: si trattava di una guerra pretestuosa e pericolosa. Pretestuosa, perché nessuna delle ragioni addotte dall’amministrazione Bush e dai suoi alleati a giustificazione dell’intervento militare teneva alla prova dei fatti. Che l’Iraq non disponesse di armi distruzione di massa avrebbe dovuto essere chiaro anche a chi non avesse letto le relazioni degli ispettori ONU o i resoconti dei veterani del primo conflitto. Leggi tutto
La crisi di Roma è su tutti i giornali. L’opinione pubblica è stata sconvolta nello scoprire con l’inchiesta “Terra di mezzo” la presenza di una presunta cupola mafiosa che avrebbe diretto parte degli appalti della città.
La capitale d'Italia ha rischiato lo scioglimento per mafia, si sono susseguite relazioni del Governo e dei suoi emissari - nessuna delle quali resa pubblica! - sul livello di infiltrazione della criminalità organizzata nelle istituzioni capitoline ed infine il prefetto Gabrielli ha ricevuto poteri speciali e installato una serie di persone di fiducia nelle alte sfere della politica cittadina. Alla fine, a seguito di un attacco mediatico senza precedenti e a 9 mesi dall'emersione dell'inchiesta, anche il sindaco Marino ha annunciato le sue dimissioni – dimissioni che libererebbero l'ultimo spazio rimasto da occupare al potere del prefetto –, salvo poi ripensarci e infine essere costretto a rassegnarle... inscenando una commedia tragicomica senza precedenti.
In realtà il comune di Roma è di fatto commissariato già dall'inizio del 2014, da quando cioè, con il cosiddetto decreto “Salva Roma” ha ricevuto dal Governo il prestito necessario a ripianare il buco di 600 Mln del bilancio ordinario (Roma ha infatti anche un bilancio straordinario in cui sono indirizzati più di 7 miliardi di debito), dovendo in cambio stilare un piano di rientro del debito all'insegna di privatizzazioni e tagli ai servizi e al personale. Da più di un anno e mezzo l'amministrazione comunale non è quindi più padrona della sua politica economica. Mentre la crisi del debito comunale scatena gli istinti rapaci di padroni pronti a fare profitti sui servizi pubblici, l'inchiesta sulla mafia “Capitale” non scalfisce il grosso degli affari e della politica romana. Leggi tutto
Ogni tanto qualcuno, discorrendo amabilmente, cerca di convincermi che la Polizia sia altro da quello che è. Mi dicono che mi sbaglio, che non tutti gli agenti sono come quelli della Diaz oppure come quelli che pestano in Val di Susa o che hanno contribuito a por fine al soggiorno in questa valle di lacrime di un sacco di giovani detenuti, meno giovani fermati o semplicemente tossicodipendenti e manifestanti. “Sono poche mele marce” mi dicono “gli altri fanno il loro dovere e proteggono il cittadino”. Così, di solito, faccio spallucce e non do seguito alla discussione.
Non mi sono mai abituato all’arroganza del potere e degli uomini in divisa. Non ho mai creduto alle fandonie sugli errori commessi da qualche ruota di scorta del carro funebre delle forze del dis/ordine. Non ho mai creduto, né a Genova né a Ferrara né tanto meno a Roma o in qualsiasi altro teatro di violenze poliziesche, che le “cose siano andate male” oppure che “siano sfuggite di mano”. Ho sempre però creduto che una struttura abbia svolto e stia svolgendo il ruolo per cui è stata creata: garantire l’ordine del capitale. Ad ogni costo e con qualsiasi mezzo necessario.1
In occasione della presentazione, avvenuta a Palazzo Chigi lo scorso 27 ottobre, del libro “Dieci anni di ordine pubblico”, l’Associazione Funzionari di Polizia (Anfp) ha presentato al governo le proprie lamentele e le proprie richieste, criticando la gestione dell’ordine pubblico e chiedendo, allo stesso tempo, un ammodernamento dei reparti Mobile. Leggi tutto
Sul sito “Idee
controluce” è stato pubblicato in questi giorni, a firma del
professor Carlo Galli, deputato dem, direttore della rivista
“Filosofia politica” e finissimo studioso di Carl Schmitt, un
documento intitolato “Molte fini, un nuovo inizio. – Tesi per
una sinistra democratica sociale repubblicana”. Si tratta di
un testo programmatico di grandissima importanza, perché
annuncia in un
certo qual modo la scissione del Pd ad opera della sua
minoranza interna e l’apertura di un nuovo “inizio” attraverso
la fondazione
di un’inedita formazione politica a sinistra dei dem.
L’incipit del documento non lascia adito a dubbi ed enuncia in
termini molto netti
le ragioni che giustificano come urgente e non più rinviabile
una scissione. “È da superare il togliattismo senza Togliatti.
Il
realismo senza una grande idea da preservare e da realizzare
non è sinistra, ma opportunismo. È finito il blairismo –
l’applicazione pratica della tesi di Giddens che si è
raggiunto il culmine della socializzazione e che ora la
sinistra deve stare dalla
parte del capitale. La terza via ha prodotto una più facile
penetrazione del neoliberismo in Europa, mitigandone solo in
parte gli effetti.
La miseranda situazione in cui versa la socialdemocrazia europea, incapace d’iniziativa e del tutto schiacciata sulla difesa dell’esistente, è la prova di ciò. Ed è anche finita l’idea che i problemi politici siano tecnici. Destra e sinistra sono ancora gli assi portanti della politica, per nulla sostituibili da ‘vecchio’ e ‘nuovo’”. È innegabile che questa sia in primo luogo la fotografia del renzismo, considerato una caricatura “opportunistica” del realismo togliattiano poiché privo di una visione strategica, ma è anche il ritratto della socialdemocrazia europea.
Leggi tuttoPubblico ora questo
saggio ispirato al tempo delle dimissioni del sindaco; ora che
dopo i contorcimenti,il ritiro delle dimissioni e infine le
dimissioni dei consiglieri
del PD, la “tragedia” si è fatta “farsa”. La Storia, quella
italiana particolarmente amata da Marx per questo lato
giullaresco che al fine “rivela” sempre la miseria. Finisce
l’ottobrata romana e inizia l’ottobre “ortodosso”.
Dopo Marino, la cuoca di Lenin
“Me me andavo da quella Roma” e incontro una “cuoca”.
Mentre mi aggiravo, qualche giorno fa, con la mia bici per la Sabina “romana”, tra Montelibretti e Orvinio per ridiscendere verso la Tiburtina, fermandomi ad un caffè di Scandriglia mi ha colpito l’editoriale de “Il Messaggero”. Il sindaco Ignazio Marino aveva annunciato le dimissioni la sera prima (giovedì 8 ottobre 2015), la cagnara saliva e così “Me ne andavo da quella Roma… de funerali coi cavalli, de preti e de scontrini” per parafrasare “Mamma Roma Addio” la grande poesia d’amore per la città di Remo Remotti. Mi pare su queste strade, spesso solitarie, e in questi meravigliosi paesi, abitati da persone con la “sporta della spesa”, di capire meglio il caos romano. E’ spigolare alla Zavattini e forse illusione mistica comunque “Me ne andavo…” e mi capita per le mani l’opinione del direttore del “Menzognero” come con affetto i romani chiamano il “giornalone di Caltagirone”. Viraman Cusenza scrive
“C’è un momento della verità nella vita di qualunque politico, grande o piccola che sia la poltrona che occupa. Quello in cui deve scegliere tra il bene della cosa che amministra e il tornaconto personale. In una parola, tra i cittadini che l’hanno eletto e se stesso. A questo cruciale passaggio, mentre Roma brucia, Ignazio Marino si è presentato con l’elmetto di chi resiste asserragliato nel bunker, mentre amici e nemici gli indicano la porta salutare dell’uscita. Un gesto puramente egoistico evitato soltanto in extremis, a tarda sera e in maniera confusa, con tanto di coda velenosa. Speriamo che non diventi una farsa. Questo è stato l’epilogo di un’operazione politica sbagliata. Una candidatura nata da una faida dentro il Pd dell’era bersaniana per mano di alcuni “senatori” protagonisti di vecchie stagioni e finita con una scheggia impazzita (il sindaco uscente) contro il partito che l’ha scelto, l’ha fatto eleggere e lo ha sostenuto. Speriamo se ne tragga una lezione salutare, non solo per il partito democratico che oggi nella Capitale raccoglie le macerie di una breve stagione all’insegna dell’emergenza continua. Fare il sindaco è una cosa seria. Un compito a cui in un certo senso ci si prepara da una vita: per vocazione e per esperienza. Non si passa con disinvoltura dal bisturi al timone di un transatlantico, pena un elevato rischio fallimento. Tranne che, dopo un secolo e tanti disastri, non si voglia ancora dare ragione a Lenin che credeva nel «governo delle cuoche»…” (Il Messaggero 9.10.2015).
Poi prosegue con la trita retorica, già snocciolata in avvio, incentrata sulla “competenza” ma il mio pensiero si era fermato lì: a Lenin e alle cuoche.
Leggi tuttoIl testo che segue è una critica
di
Ai nostri amici, l'ultima impresa editoriale del
Comitato Invisibile. Teniamo ad avvertire il lettore che tale
critica non sarà assolutamente esaustiva, giacché il testo in
questione meriterebbe di essere decrittato in maniera assai
più profonda di quanto si possa fare nello spazio di poche
pagine; ci limiteremo dunque ad esaminare alcuni dei postulati
fondamentali che ci sembrano costituire il nucleo teorico del
libro.
Ai nostri amici rappresenta un buon esempio di come un bricolage concettuale conservatore possa spacciarsi per rivoluzionario; farne la critica non è un'impresa agevole, tanto più che l'opera in sé è a prima vista densa, perfino sovraccarica. Ciononostante, dopo un'attenta lettura, ci si accorge che il suo cuore pulsante si riduce ad una manciata di deboli proposizioni, che potrebbero passare perfettamente inosservate nel magma all'interno del quale galleggiano.
L'Occidente
L'Occidente è l'ossessione del Comitato Invisibile: ai suoi occhi esso concentra tutti gli orrori della civiltà. Esso è dunque sinonimo, indistintamente, di capitalismo, imperialismo, colonialismo, distruzione della natura, volontà di dominazione dell'altro etc. Ma l'uso di una simile nozione ci appare sospetto, giacché questa opposizione rigida tra l'Occidente e il Resto non fa che rovesciare la visione imperialista o conservatrice che fa di questo stesso Occidente un assoluto. Insomma, il Comitato Invisibile è Spengler (o Alain de Benoist, se si preferisce) messo a testa in giù. La genesi occidentale del modo di produzione capitalistico, evidentemente innegabile, si trasforma in colpa metafisica. Inversamente, ciò che è non-occidentale ne risulta ontologicamente valorizzato. La civiltà occidentale moderna è dunque il male assoluto. Viene da chiedersi cosa ne sia dei precedenti 20.000 anni di società di classe e di sfruttamento dell'uomo sull'uomo: l'Occidente sarebbe quindi sbarcato da un altro pianeta? Il Comitato, che sicuramente adora le «genealogie» del nietzschianismo di sinistra, dovrebbe sapere che:
Leggi tuttoL'istat
ha appena comunicato che, nel mese di settembre, il tasso di
disoccupazione
è diminuito all'11.8%, in calo dello 0.1% rispetto alla
rilevazione del mese precedente.
Prima che arrivino i
proclami da parte dei vari venditori di tappeti persiani
taroccati, è bene sapere
che:
1) Il numero degli occupati è diminuito di 36 mila
unità. Quindi lavorano meno persone rispetto ad agosto.
2) Il numero degli inattivi è
aumentato di 53 mila
unità.
Di conseguenza, essendo aumentato il numero di chi non cerca
più lavoro, è diminuito il tasso di
disoccupazione, che passa all'11.8% dall'11.9% precedente.
Poiché il calo del petrolio è l’unico evento del mercato reale globale che si segnala per importanza nel corso dell’ultimo anno (i presunti ritocchi ai tassi della Fed ormai sono una barzelletta), mi sembra utile tornarci sopra. Specie in ragione del fatto che un recente paper della Banca d’Italia (“Più greggio per tutti: la rivoluzione shale negli Usa e la reazione dell’Opec”) conferma una delle mie tante malfondate intuizioni, ossia che l’andamento dei corsi petroliferi nasconda assai più di ciò che rileva la semplice osservazione dei prezzi, che comunque non è poco.
I prezzi infatti ci dicono che è in corso uno straordinario trasferimento di ricchezza dai paesi esportatori a quelli importatori, che Bankitalia stima nell’ordine dei mille miliardi di dollari l’anno (per un calo di 60 dollari del barile), e anche chi ci guadagna più degli altri. Quello che non ci dicono è perché stia succedendo, anche se si rincorrono molti sospetti.
L’analisi di Bankitalia ha il pregio di aggiungere un altro elemento di riflessione: ossia la domanda se l’andamento declinante delle quotazioni non sia l’esito di una guerra, tanto segreta quanto palese, che i paesi produttori, e segnatamente l’Arabia Saudita che domina l’Opec, stanno svolgendo contro la produzione petrolifera Usa, che com’è noto si basa sullo shale oil, ossia il petrolio ottenuto tramite frammentazione delle rocce. Produzione che negli ultimi anni ha conosciuto un vero e proprio boom che, malgrado i limiti posti all’esportazione di questo greggio, ha sostanzialmente mutato le regole di questo gioco multitrilionario. Basta osservare che dal 2011 al 2014 la produzione americana è quasi raddoppiata, portandosi quasi al livello dell’Arabia Saudita con quasi 10 milioni di barili al giorno, e ciò ha provocato un calo drastico delle importazioni Usa. Leggi tutto
Mostro Marino. Dopo Prodi e Letta, il premier miete un'altra vittima senza apparire. Per «il nuovo Pd» rovesciare governi fuori dalle aule e senza dibattito pubblico è ormai una prassi. Un partito post-democratico
Venerdì, a Roma, il progetto renziano di manomissione della nostra democrazia ha compiuto un nuovo salto di qualità. O, forse meglio, ha rivelato – nell’ordalia rappresentata sul grande palcoscenico di Roma capitale – la propria natura compiutamente post-democratica e anzi tout court anti-democratica.
Di Ignazio Marino sindaco si può pensare tutto il male possibile: molte sue politiche sono state discutibili e anti-sociali (in primis la questione della casa), alcuni suoi comportamenti incomprensibili, la sua ingenuità (o superficialità) imperdonabile, la sua inadeguatezza evidente. E l’accettazione nella sua squadra di uno come Stefano Esposito insopportabile.
Ma la ferocia con cui il Pd, su mandato del suo Capo, ha posto fine alla legislatura in Campidoglio supera e offusca tutti gli altri aspetti. Sostituendo all’Aula il Notaio. Al dibattito pubblico la manovra di corridoio e il reclutamento subdolo dei sicari (arte in cui Matteo Renzi eccelle, avendola già sperimentata prima con Romano Prodi e poi con Enrico Letta).
E colpendo così non tanto, e comunque non solo, «quel» Sindaco (che pure a molti voleri del Pd era stato fin troppo fedele), ma il principio cardine della Democrazia in quanto tale. Leggi tutto
Dopo Marino. Una partitocrazia senza partiti, dei quali a ben guardare non è rimasto che il peggio: il potere pressoché assoluto delle oligarchie e dei cerchi magici
Lo scontro frontale tra il sindaco della capitale e il suo partito è giunto all’ultimo atto. Non si sentiva il bisogno di quest’altra trista vicenda. La politica italiana, la democrazia italiana, i cittadini italiani e in particolare i romani non se lo meritano. Ma, giunte le cose al punto in cui stanno, l’urto finale è inevitabile. Proviamo almeno a ricavarne una lezione.
Non più tardi di qualche mese fa – lo scorso giugno – il Pd difendeva Marino a spada tratta. «È un baluardo della legalità e chi dice che si deve dimettere inconsapevolmente sostiene le posizioni di quelli che lo hanno percepito come ostacolo ai loro disegni. L’interesse di Roma è che Marino resti sindaco». Così parlava il vice di Renzi al Nazareno, non proprio l’ultimo venuto. Qualche giorno fa lo stesso Guerini se n’è uscito dicendo che «non esiste che Marino ci ripensi»: se ne deve andare, punto e basta.
Ha cambiato idea radicalmente anche Matteo Orfini, che su Marino aveva resistito persino a Renzi e che ora è sceso in campo per organizzare le dimissioni in massa dei consiglieri del Pd. Utilizzando, pare, un nobile argomento, degno dei momenti più alti della storia della Repubblica: chi oggi disobbedisce all’ordine di dimettersi si può scordare di essere rieletto in Campidoglio. Il commissario Orfini è coerente. Come si sa e si vede, si batte anima e corpo per il rinnovamento.
Quanto al presidente del Consiglio, meglio tacere. Marino non fa parte dei suoi fedeli né dei suoi famuli e tende per di più a muoversi in autonomia su uno scenario non propriamente periferico. Leggi tutto
“… bisogna sempre
opporsi alla
potenza più forte, più aggressiva, che più domina…”
W. Churchill, The Second
World War, vol I, p. 207
Nel 1941, H. R.
Luce, l’editore di Life, pubblicava uno storico editoriale il
cui titolo era: “The American Century”, espressione poi
divenuta un
concetto. Nel 1997, viene fondato a Washington un think tank
che si chiamava “Project for the New American Century” (PNAC),
il quale, nel
2000, pubblica un rapporto Ricostruire le difese
dell’America: strategie, forze, e risorse per un nuovo
secolo. Del gruppo facevano
parte sia pezzi importanti dell’intellighenzia geopolitica
americana (R. Kagan, F. Fukuyama), sia praticamente tutto il
governo della presidenza
Bush jr , da D. Cheney a D. Rumsfeld. L’idea del “secolo di
qualcuno”, poggia sul precedente britannico ed anche se
nessuno lo
formalizzò come concetto, l’antesignano del secolo americano
fu l’Impero britannico. Dopo l’uno viene il due e dopo il due
viene il tre, ed ecco che alle avvisaglie di una possibile
contrazione americana o più che altro, di una espansione
cinese, alcuni intravedono
un “secolo cinese”.
La struttura dell’idea è che esiste un lungo tempo (il secolo) in cui il mondo è considerato un sistema che deve avere un centro ordinatore. L’idea, proietta in macro, quella che è la struttura del potere politico ovvero la centralizzazione in capo ad un “sovrano”. Può essere un re o imperatore o dittatore o un governo che agisce (dichiara di agire) in nome e per conto del popolo, da cui l’espressione “il popolo sovrano”. A parte gli anarchici, non c’è praticamente nessuna ideologia politica conosciuta che pensi possibile un autogoverno acentrico dei sistemi politici. Tutte, prevedono che qualcuno o qualcosa funga da centro della decisione, poiché l’informe presuppone un governo, il governo presuppone l’azione politica, l’azione politica presuppone una intenzione e l’intenzione una capacità di decisione, esattamente come avviene con la mente, per il singolo essere umano.
Leggi tuttoRecensione a "Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015, 202 pagine, € 18,00" e intervista all'autore
“L’intervento dei governi in
soccorso alle banche ha sancito il principio secondo cui i
profitti vanno privatizzati mentre le perdite socializzate”.
Vincenzo Ruggiero
introduce il lettore all’analisi dello statuto criminale del
potere a partire dall’esempio di come i momenti di crisi
economica vengano
presentati come situazioni eccezionali che richiedono deroghe
alle regole ordinarie al fine di ristabilire la normalità allo
stesso modo di
come i paesi democratici, paladini dei diritti umani, si
permettono di interrompere il rispetto di tali diritti, sempre
grazie al fine ultimo di
ristabilire le condizioni ordinarie. Dunque, i potenti si
arrogano il diritto di trasgredire, ignorare, riscrivere le
regole, forti della logica che
vuole che i loro interessi coincidano con gli interessi
dell’intera comunità.
L’approccio proposto da Ruggiero capovolge l’idea di deficit, cara alla criminologia, che tende a leggere gli eventi criminali come atti derivanti da una mancanza di socializzazione, di famiglia, di risorse ecc. Se ciò può essere vero in molti casi, di certo non lo è per quegli individui, o gruppi sociali, che commettono reati pur essendo ben inseriti socialmente con ambiti familiari funzionanti e disponendo di cospicue risorse. Inoltre, prima di entrare nel merito del lavoro proposto da Ruggiero, occorre sottolineare che, nell’ambito della tradizione della criminologia critica o radicale, alla quale appartiene l’autore, non ci si limita a guardare soltanto ai fatti ufficialmente giudicati come criminali, ma si presta attenzione anche a quei comportamenti che sono socialmente dannosi pur non essendo considerati criminali. La criminologia radicale, pertanto, si interessa più al danno sociale che non alla definizione ufficiale di criminalità.
Leggi tuttoIl modello
precedente, che è entrato in crisi
nel 2007 (ma si tratta di una crisi -beninteso- che non
equivale alla sua fine, ma anzi, in mancanza di alternative,
alla radicalizzazione delle sue
logiche) ma che già negli anni precedenti aveva iniziato, a
livello globale, a presentare numerose crepe, è ciò che
chiamiamo
neoliberismo, che a sua volta nasce a cavallo tra anni
Settanta ed Ottanta. Che cos’è il neoliberismo? Un modello che
nasce come reazione
alla crisi del precedente sistema, industrialista e fordista,
basato su un grado di compromesso tra capitale e lavoro e
sull’alleanza relativa
tra il capitalismo ed una democrazia sostanziale e organizzata
intorno al sistema dei partiti. All’epoca andò in crisi un
modello che si
era realizzato in quel trentennio postbellico che i francesi
chiamano trente glorieuses, che Hobsbawm indicava
come «l’età
dell’oro». Diversi eventi segnanarono la crisi di questo
modello. Li evoco brevemente:
1. La rottura del sistema di Bretton Woods, con la decisione di Nixon di bloccare la convertibilità del dollaro in oro, cosa che rese possibile la libera fluttuazione nel mercato delle valute e pose un importante presupposto per la finanziarizzazione dell’economia.
2. Gli shock petroliferi, che causarono una crisi di redditività delle imprese da un lato e una crisi fiscale degli Stati dall’altro, alimentando contemporaneamente l’inflazione e inondando al tempo stesso il sistema finanziario internazionale di petrodollari in cerca di impieghi redditizi. Leggi tutto
Da quando è stato approvato il Jobs Act, non manca mese in cui la pubblicazione dei dati statistici sul mercato del lavoro in Italia non abbia provocato le reazioni entusiastiche del governo sul buon andamento della situazione. Così come non manca occasione per ribadire la trionfale uscita dell’Italia dalla recessione e l’inizio di una fase espansiva senza precedenti. L’arte della manipolazione nell’interpretazione dei dati statistici è uno strumento nevralgico nella creazione di consenso. Non è una novità. Ma se ai tempi del maestro Berlusconi, i suoi aversari del partito de La Repubblica ogni tanto controllavano la veridicità dei dati, oggi non c’è più argine alla propaganda di regime.
* * * * *
Alla pubblicazione dei dati Istat sull’occupazione relativi al mese di settembre, il governo Renzi ci ha già inondato e ancora ci inonderà di tweet sulla straordinaria efficacia della sua politica economica e sui mirabolanti risultati del Jobs Act. E la stampa “di regime”, dall’Unità al Corriere della Sera, passando per La Repubblica e le televisioni di Stato, non farà fatica ad accodarsi.
Che la statistica debba essere presa con le molle ce lo diceva già Trilussa qualche tempo fa (ricordate la media del pollo?), prima ancora che ci fossero censimenti e rilevazioni campionarie. E soprattutto prima ancora che le variabili economiche da quantificare e da stimare fossero definite ad hoc.
Per rimanere al tema della nota, prendiamo la definizione di disoccupato: lo è colui o colei che dichiara di aver effettuato almeno una azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane precedenti alla data della rilevazioni statistica. Leggi tutto
C’è uno sketch fulminante in Io & Annie di Woody Allen, in cui Alvy (Allen) illustra a Annie (Diane Keaton) la sua visione del destino umano mentre insieme fanno un po’ di acquisti. Dice:
“Vedi, io ritengo che la vita sia divisa in due categorie: l’orribile e il miserrimo. Sono queste le due categorie. Orribile sarebbero, non so, i casi più gravi, mi spiego? Tutti i ciechi, gli storpi e così via. Non lo so mica, come tirano avanti. Per me è qualcosa di stupefacente. E miserrimo sono tutti gli altri.”
Ora, la crisi economica del Modo Neocapitalista Globale non è affatto una iattura. Nel senso che grazie a questa crisi il Modo si ristruttura, dà un altro colpo in favore delle élite dominanti nel corso della guerra di classe, cerca anzi di chiudere la partita su una scala di tempi che definirei storica. “Never waste a good crisis”, mai sprecare una buona crisi, lo dicono quelli che di capitalismo e di forma politica del medesimo se ne intendono.
E se questa ristrutturazione avviene con le buone, ossia tramite il consenso della maggioranza, o almeno il consenso di una certa parte e l’indifferenza di un’altra che comunque, sommate, relegano in minoranza il dissenso eventuale, bene; altrimenti si procede con le cattive: autoritarismo, strategie della tensione, terrore, guerre vere e proprie.
Ma il risultato ambito da chi governa il Modo va raggiunto, comunque.
In Italia adesso c’è Renzi, che incomprensibilmente (per me) intercetta un diffuso consenso non solo alla sua persona, ma anche sotto forma di ripresa di fiducia della gente nel quadro complessivo (ancora più incomprensibilmente), così dice l’ISTAT. Leggi tutto
Pensare che i salari pagati in ciascuna azienda debbano dipendere dalla produttività dei rispettivi lavoratori, come vuole il progetto di finanziaria del governo, non solo non corrisponde alla realtà del modo di funzionamento dei sistemi economici, ma comunque non costituirebbe un legame tra retribuzioni e “meriti” produttivi dei lavoratori
Dopo il Jobs act, nella legge di Stabilità il governo intende intervenire ancora sul mercato del lavoro; questa volta, contestualmente all’introduzione del salario minimo legale e sostituendosi alle parti sociali (ma trovando consenso in Confindustria), vuole modificare il modello delle relazioni industriali, spostando il baricentro della contrattazione dalla sfera nazionale a quella aziendale (dove dovrebbe svilupparsi anche il welfare integrativo privato).
Il decentramento contrattuale viene motivato sostenendo che le dinamiche salariali dovrebbero essere connesse a quelle della produttività rilevate in ciascun posto di lavoro. Tuttavia, questa proposta non è sorretta da solide argomentazioni analitiche (come invece si vorrebbe), accentuerebbe le ragioni del nostro declino economico, sarebbe socialmente e politicamente pericolosa.
Non v’è dubbio che la crescita del Pil di un paese sia legata alla dinamica della produttività, ma – si badi bene - a quella del suo complessivo sistema produttivo. La crescita della produttività è particolarmente legata al progresso tecnologico; tuttavia: a) esso si diffonde in modo disomogeneo nei diversi settori produttivi e nelle singole aziende; b) i suoi effetti sulla produttività non necessariamente sono rilevabili proprio là dove il progresso si genera; c) essi comunque trascendono l’impegno dei lavoratori di una singola azienda o settore; d) in ogni caso, anche storicamente, le dinamiche salariali dei lavoratori di diversi settori non dipendono molto dall’evoluzione delle produttività misurate in ciascuno di essi. Leggi tutto
Alberto Abruzzese1
Si è finalmente concluso il grande circo mediatico dell’EXPO milanese, dedicata al tema Nutrire il pianeta, energia per la vita. Non siamo affatto certi che il trionfalismo governativo sarà confermato da un’attenta lettura dei dati, né che la patata bollente del post-esposizione sarà gestita in maniera adeguata e trasparente. Si tratta di problemi seri e urgenti, cui i movimenti No EXPO non potranno sottrarsi. In questo breve intervento2 vorremmo tuttavia focalizzare l’attenzione su tre elementi più generali, in grado forse di fornire all’ondata informativa che si appresta a travolgerci un contesto storico di riferimento, uno sfondo capace di dare senso politico al mega-evento dell’anno.
Leggi tuttoNella
deriva
apparentemente inarrestabile del Medio Oriente verso il caos -
perseguito o meno, e da chi, essendo la questione
che aleggia sullo sfondo -
ecco dunque inserirsi l’intervento militare diretto della
Russia a sostegno del governo di Damasco. Comunque lo si
valuti, e con la cautela
indispensabile per una situazione complessa e in continuo
movimento, una cosa sembra certa: esso si pone frontalmente contro
la
strategia del regime change statunitense in Siria e,
se dovesse riuscire sul piano militare e non
solo, ne segnerebbe il
fallimento quanto meno sul medio termine con ripercussioni
locali e globali tutte da vedere.
In realtà, la strategia Usa in Siria aveva già mostrato numerose falle. Due le ragioni principali: l’assenza di truppe fidate sul terreno in grado non solo di disarticolare lo stato siriano - per questo sono bastate le milizie islamiste armate e addestrate direttamente o tramite Turchia e Arabia Saudita - ma di sostituirlo; e la resistenza di Damasco, supportata da Hezbollah e aiuti russi ma evidentemente anche da un persistente seppur passivo consenso popolare, che è stata ben altra cosa rispetto a quella di un Gheddafi in Libia. Senza contare che nel caso siriano a frenare la corsa di Obama al regime change si sono mossi, dietro le quinte ma fermamente, anche attori internazionali quali la Cina (precedentemente scottata proprio dal caso libico) e il Vaticano.
Ciò non toglie che quel minimo accenno di Primavera araba che si è dato in Siria (ammesso pure che si sia dato) è stato subito cannibalizzato dalle guerriglie jihadiste e dagli appetiti delle fottutissime petrolmonarchie, con la Turchia a fare da base logistica (ma finora con un ben misero ritorno) e Israele a godersela (della tacita alleanza dello stato ebraico con i “custodi dei luoghi santi” dell’Islam si parla oramai senza peli sulla lingua: http://www.jpost.com/Opinion/Syria-and-the-US-431750).
Leggi tuttoIn un film
recente e
bellissimo che si chiama Non essere cattivo,
Claudio Caligari ha riproposto i luoghi e le atmosfere della
Ostia di Pasolini (quella dei suoi romanzi,
quella della sua morte). La storia si svolge nel 1995, cioè a
metà strada
tra l’anno in cui Pasolini fu ucciso, e
l'oggi, il nostro tempo in cui la demenza e la barbarie
sono uscite
dai margini per invadere il centro della scena.
Se pensiamo ai quarant’anni che ci separano dalla morte di Pasolini ci rendiamo conto del fatto che il suo presentimento più oscuro e più marcio si è progressivamente fatta realtà nella storia di questo paese, mentre l’immaginazione distopica si impadronisce della storia del mondo. Nel suo Salò Pasolini aveva colto la sostanza eterna del fascismo, collocandone il tempo nel passato, ma presentendo il suo riemergere nella mutazione culturale che allora si delineava ambiguamente all’orizzonte.
Quel futuro che oggi è presente Pasolini non seppe descriverlo se non in termini nostalgici, passatisti, in ultima analisi reazionari. Non essere cattivo racconta una storia che si colloca nel punto in cui lo sprofondamento della mente collettiva inizia dai margini della vita sottoproletaria, della periferia urbana e della droga.
In questi ultimi anni il cinema italiano ha ritrovato forza espressiva perché ha avuto il coraggio di guardare negli occhi l’orrore psichico e morale dell’epoca presente attraverso le lenti specificamente italiane della demenza barocca, dell’euforia aggressiva e dell’autodisprezzo depressivo. Matteo Garrone (Gomorra e Reality), Nanni Moretti (Habemus Papam) e Sorrentino (Il Divo, La Grande bellezza) hanno ripreso il filo della diagnosi pasoliniana: la sguaiatezza del fascismo eterno che Pasolini mette in scena nel Salò, si è fatta pervasiva, quasi ubiqua, e va in onda quotidianamente sui giornali, in tivu e nella vita.
Leggi tuttoll 4 novembre 1995 moriva a Parigi il filosofo francese Gilles Deleuze. Qualche giorno dopo fu pubblicato un testo tra i più misteriosi della filosofia: L'immanenza, una vita... Riemerge un'intuizione rimasta ai margini della stessa pensabilità per secoli. Quale gioia leggerlo oggi.
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“L'uomo libero non pensa a nulla meno che alla morte, e la sua sapienza è meditazione non della morte, ma della vita” (Etica, IV, 67). Questo è il problema ancora impensato che Spinoza ha posto alla filosofia occidentale.
L'impensato è stato coltivato, e ha fruttificato, dando vita a un sapere che Gilles Deleuze ha ripercorso in una delle sue linee più belle arrivando a mostrarci un concetto filosofico meraviglioso: l'immanenza.
Averlo intuito in uno dei testi più brevi, e più densi, della filosofia occidentale, nell'anno stesso della sua morte, esattamente venti anni fa, oggi è una freccia che colpisce il cuore del presente. Perché l'impensato spinozista riemerge come una folgore in questo testo deleuziano, riportando a galla un'intuizione rimasta ai margini della stessa pensabilità per secoli.
Che la filosofia sia un sapere sulla vita – una vita che ha spezzato il suo rapporto ricorsivo con la morte – e che la vita sia una meditazione alla quale l'uomo si dedica quando non è dominato dalla paura della morte – una morte che allontana ogni possibile libertà dall'uomo – è stato per lungo tempo un illusione per la filosofia. Una domenica della vita. Perché al lunedì si torna a combattere. Leggi tutto
Una recensione a Resistenze. Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano di Pietro Saitta, ombre corte 2015
In un tempo in cui la figura dell’intellettuale si riduce a fornire opinioni senza pensiero nella giungla del dibattito pubblico e quella dell’accademico si trova costretta a seguire i rigidi dettami di una scienza sociale sempre più succube dell’astrattismo quantitativo e delle regole messe in atto dai dispositivi di valutazione, ha ancora senso provare a scrivere testi sociologici in grado di dire del mondo parlando al mondo? La risposta è sempre positiva quando si sceglie lo “stile” giusto e soprattutto quando si trasforma il sapere sociologico in sapere vivo, incarnato, posizionato, senza mai cadere nella trappola del lessico giornalistico o, al contrario, nella trappola di una parola “muta” al di là dei confini della comunità accademica. E diventa doppiamente positiva quando quello stesso “stile” anziché collocarsi dall’esterno per descrivere “oggettivamente” un fatto sociale, si posiziona al suo interno, praticando la scrittura del “partire da sé” che nel lessico sociologico si traduce con “auto-etnografia”, con una postura che getta continuamente ponti tra il sapere dell’esperienza e l’epistemologia: in altre parole quando la stessa sociologia viene vissuta come una pratica di resistenza messa in atto contro le due trappole e la dicotomia accennate sopra. E’ infatti questo l’esercizio che Pietro Saitta, sociologo presso l’Università di Messina, cerca di fare dalla prima all’ultima pagina di Resistenze. Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano, un libro agile e densissimo che sposta, con estrema eleganza, tutti i luoghi comuni della stessa nozione di “resistenza”.
Attraverso un innesto teorico di base tra Bourdieu e Foucault, gli studi etnografici e la sociologia della devianza nella sua variabile più feconda, ovvero la criminologia critica inaugurata in Italia e in Europa da Alessandro Baratta, Pietro Saitta, fin dalle prime pagine del volume, disvela le sue mosse e le sue scelte di campo interpretativoe metodologico: Leggi tutto
Per una settimana circa i media occidentali, a proposito dell'aereo russo caduto sul Sinai, hanno rimosso l'ipotesi dell'attentato dell'Isis. Perché? E perché non riconoscere che la Russia è un partner importante nella lotta al terrorismo islamista
Per una settimana quasi tutti i media occidentali, ritrosi come giovinette, han fatto di tutto per non parlare di terrorismo islamico. Anche se c'era la rivendicazione dell'Isis. Anche se le compagnie aeree (fatto significativo: per prime quelle delle monarchie del Golfo) annunciavano di aver sospeso i voli su quella rotta. Anche se i voli russi verso le spiagge dell'Egitto sono frequentissimi e non si era mai avuto notizia di problemi o incidenti.
Poi è arrivato il via libera americano: è stata una bomba, hanno detto i servizi segreti Usa, a far precipitare sul Sinai il jet con 224 turisti russi a bordo. Annuncio accompagnato da altre rinunce: inglesi e irlandesi hanno smesso di volare su quei cieli, e anche Easyjet si è tirata indietro. A quel punto, persino la libera stampa del mondo libero si è fatta avanti: forse è stato un attentato, dicono i giornali. Bravi, sette più.
E' un procedimento che non deve stupire. Anzi, è una vecchia storia. Risale alla seconda metà degli anni Novanta, dopo la prima guerra di Cecenia (1994-1996), quando il fronte degli indipendentisti guidato da Dzhokar Dudaev cominciò a essere infiltrato sempre più pesantemente dagli islamisti, già allora finanziati (quasi ogni giorno si apriva una nuova moschea) e organizzata (alcuni dei capi guerriglieri, peraltro in conflitto perenne con i capi locali, erano sauditi o giordani) dall'Arabia Saudita, e naturalmente favoriti e motivati dalla brutalità e dalle violenze dell'esercito russo. Leggi tutto
Con l’uscita di scena
dell’alieno, del marziano, del diverso, cioè dell’ ex sindaco
di Roma, Ignazio Marino, si chiude una fase turbolenta della
consiliatura eletta nelle comunali del maggio 2013. Molto è
stato detto sulla vicenda e sul personaggio per cui non ci
torneremo sopra ma
cercheremo di capire cosa accadrà ora, quali scenari si
presentano per la città e quale storia si chiude con questa
crisi.
L’indagine giudiziaria accerterà se vi siano reati nella condotta dell’ex sindaco e sull’altro versante, quello di Mafia Capitale, si spera che tutta la verità venga a galla compresi i nomi secretati dei 101 funzionari capitolini collusi o corrotti.
Più che Marino ne esce molto male il PD romano che “era ed è uno dei peggiori d’Italia” (Scalfari dixit). Giudizio autorevolmente confermato e certificato dall’indagine commissionata dalla Direzione del PD a Fabrizio Barca e dalla quale si evince che ben 24 sezioni del Partito, più di un terzo della Federazione romana, sono infrequentabili. Ed il gruppo consiliare, i famosi 19, non sono un granchè in quanto a competenze e capacità amministrative. Il problema della poca autorevolezza o della mancanza di una classe dirigente del PD sui territori, a Roma è particolarmente grave.
Ancora più grave il metodo seguito per far dimettere Marino. Il PD ha rivelato, sostituendo al dibattito pubblico dell’Aula consiliare la manovra di corridoio e la ‘scomunica’ extra-istituzionale del Sindaco, una natura “compiutamente post-democratica” come ha scritto Marco Revelli.
Leggi tuttoA
qualche giorno dalla fine dell’Expo, è possibile iniziare a
fare alcuni bilanci dell’evento che ha occupato la scena
politica e
sociale milanese (e a tratti anche nazionale) negli ultimi
cinque anni. Expo è un
evento complesso, che
riguarda la città di Milano e probabilmente l’intera
nazione, che interessa molti settori, e
ancora oggi sono tante le
domande aperte, molti i rischi incombenti – non tutti noti – e
innumerevoli le ferite che si devono ancora rimarginare. Per
questo
è necessario premettere qualche informazione riguardo gli
assetti delle società che governano Expo, per comprendere quali siano le criticità e le contraddizioni
presenti sullo scenario milanese (ma non solo) per i
prossimi anni.
La proprietà delle aree è di Arexpo Spa, la società che ha comperato il milione di metri quadri su cui si sta svolgendo l’evento. Li ha acquistati da Cabassi, da Fondazione Fiera e da Poste Italiane, pagandoli uno sproposito (grazie ad una speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti), indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro). La gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata deserta, e in molti stanno pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano interessare a tutti ma che nessuno vuole.
A meno che non intervenga un soggetto “forte”, sia sotto il profilo politico sia sotto quello finanziario, che garantisca la realizzazione di nuove opere, nuove infrastrutture Expo Spa è la società che ha costruito l’Expo e che sta gestendo lo show.
Leggi tuttoNon di Pier Paolo Pasolini vorrei
parlare ma del pasolinismo, vale a dire di un'ideologia
diffusasi a macchia d'olio nell'Italia dei quarant'anni
successiva alla sua morte. Questa
ideologia si è nutrita, ripetendola come un ritornello, della
concettualità prodotta dal Pasolini “corsaro” in articoli e
interventi pubblici che non hanno certo bisogno di essere qui
ricordati. Se il poeta Pasolini, il cineasta Pasolini, lo
scrittore Pasolini possano poi
essere effettivamente ridotti al pasolinismo è questione
aperta sulla quale è perlomeno prudente non pronunciarsi. Noto
soltanto che in
tempi non sospetti, siamo nel 1965, quando Pasolini era ancora
bel lungi dal diventare la santa icona dell'intellettualità
italiana, Alberto
Asor Rosa, tenendo conto della produzione poetica, dei romanzi
e delle primissime esperienza cinematografiche, aveva scritto
pagine mirabili nelle
quali aveva colto il tratto specifico della poetica
pasoliniana in un certo populismo estetizzante e decadente,
così coerente con l'italica
tradizione. Ma non è questo il punto. Ciò che mi interessa –
anche per ragioni autobiografiche, essendo io cresciuto
nell'Italia
post-Pasolini – sono le ragioni del consenso generalizzato,
entusiasta, talvolta addirittura fideistico, che, come un'onda
irresistibile, la
proposta teorica e critica del Pasolini corsaro ha suscitato.
È un consenso che, caso quasi unico nella storia culturale italiana, trascende le appartenenze politiche come quelle religiose. Destra e sinistra (estrema destra ed estrema sinistra comprese), tradizionalisti cattolici e laici irriducibili, critici conservatori della cultura e aspiranti modernizzatori del paese, possono discutere e contrapporsi su tutto, ma su “Pasolini” – le virgolette sono d'obbligo – si riconoscono. Su quel “Pasolini”, teorico della “mutazione antropologica”, della “omologazione” e del “genocidio culturale” operata dal tardo-neo-post ecc. capitalismo, tutti giurano concordi. Tutti ne verificano la “straordinaria attualità”, tutti ne lodano le capacità “profetiche”, tutti ne lamentano la “mancanza” con accenti toccanti.
Leggi tuttoCosa c'entrano l'allarme dell'Oms sulla carne e la fiera delle meraviglie celebrata all'Expo? Alla fine il vero senso dell'esposizione di Milano è quello di essere stato una grande e pianificata operazione di diseducazione di massa mentre sotto i nostri occhi il mondo va alla deriva
Giorni or sono l'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha inserito le carni trattate come alimenti certamente cancerogeni e le carni rosse come possibili cancerogene e l'OMS non è l'ultima associazione di vegetariani incazzati. Eppure possiamo esserne certi: questa denuncia non scuoterà minimamente nè la politica, nè i media che da anni ci tempestano e che per 6 mesi ci hanno martellato sulle grandi virtù di Expo. Quasi tutti i media, anche alcuni a noi vicini, hanno sistematicamente oscurato ogni argomento e ogni iniziativa critica nel merito dei contenuti della Esposizione Internazionale: L'imbroglio del titolo, la vuota pomposità della Carta, la cementificazione, gli scandali e lo sperpero di danaro mentre cresce la miseria in nel mondo, in Italia e in città. I convegni critici e propositivi fatti a Milano: a Palazzo Marino e al Teatro dell'Elfo non sono esistiti, nonostante gli interventi di importanti personalità straniere e la partecipazione di centinaia di persone. Ogni critica ad Expo è diventata No Expo e imbalsamata (o stroncata sul nascere), con la sola immagine della manifestazione del 1 Maggio, della Milano offesa dalle scritte e dalla violenza dei black block. Anche le migliaia di persone che quel giorno manifestarono le loro critiche sono state azzerati. Expo sono milioni di persone felici e pazienti in lunghe fila, con occhi rapiti dal fascino estetico di questo o quel padiglione, osannanti: che bello! Bellissimo! Contenti di esserci anche loro, in mezzo a tanti. Leggi tutto
È senz’altro una pura coincidenza il fatto che, pochi giorni dopo le frasi razziste e antisemite (perché anche gli arabi appartengono al ceppo linguistico semitico) di Benjamin Netanyahu a proposito della soluzione finale suggerita ad Hitler dal Gran Muftì di Gerusalemme, sia apparso sulle pagine culturali del Corriere della Sera un articolo della filosofa Donatella Di Cesare su «Spinoza Sionista» (domenica 25 ottobre).
I due interventi, peraltro, si collocano su piani assolutamente diversi: il primo è un’orribile falsificazione storica operata da un primo ministro, che non prova vergogna a strumentalizzare per motivi politici una delle grandi tragedie del Novecento; il secondo è uno scritto di un’importante studiosa italiana (anche se forse non tra le più note interpreti del pensiero spinoziano) che rilegge in maniera originale – e per molti versi inaccettabile – un momento significativo della biografia di uno dei maggiori filosofi della prima modernità, il «maledetto» Spinoza (maledetto, sia ben chiaro, tanto dagli ebrei, quanto dai cristiani), per ricondurlo alla religione natia e, in tal modo, mostrare il carattere ideologico dell’interpretazione della modernità come processo di secolarizzazione e di graduale (e problematica) presa di distanza dall’eredità delle grandi religioni monoteiste (in particolare dall’ebraismo). E tuttavia, pur tenendo ben presente la grande differenza tra questi due interventi, è forse possibile trarne un insegnamento comune.
Una pioggia di maledizioni
Che le radici culturali e politiche del moderno abbiano un rapporto complesso e ambivalente con la dimensione teologica è un dato storicamente acclarato; e tuttavia la lotta per l’emancipazione dall’invadenza del clero nella vita della società e dei singoli individui rimane un passaggio fondamentale nel processo di costruzione dell’orizzonte politico della modernità. Leggi tutto
Da alcune settimane è uscito un agile opuscolo di Vladimiro Giacchè che tratta la relazione antagonista, la sostanziale incompatibilità tra il dettato costituzionale nazionale e l’impalcatura giuridica dei Trattati europei. Ancora una volta non possiamo che essere stimolati da una lettura non semplificata del nodo politico che l’autore è capace di far emergere da questo lavoro. In poche pagine e con una prosa semplice ma non schematica, si centrano alcuni punti della costruzione politico giuridica della Ue, della struttura di comando sovranazionale che oggi elabora, definisce e fa ratificare dai governi nazionali le scelte strategiche di politica economica.
Non ci annoveriamo tra i nostalgici della defunta Costituzione, né abbiamo mai pensato che nel passato, ormai lontano, questa fosse applicata nelle sue parti più significative, anzi possiamo dire senza tema di essere smentiti che la parte più corposa, il contenuto più avanzato di questa Carta, sia stato sempre lettera morta. I principi fondamentali e la parte applicativa in relazione al diritto al lavoro, all’indipendenza nazionale, al rifiuto di ogni partecipazione ad avventure militari, sono state sistematicamente disattese, anzi, dalla fine degli anni ’70, il processo di revisione e di destrutturazione della Carta fondamentale ha iniziato a camminare prima lentamente e poi sempre più speditamente. Ciò è dovuto anche e soprattutto al drammatico declino delle forze sociali e politiche di classe che avevano reso possibile quello spazio di mediazione che la Costituzione aveva rappresentato dal dopoguerra in poi. Leggi tutto
E’ stata recentemente pubblicata in Spagna un’interessante conversazione tra la politologa Chantal Mouffe e il dirigente di Podemos Íñigo Errejón con il titolo Costruire il popolo (Construir Pueblo – Icaria Editorial) dove si manifesta una rinnovata attenzione per il concetto di populismo e per la sua possibile declinazione a sinistra. La base di riferimento del confronto è costituita sia dal lavoro della politologa belga con il suo compagno Ernesto Laclau, scomparso qualche anno fa, “Egemonia e strategia socialista. Verso una radicalizzazione della democrazia” del 1985, che l’opera di Laclau del 2005, “La ragione populista” (pubblicata nel 2008 in Italia da Laterza), che costituisce il tentativo più strutturato di riabilitare il populismo come “modo di costruzione del politico” per chi vuole combattere e superare il capitalismo.
L’eco di questa discussione fatica ad arrivare in Italia, anche se qualche settimana fa è comparso un articolo firmato da Christian Raimo (Perché c’è bisogno di un populismo di sinistra – 5 ottobre 2015 – www.internazionale.it) che ha il merito di provare a riportare qui da noi la discussione sul populismo, provando ad interrompere l’abitudine consolidata di utilizzarlo soltanto come termine per denigrare posizioni politiche che richiamano al coinvolgimento del popolo nell’arena politica.
Solitamente quando si definisce una formazione politica con l’appellativo di populista è perché se ne vuole demarcare il carattere non democratico, di forte identificazione con un leader carismatico e con la tendenza alla semplificazione del messaggio politico, destinato a contrapporre il popolo ad una élite oligarchica o corrotta. Leggi tutto
Domenico Losurdo, Professore emerito di Storia della Filosofia all'Università di Urbino, tra i maggiori intellettuali contemporanei, che recentemente ha pubblicato “La sinistra assente” (Carocci, 2014), un'analisi a proposito dell'assenza, in Occidente, di una forza d'opposizione in grado di incidere nella realtà e d'offrire la prospettiva della trasformazione sociale (A cura di Aris Della Fontana)
1. Lei afferma che
«la sinistra dilegua proprio nel momento in cui è chiamata a
reagire ai processi in atto». Come si
spiega questa contraddizione?
Quando parlo del dileguare della sinistra, mi riferisco all'Occidente. La sinistra dilegua, per esempio, dinanzi all'aggravarsi della situazione internazionale. Oggi stiamo assistendo a una serie di guerre neo-coloniali, particolarmente nel Medio Oriente: è un dato di fatto che viene riconosciuto persino da commentatori borghesi, ma che la sinistra occidentale, invece, tace. E oggi i pericoli di guerra si stanno aggravando: ne “La sinistra assente” cito un illustre analista quale Sergio Romano, secondo cui gli Stati Uniti hanno come obiettivo l'acquisizione di una sorta di monopolio sostanziale dell'arma nucleare; e ciò, all'occorrenza, anche al fine di poter scatenare un primo colpo nucleare impunito. Ci troviamo, dunque, dinanzi a una prospettiva decisamente allarmante. Ma la sinistra occidentale latita. Nel libro spiego le ragioni storiche di questa latitanza, ma fermarsi a ciò non basta. Di fronte all'aggravarsi dei conflitti sul piano internazionale, delle tendenze neo-colonialiste e della minaccia imperialista, s'impone la necessità d'una chiara risposta da parte della sinistra – anche sul piano ideologico - e con ciò una sua riorganizzazione. Ma purtroppo siamo ancora disgraziatamente lontani da tale momento.
2. Di fronte alla «crisi economica e politica» e ad un «deteriorarsi della situazione internazionale» che desta importante preoccupazione in particolare per i venti di guerra che spirano sempre più forti, si pone, per la sinistra, la questione delle tempistiche, e cioè della necessità di agire in rapporto a margini non eternamente posponibili? Se la sinistra non si attiva ora, in seguito sarà troppo tardi?
Per quanto concerne lo stato della situazione internazionale, ribadisco quanto sostenuto poco sopra. Leggi tutto
La contrapposizione marxiana fra concezione materialista e idealista della dialettica fra Stato e società civile è ancora oggi essenziale per contrapporre al pensiero unico dominante una visione del mondo autonoma, in grado di superare dialetticamente le ideologie precedenti. Soltanto mediante il rovesciamento della concezione idealista sarà possibile sviluppare la concezione materialista della storia per cui sono le strutture economiche e sociali a determinare, in ultima istanza, le sovrastrutture politiche
Come
è noto, sin da giovane Gramsci ha difeso la Rivoluzione di
ottobre come una rivoluzione contro il Capitale. In
altri termini si tratta
di una rivoluzione che aveva avuto successo proprio perché i
suoi ideatori avevano operato una cesura con quella ortodossia
marxista, dinanzi
alla quale lo stesso Marx aveva sostenuto di non essere
marxista. È altrettanto noto che Gramsci, riflettendo
in carcere sulle cause
della sconfitta della rivoluzione in Occidente le rinviene, in
primo luogo, nell’incapacità dei comunisti, troppo ancorati
alla
tradizione massimalista, di tradurre la lezione leninista nel
contesto di un Paese a capitalismo avanzato. In tal caso, la rivoluzione
in
Occidente si sarebbe potuta realizzare solo operando
una cesura con una schematica riproposizione del modello
bolscevico in un contesto in cui
non c’è essenzialmente da fare i conti con lo Stato, ma prima
ancora con una società civile riccamente articolata.
Ciò rendeva necessario, dinanzi all’evidente fallimento del tentativo di affermarsi con una guerra lampo di movimento, prepararsi a una necessariamente lunga guerra di logoramento. Nelle società a capitalismo avanzato, infatti, il potere non si regge principalmente sul monopolio della violenza legalizzata ma sulla capacità di egemonia del blocco storico dominante sui ceti sociali subalterni. Ciò rende indispensabile lo sviluppo della lotta di classe al livello delle sovrastrutture.
Proprio il marxismo occidentale si è sviluppato insistendo sulla necessità di sviluppare la coscienza di classe nei ceti subalterni. Lo sviluppo di quest’ultima è certamente favorito dal comune sfruttamento da parte della borghesia e dalla necessaria lotta di classe che, dal piano della rivendicazione economica, tende a svilupparsi sul piano della lotta politica.
Leggi tuttoInviamo in allegato l’ultimo
lavoro di Antonio Carlo, che in questo caso si occupa di due
intellettuali, sia pure molto diversi e contrapposti tra di
loro sul piano politico come Croce e Gramsci, ma influenzati
entrambi
dall’idealismo. Non è una tesi nuova, nonostante il recente
innamoramento per il pensiero di Gramsci da parte di tanta
sinistra, anche radicale, sia su scala nazionale, ma forse
ancora di più a scala internazionale. E già questo ci sembra
un ulteriore indicatore dello stato di salute del pensiero e
del movimento comunista attuale (si parva licet).
In particolare ci è sembrato interessante mettere in relazione la produzione teorica di questi due intellettuali con il livello di sviluppo del capitalismo in Italia e le caratteristiche tanto della classe dominante quanto di quelle del proletariato.
Quindi salutiamo questo nuovo scritto di Antonio ed invitiamo a leggerlo con attenzione soprattutto ai giovani militanti su cui sappiamo che il pensiero di Gramsci esercita un fascino particolare, poiché il suo recupero viene inteso (con relativa ingenuità) come un ritorno al genuino pensiero marxista. Nonostante i toni siano a volte aspri e trancianti, come è nel suo stile, lo studio di Antonio Carlo è fondato su una solida e rigorosa documentazione con cui occorre confrontarsi prima di esprimere giudizi lapidari. Come al solito non sempre le sue conclusioni sono convincenti su tutti i piani, almeno per noi, e ci sembra che la sua combattiva foga prenda il sopravvento sull’argomentazione analitica.
In questo lavoro in particolare vi è un giudizio alquanto liquidatorio su Amadeo Bordiga nei primi anni del dopoguerra, quando la direzione del neonato Partito Comunista d’Italia era diretto dalla Sinistra Comunista. In pratica l’accusa a Bordiga è di aver condiviso un repentino ritorno all’ideologia e alla politica riformista poiché avrebbe fatto passare al congresso di Roma del 1922 delle tesi sulla questione agraria e sulla questione delle cooperative ed i sindacati.
Leggi tuttoLa lunga, “strategica”, intervista concessa da Mario Draghi a IlSole24Ore di sabato illustra una visione della costruzione dell'Unione Europea in clamoroso contrasto con la “disunione” evidente di fronte al problema concreto dei profughi.
Si potrebbe obiettare che si tratta di due cose molto diverse – la circolazione monetaria e la circolazione delle persone – e in qualche misura lo sono. Ma una unione sovranazionale è condannata a gestire secondo un piano per l'appunto unitario molte circolazioni diverse ma interconnesse, indivisibili se non al prezzo di mettere in discussione la coesione delle parti fondamentali dell'edificio.
Ogni interconnesione segue però un ordine. Dunque proviamo a fare ordine. Draghi, nell'intervista, non ha avanzato nuove ipotesi strategiche, ma riallineato con grande precisione i tasselli di una politica che non è solo monetaria (l'area di stretta competenza della Bce), ma investe – o deriva da – una prospettiva “federalista” in cui le residue barriere nazionali, sebbene ancora esistenti, non già travalicate definitivamente nella logica complessiva del progetto.
Esemplare, da questo punto di vista, il legame che illustra tra politica monetaria e le ben note “riforme strutturali”:
Si completano a vicenda: per fare le riforme strutturali bisogna pagare un prezzo ora per avere un beneficio domani; i tassi tassi di interesse sostanzialmente attenuano il prezzo che bisogna pagare oggi.
Leggi tuttoIl negoziatore prende il telefono.
– Ignazio, non c’è bisogno che nessuno si faccia male.
Rilascia gli ostaggi, e vieni
fuori.
La voce all’altro capo suona stridula.
– No! Io sono il sindaco, e rimango al mio posto!
– Sei decaduto. I
consiglieri si sono dimessi.
– Solo perché quel cazzaro li ha ricattati. Non vale, io resto
in carica in virtù della mia
superiorità morale.
– Ti stanno indagando per peculato.
– È una trappola! Mi crocifiggono per due cene
pidocchiose perché vogliono sbranarsi il banchetto
del Giubileo indisturbati. Ma io li sputtano!
– Il più sputtanato
sarai tu.
– Sticazzi! – Ridacchia – Hai sentito? Ho imparato la lingua,
non me ne vado. Devo supervisionare il Giubileo, me
l’ha chiesto il Papa.
– Stronzate, Bergoglio ti odia per il registro delle unioni
civili.
– Non è vero! Papa
Francesco non è omofobo. E si fida di me. M’ha chiesto di
operarlo. Leggi tutto
Lo scorso 5 ottobre è stato raggiunto un accordo tra Stati Uniti d’America, Giappone e altri 10 paesi, per la creazione di un trattato di libero scambio, che ha lo scopo di facilitare il commercio internazionale tra 12 paesi, attraverso la cancellazione di dazi e tasse su alcuni prodotti oggetto di negoziato. Il nome del trattato è Trans-Pacific Partnership (TPP) e coinvolge oltre a USA e Giappone, anche: Australia, Brunei, Canada, Cile, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam.
Un accordo simile è in fase di elaborazione tra USA e Unione Europea e si chiama “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (TTIP). Anche questo accordo avrebbe lo scopo di migliorare gli scambi internazionali tra gli USA e il vecchio continente, abbattendo barriere tariffarie e semplificando la normativa su alcuni settori dell’economia.
Gli studi favorevoli al TTIP hanno stimato che il PIL mondiale aumenterebbe tra lo 0,5 e l’1 per cento e aumenterebbe anche quello dei singoli stati. Inoltre, per quanto riguarda la semplificazione normativa, si avrebbero benefici dalla riduzione della burocrazia.
Le critiche al TTIP sono diverse, ed hanno come unico comune denominatore la sempre più accentuata marginalizzazione delle istituzioni pubbliche nella gestione della cosa economica. Addirittura si parlerebbe della previsione di arbitrati privati per la risoluzione di controversie tra le multinazionali e stati aderenti nel caso di mancato rispetto degli accordi. Per un approfondimento sul TTIP si rimanda a questo dossier pubblicato da Le Monde Diplomatique. Leggi tutto
Nel post francese su Goofynomics il prof. Bagnai condivide con i suoi lettori alcuni eventi del suo viaggio tra Rouen e Parigi: in primo luogo la chiara considerazione espressa al convegno di giuristi tenutosi a Rouen sull’idea di stato federale europeo, e poi l’interessante discussione con un collega sulla lunga serie di errori della “sinistra”, serie che va a culminare col prossimo sinistro errore, il Piano B. Ecco la traduzione per i diversamente europei
Al convegno:
“Nessuno crede in
un’Europa federale!”
Mi trovo a Rouen, città dove sono successe tante cose europee (come in qualsiasi città dell’ Europa, d’altronde), a partire da un certo processo, per arrivare a un certo convegno, che è l’occasione della mia visita.
Due avvenimenti relativamente lontani, ma che hanno in comune una forte presenza di giuristi, e un dibattito molto interessante.
Mi avevano chiamato per descrivere il processo di regionalizzazione in Italia, cosa che ho fatto come ho potuto, con l’aiuto di colleghi membri dell’associazione a/simmetrie, che attualmente presiedo (qui qualcosa di quanto stiamo facendo). Lo scopo del convegno era sostanzialmente quello di confrontare le diverse esperienze di decentramento e di regionalizzazione, vale a dire, in un certo senso, di “federazione” degli enti locali (siano essi Stati, come negli Stati Uniti, regioni, come in Italia, o cantoni, come in Svizzera). Si affrontavano questioni come la posizione degli Stati federati (o delle regioni) in rapporto allo stato federale (o allo stato centrale), la posizione degli Stati federati (o delle regioni) in rapporto alle comunità sub-statali (stati, provincie, unioni di comuni, città metropolitane, capitali, comuni …), ecc. Le asimmetrie economiche svolgono in questo un ruolo importante, sia a livello informativo, che sul piano dei rapporti di forza, o delle regole di funzionamento, e in effetti quasi tutti i relatori nelle loro presentazioni facevano riferimento al concetto di asimmetria.
Dopo due giorni di lavori, una cosa mi sembra ovvia, e, facendo mostra di una certa ingenuità (estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae), non rinuncio a farla notare ai miei colleghi:
“Cari colleghi, abbiamo parlato di tutela delle minoranze etniche, quindi spero che vogliate accogliere con indulgenza questa domanda posta dal solo economista qui presente. Abbiamo visto i problemi della regionalizzazione, e possiamo dire che sono in gran parte comuni a tutte le esperienze che abbiamo analizzato: dalla difficoltà di risolvere democraticamente i conflitti tra i diversi livelli di governo, alla difficoltà di adattarsi al fatto (storico ed economico) che le frontiere cambiano, etc. Abbiamo visto, allo stesso tempo, che a questi problemi sempre uguali nel tempo e nello spazio le diverse comunità hanno sempre fornito soluzioni diverse, soprattutto qui e ora, in Europa.
Leggi tuttoDue “fatti stilizzati” sono propri del
capitalismo contemporaneo: le crescenti diseguaglianze
distributive e l’esplosione del
debito pubblico su scala globale[1].
Si tratta di fenomeni correlati, nel senso che, come si
proverà a mostrare, è proprio la diseguaglianza a generare
crescente
indebitamento pubblico e, in più, è il crescente indebitamento
pubblico a generare, attraverso misure di redistribuzione del
carico
fiscale, crescenti diseguaglianze distributive.
Sul piano empirico, l’OCSE rileva un significativo aumento dell’indice di Gini in tutti i Paesi industrializzati nel corso degli ultimi anni, in particolare a partire dal 2007 (http://www.oecd.org/social/income-distribution-database.htm). Al tempo stesso, come mostrato in Fig.1, si registra un continuo aumento del debito pubblico su scala globale.
L’aumento delle diseguaglianze distributive riduce il tasso di crescita fondamentalmente attraverso due canali, che operano rispettivamente sulla domanda aggregata e dal lato dell’offerta.
a) Dal lato della domanda. La riduzione della quota dei salari sul Pil determina una caduta dei consumi e, a parità di investimenti pubblici e privati, della domanda aggregata e del tasso di crescita.
Leggi tuttoLa ragione è sempre uno spazio ritagliato dall'irrazionale, mai definitivamente al riparo dall'irrazionale, ma attraversato da esso, e definito soltanto da determinati rapporti tra fattori irrazionali. Gilles Deleuze
1. La neutralità.
L'idea che la scienza sia neutra - eticamente, ideologicamente e politicamente - è un'idea che affonda le sue radici nell'illuminismo e, più avanti, nel positivismo. Ed è nient'altro che l'idea di una modalità della conoscenza umana che si pone ad un livello più alto, più certo, più razionale rispetto ad altre modalità, quali ad esempio la religione, l'arte o la filosofia. L'equivoco fondamentale consiste nella premessa da cui si parte: tutto ciò che è razionale è migliore, più alto, assoluto, di ciò che invece non lo è. Un equivoco che rivela la natura ideologica di questa premessa: che cioè il razionale e il non razionale siano esclusivi, non sovrapposti, dove c'è l'uno non può esserci l'altro e viceversa.
2. La razionalità scientifica.
La razionalità della scienza, ovvero il carattere oggettivo della sua conoscenza, sembra indubitabile. Ma l'unica certezza che abbiamo è che questa forma di razionalità appartiene all'ambito del metodo scientifico, e di una particolare declinazione della scienza che è quella della cultura occidentale.
Leggi tuttoAltro che Volkswagen: da tre settimane il pianeta ha un’intera Germania in più, nel senso che i gas serra sviluppatisi negli immensi incendi in atto in Indonesia corrispondono a quelle prodotti da tutta l’economia tedesca in un anno, senza parlare di un numero di morti imprecisato, ma certamente molto altro. Però alzi la mano chi ne sa qualcosa, chi è stato in grado di percepire la gravità di questa catastrofe ambientale che sta coinvolgendo milioni di ettari di foresta e di terreno torboso che praticamente brucia da solo sia a Sumatra che in Borneo. I servizi giornalistici sugli incendi così solerti a rendere conto del dramma di qualche ricco proprietario di ville in California, tacciono quassi completamente in questo caso.
E ne hanno tutti i motivi perché il gigantesco incendio deriva da due fattori tra loro collegati: tecniche agricole arretrate, ma a costo quasi zero che si servono del fuoco per fertilizzare momentaneamente i terreni e l’avidità delle multinazionali, peraltro sostenute da squadroni della morte contro cui il governo è impotente, che hanno dato vita a una enorme distruzione della foresta per approvvigionarsi di legno, pasta di legno e olio di palma a costo bassissimo. Distruzione di ambiente naturale e di ambiente umano vanno di pari passo, ma naturalmente meglio glissare sulle malefatte di Unilever, Kraft, Pepsicola o Starbucks ( non sono nomi a caso) perché non si crei attorno a questi marchi un’aura di sospetto.
Ho voluto iniziare con questa notizia pietosamente nascosta dai media e dalla politica tanto che nell’incontro tra Obama e il leader indonesiano Widodo, avvenuto qualche giorno fa, il presidente Usa si è grottescamente congratulato per le politiche di prevenzione e di contenimento degli incendi forestali, come se questo ultimi non siano alla fine appiccati dall’arroganza e onnipotenza dei grandi gruppi, spesso americani, che operano nell’agroalimentare. Leggi tutto
Ormai è chiaro che per il Pd demolire l’Art. 11 della Costituzione sul ripudio della guerra, non solo non è più un tabù ma costituisce un elemento fondativo della sua natura
Lo stesso giorno in cui terminava la Trident Juncture 2015 – una delle più grandi esercitazioni Nato svoltasi in Italia, Spagna e Portogallo dal 3 ottobre al 6 novembre – la ministra della difesa Roberta Pinotti, appena avuta l’autorizzazione al drone dal padre padrone Usa, ha esternato, in una intervista al Corriere della Sera, il renzipensiero sull’uso della forza armata.
La Trident Juncture – cui hanno partecipato oltre 230 unità terrestri, aeree e navali e forze speciali di 28 paesi alleati e 7 partner (tra cui l’Ucraina), con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 160 aerei da guerra – costituisce per il segretario della Nato Jens Stoltenberg, «un chiaro messaggio a qualsiasi potenziale avversario che la Nato non cerca il confronto, ma che siamo pronti a difendere tutti gli alleati». La Trident Juncture, la maggiore delle oltre 300 esercitazioni nel 2015, è stata una evidente prova di guerra contro la Russia, cui la Nato — che come patto militare offensivo si è allargata per 20 anni a est alla frontiera dell’ex Urss — capovolgendo i fatti, attribuisce la responsabilità di aver creato in Ucraina «una situazione potenzialmente più pericolosa di quella della guerra fredda».
Allo stesso tempo è stata una prova generale di quella che la Nato chiama «Forza di risposta» (40 mila uomini) e in particolare della sua «Forza di punta ad altissima prontezza operativa», proiettabile in 48 ore verso Est e verso Sud (Medioriente e Nordafrica). Un ruolo chiave viene svolto dalle forze speciali che, spiega la Nato, «operano senza essere viste». Leggi tutto
Tutto comincia a cambiare con il veto all’ONU della Russia e della Cina sull’intervento diretto delle “potenze occidentali” in Siria. Memori di quello che è successo in Libia, la Russia e la Cina hanno capito che la tattica della foglia del carciofo attuata da Usa e alleati è di fatto diretta a loro e sono corsi ai ripari.
Gli Stati Uniti mirano, in Medio Oriente e non solo, a destabilizzare gli Stati asimmetrici ai loro interessi. A questo scopo hanno creato, addestrato e armato gli integralisti islamici, Isis compreso. Ora l’integralismo islamico è sfuggito loro di mano. Quello che sta succedendo in Afghanistan è esemplare, ma tutto ciò agli Usa permette comunque di giocare a due tavolini: da una parte continuano a foraggiare il variegato mondo dell’integralismo islamico, dall’altra usano il terrorismo come strumento per compattare l’occidente…je suis Charlie docet…e per avere eventuale mano libera per intervenire come e dove ritengono conveniente.
Inoltre, nel settore medio-orientale il referente degli Usa è Israele, anzi per gli Usa, in medio oriente è la politica israeliana che ha guidato le scelte comuni.
Israele mira a distruggere gli Stati Nazione di quell’area, Turchia, Iran, Iraq, Siria, Egitto e a ridurli a staterelli inconsistenti facilmente manovrabili e gestibili. Non ha mai tralasciato il progetto sionista, che, anzi, è il filo conduttore sotterraneo delle sue scelte politiche, di costruire il Grande Israele. Il concetto di “Grande Israele” si fonda sull’idea di uno stato ebraico esteso dall’Egitto fino all’Eufrate includendo parti della Siria e del Libano, il “Piano Yinon” del 1982.
E infatti, l’Isis è appoggiato da Israele in funzione destabilizzante degli Stati Nazione dell’area mediorientale. L’ Isis, guarda caso, non attacca mai obiettivi israeliani. Ma come? Gli integralisti musulmani non vogliono pregare a Gerusalemme? Leggi tutto
Si va chiarendo il quadro della "emergenza" romana iniziata lo scorso anno, con le improbabili imputazioni di mafia per la banda Carminati-Buzzi, e rilanciata quest'anno con l'enfasi pretestuosa imposta dai media alla vicenda del funerale del boss Casamonica. A chiarircelo è stato il governo Renzi, che ha presentato la cacciata del sindaco Ignazio Marino, ed il contestuale commissariamento del Comune di Roma, come un'imposizione alla Capitale del "modello Expo".
La dichiarazione di Renzi ha suscitato perplessità, dato che qui si tratta di un Comune e non di un Expo, ma in questo caso è proprio questa confusione tra questioni diverse a mettere in evidenza che tutto era stato organizzato per mettere le mani sul Comune di Roma in vista del business del Giubileo anticipato. Un business tutto a carico del contribuente, dato che il decantato Expo è costato quattordici miliardi di denaro pubblico a fronte di ottocento milioni di incasso.
La defenestrazione di Marino è stata ovviamente concordata col Vaticano, ma soprattutto con le multinazionali bancarie che oggi lo controllano dopo il tracollo dello IOR. Lo IOR attualmente è gestito dal Promontory Financial Group, una società americana di "consulting", nel cui "official board" sono rappresentate tutte le principali multinazionali del credito.
Dato che non c'erano gli estremi giuridici per commissariare il Comune, e visto che Marino si è rifiutato di rassegnare le dimissioni da sindaco dapprima annunciate, si è dovuto far ricorso all'escamotage delle dimissioni della maggioranza dei consiglieri comunali. Si è assistito quindi all'assurdo spettacolo di un partito che cerca di delegittimare lo stesso uomo che aveva candidato appena qualche anno prima; e l'insurrezione è avvenuta in obbedienza al diktat non del governo, poiché questo non ne aveva la legittimità, ma della persona di Renzi nelle sue vesti di segretario del partito.
Leggi tuttoL'obiettivo
è
ambizioso. Il metodo innovativo. Per esaminare la lenta,
opaca decadenza dell'economia politica del ventesimo secolo
e l'emergere, sulle sue
macerie, di un nuova paradigma, Saskia Sassen – docente di
Sociologia alla Columbia University di New York – ha deciso
di archiviare le
categorie tradizionali «che articolano la nostra conoscenza
dell'economia, della società e dell'interazione con la
biosfera».
Espulsioni. Brutalità e complessità nell'economia
globale, appena tradotto dalla casa editrice il
Mulino (pp. 296, euro 25),
è il risultato di questo sforzo: un'immersione nella
transizione storica che stiamo vivendo. Il tentativo di
leggere, dietro alla
specificità di processi diversi – l’impoverimento della
classe media nei paesi ricchi, lo sfratto di milioni di
piccoli agricoltori
nei paesi poveri, le pratiche industriali distruttive per la
biosfera – la stessa tendenza sotterranea. La fine della
logica inclusiva che ha
governato l'economia capitalistica a partire dal secondo
dopoguerra e l'affermazione di una nuova, pericolosa
dinamica. Quella delle
espulsioni.
***
Professoressa Sassen, le patologie del capitalismo sono sotto gli occhi di tutti, ma le diagnosi divergono. Gli economisti che contestano il neoliberismo puntano il dito sulla crescente disuguaglianza (per esempio Stiglitz in The Price of Inequality), mentre lei preferisce affidarsi alla categoria delle “espulsioni”. Perché?
Leggi tuttoQuesto mio intervento ha per titolo
“Pasolini e Calvino”: sono quindi in dovere di spiegare il
titolo, per cominciare. Il titolo allude a una lettura comune
dei due autori
nominati: dunque si pone dal punto di vista dell’eventuale
lettore di Pasolini e Calvino, e ha per obiettivo l’effetto
che questa lettura
congiunta, o parallela, o a mollichelle, ha sul lettore.
Intendiamoci, non sto cercando di minimizzare le cose che dirò con un maldestro tentativo di abbassare il livello della mia lettura: se ci pensate, la Retorica di Aristotele è un testo centrato sull’effetto che la tragedia ha sullo spettatore, più che un manuale di scrittura tragica o un saggio di critica del genere teatrale. Sto semplicemente chiarendo che intervengo dal punto di vista del lettore, non da quello dell’autore (che in altri momenti potrei essere) o del critico (che non sono): dopo tutto un punto di vista devo pur assumerlo, per evitare sovrapposizioni di piani e ambiguità di vario genere.
E poi, scusate se tiro anch’io la giacchetta a un critico tedesco molto citato negli ultimi tempi (forse perché ha scritto su Pasolini), Hans Magnus Enzensberger. Sto parlando del suo celebre paragone tra la letteratura e l’Alka-Seltzer1: da quando la letteratura è stata coinvolta nel processo di socializzazione, l’istituzione letteraria si è dissolta come il cialdino nel bicchiere della società. Essa non è finita, è dappertutto; ma ha perso peso, e con essa «le subistituzioni che ne dipendono» si sentono scalzate da nuove istanze sociali, e la loro inquietudine trapela da domande che si fanno insistenti e un po’ lamentose al tempo stesso: il computer non danneggerà la lettura della pagina cartacea?
Leggi tuttoAddio al grande sociologo Luciano Gallino, scomparso a 88 anni. Ritratto di un intellettuale politico costruito in anni di interviste al telefono. Perché al telefono il pensiero viene messo al lavoro. A una domanda, può corrispondere una risposta imprevedibile al ritmo del presente
Luciano Gallino è morto a 88
anni. L’ultima volta che l’ho sentito al telefono, per
un’intervista, era ai primi di luglio 2015. Ci eravamo
lasciati con un
appuntamento in autunno, quando sarebbe uscito il suo nuovo
libro Il denaro, il debito e la doppia crisi,
una
lunga lettera ai suoi nipoti, più che un testamento uno
strumento di battaglia contro l’austerità. Pensavamo
a un’altra
intervista, per discutere del libro. Mi disse: “Sa sono stato
male, ma ho continuato a lavorare al libro. Adesso sto
correggendo le
bozze”.Era pieno di energia, mi disse. Lo richiamato più
volte, nelle ultime settimane. Non è stato possibile parlarci.
Il ticchettìo dell’Olivetti
Era diventata un’abitudine, questa lunga frequentazione telefonica iniziata, credo, nel 2009.
Il nostro metodo di lavoro era improvvisato, ma era sempre preciso, infallibile. Lo chiamavo al mattino, prospettavo l’argomento dell’intervista: una dichiarazione del governo di turno, un avvenimento politico europeo di primo piano, un movimento degli studenti, una legge finanziaria, l’ultimo libro pubblicato. Mi rispondeva cortese, sembrava prendere appunti a mente, mi chiedeva sempre di richiamarlo al pomeriggio. Prendeva molto sul serio l’argomento, sembrava volerlo studiare a fondo. Lo richiamavo e, alla prima domanda, iniziava a parlare con un filo di voce, con calma, a raffica. Faticavo a stargli dietro.
Leggi tuttoIl Financial Times ha chiesto alla BCE di rendere pubbliche le agende degli impegni dei più importanti funzionari della BCE, e dai documenti emersi risulta che si tengono regolari incontri privati tra i funzionari BCE e il mondo delle banche e della finanza, proprio in prossimità delle più importanti decisioni sui tassi o sull’acquisto titoli, incontri dei quali naturalmente non emergono i “dettagli”. Il principio della “indipendenza” della banca centrale si rivela per quello che è, un falso “tecnicismo” portato a pretesto per tagliare i finanziamenti allo Stato. Come afferma Stiglitz: “Tutte le istituzioni pubbliche rendono conto a qualcuno, e l’unica domanda è: a chi.”
Secondo quanto rivelato dall’agenda degli impegni, qualche giorno prima delle decisioni politiche più importanti si sono tenuti degli incontri tra alcuni dei più importanti responsabili della Banca centrale europea e banchieri e gestori di fondi, e in un’occasione anche solo poche ore prima.
Le agende, che coprono le riunioni dei sei membri del comitato esecutivo della BCE tra agosto 2014 e agosto 2015, sono state consegnate al Financial Times in base alle normative UE sulla libertà di informazione e rivelano il coinvolgimento tra settore privato, funzionari e media.
La divulgazione di questi incontri avviene in un momento in cui il controllo sui contatti tra i banchieri centrali e il settore dei servizi finanziari è particolarmente elevato. All’inizio di quest’anno, la BCE stessa ha lanciato un proprio monitoraggio sulla questione, stabilendo dei nuovi principi su come i suoi funzionari dovrebbero interagire con il settore privato. Leggi tutto
Vent’anni fa – il 4 novembre 1995 – moriva Gilles Deleuze. Per continuare a pensare con lui l’editore nottetempo ha ripubblicato (una prima edizione era uscita nel 1999 da Cronopio) uno dei suoi saggi degli ultimi anni, uno dei più alti: quell’Esausto (épuisé) che Deleuze scrisse nel ’91 su richiesta delle Éditions de Minuit per accompagnare la traduzione francese dei quattro drammi per la televisione composti da Samuel Beckett tra il 1975 e l’82 (Quad, Trio del fantasma, …nuvole… e Nacht und träume), ma che in realtà rappresenta una lettura deleuziana di tutto Beckett, abbordato dal versante di uno dei problemi principali posti dalla sua opera, problema che secondo Deleuze arriva, nei teledrammi, a riformularsi e a risolversi in maniera nuova. Lo si potrebbe stenografare così: com’è possibile fare di una situazione soggettiva di estrema impotenza, malattia e tormento, di vita sul bordo della morte, la condizione di un pensiero che affermi la vita e la creazione con potenza inaudita? E cosa può essere la vita, che concetto si può darne, se sperimentata in un quadro simile, persino un passo più in là dell’«irresistibile salute precaria» di cui il filosofo parla in un altro scritto coevo (La letteratura e la vita, in Critica e clinica), quando proprio la malattia in ogni momento può intervenire a vanificare lo sforzo del pensiero? Come sempre in Deleuze, l’impulso teoretico più ardito lavora immerso in situazioni concrete (ammirevole l’ironia nei confronti degli scrittori ancora «troppo beneducati» che, diversamente da Beckett, si limitano a dichiarare la morte dell’io e l’opera totale, senza far vedere «come è» e «come si fa») e, in questo caso, vissute in prima persona dall’autore – sfinito dai problemi respiratori che da tanti anni lo accompagnavano, e che si andavano facendo sempre più gravi. Leggi tutto
Nell’ultima lezione del corso di Critica al Capitalismo [1], è stato affrontato il tema della circolazione nel modo di produzione capitalistico. Il Capitale dopo aver oggettivato valore all’interno della merce per mezzo della forza lavoro, cioè, detto più brutalmente, dopo aver prodotto le merci sfruttando i lavoratori, deve realizzare questo valore attraverso i prezzi e il plusvalore sotto la forma di profitto mediante lo scambio con la merce denaro.
Questo processo di trasformazione della merce in denaro (la vendita della merce) è soggetto a fenomeni aleatori incontrollabili per lo stesso capitale. È probabile che alcune categorie di merci in determinati periodi storici siano maggiormente o minimamente sensibili alla crisi del capitale e quindi siano più o meno ricercate sul mercato. Quindi lo scambio M-D’ [2] dovrebbe permette al capitale di realizzare il profitto; pertanto, una o più merci invendute implicano un profitto non realizzato*.
Siccome in questo scambio intervengono fattori estremamente complessi ** conoscere la legge esatta che lega le fluttuazioni del consumo individuale con la fase storico-politico-economica è estremamente complesso ma con una certa approssimazione ciò è possibile e i numerosi lavori del neo-premio Nobel all’economia A. Deaton [3][4] ce lo confermano.
Ne parliamo con Francesco Schettino, ricercatore di economia politica alla Seconda Università di Napoli e redattore della rivista La Contraddizione. Leggi tutto
Dopo
Italicum e Jobs
act, Renzi ha ottenuto anche la cosiddetta riforma del Senato.
Senza grosse difficoltà, in questo caso come nei precedenti. A
Renzi sta
riuscendo, con una certa facilità, ciò che Berlusconi ha
tentato inutilmente (o quasi) di fare per vent'anni. Penso sia
il caso si
chiedersi le ragioni di questa forza. Per rispondere,
bisognerebbe prima chiedersi le ragioni della “debolezza” di
Berlusconi.
Mettiamo“debolezza” tra virgolette, perché ovviamente la
parola è da prendere cum grano salis. Berlusconi ha sempre
avuto,
ed ha tuttora, un grande potere, i cui vari aspetti diamo qui
per noti. Osserviamo solo che la sua vita politica copre gli
ultimi vent'anni: in questi
vent'anni egli è stato al potere per circa dieci, ed è stato
comunque influente anche negli altri dieci. Ma sono proprio i
dati
oggettivi che mostrano la reale forza di Berlusconi a porre
con evidenza il problema. Come mai in vent'anni di attività
politica ai massimi
livelli egli non è riuscito a devastare la Costituzione,
conculcare la democrazia e abbattere i diritti dei lavoratori
in maniera così
completa come è riuscito in pochissimo tempo a Renzi? La prima
risposta che viene in mente è che Berlusconi era sì forte, ma
ha
anche suscitato contro di sé forti opposizioni. Il ceto
politico si è sempre profondamente diviso, di fronte ai suoi
tentativi di
cambiamenti regressivi delle istituzioni. Ma perché? Non certo
per motivi morali o ideali. L'attuale ceto politico non
conosce né etica
né idee. Poiché l'unica cosa che esiste, per l'attuale ceto
politico, sono gretti interessi materiali, è evidente che il
problema
di Berlusconi stava nel fatto che egli non era in grado di
soddisfare tutti questi interessi, o almeno una loro parte
tanto consistente da dargli
maggioranze capaci di fare ciò che ha fatto Renzi. In sintesi,
non c'era trippa a sufficienza per tutti i gatti, o almeno per
una loro parte
consistente.
Finalmente,
dopo oltre due settimane dalla sua presentazione, il Governo
Renzi mette a disposizione tabelle e numeri del disegno di
legge di stabilità, dopo averne discusso in segrete stanze con
burocrati
europei, il cui parere vale, evidentemente, molto di più di
quello del Parlamento e dei cittadini. Emerge in modo ancora
più chiaro, tanto che la Corte dei Conti ne dà una sostanziale
bocciatura, l’impressione iniziale che avevamo avuto,
ovvero quella, per parafrasare Churchill, di un nulla avvolto
dal niente, costruito per mirabolanti slide piene di slogan
elettoralistici. Ma sostanzialmente dannoso.
Le forze sociali confindustriali che, a questo punto devo dire in modo del tutto suicida, continuano a sostenere la narrazione rignanese, sostengono, in piena linea con la comunicazione renziana, che si tratta della prima manovra finanziaria “espansiva” degli ultimi anni. Lo fanno davanti ad una opinione pubblica narcotizzata, privata di chi sia in grado di proporre uno straccio di analisi critica.
Eppure basterebbero poche operazioni algebriche, condotte sui documenti ufficiali di fonte governativa, per capire la direzione di questa manovra. Si parte da un indebitamento netto pari, nel 2015, a 42,5 miliardi. Su tale base di partenza, il Governo stima due scenari previsionali per il 2016: uno detto “tendenziale”, ovvero uno scenario che stima i parametri macroeconomici e finanziari nell’ipotesi che non si intervenga con nuove politiche sull’assetto esistente, ed uno “programmatico”, le cui stime scontano gli effetti previsti da nuove politiche di intervento, come in particolare quelle contenute nel ddl di stabilità. Il primo scenario, quindi, evidenzia, per gli anni a venire, soltanto gli effetti di trascinamento delle politiche fatte nel passato, e, per il 2016, stima un rapporto disavanzo/PIL pari all’1,4%, ovvero a una diminuzione di 19,7 miliardi rispetto al disavanzo del 2015. Leggi tutto
ll 4 novembre 1995 moriva a Parigi il filosofo francese Gilles Deleuze. Doppiozero lo ricorda, a vent'anni dalla morte, con una serie di scritti suoi e su di lui
È possibile “situare” con
precisione la posizione di Gilles Deleuze nella storia della
filosofia. Non aggiungo l'aggettivo “moderna” o
“contemporanea”
perché la storia della filosofia è una sola dal momento che a
definirla non è la successione dei sistemi di pensiero ma la
riproposizione costante e monotona di una sola questione,
quella che concerne la possibilità per la filosofia di cominciare.
Può darsi, cioè, un pensiero puro, un pensiero senza immagine,
un pensiero che sia libero dalle presupposizioni della doxa,
dalle equivoche “evidenze” del senso comune come
dalle direttive morali di un malinteso buon senso?
Oppure la filosofia
è l'impossibile, è il sogno cattivo di una umanità tracotante
che s'illude di potersi spogliare della sua finitezza, della
sua
mancanza e addirittura del suo limite strutturale, la morte,
per coincidere in un punto – la filosofia, appunto! – con il
piano stesso
dell'infinito? Ecco la questione, posta nella sua brutale
semplicità, che attraversa da cima a fondo l'intera filosofia
deleuziana e che ne
spiega l'inattualità, la sorda ostilità che l'ha sempre
accompagnata, gli equivoci di cui è stata vittima, ma anche il
fascino
che essa ha saputo esercitare su chi si avvicinava alla
filosofia perché continuava ingenuamente a credere
nella possibilità di
una “sapienza” che non avesse più l'uomo come sua unità di
misura.
Come tanti studenti di filosofia della mia generazione, io mi sono formato in un tempo – la fine degli anni '70 e gli '80 – in cui la dismissione della filosofia era moneta comune. C'erano dei maestri del pensiero, è vero.
Leggi tuttoDare consigli non richiesti è scortese, lo so, ma spero che gli amici del M5s non se ne abbiano a male se mi permetto, da ormai vecchio amico, di darne qualcuno.
Sempre ragionando in base al sistema elettorale appena approvato (se lo dovessero rimodificare vedremo dopo cosa si profila), il M5s ha discrete possibilità di successo, se arriva al secondo turno. Però, primo consiglio, meglio tenere basso profilo, non gridare alla vittoria anzitempo: serve solo a creare allarme nel fronte avversario ed attivarlo. Potrebbe diventare l’argomento del “voto utile” del Pd per raggiungere il 40% al primo turno ed evitare il secondo. Ricordiamoci della lezione delle europee e dell’infelice slogan “Vinciamo noi”. Meglio un po’ di understatement.
Poi, sappiamo che faranno di tutto per impedire l’affermazione del M5s alle prossime elezioni politiche, ma se non dovesse andare il “piano A”, battere il M5s, c’è da stare sicuri che ci sarà un “piano B”: provare a condizionarlo, addomesticalo o spezzarlo una volta che avesse vinto. Condizionarlo in primo luogo attraverso la burocrazia ministeriale che potrebbe approfittare della relativa inesperienza dei nuovi ministri.
Questo è un punto delicato che spesso sfugge. Si dice “Gli uomini del M5s non sono preparati? Va bene, ma dove stanno tutti questi mostri di bravura nel Pd, Forza Italia e Lega?”. Verissimo, ma loro non hanno bisogno di essere bravi e preparati, sia perchè hanno alle spalle i poteri forti che gli dicono cosa fare, sia perché hanno intorno un’alta dirigenza amministrativa perfettamente omogenea agli interessi dominanti, che sa dove mettere le mani. A dover esser bravi (e molto) sono quelli che si ripromettono (e promettono al paese) di cambiare le cose presenti, di non fare da lacchè dei poteri forti e che, per questo, sono circondati da una burocrazia ostile. Leggi tutto
“Nel nostro paese si sta gradualmente riducendo anche l’eterogeneità delle condizioni praticate alle imprese in ragione della loro dimensione e della loro rischiosità, che si era significativamente accentuata durante la recessione. Dalla metà dello scorso anno la diminuzione dei tassi bancari attivi – che in precedenza aveva riguardato soprattutto le aziende finanziariamente più solide e quelle di maggiore dimensione – si è estesa gradualmente alle altre. La minore dispersione dei tassi è connessa con il più favorevole quadro macroeconomico, che si riflette in un generalizzato miglioramento delle prospettive di reddito; lo confermano le indagini presso le imprese, secondo le quali la quota di aziende che prevede di chiudere in utile il bilancio dell’anno in corso è la più elevata da circa dieci anni” (Governatore Ignazio Visco, 91° Giornata del Risparmio, Roma 28 ottobre 2015).
Da dove nasce tutto questo entusiasmo di industriali quando parlano della riforme di Renzi? Dove la vedono la crescita i mass media quando poi leggi che ad un crollo del tasso di investimento del 30% si assiste oggi ad un recupero di appena lo 0,1%? Cosa è accaduto esattamente con il governo Renzi?
Ce lo spiega in un’intervista ad Affari&Finanza del 2 novembre Patrizio Bertelli, ad di Prada; ecco cosa dice sul Jobs Act: “Ora c'è più sicurezza per l'imprenditore sui costi del lavoro che si devono affrontare. In precedenza l'impresa, assumendo un dipendente a 25 mila euro annui, sapeva per certo che andava incontro ad una spesa di 750 mila euro, dato che si doveva stimare il lavoratore in attività per almeno 25 anni qualunque fossero le sue attitudini e le sue performance".
Ma anche quest’aspetto non spiega il perché Visco informa che le imprese in utile quest’anno saranno ai massimi degli ultimi dieci anni. Leggi tutto
Un ampio fronte di personalità e organizzazioni sociali, sindacali, politiche, ha convocato una assemblea nazionale a Roma per sabato 21 novembre per discutere e dare gambe ad una piattaforma sociale che agisca apertamente per la rottura con l'Unione Europea, l'euro e la Nato. Dunque con tutti quegli apparati che costituiscono il "vincolo esterno" che da troppi anni sta devastando sul piano sociale, democratico e politico il nostro ed altri paesi europei. I tre NO - alla Ue, all'euro, alla Nato - indicano nei fatti un progetto alternativo allo stato delle cose presenti che riapre nel nostro paese il confronto e l'azione politica per un cambiamento di prospettive.
Pubblichiamo qui di seguito la piattaforma e i primi firmatari (tra i quali anche il nostro giornale) impegnandoci ad accompagnare questa proposta prima, durante e dopo l'assemblea del 21 novembre alla quale è prevista anche la partecipazione di attivisti di piattaforme analoghe dalla Grecia e dallo Stato Spagnolo.
***
NO EURO, NO UE, NO NATO
PIATTAFORMA SOCIALE PER IL LAVORO, LA DEMOCRAZIA E LA PACE
Oggi tutti i governi europei, nessuno escluso, praticano le politiche di austerità, di attacco ai diritti sociali e del lavoro, di criminalizzazione dei poveri nativi e migranti, di restrizione della democrazia.
La breve stagione di eresia della Grecia si è per ora conclusa con la resa di quel governo alla Troika e con l'accettazione di un memorandum che sottomette il paese ad essa.
Leggi tutto
Prima che
tutto
accada occorre ragionare e far pensare.
Prima che la canea mediatica fascista, razzista, nazionalista,
militarista, perbenista e di sinistra
falsamente antagonista inizi ad ululare occorre dire,
scrivere, organizzare. Prima ancora che arrivi il conteggio
definitivo delle vittime.
Prima che le colpe si riversino sui più deboli e sugli ultimi
occorre prepararne la difesa.
Prima che i potenti cerchino il nostro
abbraccio occorre denunciarli.
Prima che gli incoscienti accorrano a manifestare con
l’imperialismo, il militarismo e il patriottismo,
come ai tempi di Charlie Hebdo, occorre smascherare i moventi
e i mandanti.
Da tempo vado scrivendo che la guerra è alle porte e nella notte tra il 13 e il 14 novembre ci è entrata in casa. Solo gli imbecilli, che troppo spesso governano le società, potevano pensare che la guerra rimanesse sempre lontana. Solo un pubblico rintronato dai media e dai social network poteva pensare di continuare a godersi lo spettacolo dalla finestra di uno schermo. Solo una sinistra fumosa e pervertita nei suoi ideali e nei suoi principi poteva negarne l’attualità. Nessuno ha ragionato a sufficienza sul significato di “guerra asimmetrica”.
Certo lo hanno fatto i militari, i servizi più o meno segreti, gli esperti di geopolitica e hanno usato le loro conoscenze per diffondere il panico e la paura. Una paura superficiale, strumentale al fascismo strisciante e al nazionalismo razzista. Una paura irrazionale, ma ancora lontana. Uno sfondo per una rappresentazione politica e governativa ancora tutta rivolta alle strategie di governo e di mantenimento del consenso.
Leggi tuttoCi sarà tempo per analisi più
approfondite su quanto accaduto ieri sera a Parigi. Per il
momento è importante fissare un concetto: l'attacco portato
alla capitale francese
va inserito nel contesto della Grande Guerra Mediorientale in
corso da anni. Una guerra di cui l'occidente ha creato le
premesse, prima con la
spartizione colonialista seguita alla fine dell'impero
ottomano, poi con il pieno sostegno all'occupazione sionista
della Palestina, infine con le
guerre scatenate all'inizio di questo secolo, in primo luogo
con l'aggressione e l'occupazione militare dell'Iraq.
Adesso l'epicentro dell'immane conflitto che sconvolge il Medio Oriente è in Siria. E non è difficile ricondurre a quanto avviene in questo paese alcuni sanguinosi attentati dell'ultimo mese: quello del 10 ottobre ad Ankara (cento vittime), quello che ha colpito l'aereo russo sul Sinai il 31 ottobre (224 morti), quello dell'altro ieri a Beirut (41 vittime).
Quello di Parigi completa dunque un quadro ben preciso. Ovviamente le sigle degli autori di ognuna di queste azioni può anche essere diversa, e le rivendicazioni in questi casi vanno prese con una certa prudenza, ma il contesto a cui guardare è sempre lo stesso.
Leggi tuttoEra pronosticato. Ora si vede che significa. La vita politica europea sarà sconvolta. Il fanatismo: una facciata che non spiega la sua 'intelligence'
L'avevamo pronosticato. Adesso si
vede meglio
cosa significa. Tutta la vita politica europea sarà sconvolta
per sempre. Non ci sarà possibilità di difesa per le classi
sfruttate, subalterne. Ogni momento della vita collettiva sarà
rubricato come problema di ordine pubblico. Controlli
generalizzati in nome
della difesa contro il terrorismo. La nostra vita diverrà un
eterno passaggio attraverso un metal detector.
Politici e giornalisti, che ripetono le favole che si sono raccontate e ci hanno raccontato, sono nella più grande confusione.
Adesso si vede l'importanza di avere, o di non avere, una televisione che organizzi la difesa delle grandi masse.
Ed è solo l'inizio. La Russia, con il suo intervento in Siria, ha cambiato il quadro politico mondiale. Il piano di ridisegnare la mappa medio-orientale è fallito. Daesh è, di fatto, sconfitta là dov'è nata. Dunque i suoi manovratori spostano l'offensiva in Europa.
Obiettivo chiarissimo: terrorizzare l'Europa e costringerla sotto l'ombrello americano. A mettere a posto la Russia penserà Washington. Del resto l'Airbus abbattuto nel Sinai, in termini di sangue russo innocente, è equivalso al massacro parigino. E non ce ne eravamo accorti.
Germania e Francia (il match di calcio) sono nuovamente avvertite. E, con loro, Merkel e Hollande. I due leader europei che stavano cambiando rotta per uscire dal cappio americano sono avvertiti. Leggi tutto
“Peggio che a gennaio”,
“peggio di Charlie
Hebdo” sono i commenti a caldo
dell’ennesima strage a Parigi, ancora di matrice islamista
secondo le prime
ricostruzioni.
Si tratta di un attacco in grande stile, peggiore di quelli verificatosi finora in Francia (Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015, Saint-Quentin-Favallier il 26 giugno e l’attacco al treno ad alta velocità Amsterdam-Parigi il 21 agosto): è un attacco multiplo, coordinato e simultaneo: si tratta quindi di una rete terroristica con decine di affiliati che avrebbero operato nella capitale, per la seconda volta, senza essere intercettati dai radar dei servizi francesi. A distanza di neanche tre mesi dall’ultimo attentato, l’evento non è realisticamente credibile, a meno che non si accetti la totale incompetenza e fallibilità delle forze di sicurezza francesi.
Gli attentati sono multipli e concomitanti: al Teatro Bataclan una lunga sparatoria ed esecuzioni sommarie, poi l’irruzione delle teste di cuoio per liberare un centinaio di ostaggi; due esplosioni attorno allo Stade de France dove si teneva l’amichevole Francia-Germania cui assisteva anche il presidente François Hollande; una sparatoria davanti al ristorante “Petit Cambodge” nel 10ecimo arrondissement; un’altra conflitto a fuoco nel quartiere Halles, primo arrondissement. La Repubblica parla inizialmente di 40 morti, i siti d’informazione francesi di “plusieurs dizaines de morts”, il sito israeliano Debkafile stima 60 vittime. Sono 100 vittime secondo Le Figaro verso l’una e trenta. Leggi tutto
Dopo la strage di Parigi. Perché l’unità nazionale, invocata da Hollande e Le Pen (e quelli come loro) è l’altra faccia del terrore. Contro ogni fascismo barbuto o in felpa
Se i
parigini, se tutti noi, pensassimo che stiamo vivendo lo
stesso panico, la medesima angoscia e il lutto incolmabile di
chi abita a
Bagdad, Gaza, nel Rojava, a Tripoli, Kabul, Belgrado, vive e
muore da anni come target di una guerra santa al contrario. Se
fosse chiaro a tutti che
la mattanza di Parigi è il rinculo drammatico della guerra
globale, dei raid aerei, dell’azione dei contractor e delle
truppe regolari
della santa alleanza occidentale. Se fosse chiaro a tutti che
ad armare i gesti folli di chi si lascia esplodere in uno
stadio è anche la
pressione delle multinazionali, degli apparati
militari-industriali, sulle oligarchie politiche, da questa e
da quella riva del Mediterraneo. La
barbarie imperialista e islamista si alimentano a vicenda
trascinandoci in uno stato di emergenza dove l’unità
nazionale, proclamata da
chi conduce quella barbarie, è la formula magica per legare le
vittime ai carnefici, per limitare l’agibilità degli spazi
pubblici, per soffiare ancora sul fuoco della guerra globale.
L’unica risposta alle guerre e il terrorismo è l’unità dei lavoratori e dei popoli, al di là delle loro origini, del colore della pelle, della religione. Per disarmare il terrorismo dobbiamo porre fine alle guerre imperialiste volte a perpetuare il saccheggio della ricchezza delle nazioni dominate dalle multinazionali, costringendo al ritiro le truppe occidentali da tutti i paesi in cui sono presenti, in particolare in Siria, Iraq , l’Africa. Fino ad allora la guerra è la loro, i morti saranno nostri.
Essere parigini e siriani, nello stesso tempo, kurdi e palestinesi, ribellarsi all’imperialismo e all’oscurantismo, ai fascimi barbuti e a quelli in doppio petto o in felpa.
Leggi tuttoL’idea di mondo è la nuova edizione ampliata di un libro ormai classico, che Paolo Virno pubblicò nel 1994 per manifestolibri con il titolo Mondanità. Il testo era composto dal saggio omonimo e da un altro intitolato Virtuosismo e rivoluzione, ai quali ora se ne accompagna un terzo, scritto nel 2014: L’uso della vita. Quest’ultimo – avverte l’Autore – non è da considerarsi come un’appendice o un «contrappunto al canovaccio teorico elaborato vent’anni or sono», bensì come una sorta di «enunciazione stenografica, scandita da tesi perentorie, di un programma di ricerca ancora da realizzare».
Muovendosi costantemente di qua e di là dal crinale che separa filosofia e politica, cercando di produrre ovunque sia possibile la scintilla che solo attraverso il mantenimento della loro distanza mette in comunicazione riflessione teorica e analisi politica, Virno riesce ad indicare le ambivalenze fondamentali, e dunque i luoghi di un conflitto possibile, che le forme di vita contemporanee ci presentano.
Il problema di fondo che attraversa l’intero testo, forse anche quello più urgente, riguarda i rapporti variabili e complessi che sussistono oggi tra poiesis, praxis e theorein, ovvero tra lavoro, azione e pensiero. Già Virtuosismo e rivoluzione si apre con la constatazione (attualissima, come suggerisce fra l’altro la sua ripresa nel recente lavoro di Daniele Giglioli, Stato di minorità), per cui «nulla sembra così enigmatico, oggi, quanto l’agire. Enigmatico e inattingibile». Virno rende ragione nel modo più chiaro di questa nostra difficoltà nei confronti dell’agire politico, mostrando come essa dipenda dal fatto che il lavoro contemporaneo ha «assorbito i tratti distintivi dell’agire politico», avendo messo a valore le stesse facoltà umane in generale (e in particolare l’intelletto) che costituiscono la strumentazione basilare di ogni agire: «nell’epoca postfordista, è il Lavoro a prendere le fattezze dell’Azione […]. Leggi tutto
Bombardare – ha dichiarato la ministra della difesa Pinotti (Pd) – «non deve essere un tabù». Cade così in Italia ed Europa il tabù della guerra e, con esso, anche quello del nazismo. A Kiev, riferisce l’Ansa in un documentato reportage (4 novembre), arrivano ogni settimana da mezza Europa (Italia compresa) e dagli Usa decine di «professionisti della guerra» reclutati soprattutto da Pravy Sektor e dal battaglione Azov, di chiara impronta nazista.
I battaglioni neonazisti fanno parte della Guardia nazionale, addestrata da istruttori statunitensi e britannici. In tale ambito vengono addestrati e armati anche gli stranieri, inviati quindi a combattere nel Donbass contro i russi di Ucraina. Al rientro in patria, viene fornito loro «il passaporto ucraino, una sorta di lasciapassare che può servire in tutto il mondo».
Il quadro è chiaro. L’Ucraina di Kiev, di fatto già nella Nato sotto comando Usa, è divenuta il «santuario» del risorgente nazismo nel cuore dell’Europa. Il regime di Kiev ha messo fuori legge non solo il Partito comunista ma il comunismo in quanto tale, la cui professione viene considerata reato.
Ha trasformato l’Ucraina in centro di reclutamento di neonazisti provenienti da paesi europei ed extraeuropei, di fatto selezionati, addestrati e armati dalla Nato. Dopo essere stati messi alla prova in azioni militari reali nel Donbass, vengono fatti rientrare con il «lasciapassare» del passaporto ucraino nei loro paesi, Italia compresa. Qui i più capaci entrano nella nuova Gladio, pronta, se necessario, a provocare altre «piazze Maidan» (o peggio) in Europa. Tutto questo con la connivenza dei governi europei. Leggi tutto
Che il prodotto interno lordo (d’ora in poi PIL) sia un modo un po’ antiquato ed altamente discrezionale di misurare il flusso di ricchezza prodotto annualmente in un paese non è un segreto. Basti solo pensare al fatto che alcune grandezze vengono imputate al prezzo di mercato (quasi tutti i beni ed i servizi oggetto di transazioni private), altre al costo di produzione (i servizi offerti dal settore pubblico) ed altre, infine, non vengono computate affatto (per esempio, il lavoro domestico e di cura). Se poi siete proprietari di un’abitazione, allora il reddito presunto derivante da quel “servizio abitativo” finirà nel calcolo del PIL anche se voi non avete incassato (né pagato) un solo euro. Insomma, per la contabilità nazionale voi siete dei moderni “rentier” e non lo sapevate. Curioso, eh? Potremmo continuare con la rassegna di bizzarrie contabili, ma mi fermo qui. Tanto pare proprio che dovremo abbandonare il PIL – che ormai criticano un po’ tutti: ambientalisti, politici, religiosi, economisti eterodossi ed ortodossi – e basare le nostre discussioni macroeconomiche future su qualche altra grandezza, che so, su qualche indice di misurazione del benessere sociale o meglio della felicità. O magari su qualche indicatore ecologico. Del resto, tali strumenti si sono moltiplicati negli ultimi anni, attraendo finanziamenti cospicui. Non v’è organizzazione internazionale che non ne abbia messo a punto uno. Basta solo scegliere il migliore, o i migliori, e al diavolo il PIL, no?!
No. Confesso, anzi, che la sola prospettiva mi atterrisce. Già li sento argomentare “sì, siamo al quarto trimestre di crescita negativa, ma, al bando i vecchi arnesi novecenteschi! L’indice di felicità è in ripresa. L’austerità funziona!”. Leggi tutto
“Il capitalismo, che
prese le mosse dal capitale usuraio minuto,
termina la sua evoluzione
mettendo capo a un capitale usuraio gigantesco”
“Il mondo si divide in un piccolo gruppo di stati usurai e in una immensa massa di stati debitori”
“L'oligarchia finanziaria
attrae, senza
eccezione, nella sua fitta rete di dipendenze
tutte le istituzioni
economiche e politiche della moderna società borghese”
(Vladimir Ilic Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916)
Viaggio nella crisi parte II. Dopo l'articolo preliminare di Rita Bedon, che illustra alcuni aspetti teorici generali della crisi (http://www.lacittafutura.it/economia/viaggio-nella-crisi.html), proseguiamo l'indagine esaminando il carattere dell'odierno imperialismo transnazionale. Seguiranno contributi che illustrerannno in maniera più sistematica il quadro teorico in cui si inseriscono gli elementi fattuali qui esaminati, per proseguire quindi con le prospettive dell'Europa a guida tedesca e le possibili vie di uscita dalle politiche liberiste europee
Il crollo del blocco del cosiddetto socialismo reale, fu principalmente esito non di un moto di liberazione dei popoli ma della vittoria della guerra fredda da parte del blocco imperialista a guida statunitense. Liquidato il bipolarismo USA-URSS, parve ai più che il mondo fosse entrato in una fase unipolare ad egemonia americana difficilmente contrastabile. Leggi tutto
Manca un mese dalla
COP-21, a Parigi, che dovrebbe cambiare tutto – e che
probabilmente non cambierà niente di
rilevante. Ma il cambiamento avviene, anche se in modi che
spesso ci sorprendono e che potrebbe non farci piacere di
vedere. Il decennio scorso
è stato un periodo di enormi cambiamenti ed anche un
decennio di giganteschi sforzi mirati ad evitare il
cambiamento a tutti i costi. E' una
delle molte contraddizioni del nostro mondo. Lasciate
quindi che vi racconti la storia di questi anni difficili.
***
- L'accelerazione del cambiamento climatico. Nel 2005, il cambiamento climatico sembrava essere ancora un'animale relativamente domabile. Gli scenari presentati dal IPCC (a quel tempo aggiornati al 2001) mostravano aumenti della temperatura graduali e i problemi sembravano essere lontani decenni – se non secoli. Ma il 2005 è stato anche l'anno in cui è diventato chiaro che limitare il riscaldamento a non più di 2°C era molto più difficile di quanto si pensasse in precedenza. Allo stesso tempo, il concetto che il cambiamento climatico è un processo non lineare ha iniziato a penetrare nel dibattito e il pericolo di un “cambiamento climatico fuori controllo” e stato sempre più compreso. Gli eventi del decennio hanno mostrato la rapida progressione del cambiamento climatico. Uragani (Katrina nel 2005, Sandy nel 2012 e molti altri), la fusione delle calotte glaciali, la fusione del permafrost, che rilascia il suo carico mortale di metano immagazzinato, enormi incendi forestali, stati interi che si prosciugano, la perdita di biodiversità, l'acidificazione degli oceani e molto altro. Leggi tutto
In fondo, v’era da aspettarselo. È un copione che si ripete da anni, sempre uguale a se stesso: l’ideale arma di distrazione di massa per ottundere programmaticamente le coscienze e dirottare l’attenzione su contraddizioni estinte, di modo che mai si possano vedere quelle che insanguinano il presente.
La piazza di Bologna, ove si erano dati convegno salviniani e altri esponenti dell’armata Brancaleone di una destra che si stenta a capire in cosa si identifichi se non nel mercato, è degenerata nell’ennesimo, patetico teatrino dello scontro in ritardo tra fascisti e antifascisti: e questo – non è superfluo notarlo – a settant’anni dalla fine del fascismo reale.
E così, ancora una volta, si è creata l’impressione generalizzata che il pericolo primo e primissimo sia, in questo Paese, il fascismo mussoliniano e non la dittatura dei mercati e il classismo capitalistico, il folle dogma della crescita senza limiti e le derive oligarchico-finanziarie dell’Unione Europea, la disoccupazione e l’assalto del neocapitalismo al lavoro; non il Ttip e il gruppo Bilderberg, ma sempre e solo l’eterno nemico fascista, l’alibi ideale per lottare contro nemici morti e sepolti e non dire nulla su quelli in carne e ossa.
Insomma, l’ennesima carnevalata, giusto per evitare di parlare di questioni serie. E il circo mediatico rilancia con entusiasmo, giubilante all’idea di chiacchierare dell’inutile. Chiacchiera, curiosità, equivoco: ecco il segreto della società di massa e della democratica non-libertà. Parlare di tutto senza comprendere nulla; su tutto equivocare, destare la curiosità sulle sciocchezze più macroscopiche, di modo che l’attenzione mai cada, casualmente, su questioni di rilievo. Et voilà, il gioco è fatto. Leggi tutto
Berlusconi ci aveva provato con la Protezione Civile di
Bertolaso, il suo ras delle Grandi Opere e dei Grandi
Eventi per il
business del ventunesimo secolo: un Italia da trasformare
interamente in un lucroso enorme luna park per turisti.
Varie ed eventuali
implicazioni criminali di quel tentativo a parte, dal punto
di vista politico-economico anche Matteo Renzi sembra
pensare ad un progetto del genere,
almeno fin da quando ha sostituito Lupi alle Infrastrutture
(ex Lavori Pubblici) con il suo fedelissimo Delrio.
Non sorprende quindi che abbia
appena conferito alla Protezione Civile poteri
straordinari, dopo aver affondato Marino consegnando
il Giubileo al renziano Team Expo,
del quale ogni giorno i media embedded tessono le lodi con
toni agiografici.
Anche il Vaticano sembra partecipare attivamente al
programma.
Millenario fiuto per gli affari. E l’odore dei soldi
inasprisce la guerra fra bande. Oltretevere come nel PD.
Per il riutilizzo
dell’area Expo sono già in arrivo almeno duecento milioni di
euro.
Non ci sarebbe stato bisogno in realtà di nessun
Vatileaks per sapere che la Chiesa Cattolica è una delle
multinazionali più avide e corrotte del pianeta. E la
gestione delle attrazioni
e dei flussi turistici è sempre stata una delle sue
specialità. Leggi tutto
In grande ascesa nei sondaggi, il nuovo partito spagnolo potrebbe essere la sorpresa al voto del 20 dicembre. Il giovane leader Albert Rivera, animale mediatico, è onnipresente in tv. Gli arancioni incarnano una destra moderna, inneggiano all’anticasta ma con un programma pro-austerity. È il tentativo del sistema di fermare Iglesias e il cambiamento reale del Paese
El cambio sensato.
Gli indignados di velluto. In Spagna sembra l’ora di
Ciudadanos, il nuovo partito anticasta,
ma pro-austerity, che sta volando nei sondaggi. A
parole né di destra né di sinistra, molto tatticismo, toni
populisti, un capo
indiscusso e posizioni moderate. La Podemos di centrodestra.
L’antidoto del sistema all’incubo di un reale ed effettivo
cambiamento. In
grande ascesa è il suo leader, Albert Rivera, considerato il
premier più amato in vista delle elezioni nazionali del 20
dicembre. Il
politico del momento. Onnipresente in tv.
Quasi 6 milioni di spagnoli davanti al televisore hanno seguito, due settimane fa, il confronto televisivo su La Sexta tra lui e Pablo Iglesias.
Un confronto in nome del rinnovamento e contro quel bipartitismo (Psoe-PP) ormai screditato. Rivera se está comiendo a Iglesias, “se lo sta mangiando”, è il commento più gettonato sui social network. Camicia bianca, jeans, faccia pulita, volto rassicurante, parla chiaro e diretto. Un animale mediatico. Sicuro di sé va sempre a braccio, anche ai comizi. “Abbiamo proposte per migliorare e riformare il Paese, senza urla e promesse irrealizzabili. Siamo capaci di governare, senza il sostegno dei poteri forti e privilegi”, va ripetendo da una trasmissione all’altra.
Il sistema può dormire sonni tranquilli. Ciudadanos è l’antidoto perfetto per rallentare la diffusione di quel virus del cambiamento iniziato col 15M. Quasi un prodotto in provetta per sottrarre consensi a Podemos che, con il tatticismo ed estrema pragmaticità, era riuscita a rappresentare il “voto di rottura” e ottenere consensi al di fuori del recinto classico della sinistra arrivando agli strati più moderati. Ora le cose cambiano. Leggi tutto
Il saggio di Marco Revelli «Dentro e contro» (Laterza) denuncia il «populismo di governo» imperante, ma relega sullo sfondo il fatto che si configura come risposta ai mutati rapporti tra le classi sociali
Gli anni della grande
crisi hanno recato in Italia evidenti novità politiche.
Imponendo scenari inediti, ma anche portando
a compimento processi e tendenze in corso ormai da molti
anni. Tra questi due corni, tra continuità e rotture, si
svolge la
narrazione della più recente storia politica italiana che
Marco Revelli condensa in un breve saggio (Dentro
e contro, Laterza,
pp. 140, euro 14) con l’intento di ricostruire i passaggi
e le condizioni che hanno condotto all’attuale stile di
governo, alle
forme della politica su cui poggia, al suo programma di
ridisegno degli assetti istituzionali e delle relazioni
sociali. Programma che ruota
attorno all’opportunità di cavalcare l’evidente crisi della
democrazia rappresentativa indirizzandola verso
l’instaurazione
di un rapporto tra governanti e governati fondato sulla
subordinazione consensuale dei secondi ai primi a tutto
vantaggio
dell’efficienza competitiva del «sistema-paese» sul mercato
globale. È in questo quadro che si inscrive lo svuotamento
dei corpi intermedi, partiti e sindacati, e delle assemblee
elettive, in primo luogo il Parlamento, a favore di un
costante
rafforzamento dell’esecutivo. Il quale assume, tanto sul
piano ideologico quanto su quello operativo la forma di un
«populismo
dall’alto», o «istituzionale», o «di governo» che si appella
al rapporto diretto tra il premier e la
«gente», rappresentata dalla platea sempre più risicata
e imbrigliata degli elettori. Se scrivo «gente» non
è per caso.
Il regno del «fare»
Si tratta infatti di un «populismo» assai singolare non facendo riferimento alcuno all’idea di «popolo» in quanto soggettività politica, sia pure astratta o immaginaria, e fonte della sovranità. Il che rende non poco problematico il ricorso estensivo a questa categoria politica nel descrivere un potere che si rivolge a quel regno borghese e operoso del «fare» e del mercanteggiare che siamo soliti chiamare, con indulgente simpatia, non «popolo» ma «società civile». È alle corporazioni che la compongono (con un occhio di riguardo per le più potenti), agli interessi e agli appetiti che la attraversano, alle pulsioni che la agitano, agli scambi che vi si svolgono, che la retorica governativa si rivolge, cercando di blandirne, di finanziaria in finanziaria, questo o quel segmento mascherato da «interesse generale». Leggi tutto
Ormai, dopo la sceneggiata delle dimissioni poi ritirate, poi le dimissioni in massa dei consiglieri Pd, poi la proposta di lista unica anti M5s (l’uscita più divertente del 2015) eccetera, di quello che succede nel consiglio comunale di Roma si dovrebbe parlare nella pagina degli spettacoli. Comunque, cerchiamo di parlare seriamente (proviamoci).
In teoria, si dovrebbe votare in primavera e si immagina in contemporanea a Milano, Napoli, Bologna e Torino. Il che ne farebbe un test nazionale di prima importanza, trattandosi delle quattro maggiori città italiane, più un’altra delle prime dieci). Nelle altre città, il Pd probabilmente avrà difficoltà (soprattutto Milano), ma, alla fine, è possibile che tenga o abbia un risultato dignitoso. In qualche caso può addirittura aumentare. Dunque un test che, salvo sorprese, può segnalare complessivamente un Pd stabile o in contenuta flessione: niente di drammatico.
Il guaio è Roma, dove il Pd rischia di andare sotto il 20% e restare fuori del ballottaggio. E’ la Capitale ed un capitombolo del genere avrebbe sicuramente riflessi nazionali, se poi ci si aggiungesse un risultato mediocre a Milano, la partita delle politiche apparirebbe compromessa. Per cui non è da escludere che il Pd voglia votare il più in là che si può, un po’ per far dimenticare questo sfascio un po’ per fiaccare una eventuale lista Marino concorrente, un po’ per avere tempo di riorganizzarsi e prender fiato.
Con la scusa del giubileo, ci sarebbe la scappatoia per superare il dicembre 2016 e votare nei primi del 2017, magari insieme alle politiche anticipate. Sin qui Renzi ed i suoi hanno giurato che si voterà in primavera, ma si fa presto a cambiare idea.
Leggi tuttoFesta grande, come nelle speranze, per la presentazione di “Sinistra Italiana”, ennesimo contenitore politico-elettorale per riunire molti dei volti che sono scomparsi dai radar mediatici da parecchio tempo e molti altri che – appena usciti dal Pd – sanno benissimo di rischiare la stessa sorte in poche settimane. Un lungo elenco che va da Vendola a Fassina, dai neo-fuoriusciti D'Attorre e Galli a Civati, da Cofferati a Corradino Mineo, dal redivivo Giordano a Paolo Ferrero.
Molta gente, persone che non riescono a entrare nel teatro Quirino, una domanda di rappresentanza non marginale, discorsi speranzosi come se ne sentono ogni volta che si deve presentare un “nuovo inizio”. Molti buoni propositi, come ridare spazio e diritti al mondo del lavoro, metter fine alle politiche di austerità, mandare in soffitta le deformazioni anticostituzionali di Renzi & co., ecc. Ma... Uniti da cosa e per fare che?
Diversi compagni, “sciolti”, ci hanno chiesto nei giorni scorsi il perché della nostra stroncatura di questo tentativo, qualcuno anche accusandoci di preferire la solitudine dei “pochi ma buoni” all'immersione nelle “differenze” di una massa più vasta.
Diciamola così. A tutti piace essere in tanti, anche a noi. A tutti piacerebbe stare in un movimento e/o un'organizzazione vasta, socialmente innervata, coerente e determinata, necessariamente polifonica nelle sue capacità di espressione e ricerca. E anche noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di costruirla, incazzandoci silenziosamente ogni volta che altri compagni bravissimi, ostinati tessitori di conflitto sociale e lotta politica, si fermano un attimo prima di approfondire i rapporti, unire le forze, assumere una visione più ampia, nutrire ambizioni politiche all'altezza della situazione. Leggi tutto
L'amico Marino Badiale, dopo un'analisi sostanzialmente condivisibile della situazione generale, così concludeva il suo articolo dell'altro ieri dal titolo LA FORZA DI RENZI:
«In secondo luogo, se quanto sopra detto ha senso, è chiaro che chi voglia opporsi alla brutale regressione sociale e civile verso la quale ci stanno portando gli attuali ceti dirigenti, non può fare affidamento su improbabili sollevazioni popolari. Purtroppo molti attivisti antisistemici sembrano condividere la rozza idea che il peggioramento delle condizioni materiali della masse faciliti l'opera dei rivoluzionari. I fatti dimostrano che non è così. La crisi, l'attacco a redditi e diritti, invece di suscitare sollevazioni, è lo strumento fondamentale per ridisegnare Stato e società in funzione antipopolare, regressiva, barbarica. Il peggioramento delle condizioni di vita sta portando all'accettazione passiva di una realtà di impoverimento e regressione. La rabbia che tutto questo genera non si traduce in politica ma in imbarbarimento della vita quotidiana. Chi sta sotto non si ribella contro chi sta sopra ma se la prende con il proprio vicino, o con chi sta ancora più sotto. Tutto questo si radica, io credo, in aspetti profondi della configurazione che la psiche umana ha assunto all'interno della società attuale, aspetti che purtroppo gli attivisti antisistemici non tengono in considerazione».
Un quadro desolante. Anche noi riteniamo "rozza l' idea che il peggioramento delle condizioni materiali della masse faciliti l'opera dei rivoluzionari". Tuttavia dissentiamo dal quadro sconfortante dipinto da Badiale. Si tratta della vecchia e banale diatriba tra la schiera dei "Pessimisti" e la falange degli "ottimisti"—nella quale noi ci iscriviamo? No, c'è dell'altro. C'è una lettura diversa della realtà sociale. Leggi tutto
Cosa
hanno imparato i governi dalla crisi finanziaria?
Potrei scriverci un’intera rubrica
specificandolo nel dettaglio, oppure potrei spiegarlo con
una sola parola, niente.
In
realtà dire così è anche troppo generoso. Le lezioni imparate sono contro-lezioni,
anticonoscenza,
nuove politiche, che difficilmente potrebbero
essere meglio progettate per garantire il ripresentarsi
della crisi, questa volta con maggiore
impulso e un minor numero di rimedi.
E la crisi finanziaria è solo una delle molteplici crisi – la riscossione delle imposte, la spesa pubblica, la salute pubblica, soprattutto tutta l’ecologia – che le stesse contro-lezioni stanno accelerando.
Un passo indietro e si può vedere che tutte queste crisi nascono da una stessa causa. Gli speculatori con enorme potere e portata globale vengono dispensati dalla moderazione democratica. Questo a causa di una corruzione di base nel cuore della politica. In quasi tutte le nazioni, gli interessi delle élite economiche tendono ad avere più peso sui governi rispetto a quelli dell’elettorato. Le banche, le aziende e i proprietari terrieri esercitano un potere inspiegabile, che funziona con un cenno del capo e un occhiolino, all’interno della classe politica. Il governo d’impresa sta cominciando a sembrare un Gruppo Bilderberg senza fine.
Come un articolo del professore di diritto Joel Bakan, nel Cornell International Law Journal, sostiene, si stanno verificando contemporaneamente due disastrosi cambiamenti. Da un lato, i governi stanno rimuovendo le leggi che limitano le banche e le imprese, sostenendo che la globalizzazione rende gli stati deboli e una efficace legislazione impossibile. Invece, dicono, dovremmo permettere a coloro che detengono il potere economico di autoregolarsi. Leggi tutto
Joseph Stiglitz, Larry Summers,
Olivier Blanchard, Brad DeLong, Paul Krugman stanno
contribuendo negli ultimi anni ad un significativo
riposizionamento del mainstream economico.
Questi economisti, tuttavia, non si muovono sulla stessa
linea. Stiglitz, come vedremo, pare ormai aver abbandonato
il mainstream. Blanchard,
invece, sta tentando di salvarlo aumentando la dose di
keynesismo nei modelli “New Keynesian”. Summers si colloca a
metà tra i
due: pur non avendo sposato un nuovo paradigma, sente tutte
le limitazioni del vecchio. Krugman è impegnato invece in un
ritorno al
“vecchio” keynesismo della cosiddetta sintesi neoclassica
(il modello IS-LM) prima della rivoluzione delle aspettative
razionali.
Larry Summers e l’isteresi
L’isteresi, in fisica, è la tendenza di una certa grandezza a conservare “memoria” dei suoi stati precedenti. Se ad esempio si sottopone un pezzo di ferro ad un campo magnetico, esso rimarrà parzialmente magnetizzato anche dopo averlo allontanato dal campo. Nell’economia mainstream, l’isteresi fu introdotta dallo stesso Summers e da Blanchard in un articolo seminale[1] del 1986 nel quale si cercava di spiegare la permanenza della disoccupazione in Europa.
Leggi tuttoLa prima impressione che sorge di fronte alla violenza operata a Bologna contro i manifestanti è di scoramento. La partecipazione non si fa solo, ma si fa anche in piazza. Pensare che non ci siano le condizioni di possibilità per tali movimenti a fronte di una tale violenza, è quasi istintivo. Come organizzare una resistenza concreta, se poi questa resistenza può essere “disattivata” senza troppa difficoltà? Come pensare di costruire un movimento partecipato, costruttivo se in queste modalità terminano moltissime delle manifestazioni più partecipate degli ultimi anni?
Mi pare importante cercare di ribaltare quest’impressione, senza dimenticare la gravità della situazione e i problemi che questa svolta alla Bava Beccaris della gestione dei problemi di agitazione sociale comporta.
In effetti è esattamente il contrario. L’utilizzo massivo di questo tipo di violenza, lungi dal manifestare una forza del sistema (mi si perdoni l’utilizzo di questi termini così vaghi, ma vorrei non parlare solamente a chi ha studiato filosofia) ne manifesta una profonda debolezza. Cos’è il potere? Due cose bisogna dire: in primo luogo, che il potere non sta nelle istituzioni. Il potere sta, semplificando, nelle relazioni. Il potere è una relazione; in quanto relazione non può non suscitare costantemente delle resistenze, delle difficoltà, degli scontri; questi scontri il potere può gestirli oppure no. Nella seconda metà del Novecento, con molte difficoltà, queste difficoltà sono state incanalate e rese controllabili nella contrattazione sindacale, nella rappresentazione partitica, nel Welfare, negli alti salari. Oggi, al volgere del 2015, niente di tutto questo esiste più. Leggi tutto
Expo non finirà di propinarci slogan propagandistici nemmeno dopo la sua fine. Prima ha millantato l’obiettivo di “nutrire il mondo”, ora, nel momento in cui si tratta di riqualificare l’area che ha ospitato l’evento (esorcizzando i più che fondati timori di nuove, colossali operazioni speculative) il governo presenta un piano che promette addirittura di regalarci “una vita più lunga e di qualità”. Così esordisce un lunghissimo (due pagine piene) articolo di Enrico Marro sul Corriere di domenica scorsa.
Come potrà essere trasformato in fatti un annuncio tanto ambizioso? Costruendo un polo internazionale di ricerca e tecnologia applicate che arruolerà 1600 ricercatori italiani e stranieri con il prestigioso contributo dell’Istituto italiano di tecnologia diretto da Roberto Cingolani (esperto in nanotecnologie di fama mondiale), di altri centri di eccellenza e di varie università (fra cui la Statale e il Politecnico di Milano). Fra i campi interessati la genomica (per combattere il cancro e altre malattie letali); lo sviluppo di nuovi materiali da utilizzare nell’alimentazione, nello smaltimento dei rifiuti e nella tutela ambientale; l’uso dei Big Data per sviluppare nuovi modelli per le analisi socioeconomiche e molto altro. Come contenere l’entusiasmo di fronte a tanto ben di dio?
Eppure basta leggere fra le righe per cogliere alcuni motivi di perplessità. Fra i partner privati del progetto troviamo infatti elencate, fra le altre, le seguenti imprese multinazionali: Ferrero, Barilla e Nestlé per il settore agroalimentare, IBM, Google e St Microelectronics per le Information Technologies, Bayer, Dupont e l’industria farmaceutica italiana per il settore chimico farmaceutico. Ora non è necessario essere trinariciuti antagonisti per dubitare del fatto che la prima preoccupazione di questi nobili signori sia donarci “una vita più lunga e di qualità” piuttosto che gonfiare il portafogli. Non per essere pregiudizialmente contrari alla ricerca applicata e ideologicamente a favore di quella pura, ma questo progetto puzza di integrazione accelerata fra pubblico e privato. Un obiettivo che i governi neoliberisti italiani perseguono da decenni, incontrando resistenze “corporative” che in questo modo potrebbero essere bypassate, onde poter finalmente veleggiare verso il modello americano (un Paese che, dati statistici alla mano, non ha per nulla regalato ai suoi cittadini una vita lunga e felice, e dove la privatizzazione della ricerca universitaria ha piuttosto prodotto montagne di brevetti e fatto levitare i prezzi di prodotti e servizi, sia nel campo del software che in quello farmaceutico). Leggi tutto
La tendenza culturale dominante nella società e anche nel mondo della scuola è quella di sottolineare le negatività, quello che non va e soprattutto di pensare che non possiamo fare nulla e cambiare nulla. Insomma la Speranza come atteggiamento critico verso il presente teso ad usare le potenzialità e anche le contraddizioni che viviamo per guardare il futuro e trasformare le cose nel senso del Bene, del Giusto e del Bello non sembra fare parte delle condotte umani attuali in gran parte schiacciate sul vivere narcisista e individualistico.
L’essere spettatori, consumatori sfrenati e ansiosi perché con sempre meno risorse a disposizione porta ad un atteggiamento tipico dello schiavo o del servo della gleba che non spera niente e subisce quello che sembra un destino ineluttabile. Questo atteggiamento si è rafforzato poiché la pedagogia neoliberista ha diffuso l’idea che oltre il capitalismo non c’è un altro orizzonte possibile visto che tutti i tentativi di rivoluzioni e le diverse utopie socialiste e comuniste avrebbero prodotto solo danni e crimini. Il principio depressivo attuale (di non speranza esistenziale nel mondo della precarietà come regola di vita) è quello di non sperare che sia possibile il cambiamento verso l’umanizzazione, di ripiegarsi su se stessi, di pensare anzitutto a sé e non al bene comune e alla comunità nella quale viviamo..
L’ideologia che sostiene questa nuova antropologia culturale del capitalismo seduttivo (basato sul principio di piacere immediato), neoliberale e finanziario è quella della competitività individuale, di individui sempre più competenti sul piano delle tecniche funzionali alle logiche di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Leggi tutto
Negli
ultimi anni della guerra, mentre era internato in un campo
di prigionia, Emmanuel Lévinas comincia a scrivere quello
che
diverrà il suo primo libro, Dall’esistenza
all’esistente, pubblicato nel 1947. Non è facile
misurare la
novità e il singolare, quasi feroce svolgimento che qui
riceve l’ontologia del suo maestro di Friburgo, Martin
Heidegger. L’essere
non è più un concetto, è un’esperienza sordida e
crepuscolare, che si coglie tra il sonno e la veglia, negli
stati di
fatica e di insonnia, nel bisogno e nella nausea – e,
innanzitutto, nelle posture e nelle imposture del corpo.
Nella stanchezza, in cui la
coscienza sembra allentare la presa e quasi disdire il suo
abbonamento all’esistenza, è in realtà ancora l’essere che
appare, in un evasivo ritardo rispetto a se stesso e come in
un’intima lussazione. Si è dinoccolato e spostato e quindi
mi sfugge e non
riesco a afferrarlo: ma “c’è”. Per questo la fatica cerca
riposo nel sonno senza trovarlo e scivola così suo malgrado
nell’insonnia, quando si veglia senza che vi sia altro da
vegliare se non il fatto brutale di esserci.
“La veglia è anonima. Nell’insonnia non sono io che veglio la notte, è la notte stessa che veglia”. L’essere non è qui dono, luce, annuncio, apertura: è una presenza rivoltante a cui sono, però, irrimediabilmente inchiodato, qualcosa che non posso assumere altrimenti che abbandonandomi a una postura che è anche già sempre impostura. Questo starmene rannicchiato sul letto, questo mio (non-mio) coincidere integralmente e senza riserve con la mia giacitura, questo mio (non-mio) non essere altro che insonne postura: sdraiato, bocconi, supino, su un lato con le gambe fetalmente ripiegate – questo e nient’altro è l’essere. Poiché è inassumibile, posso solo addossarmelo; poiché è impossibile o troppo brutalmente possibile, non posso dirlo, ma solo giacerlo (“coricare” deriva etimologicamente da “collocare”).
Nell’Esausto, Gilles Deleuze, pur senza farne il nome, cerca di andare al di là della fenomenologia puntigliosamente descritta da Lévinas. E lo fa, secondo la precisa intuizione di Ginevra Bompiani, non tanto cercando “di dar corpo al pensiero, quanto di dare pensiero al corpo, di esporre un corpo che porti impresso nella sua stessa postura il pensiero”.
Leggi tuttoDino
Greco, un passato di militanza politica e sindacale in
trincea, come dirigente Cgil e poi segretario della Camera
del lavoro di
Brescia, quindi come ultimo direttore di Liberazione, ha
posto da qualche tempo dentro Rifondazione Comunista il
problema della presa d'atto che
l'Unione Europea è cosa ben diversa dall'”Europa”, con
ovvie drastiche conseguenze sia sull'analisi complessiva
del partito che
sulla sua strategia politica.
Nel corso dell'ultimo Comitato Politico Nazionale, svoltosi sabato e domenica, c'è stata una discussione piuttosto articolata sul tema, anche alla luce della decisione di aderire al processo della cosiddetta “Sinistra Italiana”.
Ogni dibattito interno a un partito soffre di convenzionalismi e modi di esprimersi “per gli addetti ai lavori”, che rende spesso poco comprensibile il merito politico del contendere. Lo abbiamo intervistato per chiarire i termini di una discussione altrimenti da decrittare.
***
Buongiorno, Dino. Rifondazione è riuscita o no a prendere le misure della nuova situazione italiana ed europea, dopo la “svolta di Tsipras”?
È in atto un confronto molto serio, che parte naturalmente dalla viceda greca, al netto delle solite polemiche tra chi accusa Tsipras di “tradimento” e la sgangherata tifoseria che non vuol vedere i problemi. Leggi tutto
Luciano Gallino ci ha lasciato, ma
questo non
è un necrologio (non lo avrebbe voluto). E la voglia di
riordinare anni di riflessioni in comune lasciano il posto
non al ricordo (anche, ci
mancherebbe), ma a ciò che ci ha lasciato come suo
messaggio, appunto il libro uscito poche settimane fa e
ultimo di una trilogia (pubblicata
da Einaudi) dedicata a questa crisi che è finanziaria ed
ecologica insieme: Il denaro, il debito e la doppia
crisi. Serie iniziata con
Finanzcapitalismo (2011) e proseguita poi con Il
colpo di Stato di banche e governi (2013), passando
per l’intervista a Paola
Borgna su La lotta di classe dopo la lotta di classe
(Laterza, 2012).
D come denaro e come debito. E denaro e debito come cause di una crisi appunto finanziaria ed ecologica insieme che compromette, secondo Gallino (e noi con lui), le basi stesse della società e del pianeta. Il tutto, spiegato ai suoi nipoti, come recita il sottotitolo del libro. Un testamento etico e politico che Gallino cercava di lasciare a noi e per noi perché lo leggessimo e meditassimo, provando a usare il pensiero critico (recuperandolo dalle cantine in cui lo abbiamo riposto come cosa inutile e dimenticata) per uscire dalla prigione ideologica neoliberista che ci sta strangolando da troppi anni. Anche se, scrive appunto Gallino ai suoi nipoti “quel che vorrei provare a raccontarvi è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale e morale. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza, e quella di pensiero critico”. Due idee oggi scomparse anche o soprattutto a sinistra (in particolare in Italia), a causa di una perfetta ma diabolica sommatoria di ordoliberalismo tedesco e di neoliberismo statunitense fatta propria della stessa sinistra, sinistra dove anche e purtroppo è scomparso il pensiero critico o forse il pensiero e basta, perché pensare è sempre esercitare riflessione e critica, perché il pensiero è critica o non è pensiero.
Leggi tuttoSabato, con una riuscitissima manifestazione al teatro Quirino di Roma è stato presentato il nuovo gruppo alla Camera di Sinistra Italiana, formazione composta da Sel, dai fuorusciti del Pd (ma non Civati) e ad quale aderiranno, forse, alcuni ex 5 stelle.
Anche se non sarebbe difficile far critiche (troppe facce conosciute di “vecchie stelle del varietà”, una cosa che nasce dall’alto e non dal basso, linea troppo vaga, toni accesi ma contenuti un po’ moderati…) preferisco lasciar perdere ed assumere un atteggiamento più costruttivo. Che la sinistra italiana cerchi di darsi un solido punto di riferimento è cosa in sé positiva alla quale guardo con simpatia anche se con un po’ di scetticismo. Comunque, insieme ai miei auguri di successo, vorrei dare qualche suggerimento che spero possa essere utile.
In primo luogo, credo che alla nuova formazione sia indispensabile tracciare una netta linea di demarcazione verso il Pd. Certo occorre lavorare per strappare più compagni possibile al Pd, ma questo non si fa alleandosi né nelle elezioni locali né in quelle locali, con il partito di Renzi.
Non che in generale sia proibito allearsi con una formazione politica anche molto distante, soprattutto in momenti particolari, ma questo non è uno di quei momenti. Anche perché non c’è il rischio, almeno per ora, di una vittoria della destra, semmai dei 5 stelle che, guarda caso, hanno condiviso il 90% delle battaglie di Sel (dalla questione di bankitalia alla riforma elettorale a quella del Senato a quella della scuola e del job act: pensateci). Leggi tutto
Non per tagli ma per equità, titola il dossier sulle pensioni del presidente dell'Inps Tito Boeri. La verità è l'esatto opposto, la foglia di fuoco dell'equità, assieme a quella della riduzione dei privilegi della casta politica e sindacale, serve proprio a coprire un taglio strategico alle prestazioni e allo stesso sistema pensionistico pubblico.
Il documento del presidente è molto dettagliato nelle cifre e questo serve a rafforzare la sua immagine bocconiana. Tuttavia le cifre possono cambiare e soprattutto possono a volte portare fuori strada, se non si esaminano i concetti a cui sono connesse. Chi non sarebbe d'accordo a garantire 500 euro mensili a chi ha più di 55 anni ed è senza reddito? Il problema è a quali condizioni e soprattutto chi paga; e qui subito emerge l'ideologia liberista della proposta INPS.
Nel passato, quando ancora tentavano di fare il loro mestiere, i grandi sindacati confederali si sono battuti per separare la previdenza dall'assistenza. Infatti l'Inps da tempo è diventata un gigantesco bancomat sociale, a cui confluiscono i contributi del lavoro, e da cui defluiscono soldi in tutte le direzioni. Questa rivendicazione sindacale non ha mai avuto successo e si è scontrata con il muro di no di tutti i governi. Infatti se il sistema pensionistico pubblico fosse davvero dedicato unicamente a fornire le pensioni legate all'attività lavorativa, non avrebbe buchi. E in ogni caso se buchi ci fossero, potrebbero essere affrontati agendo sulla contabilità interna al mondo del lavoro.
Leggi tuttoA volte, anche nei luoghi più inaspettati, si trovano pezzi di verità. È il caso di questo articolo uscito 4 anni fa su Repubblica. Naturalmente all’estensione dell’articolo manca il passo decisivo: quali le cause? Quali le soluzionei? Quali le responsabilità della sinistra istituzionale? Perché denunciare, giustamente, il cambiamento sociale anche all’interno della scuola italiana senza trarne le conseguenze: cioè mettere in discussione l’euro, l’Unione Europea e il liberismo? Beh, se lo facesse non potrebbe scrivere su Repubblica
Per alcuni decenni la scuola è servita anche ad avvicinare le classi sociali: nelle aule convergevano interessi e aspettative, si respirava la stessa cultura, si creavano possibilità per tutti. In fondo al viale si immaginava un mondo senza crudeli differenze, senza meschinità e ingiustizie. La conoscenza era garanzia di crescita intellettuale, e anche sociale ed economica. Chi studiava si sarebbe affermato, o quantomeno avrebbe fatto un passo in avanti rispetto ai padri. Tante volte abbiamo sentito quelle storie un po’ retoriche ma autentiche: il padre tranviere che piangeva e rideva il giorno della laurea in medicina del suo figliolo, la madre che aveva faticato tanto per tirare su quattro figli, che ora sono tutti dottori.
Oggi le cose sono cambiate radicalmente. Chi viaggia in prima classe non permette nemmeno che al treno sia agganciata la seconda o la terza: vuole viaggiare solo con i suoi simili, con i meritevoli, gli eccellenti, i vincenti. “A me professò ‘sto discorso del merito mi fa rodere. La meritocrazia, la meritocrazia… ma che significa? E chi non merita? E noi altri che stamo indietro, noi che non je la famo, noi non contiamo niente?“.
Leggi tuttoDa anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l'Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell'aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali
E’
inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo
tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola
di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite
dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a
confondere le idee ai lettori.
E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da
quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli
sciocchi che intasano i social
network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti
sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi
ancora non si pronunciano,
visto che l’unico dei terroristi finora identificato, Omar
Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto”
dall’impronta presa da un dito, l’unica parte del corpo
rimasta intatta dopo l’esplosione della cintura da kamikaze
che
indossava.
Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente.
Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’è nulla da scoprire. Leggi tutto
Giustizia vorrebbe che a essere ricordate e onorate fossero anzitutto le vittime. Che si parlasse di loro, delle loro vite dissipate, quale che sia stata l’ideologia che l’ha voluto, quale che sia stata la reale regia dell’evento che ha, come un terremoto, scosso Parigi la notte del 13 novembre. E invece no, ovviamente.
Delle vittime non si parla. Si è da subito deciso di ucciderle una seconda volta, senza pietà: questa volta non con bombe e coltelli, ma con un altrettanto criminale impiego ideologico della loro morte, incorporata impunemente nelle grandi narrazioni che su giornali e tv, su radio e social networks, le trasformano in amorfo materiale da far fruttare ideologicamente. Ciò che prova che, in fondo, il terrorismo si dice e si pratica in molti modi: terrorismo non è solo quello dei criminali che hanno concretamente compiuto la strage, ma anche quello degli sciacalli che, col sangue dei morti ancora caldo, hanno volgarmente deciso di fare propaganda, di incrementare il bacino dei potenziali voti, di inneggiare alla crociata e alla guerra giusta.
I titoli dei giornali hanno offerto lo spettacolo più squallido: ‘bastardi islamici’, titolava uno di essi. Che non aspettava altro di poter usare liberamente questa espressione. ‘Ci vuole un esercito unico europeo’, titolava un altro, in modo forse anche più subdolo. Insomma, le ideologie hanno subito banchettato, alla stregua di avvoltoi, con i corpi delle vittime. Le hanno anzi uccise una seconda volta. E quasi unanime si alza la voce di chi subito ha individuato l’assassino. Leggi tutto
Sull'ennesimo orrore, questa volta a Parigi, si sprecheranno come sempre molte parole. Non vogliamo aggiungerne altre, che sarebbero inutili, ma ci limitiamo a segnalare questo intervento di Fraioli, di esemplare buon senso
Ho passato la sera a
leggere il "De bello gallico" di Giulio Cesare poi,
qualche minuto fa, ho acceso il
televisore e ho saputo dell'attentato a Parigi.
La prima cosa che mi viene da dire è che siamo in guerra ma non sappiamo chi sia il nemico.
L'Isis? Fatemi capire, perché io sono un po' tonto: l'occidente, la Nato, l'Unione Europea, la Russia, l'Iran, la Siria, Hezbollah, tutti contro l'Isis, uno "Stato" non riconosciuto da nessuno, la cui base territoriale è costituita da una parte dell'Iraq il cui territorio è controllato da un governo alleato dell'occidente, con una forte presenza di forze USA, e non si riesce a stroncarlo in una settimana? Dobbiamo credere a questo?
Sono stato ragazzo ai tempi della guerra del Vietnam, ma allora l'informazione mainstream ce lo diceva chiaro e tondo che dietro il Vietnam del sud c'erano gli USA, e dietro i vietcong l'URSS e la Cina, e dunque che era una guerra per procura tra le grandi potenze. Oggi, invece, il raccontino è che tutti sono contro l'Isis, e che questi tengono in scacco il mondo intero perché sono combattenti fanatici (o eroici, come sostiene qualcuno).
Io non ci credo. Per come la vedo io siamo in una guerra mondiale. Per quello che posso capire, ma non prendetemi troppo sul serio, questa è una guerra con molti attori ma senza una linea di demarcazione che consenta di dire "noi contro loro". Leggi tutto
Pubblichiamo un intervento di Luciano Canfora apparso sul numero 4/2015 della rivista Hystrio all’interno del dossier dossier “Il comico, istruzioni per l’uso” a cura di Maddalena Giovannelli e Martina Treu. Ringraziamo l’autore e la testata
La recente esperienza drammatica di Charlie Hebdo ha riproposto con forza la questione della satira politica (anche la religione è ormai politica e forse lo è sempre stata), nonché la domanda intorno ai limiti che essa – la satira – deve porsi. In un mondo ideale nessun limite alla satira dovrebbe essere consentito, e nessuna reazione violenta dovrebbe essere prevedibile. Così non è nella realtà concreta e dunque il problema si pone.
Ricordo ancora, alla metà degli anni Settanta, cioè quarant’anni fa, le minacce di querela da parte di Enrico Berlinguer nei confronti di Forattini, il quale aveva l’abitudine, come vignettista de La Repubblica, di raffigurare Berlinguer in vestaglia e pantofole e magari con la brillantina in testa, a significarne l’imborghesimento. La situazione divenne quasi ridicola e spinse Forattini ad atteggiarsi sempre più a destro-qualunquista.
Gli insulti alla religione islamica da parte dei vignettisti francesi erano essenzialmente sciocchi, non per il contenuto che era nullo, ma per la volgarità. Il fatto però che degli indegni sicari fanatici li abbiano uccisi li ha resi postumamente eroi della libertà di stampa e di satira. Ma anche Aristofane ha messo sulla scena parole terribili e insultanti, non solo nei confronti degli uomini politici ma anche delle divinità. Come ho avuto occasione di scrivere in un recente numero di Micromega dedicato a Charlie Hebdo (1/2015) «bisognerebbe leggere o rileggere le Rane. Leggi tutto
I facili profeti avevano profetizzato che Matteo Salvini, dopo un anno di furori anti-euro ed anti-Merkel, sarebbe tornato a capo chino al caro vecchio ovile dell'antimeridionalismo, ed infatti la profezia si è immancabilmente avverata. Il ritorno all'ovile di Matteo-bis è stato celebrato attraverso il suo sodalizio con Massimo Giletti, gestore di un affermato ovile mediatico (sia detto con tutto il dovuto rispetto per le pecore, che almeno una dignità ce l'hanno).
La resa patetica di Salvini alla "Troika" è stata sancita da patetici sofismi, del tipo che l'euro è già fallito, perciò non si tratta più di uscire dall'euro, ma di prepararsi per tempo alla sua fine. Che l'euro sia già fallito, e che il suo seppellimento possa avvenire da un momento all'altro, lo si sapeva da almeno due anni, cioè da un po' prima che Matteo-bis si lanciasse nelle sue campagne mediatiche, culminate lo scorso anno con lo slogan del "basta euro". Una cosa però è uscirne con le proprie gambe, altra cosa è subire passivamente il passaggio ad "una prosecuzione dell'euro con altri mezzi", cioè a nuovi espedienti per mantenere l'economia in quella recessione/deflazione così necessaria alle banche per preservare i propri crediti nei confronti degli Stati e dei cittadini.
La doppiezza della Lega Nord è del resto una costante storica. In parlamento la Lega ha recentemente denunciato lo sperpero di denaro pubblico legato al fantomatico Ponte sullo Stretto di Messina. Oggi la Salini Impregilo può infatti permettersi di ricattare il governo, costretto a versarle penali miliardarie per violazione contrattuale, a causa della finta "rinuncia" del governo Monti alla partecipazione statale all'impresa del Ponte (finta perché Monti non ha denunciato i termini truffaldini dell'accordo). Leggi tutto
È da poco nelle librerie l’ultimo testo, "Metafisica della felicità reale", di Alain Badiou, uno dei più significativi esponenti della filosofia contemporanea. Di questo libro, pubblicato da DeriveApprodi, offriamo al lettore l’introduzione. Ringraziamo la casa editrice per la gentile concessione
Può sembrare
paradossale dare per titolo Metafisica
della felicità reale a un libro
che, soprattutto, appare intento a districare quali siano i
compiti della filosofia e che verso la fine tenta persino di
descrivere i miei specifici
progetti personali attinenti alla filosofia. Basta un’occhiata
ai miei libri principali per vedere che la mia filosofia è
senz’altro costruita, al pari di qualunque altra del resto, a
partire da elementi all’apparenza disparati, ma che essa si
distingue per
l’uso attivo di materiali raramente associati alla felicità:
la teoria degli insiemi, la teoria dei fasci di insiemi sulle
algebre di
Heyting o quella dei grandi infiniti. Oppure è questione di
rivoluzione francese, russa, cinese, di Robespierre, di Lenin
o di Mao, tanto le
prime quanto i secondi marchiati dall’infamia del Terrore.
Altrimenti, ricorro a poemi ritenuti più ermetici che
dilettevoli, quelli di
Mallarmé ad esempio, di Pessoa, di Wallace Stevens o di Paul
Celan. O prendo a esempio l’amore vero, del quale da sempre i
moralisti e i
prudenti osservano che le sofferenze da esso indotte e la
banale constatazione della sua fragilità spingono a dubitare
della sua vocazione alla
felicità. Senza contare che alcuni dei miei principali
maestri, ad esempio Descartes o Pascal, Hegel o Kierkegaard,
difficilmente possono
passare per grandi allegroni. Davvero non si vede quale sia il
rapporto tra tutto questo e una vita tranquilla, l’abbondanza
di piccole
soddisfazioni quotidiane, un lavoro interessante, un salario
come si deve, una salute di ferro, una coppia serena, vacanze
delle quali conservare a
lungo il ricordo, amici simpatici, una casa ben fornita, una
comoda automobile, un animale domestico fedele e tenerone, dei
bambini deliziosi, che non
danno problemi e vanno bene a scuola, insomma con ciò che di
solito e a ogni latitudine si intende per «felicità». Leggi tutto
La nascita di un governo socialista appoggiato dall’esterno dal Blocco di sinistra e dal Partito comunista in Portogallo rischia di tradursi in una replica della capitolazione di Syriza?
[Il
testo di Kouvelakis che qui pubblichiamo cerca di
rispondere a molti dubbi e interrogativi sorti in seguito
all’evoluzione politica in
Portogallo: la nascita di un governo socialista appoggiato
dall’esterno dal Blocco di sinistra e dal Partito
comunista portoghese rischia di
tradursi in una replica della capitolazione di Syriza? Sia
pure con prudenza, esprimendo le proprie critiche con uno
stile che dovremmo adottare tutti
nei nostri dibattiti, Kouvelakis lo ritiene molto
probabile. Abbiamo già pubblicato un’intervista a uno
storico militante del Blocco,
Francisco Louçã, nella quale questa evenienza viene invece
implicitamente scartata. Nei prossimi giorni forniremo
altri materiali
perché questa discussione non avvenga in termini troppo
generali e generici: per esempio, stralci del programma
concordato fra PS, Bloco, PCP e
Verdi e una cronologia del come si è arrivati a questo
accordo, il primo in Portogallo da almeno quattro decenni
a questa parte. Lo sviluppo
della situazione portoghese e la svolta verificatasi in
Spagna con la dichiarazione, per ora virtuale, di
indipendenza della Catalogna, fanno della
penisola iberica un’area in ebollizione alla quale è
necessario prestare la dovuta attenzione. CD]
***
È solo dopo notevoli esitazioni che mi sono deciso a commentare i recenti sviluppi della situazione in Portogallo. Prima ho ascoltato con molta attenzione gli argomenti della compagna Mariana Mortagua [deputata del Bloco de Esquerda] nella seduta plenaria della conferenza Historical Materialism a Londra, il 9 novembre.
Leggi tuttoUn dossier del quotidiano «il manifesto» con stupende vignette e tanta aria fritta
Voi vedete «vita» a sinistra? Io poca. A volte la trovo anche in alcuni fra i luoghi del conflitto sociale più aspro e questo mi rallegra. Invece dalle parti dell’organizzazione, di un programma minimo che unifichi alcune lotte in corso, che provi a ragionare su dove/come è meglio inceppare la macchina del nemico di classe… vedo purtroppo un gran deserto. Magari sbaglio; se dissentite fatemelo sapere.
Così questa estate ho alzato il classico sopracciglio quando il quotidiano «il manifesto» (ho già spiegato in “bottega” perché continuo, nonostante i suoi difetti, a comprarlo) ha aperto una lunga discussione intitolata «C’è vita a sinistra» senza neanche la decenza di un punto interrogativo.
A mio avviso la maggior parte degli interventi pubblicati conferma che “a sinistra in Italia non c’è vita” – o pochissima ne resta e ne nasce – a meno che per “sinistra” non si intendano quattro tromboni parlamentari o aspiranti tali, perennemente seduti con il culo sulle macerie italiane e nullafacenti (nel senso di vero lavoro sociale e/o politico).
Ne riparlo ora perché ieri è andato in edicola – a 50 centesimi – con «il manifesto» un supplemento («40 pagine, tutte a colori») intitolato «C’è vita a sinistra» che raccoglie tutti gli interventi giù pubblicati. Tanto a me sono piaciute le vignette, alcune geniali, quanto mi è sembrato desolante l’insieme degli interventi: a mio avviso su 54 se ne salvano 6 o 7… a esser buoni. Leggi tutto
La guerra con la Russia non conosce soste e avvicinandosi le olimpiadi di Rio ecco che salta fuori l’accusa di doping nei confronti dei soli atleti russi, mentre gli altri nella relazione dell’Agenzia mondiale antidoping Wada, sono diventati omissis. Lo scopo è chiaro: umiliare Mosca e impedire che i suoi atleti sottraggano ori agli awanna ganassa e impediscano alla squadra Usa di raggiungere la vetta del medagliere, cosa non più tanto facile nel mondo multipolare.
La cosa è particolarmente repellente per più di un motivo: intanto perché gli atleti Usa sono dopati quanto e più degli altri e poi perché queste pratiche sono entrate massicciamente nello sport proprio grazie alla way of life americana che ha trasformato l’atletica e i giochi di squadra non solo in una questione di prestigio o di tifo, ma in un grande business per il quale ogni cosa è sacrificabile e che appunto ha trasformato le attività sportive in gara medico – farmacologica nel quale i controlli sono ipocriti e aperti ad ogni parzialità. Ma c’è un terzo motivo al momento più importante per la consapevolezza: quanto sono realmente indipendenti organismi e agenzie di ogni settore ( e pure le ong ufficialmente umanitarie), come in questo caso la Wada, che si fregiano dell’aggettivo internazionale, ma sembrano sempre rispondere al richiamo della foresta ovvero di Washington?
Naturalmente non ho i dati precisi o i contatti giusti per dare una risposte precise e circostanziate, ma restando nel campo dello sport rimane di folgorante chiarezza la scalata americana al ciclismo: per sette volte di seguito il texano Lance Armstrong, atleta prima erratico e di livello medio basso, ma con invidiabile record di tracotanza, con la sua squadra creata e pagata dalla Us Postal che non è un’azienda privata, ma un’agenzia governativa, ha vinto il tour de France, Leggi tutto
Pubblichiamo la versione rivista di uno degli interventi introduttivi del workshop «Trasformazioni del lavoro e sciopero transnazionale: nuovo regime di fabbrica, precarizzazione e composizione del lavoro» organizzato da ∫connessioni precarie con Worker’s Initiative (Polonia), TIE – Global Worker’s Network (Germania), Angry Workers (Regno Unito) durante il meeting per uno sciopero sociale transnazionale che si è tenuto a Poznan all’inizio di ottobre
Per almeno
vent’anni il lavoro di fabbrica in Europa è apparentemente
scomparso. Quando ha cominciato a
riapparire, è stato a prima vista relegato nell’Europa
dell’est. Tuttavia, la crisi economica nel 2008 ha
mostrato che il
sistema manifatturiero, con il suo portato di servizi più o
meno esternalizzati, costituisce ancora un fattore
determinante per le condizioni
di lavoro in Europa. Stiamo parlando di una
fabbrica che ha subito diverse trasformazioni sia dal punto di
vista tecnologico sia
organizzativo e, ancora più importante, che è quotidianamente
connessa con altre realtà in Europa e nel mondo. La fabbrica
oggi
è il luogo di connessione di diverse storie del lavoro che
hanno luogo a migliaia di chilometri l’una dall’altra e con
cui siamo
costantemente in contatto. Per questa ragione, la
fabbrica rappresenta il punto di intersezione di diverse
forme di organizzazione del lavoro,
ma anche di diverse precarietà.
Immaginiamo un giovane lavoratore o una giovane lavoratrice est-europea che abbia finito le scuole superiori. Che cosa può fare? Può cercare un lavoro, magari provando a trovare qualcosa che ha a che fare coi suoi studi. Leggi tutto
Con Ascesa e
declino. Storia economica d’Italia (il Mulino,
Bologna 2015, 392 pp), Emanuele Felice offre una sintetica
ma assai documentata narrazione dell’evoluzione
dell’economia italiana
dall’Unità ad oggi. Classe 1977, abruzzese, Dottorato a
Pisa, Felice è recentemente rientrato in Italia come
Professore Associato
presso l’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara, dopo un
periodo di cinque anni all’Università Autonoma di
Barcellona. Il suo libro è per certi versi il primo
tentativo di sintesi della storia economica italiana a
seguito della grande crisi –
non solo quella globale ed europea degli ultimi anni, ma
quella più generale italiana, che le precede di almeno due
decenni. L’ultima
grande sintesi accademica – quella di Vera Zamagni,
intitolata Dalla
Periferia al
centro – si chiudeva infatti con il 1990: e già
all’epoca, osservatori come Marcello De Cecco si chiedevano
con amara
ironia se il titolo non avrebbe dovuto essere integrato, già
dalla seconda edizione, con un “…e
ritorno”. Felice, che in un recente
articolo con Giovanni Vecchi ha certificato questo
“ritorno” nelle misure di produzione come il PIL, nel suo
libro estende l’analisi alla grande mole di dati prodotti
dalla
storiografia economica italiana negli ultimi decenni.
Relegando tuttavia la gran parte delle serie storiche nell’appendice
online, i dati vengono evocati nel testo in modo
da venire incontro al lettore non tecnico, non sovrastando
ma accompagnando costantemente la narrazione storiografica.
Proprio per questa
caratteristica, Ascesa e Declino sta generando un dibattito
abbastanza insolito per la disciplina sui giornali, con
qualche eco anche nel dibattito
politico interno al Partito Democratico. Per questo,
il libro si
presta a ragionare non solo della storia economica italiana,
ma anche di come questa possa interrogare il presente, di
quale ruolo debba avere come
disciplina all’interno della formazione e del discorso
pubblico italiani. Per questo motivo vi proponiamo
un’intervista, come prima pietra
di un focus tematico sulla storiografia economica e sociale
italiana.
***
Il libro è organizzato seguendo le categorizzazioni classiche della storiografia italiana – Italia Liberale, Fascismo, Dopoguerra (prima e dopo Bretton Woods). Molti tuoi colleghi, in effetti, si sono concentrati su uno solo di questi periodi. Traendo beneficio dalla prospettiva di lungo periodo, è corretto mantenere questa tradizionale suddivisione rigida, o prevalgono elementi di continuità nello sviluppo italiano, come sostenuto ad esempio da Rolf Petri?
Sicuramente esistono elementi di continuità, ed è anche normale che sia così. Leggi tutto
Lo sbandamento lessicale e concettuale - in definitiva, politico - di buona parte della sinistra
La strage di Parigi non
ha colpito soltanto le sue vittime dirette. Tra i suoi effetti
collaterali c'è pure
l'intelligenza di tante persone bombardate da una propaganda
asfissiante. Fin qui nessuna novità. La macchina mediatica fa
il suo lavoro, e gli
strateghi dell'imperialismo incassano un nuovo (per quanto
temporaneo) consenso. Tutto ciò è sostanzialmente inevitabile,
al pari delle
nebbie in autunno. Quel che inevitabile non sarebbe è lo
sbandamento di chi dice no alla guerra, accettando però il
lessico ed i
concetti di fondo di chi la guerra la fa sul serio da decenni.
Per mettere a fuoco la questione basta pensare ad una
categoria usata con una discreta
leggerezza a sinistra: quella di «fascismo islamico», nella
versione più sguaiata addirittura «nazismo islamico». Che
una simile semplificazione venga usata dalla destra e da tutto
il mainstream mediatico certo non stupisce; che
venga addirittura ripresa da
tanti a sinistra è invece l'indice di un pauroso sbandamento
politico e culturale.
Limitiamoci ad un paio di esempi, di certo non gli unici, ma sufficienti a far capire di cosa stiamo parlando. In un breve comunicato, Paolo Ferrero riesce a ripetere ossessivamente, per ben 4 volte, il riferimento al nazismo: «barbarie nazista dell'Isis», «i nazisti dell'Isis», «il nazismo dell'Isis», «logica nazista». Spostandoci più a sinistra, abbiamo il caso del Pcl. «Contro l'imperialismo ed il fascismo islamico» si legge nel titolo del comunicato sui fatti di Parigi. Se non altro qui si cita l'imperialismo, ma si usa di nuovo (e non soltanto nel titolo) la categoria di «fascismo islamico», mentre almeno Ferrero nazifica l'Isis e non l'intero Islam. Leggi tutto
Si muovono
progetti innovativi nella sinistra europea. Una parte
dell'establishment della sinistra radicale, come il
francese Melenchon leader del Parti de Gauche, il tedesco
Lafontaine guru della Linke, Varoufakis in Grecia, Fassina in
Italia e - pare - il nuovo
leader del Labour inglese Corbyn - lavorano a un progetto
europeo di una sinistra che si presenterebbe alle varie
elezioni nazionali in nome di una
agenda comune: l'uscita dall'Euro. L'euro per come è stato
costruito e gestito è una prigione insopportabile per molti
popoli. Il piano
A è cambiarlo. Ma se non fosse possibile dobbiamo avere un
piano B ed è l'uscita. Se l'unica alternativa è tra stare
dentro o
fuori da una prigione, meglio fuori - anche se fuori non è un
granché.
Non discuterò se l'uscita dall'euro sia o meno desiderabile, per concentrarmi invece su questo: quali possibilità ha questo progetto di far uscire la sinistra radicale europea dalla sua marginalità? In sostanza, quanti consensi elettorali può portare questa agenda? Funzionerà o sarà l'ennesimo buco nell'acqua?
Un grosso punto a favore è che economisti del calibro di Stiglitz, Piketty, Galbraith sembrano disposti ad appoggiare decisamente questa agenda. L'importanza di questo non dovrebbe essere sottovalutata: sono molti decenni che l'accusa principale che viene rivolta alle ricette economiche di sinistra è che, quando sono state sperimentate, si sono rivelate fallimentari. In sostanza la sinistra radicale viene accusata di non intendersi di economia. Diventerebbe surreale rivolgere questa accusa a premi Nobel per l'economia. Leggi tutto
Dopo giorni
in cui abbiamo visto campeggiare sui giornali a tutta pagina
“Il cambiamento siamo noi” Poste
Italiane, è giunta alla quotazione. Il cambiamento (almeno
parziale) è certamente quello della proprietà: lo Stato ha
venduto ai
privati circa il 35% della sua quota di possesso, finora
totalitaria, (20% a investitori istituzionali), associandoli
nella gestione. La prospettiva
in cui questo si iscrive è, però, più nebulosa.
Occorre chiedersi in nome di quale strategia per il Paese ciò stia avvenendo e se non ricominci la stagione delle alienazioni del patrimonio pubblico per puro scopo di cassa. Non voglio entrare nella discussione generale sulle privatizzazioni - che poi tanto generale non è, perché abbiamo studi specifici sul loro esito in Italia (dal quarto volume sulla Storia dell’Iri, ai lavori puntuali di Massimo Florio, al giudizio della Corte dei Conti) – ma voglio fermarmi sulla specificità del patrimonio che ora viene sottoposto alla logica della Borsa.
Parto da una considerazione (ormai) inconsueta che prescinde per un momento dalle logiche aziendali. L’assetto attuale e l’evoluzione inevitabile (e annunciata) verso un azionariato di tipo public company, oppure di tipo Enel, fa perdere a Poste la vocazione come parte di uno spazio condiviso tra Stato e cittadini, che le è sempre appartenuto; quello spazio che è tra gli elementi della coesione sociale. Lo Stato italiano dalla sua formazione, era presente e identificato nel territorio con le Ferrovie, le Poste, la scuola elementare e i Carabinieri. E questo è entrato talmente nella coscienza popolare da aver radicato il convincimento che la presenza fisica dell’ufficio postale sia parte del servizio universale, quindi un diritto di cittadinanza (quando lo è di fatto solo la consegna della corrispondenza). Leggi tutto
Dopo Parigi. Bisogna rimettere la pace, e non la vittoria, al centro della nostra agenda politica
Sì, siamo in guerra. O meglio, siamo ormai tutti dentro la guerra. Colpiamo e ci colpiscono. Dopo altri, e purtroppo prevedibilmente prima di altri, paghiamo il prezzo e portiamo il lutto. Ogni persona morta, certo, è insostituibile.
Ma di quale guerra si tratta?
Non è semplice definirla, perché è fatta di diversi tipi, stratificatisi con il tempo e che paiono ormai inestricabili.
Guerre fra Stato e Stato (o meglio, pseudo-Stato, come «Daesh»). Guerre civili nazionali e transnazionali.
Guerre fra «civiltà», o che comunque si ritengono tali. Guerre di interessi e di clientele imperialiste. Guerre di religione e settarie, o giustificate come tali.
È la grande stasis del XXI secolo, che in futuro — ammesso che se ne esca vivi — sarà paragonata a modelli antichi, la Guerra del Peloponneso, la Guerra dei Trent’anni, o più recenti: la «guerra civile europea» fra il 1914 e il 1945.
Questa guerra, in parte provocata dagli interventi militari statunitensi in Medioriente, prima e dopo l’11 settembre 2001, si è intensificata con gli interventi successivi, ai quali partecipano ormai Russia e Francia, ciascun paese con i propri obiettivi. Leggi tutto
E. Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 238.
Che cosa hanno in comune lavoro e letteratura? La famigerata “mutazione” antropologica è un fenomeno inevitabile o un evento storico reversibile? Il conflitto dialettico fra servo e signore è ancora categoria viva e attuale, o è stata definitivamente espunta da ogni griglia interpretativa? Sono queste solo alcune fra le domande che vengono in mente dopo la lettura dell’ultimo volume di Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana.
Questa raccolta di quindici saggi, di cui due inediti, pubblicati fra 2001 e 2014, si distende fra analisi di storiche riviste – «Officina» e «Menabò» –, disamine di opere e autori del secondo novecento italiano, e messe a punto metodologiche. A partire dalla distinzione fra storiografia e poesia, e dunque fra tensione verso i concetti generali e racconto del particolare dimenticato e marginalizzato, l’autore insiste sulla capacità dialettica tipica della letteratura di accogliere dentro la propria prospettiva elementi contrastanti e stratificati. La ricchezza e la complessità del testo letterario si basa sul rapporto che riesce a instaurare con ciò che sta fuori, con l’extratesto. Quest’ultimo concetto viene declinato da Zinato in termini differenti, ma tra loro solidali. La sua peculiare sintesi teorica si avvale infatti sia dell’economia politica di un teorico acuto e originale come Rossi-Landi, sia della prospettiva rivoluzionaria, in senso socialista, di Franco Fortini, sia dell’indagine psicanalitica prediletta da Francesco Orlando. Il testo viene visto come luogo in cui emerge, in mille forme diverse, un rimosso antropologico: il carattere intimamente sociale dell’uomo e del suo lavoro. Leggi tutto
Gli attentati
terroristici di Parigi hanno dato luogo al solito dibattito
d’occasione in cui alla fine vecchie analisi e vecchie
soluzioni vengono contrabbandate per nuove. In questi giorni
stanno circolando due articoli, uno di Limes e uno di Famiglia
Cristiana che stanno
raccogliendo consenso anche a sinistra. L’analisi e la critica
di questi due approcci crediamo sia propedeutica ad una
analisi di più
largo e lungo respiro.
Il primo articolo, quello di Limes, “Parigi, il branco di lupi, lo Stato islamico e quello che possiamo fare” è di Mario Giro, esponente della Comunità di San’Egidio e sottosegretario dell’attuale governo Renzi (oltre che del precedente governo Letta). Ridotto all’osso il suo ragionamento è questo:
Il protagonista del conflitto non è l’Occidente ma il mondo islamico e la nostra priorità è rimanere in Medio Oriente e spegnere la guerra di Siria. Sia la premessa analitica (il conflitto è islamico) sia la conclusione operativa (dobbiamo rimanere là) sono, nonostante il tono moderato e apparentemente pacifista, due punti che attestano il carattere mistificatorio della proposta contenuta nell’articolo. Vediamo più nel dettaglio.
Giro, a parte l’iniziale richiesta di dissociazione anche da parte islamica dello jihadismo (richiesta ridondante e puramente cerimoniale), dice che questa guerra che sta avvenendo in Siria non è la nostra, ma è una guerra interna all’Islam che si sta facendo dagli anni Ottanta. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici di diverse potenze regionali musulmane (Paesi del Golfo, Iran, Egitto, Turchia) nel quadro geopolitico della globalizzazione. Leggi tutto
Mentre
scriviamo il bilancio degli attentati di Parigi è di 128 morti
e 300 feriti. L’orrore di questa
violenza ingiustificabile è totale. Altrettanto totale deve
essere la condanna, senza se e senza ma. Gli esecutori e/o i
mandanti di questi
ciechi omicidi non possono addurre alcuna legittima ragione
per giustificare queste azioni sbagliate. La tragedia che
stiamo vivendo potrà
sfociare in un risveglio collettivo delle coscienze o, al
contrario, in un processo di drammatica riproduzione.
Tutto dipende dalla nostra capacità di trarre insegnamento da questa situazione. L’emozione è legittima e necessaria, ma non può essere l’unica risposta. La risposta securitaria, da sola, è inefficace. È proprio in questi momenti, segnati dall’emozione collettiva, che non dobbiamo rinunciare alla comprensione, alla ricerca delle cause, e alla lucidità di fronte alla strumentalizzazione dell’orrore.
Le posizioni in merito alla nostra tragedia
Nel giro di poche ore è stata dispiegata tutta la panoplia delle possibili posizioni in merito alla tragedia. Non è peregrino soffermarci su ciascuna di esse. Leggi tutto
Dopo otto mesi di quantitative easing, l’eurozona è più debole che mai. Ecco perché
A più di
otto mesi dall’avvio del programma di quantitative easing
della BCE, Mario Draghi e i vari leader
nazionali non paiono avere dubbi: «Il programma è stato un
successo». Ma tutto questo entusiasmo è giustificato?
Guardiamo i
numeri. Partiamo dal tasso d’inflazione. Com’è noto, il
mandato della BCE prevede un solo obiettivo – il mantenimento
del
tasso d’inflazione ad un livello vicino al 2 per cento – ed è
dunque normale giudicare l’operato della banca centrale
innanzitutto in base a questo parametro, anche perché uno
degli obiettivi dichiarati del QE è proprio quello di far
riavvicinare
l’inflazione all’obiettivo del 2 per cento. Bene, da questo
punto di vista i dati parlano chiaro: ad ottobre l’inflazione
è
tornata negativa (-0,1 per cento, manco a farlo apposta
esattamente lo stesso livello registrato a marzo di
quest’anno, quando la BCE ha avviato
il suo programma di acquisto titoli).
Ma sarebbe un errore attaccarsi allo “zero virgola”. La situazione è ben più grave, infatti: la verità è che è il tasso d’inflazione medio dell’eurozona, senza considerare gli enormi differenziali di inflazione tra paesi, è inferiore all’obiettivo dichiarato del 2 per cento dalla fine del 2012 e inferiore all’1,5 per cento – sotto il quale possiamo parlare de facto di deflazione – dall’inizio del 2013. In altre parole, da quasi tre anni. Leggi tutto
Le emozioni, a parte
quelle elementari, non sono innate. Si imparano. Si
assimilano. Si imitano. Si inventano. Le emozioni
hanno mille sfumature. Rendono la vita più ricca o più
dolorosa. Sebbene siano personali e private, poche cose
premono con maggiore
forza per essere espresse e gridate. A volte ci guidano bene e
a volte ci consigliano male. Sono intime, ma le usiamo per
comunicare. In questo ruolo
ambiguo, tra interiorità e mondo esterno, arriva la nuova
possibilità di interazione di Facebook – sei emozioni per
esprimere il
proprio stato mentale e giudizio. Invece del solito like
azzurro, ci sarà una barra sulla quale compariranno sette
emoticon, sette
simboli animati che rappresentano altrettante emozioni
convenientemente espresse da mono-bisillabi. Oltre al già noto
like,
arriverà l’amore love, la risata haha, la
gioia yai, la sopresa wow, la tristezza sad
e la
rabbia angry. In questo modo, secondo Chris
Tosswell, responsabile dei prodotti di Facebook, gli utenti
avranno “più modi per
celebrare, commiserare o ridere insieme”. Le nuove icone
emotive daranno “più possibilità di esprimere una reazione a
un
post, in maniera semplice e veloce”. Tutto bello, ammiccante e
divertente.
Benvenuti nella società delle Junk emotion – emozioni semplici, chiare, poche e uguali per tutti. Perché sforzarsi di trovare le parole giuste per descrivere un sentimento quando si può attivare una bella emoticon già pronta, disegnata così bene che – siamo sicuri! – tutti la troveranno simpatica. E poi il numero ridotto facilita la scelta. Poche semplici emozioni che ci guideranno anche nella vita quotidiana e che, finalmente, saranno sempre le stesse. Finite quelle complicazioni inutili e decadenti dove si cercava il mistero di una emozione attraverso metafore sottili – la tristezza che avvolge come il miele di Guccini, i sottili dispiaceri di Battisti, le lucide follie di Vasco, le gradazioni di Flaubert, le impalpabili tessiture di fumo di Musil. Leggi tutto
Dopo la notte di terrore a Parigi avvenuta il 13 novembre, i mass media sono riusciti – ancora una volta – a pilotare le nostre reazioni. Quando impareremo a non lasciarci manipolare?
Undici anni fa
(11-3-2004) una serie di bombe esplosero nella metropolitana
di Madrid, uccidendo 191 passeggeri. E' stato il primo
atto terroristico
condotto sul suolo europeo in risposta alle
guerre di occupazione europee e statunitensi, prima in
Afghanistan (2001) e poi in Iraq
(2003) – guerre, peraltro, senza l'autorizzazione ONU e quindi
del tutto illegali.
L'anno successivo (7-7-2015) quattro bombe terroristiche esplosero nella metropolitana e in un autobus di Londra, causando complessivamente 56 morti: è stato il secondo contrattacco jihadista sul suolo europeo . E il motivo è stato identico al primo, come dichiarò poi uno degli attentatori londinesi, un musulmano trentenne di origine pakistano: “Ogni giorno il governo da voi eletto democraticamente commette delle atrocità contro il mio popolo, in ogni angolo del pianeta; la vostra complicità con il vostro governo vi rende direttamente responsabili [di queste aggressioni].”
Pochi giorni dopo quell'attentato a Londra, io scrissi, per un giornale online dell'epoca, un editoriale intitolato “Il silenzio che uccide .” Mi meravigliavo che, dopo il loro lutto, i britannici non avessero provato anche un moto di rabbia contro un governo che li ha messi nel mirano di possibili attentatori, attaccando ed occupando illegalmente due paesi che non rappresentavano alcuna minaccia alla sicurezza nazionale e la cui unica “colpa” era quella di possedere vaste riserve di petrolio o una posizione geografica strategica Leggi tutto
Le sinistre portoghesi stanno dando, con la mozione di censura che ha fatto cadere il Governo di minoranza di Passos Coelho, una speranza ad ampi settori della sinistra. Spiace doversi mostrare bastian contrari, ma l’impressione è che tali speranze non siano sempre del tutto ben riposte.
Purtroppo, un conto, molto facile, è identificare un comune nemico, un conto, ben più difficile, è saper proporre una alternativa di governo solida e in grado di affrontare i temi strutturali di fondo.
Nei documenti programmatici sottoscritti fra socialisti, Bloco de Esquerda e comunisti (visibili su http://www.ps.pt/ ) non si enuncia un programma di governo vero e proprio, ma soltanto una serie di obiettivi auspicabili (fine delle privatizzazioni, aumento dei salari, lotta alla precarietà, riforma fiscale più progressiva ecc. ecc.) premettendo che esistono differenze rilevanti, di tipo strutturale, nell'analisi e nel percorso che ogni partito ritiene di dover percorrere per raggiungere quegli obiettivi. Nemmeno una parola che una sui due temi fondamentali, senza i quali gli auspici rimangono tali, ovvero il rapporto con la Trojka e la questione del debito pubblico. Non a caso: sono esattamente i due temi sui quali i tre partiti della sinistra portoghese si dividono profondamente. Senza un comune sentire su queste tematiche, accettando come inevitabili le differenze strutturali, nel migliore dei casi si formerà un Governo che si schianterà ai primi "niet" della Trojka, oppure che avrà una evoluzione "greca", finendo cioè per accettare nuove misure di austerità (certo i socialisti portoghesi non sarebbero disposti ad uscire dal Pse per sostenere posizioni anche solo blandamente anti-euro). Leggi tutto
In questi ultimi giorni la nostra parte (sinistra? «cosa rossa?») ha registrato due positivi segnali: la firma dei rappresentanti di tutta l’area impegnata nella costruzione del nuovo soggetto politico «di sinistra» sotto un documento comune intitolato Noi ci siamo, lanciamo la sfida e la nascita del gruppo parlamentare di Sinistra italiana. Certamente ambedue questi avvenimenti possono essere soggetti a critica per il ritardo — colpevole e dai rischi esiziali — con cui siamo arrivati a questo primo passo.
E per il fatto che nella loro manifestazione appaiono evidenti «eredità di sconfitte, arretramenti, traversie e divisioni che hanno creato sfiducia e lacerato relazioni» (Carra, il manifesto, 7 novembre).
Il documento Noi ci siamo…, ad esempio, risulta essere piuttosto generico e assai debolmente analitico; nello stesso tempo, però, contiene anche impegnative discriminanti che, se prese sul serio dai contraenti — e devono essere prese sul serio — saranno certamente portatrici di una stagione politica veramente nuova per la nostra parte. Sarebbero gravissime le responsabilità di chi facesse fallire il processo per il prevalere delle logiche che hanno portato a «sconfitte, arretramenti, traversie, divisioni».
Anche nei modi della formazione del gruppo parlamentare di «Sinistra italiana», del resto, sono presenti tracce di quelle antiche (e recenti) vicissitudini. In particolare la scarsa propensione ad andare alla radice dell’attuale fase politica di cui gli assestamenti in corso restano fenomeni di superficie. Leggi tutto
Il World Socialist WebSite riferisce sulle recenti udienze che si sono svolte al Parlamento americano riguardo le modalità di condurre una guerra mondiale. La cosa più allarmante è che tanto gli esperti militari quanto i politici -siano essi democratici o repubblicani- non sembrano avere consapevolezza delle implicazioni complessive di una guerra, concentrandosi solo su come “vincerla”. Come fosse un videogioco. La stessa eventualità di una guerra su larga scala viene presa come un dato di realtà per un futuro tutt’altro che remoto
Il complesso militare e dei servizi di intelligence americani è impegnato in una sistematica preparazione alla Terza Guerra Mondiale. Per quanto riguarda il Pentagono, un conflitto militare con la Cina e/o la Russia è inevitabile, e questa prospettiva è diventata l’obiettivo di tutti i piani tattici e strategici.
Tre udienze congressuali tenutesi martedì [il 3 novembre, NdT] hanno dimostrato questa realtà. Di mattina, la Commissione del Senato sui Servizi Armati ha organizzato un’udienza sul conflitto informatico. Nel pomeriggio, una sotto-commissione della Commissione della Camera sui Servizi Armati ha discusso l’attuale volume e dispiegamento della flotta di portaerei americane, mentre un’altra sotto-commissione dello stesso organo ha discusso la modernizzazione degli armamenti atomici.
Il World Socialist WebSite (WSWS) fornirà un resoconto più dettagliato di ciò che si è detto durante queste udienze, a cui era presente un reporter del WSWS stesso. Ma si possono certamente fare delle osservazioni preliminari.
Leggi tuttoA qualche giorno dai
fatti parigini - tra il dolore e lo sconforto dei più,
l’ipocrisia ben celata dei pochi - si può tentare,
cautamente, un esercizio di verità? Forse. Ma, va detto, solo
se si evitano semplificazioni e comunque non senza derogare al
politically
correct. Si tratta al momento solo di un esercizio di
analisi, privo di ricadute pratiche, oltretutto per una
piccolissima minoranza. Ma neanche
va sottovalutata la possibilità che, tra i discorsi deliranti
che gioco forza montano in un mondo sofferente e a sua volta
delirante, faccia
capolino una sensibilità diversa e trasversale in grado
(ancora) di porsi qualche domanda di fondo sul luogo storico
che ci capita di
abitare.
Dunque quanto è successo a Parigi è un atto di guerra? Già ma allora verrebbe da chiedersi e approfondire: guerra tra chi e per che cosa? Però, nel proliferare di differenze della tanto decantata società dell’informazione pullulante di social network, reti all news, notiziari, giornali e quant’altro, difficilmente si troverà una risposta che si discosti da un (sospetto) unanimismo: guerra della barbarie e della follia contro la civiltà (la nostra, dove il crinale tra umori di destra e di sinistra sta solo nel se, quanto e come la si possa estendere agli altri). E mentre le sparute voci che sollevano qualche dubbio sono condannate all’irrilevanza dall’inflazione di flussi accelerati spacciati per conoscenza, si fa strada tra i più l’idea (autoconsolatoria ma non per questo meno effettiva) che finalmente anche chi ha sbagliato - finanziando e armando l’Isis - adesso avrà capito e tutti insieme, russi compresi, potremo sconfiggere militarmente il mostro.
E invece le cose non sono affatto così semplici, lineari. Se di guerra si tratta, ed è così, è una guerra complessa, a più strati, dalle logiche perverse, dove tra ras distribuiti sui territori e mandanti, globali e regionali, occidentali e non - che del Medio Oriente non da ora hanno fatto una riserva di caccia - chi è sull’avanscena spesso non gioca il ruolo principale. Può suonare brutale ma le stragi di Parigi sono di questa situazione un effetto collaterale (scandaloso l’uso di questo termine, si può usare solo per le masse di cadaveri senza nome e volto fuori del mondo occidentale?). Vos guerres, nos morts.
Proviamo a dipanare un po’ il groviglio individuando le distinte ma sovrapposte dimensioni degli attacchi parigini, fatti e antefatti, e vediamo se per caso non ci sia una logica nella follia. Leggi tutto
La strage di Parigi è senza
precedenti. E' dal 1961 che la capitale francese non si
trovava in stato d'eccezione. All'epoca era in corso un
tentativo di putsch da parte dei
terroristi di estrema destra dell'OAS, contrari
all'indipendenza dell’Algeria, contro il gen. De Gaulle.
La rivolta delle banlieu del 2005 non è assolutamente raffrontabile alla situazione attuale.
Di fatto si è trattato di un'azione di guerra, compiuta da gente che la guerra la conosce, l'ha fatta e la sa fare. La dinamica di piccole unità che entrano in azione autonomamente ma in modo coordinato praticando il terrorismo contro la popolazione civile al fine di seminare la strage e colpire la convivenza e la vita civile di una comunità richiama alla mente azioni analoghe compiute in Siria nel 2011 (e da allora in poi), con i gruppi terroristi di matrice jihadista e salafita che bestemmiavano Dio al grido di "Allah Akhbar!" mentre trucidavano le loro vittime.
All'epoca, i media mainstream e settori dell'antagonismo di matrice "idiotista" parlavano di rivolta democratica brutalmente repressa dal regime di Assad. Questa volta sembrano mostrare una maggior decenza e non arrivano ad accusare Hollande delle vittime.
Il fine dei gruppi terroristi in Siria consisteva e consiste nello scardinare lo Stato, abbattere la Repubblica, rendere impossibile la convivenza, far collassare la società.
Leggi tuttoCentinaia di morti civili sono all’ordine del
giorno
nei paesi mediorientali, ma la notizia scivola come un dato di
cronaca senza provocare particolare commozione. Quando questo
avviene in un paese
dell’Europa occidentale suscita una mobilitazione e un
interesse assolutamente diverso e più importante rispetto a
tanti analoghi episodi
che tutti i giorni insanguinano quegli sfortunati paesi.
Dove sta la differenza? Forse la risposta ce la dà Aimé Césaire: ”Ciò che il borghese del XX secolo, tanto distinto, tanto umanista e tanto cristiano, non riesce a perdonare a Hitler, non è il crimine in sé, l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa procedimenti colonialisti, riservati, fino a quel momento, agli arabi d’Algeria, ai coolies dell’India e ai neri africani”.
Tutto è cominciato quando gli Stati Uniti, appoggiandosi per motivi geopolitici al governo pakistano, hanno foraggiato, finanziato ed armato la parte più retriva della società afghana, nella fattispecie i Talebani, che hanno rovesciato in un crescendo di violenze inenarrabili un governo democratico e progressista .Gli Usa, forti di quel successo e del concorso di una sinistra riformista e socialdemocratica che ha partecipato in vari modi a quei delittuosi avvenimenti, hanno replicato il gioco in tanti altri paesi. Per ricordare gli ultimi l’Iraq, la Libia e, attualmente, la Siria. I morti civili in quei paesi sono tanti e tali che è praticamente impossibile darne il numero se non con approssimazione, ma si tratta certamente di milioni. Sempre a questo proposito, il colonialismo è stata la disumanizzazione di popolazioni intere ed è stato realizzato attraverso il terrore assoluto fino a rendere vana l’idea stessa di resistenza. Tutto ciò sta avvenendo nei confronti dei popoli mediorientali con la creazione e il sostegno materiale e finanziario dell’Isis da parte degli USA che si sono appoggiati, in questo caso, agli Stati più reazionari di quell’area geografica, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Turchia.
Leggi tuttoChiunque può dire: io o qualche mio familiare o
amico avremmo potuto essere fra i massacrati nei luoghi della
strage
di Parigi. Allora siamo tutti in guerra? Ma io o i miei
familiari e amici non abbiamo dichiarato alcuna guerra, non
abbiamo fatto alcun gesto ostile
contro nessuno. Cosa fare? Sperare nella protezione di chi
promette «Saremo spietati!», dare loro pieno sostegno?
Contrariamente a quanto sciorinano tanti commentatori, la strage di Parigi non è un fatto orrendo mai accaduto in Europa o nel resto del mondo. Al di là della macabra contabilità da becchini, basta ricordare le bombe di un mese fa contro i manifestanti pacifisti in Turchia, o del 2004 alla stazione di Madrid, o le stragi di palestinesi con le bombe al fosforo israeliane, e centinaia di altri massacri. Secondo Claudio Magris siamo alla quarta guerra mondiale, dopo la terza – la guerra fredda, dal 1945 al 1989 – che ha fatto circa 45 milioni di morti; il Papa e altri ripetono da tempo che siamo alla terza guerra mondiale. La guerra è il fatto politico totale che s’è imposto e pervade tutto e tutti. Come tutte le guerre anche quella odierna – che non si svolge contro stati nemici e non è regolata da norme internazionali – i contendenti coinvolgono la popolazione civile massacrandola, e chiedendo il suo sostegno per proteggerla.
Ma chi sono i contendenti di oggi? Come siamo approdati alla guerra attuale? Colla «memoria corta» che viene alimentata nei paesi cosiddetti occidentali, usi a presentarsi quali «santuari di pace» in un mondo di guerre, si ignora il processo che ha portato all’attuale guerra permanente.
Leggi tutto1. Francia,
paese Nato.
La serie di attentati in Francia che ha stroncato la vita a un numero impressionante di innocenti solleva subito una questione cruciale che si pone a un livello successivo alla disamina e alle disquisizioni su cosa è successo veramente e sui punti oscuri che inevitabilmente salteranno fuori, come nel caso di tutti, ripeto tutti, gli atti terroristici, non ultimo quello contro Charlie Hebdo.
Al di là dello schema solito, che sembra ormai un marchio di fabbrica, dei passaporti degli attentatori trovati subito dopo gli attacchi, come già alle Torri Gemelle, come già al Pentagono, come già al Charlie Hebdo, la storia moderna è costellata di punti oscuri di questa natura. Anche pensando a cose ben più nobili come il nostro Risorgimento, le stesse azioni di sovversione armata dei nostri patrioti (si pensi alla spedizione dei Mille) e i loro attentati (si pensi a Felice Orsini), non erano immuni dai giochi tra potenze che si svolgevano allora in Europa. Quindi lasciamo queste cose per ora in sospeso e passiamo oltre.
La domanda è, dunque, "Come reagirà la Nato?"
Già, perché la Francia è un paese Nato sotto attacco. Quindi a rigor di logica, la Nato dovrebbe intervenire per difenderlo. Questa è l'ipotesi a caldo.
Gli azzeccagarbugli dell'Alleanza Atlantica dovranno scovare le giustificazioni statutarie, ma, se c'è la volontà e possibilità politica, la fatica non sarà poi molta, visto che la Nato è per lo meno dai tempi del Kosovo che ha deciso di fare quello che vuole in barba alla sua stessa natura ufficiale e alle regole che la rispecchiavano. Leggi tutto
Sebbene sconvolti
dobbiamo cercare di fare nostro il motto spinoziano, “non
piangere né ridere ma comprendere”. Dobbiamo, anche
se non è facile, analizzare ciò che è successo e focalizzare
la nostra attenzione su ciò che ci può aiutare a
capire come sia stata possibile una mattanza di questo genere.
Il primo elemento, a mio avviso, è che non abbiamo a che fare con il terrorismo “classico”, diciamo cosi novecentesco, che aveva – passatemi il termine- una base e un fondamento “umanistico”; aveva come obiettivo gli uomini-simbolo del “male” del sistema e perseguiva un nuovo (malato, deformato, deviato) orizzonte umano da edificare a qualunque costo, anche sacrificando vite umane. La morte era sì contemplata ma come elemento accidentale, insito, in questo tipo di lotta estrema e disperata (anche perché, dal loro punto di vista, il sistema non permetteva altra lotta se non quella).
Qui, viceversa, siamo di fronte ad un salto di qualità impressionante, che racconta della deriva “mortifera” che attanaglia – direbbe Freud – la nostra civiltà; una pulsione di morte, di un sacrificio salvifico e ambito da portare al cuore del nemico. Morire non è più un accidente, un effetto collaterale della lotta ma diviene l’elemento centrale, se non determinante, del nuovo, inedito, attacco in corso. Leggi tutto
Il sistema delle macchine è un mostro totalitario. Ha consentito lo sviluppo economico, ma ha prodotto una società che non tollera eresie. Un sentiero di lettura a partire dal saggio «La religione tecno-capitalista» di Lelio De Michelis per Mimesis. Ma quello mondiale è un disordine fortemente organizzato, come testimonia «L’età del caos», un libro di Federico Rampini per Mondadori. Nel frattempo, la democrazia è ridotta a guscio vuoto e in deficit di legittimità, come afferma nel suo ultimo volume Pierre Rosanvallon pubblicato da Rosenberg&Sellier
Un libro con una tesi
semplice, ma basato su una stratificazione analitica,
filosofica, economica e sociologica molto articolata
e complessa, quasi a costituire un labirinto nel quale il
rischio è di smarrirsi. C’è molta teoria critica
francofortese, ma anche il fustigatore della tecnostruttura
Jacques Ellul, il socialista liberale Norberto Bobbio, il Max
Weber della gabbia di
acciaio, l’ostilità filosofica di Martin Heidegger verso la
tecnica, la filosofia antitotalitaria di Hannah Arendt.
E molti altri
ancora. L’autore è Lelio De Michelis, docente di sociologia
economica e studioso da anni della grande trasformazione che
ha
investito il capitalismo negli ultimi tre decenni a partire
dal ruolo sempre più determinante della tecnica, e la scienza
diventata
forza produttiva a tutti gli effetti, nei processi produttivi.
Suoi contributi sono usciti nei volumi collettivi Biopolitiche
del
lavoro, Biopolitica, bioeconomia e processi di
soggettivazione e Natura e artificio, dove la
tecnologia
è vista come un apparato ormai autonomo dall’economia, ma che
ha il potere di imporre regole, vincoli e compatibilità
all’insieme delle relazioni sociali. Ha infatti un potere
performativo che plasma la realtà sociale e politica a sua
immagine
e somiglianza. Il capitalismo, avverte De Michelis, l’ha usata
per garantire la sua riproduzione, che marxianamente non
poteva che essere
allargata, arrivando cioè a costituire l’unico modo di
produzione del pianeta terra, cancellando, talvolta
violentemente, talvolta
in maniera light, le altre forme di produzione della
ricchezza. Il capitalismo, cioè, non ha più né antagonisti –
il
socialismo reale – né altre formazioni sociali subalterne, nel
classico rapporto tra centro e periferia del sistema-mondo,
dove
attingere materie prime o dove vendere le merci prodotte. Leggi tutto
Mario Tronti, tra i
fondatori dell’operaismo italiano, ha proseguito, dopo la
conclusione di quell’esperienza,
la sua riflessione sulla politica, sul Novecento e sul
presente. Il risultato più recente del suo sforzo teorico
è il libro Dello
spirito libero, uscito nel 2015. A
partire da alcuni temi evocati in questo libro e nei suoi
contributi recenti gli abbiamo posto alcune domande sui
caratteri del nostro tempo e della
crisi attuale.
***
Nei tuoi scritti la crisi in cui viviamo è vista come una crisi di lungo periodo, che da un lato è crisi della modernità e dall’altro è crisi del movimento operaio. Sembrerebbe che noi ci troviamo in un tempo minore che se è comprensibile solo alla luce del Novecento è al tempo stesso inferiore al Novecento stesso. Da questo punto di vista, retrospettivamente, essendo ormai entrati nell’ottavo anno della crisi, qual è il tuo punto di vista sulla crisi economica attuale? Pensi che ci fosse la possibilità di una reazione diversa da quella che effettivamente c’è stata?
Intanto dobbiamo un po’ ricostruire il giudizio sulla sostanza di questa crisi. Io non sono di quelli che si sono meravigliati della crisi economica e finanziaria perché ho sempre visto il capitalismo con l’occhio di Schumpeter: l’andamento ciclico dell’economia capitalistica, che era già implicito nell’analisi marxiana, è fatto di sviluppo e crisi, di crescita e recessione, di sviluppo e stagnazione. Leggi tutto
"Dal nostro punto
di osservazione
italiano, disegniamo un perimetro di conflitti incrociati,
da ciò che resta della Libia a ciò che resta dell’Ucraina
passando per
Golfo e Mar Nero, salvo rientrare a Parigi nel cuore
dell’Europa. Ne osserveremo interdipendenze ma anche
irriducibili specificità
locali, proiettandole sullo sfondo della competizione
geopolitica per eccellenza, quella fra Stati Uniti e Cina
per il primato mondiale.
(…) La cifra della geopolitica planetaria è oggi il
disordine. Come in ogni fase di caos sistemico si forma
una domanda di ordine.
Stati Uniti e Cina sono i massimi soggetti in
competizione per intercettarla, legittimarsi come
cofondatori del nuovo ordine e affermarsi quali
egemoni globali.(…) Forse un giorno i due contendenti
stabiliranno che il migliore degli ordini mondiali
possibili per entrambi è
riscrivere insieme le nuove regole del gioco”. Lucio
Caracciolo (direttore Limes), Il foglio 16
novembre
2015
***
Alle ore 15:00 del 13 novembre, a poche ore dall’attentato a Parigi, i data base finanziari di tutto il mondo pubblicavano le vendite al dettaglio americane dello scorso mese. Nell’anno, esse erano diminuite del 2,8% ma il dato clamoroso fu un altro. Il Dipartimento del Commercio comunicava che il rapporto tra scorte e vendite era ai massimi dal 2009 (in piena crisi mondiale), precisamente 1,38. A fronte di beni in magazzino pari a 1800 miliardi di dollari, le vendite fino ad ottobre erano pari a 1300 miliardi di dollari.
Leggi tuttoTutta la questione dell’Isis e della conseguente decisione sulla guerra, si basa su un assunto di partenza: che l’Isis voglia distruggere l’Occidente cristiano, il nostro stile di vita, le nostre libertà e trasformare San Pietro in una Moschea, come si legge nei loro proclami che ci appaiono farneticanti. Dunque è l’Occidente il nemico principale della jihad da cui dobbiamo difenderci. Ma le cose stanno proprio così?
Indubbiamente questa è la versione propagandistica dell’Isis e non c’è dubbio che gli jihadisti “di base” (se ci si consente il termine) pensa esattamente questo ed è disposta ad immolarsi con gli attentati suicidi, anche per vendicare i morti dei bombardamenti occidentali.
Forse è il caso di ricordare che le imprese guerresche occidentali hanno fatti 1 milione di morti fra i civili irakeni, centinaia di migliaia fra gli Afghani, decine di migliaia fra libanesi, libici ecc. Senza contare i palestinesi nel conflitto con gli israeliani. Dunque, che ci sia un sentimento di forte ostilità nei confronti dell’occidente è del tutto plausibile e non solo fra gli estremisti della Jihad, ma anche fra la gente comune ed è proprio su questo risentimento che gli jihadisti fanno leva sia per allargare la loro sfera di influenza, sia per delegittimare, parallelamente le classi dirigenti nazionali dei paesi arabi o, comunque, islamici.
La “narrazione” della guerra Occidente-Islam è profondamente distorsiva ed impedisce di vedere una serie di aspetti di grande importanza. In primo luogo occulta il dato della guerra civile islamica che, come diremo, è prevalente sulla guerra con l’Occidente. In secondo luogo alimenta la leggenda di un islam moderato che si identifica con i pretesi alleati dell’Occidente (sauditi, quatarioti, Erdogan ecc.) che, al contrario, rappresentano la parte peggiore e più integralista dell’Islam. Leggi tutto
Esiste ancora la democrazia in questo Paese? Non stiamo parlando della democrazia popolare, né tantomeno di quella proletaria, ma della cosiddetta democrazia liberale… Dicevamo, esiste ancora la democrazia ai nostri tempi? Ai tempi dell’Unione Europea? Messa in questo modo la domanda potrebbe sembrare bizzarra perché il diritto di voto non è stato soppresso (anche se ormai quelli che vi rinunciano stanno quasi per superare i votanti), l’offerta elettorale può contare su decine di partiti (anche se, stringi stringi, stanno tutti nello stesso campo economico-sociale), in edicola si trovano decine di quotidiani diversi (anche se alla fine dicono un po’ tutti le stesse cose) e poi, da quanto ne sappiamo, non sembra profilarsi all’orizzonte nessun colpo di stato ne tanto meno si ode quel “tintinnar di sciabole” che così fortemente condizionò la vita politica del secolo scorso (anche se in giro per le strada, soprattutto in questi giorni, si vedono girare parecchi militari). Eppure, nonostante questa parvente normalità, ci pare di poter dire senza timore d’essere smentiti che quell’insieme di istituzioni, regole e riti che abbiamo imparato a conoscere su noiosissimi libri di educazione civica viene oggi messo in discussione (nella sostanza, se non nella forma) da una moderna e tecnocratica forma di fascismo. Quello che qualcuno prima di noi ha acutamente definito come “vincolismo”. In nome di una serie di parametri tecnici ed economici apparentemente neutri, definiti in sede europea dalle classi dominanti e posti per l’appunto come “vincoli esterni”, è stato di fatto sottratto al processo democratico l’esercizio della politica valutaria, della politica monetaria e della politica fiscale definendo, aprioristicamente, il perimetro delle politiche economiche e sociali entro cui ciascun governo può muoversi e chiudendo ogni spazio di mediazione tra gli interessi delle diverse classi. Leggi tutto
La debacle dei servizi segreti francesi verificatasi venerdì scorso, è stata l'occasione per riciclare il vecchio luogo comune secondo cui gli insuccessi dei servizi vengono clamorosamente alla ribalta, mentre i successi rimangono nell'ombra. In uno di quegli articoli scritti all'insegna del "tengo famiglia", anche lo scrittore Erri De Luca nel febbraio scorso ha cercato di ridare lustro a questo luogo comune, e lo ha fatto, nientemeno, che sul sito ufficiale dei servizi segreti.
Si tratta di uno di quegli argomenti inconfutabili, e quindi, come tutto ciò che si pone come inconfutabile, appartiene al regno del nonsenso. Sarebbe come se i medici si facessero vanto del fatto che in giro ci sono ancora tante persone vive. Se si rimane invece nell'ambito della logica, quanto è avvenuto venerdì toglie attendibilità a tutto ciò che i servizi di "intelligence" francesi stanno diffondendo adesso a proposito degli attentatori, a cominciare dai famosi passaporti degli attentatori, così fortunosamente ritrovati in stile 11 settembre.
In particolare l'attribuzione dell'attentato all'ISIS ha riscosso il meditato scetticismo di molti commentatori non ufficiali. L'attentato nel quartiere sciita di Beirut, avvenuto il giorno prima di quello di Parigi, possiede, oltre che la scontata rivendicazione, soprattutto il marchio inconfondibile dell'ISIS, poiché è evidente il proposito di colpire la base sociale del principale nemico arabo del jihadismo sunnita, cioè Hezbollah.
L'interesse dell'ISIS nell'attuare un attentato in Francia, cioè contro uno dei suoi principali alleati contro Assad, era invece praticamente zero. Persino se si prendesse per buona la ridicola storiella ufficiale secondo cui Hollande non ha mai appoggiato l'ISIS, ma i ribelli "moderati" anti-Assad, rimarrebbe il fatto che l'ISIS non avrebbe alcun tornaconto a mettersi contro uno dei più inflessibili nemici del proprio nemico Assad. Leggi tutto
Grande folla al Quirino di Roma per la nascita del nuovo soggetto politico di sinistra; molti i temi sollevati, folto il pubblico, manca però qualcosa. Anzitutto i temi, pochi se non assenti i riferimenti ai diritti civili e alla laicità dello stato.
A guardar meglio questa mancanza potrebbe non essere casuale. Essa, purtroppo, indica qualcosa di molto più profondo: perché questo vuoto è colmato da un’ingombrante presenza. Infatti, da parte di alcuni leader di primo piano della nuova formazione, come anche nell’enunciazione dei suoi valori fondativi, s’intende far riferimento alla dottrina sociale della chiesa cattolica e alla recente enciclica Laudato Sì di papa Francesco. E qui, leggendola, troviamo tutte le ragioni della mancanza sopra osservata.
Vediamo: qual è, secondo papa Francesco, l’origine ultima della crisi che investe le nostre società? “La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato” [§ 2]; e più oltre: “L’idea che non esistano verità indiscutibili che guidino la nostra vita, per cui la libertà umana non ha limiti” [§ 6], cioè si rifiutano le verità divine di cui la chiesa sarebbe portatrice. Già, perché le due proposizioni sono connesse: se la violenza, per natura, è dentro ciascuno di noi, la libertà è pericolosa; è necessario dunque che l’individuo sia posto sotto il controllo dell’autorità politica sul piano dei comportamenti pratici, e della chiesa sul piano del pensiero. È qui riproposto un tema da sempre presente nella dottrina cattolica; esso fonda le ragioni ultime di quel fatto - troppo spesso dimenticato - per il quale la chiesa di Roma si è sempre schierata contro l’affermazione delle moderne libertà civili e politiche, fino a trovarsi accanto ai peggiori regimi: dal fascismo di Franco e Mussolini alle dittature dell’America Latina. Leggi tutto
Qui la lettera di Badiou
Caro
compagno, caro amico,
la forza di pensiero che hai messo nella tua risposta mi ha commosso profondamente. Questa è quella che si dice una vera prova di amicizia: rifiutare le rapide (s)qualificazioni quando non si è d’accordo, e mettersi a pensare. Accetto tutte le critiche a riguardo della situazione politica e ideologica in Cina – qui, la tua conoscenza dello stato delle cose supera di molto la mia. Come sempre, al di là dei dettagli storici, tu tocchi l’essenziale, su due livelli. Innanzitutto, si tratta della particolare dimensione di “tra noi”, in cui viene a svolgersi il dibattito sulle catastrofi della sinistra. Questo è un punto cruciale, che non ha nulla a che vedere con il tentativo di minimizzare i danni. Al contrario, la nostra tesi dev’essere che solo la sinistra radicale è in grado di tracciare tutti i contorni di queste catastrofi . Un caso piuttosto aneddotico è quello del film La vita degli altri (2006), di Florian Henckel von Donnesmarck, celebrato e premiato con l’Oscar per aver fornito una riflessione sulla maniera in cui il terrorismo della Stasi penetrava in ogni singolo poro delle vite private nell’ex-DDR. È davvero così? A ben vedere, è quasi un’immagine rovesciata quella che appare: proprio come succede a molte descrizioni appassionatamente anticomuniste che illustrano la durezza di quei regimi (è utile in proposito ricordare che von Donnesmarck viene da una famiglia della nobiltà della Prussia orientale – il film è la sua rivincita dopo l’espropriazione e l’esilio!). Leggi tutto
Naturalmente, come ogni mappa,
anche questa è produzione
di uno sguardo soggettivo. E’ scritta di getto in tre ore,
non ha note d’appoggio, si basa sulle conoscenze
(relativamente limitate)
dell’autore
Il problema siro-iracheno proviene
dalle
forme statuali che vennero imposte nel XX° secolo ad una
regione che, storicamente, non ne aveva. Tale problema è
esteso a tutta la fascia
Africa-Medio Oriente-Asia Meridionale e venne creato per una
sovra imposizione di forme statuali, lì dove storicamente si
sono avuti califfati
e pullulare di piccoli regni più o meno tribali. Non solo si è
imposta una forma che non aveva ragioni di esistere date le
tradizioni
storiche, culturali, politiche e soprattutto religiose ma la
stessa ripartizione, seguendo unilaterali interessi dei
colonizzatori, ha assemblato
pezzi di popoli incompatibili ed ha diviso in pezzi popoli
storicamente omogenei.
Questo vero e proprio disastro geopolitico, in Medio Oriente, ha nome e data precisa: l’accordo spartitorio tra Francia e Gran Bretagna del 1916, negoziato tra due diplomatici che vi apposero il proprio nome, l’Accordo Sykes (UK) – Picot (FRA) con altrettanto distruttivi contributi successivi. L’anno prossimo ne ricorre il secolo di anniversario. Questa è la base del problema ma poi su questa base già di per sé contraddittoria, si sono sommate ulteriori contraddizioni lungo la Seconda guerra mondiale ed i decenni successivi.
Si arriva così con un carico di pezzi di puzzle che non sono stati torniti per combaciare, alla Seconda guerra USA-Iraq. L’Iraq era uno dei capolavori “meglio riusciti” dei geografi politici britannici: curdi (non arabi) sunniti, con arabi sunniti, con arabi e iranici sciiti. I minoritari arabi sunniti, a loro volta innaturalmente separati dai parenti dislocati nell’attigua Siria, avevano con Saddam, il governo autoritario della pentola a pressione irachena.
Leggi tuttoDietro la malattia di Abdelaziz Bouteflika infuria la lotta per il potere tra i clan rivali. E con il presidente ridotto al silenzio, ma in carica, i suoi uomini possono continuare indisturbati a saccheggiare le risorse del paese. Ma la catastrofe è dietro l'angolo
Chi si
ricorda dell’Algeria? Sapete, quel piccolo paese grande come
l’Europa occidentale sull’altra riva
del Mediterraneo. Proprio di fronte alla Sardegna. Non si
parla quasi mai dell’Algeria. Tranne se un gruppo di
terroristi prende in ostaggio
o taglia la testa a qualche cooperante occidentale. I media
internazionali hanno sempre coperto pochissimo il paese
nordafricano. Poche
notizie ne escono. Anche la sanguinaria guerra civile degli
anni 90 che ha falciato quasi 300 mila persone è stata una
delle guerre meno
documentate nella storia moderna. Sarà perché in Algeria tra
un’uccisione di occidentali e un’altra non succede
nulla?
Non è così. L’Algeria è un paese molto dinamico dove succedono molte cose. C’è una società civile che lotta per uscire dalla terribile situazione in cui è rinchiuso il paese dalla fine della guerra. Ci sono conflitti sociali importanti. Ultimamente ci sono stati persino scontri etnici tra popolazioni arabofone sunnite e una minoranza berberofona ibadita. Quindi c’è guerra etnica e religiosa. Il piatto favorito dell’infotainment globale. Eppure niente. Nessuno ci ha dato importanza e i timidi lanci delle agenzie sono andati a finire nella pattumiera delle notizie non notiziabili.
Questo silenzio è dovuto al fatto che l’Algeria è un paese poco conosciuto all’estero. Perché è rimasto chiuso per molti anni su se stesso. E in qualche modo lo è ancora. Ma è dovuto anche al fatto che il regime algerino è molto ricco e molto abile nell’arte di comprare il consenso internazionale. Dieci pozzi per i francesi, venti per gli americani, un gasdotto per gli italiani, qualcosina per i tedeschi, qualcosina per i canadesi… e così via. Se sai ingraziarti le multinazionali di ogni luogo diventi un paese al di sopra di ogni sospetto. Leggi tutto
Il
testo che affrontiamo oggi, Calcolo economico e forme di
proprietà (1970) parte dalla domanda fondamentale che
l’autore formula nella prefazione: “L’Unione Sovietica è
socialista?”. Per analizzare tale forma di produzione,
Bettelheim cerca di far ricorso ad una teoria della
transizione, considerato che di società socialista
sviluppata non si può
parlare, per stessa ammissione di Stalin e dei suoi
successori.
Per rispondere a questo interrogativo e per sviluppare la riflessione su una teoria della transizione, l’autore parte da alcuni passi dell’Engels dell’Anti Duhring, in particolare quelli che riguardano la pianificazione: “La produzione immediatamente sociale, così come la distribuzione diretta, escludono ogni scambio di merci, quindi anche la trasformazione dei prodotti in merce… e conseguentemente escludono anche la loro trasformazione in valori” (cit. a p. 17); “…la società non assegnerà valori ai prodotti…Certo anche allora dovrà sapere quanto lavoro richiede ogni oggetto di uso per la sua produzione…Il piano, in ultima analisi, sarà determinato dagli effetti utili dei diversi oggetti di uso… senza l’intervento del famoso ‘valore’” (cit. a p. 18).
Eppure nessuna delle economie del socialismo reale negli anni in cui scrive l’autore realizza le previsioni di Engels. I calcoli economici non si fanno sulla base del tempo di lavoro per calcolare la forza lavoro necessaria agli “effetti utili”. Anzi il calcolo monetario ancora attraverso l’utilizzo dei prezzi di scambio, ancorché a volte pianificati, porta ad escludere che la teoria del valore sia superata in URSS e negli altri paesi socialisti.
Bettelheim distingue il calcolo economico sociale e il calcolo monetario e afferma che il secondo spesso soverchia il primo.
Leggi tuttoD’Alema ha proposto una azione di guerra contro l’Isis per debellare il “Califfato”. Molti altri ancora non l’hanno detto ma lo pensano. E, d’altro canto è la risposta più facile da dare alla rabbia popolare.
Escluso che si possano bombardare i casermoni delle banlieu da dove provengono alcuni dei terroristi che sarebbero stati identificati, non potendo essere certi di identificare ed arrestare i clandestini dell’Isis presenti in Europa in tempi brevi, l’unico obiettivo visibile ed a portata di mano è quello, per cui la risposta immediata può essere quella. Ma sarebbe una mossa saggia?
Riflettiamoci un attimo: il nostro problema più urgente è stroncare la minaccia terroristica sul nostro territorio e radere al suolo il Califfato non azzererebbe quella minaccia. Se la memoria non mi inganna, aver abbattuto il regime dei talebani non eliminò la minaccia terroristica di Aq e dei gruppi più o meno collegati, visto che ci furono le stragi di Madrid, di Londra e così via. Quindi, Califfato o non Califfato, il problema di come sradicare la rete terroristica in Europa resterebbe.
Personalmente, essendo marxista, non sono un pacifista o un non violento e, pur odiandola, non escludo la guerra dal novero delle scelte politiche possibili (pur odiandola: ripeto), inoltre penso che il Califfato vada estirpato senza troppi complimenti e che questo sia possibile solo con la forza, prima o poi. Ma questo è un problema distinto dall’altro e lo terrei separato. Per ora il problema è quello di riattrezzare l’intelligence dei nostri paesi rendendola un po’ più efficace di quello che è stata sinora. Leggi tutto
Si è svolto, nello scorso fine settimana, l’annuale convegno promosso dall’Associazione Asimmetrie “Euro, Mercati, Democrazia”.
Giunto alla sua quarta edizione, questo fondamentale ritrovo di chi segue l’opera divulgativa di Alberto Bagnai ha proposto come argomento 2015 il ripensamento dell’unione ( “u” minuscola ) dell’Europa attraverso un’analisi storica e sociale che ha coinvolto importanti esponenti del pensiero critico attuale : da Luciano Canfora a Giandomenico Majone, da Francesco Bilancia a Vladimiro Giacchè a Pier Paolo Dal Monte a Luciano Barra Caracciolo e naturalmente al padrone di casa.
Quest’anno si è preferito escludere dal dibattito il pensiero mainstream a dimostrazione di come ormai esso risulti così avvitato su se stesso da non poter in nessuna maniera essere utile nella definizione di un tavolo propositivo per il superamento della crisi.
Quindi via i vari Boldrin, Lippi, Boltho e Puglisi che hanno animato la platea negli anni passati e di cui gli astanti, saliti nel tempo a quasi 600 unità, non hanno sentito la mancanza.
Limitata comunque la trattazione macroeconomica della crisi, retta dai seppur autorevoli Granville, Flassbeck e Evans-Pritchard, a dimostrazione del fatto che ormai l’analisi tecnica del pasticcio in cui ci troviamo, per chi ha voluto capire, fa parte di un passato di identificazione delle cause. La scienza macroeconomica servirà in seguito, a supportare il progetto sociale, sostitutivo dell’attuale, di cui il convegno ha inteso definire gli aspetti. Leggi tutto
Il trionfo del neoliberismo: lo Stato come residuo e come strumento
Il pensiero neo-liberista professa una forte avversione per lo Stato, al quale vorrebbe ritagliare poche funzioni residuali, quali la giustizia e i servizi, e il potere di legiferare sulle materie che restano quando si toglie l'economia. Per decenni i maîtres á penser del liberismo post-capitalistico ci hanno rifilato la nozione incontrovertibile - per la verità, più simile a una prescrizione che a una legge di natura - che lo stato dovesse abbandonare il presidio della finanza, che la deregulation dei mercati - massicciamente varata nell'era di Reagan e della Thatcher - avrebbe liberato questi di ogni intoppo burocratico e gli avrebbe consentito di dispiegare tutta la loro creatività, la loro razionalità, la loro auto-determinazione.
La meravigliosa macchina finanziaria avrebbe generato le sue stringhe infinite di prodotti, perdendo progressivamente ogni aggancio alla materialità dei processi produttivi, alla consistenza del denaro come strumento di scambio, alla fisicità dei luoghi, degli spazi in cui si produce la ricchezza. I mercati sarebbero diventati ciò che era loro destino divenire: pura astrazione, denaro come valore, valore come prosciugamento di ogni residuo processuale del fare, del costruire, del produrre materiale.
Ciò che non è stato mai detto, mai chiaramente, è che il pendant necessario a questa strategia globale di trasformazione della produzione di valore dovesse essere la trasformazione in merce di ogni cosa, di ogni cosa pensabile ma anche di ogni cosa impensabile, che aspetta solo di essere pensata in quanto merce. Leggi tutto
Con il trascorrere delle ore, si precisano i contorni della terribile notte parigina di venerdì 13 novembre. E sono i soliti: gli attentatori, i jihadisti disposti a farsi saltare in aria, sono giovani europei, francesi e belgi, usciti dalla immigrazione post-coloniale. Figli, a tutti gli effetti, di quella République con cui a Parigi ci si sciacqua la bocca, ma che ha allevato una generazione di paria.
Andate nelle banlieues, toccherete con mano che cos’è l’odio nei confronti del razzismo strisciante che pervade la Francia, e che sarebbe riduttivo riassumere con il nome di Marine Le Pen. Non sono solamente i dati statistici a dirlo (la disoccupazione giovanile, il fallimento scolastico: chi è nato e vissuto nelle periferie francesi ha il doppio delle possibilità di non terminare gli studi, e parliamo della scuola dell’obbligo); sono soprattutto i cappucci delle felpe perennemente alzati, gli sguardi torvi. Là c’è una numerosa schiera di arrabbiati, alcuni dei quali disposti a diventare dei kamikaze e a fare un macello.
Non bisogna credere che, da un punto di vista urbanistico, le banlieues siano un disastro – tutt’altro: a Scampia si sta molto peggio. Ma c’è uno scarto sostanziale tra le periferie delle grandi città italiane (soprattutto Roma e Napoli) e le periferie francesi. Si tratta della differenza culturale. In Italia, grosso modo, i giovani sono tutti controllati dalle famiglie, sono immersi nella stessa temperie familistica o familistico-criminale, quando si tratta della malavita organizzata. Nei paesi dalla storia coloniale e post-coloniale più complessa della nostra, invece, la differenza culturale è vissuta come una riappropriazione delle radici da parte di giovani per lo più allo sbando, provenienti da gruppi familiari numerosi e scombinati (c’è persino una psichiatria specializzata nel trattamento delle sindromi depressive derivanti dal passaggio da una cultura a un’altra).
Leggi tuttoIl nuovo libro di Alessandro
Somma - “L’altra faccia della Germania. Sinistra e democrazia
economica nelle maglie del neoliberalismo”, DeriveApprodi,
Roma, 2015,
pp. 192, 13 euro - appartiene al genere decisamente raro dei
libri che mantengono più di quanto promettano.
Stando al titolo, si potrebbe pensare a un testo dedicato esclusivamente alla sinistra tedesca. E questo tema nel libro, come vedremo, è approfondito a dovere. Ma, al tempo stesso, c’è un’analisi molto precisa dell’evoluzione della Germania neoliberale dai tempi di Schröder in poi. E ci sono, infine, gli insegnamenti che l’autore ritiene la sinistra italiana farebbe bene a trarre dalle vicende di quella tedesca.
Cercherò di dar conto di tutti e tre questi aspetti del libro di Somma. Partendo dal secondo, che rappresenta in verità lo sfondo da cui si stacca l’evoluzione della sinistra tedesca, politica e sindacale, negli ultimi 15 anni. Il punto di partenza di questa storia è rappresentato dalla decisione del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder – teorizzata nel manifesto per la “terza via” da lui firmato nel 1999 assieme a Tony Blair – di abbracciare le politiche neoliberali, mandando in soffitta come superata e viziata da "presupposti ideologici" l'idea, tipica della tradizione socialdemocratica, che lo Stato debba correggere i “fallimenti del mercato". Anche la priorità tradizionalmente attribuita alla "giustizia sociale" deve cedere il passo alla necessità di "creare le condizioni per la prosperità delle imprese".
Leggi tutto“La guerra oggi non è niente di diverso da quello che era prima. Essa aumenterà la domanda di navi, aumenterà i rischi dei trasporti e i prezzi delle merci; la speculazione avrà una ripresa...Al contrario se non viene alla guerra, il mondo dovrà ancora aspettare a lungo un miglioramento naturale che è ancora lontano” (In P. Togliatti, La preparazione di una nuova guerra mondiale da parte degli imperialisti e i compiti dell'Internazionale comunista)
Incipit
Mentre si stava completando la revisione del presente saggio Parigi era sotto attacco. Cellule islamiche combattenti, legate all'Isis, hanno portato la guerra non solo dentro le metropoli imperialiste ma lo hanno fatto colpendo direttamente la popolazione. Non si è trattato di un attacco indiscriminato, come sostenuto da gran parte dei commentatori e analisti distratti, bensì di una serie di azioni che miravano a colpire i rituali maggiormente frequentati dalla popolazione: la cena al ristorante all'inizio del week–end, un concerto live e, rituale tra i rituali, lo stadio. Nessuna “follia terrorista” ma una lucida e razionale strategia di guerra. Il suo obiettivo, ampiamente raggiunto, è stato quello di riportare la dimensione di massa della guerra proprio là dove, il “pensiero strategico”, l'aveva archiviata nel museo della storia. L'imperialismo fondamentalista, con questa mossa, spiazza l'intero archetipo della forma guerra coltivato dagli imperialismi occidentali ponendolo in una oggettiva situazione di crisi. Mettendo sotto scacco lo stile di vita della popolazione raggiunge un triplice obbiettivo: in prima istanza pone in una condizione cognitivamente impensabile, e probabilmente insostenibile, le popolazioni occidentali le quali, della guerra, avevano un'idea non distante dal videogame; in seconda battuta logora il nemico il quale, di fronte ad attacchi simili, non può che precipitare in una situazione di panico permanente obbligandolo a consumare, senza che la cosa apporti, con ogni probabilità, a qualche risultato concreto, enormi quantità di mezzi e di risorse nell'illusione di garantire la sicurezza dentro i propri territori; Leggi tutto
ANSA
Una vera e propria pioggia di fuoco su Raqqa, la
‘capitale’ dello Stato islamico in Siria: lo riferiscono gli
attivisti anti-Isis
nella città. “Almeno 30 i raid aerei” nelle ultime ore, “che
si sono intensificati in serata”. La Francia conferma,
attraverso il ministero della Difesa, il massiccio
bombardamento dei suoi jet su Raqqa, la ‘capitale’ dell’Isis
in
Siria.
France
24
Aerei Francesi hanno lanciato il
più grande attacco aereo ad oggi in Siria contro la
roccaforte dello Stato Islamico a Raqqa, due giorni dopo
l’attacco terroristico a
Parigi. Il ministro della difesa ha affermato: “L’attacco …
con dieci aerei da combattimento, è stato lanciato
simultaneamente da basi degli Emirati e della Giordania.
Sono state sganciate venti bombe. L’operazione, condotta in
coordinamento che le
forze americane, ha colpito un centro di comando,
un centro di reclutamento, un deposito
di
munizioni e un campo di addestramento.
§
Il primo ministro Manuel Valls, stamattina, durante una conferenza stampa ha definito l’operazione “impitoyable”. Un giornalista gli ha banalmente chiesto come mai, questa “spietata operazione” non è stata eseguita prima, dal momento che gli obiettivi erano conosciuti non certo da ieri. La risposta di Valls è stata più o meno che “noi combattiamo l’ISIS da quattro anni”, o qualcosa del genere. Leggi tutto
Di fronte alle reiterate azioni terroristiche, finalizzate a uccidere a caso per seminare paura con il solo obiettivo di mostrare la potenza di fuoco e la fragilità di alcune istituzioni, c’è poco da dire. Rimane un senso non tanto di terrore ma di depressione e frustrazione. Con atti (a Parigi l’ultimo di una serie che rischia allungarsi sempre più) che durano qualche decina di minuti, si fanno compiere alla storia balzi all’indietro misurabili in lustri.
Siamo in un mondo che definire orrendo è poco. Un mondo che negli ultimi 30 anni ha visto naufragare non solo la possibilità di sviluppare pratiche di convivenza civile e di tolleranza reciproca ma anche la possibilità di proseguire sulla via del progresso sociale e della multiculturalità. La responsabilità principale sta proprio in quei poteri che oggi vengono così crudelmente attaccati a scapito di chi, come in un antico rito sacrificale, non ha direttamente la colpa. Perché tutto è cominciato dal nuovo ordine mondiale geoeconomico e geopolitico che si è andato configurando alla fine degli anni Settanta.
La svolta liberista di Thatcher e poi di Reagan hanno segnato il riscatto degli interessi manageriali e finanziari dopo un decennio di crisi e ritirata di fronte alle rivendicazione di una classe operaia fordista oramai matura e che doveva essere annientata con qualunque mezzo. Contemporaneamente, la stabilità globale veniva messa a dura prova dalla crisi di egemonia statunitense con il crollo del sistema di Bretton Woods, la sconfitta in Vietnam, la nascita del movimento dei paesi non allineati, l’incapacità dell’Urss di rappresentare un’alternativa credibile alla crisi del fordismo (anche l’URSS era un’economia fordista).
La rigidità imposta dall’equilibrio bipolare è così superata dalle nuove tendenze nel campo tecnologico, produttivo e lavorativo volte a imporre il nuovo ordine neo-liberista. Leggi tutto
Credevamo di aver ormai sentito tutto, o quasi. Pensavamo che le porcate avessero un limite e che anche la tanto fumosa società civile comprendesse che c’è una soglia di sopportazione per le boiate. Ma ecco che Bologna, che si crede ancora grassa e rossa, ci lascia nuovamente a bocca aperta con la sua nuova strategia di rigenerazione urbana.
La procedura è chiara, inequivocabile e ripetibile, insomma è esemplare e sappiamo quanto la bella Emilia Romagna ami impartire lezioni di benessere al resto del paese. Funziona così: io Comune distruggo il grosso delle abitazioni di fortuna di quelli che fortunati non sono, tu società civile mi ripulisci la zona e ci giochi una volta a settimana, poi re-intervengo io Comune e te la riprendo al primo buon affare con qualche promotore immobiliare senza peli sullo stomaco. Il modello dei modelli. Ora la speculazione edilizia si fa anche grazie a tutta ‘sta civiltà sociale.
Ma una cosa dobbiamo necessariamente riconoscerla. A chi sostiene che la società civile non esiste e che non vuol dire nulla, ribattiamo dicendo che c’è e che ha tratti decisamente identificabili. Fai da servizio manutenzione degli spazi pubblici grazie a una vasta platea di volontari, senza chiedere nemmeno un soldo come compenso? Ti piace la cittadinanza attiva solo se è bianca, frikkettona e depoliticizzata? Pensi che la tua associazione di migranti debba collaborare a questo operazione per pagare il «debito dell’integrazione»? Ami assecondare gli sgomberi di intere famiglie colorate che vivono secondo degli standard per te inaccettabili? Te ne freghi di cosa accadrà dopo che li sgomberano? Pensi spesso che l’interculturalità vada bene, ma non con tutte le culture? Leggi tutto
Saggi. «La Germania: problema d’Europa?» di Gabriele Pastrello per Asterios
Alla questione che Thomas Mann poneva agli studenti di Amburgo nel lontano 1953 — se si dovesse avere una Germania europea o un’Europa tedesca — le classi dirigenti hanno già risposto nella maniera peggiore. Ma non per questo la questione è chiusa per sempre. Gabriele Pastrello — La Germania: problema d’Europa? Asterios, pp. 74, euro 7 — torna a ragionarci sopra in un libro denso, ma scorrevole che interviene con grande rigore nel dibattito sul ruolo della Germania nella più grande crisi economica del capitalismo europeo. Malgrado le ridotte dimensioni, l’autore non adotta uno stile pamphlettistico. Non troviamo invettive, né l’adagiarsi su un crescente sentire antitedesco – dopo il trattamento riservato alla Grecia da un lato e l’affaire Volkswagen dall’altro — ma lo snodarsi di argomentazioni che ci dipingono, quasi con stile espressionista, un quadro della Germania di oggi. Un pregio se non raro, certamente infrequente.
L’autore si pone in primo luogo il compito di demolire alcuni luoghi comuni. come quello di una crescita virtuosa basata sulle proprie forze. «La Germania, si può dire, è stato in tutto il dopoguerra il parassita delle politiche keynesiane mondiali. Il mondo cresceva grazie a quelle, e così le esportazioni tedesche». Il Piano Marshall aveva, anche, questo scopo. La Conferenza di Londra del 1953 – richiamata giustamente dai greci come possibile modello per risolvere il problema dell’oggi – condonò i debiti di ben due guerre mondiali alla Germania per permetterle di ripartire. Un’altra parte fu rimandata a dopo l’unificazione tedesca. Ma quando questa ci fu – e Pastrello giustamente la chiama «annessione», uno snodo essenziale nella crescita tedesca – Kohl si oppose a riaprire la questione. E la Merkel lo ha recentemente ribadito in modo stizzito. Leggi tutto
1. Lo spunto per
ri-attualizzare la questione, che troverete approfondita
ne "La Costituzione nella palude", lo fornisce
questo recente
commento
di "Stopmonetaunica":
"Se ho capito bene, quello che lei definisce consumismo senza senso è lo spostamento ordoliberista dai diritti del lavoro ai diritti del consumatore considerato come unico Dio. Se è questa la definizione che ne dà sono perfettamente d'accordo; è chiaro che i due diritti si trovano sovente in conflitto; banalmente: il consumatore vuole pagare di meno una merce, il lavoratore vuole essere pagato di più; la deflazione salariale adesso fa sì che sia anche una scelta obbligata da parte del consumatore il pagare meno le merci e nel contempo chiedere tutte le garanzie che queste merci siano prodotte con standard qualitativi alti; è quindi un circolo vizioso, un feedback negativo, che porta alla catastrofe sociale..."
2. Due piccole precisazioni: "consumismo senza senso" è una (felice) definizione non mia, ma di Rawls.
La "catastrofe sociale", in realtà, dipende da quale osservatore di consideri. Un neo-liberista, cioè in particolare un ordoliberista, vedrebbe tale schema come un virtuoso ripristino non solo del magico sistema dei prezzi, ma anche delle indispensabili gerarchie (di fatto), che devono governare la società come "Legge" superiore alla "legislazione" degli "inutili" parlamenti (quando non siano espressione del sondaggismo controllato dagli "operatori economici razionali"). Leggi tutto
Lettera ad Alain
Badiou su Mao e sulla Rivoluzione Culturale; per una
serie di circostanze non ho trovato il tempo, il modo e la
voglia di pubblicarla. Me ne ero quasi dimenticato quando
ieri mi sono imbattuto nella Risposta ad Alain Badiou scritta
da
Slavoj Žižek. Così oggi mi decido a postare la mia Lettera
al filosofo francese, senza mutarne una virgola. Il
lettore
non si lasci ingannare dal titolo: si tratta di un format
retorico strumentale all’esigenza di esporre nel modo più
diretto e sintetico
possibile la mia posizione su alcuni importanti eventi
storici, la cui spinta propulsiva ideale come si vede è
lungi dall’essersi
esaurita. Insomma, da parte di chi scrive non si culla
alcuna pretesa di poter interloquire da “pari a pari” con
un intellettuale di fama
e di prestigio internazionali. Premetto alla Lettera
alcune considerazioni sulla Risposta di Žižek
che in larga
parte riprendono i temi esposti nella prima. Mi scuso
quindi con il lettore per le ripetizioni.
***
1. Sulla Risposta di Žižek alla Lettera di Badiou. Scrive Žižek a Badiou alludendo agli esiti disastrosi dello stalinismo e del maoismo: «La nostra tesi dev’essere che solo la sinistra radicale è in grado di tracciare tutti i contorni di queste catastrofi». Chi scrive ha mosso politicamente i suoi primi passi sul terreno arato e fertilizzato dai vinti, ossia da quei comunisti che già negli anni Venti del secolo scorso incominciarono a denunciare la battuta d’arresto, ancora vivo Lenin, e poi l’involuzione fino alla piena e totale sconfitta del Grande Azzardo chiamato Rivoluzione d’Ottobre. Parlo di Bordiga, di Gorter, di Pannekoek, di Korsch, di Trotsky e di pochissimi altri ancora. Le loro lezioni della controrivoluzione, non sempre concordi tra loro su tutti gli aspetti della questione e naturalmente in una mia personale ricezione, hanno costituito il mio punto di partenza, la prospettiva dalla quale non solo ho iniziato a interpretare la storia del movimento operaio internazionale del passato e del presente, ma ho anche approcciato gli scritti marxiani. Leggi tutto
I terroristi non sono
lupi solitari ma pesci che nuotano nell’acqua del
risentimento che si cova nelle banlieue. Adesso il rischio
è che s’inneschi una spirale di violenza che potrebbe
contagiare l’intero corpo sociale.
La strategia dello Stato Islamico in Occidente è ormai chiara: attraverso l’esercizio di una violenza feroce e indiscriminata, si tratta di attirare sui musulmani delle rappresaglie che li spingano poi ad abbracciare la causa jihadista. È un meccanismo infernale del quale avevo illustrato il funzionamento fin dagli attentati a Charlie Hebdo. Ma quello che abbiamo vissuto in gennaio non era ancora niente: oggi abbiamo la terribile conferma che quella strategia sta funzionando.
Quando il presidente François Hollande parla di una guerra, con l’obiettivo di rendere operative le forme giuridiche che ne conseguono, sta esorcizzando lo spettro di qualcosa di ben peggiore: quello di una guerra civile. Siamo seri, nessun esercito potrà mai invadere la Francia dalla Siria e dall’Iraq, nemmeno se tra i rifugiati dovesse nascondersi qualche combattente infiltrato. I terroristi che hanno agito il 13 novembre a Parigi sono nati e cresciuti in Europa, dove spesso hanno precedenti di piccola criminalità. Nel martirio hanno trovato la maniera di esprimere un risentimento — la haine — che ha ben poco di religioso. E che non si combatte con le bombe. Leggi tutto
Purtroppo la simulazione onirica nella quale viviamo è ancora imperfetta, ci si deve lavorare perché il mondo Matrix presenta molte falle. Niente che non si possa rimediare, lampi qui e là dal mondo reale che non scuotono l’opinione pubblica guidata al pascolo dai campanacci dei media. Però non si sa mai perché a volte ci può essere un tale accumulo di incongruenze nella rappresentazione da innescare la macchina del dubbio. Certo è difficile perché l”informazione c’è, ma è sparsa come le tessere di un puzzle, ci si mette dei mesi a comporre l’immagine e a far venire fuori la scritta: ancora una volta vi abbiamo fregato. Sempre quando è troppo tardi.
Quante persone la sera della strage a Parigi sapevano che l’inchiesta su Charlie Hebdo era stata fermata da oltre un mese dopo l’invocazione del segreto militare sulla provenienza delle armi usate i terroristi, ufficialmente comprate nella Repubblica Ceca dai servizi segreti francesi? I magistrati di Lilla che hanno scoperto la cosa si sono salvati la vita chiudendo l’inchiesta davanti al segreto di stato. E così sia.
Pochi giorni fa l’ex capo dei servizi segreti interni di Parigi, nel totale silenzio dei media mainstream, ha rivelato come due anni fa il governo francese abbia rifiutato per “ragioni ideologiche” l’aiuto di Damasco che voleva fornire la lista dei cittadini francesi che militavano nei gruppi terroristi (vedi qui). E oggi il giornale on line Mediapart chiede scusa ai lettori per aver taciuto la notizia che i servizi sapessero vita, morte e miracoli di Ismaël Omar Mostefaï, uno dei terroristi del Bataclan, e di tutta la cellula salafista di Chartes a cui apparteneva. Leggi tutto
Dieci giorni dopo il sanguinoso raid di Parigi, è difficile
trovare qualcosa da dire su questa guerra che non sia già
stato detto.
Venticinque anni fa.
Sono infatti già passati un quarto di secolo e almeno mezza
dozzina di crisi analoghe dall’operazione
Desert Storm, ufficialmente organizzata per “liberare il
Kuwait”, che oggi è fra i principali finanziatori
dell’ISIS.
Morire per un iPhone scritto da Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden per Jaka Book, a cura di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto è una ricerca collettiva iniziata da un gruppo di “sessanta docenti e studenti di venti università della Cina continentale, di Taiwan e Hong Kong”. Una ricerca sociale su vasta scala che si muove dentro l’esperienza storica pervasiva del lavoro globale, che si misura con gli eventi e le emergenze del presente. Mette in tensione alcuni degli assunti del fare ricerca oggi, come l’etica dell’accademia e l’uso delle istituzioni universitarie. Insomma, un lavoro ben al di là dell’accademismo impegnato: nell’esaminare la responsabilità della Apple e di altre imprese che subappaltano alla Foxconn, nel valutare il ruolo sia dello Stato cinese che delle organizzazioni sindacali nei confronti dello sfruttamento operaio vi è l’affondo alle deboli narrazioni e posizioni dei molti, anzi di troppi professori e ricercatori.
L’idea positivistica della neutralità delle scienze sociali è messa in crisi dal carattere parziale, dal posizionamento di questi ricercatori rispetto al fenomeno che indagano, rendendo evidente una loro sorta di impossibilità a trascendere l`oggetto di indagine. Per riprendere la teoria dell’indagine scientifica di Dewey, quel rapporto tra norme e prassi, tra teoria e prassi cessa di contrapporsi: l’una diventa la condizione di possibilità dell’altra e dove i confini disciplinari tendono a sfumare, nell’organizzazione dei saperi il criterio di efficacia si impone intrecciando in maniera virtuosa produzione di conoscenza e intervento. Una ricerca sociale e politica che si produce tra la soggettività del ricercatore e del nuovo lavoratore globale, protagonista di questo lavoro. Leggi tutto
Nel gennaio scorso, dopo i fatti di Charlie Hebdo, richiamavo, in un breve intervento, la sacrosanta definizione data da Judith Butler, filosofa e attivista femminista americana, sulla diversa modulazione della indignazione, del dolore, della compassione, a seconda che le vittime fossero a Parigi o in qualche posto del mondo, fuori dall’Occidente. Lei parlava di “indignazione ineguale”.
Noi dobbiamo pacatamente osservare oggi che forse occorrerebbe stare zitti, praticare saggiamente il silenzio. I chierici contemporanei, giornalisti, politici di professione, sedicenti intellettuali, officiano ogni giorno nei talk show, nel circo mediatico. Ci spiegano, ci turlupinano, ci confondono le menti. Ci chiamano alla guerra, si adoperano per arruolarci. Con le dovute eccezioni, dal loro lato, e con le dovute eccezioni, nel farci manipolare e turlupinare, dal lato nostro. No, grazie.
Molta controinformazione, molta analisi seria, molto giornalismo serio esistono, per fortuna, in Italia e nel mondo, e pertanto non occorre ripetere a oltranza o dire la propria, a mo’ di pisciatine animali per marcare il territorio.
Modestamente vorrei fare qui solo alcune considerazioni, al
solo fine di portare qualche contributo in più alle
pregevoli analisi e alla
controinformazione di cui sopra.
In primo luogo, l’eterno, inveterato, granitico
eurocentrismo. La macelleria storica è enorme. La
guerra esiste da sempre, addirittura da secoli, nella “zona
delle tempeste”, nei vari angoli del mondo. Il colonialismo
e
l’imperialismo ne hanno prodotte e ne producono su scala
industriale. Ma non ci toccano. Pensiamo solo a come Francia
e Inghilterra sistemarono,
a inizio Novecento, disegnando a tavolino, con righello e
matita, i confini di paesi e di aree nella loro spartizione
dell’ormai in agonia
Impero Ottomano. Una sistemazione foriera di guerre e di
lutti. Leggi tutto
La disoccupazione ha raggiunto livelli senza
precedenti in Europa occidentale. I salari sono in discesa e
si intensificano gli attacchi all’organizzazione dei
lavoratori. Nel 2013 quasi un
quarto della popolazione europea, circa 92 milioni di
persone, era a rischio povertà o di esclusione sociale. Si
tratta di quasi 8,5 milioni di
persone in più rispetto al periodo precedente la crisi.
La povertà, la deprivazione materiale e il super-sfruttamento tradizionalmente associati al Sud del mondo stanno ritornando anche nei paesi ricchi d’Europa.
La crisi sta minando il “modello sociale europeo”, e con esso l’assunto che l’impiego protegge dalla povertà. Il numero di lavoratori poveri – lavoratori occupati in famiglie con un reddito annuo al di sotto della soglia di povertà – è oggi in aumento, e l’austerità peggiorerà di molto la situazione in futuro.
Alcuni critici sostengono che l’austerità è assurda e contro-producente, ma i leader europei non sono d’accordo. Durante l’ultima tornata di negoziati con la Grecia l’estate scorsa, Angela Merkel ha dichiarato: “Il punto non sono alcuni miliardi di euro – la questione di fondo è come l’Europa può restare competitiva nel mondo.” C’è del vero in tutto questo. Quello che la Merkel non dice è che i lavoratori in Europa, nel Sud dell’Europa in particolare, competono sempre di più con i lavoratori del Sud del mondo. L’impoverimento e l’austerità in Europa sono le due facce della stessa medaglia, e riflettono una tendenza strutturale all’impoverimento e profondi cambiamenti dell’economia globale.
Leggi tuttoIl triste patriota
Houellebecq
L’articolo di Houellebecq che il Corriere della sera ha pubblicato in prima pagina il 19 novembre è sconsolante: inizia dicendo che il governo francese è responsabile della tragedia che ha colpito Parigi, perché ha provocato le popolazioni di molti paesi arabi con i bombardamenti umanitari degli ultimi anni, poi rimprovera al governo francese di non essersi opposto con la dovuta energia all’ondata migratoria che nereggia ai confini d’Europa.
“Chi ci ha inculcato, per tanti anni, che le frontiere sono un’assurdità antiquata, simbolo di un nazionalismo superato e nauseabondo?” chiede Houellebecq con sdegno patriottico.
Poi elogia il buon popolo francese che “ha sempre conservato fiducia e solidarietà nei confronti dell’esercito e delle forze di polizia; ha accolto con sdegno i predicozzi della « sinistra morale» (morale?) sull’accoglienza di rifugiati e migranti e non ha mai accettato senza sospetti le avventure militari estere nelle quali i suoi governanti l’hanno trascinata.”
La confusione regna nella mente frastornata di Houellebecq, ma Houellebecq è un poeta, il suo delirio va letto con rispetto perché l’inconscio collettivo si esprime anche nella voce di Celine, di Limonov. Il delirio reazionario è un genere letterario talora apprezzabile, se non fosse che qualche volta incontra e fomenta un’onda reazionaria di massa. E allora sono guai.
E’ comprensibile che la popolazione sia spaventata dall’afflusso di stranieri, soprattutto dopo la notizia (falsa? vera?) che uno degli assassini del Bataclan è sbarcato all’isola di Leros confondendosi tra i siriani che cercano rifugio in Europa. Leggi tutto
“Turkey, like every country, has the right to defend its territory and its airspace” dice il sempre evanescente Barack Obama, sottolineando che non ha dettagli aggiuntivi da fornire circa l’abbattimento del SU-24 russo. Anche il segretario della NATO, il norvegese Jens Stoltenberg, ammette candidamente che tutte le informazioni di cui dispone l’Alleanza nord atlantica sono di provenienza turca ed il portavoce americano dell’operazione Inherent Resolve, colonnello Steve Warren, sposa senza esitazioni la tesi turca “dell’incursione russa”: l’intera apparato militare occidentale, incredibilmente, sembra dipendere da Ankara.
Sorge quindi il dubbio: la Turchia ha agito sicura della protezione della NATO e magari su istigazione della medesima?
Secondo i russi, il bombardiere Su-24 al momento dell’abbattimento per mano di un F-16 turco volava in territorio siriano, ad un chilometro dal confine e la dinamica è più che plausibile considerato che già nel marzo del 2014 Ankara si era arrogata il diritto di abbattere un MiG di Damasco senza che questo sconfinasse. Il caccia turco non avrebbe inoltre proceduto con la consueta prassi di instaurare un contatto visivo e/o radio con il velivolo “intruso”, scortandolo fuori dallo spazio aereo di competenza anziché abbatterlo.
Cosa ha indotto il presidente Recep Erdogan ad avventurarsi su un terreno così insidioso? Tre sono probabilmente le ragioni: Leggi tutto
Parigi – Londra,
patto
di guerra. Così titolava in prima pagina il
“Corriere della sera” ieri mattina. Poi, nella stessa
giornata, un caccia
russo Sukhoi 24 è stato abbattuto nei cieli turco-siriani su
ordine del premier Ahmet Davutoglu e la Russia ha schierato
le proprie navi
davanti alla costa turca. L’esplodere dei grandi conflitti è
sempre stato preceduto dal manifestarsi di una grande
“voglia di
guerra”. Voglia che si manifesta nelle dichiarazioni
pubbliche e nei discorsi privati, nei quotidiani e, oggi,
nei media di ogni genere. Nelle
scelte della politica e dell’economia. Nella preparazione
delle azioni militari e in quelle repressive. Nella
designazione di un nemico
disumano, meritevole di ogni violenza e di ogni atto di
vendetta.
Voglia di armi
“Energia e difesa trainano le borse”. Non erano ancora passati cinque giorni dai fatti di Parigi che, mercoledì 18 novembre, “il Sole 24 Ore” poteva trionfalmente dichiarare in prima pagina la felicità degli investitori per la situazione venutasi a creare per le conseguenze poltico-militari degli attentati messi in atto dai militanti dell’Isis . Come se ciò non bastasse sulla colonna di sinistra un altro articolo dichiarava, quasi spudoratamente: “Europa e conti. Più che la stabilità poté la sicurezza”.
L’appello di lunedì 16 novembre del Presidente della Repubblica francese alla clausola dell’articolo 42, punto 7, del Trattato di Lisbona, riferito al mutuo soccorso europeo, ha aperto di fatto la porta alla possibilità di uscire dai vincoli dei trattati europei, riguardanti la spesa degli stati, per tutto ciò che riguarda la sicurezza ovvero uomini, armi e tecnologie securitarie. Il taglio della spesa pubblica, tanto richiamato da tutti i partiti di governo e di opposizione, in un solo colpo può quindi essere aggirato, grazie sostanzialmente all’appello di François Hollande, a favore delle imprese fornitici di armamenti per gli eserciti e servizi all’intelligence.
Da qui la gioia delle Borse, per le quali, evidentemente, i morti, parigini o siriani che siano, della guerra in atto non sono altro che una forma di interesse da pagare per il buon funzionamento e la ripresa dei mercati. Una specie di keynesismo del sangue che andrebbe di diritto inserito tra i crimini dei potenti e dell’economia di recente analizzati da Vincenzo Ruggiero in alcuni suoi testi.1
Leggi tuttoCome prevedibile, i gerarchi austeristi hanno iniziato il
loro riposizionamento.
Ne abbiamo parlato qui,
ottenendo una risposta francamente esilarante, di una disarmante povertà scientifica ed etica.
Il nostro vantaggio, evidente a chi ha assistito al convegno
di ieri
a Parigi, è che nel resto del mondo non è chiaro a quale
livello di diffusione e approfondimento analitico siamo
riusciti a spingere il
dibattito in Italia.
Ora va fatta una scelta: ponti d'oro, o napalm?
La scelta, però, non dobbiamo
farla noi, ma i gerarchi austeristi, quelli che, come
sapete, hanno censurato a suo tempo quella che
ora propongono come loro "visione unanime". Quella non era
la loro visione, e ancora non lo
è. Fanno finta che lo sia per salvare la faccia. Possiamo
consentirglielo, purché si scusino e riconoscano il nostro
ruolo nel
dibattito.
Altrimenti napalm.
A questo proposito, mi scuso per i diversamente europei, ma
da qui in avanti si
procederà sempre più spesso in europeo (inglese, francese,
tedesco). Ho richiesto le traduzioni in queste lingue di tre
post: Leggi tutto
Dopo i tremendi attacchi terroristici di Isis nel cuore di Parigi, da tutti i governi si è levata una voce unanime: occorre rompere ogni legame economico con il cosiddetto “stato islamico”. Da dove Isis ricavi le enormi somme di denaro di cui dimostra di potersi avvalere è il ritornello di ogni dibattito o analisi. Si finanzia con il petrolio? Certo, ma, essendo l’acquisto di petrolio un processo industriale, occorre che qualcuno lo compri, e non lo farà portandosi una tanica alla volta sopra un carretto. Si finanzia con il contrabbando? Certo, ma, sebbene ad un livello di complessità industriale minore, vale lo stesso ragionamento del petrolio.
Forse occorre risalire la corrente e porsi alcune domande. E’ da tempo noto il legame di Isis con le petromonarchie del Golfo: Arabia Saudita, Qatar, Kuwait. Naturalmente, questo non significa che ci siano le prove che questi Stati finanzino in quanto tali l’estremismo jahdista, ma senz’altro richiede un approfondimento sull’enorme massa di investimenti che questi paesi hanno da tempo avviato in Europa.
A questo proposito, ci scuserà il premier Renzi, che sappiamo in difficoltà ogni volta che il suo favoloso mondo smart si dimostra luogo di immani tragedie, ma alcune domande rispetto a Cassa Depositi e Prestiti sorgono spontanee.
Nel luglio 2014, da FSI (Fondo Strategico Italiano- 80% di CDP e 20% di Banca d’Italia) è nato FSI Investimenti, formato da FSI (77%) e da Kuwait Investment Authority (23%), il fondo sovrano del Kuwait. Al nuovo Fondo sono state conferite tutte le partecipazioni detenute da FSI Leggi tutto
Piccola lezione di urbanistica contemporanea.
Nella città degli eletti, si ragiona così:
La movida e il divertimento non si fermano nella capitale francese e nelle zone più centrali colpite dagli attentati del 13 novembre: sono soprattutto i giovani, quelli della “Parigi che non si ferma” gli stessi che portano un fiore o una candela prima, a ridare coraggio alla città: “Bisogna continuare a vivere, a uscire. Chiudersi in casa non è la buona soluzione: sarebbe come ammettere che loro hanno vinto e noi abbiamo perso. Non siamo noi che dobbiamo cambiare, ma loro”.
Leggi tuttoMentre la zona euro abbozza una
fase
di ripresa molto moderata, si moltiplicano i pronostici
allarmisti sulla traiettoria generale dell'economia
mondiale: «La crescita cinese rallenta, l'economia mondiale
soffre»
è, ad esempio, il titolo di Le Monde del 20 ottobre 2015.
Christine Lagarde 1 elenca «le ragioni per
essere inquieti sul fronte economico», e Jacques Attali 2
annuncia che «il mondo si avvicina a una grande catastrofe
economica».
Cominciamo con un breve panorama della congiuntura: la crescita mondiale rallenta, principalmente nei paesi emergenti tranne l'India. Tale tendenza si alimenta con la diminuzione del prezzo delle materie prime e si trasmette ai paesi avanzati. Anche il commercio internazionale rallenta, allo stesso ritmo del PIL mondiale, come se la mondializzazione produttiva avesse raggiunto un tetto. La zona euro registra una ripresa timidissima e disuguale. Gli Stati Uniti e il Regno Unito se la cavano meglio, ma la crescita tende a rallentare in un caso e appare artificiale nell'altro.
Dal lato della «sfera finanziaria», il quantitative easing (alleggerimento quantitativo) alimenta bolle di attivi [finanziari] più che l'investimento produttivo, che stagna. E la sola prospettiva - finora respinta - di un aumento dei tassi della Fed (la banca centrale degli Stati Uniti) grava come una spada di Damocle sufficiente per destabilizzare le monete e i mercati finanziari di molti paesi. In breve, «l'incertezza e forze complesse pesano sulla crescita mondiale», per riprendere la formula del FMI nelle sue ultime prospettive3.
Leggi tuttoLa
locuzione ricorrente nei media mainstream dopo l’attacco
mortifero in vari luoghi pubblici di Parigi del 16
novembre 2015
è che questa «è guerra!», la stessa che uscì dalla bocca
di Sarkozy1, dopo il blitz alla redazione di
Charlie Hebdo. L’insistenza, più che a scarsa
convinzione o a incredulità, sembra volta a rendere
accettabili i ben più
micidiali bombardamenti che il governo francese stava
preparando e le relative misure interne di «sicurezza»
che dovranno piovere sul
fronte della guerra di classe. Ora, come si concili
l’emblema della nonviolenza inalberato col canto
militaresco della Marsigliese e i 5000
morti civili causati dai primi bombardamenti per
rappresaglia bisognerebbe pure spiegarlo, ma non lo farà
nessuno come non lo fecero
l’ottobre 1961 in occasione dei massacri di centinaia di
algerini. Questa è una faccenda che però è necessario
comprendere.
***
Secondo Alain Bertho2, il secolo XXI sarebbe «l’epoca delle sommosse», diversa dalle «rivolte arcaiche» del secolo precedente fino alle «proteste» degli anni ’70. La crescita, a livello globale, di rabbie collettive senza obiettivi strategici, di passaggi all’azione quasi disperati, è una gamma di gridi di rabbia simile da un capo da un capo all’altro del pianeta, dall’incendio di un’auto-mobile all’uso delle reti informatiche. In genere non vengono capite dai media, preoccupate solo di seguirne l’aspetto spettacolare, ma incapaci e per niente interessati a porsi il problema di cosa siano, delle cause e dei messaggi che lanciano. Nemmeno lo Stato dedica un minimo di attenzione alle cause, mostrando un’incapacità di dialogo e una rottura nella società, che non si potrà mai ricomporre con gli appelli alle unions sacrées , né con la forza dell’azione militare e sicuritaria. Leggi tutto
Da alcuni
giorni è stato proclamato nella Francia metropolitana,
ovvero nella parte europea del Paese, lo stato
d’eccezione, le cui conseguenze sono elencate in due diversi
decreti varati dall’esecutivo[1].
In tutto il
territorio le autorità amministrative possono ora limitare
la libertà di circolazione, regolamentare o vietare il
soggiorno delle
persone, nonché disporre perquisizioni di giorno e di notte.
Nell’Ile-de-France, la Regione di Parigi, si potrà anche
obbligare
chi è ritenuto una minaccia per la sicurezza e l’ordine
pubblico a soggiornare in determinate zone delimitate, oltre
che chiudere i
luoghi di spettacolo, di mescita di bevande e di riunione di
qualsiasi natura, e impedire gli assembramenti considerati
idonei ad alimentare
disordini.
In virtù di questi decreti, le autorità amministrative, senza il controllo della magistratura come si addice allo stato di eccezione, hanno disposto misure come la chiusura di scuole e università, il divieto di tenere manifestazioni nella regione parigina, oltre a centinaia tra perquisizioni, interrogatori e ordini di soggiorno su tutto il territorio nazionale.
Tutto questo è previsto da una legge emanata all’epoca della guerra d’indipendenza algerina[2], il conflitto che non a caso determinò la fine della Quarta e l’avvento della Quinta Repubblica, ovvero la sconfitta del parlamentarismo e la vittoria del presidenzialismo voluto dal Generale de Gaulle. In un solo caso, oltre a quelli legati alle vicende che accompagnarono l’indipendenza algerina, lo stato d’eccezione venne decretato sul territorio metropolitano: quando, nel 2005, vi fu la cosiddetta rivolta delle banlieu. Allora fu necessario coinvolgere il Parlamento, dal momento che l’esecutivo volle far durare lo stato d’eccezione oltre i dodici giorni, e ciò è possibile solo con un’apposita legge. Anche questa volta si arriverà a questo, giacché François Hollande ha già anticipato l’intenzione di prorogare la misura di almeno tre mesi. Leggi tutto
Sembra proprio che, per uscire da quella che alcuni economisti chiamano “stagnazione secolare”, le economie avanzate siano costrette a perseguire politiche monetarie molto espansive, politiche chiamate quantitative easing (o “allentamento quantitativo”). La stagnazione secolare è quella situazione in cui non c’è crescita economica malgrado tassi di interesse prossimi allo zero o addirittura negativi. In situazioni del genere, specie quando si protraggono nel tempo, le banche centrali, come la Bce o quella giapponese (e prima di loro laFederal reserve americana), adottano misure cosiddette non convenzionali, ossia creano liquidità in dosi massicce per acquistare buoni del tesoro e obbligazioni private con l’obiettivo di combattere il rischio di deflazione (o di assenza di inflazione) e di favorire l’erogazione di credito al settore privato, cioè alle imprese e ai privati cittadini.
Purtroppo queste politiche monetarie, almeno fino ad oggi, non hanno dato i frutti sperati. L’inflazione è ferma allo zero, in alcuni paesi si è già in deflazione, il che rende ancor più difficile la riduzione dei debiti pubblici e l’aumento della competitività delle imprese, dato che prezzi e salari sono rigidi verso il basso, ciò che porta dritti a ondate di licenziamenti per abbattere i costi. Leggi tutto
Non si può certo dire che il cammino per l'unità della sinistra sia semplice e lineare. Mi riferisco ovviamente alle forze e alle persone che si sentono e si collocano alla sinistra di un Pd che del campo della sinistra non fa più parte da tempo, per esplicita scelta del suo gruppo dirigente, in primis del suo segretario. Eppure tale cammino è in corso. Alcuni organi di stampa amano fare del gossip sull'argomento. Personalizzando le varie posizioni e contrapponendole come in una commedia dell'arte. Ognuno fa il suo mestiere, anche se sarebbe opportuno farlo meglio. E questo vale per tutti, nessuno, ma proprio nessuno escluso.
Sta di fatto che il "caso italiano", di cui ormai parlano solo gli storici, si è completamente rovesciato. Siamo il paese dell'Unione europea dove la sinistra è più debole, o tra le meno consistenti sia in termini di consenso, misurato o no attraverso il termometro elettorale, che in quelli di forza nella presenza politica e nella vita sociale del paese. Conseguentemente in termini di organizzazione. Eppure, da quando "L'Altra Europa con Tsipras" raggiunse, anche se di pochissimo, quel quorum alle europee che permise un'inversione di tendenza nei confronti della coazione a ripetere la sconfitta, un nuovo percorso ha preso inizio fino a giungere alla condivisione di un breve documento che convoca un'assemblea nazionale per il 15-16-17 gennaio 2016. Il documento "Noi ci siamo, lanciamo la sfida", è stato elaborato e condiviso da Act!, Altra Europa con Tsipras, Futuro a Sinistra, Partito della Rifondazione Comunista, Possibile, Sinistra Ecologia Libertà. Alle riunioni del tavolo hanno partecipato Sergio Cofferati e Andrea Ranieri. Leggi tutto
In questi giorni appare folgorante una frase riportata dal Financial Times del defunto principe Saud Feisal al segretario di Stato Usa John Kerry: «Daesh è la nostra risposta sunnita al vostro appoggio in Iraq agli sciiti dopo la caduta di Saddam». Ecco in cosa consiste la Saudi Connection: una politica estera intossicata dalle involuzioni di Riad con i jihadisti mentre la sua campagna militare in Yemen, denominata “Decisive Storm”, è diventata un Vietnam del Golfo.
La Saudi Connection è soprattutto il rapporto ombelicale che da 70 anni lega Washington a Riad. L’Arabia Saudita, il più oscurantista degli Stati islamici, è la roccaforte del sunnismo ma anche la nazione musulmana con il più antico patto con gli Stati Uniti, firmato tra Ibn Saud e Roosevelt nel 1945, pochi giorni dopo Yalta.
I sauditi dopo l’accordo sul nucleare iraniano si sono sentiti traditi da Washington, perché considerano Teheran la minaccia numero uno. Ma le cose non stanno del tutto così. In termini pratici significa che mentre Obama e Re Salman si stringevano la mano al G-20 di Antalya veniva firmato l’ennesimo contratto militare: 1,2 miliardi di dollari per 10mila sofisticate bombe Usa da scaricare i Yemen sulla testa dei ribelli sciiti Houti.
Negli ultimi cinque anni i sauditi hanno acquistato sistemi d’arma da Washington per 100 miliardi di dollari, di cui 12 negli ultimi mesi, nonostante il Congresso abbia sottolineato la persistente violazione dei diritti umani e i crimini di guerra in Yemen. Alla luce di queste cifre si spiega l’atteggiamento americano nei confronti del Califfato e dei jihadisti siriani sponsorizzati dalle monarchie del Golfo. E si comprende perché Washington esiti a mandare truppe a terra.
Leggi tutto
Gli attentati di Parigi
del 13 novembre ci hanno fatto – lo ammettiamo, ingenuamente –
pensare per un momento che
finalmente, in Italia, dopo tanto blaterare di «terrorismo», i
commentatori avrebbero capito cosa è il «terrorismo» e
avrebbero imparato a distinguerlo non solo dalla lotta armata
ma anche dalla normale dialettica politica tra le classi.
Abbiamo peccato di
ingenuità, appunto.
Avremmo dovuto ricordare, infatti, che già nel novembre del 2014, un anno fa, su «Famiglia Cristiana» il sociologo Stefano Allievi, disquisendo sull’Isis, si chiedeva retoricamente
che cosa sarebbe successo in Italia se le Brigate rosse avessero avuto un loro territorio? [...] All’interno dell’islam si svolge una battaglia culturale che somiglia a quella affrontata dalla sinistra all’epoca del terrorismo. Allora, semplificando, ci fu una serie di passaggi: da “i brigatisti sono provocatori fascisti” a “compagni che sbagliano” a “nemici del popolo”. Solo quando riconobbe che i terroristi, anche se si richiamavano a ideologie e simboli della sinistra, erano nemici dei lavoratori e dello Stato, la sinistra innescò il processo che sconfisse il terrorismo.
Si trattava di una delle prime avvisaglie di quel parallelo tra Isis e Brigate rosse, esperienze diversissime ma “incredibilmente” racchiuse sotto la comune categoria di “terrorismo”, che negli ultimi giorni, dagli attentati di Parigi in poi, è stata riproposta spesso – più o meno tra le righe – dai media e dal mondo politico. Per primo si è espresso Matteo Renzi che, come un disco rotto, ha ribadito più volte a distanza di giorni il concetto che «l’Italia ha sconfitto il terrorismo interno negli anni ‘70 e ‘80 e sicuramente ha la forza per combattere il terrorismo anche in questa fase» (leggi) e che «per isolare il terrorismo italiano negli anni ‘70 e ‘80, più ancora delle azioni del governo è stata importante la reazione della società civile: l’indignazione degli operai, dei studenti e dei cittadini» (leggi). Leggi tutto
In un articolo
apparso a
fine ottobre sul magazine online “Medium”, Robin Chase,
fondatrice di Zipcar (un noto servizio di car
sharing collaborativo
angloamericano), racconta come il tempo medio di vita di
un'impresa dal 1960 a oggi sia radicalmente calato: dai 61
anni, in media, degli anni
Sessanta, ai 15 di oggi. Chase sostiene che questo sia un
indicatore, fra i tanti, del processo di cambiamento
socio-economico in atto. Innovate
or die, questo è il mantra. Qui, l'industrializzazione
e l'automazione basate su un'idea centralizzata del lavoro
(gerarchica e top-down)
oggi lasciano spazio (meglio, cedono il passo) a un'idea di
organizzazione del lavoro centralizzata, distribuita e non
gerarchica che Chase sintetizza
nella definizione Peers Inc.
L'idea alla base di Peers Inc. è quella secondo cui la nuova industrializzazione al tempo dell'economia di Internet si basa su un modello di organizzazione del lavoro incentrato su una piattaforma e un core centrale, esiguo, di lavoratori che garantiscono il funzionamento della stessa. Attorno a questi, poi, si estende una larga parte di “lavoratori” che non lavorano direttamente per la piattaforma, ma offrono servizi ai clienti della stessa – quelli che Chase chiama Peers. Uber, ad esempio, funziona cosi: c'è la piattaforma, c'è il core di lavoratori che ne permettono il funzionamento (i dipendenti di Uber nel mondo) e ci sono i Peers: nel caso di Uber, i drivers che mettono a disposizione le auto ai clienti della piattaforma – noi, che dobbiamo andare a Linate, e il taxi costa parecchio, e non lo possiamo chiamare con l'app. Anche Airbnb funziona così: c'è il core di lavoratori che gestisce la piattaforma, ci sono i clienti (noi, che vogliamo andare in vacanza spendendo poco per un uso cucina) e ci sono i Peers: quelli che Airbnb chiama host, quelli che una volta avremmo chiamato affittacamere, che offrono il servizio ai clienti della piattaforma. Leggi tutto
Intervista con il filosofo tedesco Peter Jehle, direttore editoriale dell’Istituto di teoria critica e protagonista del monumentale progetto internazionale di un «Dizionario storico-critico del marxismo», ormai giunto alla pubblicazione di nove volumi
Il Dizionario
Storico-Critico del Marxismo è un progetto unico nel suo
genere, non solo per le dimensioni monumentali
e per il carattere internazionale che esso assume (si pensi
solo ai numerosi collaboratori che partecipano da ogni parte
del mondo), ma
soprattutto per il momento storico preciso in cui una simile
operazione ha luogo: un periodo che, oltre ad essere assai
povero di criticità nel
dibattito politico internazionale, anche sul piano culturale
sembra aver perso un orizzonte critico di riferimento.
Carenza di criticità che ha portato ad una situazione assai lontana dalla «fine delle ideologie» prospettata da Francis Fukuyama: quella in cui viviamo, infatti, è in realtà l’era più ideologica della storia, con l’affermazione su scala globale del modello capitalista, supportato e mai contraddetto dalle nuove democrazie liberali.
In un tale contesto, quello di un Dizionario Storico-Critico del Marxismo (HKWM, n.d.r.) rappresenta un punto di assoluta importanza e di rilievo internazionale.
Abbiamo intervistato Peter Jehle, responsabile del progetto editoriale, nonché membro dell’Istituto berlinese di Teoria Critica (InKriT; www.inkrit.de).
***
Ci vuole illustrare il progetto dell’HKWM?
Come si può facilmente prevedere, l’influenza storica del pensiero di Marx delinea il principale ambito tematico del HKWM. Leggi tutto
La colonna sonora della scorsa settimana è stata l'inno della Marsigliese, suonato in tutte le salse ed in tutte le occasioni; ciò, si è detto, per "solidarietà" nei confronti del popolo francese. In realtà la riproposizione dell'inno della Rivoluzione Francese del 1789 ha finito per assumere una valenza simbolica molto più profonda, ed anche molto meno rassicurante.
La Rivoluzione Francese, almeno ai suoi inizi, aveva proposto un'idea di cittadino non come semplice soggetto di diritti e doveri, ma come vera e propria funzione della Repubblica. In tale concezione, il cittadino si poneva come controllore assiduo della legalità e della legittimità degli atti del governo e dell'amministrazione. Già nei decenni successivi questo ideale si annacquava tramite la mediazione della stampa, che trasformava la cittadinanza in "opinione pubblica", la cui presunta funzione di controllo diventava così controllabile.
Gli avvenimenti di queste ultime settimane configurano un modello di potere addirittura opposto a quello del 1789, dato che il cittadino si ritrova retrocesso al ruolo nemmeno di suddito, ma di ostaggio da parte di un potere che pretenderebbe di porsi come protettore e difensore di una popolazione che esso stesso minaccia con le sue proprie iniziative spericolate.
Che il presidente francese Hollande possa arrogarsi il diritto di parlare a nome delle vittime degli attentati di Parigi, che possa pretendere di essere lui ad adottare iniziative belliche e diplomatiche per proteggere i Francesi, appare infatti alquanto paradossale. Leggi tutto
La comunicazione di tutti i media – TV, social, stampa, Radio, ecc.- dopo il 14 Novembre è straordinariamente uniforme, monolitica: è un atto di guerra. Lo scontro è di civiltà, e la compassione caritatevole, la solidarietà umana è a senso unico, nessun dubbio e nessuna incertezza. Per i militanti della guerra all’Islam l’identità è tutto, e non esitano ad arruolare tutta la comunicazione di massa per sfruttare e all’occorrenza falsificare ogni singola fotografia, ogni singolo video, ogni singola testimonianza. Per la “nostra” comunicazione occidentale l’identità nazionale, cristiana, “democratica” lo è altrettanto. Prima di tutto scontro di immagine identitaria dunque.
Non c’è giornalista o testata che non celebri l’orrendo rituale della reiterazione dell’orrore e della paura senza soluzione di continuità e indifferente al senso del limite. Video bui, mossi e con spari scorrono inarrestabili in tutte le Tv e nei siti dei quotidiani, fotografie di dettagli raccapriccianti, racconti e testimonianze raccolte mentre il testimone ferito sta entrando in sala operatoria ci vogliono inchiodare alle nostre responsabilità civili: siamo in guerra e tutti, ma proprio tutti la dobbiamo combattere senza riserve e senza pietà e, citando Hollande: Trionferemo.
Si perché sarà comunque un trionfo, comunque vada a finire per le nazioni i occidentali sarà un trionfo di immagine e di convenienza, ma soprattutto di pacificazione sociale.
Tutti gli interessi capitalistici sono stati tutelati. Leggi tutto
Daesh. In guerra, ma senza sapere come combatterla
Muoviamo da una ipotesi non nuova e piuttosto diffusa: Daesh è uno stato e non lo è. Potremmo definirlo un centro di irradiazione, piuttosto o, per così dire, una Mecca ideologico-militare del Jihad. Lo stato islamico interpreta a suo modo, e cioè in una forma violenta e totalitaria, la vocazione antinazionalista dell’Islam, quella che si rivolge alla comunità dei credenti aldilà da qualsiasi frontiera nazionale. Per questa ragione il suo insediamento a macchia di leopardo, dal Medio oriente all’Africa settentrionale e sub sahariana, fino alle periferie delle grandi metropoli europee non costituisce una debolezza, ma una forza.
Una realtà del tutto coerente con i principi a cui si ispira, un elemento di coesione e non di frammentazione. Del resto l’islamismo radicale contemporaneo, quello in armi, nasce nella fase conclusiva della guerra fredda come un’arma rivolta contro i nazionalismi “progressisti” e laici, cresciuti nella stagione delle lotte anticoloniali e presto degenerati in sistemi autoritari e corrotti di governo. Su questo terreno convergeranno, ma per poco, la strategia antisovietica americana e diffusi sentimenti popolari contro le caste burocratico-militari subentrate al dominio coloniale. Per principio, dunque, Daesh non può scendere a patti con nessuno stato nazionale, e nemmeno, fino in fondo, con quelli ideologicamente affini da cui riceve aiuto e sostegno, che può al massimo considerare come utili assetti di potere transitori nell’inarrestabile espansione della comunità islamica combattente. Anche l’Arabia saudita gioca dunque con il fuoco nel momento in cui si illude di poter ridurre l’entità jihadista a uno strumento docilmente asservito ai propri interessi nazionali e dinastici di egemonia regionale. Leggi tutto
Era il 2010, la giuria del premio speciale ‘Orizzonti’ del Festival di Venezia riconosce il valore del film The forgotten space. E’ un film sulla globalizzazione, su un’idea quindi, su un concetto. Non poteva essere un documentario. E’ un film-essay, un film-saggio, come Burch aveva teorizzato 40 prima. Critico cinematografico californiano, docente, legato fortemente al cinema francese e alla cultura cinematografica francese, Burch aveva lanciato questo prototipo mentale prima di radicalizzarsi nel ’68. Il documentario è troppo aderente alla realtà, non può pretendere di rappresentare un’idea. Il film-saggio invece deve essere discontinuo, opaco, ambivalente, deve utilizzare riprese dal vivo e materiali d’archivio, deve permettersi la divagazione, le contaminazioni, deve avere esso stesso un’idea, magari una tesi, non deve essere lineare o oggettivo come il documentario. Sul numero di maggio-giugno 2011 della “New Left Review” sono riprodotte le note che i due registi hanno scritto per il film. Tra le opere che gli hanno ispirato l’idea di film-saggio Burch include “Salvatore Giuliano” di Rosi.
Cosa c’è di meglio del mare e del commercio marittimo per capire cos’è la globalizzazione? Qui avviene l’incontro con Allan Sekula, artista poliforme, che ha esplorato il mondo dei pescatori e il mondo dei dockers, uno che sa guardare la globalizzazione attraverso la lente del lavoro. Il film inizia dai porti, da Rotterdam e mentre noi ci aspettiamo di vedere gru e cavi di ormeggio, reach stacker e pile di container, veniamo trascinati in scene di deportazione, villaggi olandesi rasi al suolo per fare posto all’espansione del porto, contadini espropriati delle loro terre. Subito dopo i registi ci spingono dentro uno spezzone di film degli Anni Trenta, una cabina d’aereo con uomini d’affari che osservano dal finestrino decine di navi in disarmo. Leggi tutto
I seppellimenti e i ritorni di
Marx nelle letture e nelle vicende
storiche e politiche nel Novecento. La interpretazione
antideterministica di Gramsci e la rivalutazione del ruolo
della soggettività. Marx, un
autore mosso da una potente ma misconosciuta carica etica
I
seppellimenti e i ritorni di Marx nelle letture e nelle
vicende storiche e politiche nel Novecento. La interpretazione
antideterministica di Gramsci e la rivalutazione del ruolo
della soggettività. Marx, un autore mosso da una potente ma
misconosciuta carica
etica. Di un ritorno, quasi una moda, di Marx si è largamente
parlato dopo l’inizio della grande crisi aperta nel 2008 dal
fallimento
della Lehman Brothers e dal rischio fallimentare di altre
grandissime banche americane – poi salvate coi soldi pubblici,
a testimonianza di un
meccanismo, detto per convenzione liberistico, specializzato
nel privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
La stampa e la diffusione dei testi di Marx si moltiplicò in tutto il mondo, si manifestarono nuovi movimenti ispirati direttamente o indirettamente ad una critica del capitale finanziario, trovò vastissima eco la ricerca di Piketty, non marxista, sul capitale nel XXI secolo e sulla sua concentrazione nello stesso modo e nelle stesse mani di sempre, un tema d’interesse marxiano. Più recentemente la conferma di un ritorno è avvenuta da una fonte insolita ma sensibile allo spirito dei tempi com’è il mondo dell’arte visiva, con la dedica a Marx della Biennale di Venezia di quest’anno, compresa una lettura pubblica e sistematica del testo del Capitale.
La parte maggiore della nostra ineffabile stampa quotidiana ha trattato l’argomento quasi come una sorta di stranezza del curatore nigeriano, il quale – Okwi Enwezor – è, in realtà, uno dei più rilevanti intellettuali americani della materia, illustre docente universitario e creatore delle più grandi mostre d’arte del mondo. Leggi tutto
Pochi giorni dopo la
presentazione della Legge di Stabilità alla fine di ottobre di
quest’anno, il presidente
dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS) Tito
Boeri ha tuonato che sarebbe stato ‘importante’ con la manovra
per il 2016
“fare l’ultima riforma delle pensioni”. Boeri ha ribadito che
la riforma delle pensioni “è davvero molto importante
farla, sono riforme che vanno fatte”, auspicando “che il 2016
sia l’anno in cui si andrà a un intervento organico,
strutturale e definitivo sulle pensioni”. [i]
Forse i tempi ristretti imposti dalle telecamere hanno impedito a Boeri di illustrare i contenuti della riforma che ha in testa. Boeri non spiega quali meccanismi finanziari e solidaristici desidera vengano ristrutturati, non dice chi dovrebbe pagare chi, chi dovrebbe ricevere cosa, quanto, quando e come.
Fortunatamente, la storia accademica di Boeri, nonché la strategia gestionale adottata fin dal suo insediamento a capo dell’INPS, ci consentono di avanzare qualche considerazione relativa l’organicità dell’intervento strutturale che, nei proposti dell’economista bocconiano, dovrebbe ‘modernizzare’ il sistema pensionistico italiano una volta per tutte. La mia ipotesi è che le ‘strategie riformatrici’ del presidente dell’INPS siano volte all’ulteriore indebolimento del mondo del lavoro al fine di sacrificare i diritti previdenziali dei lavoratori del nostro paese sull’altare del mercato. Ciò è del tutto coerente alla sua impostazione teorica neoclassica-individualista in campo previdenziale.
A tal scopo, intreccerò l’orientamento normativo delle dichiarazioni e documenti redatti da Tito Boeri in qualità di presidente dell’INPS con la sua analisi accademica. Leggi tutto
Un paio di settimane fa
si è tenuto nella città felsinea un evento che ha riempito i
titoli dei mass media nazionali,
ovvero il raduno capeggiato dalla Lega Nord, a cui si sono
uniti Forza Italia e Fratelli d’Italia, e le conseguenti
proteste dei vari movimenti
studenteschi, dei collettivi facenti capo alla vasta galassia
dell’antagonismo, oltre a svariate organizzazioni politiche
che hanno sfruttato
l’occasione per darsi visibilità elettorale. Cogliamo
l’occasione per analizzare alcune dinamiche e inquadrare
correttamente il
contesto che non è certamente solo locale.
La Lega, che fino a poco tempo fa diceva “mai più con Berlusconi”, ha occupato Piazza Maggiore con una dimostrazione volta a far leva sull’insoddisfazione di vasti strati della popolazione e ad inaugurare un periodo di collaborazione tra queste forze politiche. Non c’è bisogno di dire quale vergogna sia stato tutto ciò per una città medaglia d’oro della Resistenza: cori razzisti, saluti romani, inneggi al fascismo, sono stati la norma. Ma inquadrare l’evento in maniera più dettagliata è necessario se si vuole comprendere effettivamente le dinamiche intrinseche di questa situazione ed esporre in maniera critica i fatti di cronaca avvenuti e l’impostazione generale che i vari movimenti hanno assunto in questo caso specifico, ma che assumono più in generale in ogni ramo della loro attività e che sono parte integrante della situazione di confusione e disorganizzazione in seno alla gioventù e agli strati proletari.
Innanzitutto nessuna analisi può prescindere dalla comprensione dello scenario di crisi organica che l’Italia sta attraversando. Leggi tutto
Di seguito l’intervista a Toni Negri su Francia, ISIS e guerra da parte del sito Lettera43, poi cancellato forse perché troppo fuori dal coro. Visto che qui stare fuori dal coro è considerato un pregio, ecco ricopiato l’articolo e l’intervista per intero. Lo potete trovare qui, grazie a Google Cache
«Siamo
in guerra», ha detto il presidente francese François
Hollande dopo
le stragi di Parigi. Una guerra «giusta»,
si è
sostenuto, perché siamo stati attaccati. E ogni attacco
legittima una difesa, come prevede la comunità
internazionale
dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite
all’articolo del Trattato Nato.
Già ma difenderci da chi? Chi è il nemico?
UNA
GUERRA CONTRO SE STESSI. «La guerra proclamata
contro
l’Isis», spiega a Lettera43.it Toni Negri,
filosofo e professore universitario che vive da anni a
Parigi, «è stata
dichiarata contro cittadini francesi, belgi, europei. Questa
era la nazionalità dei terroristi che hanno compiuto atti
orribili e
ingiustificabili.».
E dire che, poco prima degli attentati, in Francia infiammava il dibattito se fosse lecito o meno ammazzare con droni cittadini francesi in territorio straniero. Polemica scatenata dall’uccisione in Siria di due britannici che si erano uniti alla jihad. Leggi tutto
I recenti avvenimenti di Parigi, gli attentati in Mali, a Beirut e l’abbattimento dell’aereo russo, per mano dell’Isis, ci pongono di fronte ad una crescente escalation bellica che ha un risvolto psicologico ed emotivo che merita di essere indagato.
I fatti di Parigi sono stati per più di una settimana il solo e pressoché unico argomento di discussione (infatti l’enfasi è stata posta su questi mentre gli attentati di Beirut e l’abbattimento dell’aereo russo sono stati archiviati nell’arco di poco tempo); telegiornali, radio e quotidiani hanno dedicato prime pagine e approfondimenti a questi eventi facendo in modo che anche chi fino a pochi giorni prima non si fosse occupato di questioni geopolitiche, tutto d’un tratto si ritrovasse a doverne sapere (in maniera non certamente esaustiva) e a dover, in qualche misura, scegliere. In poche parole, una scelta obbligata.
Qual è la ragione per cui masse intere che fino a poco tempo prima non si interessavano di tali questioni, ad un certo momento si sono sentite quasi in dovere di pronunciarsi?
La risposta è nella crescente condizione di paura, potremmo dire, collettiva. La paura ha fatto e sta facendo si che la “maggioranza silenziosa”, vedendosi alle strette, appunto perché costretta da un sentimento paralizzante, si sia sentita e si senta quasi nell’obbligo di dare opinioni, di esprimersi, e per lo più sia pervasa da una sorta di entusiasmo bellicista e interventista, più o meno indotto.
Leggi tuttoEcco come un guerra lontana è diventata la nostra guerra. Ma siamo sicuri che lo sia davvero?
La Siria non è soltanto il nome di un Paese e di una guerra ma di tante guerre. Dopo la strage di Parigi è diventata anche la "nostra" guerra: ma non tutti la vedono allo stesso modo. «Se pensate che l'Iran diventi la fanteria dell'Occidente nella lotta al Califfato vi sbagliate», diceva ieri un alto funzionario del ministero degli Esteri iraniano prima dell'incontro tra Putin e la Guida Suprema Alì Khamenei: in questa concisa sentenza si coglie la posizione della repubblica islamica, pronta ad afferrare l'occasione di riciclarsi come alleata contro un nemico comune ma ben decisa a fare valere i suoi interessi. Russi e iraniani non serviranno agli occidentali la testa del califfo Al Baghadi o di Assad senza contropartite. Soprattutto - è emerso ieri dall'incontro di Teheran - né gli uni né gli altri hanno intenzione di elargire favori agli Stati Uniti, che per altro sembrano per il momento intenzionati a lasciare agli europei la gestione della minaccia del radicalismo islamico.
Sul destino di Assad le divergenze degli occidentali con Mosca e Teheran non sono sottili e vanno ben oltre la sorte dell'autocrate di Damasco. Al tavolo di Vienna gli iraniani sono stati in linea con la Russia: cosa fare della Siria lo devono decidere i siriani. Sempre che la ex Siria riesca a ricomporsi come stato unitario.
Questa guerra, che sta per diventare anche degli occidentali e della Francia, è prima di tutto un conflitto per procura tra gli sciiti dell'Iran e i sunniti del Golfo con la partecipazione in primo piano della Turchia, membro riluttante della Nato, che sta combattendo almeno tre battaglie, una del mondo sunnita contro Assad e l'Iran sciita, una contro i curdi, un'altra per la leadership tra i musulmani del Levante. Per questo Ankara è stata fin troppo compiacente nei confronti del Califfato.
Teheran non intende mollare né si capisce perché dovrebbe se si prevede che presto vengano tolte le sanzioni. Leggi tutto
Prendo spunto da l’ultimo articolo dell’istituto Luce del PD per criticare l’ennesimo disastro annunciato ad opera del fascismo finanziario guidato da questo governo di criminali.
Secondo l’esperto di trasporti e professore del Politecnico di Milano, Marco Ponti, è necessaria una revisione radicale della politica ferroviaria italiana
L’istituto Luce inizia l’intervista con il sedicente espertone con questa perla :
“Andare sul mercato può favorire l’attrazione di capitali e rendere l’azienda più internazionale e quindi più competitiva? Come giudica questa privatizzazione?
Lo Stato non ha risorse infinite e una razionalizzazione è necessaria.”
Lo stato non ha risorse, perché una classe politica di ladri criminali ha rinunciato alla propria moneta ed ha deciso di prenderla in prestito da banchieri privati per arricchirli.
La cronaca e i numeri ci hanno insegnato che le privatizzazioni non portano nessun beneficio ,MAI, non c’è nessun caso documentato di un successo.
E’ assolutamente falsa l’idea che le privatizzazioni portino ad un abbassamento dei prezzi; è assolutamente falsa l’idea che le privatizzazioni creino posti di lavoro; è assolutamente falsa l’idea che aumenti la produzione industriale; ma sopratutto è assolutamente falsa l’idea che abbassi il debito pubblico. Leggi tutto
Tanto la
guerra santa quanto quella democratica pretendono oggi di
imporre un principio d’ordine. Entrambe
dividono con precisione i campi, chiedono di schierarsi per
raggiungere gli scopi stabiliti. Rifiutare l’ordine della
guerra non significa
però confidare nel pacifismo. Non appare neppure lontanamente
possibile ripetere l’esperienza del grande movimento che, dopo
l’aggressione all’Iraq nel 2003, era stato addirittura
indicato come la seconda grande potenza mondiale. Nonostante
la diffusa diffidenza
verso la guerra come soluzione, nonostante la scarsa fiducia
in coloro che la guerra dovrebbero condurla, contrapporre
semplicemente la pace
alla guerra in corso appare velleitario e, in fondo,
impraticabile. C’è una gran fretta di dichiarare
una guerra per la quale
gli aggettivi ormai si sprecano. C’è chi, con tutta la sua
autorità, dice che è già scoppiata la terza guerra
mondiale, c’è chi aggiunge che questa guerra mondiale è guerra
civile e c’è chi dice che siamo in presenza della
madre di tutte le guerre, la guerra globale. E prima di tutto
c’è ovviamente la guerra santa. Il tempo che abbiamo di
fronte,
però, non è fatto solo di combattimenti, ma anche di una pace
segnata dall’oppressione e da linee di confine che si
confondono in
continuazione dentro le metropoli e sulle strade che le
congiungono. Se dunque vogliamo l’opposto di questo tempo, non
possiamo chiedere
semplicemente la sospensione della guerra, dobbiamo
puntare decisamente alla trasformazione delle condizioni che
lo rendono
possibile. Nonostante i proclami, non siamo nemmeno
di fronte allo scontro fondamentale tra principi
inconciliabili. Il 13 novembre a Parigi
non è stata dichiarata la guerra che rende finalmente evidente
i fronti, perché nonostante tutto non è auspicabile consegnare
questo tempo alle relazioni tra gli Stati, nelle quali i
nemici possono improvvisamente diventare se non amici, almeno
alleati. Per noi, invece,
questo è decisivo. Dobbiamo individuare con chiarezza
i nostri nemici senza guardare ai fronti disegnati da altri.
Non si può dipingere di rosso una porta nera. In questi ultimi giorni molto è stato giustamente detto sul differente peso dei morti, misurando le poche lacrime versate davanti alle stragi sui diversi e distanti fronti di guerra e lo scandalo per l’attacco a una delle più importanti capitali d’Europa. Leggi tutto
La tragicità del
presente momento storico
Dopo i recenti attentati jihadisti a Parigi - un ulteriore episodio (e nemmeno dei più rilevanti in termini quantitativi) di una lunghissima catena di orrori di cui non si vede la fine - è difficile restare in silenzio. Ma c'è il problema di cosa dire, tanto più che commentatori di professione e tuttologi di varia tendenza stanno intervenendo in massa, in una profusione di banalità e di pseudoricette sul cosa fare.
L'Isis appare ormai come il nemico numero uno non solo per gli occidentali o i non musulmani, ma anche e soprattutto per gli stessi musulmani che, in definitiva, ne sono le prime vittime: non si dimentichi che a combattere sul campo i jihadisti ci sono proprio dei musulmani di ben diverso orientamento. E qui sta un primo problema.
Non da oggi va registrata l'assenza di protagonisti del passato da cui - in qualche modo, e pur con tutti i noti limiti - ci si poteva aspettare una produzione di anticorpi rispetto al radicalismo omicida degli islamisti. Ci si riferisce alle sinistre dei paesi islamici, al "progressismo" laico - per quanto militar-borghese - al nazionalismo arabo e al ruolo teoricamente esercitabile da élite musulmane non reazionarie. Tutto questo non c'è più, e nemmeno ci si può illudere che vi siano elementi "in sonno", nascosti da qualche parte per motivi tattici. Al riguardo è sintomatica la situazione turca, in fase pesantemente involutiva rispetto al periodo del repubblicanesimo kemalista, laicizzante alla sua maniera. Leggi tutto
1. Come rileggere Marx
dopo la crisi economica del nostro presente e la rivoluzione
passiva, che ha ricodificato in forma neoliberista
le istanze di emancipazione degli anni sessanta del Novecento?
Questa è la domanda di partenza di Finelli (Un parricidio compiuto. Il confronto
finale di Marx con
Hegel, Milano, Jaca Book, 2014) che, di contro ai
più tradizionali marxismi della contraddizione e
dell’alienazione, pone al centro dell’opera di Marx
un crescente e totalitario affermarsi dell’astrazione
in ogni
piega del reale. Il marxismo della contraddizione si muoveva
secondo lo schema dialettico del rovesciamento e della
negazione della negazione:esso
sottolineava soprattutto il contrasto tra forze produttive e
rapporti di produzione, che conduce di necessità al
superamento dell’ordine
capitalistico e al comunismo. Entro lo stesso capitale si
sviluppano capacità tecniche, scientifiche, intellettive, che
sono già
oggettivamente generiche e comuni e dunque
incompatibili con l’appropriazione privata della ricchezza.
È la stessa forza-lavoro a essere il motore necessario del rovesciamento, secondo uno schema evolutivo che ha trovato una delle sue più compiute espressioni in Storia e coscienza di classe di Lukács. Nel corso dello sviluppo del capitale, la forza-lavoro perde, è vero, i suoi caratteri qualitativi, concreti, differenzianti; ma proprio per questo – superando ogni limite individualistico – può risolversi in soggetto universale-collettivo all’altezza dei mezzi di produzione creati dal capitale stesso. A questo processo di rovesciamento e contraddizione risolutiva, si affianca – soprattutto nel primo Marx – l’idea dell’uomo come genere comune, comunità originaria, che il capitale ha dissolto con l’incremento della divisione del lavoro. Leggi tutto
E adesso prestate attenzione a questo commento: «Essere di sinistra – e ancora prima essere per la giustizia sociale e per l’uguaglianza – significa lottare contro il precariato». Ovvio, vero? Certo, se non fosse che a dirlo è Matteo Renzi
Anche se, considerato che il presidente del Consiglio sembra politicamente formato ad una qualche accademia della televendita, nemmeno meraviglia che sia stato lui a scrivere questo commento nella Enews dell’11 novembre. E lui, Matteo Renzi, con il tono rassicurante ma determinato di chi ha imparato a vendere un contratto nascondendo le clausole vessatorie, vuol far intendere di essere un uomo di sinistra, che il Pd è un partito di sinistra, che il suo governo è un governo di sinistra. Non siete ancora convinti? E allora Renzi vi invita a leggere l’ultimo “Rapporto sul precariato” pubblicato dall’Inps lo scorso 10 novembre, rispetto al quale, scrive il nostro, «Ogni commento è superfluo». Invece siamo pignoli ed un commento vogliamo farlo.
L’Inps, nel suo rapporto afferma che “Nei primi nove mesi del 2015 aumenta, rispetto al corrispondente periodo del 2014, il numero di nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato nel settore privato (+340.323)”. A questo punto Renzi esulta, gonfia il petto e afferma che il merito è del suo Jobs act se ora in Italia c’è un po’ meno precarietà, e insieme alla stampa main stream fa intendere che quindi ci sono nuovi occupati e buona occupazione. E con scarso senso del pudore il presidente del Consiglio sostiene che “Negli ultimi vent’anni solo due leggi hanno ridotto il precariato: il JobsAct e la Buona Scuola”. Leggi tutto
Con la metafora della guerra globale per i diritti umani, Bush e Sarkozy coprivano la puzza dell’oro nero
Anche chi di mestiere fa lo storico tende ad interpretare i fatti di Parigi come episodi di una guerra di religione. Con queste categorie non si capisce però ciò che sta accadendo. Se si vuole comprendere la minaccia che incombe, è meglio non assecondare certe semplificazioni storiografiche. Sarebbe un’impresa vana accostarsi a un fenomeno armato, che minaccia di incendiare l’occidente, pretendendo di rintracciare la sua genesi ispiratrice nel Corano.
Come non si spiega la politica estera di Putin leggendo i testi ortodossi, così non si può cogliere il senso delle stragi ispirate al fanatismo religioso consultando il Corano. Non tiene, a un minimo vaglio critico, il diffuso pregiudizio per cui in occidente si fa politica con la logica della potenza e in medio oriente o altrove invece si fa terrore con la logica della fede.
I classici del pensiero politico lo avevano segnalato già alcuni secoli fa. Locke suggeriva di vedere nell’invocazione del sacro, usata dalle fazioni avverse che si affrontavano nelle guerre di religioni, solo una maschera che nasconde effettivi obiettivi di potenza. E sul finire del 1500 Alberico Gentili, il fondatore del moderno diritto internazionale, esortava ad eliminare la cortina teologica nella descrizione della condotta degli Stati, che segue altre suggestioni rispetto a quelle contenute nei sacri testi. Leggi tutto
Nelle recenti e chiassose celebrazioni dell’Italia pasoliniana (ovviamente nonostante e contro Pasolini), nell’oceano di retoriche e memorie, di analisi critiche e sproloqui televisivi, è emersa come per miracolo questa raccolta di conversazioni fra Pasolini e Gideon Bachmann.
Contestazione totale
Durante tutti gli anni Sessanta e poi fino alla morte del poeta-regista, Bachmann trovò in Pasolini un uomo sempre più solo, scettico e pessimista, e più estremo nel suo tentativo di “contestazione totale”.
Pasolini visse fino allo spasimo (subendolo, ma anche “godendone”, per così dire, i frutti come voce dell’élite intellettuale) lo shock del neocapitalismo (cioè di un capitalismo in evoluzione frenetica «verso forme tecnocratiche e il cui linguaggio specifico è il linguaggio tecnologico», p. 82). Egli vide e soffrì la vittoria del potere laico e antispirituale della televisione e della massa consumistica, la violenza tollerante del perbenismo piccolo-borghese, riconobbe nella uguaglianza nevrotica e falsa del benessere e del superfluo una nuova, assoluta brutalità.
Giunse a un vero e proprio «odio razzistico» verso l’Italia di allora (p.100), individuando il suo nemico con la celebre formula della «anarchia del potere», che riuscì a portare sullo schermo con Salò.
Forse – e questo è uno dei punti più alti della riflessione pasoliniana – soltanto l’ideologia consumistica era riuscita, e in pochi anni, a coinvolgere realmente le classi dominate; Leggi tutto
Una settimana dopo, gli attentati di Parigi stanno velocemente sedimentando il significato reale degli eventi. Diradata la cortina fumogena dell’indignazione social, quello che rimane sul terreno si va consolidando come il lascito duraturo prodotto dalla gestione del fenomeno terrorista. Qualche commentatore più lucido di altri lo ha d’altronde immediatamente notato, anche perché la questione è addirittura lampante.
Nessuna “guerra” come viene intesa dall’apparato politico-mediatico è alle porte, con questa intendendo un conflitto simmetrico tra opposti eserciti. Non ci saranno chiamate alle armi, corsa agli armamenti, coscrizioni di massa e tenuta del consenso necessario ad un’operazione di questo tipo. L’asimmetria evidente delle parti in campo non verrà scalfita neanche dopo l’ennesima strage. Qualche operazione scenograficamente adatta a placare la sete di vendetta social, e tutto rientrerà nella normalità degli attuali rapporti geopolitici. Rapporti talmente chiari da essere esplicitati dagli stessi giornali della borghesia. Come riporta Alberto Negri sul Sole 24 Ore,
“i sauditi pagano e gli americani guidano coalizioni internazionali che ai loro occhi non devono abbattere il Califfato ma prima di tutto contenere l’Iran e un giorno magari liquidare Assad in Siria. La Saudi Connection condiziona la politica estera americana quanto l’alleanza con Israele[...]Se si limita ad una spedizione punitiva Parigi conserva le lucrose relazioni con la monarchia saudita, principale cliente degli armamenti francesi che quest’anno, con l’acquisto di reattori nucleari per 12 miliardi di dollari, ha salvato l’Areva dal fallimento. Leggi tutto
Il modo in cui i governi
europei (a prescindere dal colore ideologico) e i media hanno
reagito agli attacchi terroristici di
Parigi è straordinariamente significativo, nella misura in cui
contribuisce a ridefinire il significato di alcuni termini del
lessico politico
moderno. In particolare ne prenderò qui in considerazione tre
– socialdemocrazia, liberalismo, patriottismo – a partire da
alcuni
articoli apparsi nei giorni scorsi sul Guardian e
sul Corriere della Sera.
L’appoggio dei partiti della Prima Internazionale ai governi che avevano scatenato la Prima Guerra Mondiale ha sancito la morte della prima socialdemocrazia, quella, per intenderci, che si distingueva dal comunismo non per il fine – il superamento della società capitalistica – ma per la scelta del mezzo: le riforme al posto della rivoluzione. Quanto alla morte della seconda socialdemocrazia – quella nata a Bad Godesberg con il ripudio del marxismo – può essere fatta coincidere (come si sostiene in un recente libro-conversazione di cui sono co autore con Fausto Bertinotti, “Rosso di sera”, ed. Jaca Book) con la fine del compromesso fra capitale e lavoro del trentennio postbellico e con la sua definitiva conversione all’ideologia liberal liberista. Conversione cui ha fatto seguito, non a caso, la scelta di appoggiare la (e, nel caso del New Labour di Tony Blair, di partecipare alla) “guerra al terrore” dichiarata da George Bush dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001. Leggi tutto
Quale è il futuro della
cultura? Facciamo un gioco, scommettiamo su di una ipotesi. Lo
scenario più probabile
e strategico è fortemente connesso all’integrazione di due
componenti principali: partecipazione democratica e
innovazione tecnologica,
al fine di inventare nuovi modelli produttivi.
Se fosse così, pongo subito qui la questione fondamentale: il capitale prodotto dalla cooperazione sociale può essere economicamente sostenibile trovando forme nuove di organizzazione? e se si che forma assume questo tipo di produzione? Oppure c’è un rischio originario: creatività, innovazione, partecipazione, cooperazione, nuove tecnologie sono più che altro nuove parole d’ordine per riempire di contenuti vecchi modelli di business plan e per gestire nuove governance di centro destra?
Ecco questo è l’interrogativo che metto al centro.
Una decina di anni fa ero convinto che fare arte fosse discutere le condizioni di possibilità della produzione stessa. Erano appena finiti gli anni novanta, e il concetto di creativo aveva appena fatto la sua entrata in società!, troppi vernissage, troppa estetizzazione di temi cool, troppa dimensione social e community based, tutti volevano essere artisti, creativi, troppa mercificazione diffusa del desiderio e delle aspettative. Il mercato del lavoro sembrava essersi trasformato in una agenzia di viaggi, ma l’unico viaggio reale che in effetti avresti mai fatto era quello di andare a comprare il biglietto. Nella storia dell’arte ovviamente tutti gli eventi degni di questo nome sono nati da movimenti di sovversione, perché come ovvio la vita nasce dal desiderio. Leggi tutto
Ormai è troppo tardi
per salvare il salvabile. In realtà non c’è più nulla da
salvare. Gli
argomenti forti dell’Occidente fino a ieri erano che i
vincitori hanno sempre ragione, e quindi è meglio stare dalla
loro parte e
ricavarne qualche dividendo, anche se a spese degli altri.
Ragionamento pratico che si contrabbandava con argomenti
culturali, sempre ben retribuiti o
gratificati, come se gli orrori dell’Occidente fossero solo
errori, che noi avremmo potuto correggere o se non altro
ostacolare.
Ora l’incanto si è rotto, cioè non esiste più. L’Europa di Barcellona (1995) è tornata a essere ufficialmente quel coacervo di paesi militarmente e economicamente imperialisti, in concorrenza perenne tra loro, e le raffinatezze culturali non hanno più attrazione né tra i propri cittadini né tra gli altri. La guerra e la povertà che l’Europa ha esportato nel mondo da almeno due secoli gli sono tornate in casa e i suoi lamenti ipocriti e i suoi veri dolori non fanno più impressione a nessuno.
Semmai ci rendono un po’ più eguali agli altri che le stesse tragedie vivono da sempre. E la mano è sempre la stessa. Le armi sono occidentali – chi diceva che il progresso tecnico avrebbe portato più pace, eguaglianza e meno morti? – la rapina delle ricchezze e della vita delle persone continua indisturbata da parte delle nostre multinazionali e transnazionali. Del dividendo di cui abbiamo goduto un po’ tutti ora ci arriva il conto da pagare. A mandarcelo sono le nostre élite politiche ammaestrate come quelle degli altri paesi da noi colonizzati nei “Centri di Eccellenza” di Londra e Parigi.
La cultura europea e i suoi tecnici ne sono corresponsabili. Da quanti decenni si producono armi e crimini contro l’umanità senza che i nostri scienziati e tecnici denuncino ciò all’opinione pubblica, nascondendosi dietro al paravento dell’autonomia della Scienza? Leggi tutto
Mentre si parla di de-escalation della crisi siriana (o come sarebbe più giusto definirla: la crisi euro-mediterranea) i fatti ci raccontano un'altra storia
Mentre a parole tutti parlano di de-escalation per quanto riguarda la crisi siriana (o come sarebbe più giusto definirla: la crisi euro-mediterranea) i fatti ci raccontano un'altra storia:
- La Russia invia in Siria il più letale strumento antiaereo esistente al mondo: l'S-400. Di fatto viene creata una bolla dove è impossibile volare senza il tacito assenso dei russi. Tale bolla ha un diametro di almeno 300 km partendo dall'aeroporto siriano di Latakia.
- Mosca invierà altri 12 intercettori Sukoy Su-30.
- Voci di corridoio parlano di una Russia pronta ad armare con missili antiaerei spalleggiabili Igla le truppe curde che si battono contro l'ISIS e che combattono contemporaneamente contro i turchi.
Dal canto loro gli americani:
- Inviano il gruppo da battaglia della portaerei Truman che dovrebbe arrivare nel Mediterraneo orientale la prossima settimana.
Per quanto riguarda la parte europea della crisi:
- Gli USA stanziano a bilancio i primi aiuti all'Ucraina in armi letali. Prima le fornivano ufficiosamente ma ora la cosa è ufficiale e fa bella mostra nel sito del governo americano. Leggi tutto
Il papa lo ha detto in modo chiaro: «Il terrorismo si alimenta di paura e povertà». In Asia, Africa e America latina dove vive il 90% dei poveri della Terra, la Tv e la Rete diffondono le immagini del ricco Occidente. I miserabili ora sanno e non illudiamoci: senza una società più giusta e dignitosa, ci travolgeranno
«Più che le persone, mi fanno paura le zanzare»; «Io voglio andare. Se non mi ci portate voi, datemi un paracadute». Sono solo un paio di battute, colte “al volo” – è il caso di dirlo – sull’aereo che il 25 scorso portava papa Francesco a Nairobi, capitale del Kenya e prima tappa del viaggio di cinque giorni che lo sta vedendo impegnato nel continente dalle risorse del suolo e del sottosuolo più ricche al mondo e dalle popolazioni più miserabili della terra. Come tale gigantesco, incrollabile, insostenibile paradosso sia possibile, e come tutti lo accettiamo senza fiatare, è forse la spina avvelenata che sta contagiando il mondo: che lo sta portando verso una catena di guerre, di violenze e di disastri sia ecologici sia sociali che potrebbe anche rivelarsi di proporzioni mai viste.
Perché dev’esser chiaro che questa è la posta in gioco. E che, tra i grandi leaders mondiali, questo gesuita italoargentino che al suo paese qualcuno accusa di essere «un gaucho peronista irresponsabile» è l’unico ad affrontarla direttamente e a chiamare le cose con il loro nome: come ha fatto nell’enciclica Laudato si’. I rischi sono molti ed evidenti: per lui, per chi gli sta vicino, per le folle che accorrono a salutarlo. Lui lo sa bene.
E sa bene che, quando il pericolo è relativo e non incombe, lo si può anche evitare; ma quando è lì, ci è addosso, minaccia di sopraffarci, allora non c’è nulla da fare: va affrontato a muso duro. E lui, dietro certi suoi disarmanti sorrisi, la grinta del duro ce l’ha eccome. Leggi tutto
Come da copione, la dinamica del fatto è controversa. Mosca accusa Ankara di proditorio attacco, Ankara risponde che il caccia russo, dopo ripetuti avvertimenti, è rimasto nei cieli turchi violando la sovranità della Turchia, ma questo non ha nessuna importanza, il dato di fatto è che lo stesso premier turco ha dato l’ordine dell’abbattimento, innescando una crisi internazionale di enorme gravità. Perché Erdogan, dopo aver firmato uno storico accordo con Putin per la costruzione del turkish stream, che avrebbe apportato alla Turchia capitali e aumentato il suo prestigio di hub petrolifero nel Mediterraneo, ha rimesso in gioco il tutto? Perché innescare una crisi internazionale le cui prospettive sono tutte da valutare, ma che non promettono nulla di buono sul fronte degli scontri e delle tensioni imperialistiche già in atto? Abbozziamo una serie di risposte.
L’intervento militare russo in Siria ha certamente rotto alcuni equilibri, ne sta creando altri che per il governo Erdogan suonano come una minaccia al suo ruolo nell’area e, in prospettiva, rappresentano un ostacolo da rimuovere immediatamente anche, se necessario, con l’uso della forza e con il rischio di far precipitare una situazione già pericolosamente compromessa.
La Russia si è decisa ad intervenire pesantemente non certo per punire il terrorismo jihadista, colpevole della distruzione di un suo aereo nel Sinai con oltre duecento vittime civili, ma per salvare il proprio alleato Assad e per garantirsi così quella agibilità militare nel Mediterraneo che altrimenti avrebbe perso. La lotta all’IS è una scusa, il vero obiettivo è bombardare le basi militari degli avversari del suo alleato. Leggi tutto
La sicurezza di chi è protetta con ogni mezzo necessario? La sicurezza di chi è sacrificata con noncuranza, nonostante i mezzi per fare molto meglio? Queste sono le domande al cuore della crisi del clima, e le risposte sono il motivo per cui i vertici sul clima finiscono così spesso con acredine e lacrime.
La decisione del governo francese di vietare proteste, marce e altre ‘attività all’esterno’ durante il vertice di Parigi sul clima è inquietante a molti livelli. Quello che mi preoccupa di più ha a che fare con il modo in cui riflette la fondamentale iniquità della stessa crisi climatica e con quella domanda centrale sulla sicurezza di chi è alla fine considerata nel nostro mondo distorto.
Ecco la prima cosa da capire. Chi affronta gli impatti peggiori del cambiamento climatico non ha virtualmente alcuna voce nei dibattiti occidentali sul fare qualcosa di serio per prevenire un riscaldamento globale catastrofico. Grandi vertici sul clima, come quello imminente a Parigi, sono rare eccezioni. Per sole due settimane ogni pochi anni le voci di quelli che sono colpiti per primi e peggio ottengono un po’ di spazio per essere ascoltate nel luogo in cui si prendono decisioni fatali. E’ per questo che isolani del Pacifico e cacciatori Inuit e persone di colore con un basso reddito da luoghi come New Orleans percorrono migliaia di miglia per essere presenti. La spesa è enorme, sia in dollari sia in carbonio, ma essere al vertice è una possibilità preziosa per parlare del cambiamento climatico in termini morali e di dare un volto umano a questa catastrofe in sviluppo. Leggi tutto
(Ammiraglio A. Mahan, The Influence of Sea Power upon Hitory, 1890, pg.1)
Nell’Ottobre 2011, l’allora
Segretario di Stato americano Hillary Clinton, pubblicava un
articolo su Foreign Policy dal titolo: “America’s Pacific
Century”[i]. L’articolo
tratteggiava le linee del riorientamento strategico USA, in
direzione dell’Asia. Tale dottrina venne battezzata “pivot to
Asia” ed
è comunemente citata come l’asse principale delle geopolitica
obamiana. La geopolitica è l’aspetto più importante
della vita degli stati poiché è l’ambito in cui si determinano
i rapporti di forza tra gli stessi. Ogni stato è un sistema
ed ogni sistema dipende strutturalmente da una serie di
condizioni esterne che ne determinano la sicurezza, la forza,
la salute. La parte
“politica” di geo-politica, serve a risolvere i problemi
determinati dalla parte “geo”, cioè della geografia. Ogni
stato ha una sua condizione geografica alla quale è
fisicamente vincolato, tale condizione presenta problemi ed
opportunità, la politica
serve appunto per minimizzare i problemi e dilatare le
opportunità date dal vincolo geografico. Ne discende che
mentre la parte politica della
geopolitica ha una sua variabilità interpretativa, la parte
geo è in un certo senso “fissa”.
La parte fissa, la geo di geopolitica, vede sin dalla nascita della disciplina, il mondo diviso in due aree: l’area di terra cioè il continente detto isola-mondo euroasiatico che va dal Portogallo alla punta estremo orientale siberiana e l’area di mare.
Leggi tuttoCiò che più colpisce
chi si accosta al lavoro intellettuale di Charles Bettelheim è
il suo disincanto precoce,
risalente agli anni ’30 del Novecento, sulla natura politica e
sociale del mondo dell’Unione Sovietica, senza che tale punto
di vista
critico lo abbia mai costretto a rinunciare alle sue idee
marxiste e comuniste. In ragione di questa considerazione si
capisce perché
l’obiettivo di Bettelheim fosse quello di non dimenticare lo
scarto che separava la teoria di Marx e Engels dalla realtà
del socialismo.
Peraltro, questo presupposto metodologico vale a maggior
ragione per chi vive nel tempo presente e sconta gli effetti
di vera e propria restaurazione
della stagione che si è aperta dopo il biennio 1989-91, in un
contesto storico molto differente da quello in cui compaiono i
lavori teorici
più importanti del fondatore, alla Sorbona, del Centre
pour l'Étude des Modes d'Industrialisation.
Bettelheim, nel suo lavoro di intellettuale marxista, consulente economico a Cuba, in Algeria, in Egitto e in India, docente universitario irregolare, prende le mosse dalla necessità di mettere in discussione il paradigma dell’economia capitalistica secondo cui solo un mercato autoregolato avrebbe inscritto nel proprio destino uno sviluppo privo di crisi e deragliamenti. Contro Friedrich Hayek e Ludwig von Mises, e rifacendosi alle argomentazioni di Engels secondo il quale la produzione immediatamente sociale esclude la trasformazione dei prodotti in merci e quindi, in assenza di scambio, in valori, l’economista francese ribadisce la necessità di organizzare la produzione in base ad un piano che tenga conto dell’utilità degli oggetti in uso, considerati in rapporto alla quantità di lavoro necessario alla loro produzione. Leggi tutto
La domanda relativa a
come e perché gli investimenti non reagiscano come si vorrebbe
al Quantitative Easing e alla politica
monetaria in genere ricorre con crescente frequenza. Con
l’aiuto di Keynes cerchiamo di scoprire qualcosa in più.
Tanto i classici quanto Keynes ritenevano che un fattore determinante il livello degli investimenti fosse il tasso di interesse. Keynes però rimarcò anche che un ruolo altrettanto e più fondamentale la occupa la redditività attesa degli investimenti: se il loro rendimento è basso malgrado tassi di interesse bassi, allora potrebbe essere considerato, a livello aziendale, non profittevole indebitarsi per avviare detto investimento (vds nota 1).
Keynes dedicò il cap.XII del libro quarto della Teoria Generale al ruolo delle aspettative di lungo termine e all’efficienza del capitale in particolare, pur “perdendosi” in una lunga tirata sul deludente stato(all’epoca sua) della fiducia delle imprese nella stabilità delle proprie previsioni, minate dalla speculazione borsistica sui titoli aziendali (colpa la separazione fra proprietà e gestione, lo abbiamo visto con Schumpeter) trainata dagli animal spirits di cui ci aveva già parlato Forchielli. Leggi tutto
Avete bisogno di un convivente che
vi aiuti a
pagare affitti e bollette? Fra poco non sarà più un problema.
È in arrivo lo smart working,
il
lavoro agile che permetterà allo sfruttamento di entrare
nelle case di lavoratori e lavoratrici in salute e in
malattia, 365 giorni
l’anno finché licenziamento non li separi.
Pensate che esista ancora uno scarto tra pubblico e privato e che solo le donne abbiano il privilegio di lavorare tra le mura domestiche senza limiti alla giornata lavorativa? No, roba vecchia, lo smart working sarà per tutti, maschi e femmine, dipendenti pubblici e privati.
Avete paura di non essere abbastanza flessibili? Lo yoga non serve. Ora potrete essere sempre al lavoro, flessibilissimi e produrre, produrre come non avete mai fatto prima, senza limiti di orario e all’ora che preferite, in altre parole: sempre! Always! Immer!
Produttività continua e azzeramento dei costi di gestione: un toccasana per le aziende che, già rinvigorite dal Jobs Act, possono tirare l’ennesimo sospiro di sollievo. Lo scopo del lavoro agile, secondo l’articolo 1 del ddl non ancora approvato, è «incrementare la produttività e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro», ossia riconciliare il lavoratore con l’idea che i tempi di lavoro hanno occupato tutta la vita.
Lo smart working si ispira liberamente alle smart holidays, meglio note come Discretionary Time Off (DTO), sistema già diffuso nelle grandi multinazionali della Silicon Valley, General Electric e fra poco anche Linkedin.
Leggi tuttoNei giorni scorsi, i nostri media hanno inviato le loro firme migliori nelle varie periferie tra Parigi e Bruxelles cercando tracce di fondamentalismo islamico, del fallimento dell’integrazione, di incompatibilità culturali. I racconti sono tutti piuttosto simili, si parla di periferie perdute, giovani disoccupati tra cui si celano zombie metropolitani pronti a farsi saltare in aria in nome della religione. Molenbeek, Saint Denis, Clichy, raccontate e descritte come Scampia, per una narrazione ad uso e consumo della spettacolarizzazione della notizia, che omette l’esistenza, oltre di milioni di belgi e francesi di origine araba o maghrebina ben lontani dal sostenere il gruppo di Abaaoud, anche di milioni di cittadini delle periferie di origine est europea, ivoriana, congolese, asiatica, che praticano il buddhismo, una delle mille confessioni cristiane o l’ebraismo. Una “reductio ad califfatum” che ha infatuato anche molta analisi proveniente da sinistra, annebbiata dal comodo sillogismo (certamente non residuale, per carità, ma nemmeno dirimente) rivolte del 2005-jihad del 2015.
Depoliticizzare l’identità del Daesh, che significa depoliticizzare la scelta di aderire al suo progetto, serve soprattutto a chi porta avanti o avalla “lo scontro di civiltà”, “l’attacco ai nostri valori e alla nostra cultura”. Ieri l’account twitter del PD annunciava trionfante “Contro la paura: 1mld sulla sicurezza, 1mld sulla nostra identità culturale”. Identità cultura, come se la cultura in se per se non fosse qualcosa di liquido, di contaminato, di permeabile. Tralasciando ogni discorso geopolitico o storico sulla nascita del Daesh, tralasciando anche i ricorsi storici da inizio 900, rimane una domanda a importante: perché qualche migliaio di giovani europei, nati, cresciuti e vissuti in questo continente scelgono di andare a combattere in Siria o di farsi saltare all’ingresso di uno stadio di calcio dove magari sono stati qualche volta nella loro vita. Leggi tutto
Pochi giorni dopo i drammatici eventi di Parigi le principali Borse sono state pervase da un clima di vera e propria euforia come gli stessi media mainstream, a cominciare da Il Sole 24 ore e la Repubblica, sono stati costretti ad ammettere. Anzi, più che costretti, è il caso di dire che hanno commentato con notevole e appena malcelato entusiasmo la “risposta dei mercati “ ai venti di guerra imminenti. I titoli azionari sono schizzati alle stelle, come era facilmente prevedibile, in particolare quelli delle società e delle aziende che producono armi e non solo. Del resto, è noto che la guerra rappresenti un affare, anzi, un grande affare, per tanti.
Il premier francese, Hollande, ha contribuito ad alimentare questo rinnovato entusiasmo dei mercati nel momento in cui (come spiega egregiamente Sandro Moiso in questo articolo che invito a leggere anche se non lo condivido del tutto (http://www.sinistrainrete.info/geopolitica/6132-sandro-moiso-ora-che-la-guerra-sta-accadendo.html ), facendo esplicito riferimento all’articolo 42 del Trattato di Lisbona (uno di quelli con cui il principio di sovranità dei singoli stati europei è stato gettato nel cestino),ha sostanzialmente spalancato le porte alla possibilità di uscire dai vincoli economici europei (e di spesa) per ciò che riguarda la sicurezza (quindi armi, tecnologia ecc.). Una vera e propria manna dal cielo per l’industria militare (forse tuttora la più fiorente) e per tutto l’indotto ad essa collegata.
Vi ricordate l’andamento del famigerato “spread”? Si alzava ogniqualvolta un governo annunciava di voler mantenere un certo livello di spesa sociale. Viceversa, diminuiva allorquando quello stesso governo – richiamato all’ordine dai superburocrati di Bruxelles –decideva per un taglio al welfare. Più il taglio era drastico (e brutale) e più lo spread si abbassava. Leggi tutto
Dopo Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar, il complesso militare industriale italiano trova un nuovo partner tra i sovrani e gli emiri del Golfo. L’azienda Selex ES (Finmeccanica), produttrice di sistemi di puntamento, componenti elettroniche e radar, ha firmato un contratto di oltre 50 milioni di euro con la Royal Bahrain Naval Force, la marina militare del Regno del Bahrain, per l’ammodernamento di sei unità navali. Il programma di aggiornamento avrà una durata di cinque anni; Selex ES fornirà inoltre i servizi di formazione e di supporto post vendita.
Le basi per l’accordo tra la Marina militare del Bahrain e l’azienda del gruppo Finmeccanica erano state poste in occasione della sosta nel complesso portuale di Mina Khalifa - dal 5 al 9 dicembre 2013 - del 30° Gruppo navale italiano, durante il suo lungo tour promozionale in Africa e Medio oriente dei sistemi d’arma made in Italy. In quell’occasione, il direttore marketing di Selex Es, Gianpiero Lorandi, ebbe modo di presentare i più recenti sistemi di guerra dell’azienda al Capo di stato maggiore della marina del Bahrain, durante un ricevimento ufficiale a bordo della portaerei “Cavour”. Il 26 febbraio 2014, una delegazione di sei ufficiali del piccolo regno del Golfo si recò poi in visita nella base navale di Augusta (Siracusa), nell’ambito di un programma di collaborazione nel campo della difesa tra Italia e Bahrein, finalizzato alla fornitura di alcuni sistemi già imbarcati sulle unità italiane. In particolare, la delegazione straniera ebbe modo di assistere a bordo del pattugliatore “Comandante Cigala Fulgosi” ad una dimostrazione sul funzionamento del radar del tiro NA 25 X prodotto e installato da Selex Es, effettuando il tracciamento e l’acquisizione di bersagli navali ed aerei. Leggi tutto
Non a tutti i contemporanei piacerà ricordare Luciano Gallino come un sociologo critico. Di certo, però, questo Maestro il lavoro della critica del capitalismo l’ha fatto con una determinazione straordinaria, e con straordinari risultati. Non è un compito semplice, oggi: si tratta di comprendere come le grandi promesse della vulgata neoliberista siano state costruite e diffuse; come e perché esse siano state disattese; quali possano essere le ragionevoli promesse per un futuro prossimo meno illuso e più sostenibile. È un compito da svolgere in una sfera pubblica dominata da poche élites economiche e politiche, con la concorrenza di un’informazione giornalistica che ha, rispetto alla ricerca, maggiori risorse economiche e una disinvoltura metodologica adeguata a consumi culturali vorticosi. A fronte di questa sfida, le energie di Gallino sembravano moltiplicarsi con l’avanzare dell’età. I suoi interventi sono divenuti sempre più frequenti e densi. I suoi libri sono stati vere e proprie miniere di dati e di riferimenti bibliografici, su temi che in Italia erano rimasti pressoché inesplorati.
Su tutti, il tema dell’accumulazione finanziaria. Sino a quando Gallino non ha posto organicamente la questione, con L’impresa irresponsabile, uscito da Einaudi nel 2005, la finanziarizzazione delle imprese – il dominio degli azionisti/investitori breveperiodisti nel governo d’impresa, con le sue implicazioni sugli assetti organizzativi e occupazionali – era, in Italia, un fenomeno assolutamente trascurato (lo è rimasto, in verità, sino al collasso del 2008, e forse non è un caso che Einaudi abbia ripubblicato il libro nel 2009). Leggi tutto
E’
evidente che ci sono tensioni fortissime nel mondo occidentale
che scaturiscono dal tentativo, per molti versi riuscito, di
costituire
un’aristocrazia multinazionale che si propone di imporsi come
soggetto contrattuale con la super potenza statunitense. In
Europa
l’iperborghesia annidata nelle multinazionali sta smantellando
le forze sindacali e partitiche che si oppongono al
neoliberismo e,
quest’ultimo, significa disoccupazione, povertà, annullamento
dello Stato sociale, venuta meno della sanità pubblica, del
pensionamento generalizzato, della contrattualizzazione del
salario. Tutto questo passa anche, necessariamente, attraverso
la repressione e una
cultura securitaria che colpiscono particolarmente i gruppi
politici e le forze sociali che più contrastano il
neoliberismo. La repressione, in
tutte le sue articolazioni, sottolinea e caratterizza questo
momento storico dell’autoespansione del capitale. E la
repressione si colloca nello
squilibrio fra strutture nazionali statuali e la
ricomposizione capitalistica di fondo che è permeata dallo
scontro fra multinazionali e Stati
per la ricollocazione delle gerarchie capitalistiche che
vedono gli Stati Uniti con il loro alleato inglese,
all’offensiva e l’unico
interlocutore è l’aristocrazia sovranazionale,
l’iperborghesia, che vuole portare in dote al matrimonio la
“testa” del
mondo del lavoro. Il programma di classe oggi passa, oltre che
su obiettivi e scadenze di lotta, anche su una valutazione
degli equilibri, degli
scontri, dei rapporti di forza che lo sviluppo globale
presenta. Questa attenzione non è secondaria perché ne
scaturisce la
possibilità di porre qualche ostacolo alla voracità con cui
l’iperborghesia si serve della socialdemocrazia come arma
politica.
Oggi, ci troviamo di fronte ad una situazione che non è più il
lavoro in fabbrica a determinare i rapporti sociali bensì la
messa
al lavoro della società e, quindi, lo sfruttamento di tutti
coloro che nella società sono attivi.
[Questo saggio è uscito in versione francese, con il titolo La révolution du désir pendant Mai 68: Houellebecq et Lacan via Žižek, in Le Roman français contemporain face à l’histoire. Thèmes et formes, a cura di G. Rubino e D. Viart, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 407-421. La traduzione è dell’autore]
Osservatore
acuto
o, secondo alcuni, cinico dissettore dell’epoca contemporanea,
Michel Houellebecq ha sempre sostenuto la necessità di uno
sguardo storico
retrospettivo per una comprensione profonda del presente. Uno
degli assi principali della sua opera consiste nel tentativo
di rispondere ad un quesito
fondamentale: per quale motivo si è giunti alla situazione
attuale? Una situazione ritenuta catastrofica e senza via
d’uscita. È
la domanda che si pongono molti personaggi delle Particelle
elementari [1]
, il romanzo su cui si concentrerà il mio
discorso. Se Houellebecq non è certo l’unico autore
contemporaneo a
rivolgersi al passato per comprendere l’attuale stato delle
cose, più rari sono coloro che delineano nella propria opera
romanzesca una
sorta di filosofia della storia[2],
come accade all’inizio di questo libro in cui – nota il
narratore – viene raccontata la storia «di un uomo che passò
la maggior parte della propria vita in Europa occidentale
nella
seconda metà del Ventesimo Secolo» (p. 7). Si tratta qui di
una concezione della storia secondo la quale l’umanità è
manovrata e scandita da alcune rare «mutazioni metafisiche»,
ossia da alcune «trasformazioni radicali e globali della
visione del
mondo adottata dalla maggioranza» (pp. 7-8). Ciò che colpisce,
in questa teoria, è il carattere assolutamente impersonale, ma
implacabile e inevitabile, di tali trasformazioni : «Appena
prodottasi, la mutazione metafisica si sviluppa fino alle
proprie estreme
conseguenze, senza mai incontrare resistenza. Imperturbabile,
essa travolge sistemi economici e politici, giudizi estetici,
gerarchie sociali.
Chi avvertiva che si puntava al Caos rischiando di arrivare a uno stato conclamato di guerra mondiale era sbeffeggiato. Ma ora i fatti gli danno ragione
1. A parte gli incorreggibili ciarlatani (qualcuno in questi giorni si sta correggendo), ormai è cosa nota, perché ormai ammessa, che la cosiddetta "guerra civile siriana" è in realtà un attacco sponsorizzato dagli ex partner dell'accordo Sykes-Picot contratto durante la I Guerra Mondiale, cioè Gran Bretagna e Francia, poi istigato ideologicamente, finanziato e armato dall'Arabia Saudita, dal Qatar, dalla Turchia, col concorso attivo di Israele, e condotto da mercenari e volontari jihadisti provenienti da 83 paesi differenti (se poi qualcuno insiste a chiamarla "guerra civile" almeno spieghi che non sta usando né l'Italiano né il raziocinio, ma qualcos'altro).
Questo attacco fu deciso nel 2007 dall'allora vicepresidente statunitense Dick Cheney, su insistenza dei suoi consiglieri neocon, ed è stato preparato da quella vasta operazione di regime change chiamata "Primavera araba" e che ha illuso la sinistra fino a farla vaneggiare, come successe a Rossana Rossanda. Un'operazione che doveva portare uniformemente i Fratelli Musulmani al governo in Tunisia, Libia, Egitto e Siria, come già era avvenuto per vie democratiche in Turchia (anche se poi il primo ministro Erdoğan, ha molto poco democraticamente epurato magistratura ed esercito, per obbligo e tradizione repubblicana custodi della laicità dello Stato). Leggi tutto
Verranno potenziati i sistemi di intercettazione su tutti i sistemi di comunicazione e scambio. Non solo telefonini e computer ma anche le chat legate ad altri programmi come, ad esempio, quelli per scaricare musica e addirittura le play station. Ad affermarlo è stato il, fino ad ora, soporifero ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al termine del vertice di ieri al ministero di via Arenula convocato per individuare nuove misure per la prevenzione e il contrasto del terrorismo.
Le parole del ministro oltre alle chat, indicano quegli strumenti tecnologici che non sono nate con un ruolo nella comunicazione ma permettono ugualmente agli utenti di entrare in contatto diretto magari per giocare insieme online. Nessuno fino ad ora ha mostrato le prove che gli jiahdisti abbiano utilizzato ad esempio le PlayStation per comunicare tra loro. Ma, sostengono i fautori del controllo totale, non c'è nemmeno la sicurezza che uno scenario del genere non sia verosimile, viste le ampie possibilità comunicative offerte dai videogame attuali, e non solo sulle PlayStation. A tale scopo sono stati convocati gli esperti della Sony, che in merito hanno risposto pubblicamente al premier belga dopo gli attentati di Parigi. Si tratterebbe delle comunicazioni "in-game", quelle che avvengono all'interno dei giochi online, dove più giocatori si riuniscono e possono comunicare per scritto ma anche - e soprattutto - a voce e in video, privatamente e pubblicamente, verbalmente o con linguaggi visuali. In eventi-partite collettive non necessariamente aperte al pubblico ma destinate a utenti selezionati. La Sony ha dichiarato di voler incoraggiare gli utenti e le aziende di videogame a segnalare comportamenti sospetti alle autorità competenti. Leggi tutto
L’abbattimento dell’aereo russo per ordine del governo turco è un atto gravissimo che, nonostante il baccano contro la Russia sollevato anche da Obama e dall’intera Nato, non può nascondere alcune cose. Una più chiara dell’altra anche nelle conseguenze future. Che saranno nefaste.
Attacco pretestuoso. Intanto c’è da notare che la Russia se non è amica della Turchia non è comunque una sua nemica, e quindi la presenza di un suo singolo aereo con un equipaggio di appena due persone, aereo non del tipo addetto allo spionaggio e ormai privo di bombe per averle sganciate sui miliziani dell’Isis, NON poteva in ogni caso essere una minaccia. Di nessun tipo.
Ma la cosa più importante è che i filmati mostrano chiaramente come l’aereo colpito e ormai in fiamme sia precipitato in verticale per infine schiantarsi in territorio siriano. Il che DIMOSTRA in modo INCONFUTABILE che l’aereo russo o stava volando sul territorio della Siria, con tanto di autorizzazione del governo siriano, oppure anche se ha superato il confine turco non può averlo superato in profondità.
Poiché era inoltre chiarissimo che – come annunciato da giorni – quel velivolo militare si trovava nella porzione di cielo NON per attaccare la Turchia, cosa peraltro impossibile da fare da solo, ma perché aveva attaccato basi dell’Isis vicine al suo confine, la Turchia – e l’Europa intera – quell’aereo doveva semmai ringraziarlo e difenderlo dai tiri dei terroristi. Invece…. L’abbattimento è quindi un atto pretestuoso. Anzi, un vero e proprio atto di guerra contro la Russia, che certamente il presidente turco Erdogan non può avere deciso senza il permesso degli Usa. Leggi tutto
Un
monarca prussiano del 18°
secolo disse, ed era una cosa molto intelligente: “Se i
nostri soldati capissero perché ci battiamo, non si potrebbe
più fare una
sola guerra.”
(Lenin, “Successi e difficoltà del
potere sovietico”)
Quando, nel 1991,
l’Italia prese parte alla guerra del Golfo, sotto la guida di
Bush padre, scendemmo in piazza, a protestare davanti alle
prefetture, infischiandoci dei permessi, ridendo dei pochi
minuti di sciopero proclamati dalla CGIL. Ufficialmente, anche
il PCI –PDS (Cambiava
nome in quei giorni) si disse contrario, con l’eccezione della
corrente migliorista – in cui spiccava il “comunista”
preferito
da Kissinger, Giorgio Napolitano – ma si guardò bene dallo
sviluppare un’agitazione di massa. Un cacciabombardiere
italiano fu
abbattuto, i due militari, Bellini e Cocciolone, furono
catturati. Cocciolone fu mostrato in TV, piuttosto malconcio.
Qualche giorno dopo, in molti
muri delle nostre città, fu affisso il suo ritratto, con la
scritta: “ Mamma, ho perso l’aereo”.
Oggi non c’è una vera reazione visibile al militarismo, a parte gruppi relativamente ristretti. Questo anche perché le operazioni militari spesso vengono nascoste dai media. Giornali e TV, quando parlano della guerra in Libia del 2011, dicono che fu un errore, e accusano Francia e Gran Bretagna, come se Italia e Stati Uniti non vi avessero partecipato. Questo è possibile perché vi fu una pesante cortina di omertà sui bombardamenti italiani, presentati al pubblico tv dal ministro La Russa come operazioni di ricognizione. L’Italia fu mostrata come una verginella, che non vedeva l’ora di sostituire al bruto Gheddafi dei sinceri democratici.
Rarissime le notizie sull’attività del contingente italiano in Afghanistan, ancor meno sui nostri istruttori in Iraq.
Come capire il presente, nonostante la crescente mistificazione? C’è un’immensa esperienza del passato sulle guerre. Molti, persino nell’estrema sinistra, non ne tengono conto, perché -pensano – le nuove tecniche militari avrebbero cambiato la natura della guerra. Leggi tutto
Nei giorni scorsi si è
svolto l’atteso Summit europeo sulla questione migrazioni, con
la Turchia di Erdogan invitato
speciale a poche ore dall’assassinio di Tahir Elci, presidente
del Foro di Diyarbakir (capitale di fatto del Kurdistan
turco), per le strade del
quartiere di Sur e dell’abbattimento di un Jet russo durante
un’operazione militare avviata nel quadro della nuova
“alleanza”
sul terreno tra Russia e Francia. Il Bataclan è già lontano.
Al Summit i primi ministri dei paesi UE, Valls in testa, hanno
accolto con
affettatissimo imbarazzo un partner prezioso e necessario per
fermare il flusso migratorio che interessa l’Europa con nuova
intensità a
partire da quest’estate, in particolare attraverso la rotta
che dall’Iraq e dalla Siria, colpite dalle violenze dello
Stato Islamico e dei
rispettivi governi, passa per la Turchia, la Grecia e quindi i
Balcani, fino a puntare su Germania, Scandinavia e
Inghilterra.
Mentre si bombarda Raqqa per “vendicare” le vittime di Parigi, si chiede alla Turchia di impedire alle vittime degli islamisti a Raqqa (o a Mosul, o a Singal) di mettersi in salvo dalle persecuzioni dello stesso Is (o da eventuali “danni collaterali” dei bombardamenti…). Le vittime europee vanno vendicate, sia pur con operazioni aeree che molto sanno di propaganda, mentre quelle orientali vanno chiuse entro i confini dei propri massacri o della propria oppressione. Già, perché l’eventuale “chiusura dei rubinetti” delle migrazioni, da parte della Turchia, non coinciderà certo con la disponibilità turca a tenere milioni di profughi entro i suoi confini, ma sarà la probabile premessa per un giro di vite anche rispetto agli ingressi in Turchia (dove la popolazione, come in Europa, non fa certo i salti di gioia rispetto all’arrivo di milioni di richiedenti asilo). Leggi tutto
In Europa, sul fronte
macroeconomico, la notizia di questi giorni è che le
esportazioni vanno a gonfie vele. In effetti, gli
ultimi dati forniti dalla Bce non lasciano spazio ad alcun
dubbio: nel secondo trimestre di quest’anno, il saldo
delle partite
correnti nell’eurozona si
è chiuso in attivo per 67,1
miliardi
di euro, doppiando, quasi, la cifra registrata nei primi 3
mesi del 2015 (35,9 miliardi di euro). Bene,
verrebbe da dire. E invece no, niente
applausi. Intanto perché a questi numeri non corrisponde un
miglioramento sostanziale della situazione sociale nei Paesi
membri e,
complessivamente, nell’intera area, né, per stare agli
obiettivi della politica monetaria di Eurotower, un aumento
apprezzabile
dell’inflazione e, quindi, della domanda interna. Leggi tutto
In guerre complesse e complicate come quella nei territori di Siria e Iraq, il ‘Siraq’, è naturale guardarsi intorno per trovare un barlume di normalità a cui aggrapparsi. Chiedersi da che parte stare, chi tifare e chi aiutare diventa un esercizio di sopravvivenza morale, prima ancora che un imperativo strategico. Una necessità di chiarezza. Una speranza di poter intravedere un futuro migliore. Anche se manipolato dall’esterno, meglio del caos hobbesiano del tutti contro tutti.
Ecco allora che irrompono sulla scena i “curdi”. Attori senza macchia di una farsa politica, ormai trasformata in tragedia generazionale e potenziale miccia globale.
I curdi. L’unica certezza. I nostri boots on the ground. Gli unici che combattono davvero lo Stato Islamico. Non come gli altri, che fanno finta di bombardare l’Is, ma sono mossi in realtà solo da fini egoistici.
La Turchia contro i curdi e Assad.
La Russia e Assad contro i ribelli sostenuti dagli Stati Uniti.
Arabia Saudita e Iran alle prese con il contenimento reciproco.
Per cui i Sauditi trovano più gustoso il bombardamento massiccio degli sciiti Houthi in Yemen. Mentre l’Iran degli Ayatollah riempie le fila dell’esangue esercito siriano con i suoi pasdaran.
Ecco allora che emergono sui tavoli delle cancellerie occidentali e sulle prime pagine dei quotidiani europei i curdi, genericamente intesi. Appunto, eroi senza macchia. Leggi tutto
Le mistificazioni dei crociati della “guerra santa” trovano terreno fertile nella crisi economica e nelle politiche che la determinano. Come il gold standard britannico fu foriero del primo conflitto mondiale, l’eurozona tedesca è la levatrice degli odierni imperialismi europei
Difendere i valori della cristianità contro orde di musulmani intenzionati a soggiogare l’Europa. Chiudere le frontiere e respingere gli immigrati per impedire l’accesso ai terroristi. Partecipare ai bombardamenti e inviare truppe per reagire agli attentati. Con gradazioni diverse, ognuna di queste proposizioni costituisce una miscela di opportunismo, ignoranza e follia. In Italia, i più indefessi fabbricatori di tali mistificazioni sono Salvini e i suoi maestri di pensiero magico. La loro bussola politica può esser sintetizzata nel grido “usciamo dall’euro ed entriamo in guerra santa”. Un binomio istruttivo, se non altro per ricordarci che da quel nefando accrocco di destra che è la moneta unica, costoro sarebbero capaci di farci uscire ancor più a destra.
I novelli crociati, tuttavia, non si trovano solo tra le fila delle forze xenofobe. Le mistificazioni guerrafondaie si ritracciano ormai persino in alcuni editoriali del Corsera. L’obiettivo non è nuovo: persuadere un governo riluttante a lanciarsi in un’altra disastrosa avventura bellica. E’ il proposito di una borghesia egemone ottenebrata da sé stessa, pronta a calpestare il ripudio costituzionale della guerra pur di tenere un ruolo nella tragedia che da tempo si consuma tra le macerie mediorientali. “Nous laissez faire” è il suo vero motto: “lasciateci fare”. La storia evidentemente non insegna. La deflazione investe oggi non soltanto i salari, ma a quanto pare anche le coscienze.
Leggi tuttoMentre la Francia entrava in Stato d’Emergenza permanente, anche la capitale amministrativa e politica dell’Unione Europea è stata militarizzata e messa in totale stato d’assedio.
Nel Medio Oriente, si dice, non ci sono amici o nemici permanenti. Dipende dal momento. Ma la categoria più pericolosa è una terza: gli amici-nemici. Il dubbio è che Turchia e Qatar appartengano a quest’ultima categoria. La certezza è che i loro interessi, sia tattici sia strategici, non coincidono con quelli degli Stati Uniti e dell’Europa. In Libia e in Siria in particolare, anziché sulle forze moderate turchi e qatarini hanno scelto di puntare sulle formazioni islamiste. “Per il Qatar i motivi non sono ideologici, ma geopolitici. Doha riteneva che dalla Primavera araba sarebbero usciti vincenti movimenti islamici come i Fratelli musulmani. E ha deciso di appoggiarli non perché ne condividesse i programmi ma perché erano convinti fossero i cavalli vincenti e speravano di trarre beneficio dal loro successo”, spiega Giorgio Cafiero, co-fondatore della società di consulenza Gulf State Analytics. “In più era un modo per innervosire i loro vicini/rivali sauditi, che vedono i Fratelli musulmani come il fumo negli occhi”. “La strategia politica dei qatarini è difficilissima da capire, anche perché a Doha non c’è pubblico dibattito e tutto viene deciso da un numero ristrettissimo di persone. Ma a mio parere il finanziamento a formazioni islamiste estere è una sorta di pizzo: il Qatar paga per non avere problemi con terroristi che potrebbero sceglierlo come bersaglio per via della base anglo-americana al Udeid”, azzarda Daniel Serwer, ex vice ambasciatore americano a Roma oggi professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies di Washington. La stessa logica, dei finanziamenti in cambio della non-belligeranza, potrebbe valere per la Turchia, che assieme al Qatar è l’unico altro stato musulmano ad aver aperto il proprio suolo a basi americane o europee. Leggi tutto
Continuano le operazioni di
propaganda e manipolazione del governo sulla Legge di
Stabilità. Ma la Legge di stabilità per il 2016 è un inno al
neoliberismo:
prodiga verso le imprese e i ceti abbienti, a cui destina
una gran quantità di risorse in tutti i modi possibili,
mentre accelera la
distruzione di ogni comparto e funzione pubblica con
l’eccezione della spesa militare, favorisce l’evasione
fiscale, e non dà che
qualche mancia per la condizione di disagio sociale dei più
deboli.
1. Il rapporto con i vincoli europei: l’austerità “flessibile” e il neoliberismo
La comunicazione pubblica del governo è tutta centrata alla descrizione di una manovra che finalmente dà e non toglie. Una manovra espansiva con cui si cerca di accreditare anche l’immagine di un premier che mette in discussione le politiche europee. Non è così. Come viene riaffermato in ogni documento, il governo si muove “nel pieno rispetto delle regole di bilancio adottate dall’Unione Europea”. Nessuna vertenza viene aperta per modificare il quadro delle politiche di austerità, i vincoli su deficit e debito del Fiscal Compact.
Il governo sfrutta invece, concentrandoli nel 2016, i margini di manovra concessi dalla cosiddetta “austerità flessibile”, cioè dalla possibilità di spostare nel tempo il raggiungimento degli obiettivi fissati dalla UE.
Leggi tuttoLa
strage di Parigi del 13/11 ha già prodotto un risultato
finora impensabile: su iniziativa di Angela Merkel, la
Germania schiera mezzi ed uomini in Medio Oriente, a
fianco di Francia, Regno Unito ed USA, nonostante il
Califfato stia subendo pesanti
rovesci in Siria ed Iraq. Nel frattempo le condizioni
economiche dell’eurozona volgono al peggio, con la
Francia che registra ad ottobre un
nuovo record di disoccupati e la deflazione che avanza
ovunque. La guerra all’ISIS è solo un espediente per
procrastinare lo sfaldamento
della UE/NATO: l’avversario strategico degli
angloamericani è infatti Mosca, capace di aggregare
l’Europa post-euro su basi
alternative al sistema euro-atlantico. Con l’ammassarsi
degli occidentali nel sempre più affollato ed
incandescente Medio Oriente, la
scacchiera è predisposta: è sufficiente un casus belli
simile all’abbattimento del Su-24 e sarà guerra.
***
L’Europa tra crisi economica e guerra all’ISIS
Una delle ricadute della strage del 13/11, coordinata come abbiamo sottolineato nei nostri lavori dai servizi segreti francesi, è stata senza dubbio la possibilità di eclissare i dati francesi sul mercato del lavoro, pubblicati la settimana scorsa e relativi al mese di ottobre: cifre pessime che, col nuovo record di 3,81 mln di disoccupati1, certificano la situazione critica della Francia, alle prese con un debito pubblico prossimo al 100% del PIL ed una bilancia commerciale in cronico disavanzo. Leggi tutto
"La verità è che
le possibilità di successo di una rivoluzione socialista
non hanno altra misura che il successo stesso"
- Antonio
Gramsci (1891-1937), riferendosi alla
Rivoluzione d'Ottobre -
Al più tardi, con la
sparizione dell'URSS dalla scena politica mondiale, anche
quello che si soleva chiamare "teoria marxista" ha
perso ogni e qualsiasi rilevanza sociale. Anche le varianti
più illuminate del marxismo si riferivano all'Unione
Sovietica, se non come
socialista, quanto meno come formazione sociale "post" o
"non-capitalista". La sua caduta catastrofica ha sigillato
anche il verdetto sulla sinistra
fino ad allora esistente, e sul suo concetto di teoria.
In questo contesto, non si può non considerare, o nutrire grande interesse per Antonio Gramsci. Non è facile comprendere perché un pensatore che ha visto come proprio compito quello di "tradurre in italiano" le esperienze della Rivoluzione d'Ottobre (Zamis, 1980), e per il quale Lenin era il "maggior teorico moderno" del marxismo (Perspektiven, 1988), non venga trattato come un cane morto. Di fatto, la rinascita di questo rivoluzionario fallito dei tempi della III Internazionale suscita sorpresa, se si considera che non solo la sinistra, ma anche la destra teorica, ha riscoperto per sé questo "marxista classico". Se Gramsci era già popolare a partire dal decennio 1970, in un determinato spettro della sinistra accademica, che in Germania Occidentale era riunito intorno alla rivista Argument, nel 1977 il teorico della nuova destra francese, Alain de Benoist, ha scritto un libro in cui adattava a suo modo il pensiero di Gramsci. Leggi tutto
Chissà perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak a Giuliano Poletti. Sono due persone diversissime per storia cultura e esperienze, l’uno intellettuale militante dell’imperialismo USA, l’altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass media italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché in Afghanistan è crollata l’Unione Sovietica è così l’Occidente ha visto sconfitto il suo principale nemico. Il secondo ha dichiarato inutili le lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione. Io trovo che entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra si fa per conquistare potere e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche. Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono essere astute e spietate. Le guerre di Luttwak sono quelle del capitalismo liberista e globalizzato di oggi, quello santificato da George Bush padre allorché dichiarò: il nostro sistema di vita non è negoziabile e verrà difeso in tutti i modi.
Giuliano Poletti deve esercitare qualche ipocrisia in più, vista la professione, ma alla fine non scarseggia in brutalità. Il suo attacco al 110 e lode corrisponde ad un mercato del lavoro nel quale i giovani laureati vanno a fare le polpette ai MCDonald, naturalmente nascondendo il titolo di studio altrimenti non verrebbero assunti. A che serve studiare tanto se i lavori che vengono offerti non corrispondono minimamente alla cultura acquisita? Poco tempo fa ho conosciuto un ricercatore universitario che, stufo di fare la fame, aveva rilevato la bancarella del padre ai mercatini. Leggi tutto
Gran parte dei giudizi di Marx su Mazzini si trovano nel “New York Daily Tribune”, ove Marx scriveva come giornalista, e ovviamente nell’epistolario con Engels. In genere sono giudizi negativi, come quando dice, in riferimento ai vari manifesti del leader repubblicano, che usava “roboanti proclami”.
Quello che Marx proprio non sopportava era il bisogno di una continua cospirazione, come se le rivoluzioni potessero essere fatte “su ordinazione”, a prescindere dalle “possibilità favorevoli che offrono le complicazioni europee”. Per di più – diceva con un certo fastidio – venivano promosse da un leader molto lontano dalla sua patria, che pretendeva “azioni individuali da parte di cospiratori che dovevano agire di sorpresa”.
Secondo lui Mazzini ebbe modo di capire, dal fallimento delle Cinque giornate di Milano del 1848, che nei moti rivoluzionari “non è alle classi superiori che si deve guardare, bensì alle differenze di classe”. Tuttavia gli rimproverò sempre di non tenere in alcun conto le “condizioni materiali della popolazione italiana delle campagne”, quelle che l’avevano resa “indifferente alla lotta nazionale”. Lo dice anche nella lettera a Joseph Weydemeyer (11-09-1851): “la politica di Mazzini è fondamentalmente sbagliata, in quanto trascura di rivolgersi a quella parte dell’Italia che è oppressa da secoli, ai contadini, e in tal modo prepara nuove riserve alla controrivoluzione. Il signor Mazzini conosce soltanto le città con la loro nobiltà liberale e i loro cittadini illuminati. I bisogni materiali delle popolazioni agricole italiane – dissanguate e sistematicamente snervate e incretinite come quelle irlandesi – sono troppo al di sotto del firmamento retorico dei suoi manifesti cosmopolitici, neocattolici e ideologici. Leggi tutto
Il missile Aim-120 Amraam lanciato dall’F-16 turco (ambedue made in Usa) non era diretto solo al caccia russo impegnato in Siria contro l’Isis, ma a un obiettivo ben più importante: il Turkish Stream, il progettato gasdotto che porterebbe il gas russo in Turchia e, da qui, in Grecia e altri paesi della Ue.
Il Turkish Stream è la risposta di Mosca al siluramento, da parte di Washington, del South Stream, il gasdotto che, aggirando l’Ucraina, avrebbe portato il gas russo fino a Tarvisio (Udine) e da qui nella Ue, con grandi benefici per l’Italia anche in termini di occupazione. Il progetto, varato dalla russa Gazprom e dall’italiana Eni e poi allargato alla tedesca Wintershall e alla francese Edf, era già in fase avanzata di realizzazione (la Saipem dell’Eni aveva già un contratto da 2 miliardi di euro per la costruzione del gasdotto attraverso il Mar Nero) quando, dopo aver provocato la crisi ucraina, Washington lanciava quella che il New York Times definiva «una strategia aggressiva mirante a ridurre le forniture russe di gas all’Europa».
Sotto pressione Usa, la Bulgaria bloccava nel dicembre 2014 i lavori del South Stream affossando il progetto. Contemporaneamente però, nonostante Mosca e Ankara fossero in campi opposti riguardo a Siria e Isis, la Gazprom firmava un accordo preliminare con la compagnia turca Botas per la realizzazione di un duplice gasdotto Russia-Turchia attraverso il Mar Nero.
Il 19 giugno Mosca e Atene firmavano un accordo preliminare sull’estensione del Turkish Stream (con una spesa di 2 miliardi di dollari a carico della Russia) fino alla Grecia, per farne la porta d’ingresso del nuovo gasdotto nell’Unione europea. Leggi tutto
Anche la cultura classica è sotto assedio. “Laurearsi con 110 e lode a 28 anni non serve a un fico”, ha detto con tono postmoderno il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. E tutti ricordano l’articolo di Stefano Feltri dell’estate scorsa, “Il conto salato degli studi umanistici”, una sorta di esortazione rivolta ai giovani in vista della scelta delle Facoltà universitarie, con annessa demonizzazione dei saperi classici e delle humanae litterae.
Voci stonate? Errori di prospettiva? Niente affatto! Mere personificazioni del capitale, direbbe Marx. Semplici maschere di carattere che danno voce, in modo chiaro e coerente, agli oggi in atto processi di destrutturazione della scuola e dell’università come istituti educativi e di formazione tipici di un mondo in cui ancora esisteva la Sittlichkeit, l’“eticità” in senso hegeliano (stabilità sentimentale, lavorativa, educativa) e in cui non era ancora avvenuta la sussunzione totale sotto il fanatismo economico.
In un mondo in cui tutto diventa merce, non deve esserci spazio per la cultura classica, inutile per il parametro del do ut des e, di più, potenzialmente dannosa, perché in grado di far maturare, eventualmente, pensieri poco conformisti.
Senza perifrasi, stiamo assistendo, negli ultimi anni, a una sempre più evidente distruzione mercatistica della formazione e dell’istruzione; distruzione orwellianamente occultata dietro categorie proditorie come quella della “buona scuola”. I continui tagli dei finanziamenti destinati alla cultura e all’istruzione – tagli coerenti con il paradigma neoliberista e con l’assunzione del momento economico come unica sorgente di senso – rispondono essi stessi a questo programma politico di annichilimento della formazione come momento etico, opportunamente mascherato dietro le leggi anonime dell’economia. Leggi tutto
Un resoconto del convegno di Alessandria su «I ritorni di Marx». I nessi tra forza economica e capacità egemonica del centro del potere capitalistico. Crisi e ruolo dell’Unione europea, un «nuovo mostro» che non è stato ancora adeguatamente analizzato. La costruzione del soggetto tra neoliberismo, psicanalisi e femminismo della differenza
Dunque lo spettro di Marx è tornato ad aggirarsi sullo scenario della nuova, lunga e devastante crisi ca- pitalistica che ci accompagna dal 2008, sollevando moltissimi interrogativi sui veri meccanismi che sostengono il sistema uscito vincitore dal confronto con l’alternativa comunista e socialista. Un confronto aperto proprio dalle opere del professore di Treviri a metà dell’Ottocento, divenuto conflitto acuto e tragico dopo la rivoluzione del 1917. Apparentemente concluso con la fine dell’Urss.
Ma è davvero possibile – come si è augurato in premessa Aldo Tortorella – che questo nuovo ritorno avvenga «a occhi aperti» da parte di coloro che non rinunciano a rimeditare e attualizzare la lezione di Marx? Evitando il rischio di ulteriori errori e limiti di natura ideologica, se non propriamente dogmatica, proprio grazie al fatto che è stato abbastanza brutalmente tolto di mezzo l’equivoco di una costruzione in corso, con sicura ricetta, di «mondi nuovi»?
La discussione svoltasi per tre giorni a Alessandria, per iniziativa di Critica marxista e della Fondazione Luigi Longo, nel convegno intitolato appunto I ritorni di Marx, sembra fornire una prima significativa risposta positiva. Leggi tutto
Raggiunto pienamente il traguardo della libera licenziabilità attraverso il Jobs Act, l’attacco neoliberista punta ora dritto al cuore della prestazione lavorativa: l’orario di lavoro e il suo presidio costituzionale, l’art. 36. Superato quest’ultimo baluardo, non resta null’altro nel campo dei diritti lavorativi: siamo giunti alla barbarie del lavoro
È
vorace il neoliberismo, come tutti gli “ismi” avendo, nel
suo patrimonio genetico, un cromosoma totalitario che
pretende il completo asservimento della persona e della sua
esistenza.
È suadente il neoliberismo, sussurando continuamente alle orecchie dei cittadini dell’ormai globale villaggio la parola “libertà” che, nella cruda realtà dei fatti, cela il tintinnio di nuove catene.
Raggiunto pienamente il traguardo della libera licenziabilità attraverso le “tutele crescenti”, la lotta di classe da alcuni decenni promossa dall’1% della società[1] si dirige determinata, ora, verso il cuore della prestazione lavorativa: l’orario di lavoro. Ecco dunque che qualche perlustratore in avanscoperta “spara” i primi colpi di avvertimento, dichiarando che
“L’ora-lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione… dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento la retribuzione oraria”[2], trattandosi di “un tema culturale su cui lavorare”, poiché “il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore e sempre più risultato”. Del resto “per molti anni i ritmi biologici e di vita si sono piegati agli orari fissi, ma con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà”.
Di qui l’invito alle giovani schiere di economisti e giuslavoristi ad “immaginare il futuro su questo tema”.
Lo schema adottato è quello classico: si attacca l’obbiettivo definendolo “vecchio”, d’ostacolo all’innovazione e alla libertà dei “moderni”: nel caso di specie, al fattore “tempo” del rapporto di lavoro viene contrapposto il “risultato”, “l’apporto dell’opera”.
Leggi tuttoAppaiono veramente ipocrite le esternazioni e le scomposte grida sollevate dalla quasi totalità del sistema dei media occidentali a proposito delle vivaci contestazioni di Parigi contro il vertice denominato “Conferenza Mondiale sul Clima Cop 21”.
Un’indegna esecrazione autoritaria e bellicista capitanata da quel Manuel Valls il quale, anche a proposito dei cortei e delle proteste di domenica scorsa, non ha perso l’occasione di indossare l’elmetto e di lanciare proclami di guerra accompagnati dalla stucchevole retorica patriottarda che dal quel venerdì 13, il giorno degli attentati parigini, sta scorrendo a fiumi in Francia come in tutta Europa. Anche con la complicità di alcune importanti forze della cosiddetta sinistra “radicale” continentale, incapaci di distanziarsi dal richiamo alla Union Sacrée proclamata contro i nemici interni ed esterni o addirittura sue fiere protagoniste. A partire da quel Front de Gauche che nel parlamento di Parigi ha compattamente votato a favore del prolungamento di ben tre mesi dello stato d’emergenza, mentre già il governo progetta la sospensione anche della Convenzione Internazionale dei Diritti Umani in nome di una crociata contro il terrorismo che in realtà copre le responsabilità dell’Unione Europea nel conflitto in corso in Medio Oriente e le aspirazioni imperialiste, anche in campo militare, del polo europeo e della Francia in particolare.
Ma nonostante il clima di stato di assedio e di vera e propria sospensione materiale delle norme e delle leggi che afferiscono alle libertà di movimento e di contestazione, la giornata di lotta di ieri di Parigi è un segnale positivo da valorizzare politicamente e da difendere contro ogni tentativo di criminalizzazione, di rimozione sociale e di riduzione ad episodio di sterile jacquerie. Leggi tutto
Giusto per ricordare agli intellettuali italiani che se il presepe, i cori di Natale, la messa di mezzanotte e tutto l’ambaradàn natalizio fanno parte della loro cultura, beh, non fanno parte della mia.
Che regolarmente pago fino all’ultimo euro di tasse per permettere agli insegnanti di religione di andare in classe a insegnare la loro religione: contro la quale non ho nulla, anzi. Rispetto, stimo e, se lo devo dire chiaro, spesso invidio i miei amici cattolici, quelli veri. Sono persone degnissime, che non hanno alcun bisogno di scusarsi per l’Inquisizione, o la connivenza con i casi di pedofilia, così come i miei amici islamici non sentono la necessità pelosa di dire che non sono terroristi. Tuttavia, mi farebbe piacere ricordare a tutti che esistiamo anche noi, quelli che non hanno la fortuna di avere una fede, e che però, prosaicamente, paghiamo per la fede degli altri. Che puntualmente, quando si parla di rispetto, si dimenticano quello dovuto a noi.
Che non consideriamo radici comuni i canti di Natale, il presepio e le messe di mezzanotte, e che invece saremmo disposti a incontrarci con loro sul campo della civiltà, del progresso, della tolleranza, del rispetto reciproco. Tutte cose che però si infrangono sul loro desiderio, non dissimile se non nei metodi (meno cruenti ma altrettanto efficaci) di far vivere noi secondo le loro regole e convinzioni. Per abortire bisogna chiedere il permesso a ginecologi cattolici, per i matrimoni gay si aspetta il via libera di cattolicissimi pluridivorziati e puttanieri, e via così. Leggi tutto
L’obiettivo primario di Erdogan è stato, ed è, quello di abbattere Bashar al-Assad. Lo spingono le sue ambizioni neo-ottomane, il suo islamismo sunnita ma anche capitalista, comunque anti-sciita. Lo spinge il calcolo tattico di compiacere i neo-con americani (che sono alleati di Israele e, quindi, puntano a liquidare la Siria, ostacolo principale alla costruzione della Grande Israele, dal Sinai fino all’Eufrate). Lo spinge la convergenza di interessi anti sciiti tra Israele, Arabia Saudita e Qatar. Da non dimenticare il “presidential order” con cui Obama, in fotocopia con l’analogo “order che costituiva la dichiarazione di morte di Gheddafi, affermò nel 2011 che il governo di Damasco costituiva una minaccia per gli interessi americani nell’area.
Erdogan sa di essere nella Nato con lo scopo di difendere quegli interessi strategici, in attesa di costruirsene di propri. La fine di Bashar era il punto di convergenza di tutti questi disegni. Si aggiunga a questo che la Turchia è l’unico paese che può svolgere il ruolo (molto proficuo) di compratore del petrolio che lo Stato Islamico preleva in Siria e Iraq.
Quale avrebbe potuto essere il regime che veniva dopo Assad non gli importava molto. In primo luogo perché, con ogni probabilità, la caduta di Assad avrebbe coinciso con il crollo dello Stato siriano, con il massacro degli alauiti-sciiti, e lo smembramento del suo territorio. Cosa che sarebbe stata oltremodo gradita anche a Israele e all’Arabia Saudita. Insomma una ripetizione (ma in grande) della demolizione della Libia. A quel punto ci sarebbe stato solo il problema di tenere a bada gli agenti occidentali di Al Nusra/Al Qaeda. Leggi tutto
«La conquista del territorio è fondamentale per capire come si finanzia l’Isis. Hanno creato una vera economia di guerra, con ricavi certi e solidi che riguardano tutti i settori, e con un grande consenso popolare….»: parte da qui Loretta Napoleoni , autrice di uno dei saggi più completi sullo stato islamico (Lo Stato del terrore, edizioni Feltrinelli), per spiegare la forza finanziaria delle milizie islamiche che hanno scatenato il conflitto con il mondo occidentale. Fino al cuore dell’Europa.
Che cosa significa, nel caso dell’Isis, un’economia di guerra?
Tassare tutte le attività economiche nelle zone dove hanno il controllo del territorio: e con questi soldi, che sanno spendere, diventare sempre più attrezzati sul piano militare, organizzativo e tecnologico. Una crescita che, vista con i nostri occhi, fa venire i brividi.
Innanzitutto ci sono i ricavi per il commercio del petrolio. . .
Vale almeno il 20 per cento del loro pil, e riescono a venderle il greggio al mercato nero, sfuggendo a qualsiasi forma di controllo internazionale. Se riusciranno a espandersi in Libia, in Iraq e in Siria, nelle zone dove ci sono i pozzi, questa voce di ricavi potrebbe moltiplicarsi.
Oltre al greggio, quali sono le voci di entrate più rilevanti?
L’Isis è uno stato decentrato, molto diverso dai talebani e dall’Olp. La popolazione locale paga tributi alti per finanziare la guerra, ma in cambio riceve mani libere nelle attività economiche. Non è oppressa, fanno molti soldi utilizzando qualsiasi risorsa da vendere, e sostengono con convinzione lo stato islamico. Leggi tutto
“Il denaro è il
nervo della guerra” diceva Cicerone, aforisma da
accompagnare con “la guerre
nourrit la guerre”: le risorse conquistate nella campagna
militare alimentano la macchina bellica che si
autofinanzia costantemente. È
ormai chiaro che fosse questa la strategia alla base del
Califfato: i proventi del petrolio immesso illegalmente
sul mercato internazionale erano
reinvestiti nella “jihad” dell’ISIS, coll’obbiettivo di
destabilizzare Siria ed Iraq. I bombardamenti russi,
fermando il
contrabbando di greggio, minano l’intero progetto: ne
segue la corsa di Washington ed alleati in Medio Oriente
prima che il conflitto si chiuda
con una strategica vittoria russo-iraniana. Il rilancio è
pressoché sicuro.
***
La reazione americana alle prove sui traffici di petrolio tra Turchia e Califfato ricorda quella del marito colto in flagrante con un’avvenente amante: negare sempre e comunque, anche l’evidenza. L’ingrato compito di smentire l’inconfutabile 1 è toccato al colonnello Steve Warren, portavoce a Baghdad dell’operazione Inherent Resolve formalmente impegnata nei bombardamenti contro l’ISIS:
“Let me be very clear that we flatly reject any notion that the Turks are somehow working with ISIL. That is preposterous and kind of ridiculous. We absolutely, flatly reject that notion.The Turks have been great partner to us in the fight against ISIL. They are hosting our aircraft, they are conducting strikes, they are supporting the moderate Syrian opposition. They’ve been good partners here. Any thought that the Turks, that the Turkish government is somehow working with ISIL is just preposterous and completely untrue.”
Assurda e ridicola: così il portavoce statunitense definisce l’accusa che i Turchi contrabbandassero petrolio con l’ISIS, lucrando sulle sventure dei vicini e alimentando la destabilizzazione della regione. Leggi tutto
La nuova folla senza
animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul
Han, il filosofo nato a Seul che
insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi
anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e
sugli effetti delle nuove
tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello
sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è
l’ultimo suo
breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han
stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei
media digitali e che lui ha
definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da
individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri
e
azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e
dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per
esprimere le loro energie collettive.
Una caratteristica della manifestazione dello stato di eccitazione dello sciame digitale è rappresentata dalle forme di scrittura più emotiva e informale che la comunicazione digitale favorisce: “La comunicazione digitale rende possibile un istantaneo manifestarsi dello stato di eccitazione.” Sono comunicazioni rapide e imperfette, vicine al parlato anche se sono scritte. Quella digitale, a differenza di quella del potere (La comunicazione del potere non è dialogica;) e di gran parte dei mezzi di comunicazione tradizionali (stampa, radio, televisione), è una comunicazione dialogica. Eppure la simmetria comunicativa potenziale non implica necessariamente una simmetria fattuale. Infatti, la comunicazione digitale può modificare i rapporti tra persone, gruppi e organizzazioni, renderli diretti e bypassare i ruoli e le gerarchie, ma spesso questa disintermediazione si realizza soltanto in apparenza, perché i rapporti di potere e di relazione consolidati non si fanno cortocircuitare facilmente dall’informalità e dalla velocità della comunicazione digitale. Leggi tutto
Il novum della
guerra tardo novecentesca deve essere pensato sondandone la
densità storica,
cioè il carattere di rottura e contiguità che intrattiene con
il passato. A tal fine la strumentazione concettuale offerta
dall’opera di Carl Schmitt risulta preziosa. Non si tratta,
evidentemente, di essere più o meno d’accordo con un giurista
paranazista e razzista che a fronte di una straordinaria
profondità di sguardo ha ricondotto il conflitto di classe a
un semplice fattore di
regressione premoderna del politico. Si tratta piuttosto di
maneggiare la sua articolazione teorica come dispositivo di
ripulitura della mescola di
interessi, leggi morali eterne, valori, religione e appelli
alle coscienze che il liberal-capitalismo ha utilizzato per
opacizzare il reale e
confondere lo sguardo critico. Se coniughiamo questa azione di
rischiaramento dentro una comprensione tutta “di parte”, se
utilizziamo la
sua opera non ingessandola nella filologia ma mettendola
incessantemente alla prova di uno sguardo in grado di assumere
o scartare suggestioni e
motivi allora, forse, rendiamo un servizio al pensiero (anche
a quello di Schmitt) e qualche nebbia del presente possiamo
tentare di diradare.
Il lungo corso del paradigma vestfaliano e del jus publicum Europaeum, cioè del concreto principio d’ordine internazionale fondato sull’entità-Stato che seguì i conflitti religiosi cinquecenteschi e la guerra dei trent’anni (1618-1648), affonda le sue radici tanto nell’architettura politico-istituzionale quanto nella vicenda dell’ordo capitalistico borghese sostanziale a quell’impianto. Lo Stato dunque – operiamo già un netto scarto dall’assolutizzazione schmittiana – nonè l’unico attore sulla scena della modernità ma divide e intreccia il suo primato con il capitale, come è evidenziato dall’estesa applicazione di una razionalità calcolante che connette l’economia politica borghese all’architettura istituzionale e allo sviluppo tecnico- scientifico. Leggi tutto
Come ci hanno spiegato, i russi mentono sempre. Per fortuna! Pensate come dovremmo preoccuparci se, invece, i turchi aiutassero l'Isis, gli Usa aiutassero la Turchia che aiuta l'Isis, la Nato...
Noi occidentali siamo proprio fortunati! Sappiamo che la Russia è l'impero del male e che, quindi, nulla dalla Russia può venire che non sia menzogna. Pensate che disastro, se non fosse così.
Se non fosse così, dovremmo pensare che la Turchia, un Paese a cui l'Unione Europea, per mano della signora Mogherini (appunto Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, dicesi sicurezza!) vorrebbe consegnare 3 miliardi per controllare i confini e impedire che i profughi siriani si riversino verso l'Europa, usa uno dei suoi confini, quello con la Siria, per fare affari con i jihadisti che mettono a ferro e fuoco la Siria, producendo appunto quei profughi. Un bellissimo sistema, quello turco, per guadagnare tre volte su un'unica tragedia: comprando petrolio e opere d'arte dall'Isis; vendendo all'Isis armi e altre attrezzature e facendo passare i foreign fighters che vanno a rinforzare le sue file; infine, obbligandoci a versare milioni se non vogliamo veder arrivare i profughi.
Certo, l'impero del male ha prodotto foto e testimonianze. E anche chi scrive, visitando il Kurdistan iracheno, non ha mancato di notare le centinaia e centinaia di autobotti che ogni giorno partono per la Turchia, cariche di petrolio "clandestino", quello che il Kurdistan dovrebbe vendere attraverso il ministero del Petrolio di Baghdad e invece vende per conto proprio.
Leggi tuttoIn un suo scritto su Illuminismo e critica (Donzelli) Michel Foucault descrive la seconda come «una certa maniera di pensare, di dire e anche di agire, un tipo di rapporto con l’esistente, con ciò che si sa, con ciò che si fa, un rapporto con la società, con la cultura, con gli altri». La critica è l’«arte di non essere eccessivamente governati».
Il volume curato da Alessandro Simoncini, Del pensiero critico. Filosofia e concetti per il tempo presente (Mimesis, Milano 2015) raccoglie i contributi di sedici intellettuali che pur interrogandosi su temi differenti partono tutti dall’urgenza di comprendere criticamente il presente. Del resto, se Marx ha descritto la «miseria della filosofia», Gilles Deleuze e Felix Guattari ci hanno mostrato come la filosofia (ed eminentemente quella critica) sia costruzione, invenzione e produzione di concetti «tra amici». A scorrere le pagine di questa raccolta si coglie come la filosofia critica contemporanea esprima una straordinaria ricchezza di analisi. Nella sua introduzione Simoncini si sofferma soprattutto sulle differenze che segnano i tanti rivoli del pensiero critico novecentesco — prevalentemente ma non esclusivamente marxista — e di quel complesso plurale di riflessioni che, magari proprio a partire da Marx, hanno posto in questione la più tradizionale critica politica socialista e comunista.
Il volume ha come punto di partenza comune a tutti i contributi quel dominio del capitale che «conserva ed espande la propria capacità egemonica confermando — e per molti versi approfondendo — le contraddizioni relative al dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, oltre che le persistenti gerarchie di classe, di genere, di «razza»».
Leggi tuttoGli ultimi sviluppi della guerra mediorientale, hanno perso l’aspetto di una partita di scacchi, sia pure sanguinosa e disumana a la maniere occidentale e stanno acquisendo lì aspetto di una rissa: l’intervento russo ha cambiato le carte in tavola, ha mischiato il mazzo della malafede americana, francese, turca ed europea costringendo i protagonisti a smettere i panni affettati dei civili eccezionali per riacquistare l’identità del mucchio selvaggio.
Ma la vicenda del caccia russo abbattuto con l’appoggio logistico americano e le prove inequivocabili del coinvolgimento di Erdogan nel finanziamento dell’Isis presentate da Mosca, invece di portare consiglio inducono la Ue ad allinearsi alla linea di difesa ad oltranza della elite neo ottomana della Turchia e a proseguire nella sua assurda, grottesca e suicida guerra alla Russia: il che ha almeno il vantaggio di togliere qualsiasi dubbio sul fatto che sia la Nato a determinare in tutti i suoi aspetti e direzioni la politica estera della Ue.
Voglio vedere con quale coraggio gli europeisti di maniera potranno negare l’evidenza e con quale faccia difenderanno le politiche interne decise a Washington. Sono sicuro che qualcosa troveranno: la malafede non è mai a corto di parole visto che le tradisce. Ma intanto, mentre la Ue omaggia il sultano Erdogan e rinnova a porte chiuse le sanzioni alla Russia (senza farlo sapere troppo in giro), mentre lancia proclami contro il Califfato, si guarda ancora bene dal colpire effettivamente l’Isis. I francesi che dopo la strage di Parigi avevano proclamato la lotta “impitoyable” contro il Daesh che avevano contribuito a creare, non sono pervenuti: dopo l’abbattimento del Su24, Mosca ha inviato in Siria batterie di S400 e la portaerei de Gaulle ha lasciato alla chetichella il mediterraneo occidentale per rifugiarsi in un porto turco dell’Egeo. Leggi tutto
I recenti avvenimenti
francesi (Parigi, 13 novembre) ripropongono all’attenzione
generale la funzione del cosiddetto
quinto potere: il rapporto tra alcune agenzie di stampa,
certuni operatori dell’informazione, testate giornalistiche e
gruppi editoriali. In un
miscuglio di agenti atlantici, giornalisti-militanti
(prevalentemente fascisti) arruolati come consulenti e
pennivendoli, vertici militari e dei
servizi più o meno segreti, manovali del tritolo, servi senza
dignità (politica) e provocatori a tempo pieno. Soprattutto,
in
riferimento anche ad un recente passato, si può constatare
come alcune questioni, per determinati gruppi di pressione,
non siano mai superate o
passate di moda, ma mantengano piuttosto una loro freschezza e
siano sempre d’attualità così che, teorizzazioni di
cinquant’anni fa, possono sembrare enunciate in questi giorni.
In particolare modo è stupefacente la capacità e volontà di amplificare, distorcere, piegare alle necessità politiche, sociali ed economiche, fatti ed avvenimenti apparentemente diversi da quello che sono, manipolando e trasfigurando la realtà. Spiegando che, in nome della lotta al terrorismo mondiale, si possono sacrificare libertà minime, acquisite e consolidate. Cercando di convincere la pubblica opinione che, per sconfiggere il terrore, si deve e si può rinunciare a una quota minima(?) di libertà personali; si può sottostare ad un maggiore controllo poliziesco, accettare l’aumento della produttività (è risaputo che un maggiore impegno lavorativo aiuta a sconfiggere le forze del male) e, infine, assecondare gli immancabili necessari sacrifici, sempre conditi con altre rinunce e privazioni. Una guerra psicologica neppur troppo sottile. Leggi tutto
Come si è compreso qualche tempo dopo la morte di Luigi Tenco, l’ispirazione originaria dell’autore di Ciao amore ciao discendeva dal travolgente sbalzo vissuto dai giovani uomini e donne che, dall’entroterra ligure, entravano nelle fabbriche genovesi negli anni ’60. A Tenco, morto il 27 gennaio 1967, non fu dato conoscere come, sul finire del decennio, in Liguria come nel resto dell’Italia industriale quella generazione operaia si fosse ripresa dallo smarrimento iniziale di un secolo in un giorno solo per andare verso il più intenso ed esteso ciclo di lotte conosciuto nel nostro paese, attraverso l’espansione di una conflittualità fondata sulla conquista di una dimensione collettiva imperniata sulla figura dell’operaio massa. Di quella lunga stagione in questa occasione ci interessa richiamare due provvedimenti legislativi di assoluto spessore, che sedimentarono il potere operaio sull’assetto sociale complessivo e sono oggi sotto schiaffo dell’attuale governo: la riforma delle pensioni dell’aprile 1969, preceduta da uno sciopero nazionale della sola Cgil del 7 marzo 1968 e da due scioperi generali unitari, nel novembre dello stesso anno il primo e nel febbraio del 1969 il secondo, e lo statuto dei lavoratori del maggio 1970.
Quest’ultimo all’epoca non fu considerato una strepitosa conquista, ma un’accettabile mediazione che si auspicava potesse essere migliorata nell’immediato futuro, sull’onda di un’offensiva operaia che proseguiva dentro e fuori le fabbriche conquistando potere sui posti di lavoro, aumenti salariali e pensionistici, un’estesa socializzazione dei costi di riproduzione della classe. Già dal decennio successivo, invece, si è conosciuto in Italia un costante regresso della legislazione sul lavoro, mentre le sedimentazioni organizzative e istituzionali di quella ormai lontana stagione sono andate progressivamente sgretolandosi e buona parte di quelle che sembrano aver resistito si sono spesso convertite a un altro paradigma in un contesto sociale profondamente mutato.
Leggi tuttoQuest’enunciato non è
di per sé evidente. Che la matematica sia un pensiero, è stato
più
volte sostenuto, innanzitutto da Platone, che però avanza in
proposito numerose riserve, e più volte negato, in particolare
da
Wittgenstein. Si tratta di un enunciato indubbiamente
sottratto alla dimostrazione. Forse è il punto di impasse
della stessa matematizzazione,
e dunque il reale della matematica. Ma il reale, più che
essere conosciuto, viene dichiarato. L’oscurità di
quest’enunciato
risulta da quanto sembra imporsi come una concezione
intenzionale del pensiero: in questa concezione, ogni pensiero
è pensiero d’un
oggetto, che ne determina l’essenza e lo stile. La matematica
può allora essere considerata un pensiero proprio nella misura
in cui
esistono degli oggetti matematici, e l’indagine filosofica
concerne la natura e l’origine di questi oggetti. Ora, è
chiaro che una
tale supposizione è problematica: in quale senso le idealità
matematiche possono essere dichiarate esistenti? Ed esistenti
nella forma
generica dell’oggetto? Tale difficoltà è presa in esame nel
libro M della Metafisica di Aristotele, a proposito di ciò che
egli chiama le matematikà, le cose matematiche, o
correlati supposti della scienza matematica. Se si abborda la
questione della
matematica come pensiero che concerne l’oggetto o
l’oggettività, la soluzione di Aristotele è mio avviso
definitiva.
Tale soluzione si inscrive tra due limiti.
1. Da una parte si deve escludere di poter accordare l’essere o l’esistenza agli oggetti matematici, intendendolo come un essere separato, che costituirebbe un campo preesistente ed autonomo della donazione oggettiva. Leggi tutto
Boom. Ma non quello economico. Non quello - Renzi dixit - per il quale avremmo dovuto «allacciare le cinture di sicurezza».
Il boom che si avverte nell'aria, come quello di un bang supersonico, rimanda piuttosto allo scoppio delle superballe del fiorentino. E' vero, per ora sono piccoli numeri, piccoli scostamenti rispetto alle previsioni del governo, ma in essi c'è la conferma di quanto fosse modesta e drogata la ripresina di quest'anno. In base ai dati diffusi ieri dall'Istat sul terzo trimestre dell'anno, il +0,9% previsto per il Pil 2015 verrà quasi certamente mancato. Renzi ha lestamente replicato che lui prevede un +0,8%. La comunicazione ha le sue leggi, e il Bomba ha le tv al suo servizio. In realtà sembra ragionevole ipotizzare un dato un po' più basso, ma non è questo il punto. La vera questione è che un trend simile sembra annunciare una nuova fase di crescita zero.
Altri dati ce lo confermano. Nel trimestre in questione i consumi interni sono aumentati rispetto a quello precedente dello 0,4%, mentre in diminuzione (di un identico 0,4%) sono risultati gli investimenti fissi lordi, una voce assai indicativa dello stato dell'economia. In diminuzione anche le esportazioni, che hanno subito un calo dello 0,8%. Questi dati vanno presi con una certa cautela, visto che bisogna sempre tenere presente l'elemento della stagionalità.
Proprio per questo va di certo ridimensionato il dato sui consumi interni. Considerato che la «ripresina» renziana si è retta in buona parte sulla crescita del turismo, e visto che i dati di cui parliamo includono i mesi di luglio ed agosto, è abbastanza evidente che non esiste un vero aumento strutturale della domanda interna. Leggi tutto
Le dichiarazioni del ministro del Lavoro (?), Giuliano Poletti, sul superamento dell'orario di lavoro come strumento contrattuale sono state accolte dai sindacati in parte come il consueto annuncio/spot/diversivo, in parte come riproposizione acritica dell'ultra-liberismo come soluzione dei problemi economici e sociali. Queste reazioni possono apparire sensate, ma in realtà prescindono dal dato fondamentale, e cioè il conflitto di interessi legato alla persona del ministro Poletti.
Il ministro Poletti proviene infatti da un'agenzia di "somministrazione" del lavoro (quelle che una volta si chiamavano agenzie di lavoro "interinale"), perciò egli esprime gli interessi di una lobby nata attorno ad un tipico business della recessione, cioè lo sfruttamento della disoccupazione e del precariato attraverso un'intermediazione parassitaria. Le dichiarazioni di Poletti costituiscono quindi un messaggio di rassicurazione alla propria lobby, a cui si fa sapere che il governo intende continuare per la stessa strada: nessun limite alla disoccupazione ed alla precarizzazione del lavoro.
Ad ottobre l'ISTAT ha pubblicato dei dati confezionati in modo confuso ad uso dei telegiornali, dati da cui risulterebbe, ad una lettura superficiale, un calo della disoccupazione ed un conseguente successo delle politiche governative. La stessa notizia, sulla carta stampata, si presta a tutt'altra lettura, poiché il presunto calo della disoccupazione avviene a fronte di un aumento degli "inattivi", cioè di quelli che rinunciano ad iscriversi alle liste di disoccupazione. L'inattività non è solo l'effetto dell'inutilità della ricerca di un lavoro, ma soprattutto di salari troppo bassi e di condizioni lavorative troppo vessatorie, che costringono a consumare i già magri salari in spese di trasporto e di salute. Leggi tutto
Nell’analisi di Samuel P. Huntington – Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale , Garzanti 2000-, tornata di triste attualità a seguito delle crescenti minacce del fondamentalismo islamico nei confronti dell’Occidente- c’è un paradosso evidente: mentre pone l’identità culturale come “valore primario”, quando va a elencare i termini che la definiscono, nomina dettagliatamente “progenie, religione, lingua, storia, valori, costumi e istituzioni”, ma non l’appartenenza a un sesso. Viene da chiedersi quanto abbia a che fare questo silenzio sull’aspetto che colpisce per primo nella collocazione di un individuo, il suo essere uomo o donna, con la permanenza di costruzioni identitarie, schemi oppositivi, spinte omologanti o distruttive rispetto a ciò che è percepito come “altro da sé”.
Oggi si parla molto dell’interazione tra culture, con riferimento a singoli, gruppi sociali, popoli, lingue e costumi. Ma non si può fare a meno di riconoscere che si sono moltiplicate, contemporaneamente, anche chiusure particolaristiche, intolleranze, nostalgie nazionaliste e “pulizie” etniche. Dopo l’11 settembre 2001, che ha decantato insieme all’inviolabilità del territorio americano il sogno universalistico dell’Occidente, era inevitabile che il rapporto tra l’identico e il diverso, tra “noi” e “loro”, si avviasse a un’estrema semplificazione e a una conflittualità permanente, tra Bene e Male, civiltà e barbarie, sia pure con un cambiamento significativo nella rigida gerarchia che ha opposto finora l’Occidente al resto del mondo: l’ “altro”, il “barbaro”, il “non-uomo”, avrebbe manifestato sempre più vistosamente la sua presenza, parlando, agendo, minacciando, rivendicando a sua volta specularmente pretese di unicità e centralità.
Leggi tuttoL’approvazione del
nuovo articolo 81 della Costituzione, avvenuta con il consenso
di tutto l’arco parlamentare nel maggio
2012, è all’origine del nuovo paradossale ciclo di
privatizzazioni dei restanti lembi di economia pubblica
italiana. Nel giro di pochi
mesi sono state privatizzate Poste e Ferrovie (quest’ultime
ancora in corso di privatizzazione), gli ultimi due colossi
economici ancora di
proprietà statale, senza che nessuno abbia avuto da ridire e
anzi con il benestare di tutte le forze politiche. Le stesse
che da anni spingono
per la definitiva privatizzazione di tutta l’economia
“municipalizzata”, quella cioè legata ai servizi pubblici
comunali. E
questo per l’ormai dichiarato motivo per cui se tra ceti
politici c’è una lotta allo spodestamento del gruppo
concorrente,
socialmente tutti i “rappresentanti” politici in parlamento
condividono lo stesso modello economico, il liberismo, nelle
sue vesti
corporative (centrodestra) o transnazionali (centrosinistra).
Se però nel precedente ciclo di privatizzazioni, tra la metà
degli anni
Novanta e i primi Duemila (sempre inequivocabilmente a
trazione centrosinistra, tanto per non confondere i
protagonisti in campo), le giustificazioni
erano sostanzialmente di due tipi: da una parte “fare cassa”
con la vendita di determinati beni pubblici; dall’altra
migliorare
l’efficienza delle imprese sottratte al controllo statale,
oggi è intervenuta una nuova e più sottile opera di
convincimento: la
privatizzazione è la soluzione al problema degli investimenti
produttivi, investimenti impossibilitati allo Stato per via
del “debito
pubblico” o dei “vincoli europei” (qui,
quo
e qua per
rendersi
conto di cosa parliamo, ma ancora qui).
Ci troviamo di fronte però
ad un paradosso zenoniano, stranamente poco rilevato da chi
vorrebbe opporsi al governo Renzi. Secondo tutti gli analisti
economici, l’unico
modo per far ripartire la domanda e dunque l’occupazione è
quello di far ripartire gli investimenti. Leggi tutto
Lo scopo di questo articolo è
principalmente quello di mettere in discussione alcuni luoghi
comuni concettuali, molto presenti nel dibattito sullo Stato
Islamico (che, d’ora
in poi, nomineremo Isis – Islamic State of Iraq and Syria,
perché con questo sigla è più conosciuto, sebbene la
stessa sigla inglese più corretta, da più di un anno, sarebbe
semplicemente Is – Islamic State) in particolare in
riferimento al rapporto tra l’Isis e l’Islam e a una corretta
valutazione della natura storica e della forza geopolitica
dell’Isis.
1. L’Islam non è l’Isis. Questa affermazione non si fonda solo sulla, pur rilevante, constatazione empirica che solo una minoranza degli islamici aderisce alla versione wahabita-salafita dell’Islam e una ancora più minuscola minoranza degli islamici riconosce Al Baghdadi quale legittimo Califfo. Ci sono almeno tre fondamenti rilevanti e che non possono essere ignorati:
A) La corrente wahabita-salafita è molto recente nella storia islamica. Il wahabismo-salafismo si propone quale ipotesi di “riforma” dell’Islam nel senso di una sua “purificazione”, in primo luogo dagli influssi occidentali, ma in generale da tutte le strutture ermeneutiche che pure hanno una lunga tradizione nella civiltà islamica. Il punto più rilevante della teologia wahabita-salafita è la centralità della concezione (presente anche in molte altri correnti dell’Islam) secondo cui il Corano sarebbe “increato”, ovvero non sarebbe stato creato da Allah, ma sarebbe co-originario ad Allah stesso. Assegnare a questa concezione una assoluta e radicale centralità ha condotto e conduce a condannare qualsiasi attività ermeneutico-interpretativa. Naturalmente l’operazione ha una valenza ideologica, poiché nei fatti i wahabiti-salafiti propongono una precisa interpretazione del Corano e della tradizione islamica, che tuttavia presentano come non questionabile, in virtù della suddetta non interpretabilità del Corano.
Leggi tuttoQuest’anno corre il bicentenario del congresso di Vienna, in occasione del quale le grandi potenze europee riconobbero la neutralità perpetua della Svizzera. Occorre approfondire gli avvenimenti che hanno marcato la neutralità elvetica non solo per capire cosa essa sia – contrastando l’utilizzo strumentale della storia nazionale messo in atto dai partiti conservatori – ma anche per riflettere sulle sue prospettive future. Nel contesto attuale di cambiamento negli equilibri geopolitici internazionali, la Svizzera potrebbe infatti approfittare del suo status di paese neutrale per giocare un ruolo centrale nello sviluppo di rapporti paritari tra l’Occidente e le potenze emergenti
Le
origini della neutralità: il mito di Marignano e il
congresso di Vienna
I partiti conservatori – e in particolare l’UDC – ricorrono regolarmente al mito del Sonderfall elvetico1 per ottenere consensi tra la popolazione e per giustificare le loro proposte in materia di politica interna ed estera. Per contrastare questa tendenza e per smascherare la debolezza degli argomenti della destra, è fondamentale che i partiti di sinistra cambino la loro attitudine nei confronti della storia nazionale e comincino ad approfondirla. Diversi esempi concreti posso essere presi in considerazione, tra cui quello della neutralità.
Questa primavera, la pubblicazione di un’opera dello storico Thomas Maissen, nella quale vengono smantellati i principali miti della storia svizzera2, ha dato luogo ad un acceso dibattito tra politici conservatori – incluso Christoph Blocher – ed esperti del tema. Questa discussione ha permesso di mettere in evidenza la fragilità della posizioni dell’UDC sulla storia nazionale3. In particolare, ci si è scontrati sulla questione delle origini della neutralità elvetica, che i miti popolari fanno rimontare alla battaglia di Marignano del 15154 ma che, concretamente, diviene realtà solo con la pace di Parigi, stipulata nel 1815 nel quadro del congresso di Vienna5.
Dalla fine del XIX secolo e per quasi un secolo, gli storici hanno applicato una lettura a posteriori della neutralità svizzera, facendo risalire la tradizione della neutralità alla battaglia di Marignano per giustificare la politica di forte isolamento promossa dalle autorità elvetiche. Leggi tutto
Che l’etica non sia di casa sui mercati finanziari è una verità vecchia come il mondo. Ma è sempre bene ricordarlo, soprattutto per capire quanto è successo dopo gli attacchi terroristici a Parigi dello scorso venerdì 13 – l’ “11 settembre d’Europa” – dove hanno perso la vita 132 persone. Cos’è successo? Niente. Per essere più precisi: la reazione dei mercati finanziari ai tragici eventi parigini è stata più che positiva. Un lieve calo in apertura dei mercati, lunedì, ma dopo mezz’ora la Borsa di Parigi è passata subito in terreno positivo.
Perlomeno, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, a Wall Street ci volle un mese per recuperare una perdita immediata dell’11%, e un mese di recupero fu necessario alla Borsa di Giacarta dopo l’espolosione di una bomba a Bali che fece 200 morti.
Lo stesso per Madrid e Londra, dove le bombe fecero anch’esse 200 morti. Ma dopo Parigi, spiazzando anche i più cinici analisti, le borse hanno continuato imperterrite a macinare guadagni.
Qualcuno ha parlato di “rally patriottico”, di trionfo della solidarietà tricolore. Sbagliato, se è vero che le due compagnie francesi che avrebbero avuto bisogno di maggior solidarietà, cioè l’Aéroport di Parigi e la Air France-KLM, sono quelle che hanno perso di più.
E infatti, come da manuale, i mercati hanno previsto una riduzione del turismo aereo, tanto che il gruppo alberghiero Accor ha anch’esso sofferto. Ma per il resto, in particolare nei comparti della difesa e dell’energia, le cose stanno andando benone. Leggi tutto
I dati di ottobre. L’occupazione cresce tra gli ultra cinquantenni costretti ad andare in pensione più tardi dal governo Monti: +900 mila persone in tre anni. La riforma di Renzi trasforma solo i vecchi contratti nei nuovi rapporti di lavoro a termine. i lavoratori anziani lavorano, i giovani sono disoccupati. La crisi del lavoro indipendente e di quello autonomo
L’aumento dell’occupazione è merito della legge Fornero sulle pensioni. Altro che Jobs Act. Questo è il bilancio dei dati di ottobre comunicati ieri dall’Istat. Si svela un altro dettaglio della crisi italiana: i più colpiti sono i lavoratori autonomi e i giovani lavoratori venti-trentenni, anche loro freelance o precari in generale. Il mercato italiano del lavoro è l’immagine di una frattura generazionale, fondata sulle diseguaglianze: i lavoratori anziani lavorano, i giovani sono disoccupati. O precarissimi. Ma tale frattura è il risultato di un orientamento consolidato in tutte le politiche del lavoro renziane: prima vengono i dipendenti, poi le altre forme del lavoro, quelle indipendenti.
I dati Istat confermano: dopo la crescita occupazionale registrata tra giugno e agosto (+0,5%) e il calo di settembre (-0,2%), a ottobre la stima degli occupati è diminuita ancora dello 0,2% (-39 mila). «Il calo è determinato dagli indipendenti (-44mila, pari al –0,8%), tra cui rientrano i lavoratori autonomi– si legge nel report — mentre i dipendenti restano sostanzialmente invariati». A ottobre sono diminuiti i disoccupati (-13mila). Ma questo non significa che sono stati creati posti di lavoro. Sono, invece, aumentati gli inattivi (+32mila). Sull’anno sono 196 mila in più coloro che non lavorano né cercano un posto. Un fallimento. Leggi tutto
Il 30 novembre è cominciata la Conferenza sul clima di Parigi (Cop21) che vede riuniti i rappresentanti di 190 paesi e 150 capi di Stato. “Il mondo deve prendere atto che il Vertice di Parigi – aveva detto la Pontificia Accademia delle Scienze in aprile – potrebbe essere l’ultima vera opportunità per giungere a un accordo che mantenga il riscaldamento globale di origine antropica al di sotto di 2 gradi centigradi, a fronte di una traiettoria attuale che porterebbe a un aumento devastante di 4 o più gradi centigradi”. Una presa di posizione rafforzata dalle parole di papa Francesco giorni fa alle Nazioni unite per l’Ambiente a Nairobi (Kenya): ”Sarebbe triste e oserei dire perfino catastrofico che gli interessi privati prevalessero sul bene comune.”
Il primo obiettivo di Parigi è cancellare il vertice di Copenaghen (2009) che si concluse in un fiasco clamoroso. I vertici che ne seguirono, Cancun, Durban, Doha, Varsavia, Lima sono finiti in un nulla di fatto. E così siamo giunti sull’orlo del precipizio. “Le previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e ironia – dice papa Francesco in Laudato Si’ (leggi anche il commento di Paolo Cacciari sull’enciclica, Il Cantico che non c’era, ndr) – Potremmo lasciare alle prossime generazioni troppe macerie, deserti, sporcizia. Il ritmo di consumo, di spreco, di alterazione dell’ambiente ha superato la possibilità del Pianeta in maniera che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi”. I dati scientifici sono categorici.
Lo ha fatto in modo perentorio l’Agenzia Onu per i cambiamenti climatici (Ipcc) nel novembre 2014 a Copenaghen. Gli scienziati dell’Ipcc affermano: primo, il riscaldamento globale esiste ed è causato dall’uomo; secondo, gli effetti sono già visibili con lo scioglimento dei ghiacciai ed eventi meteo estremi; terzo, il peggio deve arrivare perché le emissioni globali invece che diminuire, sono aumentate.
Leggi tuttoIn Europa, dopo gli attentati a Parigi, spira un fortissimo vento di “stato di eccezione”, di regime giustizialista.
L’Europa sta varando il suo “patriot act“. L’Italia, con la recentissima proposta del ministro Orlando, fa la sua parte incostituzionale.Viene varato un regime di drastici limiti a libertà e diritti.
Detenzioni e limitazioni di libertà vengono decise dai poteri militari senza controllo giurisdizionale.
La Francia inserisce addirittura tale pratica in Costituzione. La scissione tra capitale e democrazia diventa completa.
I popoli europei diventano popoli di sospettati. Sappiamo dalla storia come va a finire: i “regimi d’eccezione”, che dovrebbero durare pochi mesi, diventano ordinario dirittto emergenziale.
Ma anche prima degli attentati di Parigi una prassi inquietante si faceva strada in Europa: la strada della sanzione amministrativa parallela allo strumento penale.
Una strada tesa, con ipocrisia, a spazzare via il diritto di resistenza dei movimenti conflittuali.
In Spagna è stata varata la “ley mordaza” (la legge “mordacchia”); la potestà sanzionatoria è affidata al Ministero dell’ Interno e commina sanzioni di molte migliaia di euro, anche solo per picchetti antisciopero,antisfratto,ecc...
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Dopo anni di ricerca ai margini dell’industria culturale e in piena egemonia neoliberale, «Una storia del marxismo» è l’importante iniziativa editoriale in tre volumi della Carocci. Pubblichiamo un brano dell’introduzione del curatore
L’impatto
che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo
è stato così forte da non poter essere
paragonato a quello di nessun altro pensatore. Solo
i fondatori delle grandi religioni hanno lasciato alla storia
del mondo una
eredità più grande, influente e persistente di quella che si
deve al pensatore di Treviri. Ma per capire che tipo di
influenza ha
avuto la figura di Marx sulla storia del suo tempo e di quello
successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto che concorre
con altri
a determinarne la singolarità: l’attività di Marx si
è caratterizzata per il fatto che Marx è stato
al tempo stesso un pensatore e un organizzatore/leader
politico, e di statura straordinaria in entrambi i campi.
Notevolissima
è stata la ricaduta che le sue teorie hanno avuto sul pensiero
sociale, filosofico e storico, ma ancor più grande, anche se
non immediato, è stato l’impatto che la sua attività di
dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito
Comunista
alla fondazione della Prima Internazionale) ha lasciato alla
storia successiva.
Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione politica, attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione politica dall’attività di Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i partiti socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una parte non trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata. Leggi tutto
1. Tutti coloro che sono in grado di
ragionare
su una minima conoscenza dei fatti, rimangono sconcertati
della "spiegazione" che, specialmente nelle estenuanti e
sussiegose cronache televisive,
è stata data relativamente alla forte affermazione del Front
National alle ultime elezioni regionali in Francia.
Al primo impatto, infatti, ci è stato ossessivamente detto che l'ondata terroristica avrebbe favorito un partito xenofobo e che coltiva i più bassi istinti anti-immigrati (musulmani e non), oltreche pericoloso, per la democrazia, perchè di "estrema destra". Con punte di incomprensione che risultano logicamente paradossali e ostinatamente irreali.
E' pur vero che, poi, dai più alti vertici si è poi aggiustato il tiro, mettendo l'accento sulle politiche imposte dall'UE come principale alleato della Le Pen; ma questo aggiustamento è stato fatto rivendicando le riforme effettuate in Italia come "giuste" e contrapponibili alla linea dettata dalle istituzioni europee.
Il che appare obiettivamente contraddittorio, visto che sono state proprio queste riforme a giustificare la "flessibilità" concessa in sede di applicazione del fiscal compact all'Italia e, dunque, in quanto sono state ritenute particolarmente conformi alle linee di politica economica e del lavoro propugnate dal paradigma dell'eurozona (in cui, appunto, le politiche economico-fiscali sono rigidamente dettate dall'obiettivo del pareggio di bilancio e dalle relative eccezioni discrezionalmente ravvisate dalla Commissione).
2. Il che ci porta a dire che se probabilmente è vero che, rispetto al fenomeno MLP-Front National, in Italia, non si possono nutrire equivalenti "preoccupazioni", ciò, certamente, non è dovuto al fatto che qui da noi non si seguano le politiche rese inevitabili dalla volontà di conservare la moneta unica (in Francia, peraltro, le si è seguite molto meno); ma a ben altre ragioni.
Leggi tuttoGli
stimoli, le critiche e le riflessioni filosofiche di Günther
Anders1
(1902-1992) sulla natura contingente dell’uomo, sulla perdita
dell’esperienza, sulla società
tecnologica e consumistica contemporanea, espresse in un
insolito stile a metà tra la riflessione teoretica e la
rappresentazione letteraria,
hanno avuto una discreta ricezione del nostro paese, seppure
in modo parziale, in fasi alterne e da punti di vista e
approcci differenti.
La prima fase è quella degli anni ’60, quando con le due opere tradotte in italiano da Renato Solmi per l’editore Einaudi, Essere o non essere nel 1961 – il diario di viaggio in un Giappone devastato dalla guerra atomica –, e La coscienza al bando nel 1962 – ossia il carteggio con il pilota Claude Eatherly corresponsabile dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima –, Anders si afferma in Italia2 e a livello internazionale come icona teorica del movimento pacifista e antinucleare3.
Poco dopo la sua pubblicazione, Essere o non essere viene recensito sulla rivista Tempo presente da Nicola Chiaromonte, il quale, oltre a delle «pagine efficaci»4, ne rileva alcune in cui Anders verrebbe meno all’impegno – da lui stesso professato –, di voler ubbidire al precetto «non ti farai nessuna immagine»5, ossia di voler lottare «contro tutti gli “assoluti” fabbricati dall’uomo». Infatti nel tentativo di contrastare la possibilità che da un momento all’altro il mondo intero si trasformarmi in una seconda Hiroshima, per Chiaromonte è evidente il ricorso di Anders ad alcune «immagini concettuali», sulla cui efficacia si dimostra dubbioso: «si vorrebbe chiedere a Günther Anders se è proprio sicuro che fare appello a immagini come la bomba atomica, l’annientamento dell’umanità, la distruzione della Terra […], non sia invitare i contemporanei a distrarsi con immagini sensazionali piuttosto che fare attenzione e a riflettere»6, ossia se «predicare» l’Apocalisse non significhi nient’altro che eccitare l’uomo medio contemporaneo attraverso il «sensazionale», dunque «invitarlo a guardare se stesso al cinematografo anziché in realtà»7. Leggi tutto
C'è un aspetto che va sottolineato nella recente vittoria del Front National alle regionali francesi. Spesso le forze di governo e l’establishment tradizionale in occasione di gravi attentati o di minacce esterne riescono a trovare motivo di stabilizzazione. Così non è avvenuto in Francia. La accentuazione della tendenza alla guerra non ha giovato a Hollande, né, dopo gli attentati di Parigi, sembra essersi realizzata alcuna union sacré, che giovasse al partito di governo. Si accentua invece, con la vittoria della Le Pen, il fenomeno, centrale in questa fase storica, del declino dei partiti tradizionali e della fine o almeno della forte incrinatura del bipolarismo come sistema di funzionamento delle democrazie europee. Alla radice dell’emersione delle “terze forze” c’è la riorganizzazione complessiva della produzione capitalistica in Europa, di cui l'integrazione economica e soprattutto valutaria europea è la leva principale.
Il patto sociale keynesiano tra capitale e lavoro salariato, stabilitosi dopo la Seconda guerra mondiale e messo in discussione a partire dagli anni ’80 con l’offensiva neoliberista, è andato definitivamente in frantumi mediante l’introduzione dell’euro e l’applicazione dei vincoli europei. Centro-destra e centro-sinistra in tutta Europa hanno portato avanti le stesse politiche di indirizzo europeo, fondate sull'austerity e sul controllo del bilancio pubblico e imposte mediante l'architettura dell'euro. I partiti o sono l'espressione di istanze neo-liberiste solo superficialmente diversificate o di posizioni ingenue che pensano che il problema stia nella corruzione o nell'inefficienza della politica invece che nei rapporti di produzione. Leggi tutto
A giugno di quest’anno in Francia veniva approvata la “loi sur le renseignement” una criticissima legge che dà il via libera alla sorveglianza di massa. Tutto questo appena a due anni di distanza dallo scandalo NSA, quando Edward Snowden raccontava come la National Security Agency portasse avanti un piano riguardante la sorveglianza di massa di paesi stranieri. Eppure, nonostante né il primo né il secondo abbiano portato un minimo beneficio o risultato, a poche ore dall’attacco di Parigi era proprio la “sicurezza” il tema di cui si è più dibattuto.
Ne parliamo con lo storico collettivo di Av.A.Na BBS.
***
Perché nonostante i risultati scarsissimi in misura di prevenzione continuano a essere promosse, con il consenso di una opinione pubblica spaventata, leggi che fanno aumentare il controllo indiscriminato? Non è particolare il fatto che nonostante i cable di wikileaks, nonostante la denuncia di Snowden, i governi continuino a spingere per una maggiore sorveglianza?
Si possono fare varie ipotesi a riguardo, che non si escludono tra loro. Le rivelazioni di Snowden, così come i cable di wikileaks, non hanno fermato la sorveglianza di massa, ma la hanno temporaneamente delegittimata.
Le recenti vicende hanno messo in luce la necessità di individuare un nemico interno sempre più invisibile. Questo fa sì che sia “necessaria” una sorveglianza al contempo di massa e granulare: non ci sono grandi organizzazioni da controllare ma lupi solitari da individuare. Leggi tutto
Da anni si parla della Francia come il vero malato d'Europa. Si metteva in luce la crisi del suo modello sociale davanti a una crisi cui l'Unione Europea aveva risposto in modo totalmente diverso dalle abitudini specificamente francesi: austerità, taglio della spesa e divieto di investimenti pubblici. I governi transalpini – sia quello di Sarkozy che a maggior ragione quello dell'evanescente Hollande – si erano adeguati malvolentieri ma rapidamente, accontentandosi di contrattare per la Francia eccezioni non concesse ad altri paesi, come il sistematico sforamento del deficit al di sopra del 3% delle regole di Maastricht o la difesa arcigna dei “campioni industriali nazionali”.
Ma mese dopo mese si era fatta comunque strada la logica per cui bisognava aumentare la competitività riducendo salari e prestazioni del welfare. Una tragedia annunciata, per l'ultimo stato “socialista” europeo.
Diciamo “socialista” nel senso bastardo che questo termine ha assunto nel dibattito contemporaneo, ovvero un sistema economico-sociale con al centro lo Stato, i suoi investimenti, le sue regole e il suo controllo sociale (nel bene e nel male, ovviamente). Appena appena keynesiano, insomma, attento a inclusione e integrazione, alla coesione. Uno Stato capace di progettare lo sviluppo del paese, orientando il sistema bancario e quello delle imprese per raggiungere obiettivi politico-sociali decisi dalla “politica”. Termine che a sua volta è sentito in Francia molto diversamente che qui da noi, perché “i politici” d'Oltralpe sono frutto – tutti, di qualsiasi schieramento – di una formazione univoca presso l'Ena (l'istituto di alti studi in scienze dell'amministrazione), non avventurieri presi per caso da un talk show o da un telequiz.
Leggi tuttoDue fatti
rilevanti hanno caratterizzato le ultime due settimane. Due
fatti apparentemente distanti e decisamente di
diverso spessore, ma accomunati, nella loro diversità, dalla
stessa logica di potere e di dominio.
Nel CdM del 22 novembre, il governo del premier Renzi e della ministra Boschi ha dato il via libera al decreto, denominato “Disposizioni urgenti per il settore creditizio”, con l’unico scopo di salverà quattro istituti di credito già posti in amministrazione straordinaria: Cassa di risparmio di Ferrara, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio (il cui direttore era il padre della ministra Boschi), Banca delle Marche e Cassa di Risparmio della provincia di Chieti (cd. Decreto “Salvabanche”).
CariFerrara era stata la prima a essere commissariata, nel maggio 2013, dopo aver perso poco meno di 105 milioni di euro. Poi è stato il turno di Banca Marche, il cui commissariamento è arrivato ad agosto dello stesso anno, dopo due bilanci che hanno registrato perdite per 232 e 526 milioni di euro. Ma è con il fallimento di Banca Etruria e CariChieti (commissariate nel 2015 per “gravi perdite di patrimonio”) che si decide di intervenire a salvaguardia degli interessi del credito (e della famiglia Boschi?). Secondo gli analisti, il costo dell’operazione è pari a circa 730 milioni di euro e sarà a carico degli azionisti e dei possessori di obbligazioni subordinate delle quattro banche, cioè dei risparmiatori: coloro che avevano incautamente acquistato i titoli emessi dall’ente creditizio, consapevoli o meno che a fronte di rendimenti maggiori non avrebbero avuto alcuna tutela in caso di fallimento dell’istituto, essendone il rimborso subordinato a quello dei creditori ordinari (da qui la dizione di “obbligazioni subordinate”, a maggior intensità di rischio). Leggi tutto
«Homo sum, humani nihil a me alienum puto»1
Il «minimo
sindacale» e... il resto
Difficile, in queste ore, sfuggire alle banalità e alle petizioni di principio. Molte cose, dal giorno degli attentati di Parigi del 13 novembre, sono state dette e scritte. Per fortuna non sono mancati coloro che, con parole forti, sisono sollevati contro l'asfissiante cantilena del clash of civilisations. E non solo fra i «radicali». Con buona pace tanto di Hollande che di Al-Baghdādī, nessuno scontro fra civiltà eterogenee e irriducibili l'una all'altra è in corso, ma nient'altro che uno scontro intestino, che mostra una volta di più la plasticità di un modo di produzione – quello capitalistico – che sebbene trovi nella democrazia parlamentare la sua traduzione politica più adeguata, è capace di adagiarsi, almeno in via contingente, su quasi tutte le forme di governo, di organizzazione politica e di ideologia, masticando, digerendo e rimettendo in circolazione ogni tipo di materiale o sedimentazione storico-sociali. La brutalità dello Stato Islamico (Daesh) è il segreto il Pulcinella di tutte le avanguardie della nostra «grandiosa, non commestibile civiltà» (Bordiga), di cui esso mette in spettacolo un buon compendio fatto di scheletri nell'armadio: fa cadere le teste sulla pubblica piazza come il Terrore giacobino del 1794; distrugge monumenti storico-artistici come la Gran Bretagna, nel febbraio 1945, devastò Dresda2, capitale del barocco mitteleuropeo; cerca di piegare nemici e detrattori colpendo sul loro suolo patrio la popolazione civile (gli esempi analoghi sarebbero infiniti, ma per farne uno poco citato, si pensi ai numerosi attentati realizzati dall'Irgun Zvai Leumi3). Leggi tutto
Un anno fa prevedevi
l’apertura di uno
scenario di guerra. Ora la guerra sembra una realtà, per
quanto dai confini incerti e sfuggenti, in cui anche la
metropoli diventa fronte
bellico. Come si riconfigura o si sta riconfigurando la
guerra, anche rispetto alle analisi sull’impero degli ultimi
15 anni?
Vorrei innanzitutto dire che, a mio modo di vedere, assistiamo oggi alla dissoluzione di quello che è l’impero, così come era stato descritto nel 2000 da Michael Hardt e Toni Negri, come superamento dell’imperialismo legato a una modalità di accumulazione di capitale che (nel corso degli ultimi trent’anni) aveva oltrepassato la dialettica tra centro e periferia. Aveva esteso le periferie al centro e il centro alle periferie, sotto un comando articolato e gerarchizzato che faceva perno sui mercati finanziari e gli interessi delle grandi multinazionali su scala planetaria. A me sembra di aver intravisto negli ultimi mesi alcuni primi segnali di superamento di questa forma-impero, come esito del completamento della crisi economico finanziaria iniziata negli Stati Uniti nel 2007/2008, della una sua estensione ai paesi emergenti. Parlo in particolare della Cina ma anche dei Brics, con riferimento agli smottamenti borsistici valutari nel corso del mese di agosto scorso. Quindi, un primo ipotetico tentativo di rispondere alla domanda sul come si sta riconfigurando la guerra, deve tener presente uno scenario di dissoluzione dell’impero.
Già da tempo abbiamo compreso, all’interno del pensiero critico e militante, quanto sia importante l’analisi geopolitica dei fenomeni sui quali cerchiamo di far leva per definire le nostre forme di lotta, di mobilitazione e di soggettività.
Leggi tuttoL’iniziativa turca di abbattere il SU-24 russo si sta rivelando un clamoroso errore strategico. Alla coalizione NATO, ad un passo dall’essere estromessa dalla Siria, resta solo un’onorevole accordo con Hassad
I fatti sono noti, l’abbattimento del Sukhoi 24 avvenuto il 23 Novembre non è stato un episodio sfuggito di mano ma il segnale di apertura di una crisi profonda e gravissima lucidamente cercata. Che sia stato un tentativo di Erdogan di tirare in ballo la NATO per sostenere le sue ambizioni sulla parte di Siria confinante con la Turchia o che sia stato un atto concordato con gli USA, a questo punto conta poco. Di fatto la NATO non ha deluso le aspettative di Erdogan e seppur in modo lento e graduale si sta schierando sul teatro siriano senza coordinarsi con l’azione russa e quindi in antagonismo con essa.
L’azione dei Tornado britannici e dei Rafale francesi hanno costituito poco più che un’interferenza nell’attività russa, gli obiettivi restano diversi, come segnalato dal giornalista siriano Naman Tarcha, gli aerei francesi nei primi raid conseguenti alla strage di Parigi bombardando la città di Raqqua hanno colpito una centrale elettrica danneggiando prevalentemente la popolazione civile: Leggi tutto
Non si può reagire che con orrore alla follia omicida degli attentati jihadisti a Parigi. Sono una “rappresaglia” ai bombardamenti francesi in Siria? O una punizione inflitta alla Francia “immorale e miscredente”? Se ne potrà discutere all’infinito, ma l’essenziale è altrove.
Questi massacri otterranno il risultato politico di rafforzare l’estrema destra razzista e islamofoba; aggraveranno la situazione della popolazione musulmana in Francia, che nella sua stragrande maggioranza non ha alcuna affinità con il jihadismo; renderanno più difficile la necessaria accoglienza ai rifugiati, segnatamente quelli di Siria.
Ci si può chiedere se non sia proprio questo l’obiettivo a cui tendono i committenti del crimine: creare le condizioni per una “guerra di civiltà” tra un’ Europa razzista e un Islam jihadista. La sola bussola che può guidarci in questo momento è il rifiuto di cadere in questa trappola mantenendo la rotta dell’antirazzismo e della solidarietà con i rifugiati.
È importante anche rigettare ogni appello all’ “Union Nationale” intorno al governo. I nemici dei nostri nemici (jihadisti) non sono nostri amici.
L’altra trappola da evitare è quella di lanciarsi in grandi dibattiti per o contro il Corano, di comparare le diverse religioni per scegliere la migliore o, al contrario, lanciare una grande offensiva laica contro i credo religiosi. Leggi tutto
Giovedì scorso, per la 29° volta il Parlamento in seduta comune non è riuscito ad eleggere i tre giudici costituzionali di quota parlamentare. Lentamente ci stiamo abituando a qualcosa di assolutamente patologico. E’ la nuova normalità: non funziona un accidenti.
Per legge la Corte funziona con un numero legale minimo di 11, ed attualmente è a quota 12, cioè, se un giudice costituzionale in carica si ammala o decade, la Corte è paralizzata sino a quando non si procede alla nomina del suo sostituto. Vi pare normale? Peraltro, il Costituente ha formato la Consulta su un delicato equilibrio fra potere legislativo e potere giudiziario mediati da cinque giudici di nomina del Presidente, potere “neutro”, mentre l’attuale composizione è totalmente scompensata a favore del giudiziario perché la componente parlamentare è più che dimezzata. Vi pare normale?
Il Presidente della Repubblica, di tanto in tanto fa un educato colpetto di tosse e si dice “preoccupato”, dopo di che il Parlamento fa finta di niente e continua come prima. Vi pare normale?
Il punto è che siamo al collasso del sistema costituzionale: puramente e semplicemente. E il punto di arrivo di un processo di decostituzionalizzazione dell’ordinamento iniziato fra il 1992 ed il 1993 con il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella che ha dato la picconata decisiva all’edificio costituzionale, il resto è venuto di conseguenza. Leggi tutto
Nel contesto ingravescente delle tensioni internazionali nel Mediterraneo orientale, la Turchia è di fatto, agli occhi dei Russi, uno Stato canaglia -e forse, se dobbiamo dar retta a certe analisi non di parte, lo è davvero. Se la Russia dovesse seguire l’American way of life a noi sì caro, dovrebbe attivare contro Ankara il crescendo di sanzioni, blocco navale, bombardamento a tappeto/guerra guerreggiata che tutti ben conosciamo e che ai coraggiosi avventurieri xenofobi di tanta politica nostrana piace caldeggiare, quando fa al caso nostro. Ma la Turchia è nella Nato, fa pressioni per entrare nell’Unione Europea, che le offrirà, dice, tre miliardi di euro di aiuti, salvo poi dividersi su chi deve sborsare quanto.
Per ora l’Unione Europea, ovvero la Germania, ha di fatto già ingaggiato sottobanco la Russia nello strisciante ed equivoco conflitto ucraino, senza che le rispettive pedine superassero lo stallo o si uscisse dal gioco di proclami e contro-proclami. Al momento siamo nella tipica situazione che precede una guerra guerreggiata su larga scala e che pertanto potrebbe degenerare nel giro di poco tempo (al massimo i due anni che intercorsero fra l’attentato al WTC e lo scoppio della seconda guerra del Golfo).
Ciò potrebbe avvenire secondo modalità imprevedibili, la più immediata delle quali è il riproporsi in Turchia della situazione ucraina, o peggio della situazione siriana (con Erdogan nel ruolo di Assad), in base alla sequenza: basi militari russe in Siria – sponsorizzazione russa di Assad in Siria e contraddittoria sponsorizzazione russa dei Curdi in Turchia -proclami mediatici putiniani- guerra civile in Turchia -estensione dell’area di conflitto etnico-religioso in piena NATO, con esiti imprevedibili di confronto diretto, previa la potenziale costruzione, mediatica e/o operativa, di un artificiale casus belli per irresponsabile scelta di una delle due parti (più verosimilmente, mi duole dirlo, il Pentagono che il Cremlino), dopo una serie di paralizzanti veti e contro-veti in seno al consiglio di sicurezza ONU. Leggi tutto
Mi imbatto,
sul «Corriere della Sera» del 15 novembre 2015, in un articolo
firmato da tal Claudio Magris, da
non confondere, immagino, con l’omonimo noto scrittore e
saggista, padre nobel delle nostre lettere – in spasmodica
attesa di
un’imminente benedizione planetaria.
L’articolo fa il punto della situazione dopo le stragi terroristiche di Parigi, e ci indica la strada da seguire. Nel leggerlo si prova la vertiginosa sensazione di trovarsi di fronte all’ennesima testimonianza di una triste parabola: quella dell’odierno sedicente “intellettuale” che ha deciso di abdicare completamente a se stesso, inglobando in modo furbescamente ingenuo il punto di vista del cosiddetto “uomo della strada”. Uomo della strada che a sua volta crede di possedere un proprio personale punto di vista, senza neanche sospettare che le sue idee sono invece in gran parte sapientemente manipolate e indotte dall’incessante propaganda mediatica cui è sottoposto. Il risultato di questa duplice mistificazione è che l’intellettuale si trasforma in cassa di risonanza di frasi fatte e pseudo-concetti cari a chi guida le nostre società. Ecco che allora pigrizia intellettuale, accettazione dell’esistente, tendenza alla banalizzazione – laddove invece ci sarebbe da affinare al massimo gli strumenti di analisi – e semplificazione capziosa vanno a formare la deprimente rosa dei venti di quella che un brillante saggista del primo Ottocento ebbe a definire «ignoranza delle persone colte».
Ma torniamo all’articolo dell’omonimo di Magris. L’idolo polemico sembrerebbe il fanatismo islamico dell’Isis, ma a ben guardare c’è dell’altro. Lo si capisce dalla confezione giornalistica del pezzo. Il titolo recita infatti: «Quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista». Leggi tutto
Romanzo celebre anche
perché Mira Nair ne ha tratto un film che ha riscosso un
discreto successo, Il fondamentalista
riluttante di Mohsin Hamid (Einaudi, Torino 2007)
rievoca in flashback, e per bocca del protagonista, la vicenda
di un giovane pakistano di
buona ma ormai impoverita famiglia che, laureatosi a
Princeton, diventa un valido analista finanziario presso
un’influente società di
consulenza newyorkese, per poi cambiare totalmente vita dopo
l’Undici Settembre 2001. In particolare, dopo l’incontro, in
Cile, con un
uomo che gli parla degli antichi giannizzeri,
descrivendoglieli non solo come ragazzi o bambini di fede
cristiana «catturati dagli ottomani e
addestrati per essere soldati in un esercito musulmano, a quel
tempo il più potente esercito del mondo», ma anche al pari di
individui
che, appena divenuti adulti, si rivelano «feroci ed
estremamente leali», giacché essi «avevano lottato per
cancellare dentro
di sé la propria cultura, perciò non avevano più nient’altro a
cui rivolgersi».
Così – mentre gli Stati Uniti, pretendendo in tal maniera di combattere il terrorismo internazionale di matrice islamica, entrano con le armi in Afghanistan e alimentano la tensione tra India e Pakistan, che quindi vengono d’un tratto a trovarsi sull’orlo del conflitto atomico –, il protagonista del libro di Hamid giunge infine a confessare a se stesso la verità d’improvviso scoperta: «ero un moderno giannizzero, un servitore dell’impero americano in un momento in cui stava invadendo un Paese consanguineo al mio, e forse stava addirittura complottando perché anche il mio si trovasse di fronte alla minaccia della guerra». Leggi tutto
Domanda: Una
caratteristica centrale del Gruppo Krisis, è il suo
approccio della critica del valore. Potreste
descrivermi succintamente che cosa significa per voi la
critica del valore, e in che cosa consiste la differenza
decisiva di quest'approccio rispetto
alle altre teorie tradizionali della sinistra? La "critica
della società della merce" è, come recita il sottotitolo
della rivista
Krisis, la stessa cosa che è la critica dell'economia
politica? Cosa significa "valore" e "socializzazione per
mezzo del valore?
Risposta: Che cos'è il valore, la sinistra lo sa per mezzo di mille corsi di formazione su "Il Capitale" - e tuttavia ancora non lo sa. Vale perciò la pena ricordare alcuni concetti fondamentali al fine di rendere intellegibile la nuova lettura della critica del valore. E' necessario tornare alle basi logiche della forma-merce. Dal momento che i membri di un sistema produttore di merci sono socializzati soltanto in forma indiretta (attraverso il mercato), essi non si relazionano attraverso una comprensione cosciente dell'utilizzo delle loro risorse comuni, ma soltanto attraverso il dispendio isolato di quantità di forza lavoro umana - che, socialmente allucinato, diventa "lavoro coagulato" (valore), e quindi viene trasformato in merci. Nella misura in cui le quantità di lavoro passato, fittiziamente contenute in queste merci, vengono messe in una determinata relazione di grandezza, esse appaiono come valori di scambio, la cui misura interviene solo a posteriori, attraverso la mediazione del mercato. Leggi tutto
Il meglio della rivoluzione bolivariana, nata dal fallimento sia economico che etico del modello neoliberale che le destre vogliono riportare in auge in tutto il Continente, è dietro le spalle. Il colpo di timone evocato da Hugo Chávez difficilmente potrà essere dato dal governo attuale, dalla burocrazia statale, chavista e antichavista insieme, unita nella ricerca del vantaggio personale, dallo stalinismo di un discorso antiquato e opportunista, che vede in ogni critico un traditore della patria. Tanto meno potrà essere dato dopo la sconfitta nelle elezioni parlamentari di ieri.
Se colpo di timone dovrà esserci, di qui alle elezioni presidenziali, o anche dopo, se queste dovessero premiare l’opposizione, dovrà essere dal basso e a sinistra, sapendo che il senso del chavismo, fare in parti uguali la mela del petrolio che cresce spontanea nel giardino dell’Eden che è il Venezuela, e che pure ha ridonato dignità a milioni di venezuelani, non è bastato e non basterà a dare stabilità a un modello di paese non escludente. Ieri come allora, la chiave di tutto è nel creare il potere popolare ma soprattutto nel creare lavoro degno e di massa, qualunque cosa ciò significhi nel XXI secolo e ammesso e non concesso che ciò non sia una mera utopia, in Venezuela come in qualunque parte del mondo. Se c’è una chiave comune, la partita, mi si permetta, dal Venezuela alla Francia alla Siria, è innanzitutto quella contro la sparizione del lavoro degno, come era stato concepito dal movimento operaio tra XIX e XX secolo, come motore del futuro per le generazioni oggi giovani e per quelle future. Sarà chi scioglierà il rebus del lavoro nel mondo post-industriale a conquistare le menti e i cuori delle masse nel XXI secolo. Leggi tutto
Fuori dalle geremiadi della sinistra sconfitta (meritatamente) in Francia, sarà utile cominciare a riflettere su quanto sta accadendo già da qualche anno.
La spiegazione la si trova subito, confrontando la catastrofe di Hollande con il successo contemporaneo di Jeremy Corbyn nel Regno Unito, in una elezione locale ma molto significativa, nella quale il suo candidato ha messo in fila, a grande distanza, i conservatori di Cameron e l’Ukip di Farage.
Due leader “di sinistra” — parrebbe — uno dei quali viene seppellito dal disgusto popolare e l’altro trionfa. La risposta è che il primo è “sotto” e il secondo è “sopra”.
“Sotto” vuol dire, in questo caso, “non credibile”, ma anche neo-liberista, bugiardo, guerrafondaio, antipopolare, europeo di una Europa che è sempre più lontana dal popolo, dai popoli europei, dalla solidarietà, dalla giustizia.
“Sopra” vuol dire sincero, contro la guerra, per una politica di giusta redistribuzione della ricchezza sociale, coraggioso, non succube del mainstream media, fautore dell’ indipendenza dagli Stati Uniti d’America.
La sconfitta di Hollande non è un merito preminente della destra, ma di Marine Le Pen. La destra europea, quella vera, si identifica con la grandi banche d’investimento, sovranazionali per definizione. La sinistra europea si è sdraiata sulla politica delle banche e, dunque, è coricata sul letto di morte a fianco di quella della destra. Leggi tutto
Prima di abbattere il Califfato ci sarà un’altra resa dei conti. Perché la stampa Usa e britannica, dopo gli articoli sul petrolio siriano di qualche giorno fa, non ne parla? Forse non è un caso: la produzione del Califfato non incide, si tratta di poche migliaia di barili acquistati dai turchi e da Assad.
Il petrolio è solo il tentativo di trovare un casus belli: la Russia vuole punire Erdogan anche militarmente e forse darà armi ai curdi siriani e del Pkk come fece in passato in nome del marxismo-leninismo. I nemici cambiano, le ideologie crollano ma le guerre restano con le loro spine nel fianco. I russi vogliono punire la Turchia e non solo per la Siria. Per un decennio il terrorismo ceceno ha avuto la sua direzione strategica nella Istanbul asiatica: per questo Putin accusa Ankara di uccidere i soldati russi. Siamo alla resa dei conti di una vicenda accantonata e che riaffiora in maniera prepotente: i reciproci scambi di accuse per qualche migliaio di barili appaiono ridicoli a confronto dei miliardi in ballo nei gasdotti del Mar Nero.
I giornali Usa danno poco spazio alla diatriba perché Washington vuole restare fuori da una guerra generata anche dai suoi errori, antichi e recenti. Obama è un’anatra zoppa e non può condurre conflitti allargati per non pregiudicare la possibile rielezione di un democratico. Al punto che il segretario di Stato John Kerry ha chiesto in una riunione all’Osce a Belgrado di inviare truppe di terra siriane e di altri Paesi arabi per combattere l’Isis. I bombardamenti per vincere l’Isis, dice Kerry, non bastano: ma se ne accorge adesso, dopo oltre un anno e mezzo di raid. Leggi tutto
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La riforma
dell’Università italiana, e il suo sottofinanziamento, hanno
accentuato l’egemonia del mainstream liberista e contribuito
al
proliferare di studi caratterizzati dall’espulsione di
qualunque elemento politico dal discorso economico e dalla
sostanziale irrilevanza
dell’oggetto di studio. Una galassia di teorie che spesso si
traducono in esercizi autoreferenziali o bizzarri, nella
convinzione che
l’Economia sia una scienza nell’accezione della Fisica
Teorica.
L’Economia è una disciplina che orienta le decisioni politiche e che, per questo tramite, influisce in modo significativo sulle nostre condizioni di vita e di lavoro. Chiedersi di cosa si occupano gli economisti, in Italia e non solo, non è dunque una domanda oziosa.
Il punto di partenza è dato dalla constatazione che questo non è un periodo particolarmente fecondo di nuove idee. È quello che Alessandro Roncaglia, nel suo testo La ricchezza delle idee, ha definito l’età della disgregazione. La ricerca in Economia, non solo in Italia, è sempre più frammentata e specialistica, e soprattutto sempre più ‘autistica’: gli economisti tendono a dialogare esclusivamente fra loro, spesso coprendo di sofisticati tecnicismi o montagne di matematica pure banalità, tautologie o, nella migliore delle ipotesi, teorie che non “spiegano” nulla, né hanno l’ambizione di farlo[1].
Leggi tuttoGià a partire dal 1968, chi avesse detto <sono comunista>, avrebbe detto qualcosa dal significato non chiaro, ma sì equivoco.
Voglio dire, restando nel confine di casa nostra, che il dichiarante avrebbe potuto essere, indifferentemente, un militante di Potere operaio o del Pc d’I, della Quarta Internazionale o di Lotta continua e così via; avrebbe potuto essere, dunque, portatore di analisi, lotte e prospettive sensibilmente diverse tra di loro ed anche opposte, per certi versi.
Gli anni successivi, fino a giungere allo sciagurato 1989 e seguenti, non hanno certo semplificato la situazione, al contrario: oggi più che mai dire <sono comunista> risulta dare un’informazione pressocché incomprensibile.
Un merito del libro di Holz è invertire questa tendenza e dare, invece, un preciso contributo al restituire un senso determinato al nostro asserto, <sono comunista>.
A tutta prima, l’operazione di Holz sembra un esempio del classico ‘uovo di Colombo’: comunista, egli dice, è chi si riconosce nell’intera storia del movimento comunista, appunto.
Leggi tuttoUn nuovo fantasma si aggira nel panorama economico: è lo spettro dell’economia dell’evento. Un settore che negli ultimi anni ha assunto dimensioni rilevanti, al punto tale che dall’essere fattore sporadico e occasionale o scadenzato da lunghi intervalli temporanei (come gli eventi sportivi), oggi ha assunto una linea di continuità temporale che da eccezione si è trasformata in norma.
L’«economia dell’evento» ha acquisito un ruolo centrale nei processi di valorizzazione del capitalismo attuale. In essa confluiscono produzione simbolica, marketing territoriale, economia della conoscenza, finanziarizzazione e speculazione del territorio e dello spazio. Sono questi gli ambiti che oggi sono in grado di produrre maggior valore aggiunto.
Metafora del presente
Si tratta di produzioni che permettono di sfruttare la cooperazione sociale, le esternalità positive e la vita delle persone: sono il paradigma dell’espropriazione non tanto dei beni comuni ma del «comune». Ed è proprio grazie alla generalizzazione del paradigma della condizione precaria come antico e nuovo architrave del rapporto di sfruttamento capitale-lavoro che ciò può realizzarsi. «Expo2015», come paradigma ell’economia dell’evento, diventa così la metafora più dirompente dei processi di accumulazione capitalistica di oggi. Leggi tutto
Zeroconsesus propone un pezzo di
assoluto interesse di Alberto
Negri per il Sole24Ore. L’analista illustra molto bene il
groviglio di interessi intercorrenti tra paesi
occidentali, petromonarchie del golfo
persico e gruppi jihadisti ed i veri interessi in gioco
nella crisi siriana: scontro tra sunniti e sciiti,
partecipazioni finanziarie, commercio
internazionale e sullo sfondo la crisi latente (ma non per
questo meno grave) tra Russia e USA
La geopolitica dell’oro nero è paradossale: ora sono in guerra potenze piene di petrolio che si vende in saldo sui mercati. Tutti i protagonisti principali del conflitto del Siraq sono grandi produttori. L’Iran, capofila del fronte sciita, l’Arabia Saudita, guida dei sunniti, gli Stati Uniti e la Russia. Teheran è alleata di Mosca – una repubblica islamica insieme alla superpotenza cristiano-ortodossa – gli Stati Uniti, simbolo delle libertà occidentali, sono da oltre 70 anni i grandi protettori delle monarchie del Golfo, stati ultra-conservatori e nel caso dei sauditi l’emblema di una versione dell’islam ancora più retrograda di quella sciita iraniana.
Di questi Paesi solo gli Stati Uniti sono una democrazia, gli altri sono governati da forme più o meno spinte di autoritarismo. Le petro-monarchie, poi, sono proprietà di una famiglia, dinastie assolutiste dove non si svolgono elezioni e che appaiono persino più anacronistiche del Califfato di Al Baghdadi.
Sono però clienti delle maggiori industrie belliche americane ed europee, azionisti delle nostre imprese e grandi investitori finanziari. Leggi tutto
Ci sono analisi settoriali che svelano molte più cose di profondità sistemica che non tante indagini di portata programmaticamente generale. E' questo il caso del libro di Walter Tocci, La scuola, le api e le formiche. Come salvare l'educazione dalle ossessioni normative, Donzelli 2015, che è' molto più di una tagliente analisi della scuola italiana nel nostro tempo. Senza forzare molto le cose si potrebbe dire che è una diagnosi della società italiana e al tempo stesso una spiegazione etiologica del suo conclamato declino attraverso le politiche della formazione. L'autore, infatti, prende in esame i tentativi di riforma degli ultimi anni, i suoi impatti sulla scuola, ma ha il grande merito di non rimanere dentro questo recinto, di scorgere le origini dei problemi in dinamiche più generali, sotto il cui influsso l'Italia indietreggia a grandi passi, chiudendosi in un processo di autoemarginazione di cui non si vede la fine.
La situazione della scuola italiana e il livello culturale dell'intero paese sono il risultato di processi economici e sociali molteplici, e al tempo stesso il frutto di scelte, di assecondamento, da parte delle classi dirigenti e del ceto politico, di convinzioni ideologiche dominanti. Si pensi alla diffusione del mito della società della conoscenza. «Dagli anni novanta - ricorda Tocci - si è diffusa una interpretazione rassicurante della modernità riflessiva, come processo auto-generativo della competenza sociale. Si suppone una capacità degli individui e delle istituzioni di cogliere nel cambiamento stesso i saperi necessari per il suo governo. Leggi tutto
La vittoria delle
destre golpiste in Venezuela è un problema che riguarda
soprattutto la sinistra latinoamericana, ma offre
diversi spunti di riflessione anche per ragionare sui limiti
della sinistra in quanto tale, per sinistra intendendo qui
ovviamente quella di classe e
non le propaggini liberiste oggi al potere in Italia e nel
resto d’Europa. Insomma il (grandioso) processo bolivariano
antimperialista soffriva
di limiti politici già evidenti prima della sconfitta
elettorale, dei limiti che niente hanno a che fare con le
critiche che le sinistre
“euroimperiali” muovevano ad esso, ma su cui pure toccherà
ragionare per il futuro e in vista della riconquista del
potere in
Venezuela. L’unica premessa a tale discorso è che noi, come
sinistra europea, niente possiamo insegnare a quella
latinoamericana oggi al
potere, e anzi avremmo dovuto in questi anni umilmente
prendere esempio di un processo popolare, partecipato e
di classe capace di
partire dalle masse diseredate delle periferie metropolitane e
dalle campagne contadine per giungere al governo e da lì
incrinare
l’egemonia imperialista nella regione. Se pure delle criticità
sono presenti e vanno giustamente evidenziate, quello che
invece non va
fatto è spiegare “come si fa” a una sinistra che in un
ventennio ha guidato un intero continente, nella sua veste
socialdemocratica
o più schiettamente socialista (ad eccezione della Colombia
terrorista).
La sinistra bolivariana è stata sconfitta elettoralmente, e proprio il dato elettorale rappresenta la principale contraddizione interna ad un processo rivoluzionario. Leggi tutto
«Il Front National
è il solo fronte davvero repubblicano, perché è il solo a
difendere la nazione e la sua
sovranità. È anche il solo fronte che potrà riconquistare
i territori perduti della République, a partire da Calais
o
dalle nostre banlieues».
Il primo commento di Marine Le Pen ai risultati delle elezioni regionali francesi del 6 dicembre 2015 è un capolavoro di chiarezza e di logica politica. Addirittura perfido, nel riprendere quell’espressione marziale, tanto cara al primo ministro Manuel Valls – Riconquistare i territori perduti della République! – il quale ne aveva fatto una bandiera già dopo l’attacco stragista del gennaio 2015. Se questo è il programma fondamentale del governo socialista, dice la Le Pen, allora il popolo francese sa scegliere chi può coerentemente interpretarlo. Poi ne individua i luoghi simbolici: le banlieues, tane di quel popolo altro che si nasconde tra le folle di Francia, territori perciò di riconquista della guerra civile proclamata dal duo Hollande-Valls; e Calais, giungla di profughi, immigrati, invasori, da ripulire una volta e per tutte dalla peste straniera. Stato d’emergenza, divieto di manifestare e di riunirsi in assemblea, guerra interna ed esterna: chi meglio dei neofascisti blumarine può ambire a suonare su tale spartito?
La destra e la sinistra paiono confondersi, indistinguibili. In verità l’espressione di Manuel Valls ha una storia precisa e relativamente recente. Les Territoires perdus de la République, infatti, è il titolo di una raccolta di saggi pubblicati nel 2002 da Mille et une Nuit, sotto la direzione di Emmannuel Brenner. Leggi tutto
Non amo affatto Michel
Houellebecq, mi irrita da morire. Segno forse che è un vero
scrittore, perché lo scopo
primario della sua scrittura sembra proprio quello di irritare
il lettore (e ancor più la lettrice). Ma c’è un dettaglio che
mi ha
colpito molto in Sottomissione, a parte gli astuti e
tendenziosi richiami alla situazione che sta sgretolando il
nostro (?) mondo. Qualunque
cosa accada, nota a più riprese Houellebecq, l’Amministrazione
non ti lascia in pace: ti bracca, ti raggiunge ovunque. Può
esserci
il panico, la rivoluzione, la guerra civile o lo stato di
emergenza, ma a un certo punto torni a casa e trovi una
bolletta delle tasse o una multa non
pagata. Mi viene anche in mente, su un registro molto diverso,
un capitolo esilarante del Pensatore solitario di
Ermanno Cavazzoni, in cui si
descrivono le peripezie di un ipotetico eremita dei nostri
giorni, che prima di potersi dare a una vita di sacrosanta
solitudine e ascetiche
meditazioni nel deserto dovrebbe fare i conti con Equitalia,
il commercialista, la tassa dei rifiuti, l’avvocato
dell’ex-moglie e via
dicendo.
Figurarsi uno come me, che non pensa (più) a fare il rivoluzionario o l’eremita ma ha un posto ben integrato nel sistema universitario del nostro Paese, e che vorrebbe solo studiare e insegnare in santa pace, pretese ormai velleitarie e antisociali in un mondo che regolamenta anche il dissenso e che pretende di misurare tutto, Leggi tutto
I tre residui sindaci “arancione”, Pisapia, Zedda e Doria hanno lanciato un appello per liste comuni Pd-Sel alle prossime comunali nelle rispettive città con un argomento nuovissimo: non far vincere la destra, come è accaduto in Francia. Quello che loro hanno capito della lezione francese è che bisogna far quadrato intorno alla socialdemocrazia nei liberista per sbarrare la strada alla destra. Mai sentito un discorso più sfrontatamente opportunista e più clamorosamente falso di questo.
Iniziamo: in primo luogo, ai tre insegni primi cittadini non viene in testa che, forse, nella meritatissima batosta di Hollande e dei suoi sventurati compagni, ci sia proprio l’ignobile politica economica che hanno seguito e che le paure del terrorismo jihadista hanno avuto una parte molto limitata nel successo del FN, che, proprio a Parigi, città colpita dalla strage, ha registrato uno dei suo maggiori insuccessi, raccogliendo solo il 9,5% dei voti. Peraltro, l’ascesa del Fn era iniziata decisamente prima del gennaio scorso. Che i socialisti francesi meditino sulle ragioni del loro fiasco: se loro sono i lacchè della Merkel e del capitalismo finanziario perché mai gli elettori di sinistra dovrebbero votarli?
In secondo luogo, ci era parso di capire che Sel (antico punto di riferimento dei tre sindaci) dovrebbe stare sciogliendosi nella nuova formazione Sinistra Italiana che, nelle dichiarazioni, si propone di costruire l’alternativa al Pd. Ci accorgiamo che è la solita musica: fare il solito cespuglio del Pd per rimediare qualche cadrega. Lo avevamo capito già da prima e ritenevamo Fassina un illuso, ora ne abbiamo la conferma. Leggi tutto
Helsinki attraversa una profonda crisi pur essendo prima in tutte le classifiche internazionali. Per i fan della moneta unica la colpa è dei salari e del welfare. I numeri e il paragone con la Svezia dicono altro: dal 2008 il Pil è crollato del 6% mentre Stoccolma ha fatto segnare un aumento dell'8%
Vabbè, non è colpa dell’euro. La recessione della Finlandia, s’intende, giunta al suo quarto anno. Ce lo assicura il Wall Street Journal, ripreso dal Sole 24 Ore in quello che è divenuto il racconto ufficiale in Italia dell’ennesima débâcle dell’Eurozona. Se non è l’euro, forse è sfortuna. Resta da capire perché il pezzo del WSJ sia stato ripreso e quello del New York Times di luglio no: “La Finlandia è l’esempio perfetto del perché l’euro non funziona”. O quello del Telegraph di novembre: “L’ultimo atto d’accusa contro l’unione monetaria”. O i due interventi (maggio e giugno) del Nobel Paul Krugman nel suo blog: “Il progetto della moneta unica era viziato fin dall’inizio e creerà nuove crisi, anche se in qualche modo l’Europa riuscisse a superare questa”.
I biondi finlandesi e l’esempio spagnolo - Il Pil della Finlandia è del 6% circa inferiore al 2008, la disoccupazione veleggia ormai attorno al 10% (era al 6) e un quarto del sistema industriale è passato a miglior vita. Cos’ha causato la recessione allora? Spiegazione cronachistica: la crisi della Nokia, principale esportatore del Paese, finito nelle mani di Microsoft; il crollo della domanda di carta (settore fondamentale dell’export finlandese); le sanzioni alla vicina Russia.
Leggi tuttoPerché siamo a questo punto? Incidono in primo luogo cause sociali ed economiche: l’abbandono delle classi popolari, del proletariato operaio, delle banlieue metropolitane da parte della sinistra socialista, che anche in Francia ha fatto proprie le ragioni della post-democrazia neoliberale. Con le sue devastanti conseguenze: precarietà e disoccupazione, deflazione salariale e riduzione delle tutele sociali, aumento delle disuguaglianze e accentramento oligarchico dei poteri. Il tradimento del blocco sociale da parte della principale forza della sinistra è stato (sin dalla fine degli anni Novanta) tutta acqua al mulino della destra fascista, a suo modo capace di porsi come forza sociale. Quando chiama il «popolo» a rivoltarsi «contro le élites», Marine Le Pen si appropria di un tema storico della sinistra, del movimento operaio, delle battaglie per l’emancipazione del lavoro e per la giustizia sociale. Il problema è che può farlo impunemente, conquistando proseliti, perché non c’è più nessuno che da sinistra credibilmente faccia appello a lotte sociali in difesa delle classi meno abbienti.
Influisce in secondo luogo il problema della sicurezza. Gli attentati stragisti di quest’anno non hanno soltanto posto in primo piano il tema della paura, che la destra è in condizione di strumentalizzare al meglio suggerendo ricette securitarie semplici, sbrigative e radicali. Hanno altresì risvegliato umori radicati della pancia del paese. La Francia profonda è in buona parte reazionaria e sanfedista: nazionalista, imperialista, xenofoba e antisemita. La vicenda militare della seconda guerra mondiale, il ruolo svolto da De Gaulle nella coalizione dei nemici del Terzo Reich, ha fatto dimenticare la storia turpe del collaborazionismo e della zelante partecipazione della Francia di Vichy alla Shoah.
Leggi tuttoPerfino il Financial Times, pur se anni dopo Goofy, si arrende all’evidenza: la svolta di Draghi è inutile e il QE non serve a far ripartire l’economia o l’inflazione. Dopo anni in cui “SuperMario” è stato dipinto come il salvatore dell’eurozona, che col suo bazooka avrebbe fatto “qualunque cosa necessaria per salvare l’euro”, la voce del padrone dice che, in effetti, da solo non basta. Perché l’eurozona possa funzionare anche solo passabilmente, occorre che i diversi governi dimostrino la volontà politica di collaborare al bene comune. Una volontà già scarsa nei momenti di “vacche grasse” e ormai totalmente irrintracciabile in questo periodo di “si salvi chi può”
La scorsa settimana, gli investitori si aspettavano che Mario Draghi estraesse il coniglio dal cilindro. Ma vuoi vedere che alla fine non c’era nessun coniglio? Penso che l’estensione del programma di QE della BCE avrà un impatto limitato sull’economia reale dell’eurozona.
Ci sono diversi ostacoli da abbattere per il bazooka della BCE. Il primo è un sistema bancario sbilanciato, che si trascina tra un trilione di euro di prestiti deteriorati con un bilancio che vale tre volte il PIL dell’eurozona. Il secondo problema è la mancanza di investimenti delle aziende, che non reagiscono ai tassi sempre più bassi. Il terzo sono i mercati di capitali depressi, che sono un collo di bottiglia per la BCE che tenta di far arrivare la liquidità alle piccole e medie imprese, che sono responsabili per l’80% della creazione di posti di lavoro.
Ciò significa che lo stimolo monetario è necessario ma non sufficiente, come lo stesso Draghi aveva detto quest’anno in precedenza. Leggi tutto
Non ci
vuole molto a capire che questo paese è stato rovinato da
Tangentopoli. Ma in un preciso senso:
l’impatto mediatico delle inchieste della magistratura
milanese dell’epoca ha fatto credere che i problemi italiani
fossero risolvibili
insistendo sulla sfera morale. Da allora si sono
susseguiti, e continuano a farlo, movimenti di moralizzazione
della vita pubblica anche
molto diversi tra loro. Legati più o meno dallo stesso mito:
l’idea che la moralizzazione fattasi regime, e processi con
tanto di
condanna, avrebbe riportato il paese in equilibrio. E si parla
di movimenti spesso legati tra loro, ovviamente, dalla stessa
modalità di
fallimento non di rado risoltasi in parodia (la Lega di Bossi
tra gioielli e titoli della Tanzania; il Prc di Bertinotti,
genere moralizzazione di
sinistra, col leader imprigionato nei pigiama party dell’alta
società; l’Idv di Di Pietro affondata in pochi giorni dopo
l’inchiesta di una trasmissione televisiva). Per entrare nelle
criticità reali della società italiana molto più di Marco
Travaglio, la politica di questo paese avrebbe dovuto
affrontare Marc Abèles. Autore che ci spiega le complesse
modalità a rete della
dissipazione delle risorse comuni come avvengono dagli stati
africani alla governance europea (mentre i movimenti di
moralizzazione sono fermi
all’idea generica della “casta”, a quella che non spiega
niente delle “mafie” o, peggio, alla categoria banale dei
“corrotti con i complici”). Già perchè il sovrapporsi di crisi
sistemiche della società italiana, che ne vive diverse
dalla caduta del muro di Berlino, genera complesse e
aggressive reti di appropriazione di beni pubblici assai
voraci, che si giocano la propria
sopravvivenza, e capaci di infiltrarsi ampiamente dei
movimenti legati ai processi di moralizzazione. Leggi tutto
Le mutazioni strutturali che caratterizzano il passaggio dalla fase multinazionale a quella transnazionale dell’imperialismo, insieme all’ultima crisi di sovrapproduzione, hanno comportato una modificazione dei processi produttivi volta a scardinare la resistenza di classe, la trasformazione dello stato nazionale e la sua subordinazione agli organi sovranazionali del capitale transnazionale e un riacutizzarsi dello scontro interimperialistico
Il passaggio
all’attuale fase transnazionale dell’imperialismo, che
incomincia agli inizi degli anni ‘70 con l’esplosione
dell’ultima crisi di sovrapproduzione, è caratterizzata da
importanti
trasformazioni strutturali rispetto a quella precedente. La
fase multinazionale (1945-1971) si distingue per la
realizzazione di forme di integrazione sovranazionale del
capitale monopolistico finanziario (Fmi, Bm, Gatt), capaci di
garantire stabilità nella lotta fra i
concorrenti e di subordinare le istituzionali nazionali
rendendo il capitale finanziario autonomo dalle economie
nazionali. Direzione e proprietà del capitale multinazionale
sono in una nazione, ma gli investimenti sono fatti in molti
paesi differenti. Il capitale
statunitense impone la sua forza sul mercato mondiale grazie
agli investimenti diretti all’estero (ide) delle sue
multinazionali e domina, attraverso i suddetti organismi
sovranazionali, la comunità finanziaria internazionale, mentre
la ricostruzione
post-bellica gli garantisce un’egemonia sul mercato mondiale.
La forma multinazionale permette al capitale produttivo, attraverso anche un controllo finanziario centralizzato, di superare i limiti del mercato nazionale tramite un’integrazione delle fasi produttive, di circolazione e di realizzazione del plusvalore; è così possibile una localizzazione più adeguata degli impianti e il superamento della frammentazione della produzione mondiale. La ristrutturazione del sistema capitalistico basata su un’integrazione del mercato mondiale, determina il grande sviluppo dell’economia mondiale (fra il 1948 e il 1971 la produzione annua mondiale mantiene una crescita media del 5,6%), siamo in quella che Eric Hobsbawm chiama “età dell’oro” del capitalismo. Grazie a questa fase espansiva di accumulazione del capitale è possibile realizzare, tramite i sistemi di welfare state, una strategia che punta a integrare il proletariato cercando di favorire un compromesso fra le classi.
Leggi tuttoDei dati Istat
recentemente pubblicati due cose da ricordare: 1) la crisi
nazionale crescente, dimostrata dal fatto che il
PIL dell’area euro cresce del doppio del nostro, 1,6% contro
lo 0,8%, e 2) la più forte delle determinanti di questo
nostro ritardo: gli
investimenti delle nostre imprese, cha calano ancora, dello
0,4%.
***
Perché le nostre imprese non investono più, è evidente, è una combinazione perversa dei due mali che ci affliggono: il pessimismo endemico dovuto alla carenza di domanda interna nel Paese, causato dall’austerità europea imposta all’Italia, e la mancanza di riforme nella Pubblica Amministrazione. Il primo porta le imprese a non sostenere scommesse di investimento visto che sono costi certi da sostenere oggi a fronte di ricavi futuri altamente incerti per carenza di clienti potenziali; la seconda rende costosissimo operare in Italia e fa prediligere la stasi in attesa di tempi migliori o la delocalizzazione.
A questa carenza di investimenti privati ovviamente si aggiunge quella di investimenti pubblici. Anch’essa causata dall’austerità europea, ovviamente, con le sue restrizioni a perseverare nei tagli di spesa pubblica. Ma anche dalla carenza di riforme nella P.A., che porta l’Europa a non credere che eventuali investimenti pubblici in Italia genererebbero vera produzione, ma piuttosto fantomatiche cattedrali nel deserto. Leggi tutto
Il Venezuela ha voltato pagina. Dopo sedici anni di dominio incontrastato, il governo socialista ha registrato una pesantissima sconfitta elettorale alle elezioni legislative. L’opposizione di centrodestra si è aggiudicata 99 dei 167 seggi del Parlamento nazionale. Il partito di governo (Psuv), partito socialista del Venezuela, ha ottenuto solo 46 seggi.
Diciamolo pure apertamente, senza giri di parole: è una tragedia. E non in senso metaforico. Lo diciamo tanto più forte quanto più, anche nel nostro Paese, si alzano cori di giubilo per la fine del chavismo, conditi con le trite e logore retoriche neoliberiste che cantano la “fine della dittatura”, l’avvento dell’open society del libero mercato assoluto, e le mille altre amenità a cui siamo ormai avvezzi e che solo la stupidità generalizzata di questi tempi bui fanno scambiare per “libertà”; come se la libertà umana coincidesse tout court con la libertà dei mercati e delle merci, libere e senza impedimenti.
Insomma, diciamolo anche in questo caso forte e chiaro: l’open society – mai termine fu più orwelliano! – a cui ora pure il Venezuela accederà trionfalmente corrisponde in verità alla società più chiusa dell’intera avventura storica, trattandosi della società in cui tutto è possibile solo a patto che si disponga del valore di scambio equivalente; in assenza del quale, per converso, nulla è possibile, compresa l’istruzione e la sanità. Libertà di cosa e per chi, dunque? Per il mercato, naturalmente: così risponderemmo con un Marx che non smette di fare luce sulla volgarità di un presente in preda alla contraddizione. Leggi tutto
Per anni, dopo l’attentato alle torri gemelle di Manhattan, l’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha indicato il terrorismo come elemento di freno alla nostra economia. Al secondo posto nella hit parade del destino cinico e baro, o forse al primo a pari merito, il tributarista di Sondrio metteva la Cina, lasciata inopinatamente entrare nella organizzazione mondiale del commercio (WTO), e che andava contenuta, con le buone o le cattive. In mezzo c’era anche l’imprescindibile necessità della banconota da un euro, forse ricorderete.
Al fianco di Tremonti la Lega Nord, che tuttavia divenne progressivamente afasica quando scoprì gli affari che le piccole e medie imprese, padane e non, stavano realizzando grazie ai commerci con Pechino. In quegli anni non si era ancora materializzato l’incubo euro, anzi lo spread dei nostri Btp sui Bund tedeschi era confortevolmente intorno ai venti centesimi, e nel 2003 per qualche tempo era stato persino nullo. Eppure il paese appariva come un mulo piantato in mezzo alla strada, tetragono a rifiutare di muoversi lungo la strada della crescita.
La politica italiana pare avere come occupazione principale quella di cercare alibi alle persistentemente deludenti performance della nostra economia. La cosa non stupisce, visto il debordante pensiero magico che domina il dibattito pubblico e che ha trovato nuova linfa vitale col governo Renzi, impegnatissimo a trovare fondamentali correlazioni spurie nel proprio storytelling sul nuovo miracolo italiano che avanza a colpi di zerovirgola. Leggi tutto
Il problema "terrorismo" è il modo migliore di disciplinare una società distratta, ignorante, rappresa nell'individualismo senza speranze, votata alla sopravvivenza. E il modo in cui il governo italiano ha preparato sia la prima della Scala che il Giubileo straordinario è quasi da manuale.
Partiamo dalla prima, che come "grande evento" è una novità assoluta. Sia per la ridotta partecipazione di persone (vip e ultraricchi, qualche migliaio di pupazzi che "ci devono essere" per farsi fotografare in loco e quindi per affermare la propria appartenenza all'upper class) che per il lo scarso impatto sulla vita di una sola città italiana (appuntamento tradizionale per proteste locali, variabili per importanza a seconda della stagione politica). Una esibizione di "stato di polizia" concentrato in pochi ettari, esibizione di metal detector, telecamere e cani poliziotto che dovevano servire a far vedere che "lo stato c'è" e che "protegge". Naturalmente protegge esattamente quegli spettatori e null'altro, e per la breve durata del concerto...
Tutt'altra scala dimensionale per Roma, ovviamente, evento globale per definizione. Qui lo spettacolo del controllo totale ha coinvolto fognature, tetti dei palazzi, strade, con la partecipazione straordinaria di una piccola fetta di popolazione disciplinata a prescindere: i "pellegrini". Teatro di grande fascino - il centro storico di Roma - fondale ideale per qualsiasi narrazione, mentre il resto della città scompare, rubricato a fastidio da nasxcondere sotto il tappeto per tutta la durata del "grande evento". Leggi tutto
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Subito
dopo gli attacchi del 13 novembre abbiamo pensato di
prenderci un po’ di tempo per provare a scrivere qualcosa
di più
“ragionato” su quello che era accaduto a Parigi. Man mano
che buttavamo giù gli appunti ci siamo accorti, però, che
era
impossibile provare a smontare il meccanismo bellico che
si era attivato senza provare a spiegare la funzione di
“mostro provvidenziale”
che svolge oggi lo Stato Islamico in medioriente. Però non
si possono comprendere le peculiarità del Califfato senza
tener conto della
guerra siriana, semplicemente perchè senza il conflitto in
Siria l’IS non esisterebbe. E a sua volta non si possono
individuare le
ragioni profonde della guerra che dal 2011 ha mietuto più
di 200 mila morti, senza aver chiare le mire e le
ambizioni di potenze regionali e
globali che in quella guerra giocano un ruolo decisivo. E
poi c’è anche il fallimento dei processi di
decolonizzazione, la
globalizzazione liberista, la crisi… insomma quello che
doveva essere un post è diventato una cosa troppo lunga
per essere proposto
tutto in una volta. Per cui abbiamo deciso di pubblicarlo
a puntate e farlo diventare, alla fine del percorso, un
“documentino”
scaricabile che (speriamo) possa aiutare a
contestualizzare i fatti.
***
Nello spiegare un evento passato o presente le argomentazioni addotte dai media non seguono mai un filo logico o una ricostruzione fedele di quanto accaduto, ma preferiscono fornire versioni che fanno sempre più leva sull’emotività degli spettatori, seguendo lo schema di quello che Losurdo, in un suo recente lavoro, definisce giustamente “il terrorismo multimediale dell’indignazione”. L’opinione pubblica viene “bombardata” (nemmeno troppo metaforicamente) di immagini e informazioni che non forniscono alcun apporto nella comprensione dei fatti e il cui unico scopo risulta essere quello di incanalare questa indignazione nei confronti del nemico di turno, innalzato per l’occasione al rango di “male assoluto”.
Leggi tuttoIeri, ad
un mese dagli attentati a Parigi, l'elettorato francese ha
punito il governo Hollande per le falle nella sicurezza
nazionale – ma solo
relativamente. Ha concesso il 27% dei voti alla destra
securitaria di Marie Le Pen alla prima tornata (un record), ma
non abbastanza voti alla seconda
per vincere in nessuna delle 12 regioni in ballo. Il partito
di Hollande ha vinto in cinque, quello di Sarkozy in sette.
Eppure il tandem
Sarkozy/Hollande è direttamente responsabile per le orrendi
uccisioni compiute al Club Bataclan e in altri quattro luoghi
a Parigi il 13
novembre 2015.
Infatti, i due Presidenti francesi, insieme agli USA, alla
Turchia e ai paesi del Golfo, hanno creato e armato i
jihadisti
operanti prima in Libia e poi in Siria, i quali poi hanno
addestrato e foraggiato gli attentatori di Parigi. Non solo,
ma hanno importato in Libia e
in Siria questi loro orrendi mercenari per rovesciare con la
violenza i governi dei due paesi, seviziando o tagliando la
testa a chiunque –
militare o civile – sostenesse Gheddafi o Assad. Il
che vuol dire gran parte della popolazione:
infatti, malgrado quanto
asseriscono i mass media occidentali, nel 2011 gli
anti-Gheddafi risultavano maggioritari solo nelle piazze delle
grandi città; e oggi gli
anti-Assad non sono più maggioritari nemmeno lì.
Le azioni di Sarkozy e di Hollande, dunque, sono un crimine
secondo tutte
le norme internazionali. Non si coltivano la democrazia e il
rispetto per i diritti umani in una società giudicata
oppressa, importando
tagliagole e fomentando la guerra. Leggi tutto
Non so quante volte è stato detto sul nostro sito (in verità, è dal 2008 che l’economista veneto La Grassa lo scrive in ogni luogo, persino sui muri di Conegliano) che la cosiddetta crisi sistemica globale presenta le caratteristiche di una lunga recessione e non quelle di un tracollo generale, come ripetuto a vanvera da molti esperti (del piffero). Non siamo ancora ad un disastro in stile 1929, nonostante i capoccioni della dismal science si arrischino a dichiararlo spesso, salvo correggersi ad ogni accenno di ripresina che ne smentisca le previsioni catastrofistiche. Costoro danno numeri a capocchia, fanno annunci sballati eppure non temono di essere contraddetti perché non sono le bugie ad avere le gambe corte ma la memoria delle persone.
Piuttosto, la fase in corso sembra avvicinarsi alla Grande Stagnazione che caratterizzò il quarto di secolo dal 1873-96 . Afferma La Grassa in proposito: “In realtà, si trattò della fase in cui si andarono preparando eventi estremamente drammatici quali quelli che si produssero nella prima metà del secolo XX: le grandi crisi economiche (soprattutto, come già detto, quella del ’29) e, in particolare, le due guerre mondiali…A partire dalla seconda metà del XIX secolo, e specialmente dal 1870, si accentuò lo scontro tra i vari paesi capitalistici avanzati per la conquista delle colonie; e per la redistribuzione di quelle già acquisite (ci si ricordi che anche la Francia aveva possessi coloniali di rilievo pur se si era indebolita, come già messo in luce, con la sconfitta nella guerra del 1870-71)…la lunga depressione del 1873-96 è stata il sintomo (e l’effetto) della messa in discussione della primazia inglese, dell’ascesa di alcune nuove potenze ormai concorrenti nell’aspirazione a prevalere”. Leggi tutto
Negli ultimi anni abbiamo assistito ai clamorosi “pentimenti” di alcuni guru della cultura digitale, alcuni dei quali – folgorati dall’improvvisa consapevolezza dei danni psicologici, sociali e culturali che certi discorsi rischiano di causare ai fanatici delle nuove tecnologie – si sono cosparsi il capo di cenere in libri come “Il lato oscuro della Rete” (di Nicholas Carr), “Tu non sei un gadget” (di Jaron Lanier) o “Alone Together” (di Sherry Turkle), per citare i più famosi.
L’ultimo protagonista di questo tipo di “conversione” è Greg Hochmuth, che a suo tempo ha lavorato come ingegnere del software per Instagram, il famoso social network che permette agli utenti di scambiare foto. A un certo punto, il nostro si è reso conto del fatto che alcune caratteristiche da lui progettate allo scopo di rendere il servizio irresistibile per gli utenti provocavano un vero e proprio stato di dipendenza, rendendoli incapaci di “uscire” dal sito. E’ quello che alcuni studiosi dei fenomeni di Internet addiction definiscono Network Effect e che lo stesso Hochmuth, parlando con l’autore di un articolo nel New York Times che affronta l’argomento, non esita a paragonare al rapporto fra un organismo ospite e il suo parassita.
Al contrario degli autori citati in precedenza, Hochmuth non ha scritto un libro ma ha realizzato, assieme a Jonathan Harris, artista e informatico, un sito che s’intitola appunto Network Effect che offre ai visitatori una sorta di affascinante galleria di comportamenti umani e che – quasi a voler simboleggiare la necessità di staccare la spina – li disconnette senza preavviso e impedisce loro di accedere al sito per le successive 24 ore. Leggi tutto
Il rischio di fallimento di istituti di credito sta assumendo una tale frequenza da non poter essere relegata nei campi dell’episodico o della mala gestione. E’ evidente che ci troviamo di fronte ad un riassetto complessivo del sistema bancario nazionale, che non solo ne ridefinisce il peso specifico nelle relazioni tra soggetti economici ma riqualifica la stessa funzione del credito nello scenario della cosiddetta finanziarizzazione. Naturalmente ciò nulla toglie al contenuto criminogeno a monte dei fenomeni di fallimento bancario, anzi la natura truffaldina dei comportamenti posti in essere dagli istituti bancari suona a conferma del cambiamento di funzione degli organismi istituzionalmente preposti alla raccolta del risparmio e gestione del credito.
Fondamentale è il ruolo nevralgico assunto dal sistema bancario e finanziario nei processi decisionali nell’ambito dell’Unione Europea e il quadro normativo imposto all’intero sistema creditizio-finanziario volto ad una accelerazione dei meccanismi di accumulazione e di centralizzazione finanziaria, e che costituiscono la cornice dei ricorrenti casi di fallimenti bancari.
Un “tuffo” nella cronaca può aiutare a focalizzare le caratteristiche del riassetto del sistema bancario nazionale, infatti, ancora una volta il rischio di fallimento si è concentrato su ben quattro realtà bancarie territoriali - Banca delle Marche, Banca dell’Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e cassa di Risparmio di Chieti- ad incidenza contenuta sul piano nazionale ma assolutamente rilevanti sul versante locale, che vanno ad aggiungersi alle crisi già acclarate di Carige, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, ecc. Leggi tutto
Note a margine della lettura di “L’infelicità araba” di Samir Kassir, Einaudi, Torino, 2006
Il mondo arabo consta
di una ventina di stati per una popolazione di poco superiore
a quella degli Stati Uniti d’America
(più di 350 milioni), per il 60% posti nel Nord Africa e per
il 40% nel Medio Oriente. Non sono “arabi” ovviamente i
turchi, gli
iranici, gli israeliani ebrei. Gli arabi sono solo il poco più
del 20% dell’islam. Questo vasto mondo dal glorioso passato,
vive
uno scabroso presente connotato in particolare da una sorta di
paralisi socio – politico – culturale che Kassir compendia
nello stato
d’anima dell’infelicità. Questa infelicità è triplicemente
determinata. C’è
l’infelicità della condizione, una condizione oggettivamente
marginale, paralizzata, regredita. C’è
l’infelicità dell’inazione, dell’impotenza. Nulla sembra
politicamente possibile in un mondo sclerotizzato in mafie al
potere, quasi sempre protette dai poteri del neocolonialismo
occidentale la cui alternativa è data dal “sogno” del ritorno
all’islam puro di più di mille anni fa, “sogno-incubo” a sua
volta sponsorizzato dalle potenze petrolifere del Golfo
anch’esse protette dai poteri neocoloniali. Infine,
l’infelicità stessa del pensiero a cui è vietata ogni
evasione, ogni
ricerca, ogni sperimentazione, quindi, ogni libertà.
L’elenco dell’immediato passato storico di questo mondo è agghiacciante: la prima questione palestinese e l’umiliante conflitto arabo israeliano, la crisi di Suez, la guerra d’Algeria, la guerra libanese, la continua diaspora palestinese, il lago di sangue della guerra tra Iraq ed Iran, il massacro di Sabra e Chatila, la prima e seconda guerra civile in Sudan, la guerra civile in Algeria, Leggi tutto
Insieme a
molti altri abbiamo ripetuto che l’Europa è il terreno
minimo di lotta. Di fronte agli
stati di emergenza, al terrorismo di Daesh, alle guerre
dichiarate o semplicemente praticate, dopo le recenti elezioni
francesi sembra di essere
catturati in un’infinita involuzione europea. Sembra che le
stesse cose continuino a ritornare per minacciarci con la loro
miseria. Eppure
proprio di fronte a tutto questo noi siamo quanto mai convinti
che l’unica scelta praticabile sia fare dell’Europa un terreno
di scontro
diverso da quello che ci vogliono imporre. La scala di tutti i
processi nei quali siamo coinvolti è quanto meno europea: la
cupa oppressione
che grava su di noi non rispetta i confini nazionali, i
movimenti sui quali possiamo fare affidamento ci attraversano
senza pace. La difficoltà
del momento risiede nell’essere all’altezza di queste
dimensioni transnazionali. Nessuno oggi può difendere
l’Europa
realmente esistente, possiamo solo utilizzare questo spazio
mobile, solcato da profonde differenze, per costruire un
progetto politico di liberazione dal regime
globale di sfruttamento, guerra e terrore. Solo dentro
l’Europa e contro l’Europa
rivela il suo senso politico la proposta lanciata a Póznan di una
giornata di scioperi e iniziative coordinate a partire dalla
centralità politica
del lavoro migrante. Il primo marzo 2016 deve essere
l’esperimento su scala europea del nostro sciopero contro la
paura. In gioco
c’è molto di più di una giornata di solidarietà con i
migranti. In gioco c’è la nostra capacità
collettiva di rovesciare le miserie del presente.
Lo diciamo chiaramente: dentro alla presente condizione dell’Europa, il lavoro migrante non solo può rendere realmente sociale e transnazionale lo sciopero, ma può anche lanciare un segnale di insubordinazione nei confronti di un regime fatto di xenofobia, razzismo e precarietà. Leggi tutto
Sconfitta, la prima volta
Dalla prima elezione di Hugo Chavez nel 1998, il progetto rivoluzionario in Venezuela si è affermato attraverso una sequenza ininterrotta di vittorie elettorali. Unica eccezione: il referendum del 2007 che rigettò il primo tentativo di riforma della Costituzione.
Le elezioni del 6 dicembre scorso sono quindi «una prima volta» per la sinistra venezuelana che era stata abituata, fin dal 1999, a detenere sia il potere legislativo che quello esecutivo. Queste elezioni parlamentari hanno invece dato la maggioranza dell'Assemblea Nazionale alla Tavola di Unità Democratica (MUD), la coalizione degli anti-chavisti che con il 56,2% dei voti ha conquistato 109 seggi su 167, fermandosi a un passo dai 112 necessari per poter cambiare la Costituzione.
Rassicurazioni e violenza
L'opposizione venezuelana è riuscita a trovare, dopo 15 anni, una formula capace di contendere la vittoria al Partito Socialista Unito di Venezuela (PSUV) e ai suoi alleati. Negli anni hanno provato in tutte le maniere: con il colpo di stato diretto, con il boicottaggio delle elezioni, con candidature multiple. Alla fine, la formula vincente è stata trovata in un listone unitario che raccoglie 21 organizzazioni politiche.
Leggi tuttoIn occasione degli attentati di Parigi e della decisione di alcuni paesi di prendere parte ai bombardamenti contro il cosiddetto Stato Islamico, i “Socialisti” europei hanno mostrato una volta di più tutta la loro inconsistenza non solo politica, ma soprattutto culturale. Il Presidente Hollande, la SPD tedesca e una parte dei laburisti britannici, hanno speso poche flebili parole di circostanza sul profondo disagio delle periferie europee da cui provenivano gli attentatori oppure sugli evidenti disastri delle politica estera americana e europea nel Medio Oriente, preferendo gettarsi a testa bassa in un confuso e roboante appello identitario alla difesa dell’Occidente e del suo stile di vita.
Come ormai da vent’anni a questa parte, si ripresentano anche in questi giorni nei parlamenti e nei mezzi di comunicazione gli interventi di molti politici e “intellettuali di sinistra” a favore della “guerra umanitaria”. Recentemente, Repubblica ha dato il proprio contributo a tale causa pubblicando un video di Francesco Merlo dal titolo “se la guerra è di sinistra”. Il giornalista prende spunto dall’intervento alla Camera dei Comuni del laburista Benn il quale, in disaccordo con Jeremy Corbyn ha votato a favore dell’intervento britannico in Siria, presentando l’ISIS come il “nuovo fascismo” contro cui serve una guerra unitaria come ai tempi della secondo conflitto mondiale. Merlo, voce fuori campo, e il montatore del video non risparmiano mezzi per convincerci che la posizione di Benn sia la più giusta possibile, la più moderna e adeguata. Il politico britannico, piu volte ministro sotto Blair, è presentato immediatamente come il nuovo “astro nascente” della sinistra d’Oltremanica, sorvolando sul fatto che Corbyn e le idee da lui rappresentate abbiano vinto a grande maggioranza nemmeno tre mesi fa l’elezione per il segretario del Labour. Leggi tutto
Ha ragione Fausto Bertinotti quando dice che la cosiddetta «provocazione» del ministro del lavoro, Giuliano Poletti, cioè la sostanziale riproposizione del cottimo nella dinamica salariale, «va presa sul serio». È la «spia», per dirla con Carlo Ginzburg, di quanto la «nuova ragione del mondo» sia elemento consustanziale del Pd, della sua struttura portante come «perno» (direbbero i sindaci arancioni) dell’attuale establishment di potere.
È la «spia» di quanto lungo e profondo e dunque radicato, sia stato il percorso di acquisizione della «nuova ragione» che consiste, appunto, nel dispiegamento pieno della logica secondo la quale «il mercato il principio del governo degli uomini e del governo di sé» (Dardot, Laval 2013).
Radicamento dunque; Poletti, infatti non è Renzi, che, tramite consolatorio errore, può essere considerato un recente ed estraneo invasore calato improvvisamente come gli Hyksos sul terreno incontaminato degli eredi di quella che fu la grande sinistra italiana.
L’attuale ministro del lavoro è da sempre una componente di quel terreno, un agente primario della sua organica trasformazione in un elemento fondamentale dell’humus di quella «crisi organica» (Gramsci) che è la vera cifra interpretativa del «momento attuale».
L’humus da cui sono germogliati tutti gli atti, corposi e coerenti, che in un periodo non breve hanno tradotto in decisione politica le suddette logiche della «nuova ragione del mondo». Un universo fattuale così denso e significativo che può sfuggire solo a chi guardi (non analizzi) la realtà, con le lenti della ideologica «falsa coscienza».
Leggi tuttoLa creazione delle grandi istituzioni sovranazionali del capitale si può far partire dalla fondazione nel 1944 del Fmi e della Bm espressione di quel processo di perdita progressiva di una parte della sovranità degli stati
Finita la
seconda guerra mondiale, quindi nella fase multinazionale, lo
stato (del capitale) non svolge più un intervento diretto,
attraverso
la partecipazione alla proprietà e alla produzione
industriale, per realizzare la socializzazione delle perdite
come nella precedente fase di
crisi, ma non per questo riduce la sua attività economica che
ora è indirizzata a un aumento della spesa collegato al
processo di
accumulazione del capitale e funzionale al processo di
produzione e circolazione del plusvalore. Attraverso il
finanziamento della ricerca scientifica
e tramite l’istruzione pubblica, che fornisce forza-lavoro
sempre più qualificata, lo stato favorisce le premesse per la
realizzazione di
forme sempre più intensive di lavoro. Lo stato sviluppa poi il
welfare che non trasforma certo lo stato in un
organismo neutrale nella
lotta di classe, ma ha lo scopo di creare un moderno
neocorporativismo.
Nella fase transnazionale il rapporto di esclusività fra capitale nazionale e stato è superato. Compito dello Stato diventa quello di svolgere un’opera di mediazione fra i diversi capitali in lotta, appoggiare il capitale finanziario dominante che opera sul suo territorio e porre in atto le direttive che vengono da Fmi e Bm. Terminata la fase espansiva e iniziata l’ultima crisi muta anche il ruolo dello stato borghese che non deve più utilizzare gli strumenti “keynesiani” e il mantenimento del welfare per moderare il conflitto di classe (pratica del resto non più perseguibile data la fine della fase espansiva).
Leggi tutto“I moderni missili
impiegati dalla forze armate russe in Siria possono essere
armati con testate nucleari, sebbene
non sia ovviamente necessario”, afferma Vladimir Putin:
l’evanescente stampa occidentale non ha colto un
lapalissiano avvertimento che
durante la Guerra Fredda avrebbe allertato qualsiasi
“cremlinologo”. Non è l’impegno a non usare armi nucleari
contro
l’ISIS, bensì l’evocazione stessa delle testate atomiche,
il messaggio che Putin lancia all’Occidente: aumentate il
tono
dello scontro in Siria ed Iraq e sarà guerra. La
situazione militare del Califfato volge infatti al peggio
e gli angloamericani con i vari
alleati NATO raddoppiano gli sforzi per evitare che Mosca
e Teheran li espellano dalla regione. La Turchia di Recep
Erdogan è impiegata da
Washington e Londra per il lavoro sporco e ricopre lo
stesso ruolo che ebbe la Serbia nel 1914.
***
Quando il contesto è più importante del testo
L’occasione del discorso è l’incontro al Cremlino tra il presidente russo Vladimir Putin ed il ministro della Difesa Sergey Shoigu per discutere degli sviluppi militari in Siria: la mattina dell’8 dicembre il sottomarino “Rostov sul Don”, un moderno esemplare della categoria Kilo-class a propulsione diesel-elettrica, è emerso dalla acque del Mediterraneo orientale per il lancio 1 dei missili Kalibr che, dopo aver sorvolato i cieli della Siria, esplodono in riva all’Eufrate, a Raqqa, distruggendo due postazioni dell’ISIS. Leggi tutto
Riflessioni intorno al libro (In) sicurezze. Sguardi sul mondo neoliberale fra antropologia, sociologia e studi politici ( a cura di Javier Gonzalez Diez, Stefano Pratesi , Ana Cristina Vargas), Novalogos, Aprilia, 2014
Dalla
seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso Michel Foucault
ha quasi profeticamente cominciato a studiare il tema della
“sicurezza” come categoria preminente delle dottrine e
strategie di governo in occidente. L’avvenire doveva poi
confermare
questa preminenza oggi più che mai trionfante. La cosiddetta
terza guerra mondiale in corso non è infatti che una tra le
maggiori
conseguenze dell’imporsi a livello mondiale di tali strategie
occidentali all’insegna della “sicurezza”.
Per capire come si è potuti giungere a tanto vale la pena di provare a ricordarsi di quando tutto ciò ha cominciato a emergere come una tendenza irrefrenabile. Vale la pena di provare di ricordarsi della seconda metà degli anni ’70, appunto.
Cosa è dunque successo di così clamoroso in questo tempo? Qualcosa che l’informazione oggi dominante tenta in ogni modo di rimuovere. Qualcosa che non si lascia omologare dalle ossessive litanie divenute praticamente obbligatorie sul ’900 come “secolo buio”, della violenza e dei totalitarismi. Qualcosa che deve essere rimosso per far dimenticare quell’epoca incredibilmente diversa dall’attuale, quando la prima dichiarata preoccupazione degli Stati occidentali non era la “sicurezza”, ma il “benessere”, e ciò su scala non solo nazionale, ma anche globale . Ad esaurirsi in questa seconda metà degli anni ’70 sono infatti quei “trent’anni gloriosi” (1945/75 ) durante i quali si era assistito al trionfo in Europa, ma anche altrove, dello “Stato sociale”, del “Welfare State”, con tutte le conseguenze del caso in termini di accrescimento globale della giustizia sociale.
Leggi tuttoNon c’è bisogno di sofisticate
analisi per
capire che dobbiamo cominciare a prendere in
considerazione che possa accadere l’impensabile.
Basta
leggere le notizie e metterle insieme
Nel corso del G 20 dello scorso 17 Novembre Putin dichiara che dietro l’IS – Daesh ci sono alcuni stati, con particolare riferimento a Turchia e Arabia Saudita. In pratica lo Stato Islamico sarebbe solo un modo per fare guerra per interposta persona e non figurare direttamente. Una guerra che all’interno dell’Islam oppone Sunniti a Sciiti, ma che fa comodo anche agli USA in quanto consente quell’operazione contro il governo di Assad che fu impedita nella forma diretta di una replica dell’eliminazione di Gheddafi proprio dall’iniziativa russa.
Il 23 Novembre, per tutta risposta, la denuncia di Putin è seguita, dopo soli tre giorni, dall’iniziativa della Turchia di abbattere un Sukhoi russo in azione proprio contro l’IS. La reazione russa si ha nei giorni seguenti con il dispiegamento in Siria il più moderno dei sistemi antiaereo, l’ S-300 e l’S-400, per difendere i propri velivoli.
Il 27 Novembre Arabia Saudita, USA e altri sponsor dell’IS hanno programmato l’invio in Irak di ben 100.000 soldati per fronteggiare l’IS, scopo che dopo le dichiarazioni al G20 la Russia non può ritenere vero. Leggi tutto
Pensavamo che nessuno riproponesse l'ingenua litania delle mele marce in un sistema bancario altrimenti sano, e che fosse giunta l'ora di discutere del marcio del sistema. Ma eravamo in errore
Credevamo che la crisi di altri quattro istituti di credito italiani potesse aprire una seria discussione sulle reali prospettive degli assetti bancari nazionali ed europei.
Ritenevamo fosse chiaro che considerare queste vicende soltanto come opere di qualche farabutto da individuare e condannare, è solo un modo fuorviante di ridimensionare i fatti, un tentativo maldestro di confinarli per tranquillizzarci.
Pensavamo che con questo ennesimo tracollo non ci sarebbe stato più spazio per la solita, ingenua litania secondo cui il problema principale verterebbe sui soliti ladri, sulle proverbiali mele marce in un sistema altrimenti sano.
Ci illudevamo fosse dunque la volta buona per individuare il marcio nel sistema, e nelle sue macroscopiche contraddizioni interne.
Eravamo persuasi, in particolare, che sarebbe stato possibile mettere in chiaro che le banche finora cadute, in Italia e nel resto d'Europa, rappresentano solo i segni premonitori di un nuovo, violento processo di centralizzazione degli assetti bancari continentali, che la Banca Centrale Europea e le sue propaggini nazionali pretenderebbero di gestire ma che in parte sfugge persino al loro controllo.
Leggi tuttoDi solito quando parlo di idiozie americane vengo preso da una noia senza fine: perché certo la cretineria non conosce confini e abbonda dovunque, ma quella made in Usa è così prevedibile, così commercializzata, così pacchianamente egocentrica da non poter che suscitare tedio e monotonia prima ancora che disgusto. Ed è così anche per la copertina del Time che elegge la Merkel a uomo dell’anno (cambiato in “persona dell’anno” nel 1999), nel solco di una tradizione imperiale un po’ patetica, perché davvero chissenefrega di cosa pensino in un settimanale di all american boy che di fatto è l’erede spirituale e intellettuale del Reader’s Digest. L’ onore della copertina, tra l’altro graficamente orribile, è stata concessa alla cancelliera tedesca per aver tenuto insieme l’Europa nella vicenda greca e in quella dell’immigrazione di massa (dovuta alle guerre di Washington, ma questo è omesso).
Già questo la direbbe lunga sui veleni che stanno covando le elites di oltre atlantico, ma basta andare un po’ indietro nel tempo per accorgersi che Angela Merkel è stata ben più protagonista e determinante nel tenere in piedi l”Europa che piace all’amministrazione americana negli anni cruciali di inizio crisi: che insomma la copertina l’avrebbe meritata dal 2008 al 2012. Certo al Time potrebbero non essersene accorti, ma comunque non avevano motivo per una scelta del genere solitamente dettata da ragioni non rivelate al pubblico, tanto che nel 2007 avevano ricevuto l’input di sbattere in pagina come persona dell’anno Putin come nuovo zar e normalizzatore dell’immenso Paese: un alleato prezioso per contener l’ascesa della Cina se solo non si fosse poi rivelato così ostinato nel perseguire gli interessi della Russia. Leggi tutto
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Si parla, spesso a
sproposito, di liberismo, mentre è in corso la più complessa
operazione protezionistica di tutti i
tempi. Gli Stati Uniti, autonominatisi protettori del libero
commercio, in realtà hanno quasi sempre mantenuto tariffe
doganali altissime e le
hanno abbassate quando l’Europa era in macerie per la seconda
guerra mondiale. Se nel 1945 avevano l’assoluto predominio
militare,
finanziario, industriale, hanno visto eroso questo vantaggio,
e cercano di conservare la supremazia con ogni mezzo,
sabotando rivali attuali o futuri.
Non c’è, nella classe dirigente statunitense, distinzione tra
falchi e colombe, perché – a parte differenze di linguaggio,
più diplomatico in Obama e nella sua fazione – lo scopo è
sempre l’egemonia USA. Anzi, troviamo frammenti di verità
nei discorsi dei “cinici”, come Brzezinski o Luttwak,
piuttosto che nelle suadenti espressioni dei presunti
pacificatori.
Era chiaro, per chi non ha mai creduto a Obama, che il “pivot to China” era una formula propagandistica. Altrimenti, come spiegare questa notizia di “Il Sole 24 Ore?
“Il Fondo monetario ha approvato oggi l’inclusione dello yuan, la moneta cinese, nel paniere delle valute di riserva. La decisione è stata presa dal consiglio esecutivo, che riunisce i rappresentanti dei Paesi membri dell’istituzione di Washington, e ha aggiunto lo yuan a dollaro, euro, yen e sterlina come componente dei diritti speciali di prelievo, la valuta di riserva dello stesso Fmi.”... “…l’inserimento dello yuan nei dsp ha alcune importanti conseguenze pratiche: dovrebbe infatti produrre un graduale flusso di fondi sullo yuan da parte delle banche centrali, dei fondi sovrani e delle altre istituzioni multilaterali, flusso che in parte è già cominciato (una settantina di banche centrali hanno investito parte delle loro riserve ufficiali in yuan). La sola riallocazione di un 1% delle riserve internazionali sullo yuan significherebbe un flusso di 80 miliardi di dollari l’anno”.(1)
Se gli USA fossero stati contrari, la Cina sarebbe ancora in attesa. Leggi tutto
Inquietudine
Io sono contrario alle occupazioni delle scuole che stanno avvenendo in questi giorni (anche se ovviamente contrario anche agli sgomberi). Non ho neppure scioperato il 13 novembre con i Cobas. Non ho neanche partecipato a mobilitazioni e convegni sulla LIP. Non perché “tanto non c’è niente da fare”, e neppure perché mi sia convertito all’idea renziana di scuola.
E’ perché mi pare che, una volta perso il riferimento che coagulava la lotta, l’iter parlamentare della legge “La buona scuola”, sembra che nessuno voglia interrogarsi sulla sua insufficienza. Sì, anche quando a migliaia si scendeva in piazza, anche quando si scioperava in massa, era il nemico che ti offriva il terreno su cui agire. Era lui a porre le domande, e proprio nei confronti di quelle si agiva di riflesso. Di rimessa, quindi in modo subalterno.
Ma, adesso, il punto è che, mentre la “buona scuola”, nelle sue diverse articolazioni (quelle che necessariamente provocheranno, senza dubbio, ancora rabbia, come la perdita della titolarità di cattedra nella scuola dove si insegna, non valgono ancora per la maggioranza dei docenti) viene implementata, non è che la scuola si converta unanime al nuovo credo, anzi è il contrario, ma il malessere e il disagio si disperdono in mille rivoli. Si torna, immediatamente, ad una visione corporativa, che era quella dominante anche il 5 maggio 2015, anche se non sembrava, viste le piazze piene e le scuole chiuse. Leggi tutto
Pubblichiamo di seguito la prefazione di Emanuele Trevi a Armi e Bagagli (il memoir di Enrico Fenzi ripubblicato da Egg Edizioni) e un estratto dal primo capitolo del libro. La prefazione di Emanuele Trevi, che ringraziamo, accompagnava l’edizione Costa & Nolan. L’illustrazione è di Pietro Corraini
Per introdurre Armi
e bagagli di Enrico Fenzi mi sarà necessario
condividere almeno in parte gli stessi rischi che
l’autore ha affrontato scrivendo la sua opera. A farmi
accettare questi rischi non basterebbe nemmeno la profonda
amicizia che mi lega a Enrico:
l’argomento decisivo, in questi casi e di fronte a una materia
così spinosa, non è, non può essere che il grande valore di
questo libro, non a caso arrivato alla sua terza edizione (ora
alla quarta, ndr). Ma è proprio intorno e in
conseguenza a
questa nozione di “valore” che iniziano i guai. A primo
impatto, infatti, potrebbe anche suscitare fastidio e
addirittura ripugnanza
l’elogio delle qualità letterarie di un libro che ha per
sottotitolo Un diario dalle Brigate Rosse.
È inutile negare che su un discorso che abbia questo tipo di intenzione pende come una spada di Damocle l’accusa di un cinismo sordo al male e al dolore reali evocati in Armi e bagagli. Ma questo rischio (l’accusa infamante di “fare della letteratura” di fronte a tragedie reali) è corso, in maniera molto più radicale, dall’autore in prima persona. Che al danno fatto avrebbe pure aggiunto la beffa di scriverci su un “bel libro”. Questa diffidenza per la letteratura e per il “fare della letteratura” ha radici antiche e profonde, e può vantare anche, non costa nulla ammetterlo, dei buoni argomenti.
Scegliendo nonostante tutto la letteratura, a Enrico Fenzi non è rimasta che la più svantaggiosa delle scommesse: si è affidato alla sua opera, le ha delegato interamente il compito di parlare per lui. Il che significa, prima di tutto, rinunciare all’ombrello protettivo delle proprie intenzioni. Leggi tutto
«Pensavano che saremmo corsi via? La Russia non è un Paese simile. Ora i turchi provino a entrare nello spazio aereo siriano». E ancora: «I turchi hanno voluto leccare gli americani in un certo posto».
Non usa certo un linguaggio diplomatico Vladimir Putin per attaccare il governo di Ankara e colpirlo nel vivo del sentimento nazionalista che gli islamisti al potere hanno resuscitato ed estremizzato per ampliare la propria base di consenso a settori della popolazione non necessariamente osservanti. Concetto ribadito quando attacca l’amministrazione turca per un processo di islamizzazione del paese che «che farebbe rivoltare Ataturk nella tomba».
Il riferimento del capo del Cremlino è ovviamente, ancora, al caccia russo abbattuto dai turchi sui cieli siriani che ha portato alle stelle la tensione tra i due paesi in una escalation di mosse e contromosse che non accenna per ora a rientrare, e che potrebbe sfociare nella chiusura dei rubinetti del gas (da parte di Mosca) o nella chiusura del permesso di transito nello Stretto dei Dardanelli per le imbarcazioni russe (da parte di Ankara che ne ha già bloccate 27 dall’inizio del contenzioso). «Forse hanno voluto fare un favore agli americani, dimostrarsi alleati affidabili» insiste Putin, che in realtà sa bene che la maggior parte delle mosse della Turchia in Medio Oriente – tra le quali l’inasprimento nei confronti della Russia - non solo non sono state concordate con Washington, ma al contrario rappresentano una provocazione anche nei confronti dei paesi della Nato di cui pure Ankara rappresenta un imprescindibile bastione ad Oriente. Leggi tutto
Il pericolo del cambiamento climatico continua ad essere ampiamente frainteso o ignorato
Il cambiamento climatico, a quanto pare, viene visto come qualcosa di lontano, la sua importanza viene sminuita da minacce più immediate, dal terrorismo alle preoccupazioni finanziarie. E i governi sembrano soffrire di sindrome di sdoppiamento della personalità, con i politici che si accalcano a Parigi per dichiarare l'assoluta necessità di salvare il pianeta per le future generazioni e poi tornano a casa e dichiarano l'assoluta necessità di far ripartire la crescita.
Ma la minaccia climatica non riguarda le future generazioni. E' una cosa che avviene adesso, che è avvenuta per un secolo e che continua ad avvenire, portandoci lungo un sentiero pericoloso che finisce da qualche parte, probabilmente in un burrone ripido.
Ecco un riassunto della situazione ad oggi. Non è da intendersi come esauriente, ma come un tentativo di cogliere i punti principali di quello che sta avvenendo.
1. Gas serra. Il biossido di carbonio e il
metano sono i principali gas serra generati come risultato
delle
attività umane. Il loro accumulo nell'atmosfera continua.
Riguardo al CO2, il 2015 probabilmente è stato l'ultimo anno
della storia
durante il quale gli esseri umani hanno potuto respirare
un'aria che ne contiene meno di 400 ppm. Da adesso in poi, le
concentrazioni saranno
maggiori. Leggi tutto
Pubblichiamo un articolo di Andrea Baranes tratto dal sito Non con i miei soldi che partendo dal decreto Salva-banche pone l'accento su tutte le contraddizioni legate alla finanziarizzazione dell'economia
La colpa è dei risparmiatori che dovevano informarsi. Oppure è delle banche, che hanno piazzato titoli spazzatura. È di chi doveva vigilare, Banca d’Italia in testa. È del governo e del pasticcio del decreto salvabanche. È dell’UE e delle sue regole. Negli ultimi giorni è esploso il dibattito sul salvataggio di CariFerrara, Banca Etruria, Banca Marche e CariChieti, per cercare di individuare responsabilità e colpe.
Certo è che una banca non dovrebbe vendere a clienti inesperti prodotti come delle “opzioni certificates su sottostanti cartolarizzati”. Difficile anche solo capire di cosa si tratta, figuriamoci investirci i propri risparmi. Per questo esiste una normativa europea – la Mifid – che prevede che le banche, prima di vendere un prodotto, facciano quella che si chiama la profilatura del cliente, ovvero verifichino la conoscenza degli strumenti finanziari, la propensione al rischio, gli obiettivi dell’investimento.
Peccato poi che si scopra che il 75% della clientela – anche chi aveva un’istruzione media inferiore – è risultato figurare sui tre livelli più alti di conoscenza ed esperienza finanziaria. Dati a dire poco strani, ma che trovano una spiegazione se si viene a sapere quanto le strutture commerciali vengano pressate per raccogliere volumi e incentivi. Leggi tutto
Un tempo le banche servivano a fare investimenti e a creare lavoro. Oggi producono soldi su soldi e gettano nell’abisso lavoratori e imprenditori. Un tempo aiutavano i territori a crescere e a prosperare. Oggi li lasciano come dopo il passaggio di un ciclone.
Il sistema bancario per imporre la schiavitù usa il debito in forme e sempre più prossime all’usura: imprigiona colui che chiede il prestito in un debito che non potrà più rimborsare. E gli porta via tutto. Costringendolo – è storia di questi giorni – a togliersi la vita per via della disperazione e della miseria.
È a tutti gli effetti una delle molte facce del terrorismo: è terrorismo economico, coerente con la violenza immanente in cui si condensa l’essenza del sistema capitalistico. Sorge davvero il dubbio che avesse ragione Brecht quando diceva che rapinare una banca è poca cosa rispetto al fondarne una.
Parole di Matteo Renzi: “Chi strumentalizza la morte del pensionato suicidatosi per la questione delle banche mi fa schifo”. Vero. Tuttavia, personalmente, mi fa ancora più schifo cosa ha causato quella morte.
Le banche dovrebbero essere sottomesse alla politica e alle sue regole, in modo da favorire il benessere della comunità e dei cittadini: invece, oggi, fissano loro stesse le regole della politica, che diventa semplice continuazione della finanza con altri mezzi. Leggi tutto
Esistono due macrocategorie di Cazzari: una sfrutta
soprattutto le paure degli elettori, l’altra le speranze.
Bastone e carota.
Se
l’orripilante Donald Trump è un Cazzaro Bastone, Matteo Renzi
è un Carota, un Cazzaro per il tempo di pace, fatto per i
meeting
festaioli, i summit patinati, le televendite Apple. Infatti in
queste cupe settimane è stato l’ombra di se stesso.
Allineato al
Capo Carota Obama, è rimasto defilato dal fronte, apparendo
sempre più diafano e inconsistente.
La Leopolda di quest’anno
è stata un patetico flop.
Samantha Cristoforetti ha rifiutato l’invito perché di vuoto
assoluto le è bastato quello
dello spazio.
L’intervento di Renzi è stato fiacco, lagnoso, inefficace.
Renzi è scarico, e il clima è
irrimediabilmente ostile al suo brand di cazzate, a causa dei
venti di guerra e dei miasmi tossici prodotti del marciume
strutturale del sistema
capitalistico, del quale il salvataggio delle banche
truffaldine, compresa quella di papà Boschi, è solo l’esempio
italiano
più recente.
Infatti, benché le classi dirigenti abbiano la possibilità di
farsi le leggi su misura, non riescono a
smettere di infrangerle.
L’intero sistema legale e giudiziario è concepito per favorire
i loro appetiti, eppure non riescono a fare
a meno di delinquere. Leggi tutto
Mario Tiberi dà un resoconto delle “Lezioni Federico Caffè 2015”, tenute da Paul De Grauwe, sul futuro dell’Eurozona. Tiberi ricorda le critiche di De Grauwe alle politiche di austerità, nate da un‘analisi inadeguata della recessione, troppo centrata sulla crisi dei debiti sovrani, e responsabili di molte conseguenze negative. L’alternativa è una politica fiscale espansiva, sorretta dalla piena affermazione della BCE come prestatore di ultima istanza. Tiberi conclude sottolineando la sintonia del ragionamento di De Grauwe con valutazioni presenti nei lavori di Caffè
Gli allievi di Federico
Caffè, appartenenti al Dipartimento di Economia e Diritto
della Università di Roma “La
Sapienza”, hanno deciso, oramai da molti anni, di onorare la
sua memoria con una serie di lezioni annuali, a lui intitolate
e rivolte a studiosi
e studenti. Le lezioni – che si avvalgono del contributo della
Banca d’Italia, dove Caffè ha ricoperto importanti incarichi –
sono tenute da autorevoli economisti stranieri ed italiani e
intendono approfondire argomenti cari a Caffè: economia del
benessere e teoria
della politica economica; problemi epistemologici; moneta e
finanza; occupazione e politiche sociali; questioni
internazionali. Le lezioni sono state
tenute, tra gli altri, da tre premi Nobel (Solow, Stiglitz
ed Arrow) e da alcuni dei più prestigiosi economisti italiani
(Sylos
Labini, Graziani e Pasinetti).
Il relatore di quest’anno, è stato il Professor Paul De Grauwe. Belga di nascita, De Grauwe ha ricoperto incarichi prestigiosi, prima all’Università di Lovanio e, attualmente, come John Paulson Chair in European Political Economy, presso la London School of Economics. Egli è ben conosciuto anche in Italia, in parte grazie al suo manuale “Economia dell’Unione monetaria” che è un testo d’esame in numerosi corsi universitari. Non è un caso, quindi, che molti studenti abbiano contribuito ad affollare l’Aula della Facoltà di Economia, dove De Grauwe, il 10 e 11 dicembre, ha svolto le sue lezioni su un tema a lui congeniale: ”Il retaggio della crisi dell’Eurozona e il futuro dell’euro”. Leggi tutto
In Materialismo ed
Empiriocriticismo Lenin cita il teorico marxista, operaio
autodidatta, Joseph Dietzgen, giudicato con apprezzamento
anche dallo stesso Marx:
<<All’”equivoco” degli universitari liberi pensatori, Dietzgen avrebbe preferito volentieri “l’onestà religiosa”: qua almeno “c’è un sistema”, ci sono degli uomini completi che non separano la teoria dalla pratica. Per i signori professori “la filosofia non è una scienza, bensì un mezzo di difesa contro la socialdemocrazia”. “Professori e ordinari, tutti coloro che si dicono filosofi, cadono, più o meno, malgrado la loro libertà di pensiero, nei pregiudizi, nella mistica … Nei riguardi della socialdemocrazia tutti costoro non formano che una massa reazionaria. Occorre, per seguire il buon cammino senza lasciarsi smontare dalle assurdità religiose o filosofiche, studiare la più falsa delle vie false (den Holzweg der Holzwege), la filosofia”>>.
In Lenin e la filosofia Althusser interpreta la posizione di Lenin come un modo alternativo di fare della filosofia, in corrispondenza allo spunto fornito da Marx: invece di “ruminare nella filosofia” si tratterebbe, infine, di praticarla. Questo diverso modo di “professarla” porterebbe come conseguenza a riconoscere che la filosofia non è <<altro che politica investita in un certo modo, politica proseguita in un certo modo, politica rimuginata in un certo modo>>. A questo punto Althusser pone il problema cruciale su cui ci si è scontrati innumerevoli volte che concerne la natura prevalentemente filosofica o scientifica del marxismo. Per questo blog il problema sembrerebbe ormai superato: tutti noi, che condividiamo l’impostazione di base centrata sulle riflessioni teoriche di La Grassa, pensiamo che Marx sia stato un teorico (scienziato) della società che soltanto in gioventù si è anche un pochino occupato di filosofia. Leggi tutto
A seguito
degli attacchi di Parigi, quali sono le tragiche e più
logiche
conseguenze di una guerra senza confini fisici? Arun
Kundnani, autore di The Muslims are coming! edito
da Verso, si occupa di terrorismo e di
politiche di contrasto all’estremismo nel Regno Unito e
negli Stati Uniti. In questa intervista spiega e critica le
ramificazioni della guerra
al terrore, partendo dalla retorica – liberale o
conservatrice – utilizzata da intellettuali e commentatori,
e arrivando alle teorie sul
radicalismo che hanno alimentato i programmi antiterrorismo
in Occidente. Secondo Kundnani, l’unica vera alternativa al
jihadismo è
rappresentata da una politica anti-razzista,
anti-imperialista e anti-capitalista.
***
Il mondo intero è adesso una zona di guerra? E come si relaziona questa idea con la retorica della guerra al terrore?
La promessa della guerra al terrore era che noi saremmo andati ad ammazzarli “laggiù” così che loro non ci avrebbero ucciso “quaggiù”: la violenza di massa in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Palestina, Yemen e Somalia – è stata compiuta in nome della pace in Occidente. “L’autorizzazione a utilizzare la forza militare”, approvata dal Parlamento americano dopo l’undici settembre, aveva già identificato nell’intero globo il campo di battaglia per la guerra al terrore; e Obama continua a farsi forte di ciò per conferire una parvenza di legalità al suo programma di uccisione tramite droni.
Leggi tuttoCon l’accordo di Parigi, i paesi maggiormente responsabili del cambiamento climatico hanno sorprendentemente sostenuto l’obiettivo di cercare di limitare l’aumento di temperatura globale a 1,5 gradi centigradi. Questo implicherebbe una riduzione delle emissioni di più dell’80 per cento entro il 2030: un’eventualità che però gli stessi governi rifiutano. Per attenersi all’accordo della Cop21 ricorreranno quindi ad altri strumenti: geoingegnerie, tecnologie ad alto rischio come il nucleare, incremento del mercato del carbonio e anche peggio, come la manipolazione della radiazione solare. Un percorso che va smantellato subito. “Non si tratta di ridurre, non si tratta di obiettivi bassi, non si tratta di affrontare il cambiamento climatico – scrive Silvia Ribeiro – Non sono false “soluzioni”. Sono menzogne”
Uno dei temi più critici nella riunione globale della Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico che si è conclusa a Parigi il 12 dicembre (Cop21), è stata la definizione di un nuovo limite al riscaldamento globale che non andrebbe superato.
Paesi insulari e altri paesi del terzo mondo, è da anni che rimarcano che non sopravviveranno a un riscaldamento globale superiore a 1,5 gradi centigradi poiché il loro territorio scomparirebbe per l’innalzamento del livello del mare e per altri catastrofi. Argomenti più che degni di considerazione che si sommano al fatto che non sono questi i paesi che hanno causato il cambiamento climatico.
La temperatura media globale è aumentata di 0,85 gradi centigradi nell’ultimo secolo, per la maggior parte negli ultimi quarant’anni, a causa delle emissioni di gas serra (Gei), di diossido di carbonio (CO2) e di altri gas, dovute all’uso di combustibili fossili (petrolio, gas, carbone), soprattutto per la produzione di energia, per il sistema alimentare agro-industriale, l’urbanizzazione e i trasporti. Leggi tutto
La menzogna politica è una tossina che trasforma in profondità un paese, alimentando disorientamento e cinismo. E la democrazia rischia di andare in malora
La politica in democrazia si affida a due funzioni fondamentali: l’esercizio di un potere legittimo (fondato sul consenso della maggioranza) e la produzione di narrazioni pubbliche. Il rapporto tra queste due funzioni costituisce un buon criterio di giudizio sulla qualità di un governo.
Quanto maggiore è la distanza tra l’una e l’altra (quanto meno attendibili sono le informazioni diffuse dal governo in merito ai propri obiettivi e alla situazione reale del paese), tanto minore è la legittimità sostanziale di un governo. Il quale si pone fuori dal quadro democratico se, nel perseguire i propri disegni, si affida alla menzogna politica, deformando per questa via l’esercizio della sovranità popolare. Stando così le cose, si può sostenere che il governo in carica è un esempio di violazione dei principi democratici, benché i critici che si ostinano ad affermarlo siano sempre meno numerosi (e sempre più rassegnati).
Naturalmente il governo Renzi è un paradigma di potere antidemocratico in primo luogo per i suoi obiettivi. Renzi e i suoi sodali non fanno altro, da quasi due anni, che attaccare diritti e condizioni materiali del lavoro dipendente, smantellando tutele giuridiche e contrattuali e conquiste salariali strappate in decenni di lotte. Non fanno altro che bombardare lo Stato sociale (la sanità; il sistema pensionistico, ormai tra i più iniqui d’Europa; i meccanismi di salvaguardia del diritto allo studio) e le condizioni di vita dei meno abbienti, circuìti con l’uso circense del denaro pubblico in funzione di mancia elettorale. Leggi tutto
Immaginiamo che in una città siano stati tolti i limiti di velocità per le automobili, che siano stati aboliti gli stop agli incroci e messi sul giallo tutto i semafori; e che, in nome della velocità di scorrimento del traffico, si diano premi agli automobilisti che corrono di più. In un tale ambiente di pazzi suonerebbe un poco ipocrita il compianto per le vittime degli inevitabili, catastrofici, inc identi stradali. È ipocrita allo stesso modo il compianto ufficiale per il povero pensionato che si è suicidato, perché derubato dei propri risparmi investiti in obbligazioni subordinate cancellate dal decreto salvabanche.
L'ipocrisia per questo suicidio è doppia. In primo luogo perché sembra ignorare le centinaia di piccoli imprenditori, lavoratori, debitori che si sono uccisi in questi anni di crisi e di politiche di austerità. In Italia abbiamo statistiche per tutto, ma pare manchi un dato sulla strage per crisi economica; e non è un caso. Si vuole far passare il massacro di persone che non hanno retto al disastro economico e alla precarizzazione delle loro vite e di quelle dei loro cari come una serie di casi individuali. Invece la strage per suicidio economico è un evento collettivo, è il prodotto di una politica frutto di precise scelte e responsabilità, che ne dovrebbero sopportare tutto il peso criminale.
In secondo luogo è ipocrita far credere che il povero pensionato sia stato travolto da una scheggia impazzita del sistema. No, è tutto il sistema che è impazzito come la città folle di cui abbiamo scritto all'inizio. Leggi tutto
Donald Trump è uno degli uomini più ricchi del mondo. Attualmente è anche il favorito nelle primarie per decidere il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. Trump ha causato scandalo e indignazione negli ultimi mesi con una serie di dichiarazioni su minoranze e immigrati. In varie occasioni ha bollato neri e ispanici come criminali, ladri, stupratori. Recentemente ha cominciato ad attaccare i musulmani, che secondo lui, quando non direttamente coinvolti in azioni di terrorismo, sarebbero comunque simpatizzanti dei gruppi terroristici che si richiamano all’Islam.
Il politologo Jeffrey Winters argomenta che, in secoli passati, gli oligarchi tenevano in mano le leve del potere politico e militare in prima persona, ed era così che accumulavano e difendevano i loro enormi patrimoni. A quel tempo gli oligarchi erano spesso re, principi, o comunque capi militari con accesso diretto agli strumenti di coercizione degli stati. Al contrario, nel contesto contemporaneo gli oligarchi normalmente evitano il coinvolgimento in prima persona nelle vicende politiche e militari, che comporta sempre dei rischi. Preferiscono limitare la loro esposizione, e preferiscono che siano invece i governi e i rappresentanti eletti ad agire a protezione dei loro interessi, tramite gli strumenti della politica economica e della politica militare. Come mostrato anche da diversi studi empirici, anche quando democraticamente eletti, governi e rappresentanti finiscono spesso per promuovere gli interessi delle oligarchie economico-finanziarie (domestiche o estere che siano), verosimilmente perché devono operare sotto le loro influenze, pressioni, e sotto i loro vincoli. Leggi tutto
Avvertenze per l’uso: questo è un articolo politicamente scorretto, poche righe per dire che la Conferenza sul clima COP21 è stato un grandissimo circo mediatico. Chi vuol farsi prendere per il “COP” faccia pure
Ecco che finalmente dopo giorni e giorni di faticoso dibattito si è arrivati all’annuncio dello “Storico accordo per salvare il pianeta“, “salvare il pianeta”, manco fosse arrivato un super eroe, una frase che può pronunciare solo gente che ha visto troppi film della Marvel. Ma non basta, si è deciso che non ci accontentiamo più di limitare l’aumento della temperatura a 2 gradi centigradi entro il 2100, nossignore, vogliamo stupire con effetti speciali limitando l’aumento a meno di 2 gradi, possibilmente a 1,5. Ma sì, proprio una bella idea, che poi mettiamo la scritta sulla Torre Eiffel che fa tanto bene al turismo: 1.5 degrees.
E così scopriamo che abbiamo trovato il termostato del pianeta, un po’ come a casa quando hai il riscaldamento autonomo, una giratina alla rotellina coi gradi e sei a posto. In questo modo ridurremo le emissioni di CO2, finalmente quel dannato 5% che emettiamo (il restante 95% è di origine naturale) scenderà di uno zero virgola qualcosa e il pianeta sarà salvo… L’entusiasmo è stato grande, come riporta Rai News “Molte persone, uscite dalla plenaria del centro congressi di Le Bourget, facevano il segno della vittoria“, quasi duecento paesi si sono trovati d’accordo nel continuare sostanzialmente a lasciare usare i combustibili fossili al nord del mondo e pagare il sud perché continui a non usarli. Leggi tutto
“Oggi giorno internet
fa schifo. È un progetto fallito. Probabilmente lo è sempre
stato, ma oggi è più
fallito che mai.”
La mia conversazione con Peter Sunde, uno dei fondatori e portavoce di The Pirate Bay, non è cominciata con toni particolarmente ottimistici. E c’è un buon motivo: nell’ultima manciata di mesi, la cultura contemporanea del download ha mostrato gli evidenti segni di una sconfitta nella battaglia per la libertà di internet.
Lo scorso mese abbiamo visto scomparire Demonii. Era il più grande torrent tracker presente su internet, responsabile di oltre 50 milioni di tracker all’anno. Inoltre, l’MPAA ha oscurato YIFY e Popcorn Time. Dopodiché si è venuto a sapere che il Dutch Release Team, un grosso collettivo di uploader, era invischiato in una battaglia legale con il gruppo anti-pirateria BREIN.
Anche se sembra che gli utenti del protocollo torrent stiano ancora combattendo questa battaglia, per Sunde la realtà è molto più dura: “Abbiamo già perso.”
Nel 2003 Peter Sunde, assieme a Fredrik Neij e Gottfrid Svartholm, ha aperto The Pirate Bay, un sito internet che sarebbe diventato il più grande e famoso nucleo di file sharing del mondo. Nel 2009, i tre fondatori furono condannati per avere “assistito [altre persone] nell’infrazione del diritto d’autore” in un processo molto discusso. Leggi tutto
La stampa occidentale parla poco delle operazioni militari in Siria se non per dire senza alcuna prova che la Coalizione avrebbe bombardato con successo i jihadisti dell'Isis (Daesh), mentre la Russia avrebbe ucciso dei civili innocenti. È davvero difficile farsi un'idea della situazione attuale, tanto più che ogni parte prepara le sue armi in vista di un confronto più ampio. Thierry Meyssan descrive qui lo scenario che si sta profilando
Il
silenzio che circonda le operazioni militari in Iraq e in
Siria non vuol dire che la guerra si sia interrotta, ma che i
diversi protagonisti si stanno
preparando a un nuovo round.
Le forze della Coalizione
Sul versante imperiale rimane la più grande confusione. Sulla base delle contraddittorie dichiarazioni dei leader americani è impossibile comprendere gli obiettivi di Washington, se ce ne sono. Al massimo risulta che gli Stati Uniti lasciano che la Francia prenda l'iniziativa a capo di una parte della Coalizione, ma ancora se ne ignorano gli obiettivi reali.
Certo, la Francia dichiara di voler distruggere l'Isis (Daesh) per rappresaglia dopo gli attacchi del 13 novembre a Parigi, ma l'aveva già affermato prima degli attentati. Le dichiarazioni precedenti rientravano nella comunicazione, non nella realtà. Così la petroliera Mecid Aslanov, proprietà della società BMZ Group di Bilal Erdoğan (figlio del presidente turco), il 9 novembre 2015 ha lasciato il porto francese di Fos-sur-Mer dopo aver impunemente consegnato del petrolio che si garantiva essere stato estratto in Israele, ma che in realtà era stato trafugato dall'Isis in Siria. Nulla autorizza a pensare che oggi le cose siano cambiate e che si dovrebbero prendere sul serio le ultime dichiarazioni ufficiali. Leggi tutto
Nel suo visionario They
Live del 1988 John Carpenter raccontava di alieni che
tenevano il nostro mondo sotto controllo
colonizzando il desiderio e l'immaginario di milioni di
americani: comprate, obbedite e, soprattutto, dormite! erano
queste le ingiunzioni trasmesse
da un flusso ininterrotto di informazioni e persuasioni
occulte diffuse nella metropoli e che solo occhiali forniti di
lenti speciali riuscivano a
disvelare. Eravamo in piena epoca reaganiana e thatcheriana,
la controrivoluzione neoliberista andava all'assalto dei cuori
e delle anime delle
persone (bisognava farlo, questo era il vero e autentico
obiettivo della controrivoluzione neoliberista, così sosteneva
esplicitamente la lady
di ferro Margaret Thatcher), una controrivoluzione che voleva
cambiare radicalmente le anime e i cuori colonizzando appunto
il desiderio e
l'immaginario delle persone (quella neoliberista, è bene
sottolinearlo, è stata una vera e propria rivoluzione
antropologica,
magnificamente restituita nella sua radicalità e violenza
estirpatrice da un altro film più recente, Tony Manero,
del 2008,
opera del cileno Pablo Larraín). Lo spettacolo della merce era
allora un'ideologia potente che solo un visionario come
Carpenter poteva
restituire in tutta la sua radicalità e violenza
extra-mondana. E benché la resistenza, come quella del
protagonista del film l'operaio
disoccupato John Nada, sia sempre possibile, perché
ricordiamolo il capitale non è un Moloch totalitario ma sempre
una relazione
conflittuale, è anche vero che la colonizzazione è andata
avanti, gli zombi dell'altro mondo vivono ancora tra noi e
hanno infranto da
tempo un'altra barriera, quella del sonno. Dicevamo prima che
una delle ingiunzioni trasmesse ossessivamente dagli alieni,
la più importante
probabilmente, era quella che invitava a dormire, «dormite!» e
non pensate appunto, e qui è allora opportuno ricordare anche
le
straordinarie righe con cui si apre un romanzo italiano
pubblicato nel 1989, Le mosche del capitale di Paolo
Volponi: Leggi tutto
Ali Al Aswad, ex deputato di opposizione nel regno del Bahrein, attualmente rifugiato a Londra per ragioni di sicurezza, ha partecipato a Roma il 12 dicembre al convegno La causa, organizzato dall’associazione Amici del Libano in Italia e da varie sigle del movimento. A margine, abbiamo rivolto ad Ali Al Aswad alcune domande.
- Repressa manu militari, la rivolta pacifica di piazza della Perla a Manama ha goduto nei media mainstream di una risonanza ben inferiore a quella riservata alle rivoluzioni in Egitto e Tunisia, e alla falsa primavera in Libia. Eppure, è stata davvero di massa….
Sì, davvero! E non solo a Manama ma in ogni angolo del paese. Chi era presente – anche alcuni italiani, ndr - lo sa bene. Fino all’ultimo dei villaggi, persone di ogni età e di ogni ceto si riversarono in strada, per giorni e giorni, prima dell’arrivo dei carri armati del Consiglio di cooperazione del Golfo, per l’operazione “Scudo nel deserto” capitanata dai sauditi. La manifestazione più imponente vide in strada 350mila persone: come se in Italia manifestassero in oltre trenta milioni…visto che i bahreiniti sono meno di 600mila.
- Quelle del 2011 erano rivendicazioni della grande maggioranza sciita, contro una monarchia sunnita?
No, non solo. C’erano anche sunniti in piazza. E’ un gioco facile quello di contrapporre i due gruppi religiosi musulmani. Magari per evocare l’interferenza iraniana. Leggi tutto
I lepenisti hanna perso in tutte le regioni, ma restano la prima forza politica nazionale. E domani, l’arco repubblicano che è riuscito a fermarne l’ascesa potrebbe non bastare. Torna in mente lo scenario distopico di quel 2022 raccontato in Sottomissione. Oggi meno surreale di un Sarko o un Hollande redivivi contro Marine
E se Michel Houellebecq avesse previsto tutto questo? Rileggere dopo il doppio turno delle elezioni regionali francesi Sottomissione, il suo romanzo uscito a inizio anno, lo stesso giorno dell’assalto terroristico alla redazione di Charlie Hebdo, e quasi universalmente letto come profezia fantapolitica del successo in Europa dell’islam politico, provoca uno strano effetto. Tanto da far emergere l’idea che la parte più significativa del libro non sia la seconda ma la prima, quella in cui descrive il successo di Marine Le Pen al primo turno delle presidenziali, in un ipotetico 2022.
Come dice François, l’alienato protagonista di Sottomissione, tra i due turni di quelle elezioni collocate in un futuro prossimo: «Quando tornai in facoltà per fare lezione ebbi per la prima volta la sensazione che potesse succedere qualcosa; che il sistema politico nel quale mi ero abituato a vivere fin dall’infanzia, e che da un bel pezzo si stava palesemente incrinando, potesse esplodere di colpo.»
Il primo, radicale, elemento di tale incipiente esplosione è la straripante avanzata del Fronte nazionale e di una leadership successiva all’uscita di scena dell’anziano leader fascista e antisemita Jean Marie Le Pen. Cosa fa il sistema politico francese quando figlie e nipoti del vecchio Le Pen vincono nettamente al primo turno? Il ricorso all’arco repubblicano è ancora possibile? Leggi tutto
Il tasso di mortalità dei paesi occidentali è diminuito molto durante il XX secolo. All’inizio del 1900 negli USA ed in Europa difficilmente si superavano i 50 anni. Oggi papà e mamma hanno la ragionevole speranza che la loro figlioletta supererà gli 80 anni. Pensare però che vite più lunghe e migliori siano un destino segnato e come tale irreversibile sarebbe un grosso errore. La salute, e quindi la quantità e qualità di vita, sono il prodotto di una combinazione di molteplici fattori, tra i quali spiccano i “determinanti sociali”. Che società più eguali e più coese siano anche più sane, e quindi migliori, è una tesi sostenuta da molti studiosi e dimostrata in molti lavori (“ The Health Gap”, “La misura dell’anima”, “Social Epidemiology” etc.).
Questo implica che l’aumento delle disuguaglianze, delle ingiustizie, delle tensioni sociali si traduce in un peggioramento della salute.
Bene, negli USA il tasso di mortalità tra i bianchi non-ispanici di età compresa tra i 45 ed i 54 anni ha smesso di diminuire a fine anni ’90, e da allora è costantemente cresciuto. Oggi infatti la probabilità che un bianco di mezza età muoia è più alta che 20 anni fa. Se il trend verso un più basso tasso di mortalità non si fosse invertito, negli USA sarebbero morte mezzo milione di persone in meno negli ultimi 14 anni. Questo è quanto riportato da due ricercatori di Princeton sulla prestigiosa rivista scientifica “Proceedings of the National Academy of Sciences”, e ripreso da un articolo di J. Stiglitz dal titolo “Come l’austerità uccide”.
Leggi tuttoIo lavoro per un grande gruppo bancario italiano e faccio il gestore. In parole semplici sono uno di quelli che vi trovate dietro la scrivania quando volete aprire un conto corrente, quando chiedete un prestito o un mutuo e soprattutto quando volete investire i vostri risparmi.
Da quando è scoppiato lo scandalo del decreto “salva banche” e sopratutto dopo il suicidio del pensionato che ha perso tutti i suoi risparmi, nelle filiali è un continuo via vai di clienti che vogliono essere rassicurati rispetto ai propri investimenti. Sono giorni che sento i colleghi ripetere sempre la stessa storiella, che poi è quella suggerita dall’azienda e ripetuta dai giornali, ovvero che il problema è circoscritto, che i nostri clienti non corrono nessun rischio e che alla fine coloro che hanno perso i propri risparmi li hanno persi o perché sono degli ingenui e hanno firmato senza leggere oppure perché sono stati avidi e hanno sottoscritto prodotti rischiosi per ottenere mirabolanti rendimenti.
Questa però per l’appunto è una storiella che non rispecchia assolutamente la realtà dei fatti e pertanto, preso dalla rabbia, ho scritto sei verità su come le banche gestiscono i piccoli risparmiatori che difficilmente televisioni e giornali vi racconteranno.
1. Le vittime dei piani di “salvataggio” sono per lo più piccoli risparmiatori. La maggior parte di questi sono pensionati con depositi fino a 100.000 euro, frutto solitamente della liquidazione e dei risparmi di una vita. Sono i soldi che speravano di dare ai figli per comprare casa e metter su famiglia oltre ad essere una garanzia per la propria vecchiaia. Leggi tutto
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Viaggio nella crisi. Parte VIII. Uno scenario importante dello scontro interimperialistico in atto si sta in questo momento giocando nella realizzazione di alcuni grandi trattati sovranazionali in cui la strategia statunitense punta a realizzare l’accerchiamento della Cina, la subordinazione dell’Ue e l’isolamento della Russia, con tutta una serie di conseguenze nel processo di ulteriore subordinazione della classe lavoratrice in tutto il mondo
Accordi di libero
scambio, barriere non tariffarie e Isds
Lo scontro interimperialistico fra i principali attori (Usa, Ue, Cina, Russia) si va sempre più delineando attraverso un processo di potenziale “concentrazione imperialistica” attorno ad alcune aree imperialistiche sovranazionali. Scontro a livello transnazionale con un grande processo di ricollocazione della divisione internazionale del lavoro. Le trattative relative al Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) e al Trans-Pacific partnership agreement (Tppa) sono espressione rilevante di questo scontro. Per comprenderne la reale portata e gli obiettivi questi accordi vanno collocati all’interno della strategia statunitense di scontro con la Cina.
Il Ttip ha come obiettivo di realizzare l’unione di due delle economie più ricche al mondo e delle rispettive aree valutarie, quella del dollaro e quella, maggiormente in difficoltà, legata all’euro. Le consultazioni Usa-Ue sono iniziate più di due anni fa, ma lo scontro interimperialistico all’interno dello stesso Ttip è forte, nonostante gli Usa abbiano cercato di sfruttare il momento di debolezza dell’Ue per la realizzazione di un progetto che torna soprattutto a loro vantaggio. Le trattative sono segrete e condotte dai funzionari della Commissione europea e da quelli del Ministero del commercio statunitense con le lobby delle grandi multinazionali.
Gli obiettivi finali del Ttip (e dello speculare Tppa) sono riassumibili fondamentalmente in tre punti principali: Leggi tutto
Nel resort
marocchino di Skhirat è stato firmato il 17 dicembre
l’accordo per la nascita di un governo d’unità
nazionale libico: il documento, non ratificato dai
parlamenti di Tobruk e di Tripoli ha il valore della carta
straccia ed il nuovo esecutivo
patrocinato dagli angloamericani attraverso l’ONU ha
l’unico scopo di chiedere un intervento militare
internazionale in Libia.
Washington e Londra non hanno alcun desiderio di
pacificare il Paese e lavorano per la propagazione
dell’ISIS nell’intero Nord Africa:
come in Siria, Ankara e Doha collaborano introducendo i
miliziani e contrabbandando petrolio. Solo l’Egitto e la
Russia hanno l’interesse
ad evitare l’implosione dell’ex-colonia italiana, mentre
una coalizione internazionale a guida ONU la
trasformerebbe in una nuova
Somalia.
***
Un accordo di facciata, per coprire le vere intenzioni di Londra e Washington
Ha il sapore di una stanca riproposizione di un film già visto e rivisto, della messa in onda di un programma trito e ritrito, lo spettacolo proiettato il 17 dicembre nelle sale del resort di Skhirat, località balneare della Marocco bene: dopo mesi di estenuanti trattative è firmato l’accordo per la nascita di un governo d’unità nazionale libico, presieduto dal premier Faiez Al-Serraj. Leggi tutto
Dopo l’unione monetaria,
un’altra sciagura incombe sull’Europa: l’unione bancaria, il
sistema unificato di vigilanza sulle banche nazionali.
Il suo avvio è stato preceduto lo scorso anno da una misura destinata a stimare lo stato di salute delle varie banche, a tal fine sottoposte a uno stress test. L’idea non era malvagia, giacché la speculazione finanziaria cui si sono dedicate, e tutt’ora si dedicano, costituisce una delle principali cause della drammatica crisi che stiamo vivendo. Stupisce però che l’Europa sia molto preoccupata della tenuta delle banche, ma nel contempo conduca politiche che portano al dissesto dei sistemi di sicurezza sociale, almeno altrettanto indispensabili a fronteggiare la crisi. Se quei sistemi fossero sottoposti a stress test, emergerebbe ciò che si vede a occhio nudo: che la perdita di posti di lavoro, incredibilmente affrontata con la precarizzazione e la svalutazione del lavoro, richiede di lenire la macelleria sociale con risorse decisamente più ambiziose di quelle contemplate dal culto dell’austerità.
Stupisce poi che, per fronteggiare la finanziarizzazione dell’economia, la politica richieda la solidità patrimoniale di chi la incalza, invece di vietare le pratiche che si reputano dannose. Evidentemente si sconta qui uno dei principali limiti ideologici del neoliberalismo, che non ammette ostacoli alla libertà di mercato, pensando che per tutelare i cittadini sia sufficiente imporre freddi standard qualitativi o meri obblighi informativi.
Leggi tuttoÈ probabile
che le profonde contraddizioni interne al capitalismo
precipiteranno l’intero pianeta in una
crisi sempre più drammatica, segnata da un intensificarsi
ulteriore di guerre, terrorismi, oppressione e sfruttamento.
Gli sviluppi
dell’aggressione militare in Medio Oriente per il controllo
delle risorse energetiche e della guerra al terrorismo
dell’Isis non
promettono nulla di buono. La natura costituente della crisi,
che sta originando una radicale riorganizzazione dei processi
produttivi, è
dimostrata dall’impossibilità, da parte degli interessi delle
forze dominanti, a operare, a livello nazionale e
internazionale, forme di
mediazione sul terreno della redistribuzione della ricchezza
sociale o della stessa gestione dei rapporti di potere
economico e politico.
D’altra parte, è pur vero che possono aprirsi, all’interno di
questo scenario catastrofico, tenui spiragli alla critica al
sistema
capitalistico, sebbene i rischi di derive reazionarie e
regressive (si veda il voto tributato a Marie Le Pen alle
ultime elezioni regionali in
Francia) non possano essere per nulla sottovalutati. A patto
che, una volta elaborata l’analisi sulle cause della crisi
economica e di
civiltà, si sia in grado di avanzare un progetto alternativo
di società capace di unificare i conflitti, le lotte e i
numerosi focolai
di rivolta per dare luogo a forme nuove e vitali di
aggregazione sociale.
Si tratta allora di lavorare alla costruzione di un progetto razionale che prenda atto, in primo luogo, della necessità di uno sforzo conoscitivo, per così dire di lunga durata, con il fine di costruire un’ipotesi di lavoro che sappia proporre uno sbocco produttivo, da una prospettiva democratica e comunista, alla questione del che fare. E dunque, è ancora possibile pensare a un’uscita dal capitalismo e alla costruzione di formazioni sociali che possano vivere e realizzare un processo di transizione verso il socialismo? E se sì, non è forse doveroso porre come condizione preliminare quella di riconoscere, senza per questo ricadere in attese messianiche come quelle in auge ai tempi della Seconda Internazionale, che questa urgenza deve essere un’ipotesi strategica capace di interessare tutta un’epoca storica? Gli scritti teorici di Mario Mineo (1920-1987), intellettuale di vaglia del panorama politico siciliano e palermitano della seconda metà del Novecento, si rivelano, da questo punto di vista, di inaspettata attualità. Leggi tutto
È solo l’economia reale che organizza l’opposizione al governo. Non certo il Movimento 5 Stelle, che mostra le intenzioni bellicose contro l’esecutivo della decostituzionalizzazione votando proprio per il giurista amico dell’Italicum. E festeggia per aver inviato alla Consulta un suo candidato moderato, un tempo politicamente vicino a Nicolazzi, il ministro che fece aprire uno svincolo sull’autostrada per raggiungere il paese d’origine.
E’ difficile stabilire se la maggiore fonte di inquietudine per il governo sia costituita dalle grane, per salvataggi, decreti e plusvalenze, in cui è incappata “la chierichetta” diventata ministro delle riforme, o dalla campana a ritmo lento che suona dalle parti di via dell’Astronomia. Il governo dei “senza retroterra” non è stato una buona idea uscita dal senno confuso dei poteri forti.
E ora anche la Confindustria certifica quello che tutti percepiscono nella loro vita reale. E cioè che ““lo psicologo in capo”, che intrattiene il pubblico con le slide e con le barzellette lo distrae per spingerlo alla fiducia a comando, non ha combinato nulla di costruttivo. Anzi ha peggiorato le cose, al punto che gli industriali, incassato oro contante grazie alle generose decontribuzioni, ammettono che «l’economia italiana, anziché accelerare, sta rallentando».
Il mito della velocità, del cambiamento di passo, mostra la corda. E si rivela una pura invenzione volontaristica. Per l’uscita dalla crisi non basta una sterile invocazione magica priva di ogni efficacia reale. Leggi tutto
Diritti e cittadinanza contro la torsione neoliberale del lavoro e del welfare. Recensione del libro Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo sociale oltre la subordinazione (ed. Derive Approdi) che sarà presentato il 19 dicembre alle ore 18 a Esc in occasione del festival L/ivre
Il saggio di Giuseppe Allegri e Giuseppe Bronzini, Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo sociale oltre la subordinazione (ed. Derive Approdi), è un contributo prezioso al dibattito politico e sindacale, sopratutto se lo analizziamo a partire dalla transizione che sta scuotendo il nostro Paese fallito. Attraverso il Jobs Act, completato dai decreti attuativi approvati nel corso del 2015, il governo Renzi-Poletti ha fatto in pezzi il diritto del lavoro, cancellando lo Statuto del 1970. Di più: complementari all'intervento sul lavoro, la riforma del sistema degli ammortizzatori sociali e il riordino delle politiche attive, che hanno cominciato a definire, anche in Italia, il regime neoliberale del welfare to work.
Il testo, a mezzo di una dettagliata restituzione del dibattito italiano ed europeo in merito, dedica massima attenzione a una pretesa che più di altre ha segnato la storia dei movimenti sociali italiani degli ultimi venti anni: liberare dalle «catene della subordinazione» l'accesso alla cittadinanza e alle tutele. Anni di lotte e ricerca politica sono stati spesi, non solo per il riconoscimento di diritti dentro la condizione del lavoro (precario, autonomo, impoverito), ma, sopratutto, per la costruzione di un nuovo welfare, universale e inclusivo: diritto comune, dentro i rapporti di lavoro (subordinato e non), e anche all'interno di quella zona d'ombra dove si alternano periodi di disoccupazione, lavoro nero, invisibile, intermittente. Leggi tutto
Siglato ieri l’accordo tra i due parlamenti, dopo giorni di rinvii e polemiche interne per via del disaccordo di molti rappresentanti di entrambe le autorità politiche. Gongolano Francia e Gran Bretagna, già pronte a intervenire
L’accordo “non ha alcuna legittimità” e i politici presenti “rappresentano solo se stessi”, eppure è stato siglato comunque. Lo hanno detto ieri, durante le consultazioni di Skhirat, i presidenti dei parlamenti di Tobruk e Tripoli prima di procedere alla firma: “Un governo come quello proposto dalle Nazioni Unite – ha avvertito il capo del Congresso nazionale di Tripoli Nouri Abusahmein – non è oggetto di consenso e non garantisce nemmeno il minimo necessario per assicurarne l’efficacia”. Eppure, nonostante la sostanziale inconciliabilità delle parti, l’accordo c’è stato.
La “storica firma”, come l’hanno definita Italia e Stati Uniti al summit di Roma domenica scorsa, avrebbe dovuto essere apposta mercoledì scorso, come previsto da una dichiarazione congiunta diffusa nella capitale italiana al termine dell’incontro tra i delegati libici, le potenze occidentali e gli attori regionali. Ma dopo un incontro tra i rappresentanti di Tobruk e Tripoli a Malta martedì, le parti avevano chiesto di posporre il tutto a giovedì, lamentando che l’accordo, così com’era, andasse contro la volontà del popolo libico.
Ieri sembrava che si fosse sul punto di posporre ancora la firma, e voci non confermate riferivano che i delegati di Tobruk avevano abbandonato le consultazioni dopo che erano emerse delle divergenze sui nomi da inserire nel Consiglio presidenziale che dovrebbe affiancare il premier scelto – o imposto – Aguila Saleh, presidente del parlamento di Tobruk. Leggi tutto
È la Spagna di oggi, ma sembra l'Italia di ieri. Di ieri perché ora abbiamo cancellato ogni balletto post-elettorale. Sia benedetto l'Italicum, davvero: ci sarà un vincitore chiaro. E una maggioranza in grado di governare. Stabilità, buon senso, certezze. Punto».
Il post di Renzi, a commento dei risultati delle elezioni spagnole, è stato riportato da tutti i media italiani senza una sola parola di commento. Come un fatto naturale, un'opinione ovvia, che si può solo condividere. Una mancata reazione che la dice lunga sulla fine ingloriosa del giornalismo italiano, lecchino per tradizione e vigliacco per scelta sempre rinnovata nei secoli (le eccezioni ci sono, ma per l'appunto sono eccezionali...). E che certifica anche la scomparsa di una cultura “democratico borghese” all'interno dell'establishment – sia politico che mediatico – di questo disgraziato paese.
Il post renziano infatti contrappone molto brutalmente democrazia e governabilità. La prima viene ridotta alla sola procedura elettorale, quindi a un meccanismo di selezione purchessia. La seconda è invece il vero e proprio “valore forte”, l'obiettivo cui sacrificare ogni altra considerazione o interesse. Detta ancora più brutalmente, la democrazia è “un lusso che non ci possiamo più permettere” (chissà chi l'ha detta per primo...), e quindi bisogna svuotare il parlamento di ogni prerogativa (com'è per quello europeo), perché dalla dialettica tra diverse forze politiche può uscire solo un pasticcio costato, oltretutto, troppo tempo. Leggi tutto
Ormai possiamo chiamarla crisi della democrazia o meglio: crisi della partitocrazia che ha sorretto l'attuale sistema
Ormai possiamo chiamarla crisi della democrazia o meglio: crisi della partitocrazia che ha sorretto l'attuale sistema. In Spagna nessuno dei partiti tradizionali - popolari (centrodestra) e socialisti - ha ottenuto la maggioranza assoluta. Come era accaduto in Italia nel 2013 e, a ben vedere, come è avvenuto poche settimane fa in Francia, dove per fermare l'avanzata di Marine Le Pen, Sarkozy e Hollande hanno dovuto coalizzarsi.
Fino ad alcuni anni fa, il sistema si reggeva sull'alternanza centrodestra/centrosinistra che permetteva di mantenere ai margini i partiti alternativi e di opposizione. Quindici anni di folli politiche europee hanno portato a una continua erosione delle sovranità nazionali e al simultaneo impoverimento delle economie reali, dunque all'esplosione dell'indebitamento e della disoccupazione, generando per la prima volta dal dopoguerra massicci e spontanei moti popolari di protesta, che si traducono in un crescente consenso per i movimenti politici alternativi.
La gente non crede più ai partiti tradizionali perché ne ha constatato l'impotenza. Chiede un cambiamento reale e, non trovandolo, segue Podemos e Ciudadanos in Spagna, la Le Pen in Francia, il Movimento 5 Stelle e la Lega in Italia. Leggi tutto
Alla fine la remontada
che si respirava e invocava da settimane c’è stata. Il
verdetto uscito ieri
delle urne di tutta Spagna ci consegna una parziale ma
decisiva remontada da parte di Podemos, che supera
il 20% dei voti totali ma non il
PSOE (22,11%), raggiungendo soltanto uno dei due obiettivi che
la rincorsa delle ultime settimane poteva porsi e ritrovandosi
così un gradino
sotto alla tradizionale forza di centro-sinistra nella
trattativa – improbabile – per un eventuale governo di
coalizione con gli stessi
socialisti. D’altra parte, la significativa attestazione
elettorale della formazione guidata da Pablo Iglesias è a
tutti gli effetti
decisiva nel sancire la fine del bipartitismo e dei meccanismi
della rappresentanza tradizionale che caratterizzano la Spagna
dal ’78 ad oggi.
Se il PP (Partito Popular) e PSOE vorranno ora governare
potranno farlo solo con un governo di larghe intese, magari
comprensivo di un appoggio
più esteso al centro, per esempio di Ciudadanos, sulla scia di
quanto accaduto in Italia nel febbraio 2013: un’opzione
sicuramente da
“ultima spiaggia”, dato l’esplicito rifiuto di questa
possibilità dichiarato in campagna elettorale da ambo, ma ad
oggi
quanto meno valutata da fazioni dell’uno e dell’altro partito
– a patto che Mariano Rajoy sia disposto a lasciare alla guida
di un
governo di Grosse Koalition la sua attuale vice-presidente
Sorana Saez de Santamaria. E’ Podemos e non Ciudadanos a
segnare la crisi definitiva
della “vecchia politica” spagnola e metterne a nudo la comune
vocazione neoliberale mascherata dalla chimera della stabilità
nazionale: la riforma della legge elettorale, l’indiscutibile
appartenenza della Catalogna alla Spagna, il rigoroso rispetto
dei vincoli di
bilancio europei e il sostegno nella guerra anti-IS sarebbero
i punti d’incontro per un governo di transizione a larghe
intese. Leggi tutto
1. Oggi ho comprato il
FQ per leggermi l'articolo di Alberto Bagnai sul salvataggio
delle ormai famose "4
banche".
Con l'occasione, nello sfogliare, con un comprensibile filo di angoscia, le pagine del giornale, mi sono imbattuto in un articolo che rappresenta il complemento del pezzo di Alberto, in quanto prospetta lo scenario molto più ampio del nostro futuro all'interno dell'Unione bancaria. Cioè, ben al di là delle "4-banche-4".
Di questo scenario abbiamo ampiamente parlato qui e qui (almeno...).
L'articolo in questione, non casualmente, è di Marco Palombi (pag.5): un giornalista fra i meno versati nella tiritera autorazzista e moralista che tende a nascondere, in tutti i modi, le assolutamente prevalenti cause euro-necessitate dell'attuale (strisciante e innescata) crisi bancaria diffusa.
Questa, come è utile sempre ripetere, è determinata dalla contrazione ("distruzione montiana"), per via di politiche fiscali €uroimposte, della domanda interna, e dalle conseguenti insolvenze nell'economia "reale",effettivamente alla base dell'attuale prospettiva di crisi sistemica bancaria, da sanare, appunto, con il bail-in (a carico nostro).
2. L'articolo di Palombi è "eloquente" perchè, in essenza, si limita a riportare (criticamente) alcuni significativi passaggi dell'audizione di Carmelo Barbagallo alla commissione finanze della Camera, svoltasi lo scorso 9 dicembre. Leggi tutto
Come vi ricorderete,
abbiamo già visto che il Jobs Act, lungi dall'essere un'idea
di Matteo, è
in realtà tutto made
in BCE. Molto succintamente - e rimandando a chi
ha spiegato con stupefacente chiarezza la questione: per
esempio qui - abbiamo anche notato come ciò
derivi dalla
circostanza che, in caso di perdita di competitività relativa
di un Paese, l'impossibilità di una svalutazione della moneta
comporta la
necessità di una svalutazione del lavoro.
Non a caso, quando vedo nelle sedi sindacali la bandiera con le stelline (il manto della Madonna: cosa che a me fa doppiamente male) reagisco così:
Siccome so che siete miscredenti e quando si afferma senza prove tendete ad alzare il sopracciglio, peggio di un San Tommaso qualunque, oggi porto le prove. Traduco, qui di seguito, un breve estratto del Bollettino Economico BCE n. 8 del 2015 (l'originale, lo trovate qui: guardatelo tutti, anche chi l'inglese lo fischia, perché nella traduzione - in quanto incapace informatico - non ho riportato i grafici e le tabelle. Ora una versione completa è pubblicata da "voci dall'estero").
Leggi tuttoOrmai siamo ai
bollettini di guerra, di una guerra postmoderna in cui implode
il cortocircuito tra «antico» e
«moderno», tra mezzi convenzionali (i bombardamenti, il
terrorismo, le rappresaglie, la propaganda, la
disinformazione) e nuove tecnologie
di distruzione (le campagne di comunicazione, i nuovi
armamenti hi-tech). Dietro la «strategia del caos», della
guerra di tutti contro
tutti (dalla geopolitica all’esercizio quotidiano del dominio
di potere sulle singole esistenze), un lucido e «antico»
disegno di
natura esclusivamente economica: la tenace resistenza del modo
di produzione capitalistico alla crisi del suo insostenibile
«modello di
sviluppo» che sta devastando il pianeta. Le devastazioni
strutturali, in nome delle necessità dei mercati finanziari
(l’«uovo
del serpente»), procedono in stretto rapporto con devastazioni
politico-culturali sempre più rabbiose: la supremazia
indiscutibile (da
non mettere in discussione) della «civiltà» dell’imperialismo
occidentale, lo svuotamento della democrazia formale a cui
contrapporre i «valori» della predazione economica e del
consumo forzato di merci, del malthusianesimo, della
xenofobia, la divisione
profonda tra le vittime della guerra economica e militare,
schierate come complici subalterni e «rifiuti» da schiacciare.
La guerra è apparentemente «a pezzi», in scenari geografici diversi, ma in realtà è globale, unificata da un modo di produzione complesso e articolato, con differenze al suo interno e retroterra storici che determinano strategie diverse. Leggi tutto
La geopolitica dell'oro nero è paradossale: ora sono in guerra potenze piene di petrolio che si vende in saldo sui mercati. Tutti i protagonisti principali del conflitto del Siraq sono grandi produttori. L'Iran, capofila del fronte sciita, l'Arabia Saudita, guida dei sunniti, gli Stati Uniti e la Russia.
Teheran è alleata di Mosca - una repubblica islamica insieme alla superpotenza cristiano-ortodossa - gli Stati Uniti, simbolo delle libertà occidentali, sono da oltre 70 anni i grandi protettori delle monarchie del Golfo, stati ultra-conservatori e nel caso dei sauditi l'emblema di una versione dell'islam ancora più retrograda di quella sciita iraniana.
Di questi Paesi solo gli Stati Uniti sono una democrazia, gli altri sono governati da forme più o meno spinte di autoritarismo. Le petro-monarchie, poi, sono proprietà di una famiglia, dinastie assolutiste dove non si svolgono elezioni e che appaiono persino più anacronistiche del Califfato di Al Baghdadi. Sono però clienti delle maggiori industrie belliche americane ed europee, azionisti delle nostre imprese e grandi investitori finanziari. Gli introiti del loro petrolio in parte tornano indietro perché sono clienti di primordine. E legati a doppio filo. Alcuni di queste pseudo-nazioni sono nate dopo che i loro fondi di investimento furono insediati a Londra negli anni Cinquanta: «prima dateci i soldi e poi avrete anche uno stato», era la regola dei britannici. Leggi tutto
E’ davvero strano come un premier completamente votato all’immagine e i suoi consulenti di comunicazione non abbiano compreso l’impatto drammatico che avrebbe avuto sull’opinione pubblica la vicenda delle quattro banche. Eppure era facile capire come dopo aver creato una fede assoluta nel “sistema” da rendere utopico qualsiasi cambiamento anche a fronte delle evidenze, il tradimento di qualche dogma e di qualche certezza di metafisica finanziaria non può che essere destabilizzante.
Ma questo non è che uno degli effetti del caos contemporaneo dove i disegni, le menzogne, le posizioni strumentali, gli interessi e i trucchi si allacciano e si confondono con l’incapacità di guardare oltre il catechismo liberista e i suoi misteri. Così per esempio la Federal reserve abbandona il costo zero del denaro e porta gli interessi in una fascia tra lo 0,25 e lo 0, 50 per cento proprio nel momento in cui la produzione industriale americana si schianta sui minimi del 2009, il commercio mondiale cala e la fiducia degli investitori Usa è ai minimi. L’unico dato buono è quello dell’occupazione, però la Yellen non può non sapere che i criteri con cui essa è calcolata non misurano la realtà, ma solo aspettative ideologiche e il livello di manipolazione politica: considerare occupato chi fa un’ora di lavoro alla settimana è una vera presa in giro e paradossalmente può far aumentare l’occupazione proprio nel momento in cui manca il lavoro vero. Leggi tutto
Una ditta italiana, la solita Trevi, ha vinto l’appalto per ricostruire la pericolante diga di Mosul, nella lontana Mesopotamia.
Per quelli che non sono esperti di geografia mediorientale, Mosul si trova al punto preciso di frattura del conflitto tra curdi e arabi, tra sunniti e sciiti, tra turcomanni e curdi, tra cristiani e musulmani, tra assiri e arabi, tra assiri e curdi, tra assiri e turcomanni, tra curdi del PDK e curdi del PUK (che qualche anno fa si sono fatti una guerra non da poco), tra turcomanni e arabi, tra musulmani e yazidi, tra yazidi filocurdi e yazidi anticurdi, tra curdi peshmerga e curdi pkk, tra arabi e iraniani, tra turchi e iraniani.
Tutti mirano al petrolio che sgorga da quelle parti, e che interessa poi anche a Israele, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi (che cercano di fare le scarpe al Qatar), Stati Uniti e Russia.
Ah, quasi quasi si dimenticava l’Isis, che da poco ha perso il controllo della diga a una forza unita di curdi PUK ed esercito iracheno sciita; pare che i curdi si stiano preparando per cacciare i propri alleati iracheni, che non riconoscono affatto che Mosul sia una città curda. Intanto, i curdi stanno cacciando dalla zona i civili (sunniti) che parlano arabo (almeno quelli sopravvissuti agli sciiti iracheni).
750 soldati italiani, sotto il fantasioso nome di Prima Parthica (in onore della legione che per secoli tenne la frontiera romana contro i persiani) stanno già addestrando i curdi peshmerga, per cui gli iracheni sapranno chi ringraziare. Leggi tutto
Sicché la Fed, per una volta, non ha deluso gli osservatori, anzi ha fatto esattamente quello che si aspettavano. Ha alzato di 25 punti base i tassi, praticamente a zero dal 2008, e i mercati, per ora festeggiano. I mercati, si sa, amano avere ragione. Salvo poi pentirsene. Anche perché ci sono alcuni fattori che sembrano proprio favorire i ripensamenti. Fra questi una situazione di debito internazionale denominato in dollari che non solo non si è normalizzata, ma anzi si è aggravata.
Gli ultimi dati diffusi dalla Bis, che al tema del credito denominato in dollari ha dedicato un interessante approfondimento nella sua ultima quaterly review, mostrano che la montagna di debito in valuta americana del settore non finanziario è cresciuta ancora da nove trilioni a quasi dieci; 9,8 per la precisione nel secondo trimestre del 2015. Una buona parte, circa 3,3 trilioni, sono debiti delle economie emergenti, non a caso divenute la principale preoccupazione degli osservatori internazionali, specie adesso che il calo del petrolio mette a rischio buona parte dei loro incassi fiscali e che la Fed ha avviato il rialzo i tassi. Evento quest’ultimo che, per quanto ampiamente previsto, condurrà questo debito lungo la terra incognita di un dollaro destinato ad apprezzarsi.
Sicché, giocoforza, gli osservatori aguzzano la vista e provano a far due conti. La prima cosa che viene fuori è una tabella molto analitica che riepiloga la situazione di 12 economie emergenti che da sole pesano oltre 2,8 trilioni di debiti in dollari, che sommano sia l’esposizione bancaria che quella derivante da emissioni obbligazionaria. Leggi tutto
“..si deve
concludere che la disciplina del bail in non
è sostenibile. Una prima prova di una parziale
applicazione di essa – solo cioè per quel che attiene alla
risoluzione delle
quattro banche, richiesta dalla Commissione Europea e che
comporta il previo addossamento delle perdite ad azionisti
e obbligazionisti subordinati -
dovrebbe essere idonea a farci capire quel che può
avvenire in un prossimo caso. La tutela del risparmio non
viene in tal modo pienamente
assicurata, in contrasto con l’art. 47 della Costituzione,
e, con tale mancanza, può essere travolta anche la tutela
della
stabilità sistemica”.
Angelo De
Mattia, “Le norme Ue sulle
risoluzioni bancarie vanno riviste. Il bail in è contrario
alla Costituzione”. Milano Finanza 15 dicembre 2015.
“Vedo invece un’Europa che cresce con
contraddizioni e
che quindi si muove un po’ a zig-zag con figli e
figliastri, una specie di Europa matrigna”.
Antonio Patuelli, Presidente ABI
(Associazione Banche Italiane), “Tempi lunghi per le
fusioni”, Milano Finanza 16
dicembre.
Chi pensa che la vicenda delle quattro banche fallite sia una
questione di truffe, malversazioni e raggiri si
sbaglia di grosso. Non è solo questo, è ben altro. Ha a che
fare con l’assetto europeo, con l’hausmanizzazione monetaria e
con il predominio tedesco nell’eurozona.
Partiamo da una decisione presa circa due anni fa, vale a dire l’Unione Bancaria. Con questo nuovo assetto, la Vigilanza è passata alla Banca Centrale Europea, con l’eccezione, guarda caso, delle Sparkassen e delle Landesbanken tedesche, al vortice della crisi bancaria del 2009.
Leggi tutto«L’ateismo
è
aristocratico».
Maximilien de Robespierre
«È
tempo di
sottrarre queste armi alla reazione. Ancor più, è tempo di
mobilitare contro il capitalismo, sotto la guida socialista,
le
contraddizioni dei ceti non contemporanei. Non si pensi qui
di farsi beffe in blocco dell’irratio, ma piuttosto
a occuparla, e da una
posizione che si intende di irratio un po’ più
seriamente dei nazisti e dei loro grandi capitalisti».
Ernst Bloch
«L’Islam per sua natura
non è compatibile con i valori di una società laica e
moderna». Le
diverse incarnazioni di questa massima vengono riproposte con
costanza ciclica da schiere di improvvisati esperti di Medio
oriente almeno dal 2001 a
oggi, in una lunga sequela di facce da Oriana Fallaci fino a
Michelle Houellebecq.
L’affermazione viene sempre
pronunciata con inoppugnabile certezza e supportata da stralci
del Corano. Dopo i fatti di Parigi il mantra si è fatto
ossessivo.
Un metodo efficace per testare la validità della tesi è sostituire la parola «Islam» con «ebraismo» e «Corano» con «Antico testamento», testo non privo di passaggi sanguinari atti al gioco: il più delle volte si otterrà un’affermazione schiettamente antisemita, che verrebbe condannata con fermezza nelle trasmissioni televisive e sulle pagine dei giornali che non si pongono il problema di ospitarla quand’è riferita alla fede islamica. Tanto per concludere il gioco, qualunque lettore oggettivo del Vangelo saprà facilmente applicare il medesimo ragionamento anche al cristianesimo.
È superfluo specificare che la tesi non è del tutto infondata: in tutte le religioni abramitiche si trovano forme di conflittualità con la modernità e con la visione del mondo scaturita dal secolo dei Lumi. Pensare però che delle tre l’Islam sia l’unica portatrice di una refrattarietà incurabile al moderno impedisce di comprendere i moventi della tempesta in atto. Leggi tutto
I comunisti hanno bisogno oggi in Italia di definire un programma massimo, sulla cui base rifondare un partito comunista all’altezza delle sfide del XXI secolo, e di un programma minimo a partire dal quale costruire un fronte unico antiliberista e anticapitalista. Tale fronte deve essere costruito a partire dai conflitti sociali e non nella prospettiva di semplice occupazione degli incarichi nelle istituzioni borghesi. Altrimenti i comunisti non potranno vincere la decisiva lotta con le forze democratiche piccolo-borghesi con cui dovranno necessariamente fare i conti nel fronte unico
Il senso comune del
popolo di sinistra ritiene un valore essenziale per battere le
destre, da troppi anni dominanti,
l’unità della sinistra. Troppo spesso, però, il termine
“sinistra” proprio perché noto non è in
realtà conosciuto. Dal punto di vista empirico, al quale si
ferma il senso comune sotto l’influenza dei mezzi di
comunicazione di massa,
è di sinistra chi si autodefinisce tale. Tanto più che
storicamente il termine, come una parte significativa degli
elementi costitutivi
della filosofia moderna, è sorto con la consuetudine
sviluppatesi durante la Rivoluzione francese, per cui gli
esponenti più
progressisti del parlamento occupavano l’ala dell’assemblea
legislativa posta a sinistra del suo presidente.
In tal modo però l’identità della sinistra resta piuttosto incerta, in quanto è troppo soggetta ai diversi rapporti di forza fra le classi sociali e alle diverse forme di selezione dei deputati nelle assemblee legislative. Così, già nel corso della Rivoluzione francese, a seconda del prevalere nelle sue diverse fasi delle componenti più radicali o moderate e del conseguente mutare delle modalità di selezione dei rappresentanti mutava in modo sostanziale il contenuto concreto dei termini destra e sinistra. In altri termini, in fasi molto progressive anche alla destra del presidente dell’assemblea prenderanno solitamente posto esponenti del centro sinistra, mentre in fasi come la nostra di Restaurazione anche nei banchi di sinistra troveranno posto esponenti del centro destra. Leggi tutto
La mia frequentazione di Armando Cossutta ebbe inizio con il primo dei Congressi del PCI morente (1989/90). Erano appena nate le tre mozioni. I dirigenti della mozione 2 mi «smistarono» sulla 3, quella di Cossutta e Libertini, forse perché non gradivano la mia lontananza dalle genericità ingraiane.
Cossutta ne fu ben lieto. Dopo alcuni anni di Pdup, mi ero iscritto soltanto nel 1988 al Pci perché mi sembrava doveroso impegnarmi a contrastarne il declino. E imparai a conoscere, nella breve e intensa vicenda di quegli anni, la grande serietà e concretezza di Cossutta, descritto scioccamente dagli avversari soprattutto interni al Pci, come «dinosauro» ed esponente di una causa irrimediabilmente tramontata.
Niente di più falso di tale cliché. Egli rappresentava, invece, limpidamente la trasformazione storicamente inevitabile del PCI nella vera socialdemocrazia del nostro paese: trasformazione già avvenuta ben prima del patetico «cambio del nome».
Potrei ricordare numerose vicende, ma ne trascelgo due.
Innanzi tutto il convegno congiunto, ad Arco di Trento, delle mozioni 2 e 3, che avrebbe dovuto portare ad una posizione unitaria ed il cui risultato fu vanificato dal tatticismo di Ingrao. Questi era attratto dalla prospettiva del «nuovo che avanza» ma sovente non aveva ben chiaro cosa fosse il nuovo. Cossutta e coloro che maggiormente lo coadiuvarono in quella circostanza non riuscirono ad ottenere il risultato che forse avrebbe salvaguardato l’unità del partito. Leggi tutto
Il rapporto del Censis di De Rita ci fa sapere che l’Italia, con una crescita dello zero virgola, se non è al declino poco ci manca, e la colpa non è degli attentati terroristici, ma dello stile di vita degli Italiani, troppo pigri e prudenti. Non si mettono in gioco fino in fondo, non rischiano, mentre “nelle banche giace inoperosa una montagna di risparmi, un cash cautelativo, che supera i 4.000 miliardi, molti depositi e contanti, sempre meno azioni e partecipazioni”.
Certamente dovranno cambiare "stile di vita" i centotrentamila bidonati dalle quattro banche salvate da Renzi, che hanno imparato a loro spese che fidarsi delle banche non è un rischio: è sempre e comunque una fregatura. Il Censis, si sa, non è un vero centro studi, ma essenzialmente un organo di propaganda, perciò questa colpevolizzazione dei risparmiatori risulta funzionale al chiamarli a pagare per l'insolvenza delle banche.
Nella vicenda di quelle che in gergo finanziario sono chiamate "sofferenze" bancarie, il governo tedesco si è comportato come il Don Giovanni di Molière: dopo aver foraggiato con i soldi dei contribuenti i banchieri in crisi, ora si atteggia a censore nei confronti dei governi europei che volessero fare altrettanto, e tempo fa ha costretto l'Unione Europea ad approvare le regole del cosiddetto "bail in", cioè la garanzia interna delle banche a spese dei loro risparmiatori. In tal modo il governo Merkel cerca di favorire l'acquisizione da parte delle multinazionali tedesche di istituti bancari in crisi in altri Paesi europei. Per la verità il governo italiano appare il più preparato ad adeguarsi alle nuove regole, dato che in Italia l'assistenzialismo per banchieri è stato finanziato soprattutto a spese dell'utenza. Leggi tutto
È possibile raccontare ancora Walter Benjamin? E soprattutto come? È forse questo l’interrogativo che devono essersi posti Howard Eiland e Michael W. Jennings, autori di una nuova biografia del pensatore tedesco intitolata Walter Benjamin. Una biografia critica , edita da Einaudi. L’impresa che i due hanno affrontato ha dei connotati che, senza neppure troppa ironia, si potrebbero definire titanici. Si trattava, in primo luogo, di dare ordine alla vita di Benjamin – disordinata e dispersiva quanto i suoi scritti –; in più occorreva scrostare dalla sua figura quegli elementi che hanno pesato, e neanche poco, sulla sua ricezione. La quale sovente ha assunto i tratti di un’autentica mitizzazione. Scrivono i due autori in una delle ultime pagine, allorché il progetto della biografia appare ormai compiuto, anche nella sua dimensione progettuale: «La storia della sua vita è stata avvolta nel mito e se ne è diffusa un’immagine emozionale come massimo esempio di emarginato dalla società e di perdente». Ecco, il principale merito che si può ascrivere ai due biografi sta proprio nella capacità di smitizzare il proprio oggetto e di dargli la giusta collocazione storica. Benjamin è ormai, a suo modo, un personaggio da romanzo (in senso anche letterale: nel 2001 Bruno Arpaia ne ha fatto il protagonista del suo L’angelo della storia, nel 2002 Michele Mari di Tutto il ferro della torre Eiffel ) – e si sentiva davvero la necessità di un lavoro che lo rimettesse con i piedi per terra.
Nella prima biografia di Benjamin destinata al mondo anglosassone – di qui il carattere per alcuni versi riepilogativo ma soprattutto sistematico dell’opera –, Eiland e Jennings, che dell’autore del Passagenwerk oltre che studiosi sono anche traduttori, optano per una scelta tanto (apparentemente) semplice quanto necessaria: raccontano la vita di Benjamin secondo una chiave strettamente cronologica, scandendo le tappe del suo percorso biografico attraverso i luoghi che ne segnarono l’esperienza. Leggi tutto
Forse i più giovani di Licio Gelli non avranno neanche mai sentito parlare. Come della P2 e di un contesto, quello della cosiddetta Prima Repubblica, che appare tanto lontano, quando sconosciuto. Per un giovane abituato alla politica di oggi, fatta di forze omogenee che rappresentano interessi di classe equivalenti, è difficile comprendere una stagione, quella del dopoguerra, che fu segnata da un aspro conflitto ideologico, politico, sociale. Un paese spaccato, in un mondo spaccato, dove da una parte c’erano forze, che nonostante errori, limitazioni e contraddizioni, si ponevano come obiettivo il superamento del capitalismo e dall’altra forze reazionarie legate agli interessi dei gruppi industriali, della mafia, della nato. Le classi popolari da una parte, che alzavano la testa, dall’altra la paura delle classi dominanti che questa avanzata volevano a tutti i costi frenarla. In questo contesto operava un uomo come Licio Gelli e la sua loggia di adepti, conosciuta come P2, in cui diversi personaggi politici, del mondo imprenditoriale, delle forze armate e della struttura dello Stato furono affiliati. L’obiettivo era impedire la presa del potere da parte dei comunisti, obiettivo senza dubbio raggiunto, anche per motivi che sarebbe fuori luogo spiegare qui. Ma soprattutto di trasformare l’Italia, di ridurre quell’anomalia italiana, che vedeva nella presenza del PCI, nel protagonismo della classe operaia, delle sue strutture sindacali di riferimento, e delle masse popolari in generale, una minaccia per la stabilità degli equilibri del paese e internazionali. Leggi tutto
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L’età delle espulsioni inaugurata dalle dottrine neoliberiste ha nel Jobs Act la sua apoteosi, espressione della “legislazione delle espulsioni” applicata alla merce-lavoro. È tuttavia giunto il momento di contrastare questa brutale deriva, affermando con forza la centralità della teoria dei beni comuni anche nel lavoro. Un manifesto che, lontano dalle astratte teorizzazioni, può costituire il luogo di discussione per una radicale e rinnovata azione politico-sociale
Nel continuo ed
incessante processo di estrazione di valore della merce-lavoro[1]
imposto dalle dottrine gestionali neoliberiste, un
ruolo fondamentale rivestono le tecniche di “espulsione” dei
soggetti che, considerati inadatti al processo di feroce
selezione del
sistema o giunti all’ultimo anello della catena di transazioni
organizzativo-produttive, sono brutalmente allontanati dal
“sistema”
(spesso con il sigillo della legge), scarnificati di ogni
umanità.
Del resto, la nostra è “l’età dell’espulsione”[2], un periodo in cui “la spoliazione e la distruzione… l’immiserimento e l’esclusione di masse crescenti di persone che non hanno più valore come lavoratori e consumatori… possono essere considerate il tratto saliente del capitalismo avanzato della nostra epoca rispetto a quello tradizionale”[3].
Si tratta di “una terza, incipiente fase storica, caratterizzata dalle espulsioni delle persone dai progetti di vita, dall’accesso ai mezzi di sussistenza, dal contratto sociale, cardine delle democrazie liberali. Ben piu’ di un mero aumento della disuguaglianza e della povertà”[4].
L’espulsione, dunque, è la categoria concettuale che, icasticamente, meglio consente di rappresentare il metodo utilizzato dal “capitalismo avanzato” nello stoccaggio di “scarti” in proporzionale aumento rispetto ai frenetici ritmi di produzione; raffigura “a tutto tondo” l’integrale esclusione dal circuito economico e sociale. Leggi tutto
Nuovi scenari e nuove sfide si aprono per la sinistra di classe in Italia alla luce delle recenti elezioni in Francia, Argentina e Venezuela. È necessario comprendere i limiti e gli errori, anche inconsapevoli, che hanno portato le sinistre di queste nazioni a delle sconfitte che avranno conseguenze nefaste sui loro paesi e più in generale sugli equilibri internazionali. La tragedia ha senso solo se si conclude con la catarsi, ossia con la capacità del pubblico, attraverso la compassione e il terrore dinanzi alla sconfitta dei personaggi in cui si impersona, di non ripeterne gli errori superandone i limiti
I risultati dei
ballottaggi delle regionali francesi hanno fatto tirare un
sospiro di sollievo a molti, la destra radicale
del Fronte nazionale non è riuscita a conquistare nessuna
regione trovandosi dinanzi dove era più forte un fronte delle
altre principali
forze politiche in nome dei valori della Repubblica. La rotta
della “sinistra” di governo è stata inoltre arginata in cinque
macroregioni dalla ricostruzione dell’unità delle “sinistre”.
In tal modo i valori repubblicani appaiono salvi,
l’incubo che pareva mettere in discussione lo stesso processo
di unificazione europea sembra esorcizzato. Così già prima dei
ballottaggi anche in Italia si sono levate le voci dei sindaci
eletti grazie all’unità delle “sinistre” che auspicano, per
evitare il grave errore di una separazione fra “sinistra
radicale” e “sinistra moderata”, che favorirebbe i populisti
di
destra, un’alleanza elettorale con il Pd. Tale soluzione è
stata al momento scartata dai principali esponenti di
“Sinistra
italiana”, in quanto resa impraticabile dalla volontà di Renzi
di rompere i ponti alla sua sinistra, per costruire con forze
di destra il
Partito della nazione. Ciò non toglie che, a loro avviso,
quandunque e ovunque prevalga invece lo spirito del
centro-sinistra sia necessario
sfruttare l’occasione per rilanciare la prospettiva ulivista.
A tale scopo vi sarebbe bisogno di costruire una “sinistra di
governo”, che favorisca la ricostruzione dell’alleanza con la
sinistra moderata e il centro democratico per sconfiggere
anche in Italia i
populismi. Leggi tutto
E' ormai trascorso
quasi un mese dagli attentati di Parigi! La distanza temporale
consente di osservare con maggior lucidità i
fatti e il contesto politico che li circonda.
La forza dell'evento è stata con tutta evidenza enorme, sia per la sua estrema brutalità oggettiva, sia per la gigantesca enfasi mediatica dedicata cui si accompagna l'alto livello di allerta esasperato in queste settimane dalle autorità politiche di molti paesi europei.
A ciò si è aggiunta la concatenazione convulsa e contraddittoria di reazioni internazionali e più di recente il cruento episodio della strage di San Bernardino in California dai contorni ancora assai poco chiari.
Uno scenario confuso che lascia spiazzati e rivela il caos politico internazionale in cui da ormai molti anni siamo immersi.
In questi giorni è stato possibile misurare il tenore delle reazioni espresse dal governo francese e dai governi dei vari paesi europei e di tutto il mondo. Lo scenario internazionale che si sta delineando è decisamente fosco e vede simultaneamente apparenti azioni concertate da parte di un’immaginaria e retorica alleanza internazionale anti-terrorismo e la realtà di una guerra più o meno silente tra potenze giocata a colpi di provocazioni (la più clamorosa delle quali è stata sicuramente l’abbattimento dell’aereo russo da parte della contraerea turca). Leggi tutto
Una ricerca sulla “mezzogiornificazione” delle aree deboli d’Europa pubblicata sul Cambridge Journal of Economics. E un commento sulle politiche dei governi, che accentuano le sperequazioni tra Nord e Sud
Un’Italia spaccata in due, con il Settentrione che finalmente registra qualche timido segnale di ripresa mentre il Mezzogiorno anche quest’anno rimane al palo. E’ il quadro che emerge dall’ultimo rapporto di Bankitalia sulle economie regionali. Dell’allargamento della forbice tra Nord e Sud discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio e autore di ricerche pubblicate a livello internazionale dedicate alla divergenza tra aree economicamente più forti e aree più deboli d’Europa.
***
Professore, per Bankitalia e altri istituti di ricerca a fine anno il Centro-Nord segnerà un aumento del Pil di circa un punto percentuale, mentre al Sud dovremmo registrare crescita zero. L’uscita dal tunnel della crisi riguarda solo le regioni più ricche del paese?
Per nessuna zona del paese parlerei di “uscita dal tunnel”: anche lì dove si manifesta, la ripresa risulta molto fragile. E’ vero tuttavia che nella crisi generale del paese la frattura tra Nord e Sud tende ad accentuarsi. Il problema principale riguarda il crollo degli investimenti delle imprese: rispetto al 2007 nel Mezzogiorno sono precipitati di oltre un terzo, una caduta di dieci punti percentuali più pesante di quella, già di per sé drammatica, che si è registrata al Nord. Leggi tutto
Il 22 novembre scorso il governo ha “salvato” quattro banche da tempo in cattive acque espropriando i detentori delle loro obbligazioni subordinate. Media e influencer di vario spessore hanno parlato di un’amara ma giusta lezione inflitta ad avidi e imprudenti speculatori (i pensionati). La tragica fine di Luigino D’Angelo ha reso inopportuna questa strategia comunicativa, già di per sé infondata. Si è allora rispolverato un evergreen, il tema del se sò magnati tutto: da speculatori, i pensionati sono diventati vittime delle malversazioni e del nepotismo che pare abbiano caratterizzato la gestione di alcuni istituti. Lettura meno infondata, ma ugualmente volta a offuscare la natura dell’accaduto.
In Italia se sò sempre magnati tutto. Tuttavia, come ricordava il 9 dicembre scorso Carmelo Barbagallo, capo della vigilanza di Bankitalia, alla Commissione Finanze della Camera dal 1936 i risparmiatori italiani non hanno perso “una lira o un euro in relazione a crisi, anche gravi, di singoli intermediari”. E allora perché questo bagno di sangue arriva proprio ora? Lo spiegava la European Banking Authority (EBA) in una nota del 31 luglio 2014, intitolata “Collocazione di strumenti finanziari presso i depositanti e gli investitori non professionisti” (disponibile in italiano sul sito vocidallestero.it): il punto è che non si tratta di singoli episodi, di per sé gestibili con una vigilanza più oculata e se del caso con l’intervento della magistratura, ma di un problema sistemico, previsto dalle autorità europee. Un anno fa l’EBA chiariva infatti che la situazione creatasi con l’Unione Bancaria forniva un doppio incentivo alla collocazione di titoli subordinati presso investitori non professionisti. Leggi tutto
Che grande successo! La COP 21 è un vero evento storico! Meglio, un vero miracolo! Per la prima volta nella storia 195 capi di Stato si sono incontrati per discutere di una risoluzione comune. Grazie alla paziente diplomazia di Laurent Fabius e François Hollande, la Conferenza di Parigi ha permesso l’adozione, all’unanimità, di un documento che ha riconosciuto la necessità di prendere misure capaci di evitare che il riscaldamento globale superi i due gradi.
Laurent Fabius ha perfino riconosciuto che, nel tempo, bisognerà restare al di sotto di 1,5 gradi. Tutti i governi del pianeta hanno accettato di proporre la riduzione volontaria delle loro emissioni di CO2. Di fronte a una simile massiccia dimostrazione di buona volontà, a una così meravigliosa unanimità planetaria, a una così grandiosa convergenza mondiale di tutti i paesi, grandi e piccoli, ricchi e poveri, come non gioire? Per quelli che possono permetterselo, è tempo di stappare una bottiglia di champagne e di celebrare questo straordinario successo della governance climatica internazionale.
C’è solo un piccolo dettaglio che rischia di guastare un pochino la festa. Un piccolo dettaglio, ma in fin dei conti non insignificante. Di che cosa si tratta? Se tutti i governi mantenessero le loro promesse, i loro impegni volontari – ciò che, ahimè, è poco probabile, vista e considerata l’assenza di ogni accordo vincolante, di ogni sanzione e di ogni controllo – dunque, se tutti riducessero effettivamente le loro emissioni mantenendo le loro stesse dichiarazioni di intenti, in questo idilliaco caso di scuola, ahimè, ahimè, estremamente improbabile, che cosa succederebbe? Leggi tutto
Nell’ultimo bollettino della Banca Centrale Europea compare un box dal titolo “Downward wage rigidity and the role of structural reforms in the euro area”. Secondo i tecnici di Francoforte, la rigidità dei salari verso il basso impedisce l’aggiustamento macroeconomico nei paesi periferici dell’area euro. I tecnici sottolineano che “Per migliorare la resistenza dell’economia agli shock, i salari devono riflettere adeguatamente le condizioni del mercato del lavoro e della produttività; da ciò l’importanza di riforme che favoriscano una maggiore flessibilità salariale e differenziazione tra lavoratori, imprese e settori”. Francoforte plaude quindi ai paesi che hanno implementato le riforme strutturali, riducendo la legislazione a protezione dei lavoratori, e in particolare le forme di indicizzazione salariale, le norme contro i licenziamenti e la contrattazione collettiva.
In sintesi, secondo la BCE, i paesi in difficoltà devono ridurre le garanzie a favore dei lavoratori così che essi accettino salari minori, i quali porteranno poi a maggiore occupazione. Si tratta della solita, trita e ritrita, teoria neoclassica del mercato del lavoro, secondo la quale la disoccupazione dipende dal fatto che, a causa di distorsioni introdotte dal legislatore, i salari sono più alti del valore di equilibrio che porterebbe alla piena occupazione.
Del perché questa modellizzazione sia profondamente sbagliata ce ne siamo occupati molte volte. Qui però vogliamo affrontare un altro problema: cosa succede se i salari (nominali) si riducono? Leggi tutto
(...pubblico
al volo. Ci saranno refusi...)
L'intervista rilasciata oggi a Fubini (tanto nomini...) da Lars Feld chiarisce finalmente una volta per tutte qual è il bivio di fronte al quale siamo. Feld dice chiaro e tondo che dobbiamo rivolgerci alla Troika per ricapitalizzare le nostre banche.
Il ragionamento passa per alcuni semplici e prevedibili snodi:
1) le banche italiane sono in crisi ("restano correzioni da fare nei bilanci delle banche");
2) questi problemi devono essere risolti col bail-in perché così prevede l'Unione Bancaria (è il SRM, Single Resolution Mechanism, secondo pilastro dell'unione);
3) l'Unione Bancaria prevede anche un fondo di garanzia europeo (è l'EDIS, European Deposit Insurance Scheme), ma quello la Germania non lo vuole perché "sarebbe un modo di esternalizzare i problemi delle banche di certi paesi verso altri paesi" (leggi: i tedeschi non vogliono pagare);
4) resta quindi solo la strada del bail-in, leggi esproprio; Leggi tutto
“Il
kitsch è la
negazione assoluta della merda, in senso tanto letterale
quanto figurato: il kitsch elimina dal proprio campo visivo
tutto ciò che
nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.”
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza
dell’essere
L’Expo di Milano si è
concluso. Prima dell’inaugurazione e durante l’apertura è
stato criticato, seppur
da una minoranza di persone e dell’opinione pubblica, da
diverse angolazioni: le inchieste della magistratura per
corruzione, la quantità
di denaro pubblico speso, la gestione del lavoro, con la
creazione della figura del ‘lavoratore volontario’. Dopo sei
mesi, la chiusura ha
registrato un trionfo di dichiarazioni positive, per il numero
di biglietti staccati e la carrellata di ospiti illustri,
politici e non, che nei 180
giorni hanno varcato l’ingresso, e la Rai non si è fatta
mancare uno spot finale celebrativo.
Di fatto, Expo è stato politicamente, culturalmente e mediaticamente un successo: che i visitatori siano stati realmente 21,5 milioni oppure meno, che l’incasso della vendita dei biglietti abbia davvero coperto i costi o prodotto una perdita, non ha importanza. Una enorme massa di persone ha innanzitutto deciso di andarci, e in secondo luogo ne è uscita, nella grande maggioranza, entusiasta. Ogni criticità legata all’Esposizione (che anche Paginauno ha espresso sulle sue pagine), ogni pensiero negativo opposto alla sua stessa realizzazione, sul piano valoriale o economico, sono stati spazzati via dal consenso che ha raccolto. Leggi tutto
Gli incentivi monetari forniti alle imprese non si sono concretizzati in nuova occupazione a tempo indeterminato, ma hanno piuttosto favorito la trasformazione di contratti temporanei in contratti ‘permanenti’
Come
risposta
alla crisi del 2008, le economie della periferia europea hanno
adottato politiche deflattive con l’obiettivo di recuperare
competitività
e far ripartire crescita ed occupazione. Il tutto in completa
ottemperanza ai dettami della visione neoliberista che
egemonizza l’agenda di
politica economia europea. In Italia, la legge 183 del 2014,
evocativamente denominata ‘Jobs Act’, ha svolto un ruolo
chiave determinando
uno storico cambiamento nell’equilibrio delle relazioni
industriali. Portando a completamento il percorso di riforma
cominciato all’inizio
degli anni 90, il Jobs Act ha sancito un definitivo
livellamento verso il basso delle tutele dei lavoratori. Le
più rilevanti modifiche
introdotte dalla legge riguardano: i) l’introduzione di una
nuova tipologia contrattuale a ‘tempo indeterminato’, pensata
per
divenire la forma prevalente nel sistema italiano, che elimina
ogni obbligo di reintegro del lavoratore nel caso di
licenziamento privo di giusta
causa o giustificato motivo oggettivo (tranne
nei casi di dimostrata discriminazione o di licenziamento
comunicato oralmente); ii)
l’introduzione della videosorveglianza per mezzo di
dispositivi elettronici – misura che ha dato adito a forti
polemiche circa la
violazione della privacy e delle libertà individuali; iii) la
completa liberalizzazione dell’uso dei contratti atipici.
Per celebrare degnamente il Natale, baluardo della Civiltà
Occidentale e pilastro dell’Identità Nazionale, il governo
Renzi ha annunciato l’invio di truppe italiane in prima linea
a Mosul, in Iraq.
L’Italia però non sta ancora facendo tutto
ciò che potrebbe e dovrebbe per partecipare attivamente allo
scontro epocale in atto. Disponiamo infatti d’una grande
risorsa che
continuiamo egoisticamente ad impiegare soltanto in Patria,
dimenticando che in realtà oggi i confini ideali della Patria
si estendono fin dove
la minaccia alla Civiltà Occidentale ha origine. Questa
formidabile risorsa è il Commissario Cantone.
Per quanto la corruzione e
il malaffare siano bersagli sacrosanti, non possiamo
continuare a limitare ad essi l’azione dei suoi straordinari
poteri, dobbiamo schierarlo
là dove ce n’è più bisogno, contro i Nemici più pericolosi. La
scienza ci fornisce gli strumenti per moltiplicare la
sua presenza intervenendo all’estero senza sguarnire il fronte
interno: possiamo clonarlo.
Siamo in grado di creare un’intera
poderosa e inarrestabile armata di Cant-cloni che sbarchi
sulle coste libiche, e avanzi come una gagliarda ruspa padana
fino all’Iraq, spazzando
via ogni resistenza, e ripristinando Democrazia e Legalità
Occidentali in tutta l’area.
Un esercito di Cant-cloni
cyber-implementati, interconnessi via wi fi, mente collettiva
di un’unica immensa arma modulare componibile, un
Commissformer che ci
guiderà all’immancabile vittoria finale. Leggi tutto
Che il Jobs Act non funzioni lo abbiamo già visto citando un lavoro di Marta Fana che ha avuto un'eco importante. Il fatto però che analisi molto simili - le nuove norme sul lavoro non riducono il precariato, chi ha assunto lo ha fatto non per il contratto a tutele crescenti ma per gli incentivi fiscali, si assume non sulla base di norme giuslavoristiche bensì relazione alla propria visione della situazione economica prospettica - siano fatte anche dal New York Times lascia - almeno secondo me - piuttosto stupefatti.
Di seguito un articolo che, lancia in resta, attacca a tutto campo la stessa filosofia del Jobs Act. Evito qualsiasi commento perché, obiettivamente, c'è poco da commentare.
***
Quando,
questo mese, i dati sulla disoccupazione italiana hanno
segnato il punto più basso
da tre anni a questa parte, il Presidente del Consiglio
Matteo Renzi ha dichiarato trattarsi della prova del
successo del Jobs Act, la propria
riforma-bandiera del mercato del lavoro.
Tuttavia, una lettura più attenta dei numeri dimostra che il Jobs Act non ha funzionato poi così bene. I dati dell'ISTAT evidenziano che, dopo l'entrata in vigore della riforma fra gennaio e marzo del 2015, i posti di lavoro a tempo indeterminato - che la legge avrebbe dovuto incrementare - hanno subito una stagnazione, mentre quelli precari - che il Jobs Act avrebbe dovuto eliminare - hanno continuato a crescere.
Leggi tuttoIeri (16 dicembre 2015), esattamente sette anni dopo la decisione di abbassare il tasso direttore allo 0-0,25% (16 dicembre 2008), la Federal reserve, la Banca centrale americana, ha aumentato di un quarto di punto percentuale il suo tasso d’interesse. Ormai anticipata da tempo dai mercati finanziari, questa decisione di aumentare, benché di pochissimo, i tassi d’interesse e di continuare nel 2016 con altri quattro aumenti, ha prima di tutto un valore simbolico: gli Stati Uniti dichiarano al mondo di considerarsi ormai fuori dalla crisi scoppiata nel 2008 nel loro paese e poi nel resto del mondo.
E così i mercati sorridono. La decisione della Fed ha anche, e ci mancherebbe, un’importanza reale, se è vero che in Europa la politica monetaria della Bce va esattamente nella direzione opposta a quella americana e se è vero che in tutti questi anni tassi interesse prossimi allo zero hanno favorito una crescita impressionante dell’indebitamento in settori quali, ad esempio, quello energetico americano e, soprattutto, delle corporation dei paesi emergenti che si sono indebitate in dollari (secondo il meccanismo delcarry trade).
Una rivalutazione eccessiva del dollaro potrebbe, secondo alcuni analisti, far esplodere una bolla gigantesca.
Ma atteniamoci alla buona novella, e cioè che l’economia statunitense si è irrobustita in questi anni di crisi al punto da poter imprimere una svolta alla politica monetaria che renda conto della diminuzione del tasso di disoccupazione e che permetta di prevenire un aumento dell’inflazione conseguente alla pressione al rialzo del costo del lavoro. Leggi tutto
Due articoli – il primo del Corriere della Sera (Giuseppe Sarcina, “Obama: Trump mi attacca perché sono nero”, martedì 22 dicembre) il secondo del New York Times – commentano l’intervista che il presidente Obama ha rilasciato alla “National Public Radio”, nel corso della quale è andato decisamente all’attacco di Donald Trump, il miliardario in corsa per la candidatura repubblicana alle elezioni presidenziali del 2016. Il Corriere si concentra sulle accuse di razzismo che Obama rivolge a Trump, anche se l’autore del pezzo sottolinea che, nell’ultimo dibattito fra i nove candidati repubblicani, nessuno (nemmeno Trump) ha rispolverato le vecchie insinuazioni in merito all’inaffidabilità di un presidente nero nella conduzione della lotta contro il terrorismo islamico. Invece il New York Times dà più peso (fin dal titolo: “Obama accusa Trump di sfruttare le paure della classe operaia”) alla polemica sulle sirene populiste che Trump utilizza per catturare il consenso dei bianchi poveri.
Il secondo argomento mi è parso decisamente più interessante, perché riguarda un nodo nevralgico dei conflitti sociali e politici dei Paesi occidentali degli ultimi decenni. Nell’intervista Obama riconosce che i mutamenti indotti dalla Nuova Economia hanno penalizzato in particolare i colletti blu, falcidiandone salari e livelli di occupazione e rendendone sempre più problematico il ruolo di capi famiglia. Non a caso, si sottolinea in un’altra parte dell’articolo, solo il 36% dell’elettorato bianco privo di educazione secondaria ha votato per lui nella campagna del 2012 che lo ha riconfermato alla presidenza. Leggi tutto
La tragica vicenda del
pensionato suicida di Civitavecchia e la disperazione di
centinaia di obbligazionisti delle quattro banche (Cassa di
Risparmio di Ferrara, Banca Etruria, Banca Marche e Cassa di
Risparmio di Chieti) che, a seguito del Decreto “Salva Banche
“ del Governo
Renzi, hanno visto azzerati i loro risparmi costituiti da
obbligazioni subordinate, hanno suscitato un forte dibattito
politico ed economico. In
assenza di una analisi più approfondita tale dibattito rischia
di rimanere schiacciato nella cronaca mediatica e nella
polemica funzionale alla
Lega di Salvini, che, non a caso, ha immediatamente
organizzato una manifestazione ad Arezzo, sede della Banca
Etruria, a difesa dei risparmiatori
danneggiati. Questa vicenda, a nostro avviso, non parla solo
di speculazione finanziaria o di comportamenti perseguibili
penalmente, ma soprattutto
dei profondi cambiamenti che interessano ed interesseranno il
sistema bancario italiano ed europeo da qui al 2019, data di
nascita di quella Capital
Market Union che è un altro pilastro della integrazione
valutaria, economica e finanziaria dell'area Euro.
A maggio del 2015, nelle sue Considerazioni finali il Governatore di Banca d'Italia elencava chiaramente i cambiamenti epocali a cui sarebbe andato incontro il sistema bancario e finanziario italiano: dall'accelerazione delle aggregazioni delle banche popolari e di credito cooperativo, alla nascita di una o più bad bank per la gestione dei crediti deteriorati o in sofferenza, stimati in circa 350mld di euro; dalla velocizzazione delle procedure di recupero dei crediti, alla nuova funzione finanziaria di Cassa Depositi e Prestiti (che ricordiamo utilizza il risparmio postale) e infine al meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie, il cosiddetto Bail-in, appunto. Leggi tutto
«La guerra d’aggressione come crimine internazionale»: è il libro uscito postumo di Carl Schmitt. Edito in Italia dal Mulino, nasce dal parere che il giurista scrisse su richiesta dell’industriale Flick, uno dei principali esponenti economici del regime nazista
Si dice che
solo dal
punto di vista di chi sia sconfitto sia dato comprendere
i processi di lunga durata. Solo chi abbia perso tutto si
volge all’onda che lo ha
travolto cercando di scorgerne le profondità e di
identificarne i ritmi e le correnti. Non è il respiro breve
del
vincitore, inebriato del presente della conquista, quello
capace di confrontarsi con i tempi dilatati della storia.
Reinhart Koselleck, la cui
biografia annovera anni di prigionia in Urss dopo lo
sbandamento della Wehrmacht, ha scritto pagine importanti
a questo proposito.
Uno dei
suoi maestri, Carl Schmitt, è nel 1945 uno di questi sconfitti
assoluti. Da tempo in rotta con il nazismo, cui imputa di aver
approfondito
il solco tra legalità e legittimità per aver ridotto il
diritto a «un’arma velenosa» nelle mani del Partito,
preda di una quotidiantà estremamente difficile – non riceve
da mesi lo stipendio, vive in una Berlino devastata dai
bombardamenti,
subisce un primo arresto da parte dei militari sovietici -, si
definisce allora, non senza una certa auto accondiscendenza,
«annientato
e calpestato» come «lo sconfitto della guerra giusta degli
altri». I suoi interessi teorici si sono spostati sul terreno
del diritto internazionale. Da mesi sta portando avanti la
stesura del Nomos della terra. Rimane comunque un
grande professore di
diritto.
Il fatto nuovo circa
gli ormai decennali flussi di migranti e rifugiati sta
nell’essersi trasformati in vero e proprio esodo. Ad un certo
punto è esploso un impulso collettivo verso un determinato
obiettivo, come quando, ad esempio, una popolazione, prima
passiva insorge tutta
insieme, contro una certa situazione. Qui l’impulso è di
fuggire da qualcosa, guerra, miseria o, semplicemente, vita
quotidiana che non
si vuol più vivere nel luogo d’origine: la guerra in Siria non
è scoppiata ieri, né i migranti dal Mediterraneo o dalle
porte orientali dell’Europa sono apparsi ieri. Ma oggi ha
preso corpo un’ansia(quasi una frenesia) corale: verso
l’Europa e il suo
nord, terra promessa! Da pochi mesi un’improvvisa fiumana di
Siriani si sta riversando in Europa. I movimenti sono
caotici(gli stati e le varie
organizzazioni internazionali paiono impotenti) e non si trova
nessun Mosè a guidare l’esodo. C’è poi spazio per
dietrologie? Ad es. la fiumana dei Siriani è manovrata da
qualcuno? Fantasie? Come sempre lo rivelerà la storia.
Lasciamo stare il ruolo miserevole dell’Europa in questi ultimi anni, connotato da provvedimenti campanilistici, decisioni “Europee” confuse, accordi operativi controversi e di incerta efficacia(non si è stati in grado approntare, questo già da tempo, campi Europei di accoglienza alle frontiere del nostro continente ove far sostare in modo decente i migranti per controllarli e smistarli), paura di affrontare l’organizzazione dei trafficanti di esseri umani(non parliamo di affrontar l'Isis attestato in Libia; forse si arriverà, al massimo, a un accordo per far instaurare là un improbabile governo unitario). Evidentemente l’Europa non è una grande potenza: meno male che non ha forti nemici, altrimenti rischierebbe di venir conquistata! Leggi tutto
Cinquant'anni fa, nel
dicembre del 1965, usciva il primo numero di Lotta
Comunista, l'organo ufficiale
dell'omonimo partito fondato da Arrigo Cervetto assieme
a Lorenzo Parodi. Per parlare di Arrigo
Cervetto, delle sue
idee, della concezione del partito abbiamo intervistato Dante
Lepore, che per anni è stato militante di Lotta
Comunista; ha
conoscito Arrigo Cervetto e collaborato con lui nella
fondazione della sede torinese di Lotta Comunista.
Ricordiamo che Arrigo Cervetto T nato a Buenos Aires, Argentina, il 16 aprile del 1927 ed è morto a Savona il 23 Febbraio 1995. Nella foto a lato, Arrigo Cervetto durante la partecipazione alla Terza Conferenza Nazionale dei GAAP, svoltasi a Livorno il 26 e 27 settembre 1953.
D. Il Partito, la formazione del partito del proletariato, del partito di classe è uno degli aspetti fondamentali del marxismo. Arrigo Cervetto ha affrontato tale questione. Qual è la concezione del partito in Arrigo Cervetto?
R. Questa domanda, pur nell’apparente semplicità, è complessa, dato che riconduce alla genesi e maturazione di un problema, quello del partito di classe, che non è una mera astrazione concettuale e mai era stato precedentemente posto allo stesso modo e che lo stesso Cervetto dovette sviluppare in una complessa vicenda storica. Leggi tutto
«Imperium»: le registrazioni dei colloqui con Carl Schmitt per un programma radiofonico nel 1971. La questione era: perché partecipò al nazismo?
Imperium. Conversazioni con Klaus Figge e Dieter Groh (trad. it. di Corrado Badocco, Quodlibet, pp. 292, euro 26). Così si intitola la raccolta di registrazioni di colloqui con Carl Schmitt nel 1971 per un programma radiofonico. All’ottantenne Schmitt viene chiesto di ripercorrere le tappe più significative della sua vita. L’infanzia nella sua famiglia cattolica, gli anni del collegio, la scelta di studiare legge all’università, la decisione di diventare giurista e poi, soprattutto, la sua partecipazione al nazismo. La trascrizione di questi nastri è accompagnata da un cospicuo corpo di note di commento, molto utile per contestualizzare le sue dichiarazioni e per tenere presente il «calendario». Una parola questa ripetuta spesso e con la quale Schmitt intende la minuta cronologia degli avvenimenti privati e pubblici che lo hanno portato a fare o non fare certe scelte.
La questione del «calendario» non è importante soltanto come metodo che Schmitt segue per rispondere, ma anche per scomporre in unità minime e per ciò stesso incrinare il carattere complessivo della domanda più scottante: «Perché ha partecipato al potere»? Collaborare al potere nazista è stata una decisione che Schmitt spiega di aver preso un po’ alla volta, in un contesto pieno di contingenze per cui, secondo lui, è difficile darne ragione complessivamente, in modo netto. In tal senso è interessante notare che, in questi colloqui, Schmitt varie volte tenta di smontare la sua fama di decisionista. Anzi, lui sarebbe stato un teorico della decisione proprio perché nella sua vita avrebbe sempre lasciato alla situazione decidere per lui.
Leggi tuttoQuando nel quarto vangelo viene fatto dire a Gesù, già entrato a Gerusalemme per compiere l’insurrezione nazionale anti-romana, che “il figlio dell’uomo deve essere glorificato” (12,23), con questo verbo, usato al passivo, come se la cosa non dipendesse completamente da lui ma da un’entità superiore (che ai vv. 27-8 viene identificata esplicitamente col “Padre”, il dio dei cieli), gli autori intendono non il fatto ch’egli sarebbe dovuto diventare un leader politico, riconosciuto a livello nazionale, per la liberazione dell’intero paese, bensì l’idea, del tutto mistica e quindi tendenziosa e falsificante, ch’egli avrebbe dovuto immolarsi, cioè sacrificare la propria vita per indurre gli uomini alla salvezza.
“Ora la mia anima è turbata” (di fronte alla propria auto-immolazione non può non esserlo, poiché deve per forza chiedersi se il gesto che sta per compiere servirà davvero a qualcosa); “e che dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma se è proprio per questo che ho atteso quest’ora!” (v. 27). Cioè non ha senso avere dei dubbi nel momento stesso in cui si ha la possibilità di dimostrare finalmente quel che si vale al mondo intero. La “determinazione in carattere” va considerata assolutamente decisiva, per usare una terminologia kierkegaardiana; anche se qui ovviamente non si può escludere che, in una concezione così irrazionalistica della vita, il martire non possa avvalersi di strumenti idonei per indurre il potere a eliminarlo. In fondo sta anche nella sua destrezza far passare il proprio suicidio religioso per un omicidio di stato. E, nel caso in oggetto, si potrebbe facilmente pensare che l’ingresso nella capitale, proprio in occasione della Pasqua, sarebbe stata un’occasione ottima per provocare le autorità costituite, occupanti e colluse. Leggi tutto
"La progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l'incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione ". Per Jean-Claude Michéa, infatti, la sinistra contemporanea non ha più nulla a che vedere con la nobile tradizione socialista. Incapace di proporre un'alternativa economica al capitalismo trionfante, ha ripiegato sulle battaglie civili care all'intellighenzia progressista e in sintonia con l'individualismo dominante. Il filosofo francese lo spiega in un breve e interessantissimo saggio intitolato I misteri della sinistra (Neri Pozza, traduzione di Roberto Boi), il cui analizza la deriva progressista dall'ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. "La sinistra non solo difende ardentemente l'economia di mercato, ma, come già sottolineava Pasolini, non smette di celebrarne tutte le implicazioni morali e culturali. Per la più grande gioia di Marine Le Pen, la quale, dopo aver ricusato il reaganismo del padre, cita ormai senza scrupoli Marx, Jaures o Gramsci! Ben inteso, una critica semplicemente nazionalistica dal capitalismo globale è necessariamente incoerente. Ma purtroppo oggi è la sola - nel deserto intellettuale francese - che sia in sintonia con quello che vivono le classi popolari".
***
Come
spiega questa
evoluzione della sinistra?
"Quella che ancora oggi chiamiamo "sinistra" è nata da un patto difensivo contro la destra nazionalista, clericale e reazionaria, siglato all'alba del XX secolo tra le correnti maggioritarie del movimento socialista e le forze liberali e repubblicane che si rifacevano ai principi del 1789 e all'eredità dell'illuminismo, la quale include anche Adam Smith. Leggi tutto
Trad.: 2060: la ricerca di una tecnologia rivoluzionaria per risolvere il cambiamento climatico continua. "E' una macchina del tempo che speriamo ci riporti indietro di 50 anni quando avremmo potuto tassare il carbonio"
Gli scenari non sono previsioni, solo modi per descrivere futuri possibili, utili per essere pronti ad eventi inaspettati. La sola regola nella costruzione di scenari è che le ipotesi non devono essere troppo improbabili, come contemplare macchine del tempo. Eppure, sembra che in alcuni casi che coinvolgono previsioni climatiche, le macchine del tempo siano un'ipotesi intrinseca.
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La conferenza COP21 di Parigi ha riportato il clima all'attenzione del pubblico e da adesso in avanti parte la sfida vera: cosa possiamo realmente aspettarci per il futuro del clima terrestre? Come sempre, le previsioni sono difficili, specialmente quando ci sono molte variabili coinvolte. Ciononostante, il cambiamento climatico è il risultato di fattori fisici che possiamo capire e sappiamo che l'accumulo di gas serra in atmosfera – se continuasse – ci porterà ad un futuro molto sgradevole.
Se guardiamo al futuro a lungo termine, tutta la questione ruota intorno a se riusciamo a ruotare al di sotto di un aumento di temperatura che è ritenuto “sicuro” (potrebbe essere 2°C, ma non lo sappiamo con certezza), o superiamo il limite e ci ritroviamo al di sopra del “punto di non ritorno climatico” dopo il quale il sistema comincia a muoversi verso un riscaldamento sempre maggiore, con tutti i disastri associati. Leggi tutto
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In Italia, il sistema
pensionistico pubblico è strutturato, seppur solo formalmente,
secondo il criterio della
ripartizione.
Ciò significa che i contributi che i lavoratori e le aziende versano agli enti di previdenza vengono utilizzati per pagare le pensioni di coloro che hanno lasciato l’attività lavorativa. Per far fronte al pagamento delle pensioni future, dunque, non è previsto alcun accumulo di riserve.
È evidente che in un sistema così organizzato, il flusso delle entrate (rappresentato dai contributi) deve essere in equilibrio con l’ammontare delle uscite (le pensioni pagate).
In Italia, da un lato, il progressivo aumento della vita media della popolazione (fatto di per sé positivo, a meno che non si voglia ripristinare un “Monte Taigeto” di spartana memoria o una “rupe Tarpea” di latina memoria) ha fatto sì che si debbano pagare le pensioni per un tempo più lungo, dall’altro, il rallentamento della crescita economica ha frenato le entrate contributive.
Per far fronte a questa situazione, sono state attuate una serie di riforme tutte orientate a riportare in equilibrio contabile la spesa pensionistica: Leggi tutto
Nella realtà sociale, nonostante tutti i cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo è rimasto il continuum storico che collega la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica. (H. Marcuse1)
Con l’evoluzione della «società dello spettacolo» sta maturando il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo, sotto attacco nella sua sfera intellettiva, rischia di perderela capacità di agire consapevolmente e di essere soggetto della storia
Se uno degli ambiti di
studio e azione più importanti della filosofia marxista è
consistito
nell’analisi delle forme di dominio del più forte sul più
debole, la grande intuizione di Antonio Gramsci, e quindi uno
dei suoi
lasciti più fecondi, risiede nell’aver compreso come, con il
Novecento, il terreno su cui si svolgevano – e si sarebbero
svolte
– le nuove forme di dominio non era più dato dal solo contesto
strutturale, ma avrebbe interessato la sovrastruttura
ideologica 2. In forme e con modalità
certamente non
osservabili (e quindi prevedibili) in tutta la loro
potenzialità ai tempi del pensatore sardo, ma che sono sotto
gli occhi di tutti nei giorni
nostri in piena epoca di trionfo della società dello
spettacolo, con i suoimeccanismi tecnologici annessi 3.Con l’elaborazione del nesso
fra
teoria e pratica,tra pensiero e azione, in buona sostanza tra
filosofia e politica, Gramsci non soltanto superava quel
marxismo meccanicistico che
concentrava la propria attenzione sul solo momento strutturale
(di contro al problema opposto rappresentato dall’Idealismo),
ma poneva le basi
per un recupero della centralità dell’uomo (e della sua
dignità) come soggetto pensante e agente (inscindibili i due
momenti) e,
in quanto tale, soggetto consapevole e «creatore della sua
storia» 4. All’interno di questo discorso
si comprende l’intento gramsciano perché al nesso fra teoria e
azione (o tra filosofia e politica) corrispondesse quello tra
«intellettuali» e «semplici»: innanzitutto affinché i
primi sapessero elaborare dei principi coerenti con i problemi
che le masse si trovano a porre con la propria attività
pratica, al fine di
costituire un «movimentofilosofico» che non svolgesse «una
cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali»,
ma
che fosse in grado di trovare nel contatto costante coi
semplici «la sorgente dei problemi da studiare e risolvere».
Soltanto in questo
modo una filosofia si «depura» dagli «elementi
intellettualistici» e si fa «vita» 5. Leggi tutto
Nella manifattura la rivoluzione del modo di produzione prende come punto di partenza la forza-lavoro; nella grande industria il mezzo di lavoro. Occorre dunque indagare in primo luogo in che modo il mezzo di lavoro viene trasformato in macchina, oppure in che modo la macchina si distingue dallo strumento del lavoro artigiano. (Karl Marx, Il capitale)
Noi ci siamo occupati tanto a fondo del problema di sapere che cosa pensiamo da esserci dimenticati di chiederci che cosa la psiche inconscia pensi di noi. (Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli)
Il rito, ogni rito, è un condensato di storia e preistoria: è un nocciolo dalla struttura fine e complessa, è un enigma da risolvere; se risolto, ci aiuterà a risolvere altri enigmi che ci toccano più da vicino. (Primo Levi, Opere)
1. Realismo ingenuo
La cultura contemporanea occidentale immagina il proprio futuro con molta difficoltà. Non a caso la forma più comune di rappresentazione simbolica del futuro è la catastrofe. Naturalmente esistono ragioni oggettive che possono giustificare questo impulso simbolico autodistruttivo.
Prima fra tutte, la percezione fisica, percettiva, estetica della distruzione dell’ecosistema e della biosfera; ma, subito dopo, potremmo enumerare una serie di condizioni di pericolo a cui ci stiamo abituando a essere esposti, per lo meno a livello ipotetico: caos sociale, crisi economiche, povertà, violenza politica, guerre, terrorismo, se la nostra sensibilità è soprattutto storico politica; contaminazioni radioattive, manipolazioni genetiche, epidemie, avvelenamenti di massa, disastri tecnologici, se ci spaventano di più quelli che Ivan Illich avrebbe chiamato gli esiti contro-produttivi della produttività (cfr. Illich 1973). Anche solo l’elenco sommario di queste condizioni di pericolo mostra come, in questi ultimi decenni, la cultura occidentale abbia sperimentato, con intensità crescente, la crisi dell’idea di progresso, non tanto a livello teorico, quanto a livello percettivo-sensibile.
La società contemporanea trova però anche molto difficoltà a immaginare il passato. Da meno di vent’anni comunichiamo tutti con la posta elettronica.
Leggi tuttoHabemus Bonus!», potranno finalmente gridare i neo-diciottenni. 500 euro una tantum contenuti in una carta acquisti consegnata dal governo ai futuri votanti. «Che figata!», verrebbe da rispondere: cinema, teatri, concerti, musei tutto in un cip. Le ragioni di cotanta munificenza le ha spiegate il loquace Matteo in uno dei suoi ultimi interventi pubblici: si tratta di «combattere il terrore con la cultura». Se ci avessero pensato in Francia qualche mese fa, i fanatici del Daesh al Bataclan ci sarebbero andati a ballare. Bisogna riconoscere che c’è del genio.
La strategia argomentativa è d’altra parte il grandioso supporto ideologico di un’altrettanto geniale strategia contabile. Se si tratta di sicurezza e di lotta contro il terrorismo, i soldi si trovano e gli Stati membri dell’Unione possono andare in deficit senza troppi sensi di colpa. Devi dare un aumento alle tue forze dell’ordine, che da sempre lamentano di essere sottopagate? Ottanta euro e siamo tutti più sicuri. Devi procacciarti nuovi voti in un largo bacino di nuovi elettori appena maggiorenni? Una cura di base anti-radicalizzazione a colpi di pièce teatrali, Lady Gaga e musei vaticani e siamo tutti più sicuri. 500 euro e passa la paura! Bisogna riconoscere che c’è del genio.
Nonostante tutta questa genialità, però, un dettaglio salta all’occhio. I potenziali terroristi sarebbero infatti i giovani italiani e i cittadini dell’Unione Europea. I figli dei migranti extraeuropei, infatti, non avranno alcun diritto alla carta dei balocchi. Lo stato d’emergenza, che in Italia ci assicurano non esserci, rivela così il suo legame profondo con le politiche dell’integrazione che assumono un senso del tutto nuovo, anche se non originale. Leggi tutto
Nei giorni scorsi mi è capitato di assistere, presso il Concetto Marchesi, all’affollatissimo incontro con Alfredo D’Attorre che presentava Sinistra italiana. Sala gremita e molto interesse, però devo dire di non aver ricevuto una gran buona impressione della nuova formazione politica, che tanto nuova non mi pare.
A cominciare dallo stile: un oratore ufficiale che parla per oltre un’ora di fila, magari punteggiando con numerosi “ed avviandomi alle conclusioni”, “un’ultimissima considerazione” (dopo di che sproloquia per altri 15 minuti, peraltro continuando a non dir nulla). E’ l’insopportabile cifra stilistica del classico dirigente che ammaestra le masse (che non ascolta mai). Roba vista troppe volte. E peggio ancora se poi infila una serie di castronerie che rivelano che non conosce le cose di cui parla. E passi per la solita tirata onirica su “un altro Euro ed un’altra Ue” (non si può proibire a nessuno di sognare), ma che, nel 2015, qualcuno dica che “occorre battersi perché vengano respinte le direttive europee in contrasto con la Costituzione che deve prevalere”, ignorando
a. che ci sono dei trattati che stabiliscono esattamente il contrario
b. che sin dal 1984 si è formata una costante giurisprudenza costituzionale di segno contrario, che si può anche non condividere, ma che per ora fa testo. E magari, dopo 30 anni, ci si può anche informare. Leggi tutto
Politici (di tutti gli schieramenti) e opinione (sempre più) comune, concordano: con la cultura non si mangia, leggere non serve a niente, meglio laurearsi presto anche se male anziché tardi anche se bene (o forse non laurearsi affatto, tanto oggi per trovare un posto, che so, da ministro, basta saper usare i social), ecc., e ogni qualvolta che qualcuno se ne esce con qualche esternazione del genere, ne consegue un profluvio di articoli e commenti indignati, un coro in difesa della cultura, e la cosa si riduce così ad uno scontro binario fra guelfi e ghibellini.
Come piccola e ovvia premessa, va da sé che quando gli uomini del fare criticano il sapere, si riferiscono alla cultura, quindi al sapere umanistico, e certamente non al sapere tecnico, pratico, operativo, quello delle scienze applicate (le scienze “pure” sono tollerate solo perché servono per arrivare a quelle applicate), quello del know-how, che è già una forma di fare. È (dovrebbe essere) infatti ormai chiaro anche ai sassi che è in corso una risignificazione di termini, e delle relative pratiche, quali sapere, conoscenza, istruzione, educazione, facendoli coincidere con l’acquisizione di competenze dettate dalle esigenze del mercato (a loro volta, dettate dalle esigenze della tecnica, ma qui il discorso diventa lungo). Scuole e università si trasformano così in nuovi centri di avviamento al lavoro, che differiscono da quelli del passato solo per l’iperspecializzazione dei nuovi operai che producono – sarebbero queste la “Buona Scuola” e la “Buona Università”? E la cultura – en passant, una cultura alla quale ormai non prepara più nessuno, se scuole e università sono impegnate solo nella produzione di futura manodopera – è tollerata al massimo come ornamento del fare, come divertissement nelle pause del fare. Leggi tutto
Amnesty International, guidata fino a poco tempo fa da Suzanne Nossel, lobby ebraica e braccio destro della stragista Hillary Clinton quando era segretario di Stato, organizzava golpe in Honduras e andava in orgasmo sul linciaggio di Gheddafi, ha diffuso un rapporto-bomba (qui, in inglese) in effetti bomba-petardo, in cui accusa la Russia di aver ucciso con bombe e missili 600 civili, di cui i soliti immancabili 150 bambini. E di aver impiegato bombe a grappolo. Un sito semiclandestino, “Pressenza”, house organ del Partito Umanista (vedi anche alla voce “Olivier Turquet”), dei cui tentativi di infiltrarsi nei movimenti pacifisti e di opposizione radicale siamo tutti consapevoli da anni, lo rilancia sotto il titolo “Vergognoso silenzio della Russia suille vittime civili degli attacchi in Siria”. Si tratta di vocina in falsetto che tenta di trascinare boccaloni della sinistra e dei movimenti nonviolenti nel coro dei tenori della russofobia che si esprimono sui grandi media.
Il ministro della difesa russo ha già esaurientemente controbattuto alla calunnia dell’agenzia imperialista per i diritti umani, fornendo tutte le prove della menzogna. Menzogna, del resto, fondata su basi grottesche: anonime tetimonianze telefonate dalla Siria! Disintegrano le balle di Amnesty le immagini setallitari regolarmente fornite alla stampa dai comandi russi; la presenza di giornalisti internazionali alla base russa di Hmeymim, che non hanno mai visto caricare una bomba a grappolo; il dato che su alcune zone dalle quali sarebbero arrivate le denunce non si è mai verificato un bombardamento; Leggi tutto
Incontro-dibattito sul libro Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, Clash City Workers (La casa Usher, 2014) presso La casa in Movimento, Cologno Monzese (MI), 13 novembre 2015
Il progetto Clash City Workers nasce
a Napoli
nel 2009 e si diffonde a Roma, Firenze e Padova, in piccolo
anche a Milano, Torino e Verona, dove si sono sviluppati dei
nodi del collettivo Clash. Di
base è nato dall’esigenza di trovarsi, dal fatto di essere
sempre stati legati a livello ideologico a una visione della
società
che vede il lavoro al centro quantomeno del ragionamento
politico, una visione che però non aveva gli strumenti
adeguati per leggere la
realtà che si trovava di fronte: andavamo davanti ai luoghi di
lavoro a distribuire il volantino ma non riuscivamo a parlare
con i lavoratori,
ad avere con loro una relazione, proprio perché il nostro
approccio era puramente ideologico. In più si aggiungeva la
constatazione che
quel lavoro che i media raccontavano non esistere più, o
perlomeno essere confinato a una parte marginale delle nostre
vite, di fatto lo
vivevamo direttamente, o anche indirettamente perché
disoccupati e studenti che si andavano a formare per poi
inserirsi nel mercato del
lavoro.
Eravamo di fronte quindi a una mancata considerazione di quel campo che è al centro sia della nostra esperienza individuale e collettiva sia, anche se in modo rovesciato, del discorso pubblico – se pensiamo a qual è il centro dell’operato del governo Renzi, iniziato con una riforma che, a parole, doveva garantire una maggiore occupazione e risolvere il problema del dualismo del mercato del lavoro, e si è tradotta in un un abbassamento generalizzato delle condizioni complessive, con i due passaggi del Jobs Act che prima ha peggiorato il dualismo con la semplificazione dei contratti a termine e poi ha messo in atto l’attacco più violento con l’abolizione dell’articolo 18.
Leggi tuttoNon
crediamo
più a Babbo Natale e neppure alle sue renne, però crediamo
alla rete, ai motori di ricerca, a Facebook e oggi anche alla
sharing
economy. Abbiamo creduto – e in molti lo credono ancora
- che la rete fosse libera e democratica e magari anche un
poco anarchica. Che si
potessero fare le rivoluzioni via Facebook e via Twitter.
Credendoci, abbiamo adottato senza accorgercene ma pieni di
tecno-entusiasmo il nuovo
dizionario che veniva proposto e imposto, necessario per la
costruzione di una nuova lingua universale, omologante,
pedagogica, a una sola dimensione
(tecnica & economica), fatta per integrare tutti in rete,
per diventare tutti capitalisti, competere contro tutti,
crederci individui liberi e
libertari, essere in una nuova era, in una nuova economia, in
una vita tutta nuova.
Recentemente l’abbiamo definita come LII, Lingua Internet Imperii - attualizzando le riflessioni e il titolo del libro Lingua Tertii Imperii del filologo tedesco Victor Klemperer. Analisi di come il nazismo sia arrivato a conquistare il potere anche usando la parola e non solo la violenza, attivando un processo minuzioso, incessante e pervasivo di sostituzione del senso delle parole con quello dettato/richiesto dall’ideologia nazista, dando cioè alle parole un significato progressivamente diverso (e a farlo condividere) da quello che avevano per tradizione e per dizionario. Una trasformazione della lingua e del linguaggio utile/necessaria alla costruzione e poi alla accettazione di massa (il conformismo, oggi si chiama effetto rete) della nuova lingua del potere e alla introiezione da parte di ciascuno di ciò che il potere voleva (e che vuole oggi: la connessione di tutti con tutti e con la rete e con il mercato, ma tutti rigorosamente separati dagli altri, incapaci di fare società e di autonomia, ma attirati da tutto ciò che fa comunità).
Leggi tuttoMa una testa oggi che cos’è?
E che cos’è un
nemico?
E una marcia oggi che cos’è?
E che cos’è una guerra?
Si marcia
già in questa santa pace
con la divisa della
festa.
Senza nemici né scarponi e
soprattutto senza testa!
Per l’Italia, il cambio di paradigma produttivo (l’entrata nel postfordismo) può essere fatto risalire al 1979 [meglio: alla c.d. legge Prodi n. 95 del 3 aprile 1979 (quante coincidenze)]. Da quel momento finanziarizzazione, derelizione del welfare, privatizzazione e mutazione del proletario in consumatore e produttore di se stesso, procedettero a tappe forzate.
In questo periodo (per quanto a mia conoscenza, e senza pretesa di esaustività) si sono susseguiti numerosi provvedimenti che – nella vulgata di consumatori-imprenditori-politicanti (tutti immancabilmente e falsamente) traditi – sono entrati nella (cattiva) coscienza comune come salva banche:
Caro Lars, ho letto con interesse ma senza sorpresa la tua affermazione sul Corriere della Sera del 19 scorso secondo cui nel 2016 l’Italia dovrà affidarsi alla Troika. Conosco le tue posizioni da quando ti invitai al convegno sull’Eurozona organizzato l’aprile scorso dal think tank a/simmetrie: i paesi del Sud sono in una crisi di debito pubblico causata dalla loro scarsa competitività, cioè dal fatto di avere salari privati troppo alti (ma che c’entra il debito pubblico coi salari privati?); dato che il deficit è brutto, il surplus è bello, quindi la Germania non deve cooperare e chi è in crisi deve fare i compiti a casa (ma se nessuno fosse in deficit, come farebbe la Germania a essere in surplus?). Con questi presupposti, è ovvio che tu ti opponga allo schema europeo di assicurazione dei depositi (EDIS, European Deposit Insurance Scheme), offrendoci, in alternativa, il ricorso alla Troika.
La strada giusta verso l’unione, per l’élite tedesca cui appartieni, non è attenuare i rischi creando istituzioni che li mutualizzino, ma alzare l’asticella a chi è in difficoltà. Un darwinismo che non porta da nessuna parte, come l’agonia della Grecia dimostra. Oggi perfino il CEPR, vestale dell’ortodossia, scopre quanto avevamo scritto nel Tramonto dell’euro: il debito pubblico, con la crisi, c’entra poco. Peter Bofinger, membro del CEPR e tuo collega nel collegio degli esperti della Merkel, ha detto il 30 novembre scorso un’altra cosa che sapevamo (perché l’ILO, agenzia dell’ONU, l’aveva detta nel 2012): il successo tedesco non è dovuto alle virtù della finanza pubblica, ma alla “moderazione salariale”. Leggi tutto
La circospezione con cui Janet Yellen ha proceduto al primo rialzo dal 2006 dei tassi d’interesse americani, per un modestissimo 0,25%, si spiega con i dubbi da tempo aleggianti ai piani alti della Fed sulla possibilità che i paesi occidentali siano entrati in una fase di secular stagnation, ora ammessa come «non peregrina» anche dal ministro Padoan. Se così fosse, però, tutto ciò che c’è per favorire la ripresa economica nella legge di stabilità in corso di approvazione sarebbe poco più che un palliativo e si rivelerebbe necessario un rovesciamento di paradigma, mettendo gli investimenti pubblici e la creazione di lavoro addizionale radicalmente al centro di politiche straordinarie quanto straordinaria è la situazione odierna, in una logica da grande Piano per il lavoro.
L’espressione secular stagnation — con la quale si argomentò che la depressione degli Anni 30, ben più che una severa crisi ciclica, costituiva il sintomo dell’esaurimento di una dinamica di lungo periodo — fu coniata nel 1938 da Alvin Hansen, per il quale essa era semplicemente un altro modo di definire l’equilibrio di sottoccupazione individuato da Keynes. Da tale interpretazione Hansen derivò la convinzione che non bastassero misure controcicliche (compreso l’abbassamento delle tasse) per stabilizzare l’occupazione ma fossero necessari grandi progetti collettivi, come l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la conservazione e la tutela delle risorse naturali, al fine di identificare nuove opportunità di investimento e di restituire dinamismo al sistema economico. Leggi tutto
Un anno fa due quotidiani - il Fatto e Libero - scoprivano che una gelida manina aveva infilato nel decreto fiscale di Natale un bel pacco dono per evasori e frodatori fiscali: un codicillo che depenalizzava i due reati sotto il 3% del fatturato dichiarato. Un mega-colpo di spugna che, fra l'altro, avrebbe consentito a B. l'annullamento postdatato della sua condanna per la frode Mediaset, il trionfale rientro in Senato, la restituzione del maltolto e magari pure il risarcimento dello Stato per l'ingiusta detenzione ai servizi sociali.
Il regaluccio ovviamente non era solo per lui, ma per tutti i grandi gruppi nei guai con il fisco: ma fu proprio il sospetto di favorire B. che costrinse Renzi a fare marcia indietro, congelando il decreto delegato fino all'estate. Il governo poi lo sostituì con una raffica di altre "soglie" di impunità che escludevano B. ma includevano tutti gli altri grandi evasori, e perciò passarono nel silenzio generale. Siccome ora, sui giornali del centrodestra e non solo, riesplode la polemica sul doppiopesismo degli antiberlusconiani che non dicono nulla ora che Renzi fa le stesse cose di B., è il caso di intendersi una volta per tutte: noi del Fatto non siamo pregiudizialmente né col centrodestra né col centrosinistra né con nessuno. Stiamo con la Costituzione. E critichiamo chiunque ne violi lo spirito e la lettera, si tratti di B., Monti, Letta, Renzi, Napolitano o Mattarella. Piuttosto: sono i berlusconiani che, sulle vere porcate di Renzi, tacciono e acconsentono. Tipo sull'evasione. Léggere sul sito del Fatto l'inchiesta di Chiara Brusini, per credere.
Ricordate le assoluzioni di B. nei processi per falso in bilancio "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato"? Leggi tutto
Siamo o non siamo in guerra? La domanda corre su quel terreno fangoso e ipocrita dove la risposta è no quando si accenna alla Costituzione ed è invece sì quando si tratta di obbedire al padrone, alimentare l’industria bellica o militarizzare le città giusto per concretizzare l’esistenza del pericolo. Ma c’è un’altra domanda che in realtà rimane ben nascosta ed è: con chi siamo in guerra? Bene, all’insaputa della maggioranza degli italiani e presumibilmente contro il loro parere, se solo lo si facesse trapelare è che non siamo in guerra con quel coacervo di gruppi jahdisti creati per far fuori Assad e poi confluiti nell’Isis, ma con la Russia.
La vicenda siriana prende le mosse dalla decisione di deporre Assad dopo che il leader siriano, prima nel 2009 e poi nel 2010 si oppose all’idea di far passare attraverso la Siria il gasdotto Nabucco che avrebbe portato il gas del Qatar ( e in aggiunta qualcosa anche da Israele) in Europa. Era la mossa strategica escogitata dagli Usa per isolare la Russia e renderne più facile l’accerchiamento mentre veniva alacremente preparata l’avventura ucraina. Pochi mesi dopo l’ultimo diniego di Assad, nel marzo del 2011 scoppiò la cosiddetta guerra civile con l’arrivo di tremila terroristi importati grazie ai buoni uffici di Francia e Gran Bretagna. In un primo momento le rivolte sincronizzate di Siria e Libia dovevano avere come sbocco un intervento diretto dei Paesi Nato, ma poi gli Usa bloccarono l’azione contro Damasco, forse perché troppo scoperta, mediaticamente più difficile da sostenere, forse perché si trovarono di fronte a un ultimatum di Mosca o forse perché si aspettavano un ravvedimento del leader siriano. Leggi tutto
La guerra, da sempre, scandisce col suo tocco gelido l’intero percorso dell’umanità, disseminandolo di discriminazione, persecuzioni, barbarie, violenza, morte. Le motivazioni “umanitarie” dietro alle quali si celano gli spietati aggressori odierni, burattinai di una società occidentale stanca e lacerata, svelano con chiarezza quanto, per dirla col saggista Césaire, “una civiltà che gioca con i propri principi sia una civiltà moribonda”
La storia umana è un
mattatoio
In una celebre pagina Hegel sviluppa una serie di considerazioni assai amare e tristi sulla vicenda storica umana, anche se poi – come è noto - riesce a trovare in essa un processo progressivo ed emancipatorio. Egli sottolinea l'universale transitorietà, che travolge Stati e individui, per opera della natura e della volontà umana; osserva che quadri terribili scaturiscono dalla riflessione sulla storia che possono suscitare in noi un profondo e inconsolabile cordoglio; conclude che, stante tale analisi complessiva e sconsolata, la storia umana può definirsi un mattatoio “in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli Stati, la virtù degli individui” [1]. Questa pagina di Hegel richiama alla mente un celebre sonetto del Belli, Er caffettiere filosofo, scritto nel 1833 (siamo, dunque, nella stessa fase storica anche se in un contesto differente), nel quale il poeta compara tristemente gli uomini ai chicchi del caffè che vengono inesorabilmente macinati e che, pertanto, sono tutti destinati trasformarsi in polvere, finendo annientati nella gola della morte, nonostante essi si spostino ed entrino in conflitto tra loro [2]. Il caffettiere si trasforma in filosofo perché, prendendo spunto dalla sua semplice e quotidiana attività, la cui descrizione sembra addirittura evocare l'aroma del caffè macinato, trova in essa una splendida metafora concreta con la quale rappresentare la disperante vicenda umana. Leggi tutto
Lo schema di garanzia europea dei depositi bancari scompare dalle conclusioni dell'ultimo vertice Ue dei capi di Stato e di governo. E adesso la situazione per le banche italiane si complica ulteriormente
A fare il punto è
l'economista Vladimiro Giacchè, autore, tra
l'altro, di due testi molto conosciuti e apprezzati
come "Anschluss - L'Annessione", e il recente "Costituzione
italiana contro Trattati europei, il conflitto inevitabile".
Giacchè è presidente del Centro Europa Ricerche di Roma e collaboratore di Micromega e il Fatto Quotidiano.
"Ancora una volta - dice Giacché ad AbruzzoWeb - è stata data vinta al ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, il quale aveva affermato che non avrebbe fatto passare la mutua garanzia dei depositi fra le banche europee. Questa è la ciliegina sulla torta di una unione bancaria che è stata costruita in un modo tale che non riduce, ma enfatizza le asimmetrie tra i sistemi bancari nazionali dell’Eurozona".
Il tutto mentre ancora non si placano le polemiche sul crack delle quattro piccole banche - Banca Etruria, Banca Marche, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio di Chieti - da anni in grave difficoltà ma "miracolate" grazie al decreto "salva-banche" del governo italiano "aggrappato" alle regole europee.
"L'unione bancaria - spiega Giacchè - si fonda su tre pilastri: il primo è la sorveglianza della Banca centrale europea sulle banche europee, il secondo è il Resolution Mechanism, il sistema accentrato per la gestione delle crisi bancarie nei paesi aderenti all’area euro, e il terzo quello che avrebbe dovuto essere la mutua garanzia tra le banche a livello europee. Leggi tutto
Sequestrati dalla Procura di Lecce gli ulivi da abbattere. Dieci indagati tra dirigenti della Regione, docenti dell’Università di Bari e ricercatori del Cnr. Dovranno rispondere di: diffusione colposa di malattia delle piante; falso materiale e ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici; getto pericoloso di cose e deturpamento di bellezze naturali
Li hanno
definiti, con spregio, visionari e santoni. Persino
irresponsabili. Sono i cittadini, le associazioni
ambientaliste e i comitati, che - sorti in ogni angolo della
Puglia - da un anno a questa parte stanno conducendo una dura
battaglia per contrastare
il piano governativo che prevede l’eradicazione di migliaia di
ulivi secolari. Blocchi stradali, presidi notturni, originali
pratiche di
disobbedienza civile, ricorsi al Tar, momenti di informazione
e sensibilizzazione. È articolata e varia la grammatica della
protesta sorta
attorno alla cosiddetta emergenza xylella. E comprende anche
esposti e denunce alla magistratura competente per territorio.
Poche ore fa è arrivato il primo pronunciamento della Procura di Lecce, che da mesi indaga sull’affaire xylella: “inerzie, imperizie e negligenze configurabili a carico degli organi istituzionalmente preposti alla gestione del fenomeno” scrivono il procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone e il sostituto Roberta Ricci motivando il decreto di 58 pagine con cui è stato disposto il sequestro preventivo di “tutte le piante di ulivo interessate da operazioni di rimozione immediata, previste in esecuzione del Piano degli interventi approvato dal capo del Dipartimento della Protezione civile e dal Commissario delegato”. Non solo. Leggi tutto
Risparmiatori truffati, bail-in, conflitto di interessi, malefatte del giglio magico renziano, crisi del sistema bancario, conflitto con l’Europa: abbiamo motivo di occuparcene? Ebbene sì
Il salasso imposto del “salvataggio” governativo di quattro banche medio-piccole piuttosto simboliche del capitalismo clientelare locale ha prodotto effetti tragici per molti modesti risparmiatori, danneggiando in misura non ancora quantificabile sia la fiducia verso Renzi (invischiato in loschi affari, per via familiare: lui, Lotti e la Boschi), sia la più generale fiducia nel sistema bancario. Per ora risulta colpita l’Italia centrale (Toscana, Emilia, Marche, Abruzzo), ma la situazione del Veneto non è migliore e 200 miliardi complessivi di sofferenze (debiti inesigibili) non lasciano adito all’ottimismo. Parliamo dunque dell’economia cespugliosa ex-rampante e ora soffocata dal debito e dai derivati. Non vogliamo qui indagare le cause strutturali del dissesto, in ultima analisi rinvianti al patto scellerato fra mancata sorveglianza degli organi competenti e interesse a piazzare comunque i titoli del debito pubblico, né la congruità delle misure risarcitorie dettata da palesi preoccupazioni elettorali e da timori di contagio. Ci soffermiamo piuttosto sul tipo di figure – azionisti e obbligazionisti subordinati (ma dal 1° gennaio 2016, con il bail-in europeo, tutti i creditori, cioè i detentori di obbligazioni) – che sono stati coinvolti rimettendoci ogni risparmio e, per di più, facendo la figura di allocchi, doppiamente beffati dalla loro banca di fiducia e dal governo. Con la solita tragica sequela di suicidi e sensi di colpa per aver abboccato e per averci rimesso. Leggi tutto
Dopo la volta del “si dice” sulla relazione amorosa clandestina del Filosofo dell’Essere con la sua allieva Hannah Arendt, è ora la volta del gossip infinito su Heidegger e l’antisemitismo. Chiacchiera, equivoco e curiosità colpiscono ancora. La pubblicazione dei cosiddetti Quaderni Neri (Schwarze Hefte), recentemente apparsi in parte anche in Italia (Bompiani, 2015), ha dato il via alla danza del nuovo “si dice”.
La posta in palio, a ben vedere, non è solo la delegittimazione integrale del più grande filosofo del Novecento: è l’integrale messa al bando del “pensiero metafisico” e della tradizione ermeneutico-continentale, già da tempo sotto scacco. La filosofia, se vuole continuare a esistere, è chiamata a riconvertirsi in “filosofia analitica”, cioè in un sapere che programmaticamente si preclude la possibilità di pensare e di dire la storicità (in ciò coerente con il dogma dell’end of history).
Altra cosa, naturalmente, è il discorso serio sul pensiero di Heidegger. È la filosofia di Heidegger ab intrinseco nazista? È il suo pensiero antisemita? Domande vecchie, che tornano attuali con la nuova pubblicazione. Che i Quaderni neri siano costellati da espressioni volgarmente antisemite è innegabile. Ma non è certo Heidegger il solo a macchiarsi di questa colpa, essendo invece l’antisemitismo nelle sue forme più volgari il pregiudizio di un’intera cultura, di cui Heidegger è figlio. L’antisemitismo non è forse radicatissimo nella cultura cattolica dell’epoca? Leggi tutto
Ormai è rimasta soltanto la Germania. Dopo il risultato spagnolo, il quadro appare ormai quasi completo: le “grandi famiglie politiche” del dopoguerra si vanno sciogliendo. Quelle che che hanno dato vita all'Unione Europea e ora ne vengono travolte.
Liberali, popolari, socialisti o socialdemocratici, nelle varie versioni nazionali, non costituiscono più una rappresentanza politica credibile agli occhi delle rispettive popolazioni. Quanti avevano gioito della scomparsa dei “comunisti” dopo il 1989 – sul piano elettorale, quindi come radicamento sociale diffuso – si vanno scoprendo ora esattamente nella stessa condizione. Vengono accompagnati a passi rapidi fuori dalla Storia.
Inutile ormai star qui a disquisire se quei partiti “comunisti” fossero o no depositari autentici, e in che misura, dei valori originari del movimento operaio. Così come è inutile chiedersi oggi se i popolari di Rajoy-Sarkozy-Merkel o i socialisti di Sanchez-Hollande-Schultz abbiano qualche parentela ideale minima con i loro padri spirituali di 30 0 70 anni fa.
Tutti i paesi dell'Unione Europea sono infatti percorsi dalla stessa febbrile crisi politica, che segue – com'era ovvio che fosse – la crisi economica e finanziaria globale, lo svuotamento di potere dei parlamenti e dei governi nazionali, la dimostrata incoerenza tra meccanismi di identificazione ideologica o valoriale e concrete pratiche di governo. Leggi tutto
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Antefatto 1
Prendiamo le mosse da questa interessante dichiarazione di Visco in un'intervista alla Repubblica:
"...La mera possibilità del "bail in" renderà più onerosa la raccolta bancaria, rischiando di essere, se non ben gestito, controproducente. Se un supermercato fallisce, magari se ne apre uno vicino in grado di vendere le stesse merci al pubblico di quello fallito. Se fallisce una banca, non ne riapre un'altra uguale vicina. Il rischio è che ne fallisca un'altra. Lentamente l'Europa sta cominciando a capire quali possono essere le reali conseguenze delle nuove norme".
Ma Visco dovrebbe magari dialogare, ad esempio, con Otmar Issing, che pare un interlocutore €uropeo, piuttosto attendibile e autorevole, visto che quest'ultimo, come vedremo, queste "reali conseguenze" pareva averle comprese molto bene fin dall'inizio, come vedremo in dettaglio. Il che pone allo stesso governatore delle esigenze di chiarimento con gli interlocutori europeisti, per appianare quella che, indubbiamente, risulta oggi come una fondamentale divergenza di vedute e di visioni strategiche.
Antefatto 2
A ciò aggiungiamo queste dichiarazioni del presidente dell'ABI, Patuelli che, come vedremo in una più attenta analisi del complessivo funzionamento "VOLUTO" della moneta unica (almeno a sentire Otmar Issing in qualità di esponente BCE e in tempi non "sospetti"), risultano obiettivamente contraddittorie. Leggi tutto
Parlare di
coworking è alfine un espediente per osservare la
geografia attuale del lavoro e le
difficoltà politiche e organizzative che incontriamo sul tema.
Il coworking è infatti un’utile idea, nata dal basso, per
tentare
di fare emergere il lavoro dalla situazione individualizzata e
isolata indotta dalla precarietà, insistendo sull’aspetto
sociale e
collaborativo del processo. Storicamente, la condivisione
degli spazi in cui il lavoro si compiva ha contribuito a
costruire la consapevolezza, la
cognizione, anche epica, della sua forza antagonista. Oggi,
essere al lavoro vuole spesso dire anche essere simbolicamente
“fuori” dal
lavoro così come per tradizione è stato visto, interpretato e
validato. Sandra Burchi che, a partire da dieci racconti di
donne alle
prese con il loro ufficio domestico, ha dedicato una ricerca
importante al fenomeno aggiornato del “lavorare da casa”
condensata nel libro
Ripartire
da casa, invita a perlustrare la nuova
dimensione in cui il lavoro si svolge, considerandola come uno
“spazio terzo” da reinventare. Luogo tutt’altro che privo di
resistenza proprio perché incarna, concretamente, la
collisione tra produzione e riproduzione, tra lavoro e
non-lavoro, lavoro concreto e
lavoro astratto, dunque esprime la fenomenologia dirompente di
una realtà che andrebbe – finalmente – considerata
congiuntamente
perché inseparabile. Effettivamente, non è banale rapportare
questa dimensione esistenziale del lavoro precario
all’esperienza del
lavoro domestico delle donne: la domestication del
lavoro diventa l’occasione per disarticolare ogni precedente
separazione, prima
voluta e sancita, tra sfera pubblica e sfera privata, che
significa un prodigioso ampliamento delle possibilità di far
“comunicare,
lavorare ed essere”, contemporaneamente, il soggetto precario.
Leggi tutto
Avvertenza: nella migliore tradizione post-althusseriana, ho scritto quanto segue avendo letto poco di Mario Mineo e pochissimo di Lefebvre. D’altro canto, il ‘Modo di Produzione Statuale’ pone dei problemi evidenti, e qualcosa andava detto. Sempre alla maniera della scuola di pensiero di cui sopra, sono comunque disponibile a compiere una o due (massimo 3!) autocritiche. Perciò fatevi sentire.
1.
On s’engage et puis on voit ?
Per parafrasare lo stesso Mineo: “Qualsiasi imbecille è oggi in grado di spiegarvi che Marx non scriveva ‘ricette per le osterie dell’avvenire’, rifiutandosi di definire a priori i caratteri della futura società socialista”. Dato però che la strada della fuoriuscita dell’umanità dal sistema capitalista è lunga e impervia, né ci è data alcuna certezza riguardo alla conclusione di tale cammino, in attesa di raggiungere questo benedetto avvenire e scoprire cos’è che si mangia nelle sue osterie, all’inizio del 1987 – circa sei mesi prima dell’improvvisa scomparsa – il dirigente e teorico marxista rivoluzionario palermitano Mario Mineo volle fornire ai viandanti anticapitalisti un assai opportuno pranzo al sacco, sotto forma di Lo Stato e la Transizione. Un saggio sulla teoria marxista dello Stato, testo che costituisce una buona metà del volume che raccoglie gli Scritti Teorici di Mineo (a cura di Dario Castiglione, Enrico Guarneri e Piero Violante), da cui cito e sul quale ha relazionato per i seminari di PalermoGrad Giovanni Di Benedetto in questo articolo. Se l’interlocutore polemico cui Mineo si rivolge in prima battuta, Norberto Bobbio (che faceva notare l’assenza di una teoria marxista dello Stato) è scomparso da tempo, quasi tutti gli altri sono ben presenti nel dibattito attuale e seguitano a dire – più o meno - le stesse cose di trent’anni fa, dal Mario Tronti dell’Autonomia del Politico al Claus Offe del Capitalismo Disorganizzato, fino a Toni Negri per cui, in seguito ad una rivoluzione anticapitalista “il proletariato sarà sempre e in ogni caso capace di inventare le forme istituzionali della gestione del potere”: posizione questa che Mineo considera fuori dalla realtà, ma non più di quella dello stesso Bobbio, che spera “in un sostanziale avanzamento della democrazia rappresentativa in Occidente” a fronte invece di “tendenze involutive che sono in opera da parecchio tempo” (126-7). Leggi tutto
Nessun libro di storia dell’América Latina ricorderà il 2015 come un anno delle rivoluzioni ma tutti dovrebbero segnalarne la straordinaria importanza. Mentre si fa ogni giorno più veloce il declino dei governi progressisti, un’alchimia assai diversa ricompone con nuove energie e inediti protagonisti il composito patchwork dei movimenti antisistemici. Diversi tra loro si apprestano a fronteggiare quell’avanzata delle destre che, puntuali, presentano i riti consunti dell’alternanza politica. Al di là dei discorsi sull’orgoglio patrio e i socialismi del futuro, tuttavia, le esperienze vissute da milioni di persone producono sempre cambiamenti veri che sedimentano nella società: nulla tornerà come prima dell’era progressista. La tristezza di chi rimpiange la retorica di grandi leader carismatici apre un contrasto interessante con l’allegria di chi, come Raúl Zibechi, insiste nel credere che i movimenti sociali giochino un ruolo centrale nei cambiamenti più profondi e che la storia la facciano i popoli e non i governi.
***
Quello che finisce è stato l’anno peggiore per il progressismo latino-americano, al punto tale che i governi che ci saranno nel 2016 non assomiglieranno a quelli che c’erano nel 2014. Tuttavia, paradossi della vita, l’anno che termina è un momento chiave nella ricomposizione dei movimenti antisistemici della regione. Leggi tutto
Per la sicurezza delle persone e degli animali, si proibiscono in vari casi i fuochi d’artificio per l’ultimo dell’anno, soprattutto i potenti botti. La notizia viene riportata in evidenza dai media. Gli stessi nascondono però altre notizie che, se si diffondessero, farebbero scoppiare la bolla della realtà virtuale nella quale siamo imprigionati.
Un esempio: la National Archives and Records Administration (Nara), l’archivio del governo Usa, ha pubblicato il 22 dicembre un dossier di 800 pagine, finora top secret, con una lista di migliaia di obiettivi in Urss, Europa Orientale e Cina che gli Usa si preparavano a distruggere con armi nucleari durante la guerra fredda. Nel 1959, l’anno a cui si riferisce la «target list» redatta nel 1956, gli Stati uniti avevano oltre 12mila testate nucleari con una potenza di 20mila megaton, equivalente a un milione e mezzo di bombe di Hiroshima, mentre l’Urss ne possedeva circa mille e la Cina non aveva ancora armi nucleari.
Essendo superiore anche come vettori (bombardieri e missili), il Pentagono riteneva attuabile un attacco nucleare. Il piano prevedeva la «distruzione sistematica» di 1100 campi d’aviazione e 1200 città. Mosca sarebbe stata distrutta da 180 bombe termonucleari; Leningrado, da 145; Pechino, da 23. Molte «aree popolate» sarebbero state distrutte da «esplosioni nucleari al livello del suolo per accrescere la ricaduta radioattiva». Tra queste Berlino Est, il cui bombardamento nucleare avrebbe comportato «disastrose implicazioni per Berlino Ovest». Leggi tutto
Qui la prima parte
Intervistato dal Corriere della Sera Vali Nasr, rettore della Scuola di studi politici internazionali della John Hopkins University di Washington, ha recentemente dichiarato:
Se andiamo a cercare spiegazioni per tutti i rivoli rischiamo di perdere il quadro d’insieme. Il nodo centrale è la Siria. Se non ci fosse stata la guerra civile siriana oggi l’Isis non esisterebbe.(…) Il fatto che esista un’organizzazione terrorista con una sua base territoriale è una cosa di enorme importanza. Sul piano operativo e anche su quello psicologico. Un ribelle reclutato dall’Isis, magari un criminale comune, all’improvviso si sente investito di una missione: ha non solo un’ideologia, ma anche una patria da difendere.
Il politologo di origine iraniana, già consigliere di Obama, coglie così, meglio di molti altri osservatori politici, gli elementi di novità strategici e tattici che stanno dietro l’ascesa dello Stato Islamico. La categoria del “terrorismo islamico”, con cui si è soliti inquadrare il tema, inchioda il nemico a due sole dimensioni: la violenza e la fede. Il problema è che lo stigma bipolare coglie alcuni aspetti epifenomenici della questione, ma ne nasconde altri, meno visibili ma indispensabili per comprenderne la natura. Leggi tutto
“L’umanità europea si è allontanata dal telos che le è innato. È caduta in una colpevole degenerazione poiché, pur essendo già divenuta consapevole di questo telos (avendo mangiato dell’albero della conoscenza), non lo ha portato alla più piena coscienza né ha insistito nel tentativo di realizzarlo come proprio senso vitale pratico, ma gli è diventata infedele”. (E. Husserl, L’idea di Europa)
1. Premessa
Scopo del presente saggio è rileggere l’odierna Unione Europea e il suo processo di integrazione dei popoli attraverso il prisma interpretativo di tre categorie dei gramsciani Quaderni del carcere, in particolare a) la “rivoluzione passiva”, b) la “quistione meridionale”, e c) il “cesarismo”.
Tuttavia, prima di affrontare i plessi teorici appena annunciati, occorre svolgere alcune considerazioni preliminari, onde evitare fuorviamenti interpretativi. In particolare, allorché si ragiona sul dibattutissimo tema dell’Unione Europea, bisogna preventivamente distinguere tra i tre piani dell’ideale, del reale e dell’ideologico.
In estrema sintesi, l’odierna Unione Europea viene troppo spesso surrettiziamente presentata come se, nella sua attuale configurazione, corrispondesse in actu alle premesse e alle promesse del nobile ideale europeo quale era venuto prendendo forma, sia pure secondo modalità differenti, nelle elaborazioni concettuali di alcuni dei protagonisti della stagione filosofica moderna (da Immanuel Kant1 a Edmund Husserl2). In questo modo, il reale viene scambiato indebitamente con l’ideale, in una totale rimozione del fatto che, tra i due, nell’odierno presente si dà uno scarto abissale; uno scarto in forza del quale si può, senza esagerazioni, sostenere che l’attuale Unione Europea si pone come antitesi del grande ideale dell’Europa come confederazione – così in Kant, ma poi anche in Spinelli – di Stati liberi e democratici, uguali e solidali.
Leggi tuttoCome vi abbiamo già raccontato, l’Italia sarebbe coinvolta in qualcosa che i media chiamano una “campagna contro l’Isis che ci costerà mezzo milione di euro al giorno“.
Questa campagna si chiama Prima Parthica (non dimenticate la “h”) in onore di una legione romana che fece una brutta fine da quelle parti molti secoli fa.
Consiste per ora soprattutto nell’addestramento delle guardie del corpo di Masud Barzani, un signore il cui secondo mandato come presidente del “governo regionale kurdo” (KRG) è scaduto da diversi mesi (chi glielo fa notare però viene di solito arrestato).
Masud Barzani è un kurdo, ed è il migliore amico del governo turco, visto che i turcofoni locali sono sciiti e non amano affatto il governo di Ankara.
Negli stessi giorni, ma dalla propria parte della frontiera, l’esercito turco, partner nella NATO dell’Italia, ha fatto fuori oltre cento kurdi, tra cui numerosi bambini, donne e anziani, imponendo il coprifuoco in centinaia di comuni del sudest della Turchia, dove poi fanno avanzare i carri armati.
Tra le città interne ai confini della Turchia in cui si sta combattendo in questi giorni, c’è Silopi, il grande passaggio di frontiera tra la Turchia e l’Iraq.
I curdi dell’YDG-H si vantano di controllare tutta la campagna circostante, come spiega questa mappa (notate il simbolino togliattiano): Leggi tutto
“Il mondo, tuttavia, resta ancora molto eterogeneo. Il coercitivo imperialismo delle nazioni avanzate è in grado di esistere solo perché restano sul nostro pianeta le nazioni arretrate, le nazionalità oppresse, i paesi coloniali e semicoloniali. La lotta dei popoli oppressi per l’unificazione nazionale e l’indipendenza nazionale è doppiamente progressiva perché, da un lato prepara condizioni più favorevoli per il loro proprio sviluppo, mentre dall’altro infligge dei colpi all’imperialismo. Questa, in particolare, è la ragione per cui, nella lotta fra una civilizzata, imperialista, democratica repubblica e un’arretrata, barbarica monarchia in un paese coloniale, i socialisti stanno interamente dalla parte del paese oppresso, nonostante la sua monarchia, e contro il paese oppressore, a dispetto della sua “democrazia”.
(Lenin..ehm, no. Stalin…non proprio. Mao Tse Tung. Fuori strada. Leon Trotsky, Lenin e la guerra imperialista, 1938)
La guerra indotta tra sunniti e sciiti, le “primavere arabe”, il nucleare iraniano, la decomposizione della Siria, la nascita e il ruolo dell’Isis, la paventata (e fallita) egemonia turca nella regione, la questione curda, la guerra in Iraq, la tribalizzazione della Libia: queste e altre vicende, che nell’ultimo quindicennio hanno contribuito a far deflagrare la situazione mediorientale, sono tutte accomunate da un fattore: l’irrilevanza rispetto alla contraddizione tra Israele e Palestina. La crisi generale della regione mediorientale sembra avere mille rivoli, nessuno dei quali conduce alla lotta di liberazione della Palestina dal colonialismo israeliano. Questo cambiamento, a dir poco epocale, sembra essere passato sottotraccia nelle analisi complessive della situazione, eppure è rivelatore di un salto di paradigma foriero di conseguenze. Leggi tutto
Dopo gli attentati di Parigi dello scorso 13
novembre da più parti ci si è chiesti: perché ci odiano?
Questa volta le risposte,
almeno quelle presenti nell’informazione generalista – che
però è quella che forma l’opinione pubblica e di
conseguenza le risposte politiche che a loro volta formano
l’opinione pubblica in un loop senza fine – hanno
tentato la carta
psicologica. I terroristi altro non sarebbero che “scarti
sociali” con “un livello medio-basso di cultura, una
famiglia molto
solida ed unita alle spalle e la pericolosa tendenza al
fanatismo religioso. In tutti i terroristi si è sempre
osservato che più si
chiudevano ed isolavano rispetto alla società più
diminuiva il loro senso di realtà, alimentando così
dichiarazioni sempre
più farneticanti da rendere quindi ogni loro “delirio”
come giusto e possibile. In tutti i terroristi si è anche
sempre
osservato che la molla che li ha spinti ad agire è sempre
l’odio” (qui).
La scelta terrorista sarebbe la conseguenza di
un’esistenza alienata e marginale che trova nell’idea forte
del radicalismo islamico una prospettiva altrimenti
impossibile e con internet
lo strumento di relazione della propria patologia. Di tutte
le risposte che i policy makers occidentali
potevano escogitare questa è
davvero la più incredibile. Non che ci credano essi stessi
(se il capitalismo fosse così stupido sarebbe seppellito da
un pezzo tra le
bizzarrie della storia), ma essendo la più veicolata diviene
quella socialmente più accettata, dando vita ad un processo
di
de-responsabilizzazione complessivo delle società
occidentali. Corollario alla risposta psicologica è la
richiesta di una “psicologia
dell’antiterrorismo”, che miri a prevenire
psichiatricamente la patologia del terrorista. Purtroppo, a
queste cose l’opinione
pubblica ci
crede
davvero.
In un tempo in cui la parola “crisi” è tra le più presenti nel nostro vocabolario quotidiano, era necessario che la riflessione filosofica contemporanea più avvertita ne affrontasse i caratteri di fondo. Elio Franzini, nel volume “Filosofia della crisi”, propone una rigorosa analisi sulle linee di sviluppo del concetto di “crisi”, nel suo rapporto con la verità e con alcune articolazioni del pensiero, restituendogli un senso più profondo. Proponiamo ai nostri lettori la Premessa del libro, pubblicato da Guerini, ringraziando l’editore per la gentile concessione
Difficile ignorare,
in avvio, che questo libro appare, pur se concepito con
altro scopo, in un momento in cui abbondano le
riflessioni dei filosofi su se stessi e, di conseguenza,
sulla filosofia. È questo il segno di una crisi, che
periodicamente si rinnova, e che
assale quando a una funzione «tradizionale», che si svolge
in prevalenza nelle università e nell’editoria
specialistica, se
ne affianca un’altra, che cerca la sua visibilità sulle
pagine culturali dei giornali, nell’universo sempre più
ampio dei
«media». Non è una tendenza nuova dal momento che ne parlava
anche Leopardi, criticando la filosofia dei gazzettieri: ma
si
è ingigantita negli ultimi cinquant’anni sino a creare quasi
una dicotomia sociale, tra ciò che è chiuso in un ambiente
ristretto e ciò che, invece, affronta la vita, con
differenze di linguaggio che non possono non incidere sulla
tradizione e sulla storia.
Tutto ciò che segnala una crisi del proprio orizzonte di ricerca non può essere ignorato: ma, tuttavia, neppure enfatizzato, dal momento che solo di enfasi vive. Incarna, molto semplicemente, un’esigenza sempre più forte di divulgazione, che a volte sfiora la banalizzazione, l’eccitazione per il «nuovo», sia esso un paradigma, un «ismo», un metodo, un nesso con altre discipline, un prefisso, un suffisso e via dicendo. Un’esigenza generata certo dalla diffusione della comunicazione e dei mezzi di trasmissione del sapere, ma che, tuttavia, non muta i termini generali in cui si muove la disciplina. Leggi tutto
In
letteratura sussistono vari riscontri a sostegno della
esistenza di una relazione tra politiche fiscali
restrittive,
calo della produzione e dei redditi e connesso
deterioramento dei coefficienti patrimoniali delle
banche europee. Le analisi suggeriscono che una
restrizione dei bilanci pubblici può compromettere la
stabilità dei bilanci bancari, inducendo piani di
ricapitalizzazione e al limite
liquidazioni e acquisizioni estere: vale a dire,
fenomeni di “centralizzazione” dei capitali bancari in
Europa. Se si accetta questa
chiave di lettura, si può trarre anche una riflessione
critica sul nuovo duplice ruolo della BCE, di gendarme
dell’austerity e di
supervisore bancario.
***
Dal novembre 2014 la Banca Centrale Europea ha preso in consegna la supervisione regolamentare diretta di circa 130 gruppi bancari dell’area euro. Si è così perfezionato il Meccanismo Unico di Vigilanza (MUV), primo tassello verso la creazione di una Unione Bancaria Europea. L’avvio del nuovo meccanismo di vigilanza è stato preceduto dal Comprehensive Assessment (CA), un esercizio ufficiale di valutazione dei bilanci effettuato con l’obiettivo di esaminare la qualità degli attivi, il grado di resistenza a shock macroeconomici esterni e più in generale l’adeguatezza patrimoniale dei bilanci delle banche dell’Unione europea. Leggi tutto
La scorsa settimana la Federal Reserve (Fed) ha annunciato di aver alzato i tassi d’interesse dello 0,25%. Il fatto non succedeva dal 2006, periodo nel quale la politica monetaria espansiva della Fed è stata la più aggressiva dell’ultimo trentennio.
La notizia ha suscitato l’attenzione dei media di tutto il mondo. La maggior parte degli operatori economici e delle istituzioni politiche mostrano molto ottimismo riguardo alla decisione. Cerchiamo di capire perché.
I motivi del provvedimento monetario della Fed, secondo quanto ci raccontano i giornali nostrani, stanno nella lettura positiva dei dati macroeconomici degli USA. La produzione totale dovrebbe chiudersi anche quest’anno con un segno positivo superiore al 2,5%. La disoccupazione con un 5,3%, inferiore di quasi un punto percentuale rispetto al 2014. Infine l’inflazione, che è uno degli obiettivi principali delle banche centrali, nel 2015 dovrebbe chiudersi al di sotto dell’1%, ben lontano dall’obiettivo principale del 2% (dati World Economic Outlook, october 2015, FMI).
L’innalzamento della forbice che influisce sul tasso dei federal funds - ovvero i tassi dei fondi di riserva che le banche statunitensi sono obbligate a detenere sotto forma di depositi presso la Federal Reserve – dovrebbe essere sostenuto da un drenaggio di liquidità molto alto (tra i 310 e 800 mld), in controtendenza quindi ai Quantitative Easing (QE) degli ultimi anni (come ci indica Rischio Calcolato in questo articolo). Ciò dovrebbe provocare un innalzamento del costo del denaro e quindi facilitare non solo l’attrazione di capitali dall’estero, ma anche le esportazioni del resto del mondo verso gli USA. Leggi tutto
In questa breve intervista, Jacques Rancière analizza il successo elettorale riportato dal Front National al primo turno delle recenti elezioni amministrative francesi. Ritorna così, attualizzandoli, su temi già affrontati nei suoi testi filosofico-politici più importanti (come La Mésentente, Galilée, 1995; trad. it. Il disaccordo, Meltemi 2007; La Haine de la démocratie, La Fabrique, 2005; trad. it. L’odio per la democrazia, Cronopio, 2007): la crisi della democrazia, la critica della professionalizzazione della politica e la ricerca di nuove regole della rappresentanza, come il limite di mandato per le cariche di governo e il sorteggio quale strumento per deciderle in comune. Lo sfondo delle sue parole resta la celebre distinzione tra “polizia” (police) e “politica” (politique) tracciata nelle pagine de Il disaccordo, dove i sistemi politici attuali vengono intesi come regimi tecnocratici ed oligarchici che mantengono l’esigenza di una giustificazione egualitaria. Di qui l’affermazione di una democrazia meramente elettorale, ridotta di fatto al solo voto; di una “postdemocrazia”, cioè, che Rancière descrive nel testo come la “pratica governamentale e la legittimazione concettuale di una democrazia del post demos, una democrazia che ha eliminato l’apparenza, il resoconto e il conflitto del popolo, ed è dunque riducibile al solo gioco dei dispositivi statali e delle mediazioni tra energie e interessi sociali” (J. Rancière, Il disaccordo, p. 115). Leggi tutto
La feroce lotta di potere interna al Fondo Monetario Internazionale coinvolge per la seconda volta consecutiva il suo massimo dirigente. Nei confronti di Dominique Strauss-Kahn si ricorse addirittura ad uno scandalo sessuale, mentre per Christine Lagarde ci si è limitati a ripescare dei trascorsi peccatucci del suo passato di ministro dell'economia; quisquilie, se paragonati ai reati commessi dal presidente della Commissione Europea Juncker e dalla Cancelliera Merkel; reati per i quali, peraltro, i due l'hanno fatta franca.
I conflitti interni al FMI non costituiscono mero gossip, dato che ridefiniscono i rapporti di forza tra le principali lobby finanziarie del mondo. Il FMI ha sede a Washington, ma il suo direttore operativo è un europeo, spesso un francese. Ciclicamente le lobby statunitensi devono ribadire che la sede è più importante dell'occupante di turno e, per l'occasione, si sono servite di qualche toga a stelle e strisce che opera in Francia.
Oggi il FMI è il principale componente della cosiddetta "Troika", ed anche il vero padrone dell'Unione Europea. Questo strapotere non è nato da un giorno all'altro, anzi, ha dietro una storia. Poco più di un mese fa proprio Christine Lagarde aveva pronunciato un discorsetto celebrativo su uno statista appena scomparso, l'ex Cancelliere tedesco Helmut Schmidt, un personaggio molto meno noto e meno ricordato dell'altro Helmut che gli era succeduto nella carica di Cancelliere, cioè Kohl. Il discorsetto della Lagarde su Schmidt poteva apparire come uno dei tanti necrologi di circostanza, eppure si stava parlando proprio di uno degli uomini che hanno contribuito a stabilire l'ormai quarantennale dominio del FMI sull'Europa. Leggi tutto
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La
cosiddetta “età d’oro” del capitalismo - il termine non mi
piace tanto, in verità
– i trenta anni tra il 1945 e il 1975, spesso viene
qualificata come un’epoca di compromesso tra le classi. Ma
quando mai! Era
un’epoca di dominio forte da parte del capitale, un comando
sul lavoro, dentro cui, con il conflitto e con l’antagonismo,
si sono, nel
corso della seconda metà degli anni Sessanta soprattutto e
primi anni Settanta, strappate una serie di conquiste. Il
fatto che tanto i governi
conservatori quanto quelli più di centro-sinistra abbiano
perseguito politiche di bassa disoccupazione lo si deve alla
storia tragica
dell’Europa nel Novecento; e poi alla competizione di un
sistema, che non ha mai avuto la mia simpatia, che era il
sistema sovietico, e che
però imponeva all’Occidente di stare al passo. In quel
trentennio, prima ancora che i keynesiani in senso stretti
divenissero consiglieri
espliciti dei governi (avverrà soprattutto con Kennedy e
Johnson), esiste una piena occupazione e una contrattazione
collettiva, un lavoro
decente secondo la definizione dell’ILO, e salari
progressivamente crescenti in termini reali.
La fase del neo-liberismo monetarista è la fase che risponde alla crisi di questo capitalismo “keynesiano”, che è anche una caduta da sinistra, una caduta dovuta anche ad un conflitto sociale, ad un conflitto del lavoro in cui i lavoratori non accettano di farsi usare come strumento di produzione, come cose, magari risarciti con la piena occupazione e un “equo” salario (lo aveva di nuovo intuito Kalecki). Leggi tutto
Per spiegare
l’incredibile successo ottenuto da Star Wars nei
suoi quasi quarant’anni di vita alcuni
non hanno esitato a chiamare in causa la nozione di “mito”,
senza tuttavia preoccuparsi di specificare le ragioni di tale
definizione o
valutarne seriamente l’attendibilità. Come si sa nel
linguaggio moderno in effetti il termine “mito” viene
applicato, forse
in modo troppo superficiale, a tutti quegli oggetti culturali
che hanno in qualche modo colonizzato l’immaginario collettivo
finendo per imporsi
all’attenzione anche di chi non si considera un fan. Nel caso
di Star Wars tuttavia l’appellativo di “mito”
rischia
di recuperare il suo significato originale, ossia quello di
racconto (nel senso più largo del termine) che presenta un
certo tipo di requisiti
o elementi, che lo distinguono nettamente da altre tipologie
di testo narrativo. Ovviamente esistono un’infinità di
definizioni di
“mito” e persino i Greci, che ne sono gli inventori, non erano
d’accordo quando si trattava di dire cosa fosse un mythos.
Per semplificarci il compito faremo nostra la definizione,
semplice ma al tempo stesso estremamente affidabile, proposta
diversi anni fa dal filologo
svizzero Walter Burkert, secondo cui i miti altro non
sarebbero che racconti tradizionali forniti di una loro
«significatività». Il
mito, dunque, è un racconto che viene da lontano, che ha
attraversato il tempo, ha resistito al tempo, e che in virtù
di questa sua
forza continua a godere di una certa autorità nel presente,
continua cioè ad essere «significativo» sul piano culturale.
Vediamo allora se il nostro testo possiede questi due
requisiti. Leggi tutto
Ci sono notizie che dovrebbero innervosire, o almeno incuriosire, qualsiasi analista economico capace di visione “macro”. Ma al momento non ne abbiamo avuto ancora notizia...
Il re saudita – Salman bin Abdulaziz Al Saud – ha presentato nei giorni scorsi il primo bilancio della storia del regno con misure di austerità. Tra queste i soliti tagli alla spesa pubblica, l'aumento delle tariffe amministrate (il prezzo della benzina sale del 50%, arrivando a ben 24 centesimi di dollaro al litro), un po' di privatizzazioni e nessun taglio alla spesa militare. Anzi.
Fin qui tutto normale, anche se un po' sorprendente, perché vedere gli sceicchi fare “sacrifici” non è esattamente uno spettacolo di tutti i giorni. Anzi, non si era mai visto.
La causa è anch'essa nota, anzi è quasi un colpo autoinferto: il basso prezzo del petrolio, principale – se non unica – risorsa commerciale del paese. I sauditi, da un paio d'anni, hanno risposto allo shale oil statunitense, che ha momentaneamente restituito agli Usa l'autonomia energetica, con un incremento della produzione. La mossa è logica solo dentro una logica di guerra dei prezzi: il costo di produzione del greggio saudita è infinitamente più basso di quello attraverso il fracking (tra i 50 e gli 80 dollari al barile), quindi – era il calcolo saudita – un calo drastico del prezzo del greggio fino agli attuali 36-37 dollari avrebbe rapidamente messo fuori mercato il nuovo concorrente, oltre ad altri produttori “nemici” della cordata Usa-Arabia (Venezuela, Iran e Russia su tutti). Leggi tutto
Nous ne pouvons plus maintenant avoir aveuglément confiance, come Rosa, dans la spontanéité de la classe ouvrière, et les organisations se sont écroulées. Mais Rosa ne puisait pas sa joie et son pieux amour à l’égard de la vie et du monde dans ses espérances trompeuses, elle les puisait dans sa force d’âme et d’esprit. C’est pourquoi à présent encore chaucun peut suivre son exemple (Simone Weil).
Introduzione
Sono passati ormai quasi cent’anni da quando, nel gennaio del 1919, Rosa Luxemburg venne assassinata. L’immagine che di lei hanno avuto ed hanno i suoi avversari, di ieri e di oggi, è semplice abbastanza da poter essere sintetizzata in un’espressione efficace come “Rosa la sanguinaria”. Ma anche le immagini che di lei hanno dominato e dominano tra chi dovrebbe averne più a cuore la memoria – penso ai marxisti di questo secolo, e a un certo femminismo – sono a volte talmente semplificate da risultare ancora meno accettabili.
Si prenda, per esempio, un articolo di Margarethe von Trotta, regista di un film su Rosa Luxemburg. La regista tedesca sintetizzava l’eredità della rivoluzionaria polacca nell’amore, nell’incapacità di odiare, nel rifiuto della violenza. Non si potrebbe immaginare certo nulla di più lontano da “Rosa la sanguinaria”. Già nel film, peraltro, la Luxemburg vi appare come una pacifista, amante della natura, che patisce la divisione tra politica e sentimenti, precocemente oltre il femminismo nella convinzione di una maggiore positività delle relazioni femminili. Tutti tratti, si badi, che hanno un riscontro in momenti ed aspetti di questa donna cui è capitato di essere rivoluzionaria. Ma se si assolutizzano questi lati mettendo tra parentesi la sua vita spesa nel lavoro teorico marxista, tra analisi dell’accumulazione e agire politico, la sua lucida coscienza della amara spietatezza delle leggi della storia e della lotta contro di esse, si finisce – magari contro le intenzioni – con il riproporre una divisione delle ragioni dalle passioni. Leggi tutto
Ovunque gli spazi urbani vengono privatizzati, le strade commercializzate ed è proibito persino sdraiarsi su di una spiaggia senza pagare. I fiumi intanto vengono contenuti dalle dighe, le foreste disboscate, l’acqua imbottigliata e messa sul mercato, i sistemi di conoscenza tradizionali saccheggiati attraverso norme di proprietà intellettuale e le scuole trasformate in imprese volte al profitto. Ciò spiega perché l’idea dei beni comuni esercita una forte attrattiva sull’immaginario collettivo. Del resto, in ogni angolo del mondo gruppi di persone hanno cominciato a costruire insieme beni comuni: orti urbani, banche del tempo, gruppi di acquisto solidale, monete locali, licenze “creative commons”, pratiche di baratto, cucine popolari, esperienze di pesca comunitaria… Creare e difendere beni comuni è più di un argine contro gli assalti neoliberisti alle nostre vite. È la forma embrionale di un modo diverso di vivere, è il seme di una società oltre il mercato e lo stato. “Il nostro compito è comprendere come possiamo connettere queste diverse realtà – spiegano in questo splendido saggio George Caffentzis e Silvia Federici – E come possiamo assicurarci che i beni comuni che creiamo siano realmente trasformativi delle nostre relazioni sociali e non possano essere cooptati”
Abstract
Il documento mette a confronto la logica sottostante la produzione dei “beni comuni” con quella delle relazioni capitaliste e descrive le condizioni in base a cui i beni comuni divengono semi di una società oltre lo stato e il mercato. Mette anche in guardia rispetto al pericolo di cooptazione dei beni comuni per fornire forme di riproduzione a basso costo e analizza come poter prevenire tale esito.
Introduzione
I “beni comuni” stanno diventando una presenza costante nel linguaggio politico, economico e persino in campo edilizio, dei nostri tempi. Sinistra e destra, neoliberisti e neokeynesiani, conservatori e anarchici utilizzano il concetto nella loro propria accezione politica.
Leggi tuttoPiccole osservazione in tema di inquinamento
Al recente COP21 di Parigi, l’attenzione di politicanti e «scienziati» (con contorno di pennivendoli di alto e basso rango) si è posta soprattutto sul riscaldamento climatico, determinato dalle emissioni di anidride carbonica (CO2), sorvolando bellamente sulle catastrofi umane e ambientali, causate dall’industria capitalistica nelle sue molteplici attività. Per tragica ironia, il periodo di riferimento per «calcolare» il tasso di inquinamento (aumento della temperatura) è l’era industriale, mentre alcuni coglioni (detti maîtres à penser) continuano a dire che oggi saremmo nell’era postindustriale… tiremm innanz. I mutamenti climatici, ovvero l’aumento della temperatura della Terra, non sono una novità, sono dovuti a fattori naturali su cui sono state elaborate varie teorie «scientifiche», non sempre concordi. In questi ultimi anni, l’aumento della temperatura si è coniugato con il costante peggioramento delle condizioni ambientali, fomentando tesi ancor più stonate.
Nonostante l’enfasi che ha contraddistinto il fatuo simposio parigino, ci troviamo di fronte a un significativo arretramento rispetto al passato, quan-do si parlava di «sviluppo sostenibile» e veniva varata una legislazione che disciplinava le attività industriali riguardo all’ambiente, come l’italianissima Legge Merli (10 maggio 1976). Legge assai rigorosa, come altre, ma che non ha assolutamente risolto il problema. Anzi…
A questo punto dobbiamo domandarci se il capitalismo sia se non riformabile almeno regolabile, per garantire in qualche modo le condizioni di vita organiche, per animali & piante. Leggi tutto
Dopo il ciclo di letture dell'anno scorso sul Capitale di Marx a cura di Riccardo Bellofiore, la campagna Noi Restiamo e la Rete dei Comunisti intendono proporre a Torino un nuovo ciclo di incontri di formazione sulla teoria marxiana da parte di un altro studioso dell'autore tedesco apprezzato a livello internazionale: Roberto Fineschi. Leggi tutto
Da anni questo blog segue le dinamiche di crisi del sistema bancario italiano. Nel luglio 2013, di contro a chi si ostinava a non vedere il problema, indicavamo il rischio del crollo del sistema bancario italiano. Mazzei torna sull'argomento con un'analisi impeccabile dei diversi aspetti della bomba bancaria e conclude con una proposta
Almeno
per le banche, il 2016 non sarà un anno come gli altri.
Che il sistema bancario italiano abbia dei seri
problemi, questo ormai l'hanno
capito tutti. Le stesse ripetute rassicurazioni sulla
sua "solidità" non fanno altro che confermare la gravità
della situazione. In
poche settimane abbiamo avuto il "decreto salvabanche",
le perdite dei risparmiatori coinvolti, lo scontro di
Renzi con la Germania, il caso delle
dimissioni rientrate del governatore Visco, la corsa di
fine anno alla sistemazione di alcuni istituti di
credito (Banca Veneto e non solo), mentre
dal primo gennaio saranno legge le norme del bail-in
voluto dall'Europa. Insomma, una situazione in forte
movimento, con sullo sfondo la
questione delle questioni: il via libera oppure no, e se
sì in quale forma, alla bad bank, il nuovo
istituto che dovrebbe assorbire i
crediti in "sofferenza" delle banche italiane,
consentendo alle stesse una consistente ripulitura dei
bilanci.
Tante le questioni in gioco: politiche, economiche e finanziarie. Tanti i soggetti a rischio, potenzialmente diversi milioni di italiani. Proviamo allora ad inquadrare i vari aspetti del problema.
1. Lo scontro con Angela Merkel non è solo
propaganda
Partiamo da un fatto politico: lo scontro inscenato da Renzi nei confronti di Angela Merkel all'ultimo Consiglio europeo non è solo propaganda. Chi lo pensa sbaglia. Leggi tutto
“Se ci vien fatto di dimostrare che la carità
legale, applicata secondo
questo principio, può essere utilmente introdotta
nelle società moderne, noi avremo tolto al comunismo i
suoi più
formidabili argomenti, e segnata la via a migliorare
le sorti delle classi più numerose, senza mettere a
repentaglio l’esistenza stessa
dell’ordine sociale” (Camillo Benso conte di Cavour)
Il carattere “sociale” e “minimo” del salario non deve assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che sull’onda delle mode riproduttive e fuori mercato, intendono con codesto tipo di dizioni forme spurie di salario o reddito garantito dallo stato o da altre istituzioni pubbliche, mediante prestazioni più o meno accessorie fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una tal commistione di categorie, e meglio anzi sarebbe dire una tale lista di attributi tra loro incongruenti, conduce a un pasticcio di rapporti di forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemosina (quel tipo di confusione concettuale “inetta e barbarica” sulla quale Hegel ironizzava chiamandola “un ferro di legno”). L’essere sociale e minimo del salario è invece unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-lavoro entro il rapporto di capitale posto da questo modo della produzione sociale. Non vi è spazio né teorico né storico, perciò, per confondere il carattere sociale del salario con sole sue parti o con differenti forme assistenziali cui le istituzioni borghesi saltuariamente provvedono per concessioni parziali, né il suo livello minimo con analoghe forme assistenziali o contrattuali che dànno veste legale all’ipocrita solidarietà della filantropia borghese.
Leggi tuttoNell’articolo “Il male della
banalità” pubblicato su a/simmetrie il 15 luglio si
riconosceva, portando l’esempio della Grecia,
l’impossibilità per qualsiasi formazione della
cosiddetta “sinistra” di affrancarsi dalla gabbia
dell’europeismo di
maniera, fatto di significanti senza significato e di
slogan ad effetto che non hanno alcun nesso con la
realtà dei fatti. Come scrivemmo:
«È ormai evidente che quest’Unione Europea è totalmente irriformabile, perché è incompatibile con la democrazia; pertanto non si pone più alcuna questione su quali cambiamenti siano necessari per renderla migliore. Fanno sorridere gli appelli delle variopinte anime belle delle varie sinistre movimentiste sulla necessità di ridisegnare le regole europee, i parametri e i patti di stabilità, allo scopo di contrastare le politiche di austerità, visto che nella gabbia della moneta unica e dei trattati europei non c’è possibile redenzione. Il ricorso ad improbabili iniziative referendarie od elettoralistiche, su queste basi, è quindi destinato all’irrilevanza».
Questo è uno dei punti fermi da tenere sempre presenti, se non si vuole cadere nell’inconsistenza di una prassi fine a se stessa o, cosa peggiore, in un’operazione di cosiddetto “gatekeeping” che serva solo ad intercettare voti per impedire la formazione di forze politiche che possano essere veramente utili per contrastare la crisi nella quale versa il nostro Paese e il nostro continente e, cosa più importante, per modificare la situazione attuale creando una vera alternativa politica.
Leggi tuttoSu un giornale distribuito gratis in metropolitana, leggevo un articolo sulle giovani generazioni, i cosiddetti nativi digitali. Che a quanto pare non conoscono così bene l’uso del computer quanto si crede, sicché dovrebbe essere la scuola a insegnarglielo. Sono rimasto affascinato da come l’autrice finisse con l’implicitamente demistificare uno dei capisaldi ideologici del discorso dominante sulla scuola. Com’è noto, infatti, molti dei più recenti provvedimenti di riforma sarebbero stati presi, a detta dei loro sostenitori, sotto la necessità urgente di far fronte a un’ondata di studenti nativi digitali non più in grado di sopportare l’insegnamento tradizionale. Il che imporrebbe un radicale cambio dell’impostazione dello studio, un taglio netto dei vecchi contenuti (particolarmente quelli per tradizione considerati utili a sviluppare una visione critica delle cose) e una sostanziale eliminazione del ruolo dell’insegnante nella trasmissione di contenuti che dovrebbero essere prodotti autonomamente tramite la rete.
Invece basta che un’insegnante ci racconti la sua esperienza sul campo, per scoprire che i famosi nativi digitali in realtà non sono poi così nativi: quasi fossero personaggi di quelle sorpassatissime pi èce teatrali dell’assurdo che una volta si studiavano (appunto) a scuola. Naturalmente l’emergere di queste evidenze non cambierà minimamente il discorso mediatico sui nativi digitali, e ciò per un motivo molto semplice: se cade il loro mito cade allo stesso tempo il postulato dell’informatica come strumento didattico unico, architrave ideologico e infrastrutturale della «buona scuola». Se il computer non è uno strumento didattico importante, ma l’ unico, già definirlo «strumento», in una prospettiva del genere, risulta alquanto riduttivo. Leggi tutto
I discorsi di fine anno contano poco, in genere. Si fanno perché sono obbligatori, sono vaghi quanto basta perché vengano dimenticati presto, non incidono né sui sondaggi né sull'umore dei futuri elettori.
L'unica eccezione del soliloquio renziano di ieri riguarda la data e il tema “spartiacque” della sua avventura politica. Che non sono ovviamente le amministrative di primavera, ma il referendum confermativo sulla oscena “riforma costituzionale” che sostanzialmente abolisce la Costituzione “nata dalla Resistenza” (tra virgolette non perché non sia stato vero, ma perché troppe volte questa formula ha fatto velo a pratiche di segno opposto, concertativo, antipopolare).
Tutto il resto era fuffa scontata, a partire dalle “realizzazioni” compiute dal suo governo (sembrava di sentire gli slogan berlusconiani con un bel “fatto!” alla fine di ogni frase), e dall'esaltazione ridicola di quel +0,8% di Pil con cui si chiuderà il 2015 (dopo quattro anni di segni meno, e in presenza di circostanze eccezionalmente favorevoli come il quantitative easing della Bce e il tracollo del prezzo del petrolio, sarebbe stato difficile fare peggio).
Inutile star qui a ricordare che alcuni di quelli che considera “successi” sono in realtà macelleria sociale, a partire dal Jobs Act e dall'abolizione dell'art. 18, che hanno consegnato la vita e la dignità di ogni singolo lavoratore dipendente al capriccio delle singole imprese o addirittura dei singoli “capetti” e caporali. Leggi tutto
A
causa delle pessime regole dell'Unione Bancaria decise
dalla Commissione Europea sotto dettatura del governo
tedesco, il risparmio
italiano e l'intero sistema bancario nazionale sono a
rischio. Dopo che i buoi sono scappati dalla stalla –
ovvero dopo che migliaia di ignari e
innocenti piccoli risparmiatori hanno perso tutti i loro
soldi, come è successo nel caso delle quattro banche
regionali Banca Marche, Carife,
Popolare Etruria e CariChieti – Matteo Renzi, leader
maximo del governo italiano, si lamenta che la
Unione Europea usa due pesi e due
misure: uno per la Germania e l'altro per l'Italia (e
per gli altri paesi cosiddetti periferici
dell'eurozona). La Germania fa quello che vuole non
solo sulle banche, ma anche sull'immigrazione e
sull'energia e sul business con la Russia. Renzi se ne
accorge solo ora? Meglio tardi che mai!
Lamentarsi – magari per cercare di recuperare i voti del crescente malcontento – non basta: per riuscire veramente a uscire dalla morsa teutonica, occorre che in prospettiva il governo imponga la revisione degli idioti, unilaterali e anticostituzionali trattati europei, a partire da quello sull'Unione Bancaria. Nell'immediato bisogna invece emettere nuova moneta fiscale e nazionalizzare almeno una grande banca italiana con l'intervento della Cassa Depositi e Prestiti. Questa sarebbe la vera difesa del risparmio italiano! Uscire dalla trappola della liquidità e salvare le banche.
Renzi ha approvato senza fiatare trattati europei anti-costituzionali, tra cui l'Unione bancaria. Oggi però si lamenta che i due capi del governo tedesco, Merkel e Gabriel, fanno solo ed esclusivamente gli interessi del loro paese. Leggi tutto
Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e
ricomporre l’infranto.
Ma una tempesta spira dal paradiso,
che si
è impigliata nelle sue ali,
ed è così forte che
egli non può più chiuderle.
Questa tempesta spinge
irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle,
mentre il cumulo
delle rovine sale davanti a lui al cielo”.
Walter Benjamin, Nona
tesi su concetto di storia
(su “Angelus Novus” di
P.Klee)
Contributo alla discussione congressuale nazionale di Sinistra Anticapitalista
Mi ha colpito molto la drammaticità della crisi ambientale del pianeta descritta da Daniel Tanuro in “Di fronte all’urgenza ecologica..”.
Vorrei aggiungere alcune riflessione a proposito della sovrappopolazione “assoluta” e la strategia del Capitale. Chiarisco che si parla di sovrappopolazione assoluta per intendere una densità umana incompatibile comunque con qualunque progetto di convivenza degno di questo nome, mentre la s. relativa, di marxiana memoria, si riferiva al modo di produzione dominante, in cui dai semplici raccoglitori al più evoluto sistema industriale si potevano alimentare popolazioni umane crescenti. E’ evidente che l’eventuale “spinta progressiva” dello sviluppo demografico si stia capovolgendo.
Non è che l’uomo (ma anche altre specie animali) non sia riuscito a creare disastri ambientali anche con relativamente piccole comunità. Solo alcuni esempi eclatanti (citati da lettore curioso e non certo specialista): Leggi tutto
Il 2015 è stato l’anno che ha visto l’Italia tornare alla crescita, sia pure frazionale, dopo anni di depressione, grazie ad una serie di shock positivi esterni pressoché irripetibili, come il crollo del prezzo del greggio, la politica monetaria espansiva non convenzionale di Mario Draghi ed una politica fiscale finalmente neutrale o lievemente espansiva a livello di Eurozona. Ma il 2015 proietta anche ombre lunghe sul futuro: alcune frutto delle debolezze dell’economia globale, altre più specifiche al sistema-paese Italia, alle sue tradizionali vulnerabilità ed alla definitiva emersione di aree di crisi strutturale per molti anni occultate, come quella del carico di sofferenze bancarie accumulate in lunghi anni di crisi ma anche per pessime politiche di erogazione di credito da parte di banchieri spesso calati nel ruolo di faccendieri.
Business Insider riporta un articolo di Wolf Street in cui si analizzano gli effetti distorsivi del QE e della politica dei tassi a zero. Dal lato dei prezzi al consumo e dei salari, non si è avuta altro che deflazione, per il semplice motivo che i soldi delle banche centrali non sono mai arrivati nelle tasche dei consumatori, se non in parte sotto forma di un pericoloso indebitamento. Il fiume in piena del denaro a costo zero si è riversato piuttosto sui grandi istituti finanziari e sulle grandi imprese, provocando bolle, distruzione di capitale, e cattivi investimenti
Mi è stato chiesto, ancora una volta, perché tutta questa “stampa di moneta” da parte della banca centrale, insieme col tasso di interesse globale a zero o addirittura con politiche di interesse negativo, non abbiano causato una grande fiammata inflazionistica, considerata l’inondazione di moneta nel sistema economico.
E’ una domanda cruciale che per un po’ di tempo ha dato molto da pensare, ma ora, che questa storia si trascina ormai da sette anni, rimbalzando da una importante banca centrale all’altra senza che se ne veda la fine, la risposta è sempre più chiara.
Questo grafico di NBF Economics and Strategy mostra la crescente massa di attività, espresse in dollari, che le “quattro grandi banche centrali” – Fed, BCE, Banca del Giappone, e Banca d’Inghilterra – hanno accumulato nei loro bilanci: circa $ 11mila miliardi. E questo senza contare quel che sta facendo la Cina.
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Questo
articolo parte dalla convinzione che la nostra organizzazione
economica e sociale, ormai estesa all'intero pianeta,
sia entrata in una fase di decadenza di civiltà, analoga a
quella del tardo impero romano. Un indizio di questo declino è
rappresentato
dal convergere e dall'intrecciarsi di tre tipologie di crisi:
la crisi economica dalla quale non sembra che si riesca ad
uscire (tanto che alcuni
autori mainstream parlano apertamente di
“stagnazione secolare”), la crisi geopolitica dovuta al lento
declino USA, la crisi
ecologica della quale il cambiamento climatico è per il
momento l'evidenza più forte. Non sono ovviamente in grado di
fare previsioni
sulla durata di questa fase di declino, né sulle forme
culturali, sociali ed economiche che l'umanità si darà per
superarla.
È però facile pronosticare che essa comporterà sofferenze per
grandi masse umane, e la perdita di valori civili e contenuti
culturali. Temo che non sia possibile invertire questi
sviluppi tendenziali. È però possibile un'azione politica e
culturale che abbrevi
il decorso della transizione e ne riduca le sofferenze e i
danni. Una tale azione sarà opera di forze politiche e sociali
che riescano, fra le
altre cose, ad elaborare un discorso culturale che colga gli
aspetti fondamentali dell'attuale situazione storica. In
Italia un tale programma di
“difesa civile” dovrà avere al proprio centro la Costituzione
del 1948, quintessenza di quanto di meglio la storia recente
del
nostro paese abbia prodotto.
Occorre però aver chiaro un punto: produrre un discorso culturale adeguato a questi problemi sarà un compito difficilissimo, perché si tratterà di andare del tutto controcorrente. Leggi tutto
L’anno 2015 si è
chiuso tra le roboanti dichiarazioni del premier Renzi sul
buono stato di salute
dell’economia italiana. Non si perde occasione ed evento
mondano (l’apertura di un nuovo tratto autostradale, la
ristrutturazione di
alcune domus a Pompei, la collocazione del titolo Ferrari
in borsa a Milano, la conferenza stampa di fine d’anno…)
per affermare che la
ripresa economica è partita, che la disoccupazione è in
calo e l’occupazione in crescita. Ma le cose stanno
veramente così?
L’economa italiana soffre di parecchie malattie
strutturali: la precarietà, l’assenza di managerialità
nelle imprese,
la scarsa propensione all’innovazione, la dipendenza dai
poteri tecnologici e finanziari esteri, l’arretratezza del
capitalismo familiare
nostrano e del sistema di welfare. Eppure, nessuno di
questi nodi viene affrontato. Non sarà con la retorica
propagandista di governo che si
riuscirà a venirne a capo.
* * * * *
Due notizie economiche di diversa fonte hanno caratterizzato gli ultimi giorni del 2015.
Il Center for Economics Business and Research (Gran Bretagna) ha affermato che l’Italia uscirà dall’élite dei Paesi industrializzati (G8) ().
Leggi tuttoE’ uscito, nel dicembre 2015, un
libro
di Ottone Ovidi per le Edizioni Bordeaux, dal titolo “Il
rifiuto del lavoro/ Teoria e pratiche nell’ autonomia operaia”
Io giudico un film bello se ha due requisiti, il primo se scorre velocemente, il secondo se ho voglia nel tempo di rivederlo. Questo vale anche per i libri. Questo libro si legge facilmente e si arriva con interesse fino in fondo.
E’ stato come aprire un cassetto con tante foto della propria storia che non è mai esclusivamente personale ma si intreccia con le vicende del paese in un unicum dove non c’è un prima e un dopo. Leggo dell’occupazione della Fiat Mirafiori da parte degli operai nelle giornate del 29 e 30 marzo del ’73 e subito per associazione di idee mi viene in mente l’antecedente che aveva preparato quell’avvenimento cioè lo sciopero degli operai della Fiat nell’aprile del ’69 per i fatti di Battipaglia. Gli operai in quell’occasione rompono il diaframma costruito artificialmente, proprio dai sindacati confederali, di divisione fra il momento politico e quello sindacale e smascherano che questa divisone era tenuta artificialmente in vita da chi voleva ricondurre le lotte ad un ambito meramente corporativo per poi attribuirne agli stessi operai la responsabilità.
Ma sulle vicende di Battipaglia vengono gettate luci negative, il PCI e l’Unità parlano di oscure trame e ipotizzano non tanto larvatamente lo zampino dei fascisti. E’ un momento nodale del nuovo e diverso approccio nei confronti delle lotte che poi sarà sviluppato e portato a compimento con le vicende dell’autonomia e del 7 aprile.
E’ in questo clima di ritrovata dimensione politica, di rifiuto della lettura mistificatoria del PCI e dei sindacati che si creano le basi per lo sciopero del giugno del’69.
Leggi tuttoPer lo scienziato del diritto Giorgio Rebuffa, con il tradizionale show presidenziale di fine anno abbiamo assistito a un raro esempio di «banalità del bene», a un fuoco d’artificio di luoghi comuni, a un collage di frasi retoriche ad altissimo contenuto moralistico: insomma, a una performance politico-istituzionale difficilmente eguagliabile quanto a mediocrità. Per Dagospia (il lettore mi scuserà ma non posso citare sempre Marxspia!) «la Mummia Sicula» è riuscita a parlare per più di 20 minuti senza dire assolutamente nulla: «non è facile, e gli va riconosciuto». Anche per Marco Pannella, che sperava almeno in un accenno da parte del Presidente alla condizione «disumana e degradante» nella quale versa da decenni il sistema carcerario italiano, «Mattarella ha espresso il nulla». Eppure questo nulla, veicolato peraltro in una modalità (vedi alla voce linguaggio del corpo) che mette in crisi persino la mia proverbiale empatia per tutte le creature del mondo (anche se non mi chiamo Francesco!), a molti è piaciuto, eccome! Potrei citare molti esempi di apologia del nullismo presidenziale. Potrei, ma oggi non mi va di sparare sulla Croce Rossa; un intero anno è alle mie spalle e mi sento più maturo. Diciamo.
Pare che lo staff presidenziale abbia preparato in ogni dettaglio, con maniacale cura, la location del «discorso di fine anno agli italiani»; si trattava di abbattere lo steccato fra il Presidente e appunto i cittadini del Belpaese, una parte dei quali sembra poter smottare verso pericolose posizioni “antipolitiche”. Leggi tutto
La Legge di stabilità realizza una politica di spesa in deficit indirizzata a un target selezionato in base a un criterio di consenso elettorale, anziché di reddito o di condizione sociale. Che esclude perciò le fasce a più basso reddito, che si sono progressivamente allontanate dalla politica
In un dibattito sulle sorti della sinistra in cui sempre più spesso viene messa in discussione la stessa distinzione di fondo rispetto alla destra, non è facile ancorare a criteri di giudizio solidi e condivisi un discorso attorno a scelte politiche che, pure, hanno un forte un impatto sulla vita dei cittadini.
Gli schemi che prevalgono hanno tutti un forte tratto autoreferenziale, basati come sono sugli schieramenti parlamentari. I contenuti sfumano sullo sfondo, i programmi elettorali sono stati rimossi dalla memoria collettiva, sembrano risalire non a due anni fa ma a un'altra era geologica.
Mentre il centro, che in origine identificava la parte più mobile e meno inquadrata nei due schieramenti fondamentali, è passato a rappresentare esso stesso uno schieramento. Anzi, lo schieramento per antonomasia, il luogo di realizzazione della Politica con la maiuscola, quella con il pilota automatico, quella delle euroburocrazie, o del pensiero dominante, o dei “poteri forti”. Insomma, quella senza alternative. Quella delle larghe intese. Quella che, in Italia, da Monti in poi ha ufficialmente estromesso la dialettica destra-sinistra dal quadro istituzionale, inteso come Parlamento e governo.
Eppure la dialettica tra destra e sinistra nella sua evoluzione (certo, non sempre uguale a se stessa) è ciò che dà un senso alla politica. Leggi tutto
L’unità di ciò che c’è è il punto di partenza. Ma senza lungimiranza e pensieri lunghi, c’è il rischio di nuove divisioni e il persistere dell’irrilevanza
Lo scrittore polacco Ryszard Kapuscinski è riuscito a trasformare il genere giornalistico del reportage in alta letteratura, cioè in una scrittura capace di «vedere di più» nelle pieghe degli svolgimenti quotidiani. Ha potuto farlo perché viaggiava con Erodoto. Riusciva a «varcare le frontiere del tempo», sono le sue parole, proprio perché intratteneva un dialogo continuo con uno dei padri della storiografia occidentale.
Chi non si pone il problema di varcare queste frontiere, chi pensa che «la storia altro non sia che la cronaca» è un «provinciale del tempo», limitato come un «provinciale dello spazio». Il «provincialismo temporale», dice ancora Kapuscinski, è un luogo particolarmente frequentato dai «politici furbi», perché non necessita di pensieri lunghi. Un luogo ostile ai «politici intelligenti», che hanno la necessità di «pensare» oltre il tempo della «cronaca» (della tattica) la realtà che vogliono cambiare.
La costruzione di quella che è stata chiamata «casa comune» della sinistra è, appunto, questione che solo con i «pensieri lunghi» può essere affrontata.
Non esiste «a sinistra», infatti, alcuna ampia prateria aperta a nostre immaginarie scorrerie. Ci sono soltanto sentieri impervi ed in gran parte inesplorati che non promettono, in tempi brevi, alcun particolare successo di rapidi avanzamenti.
Leggi tuttoRicorre il 5 gennaio il secondo anniversario della morte di Augusto Graziani, uno dei più eminenti economisti italiani del novecento e padre del filone teorico eterodosso noto come teoria del circuito monetario. Per l’occasione, rendo qui disponibile la bozza preliminare di un mio contributo recente su teoria del circuito monetario, critica marxiana e finanziarizzazione. Per gli aspetti più tecnici della teoria del circuito, rinvio ad un secondo contributo (in lingua inglese) in uscita su Metroeconomica
1. Introduzione:
l’altro Marx
Fin dalla pubblicazione postuma del Terzo Libro de Il Capitale, il dibattito “economico” attorno alla grande opera incompiuta di Karl Marx si è concentrato prevalentemente sul cosiddetto problema della trasformazione (dei valori-lavoro in prezzi di produzione), nonché sulla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto. In altri termini, è soprattutto sulla possibile frizione tra Primo Libro e (prima e terza sezione del) Terzo Libro che si è storicamente focalizzata l’attenzione dei più, dentro e fuori le mura accademiche. Per contro, ad eccezione dei capitoli finali dedicati agli schemi di riproduzione,1 il Secondo Libro de Il Capitale è stato a lungo trascurato. Peggior sorte è toccata alla quinta sezione del Terzo Libro, dedicata al credito, al capitale fittizio ed al sistema bancario. In effetti, se l’analisi delle due forme – mercantile e capitalistica – della circolazione è stata solitamente sminuita a sorta di breve introduzione al problema dell’individuazione dell’origine del plusvalore (problema affrontato compiutamente da Marx nel Primo Libro), il ruolo della moneta, del credito e della finanza nell’ambito della teoria marxiana, laddove contemplato, è stato quasi sempre ridotto a quello di amplificatori del ciclo economico.2 Lungi dall’essere considerati elementi costitutivi del modo di produzione capitalistico, e dunque di ogni modello analitico che aspiri ad indagarne le leggi di movimento, moneta, istituzioni creditizie e finanza sono state di norma assimilate a “frizioni” nell’ambito di un modello fondato sull’interazione tra grandezze “reali”. Paradossalmente, si tratta di una visione non dissimile da quella che ha permeato il pensiero economico dominante a partire dalla fine del diciannovesimo secolo. Leggi tutto
Mentre
la città affonda in una nuvola di smog, soffice e dolce come
lo zucchero a velo sul pandoro tenuto al calduccio sul
termosifone
(come insegnavano le zie d’un tempo), i sempre più inadeguati
autobus della Capitale inalberano, simpaticamente unanimi,
l’ultima
versione della campagna – in corso ormai da quasi due anni, ma
di questi tempi in ovvia escalation – di quello che
il prossimo
giugno, con ogni probabilità, sarà il mio prossimo sindaco:
Alfio Marchini. Come nelle precedenti, allo slogan generale IO
AMO ROMA. | E
TU? (dove la o di Roma è sostituita da un cuore
rossastro che al suo interno – in proporzioni però tali da
renderlo
invisibile a chi guardi il manifesto anche con una certa
attenzione, ma senza avvicinarsi troppo – riproduce il
reticolato irregolare della
viabilità urbana) e all’indirizzo mail del comitato elettorale
(che sostituisce la firma di chi con questo messaggio ci si
rivolge),
viene premessa una frase di volta in volta diversa, tale da
seguire più o meno da vicino le vicende dell’attualità, le
urgenze del
quotidiano che ben conosce chi l’autobus, ahilui, lo prende (o
prova a prenderlo) tutti i giorni. La frase
«d’attualità» è evidenziata in sfondo giallino, alludendo a device
in dotazione ai più comuni
programmi informatici di scrittura.
Un intervento, quello qui sotto, che ci spiega molte cose sull'aria che si respira in Spagna dopo le elezioni del 20 dicembre, ma che offre elementi importanti per comprendere il fenomeno Podemos e quanto sta accadendo a sinistra
Gennaio è
il mese di Giano, il dio romano che guardava sia avanti che
indietro, la doppia porta che collegava il
passato e il futuro. Se consideriamo le elezioni del 20
dicembre una soglia gianica e guardiamo indietro, è difficile
esagerare i mutamenti
subiti dalla Spagna da due anni a questa parte, da quando a
Madrid venne alla luce l’iniziativa che oggi chiamiamo
Podemos. La strada intensa,
imprevedibile e talvolta tortuosa che ha portato a questi 69
deputati ha già consegnato al nostro Paese almeno tre
cambiamenti decisivi.
Il primo ha a che fare con la messa in discussione di tutti gli accordi di ferro della cosiddetta “transizione” e, di conseguenza, delle pratiche politiche associate al bipartitismo dominante negli ultimi decenni.
Appoggiandosi all’aura immunologica del 15M [gli Indignatos, NdR], Podemos ripoliticizzato le maggioranze sociali spostando l’egemonia in una direzione opposta a quella dilagante in Europa. Nel paese che sembrava meglio blindato, peggio preparato e più conservatore, è riuscito a rimuovere il tabù che pesava su alcune questioni chiave (la monarchia, il modello economico e, soprattutto, "la questione nazionale") imponendo un nuovo quadro discorsivo alle forze proprie ed a quelle del regime e bloccando la strada, così facendo, al populismo di destra che avanza nel continente.
Un piccolo esempio recente: mentre in seguito agli attentati di Parigi il 13 novembre, il Fronte nazionale imponeva al "socialista" Hollande una reazione bellicosa e islamofoba, in Spagna Podemos, con la sua iniziativa di pace e contro i bombardamenti indiscriminati, ha dettato il ritmo agli altri partiti disattivando la danza elettoralista del “patto antijihadista". Leggi tutto
Il 16 gennaio varie forze anti-guerra manifesteranno a Roma contro le guerre in corso. Alcune piattaforme sono del tutto inadeguate, altre altamente equivoche. La guerra diventa una realtà astratta, senza genitori. Molte guerre vengono dimenticate: Jugoslavia, Afghanistan, Ucraina, le aggressioni israeliane a Libano e Gaza, addirittura qualcuno s'è scordato della Siria. La nonviolenza assurta a imperativo categorico e dogmatico getta indecenti ombre sulla resistenza di popolo in Siria, Iraq, ovunque si eserciti la criminalità imperialista. Il testo del Comitato No Guerra No Nato che qui accludo rappresenta a mio avviso il corretto atteggiamento con cui partecipare alla manifestazione del 16 gennaio.
***
Come e perché il Comitato No Guerra No Nato partecipa alla manifestazione del 16 Gennaio contro la Nato
— Venticinque anni fa, nelle prime ore del 17 gennaio 1991, iniziava nel Golfo Persico l’operazione «Tempesta del deserto», la guerra contro l’Iraq che apriva la fase storica che stiamo vivendo.
Questa guerra, preparata e provocata da Washington, veniva lanciata nel momento in cui, dopo il crollo del Muro di Berlino, stavano per dissolversi il Patto di Varsavia e la stessa Unione Sovietica. Approfittando della crisi del campo avversario, gli Stati Uniti rafforzavano con la guerra la loro presenza militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo.
Leggi tuttoGiavazzi sul Corriere della Sera:
Ma c’è un punto più importante. Per anni si è osservato che ciò che conta è il nostro debito netto, non il debito pubblico lordo. Cioè, a fronte degli oltre due trilioni di euro di debito pubblico si dovrebbero contare i circa tre trilioni di ricchezza finanziaria delle famiglie. Il nostro debito pubblico, sostengono alcuni, non è poi tanto rischioso perché compensato da una quantità ancor maggiore di ricchezza privata. Bene: ciò che è accaduto il mese scorso è proprio questo. Alcuni cittadini hanno visto una parte della loro ricchezza impiegata per salvare quattro banche, in tal modo evitando che il salvataggio si tramutasse in maggiore debito pubblico. Se questo ci indigna, la si smetta di dire che la ricchezza delle famiglie è una garanzia per il debito pubblico.
Il mio amico L. dopo aver sentito le mie perplessità su tale affermazione di Giavazzi afferma a sua volta:
Se un paese ha un alto debito pubblico che deve essere ridotto dovrà o aumentare le tasse o ridurre le spese magari di alcuni servizi essenziali. Per un paese i cui cittadini detengono molti asset, politiche di questo tipo possono essere ‘facilmente’ implementabili. Diversamente, per paesi i cui cittadini sono poveri, politiche del genere possono essere impossibili e come spesso è accaduto nei paesi del Sud America l’unica alternativa è il default. Forse Giavazzi non vuol dire semplicemente questo quando dice che la ricchezza delle famiglie è una garanzia del debito pubblico?
Credo che L. abbia ragione (come spesso accade) ma che Giavazzi abbia torto (come spesso accade). Contraddizione?Vediamo di parlarne. Non è questione irrilevante per capire quanto dobbiamo preoccuparci di avere un debito pubblico su PIL così … alto.
Leggi tuttoLa montagna produce topolini ciechi, segno di un totale distacco dalla realtà accompagnata dall’incapacità e dalla non volontà di intervenire su di essa in modo efficace per il terrore di disturbare il manovratore economico. Così cadono davvero le braccia quando per contrastare l’inquinamento delle città dovuto essenzialmente ai sempre più frequenti fenomeni estremi innescati dal cambiamento climatico, il ministro Galletti e i comuni se ne escono con un editto risibile: sconti sui mezzi pubblici e riduzione della velocità delle auto a 30 chilometri ora.
Ora visti gli enormi ritardi che il sistema politico affaristico ha accumulato nella costruzione di metropolitane, i fondi inesistenti per rinnovare e incrementare parchi bus vecchi e inquinanti come non mai oltre che insufficienti, la misura sembra una presa in giro perché non è tanto il prezzo del biglietto che induce all’uso dell’auto, ma la carenza di mezzi particolarmente acuta nelle periferie, la gestione innominabile delle linee di pendolari e infine tutta un’urbanistica e una modellazione sociale pensata in funzione dell’auto. Così come è una presa in giro l’idea di diminuire la velocità dai 50 ai 30 chilometri orari che per la quasi totalità delle auto in circolazione significa in realtà consumare di più usando marce basse: l’effetto è il contrario di quanto si riscontra ad alta velocità.
Già a me hanno sempre fatto pena di provvedimenti di stop alle auto o alle targhe alterne che sembrano fatte apposta per stimolare l’acquisto di veicoli nuovi, quasi sempre esclusi da queste provvedimenti, piuttosto che a frenare davvero l’inquinamento: un modo per rendere difficile la circolazione della vecchia auto dei poveracci e garantire al suvvista in grana di andare dove vuole. Leggi tutto
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Secondo il filosofo italiano Giorgio Agamben, lo stato di emergenza non è uno scudo a difesa della democrazia. Al contrario, ha sempre annunciato le dittature
Non è
possibile capire l’obiettivo reale della proroga dello stato
di emergenza in Francia [prorogato fino
alla fine di febbraio] se non la si colloca nel contesto di
una radicale trasformazione del modello statale che ci è più
familiare.
Bisogna prima di tutto smentire quel che dicono donne e uomini politici irresponsabili, secondo i quali lo stato di emergenza sarebbe uno strumento a difesa della democrazia.
Gli storici sanno bene che è vero il contrario. Lo stato di emergenza è infatti il dispositivo attraverso il quale i regimi totalitari si affermarono in Europa. Negli anni che precedettero la salita al potere di Hitler, ad esempio, i governi socialdemocratici di Weimar avevano fatto un tale ricorso allo stato di emergenza (o stato di eccezione, come dicono i tedeschi) che è lecito dire che la Germania aveva smesso di essere una democrazia parlamentare già prima del 1933.
Il primo atto politico di Hitler, dopo la sua nomina, fu proclamare lo stato di emergenza, che da allora in poi non fu mai più revocato. Leggi tutto
Prendendo in prestito le parole dell’economista P. Krugman, spieghiamo come il blocco sociale che stava alla base del neokeynesismo è destinato a un drastico ridimensionamento e, con esso, verranno meno anche numerosi ammortizzatori sociali. Non si tratta di una profezia ma di leggere la realtà per quella che è, a partire dai decreti attuativi del Jobs Act
Con
il pareggio di bilancio in Costituzione, il bilancio pubblico
e il controllo dell'economia è stato trasferito dai parlamenti
nazionali a
organismi sovranazionali; da qui nasce la continua riduzione
della spesa sociale, il ridimensionamento del welfare,
l'aumento dei costi di servizi
sanitari accessibili, peraltro ad un numero sempre piu'
ristretto di potenziali utenti.
L'euro è stato lo strumento con cui l'Europa, a guida tedesca, ha costruito politiche neoliberiste di austerità, da una parte, e, dall'altra, di espansione dei capitali, evitando che i paesi piu' deboli usassero la leva della svalutazione della moneta nazionale per riconquistare competitività.
Di qui, non solo la supremazia tedesca ma anche la destinazione dei risparmi nazionali a solo vantaggio delle imprese, dunque non verso politiche di sostegno al reddito e alla domanda, nè di supporto al debito statale.
La sovraccumulazione di capitale non prende la strada del sostegno alle politiche del lavoro, anzi, l'ampliamento di alcuni ammortizzatori sociali è finanziato con la contrazione degli stessi in termini di durata, il che si ripercuote negativamente sulla forza lavoro delle imprese poco competitive e sancisce l’espulsione dal mercato del lavoro di una manodopera vicina alla pensione con ampio ricorso ai part time.
Leggi tuttoQuesto saggio
fa lucidamente il punto, e in termini drastici rispetto
ad alcune delle principali
tradizioni di pensiero otto-novecentesche, su un tema,
quello della realtà,
che si è presentato spesso in numerosi post di
Poliscritture riguardanti ora questioni di poesia ora di
politica; come pure, in modi spesso
personalissimi, nei commenti. La tesi di fondo mi pare
riassunta in questo passaggio: «è meglio pensare ad
una realtà assoluta, autonoma, indipendente da
noi e a noi esterna, che tende continuamente a mettere
sottosopra ogni nostra
transitoria fissità». O in questo: «E’ invece assai più
sensato supporre che siamo sempre alla coda del mutamento
(casuale e non finalistico) di quel flusso che rappresenta
la realtà». Da questa posizione, alla
quale
La Grassa è giunto dopo un lungo percorso
teorico-politico, discendono una serie di affermazioni che
rifiutano ormai apertamente
idee tuttora correnti di umanità, progresso, cooperazione,
solidarietà, pace, utopia ( e magari ancora di comunismo),
anche quelle
appartenenti alle versioni più critiche (di matrice
religiosa o marxiana). In primo piano viene riproposto il
«conflitto» sociale e
politico. Incessante e non finalizzato. E non più tra le
«classi» ma tra individui e gruppi «conservatori e
innovatori». (Meglio: soprattutto tra «élites
conservatrici o innovatrici»). Conflitto, comunque, sempre
condizionato dal
«flusso squilibrante della realtà, inconoscibile per sua
“essenza”». Il suggerimento è di leggere
più volte il saggio e di discuterne col massimo di
intelligenza critica e, perché no, di passione politica.
[E. A.]
Proverò a sintetizzare qualche riflessione sui “fatti di Colonia” a partire da un editoriale della sempre pessima Lucia Annunziata sull’ (Fuff)Huffington Post. Per chi non sapesse a cosa mi riferisco, è l’episodio delle violenze sessuali di massa avvenute durante la notte di Capodanno a Colonia da parte di centinaia di uomini, a detta dei media “arabi” e “ubriachi”, a danni di decine di donne palpeggiate e stuprate all’uscita della metropolitana. Ovviamente avvoltoi razzisti nostrani e tedeschi sono zompati sul carrozzone facendone una questione etnica, per invocare più politiche securitarie. Qualcuno addirittura (vedi la sindaca di Colonia) ha incoraggiato le proprie concittadine a girare alla larga dagli stranieri, come se la nostranità del proprio interlocutore mettesse al riparo da molestie e violenze sessuali.
Ma perché stupirsi di costoro? Da leghisti, forcaioli e fogliacci come “Il Giornale” ci si aspetta questo ed altro. Il “problema” (o forse, la conferma) nasce quando personaggi come Lucia Annunziata, tra le entusiaste promotrici di “Se non ora quando”, pronta ad affacciarsi nelle piazze per auto-proclamarsi paladina e portavoce delle donne, usano il corpo delle donne stesse come strumento di propaganda e profitto economico. Tanto per cominciare, in perfetto stile destrorso, Annunziata opera una sovrapposizione tra migranti (percepiti come una massa unica ed indistinta), “arabi” (assunti come categoria antropologica liscia, pur coprendo la metà di un continente), Islam (come se tra “gli arabi” non esistessero i laici, gli atei o i non-praticanti) e infine la violenza sessuale (avallando in pieno quello che dicono colonialisti-razzisti e ISIS stesso, ossia che il Qu’ran avallerebbe la violenza sessuale e l’annichilimento fisico delle “infedeli”, quando ciò non è affatto vero, ma semmai il frutto di una culturale patriarcale, sessista e machista). Leggi tutto
Sono oramai note – ai più avveduti – le vere ragioni dell’attacco a Gheddafi del 2011 da parte di Sarkozy e Blair e della NATO, al fianco di una titubante ma obbediente Italia, attacco militare che portò alla morte del dittatore libico e all’attuale caos di tipo ‘irakeno’ alle porte di casa nostra. Ragioni che non vengono certo spiegate sui TG e sulla stampa mainstream, in questo vergognoso regime europeo che sacrifica le nostre libertà e i nostri interessi nazionali in nome dell’ideologia e degli interessi di un’élite transnazionale.
Elite che non esitano a scatenare guerre con centinaia di migliaia di morti, a fabbricare prove e creare pretesti per abbattere governi stranieri, a bombardare per lustri popolazioni civili in plaghe remote, a creare imperi del male per procura come Daesh e poi ritirarsi magari a vita privata senza rendere conto a nessun tribunale. Nuove potenze coloniali, ancora peggiori se possibile di quelle ottocentesche.
Le vere ragioni dell’ennesimo disastro geopolitico in terre di petrolio – in sintesi, un attacco all’Italia e ai nostri interessi per mano degli ‘alleati’ francesi e inglesi – sono però note oggi in maniera completa attraverso alcune delle 3.000 email di Hillary Clinton pubblicate dal Dipartimento di Stato il 31 dicembre scorso su ordine di un tribunale.
Email che delineano con chiarezza il quadro geopolitico ed economico che portò la Francia e il Regno Unito alla decisione di rovesciare un regime stabile e tutto sommato amico dell’Italia: due terzi delle concessioni petrolifere nel 2011 erano dell’ENI, che aveva investito somme considerevoli in infrastrutture e impianti di estrazione trattamento e stoccaggio. Leggi tutto
Premetto che non è mia intenzione fare nessuna critica al comico pugliese Luca Medici, tra l’altro anche mio conterraneo
Non entro in merito al suo reale pensiero augurandomi che non diventi strumento inconsapevole di certe istanze, portate avanti da alcune lobby di potere.
Dal punto di vista professionale, visto il suo successo, non posso che essere felice per i suoi strepitosi risultati. Ma il punto non è questo.
Il film “Quo vado” di Zalone sta facendo numeri da record e sono sicuro che questo sia il risultato di una strategia studiata a tavolino per far passare messaggi mirati ad indottrinare le masse ad un pensiero dominante che sta stravolgendo dalle fondamenta la nostra società.
Secondo le informazione prese da un articolo di ItaliaOra.net in merito alla distribuzione del film Quo Vado, leggiamo:
“E’ il business monopolistico della distribuzione. Riguarda il cinema come i libri. Loro scelgono cosa dobbiamo vedere e cosa dobbiamo leggere. E noi vediamo e leggiamo quello che ci impongono, credendo di deciderlo, decidendo che ci piace, o non ci piace, discutendone fino allo sfinimento e alimentando quel caso che fa soldi e nuovo business.
Due numeri per capirci: il film di Zalone è stato distribuito in 1500 copie. Mai nessun film, nella storia del cinema italiano, ha avuto questa distribuzione. Si è trattato di una vera e propria occupazione di tutti gli spazi disponibili. Il primo gennaio, Zalone in tutti i cinema. Leggi tutto
«La fabbrica rovesciata» di Graziano Merotto, Una monumentale ricerca militante nel settore degli elettrodomestici made in Italy. Un avvincente affresco sulle trasformazioni industriali dal punto di vista operaio
Nell’ultimo secolo il
lavoro salariato ha percorso un moto circolare che sembra
averlo riportato alla sua condizione iniziale di assoluta
mancanza di potere sociale. Il volume di Graziano Merotto, La
fabbrica rovesciata. Comunità e classi nei circuiti
dell’elettrodomestico (DeriveApprodi, euro 50)
descrive questo lungo movimento, ricostruendo la vicenda
politica di una vasta porzione di
classe operaia impiegata a produrre elettrodomestici nel
cuore del Nordest, ovvero dalla provincia di Treviso fino
a Pordenone. Come
scrivono Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto in un’intensa
postfazione, però, non siamo di fronte né a un esercizio di
sociologia del lavoro né alla storia sociale di un distretto
produttivo. Questa è la storia dell’altra Marghera, ovvero
di un
polo di insubordinazione operaia, forse meno conosciuto ma
che da molti decenni non si adegua alla continue
ristrutturazioni aziendali e alla
deferenza che esse pretendono.
L’era dei metalmezzadri
Il processo di autentica conricerca emerge nella scrittura di Merotto e dalle molte voci operaie che restituiscono il senso politico della vicenda collettiva. Leggi tutto
“Libertà
e lavoro
dopo il Jobs Act di Giuseppe Allegri e Giuseppe
Bronzini” (DeriveApprodi, 2015) andrebbe letto solo
perché mette in discussione
l’invenzione di una tradizione diffusa a destra e a
sinistra, in alto e in basso: il lavoro salariato e, più
in generale, subordinato
è una norma generale, un dato naturale, un’essenza a cui
tutto deve tornare.
Questo è anche uno strumento agile che parla all’irrequietezza creativa dei giuristi, come dei movimenti più profondi della società. Insieme ripensano i fondamenti del diritto (del lavoro) in nome della libertà e dell’uguaglianza.
Diritto all’esistenza
Il lavoro oggi è l’attività più svalutata e meno certa che esista. È sulla bocca di tutti, perché da tutti è subito e odiato per la sua realtà impoverita, da tutti ricercato per i poveri redditi che da esso si riescono a spremere. Da questa cosa modesta, opaca, Allegri e Bronzini traggono una realtà impensata, l’opposto del racconto vittimistico che si ascolta in Tv o sui giornali. Si parla di libertà del lavoro, fondata sul diritto all’esistenza. Questo diritto si incarna nell’autodeterminazione degli individui.
Leggi tutto1.
Matteo Renzi insiste a definire la sua politica economica
“espansiva”, al contrario di quelle dei precedenti governi
“tecnici” Monti e Letta, ma in che senso e soprattutto
perché? Per capirlo serve una griglia interpretativa quale
può essere
data dai saldi settoriali della economia nazionale[1]:
(S – I) = (G + TR – T) + (X – M)
in cui sono posti in relazione esemplare i saldi del settore privato, del settore pubblico e del settore estero. Per coerenza, se mai a sinistra compare un disavanzo con gli investimenti che superano il risparmio (I > S), allora a destra occorrerà un avanzo di bilancio statale: T > (G + TR), ossia la formazione di un risparmio pubblico, e/o un disavanzo commerciale (M > X), ossia l’indebitamento verso l’estero. Nel caso invece di (S > I), a destra ci dovrà essere un disavanzo pubblico: (G + TR) > T, che è la soluzione di deficit spending teorizzata da Keynes, e/o un avanzo delle esportazioni sulle importazioni (X > M), ossia la c.d. crescita export-led.
Consideriamo adesso, per gli anni più recenti, l’andamento di quei tre saldi per l’Italia (Istat, contabilità nazionale e conto trimestrale delle amministrazioni pubbliche, valori a prezzi correnti; il saldo del settore privato deriva dalla somma del saldo pubblico, cambiato di segno, con il saldo estero):
Leggi tuttoDal debito pubblico alle politiche fiscali, fino al concetto di spreco: l’informazione economica è piena di errori. Lo spiega bene il libro Economia e luoghi comuni a cura di Amedeo Di Maio e Ugo Marani
Secondo la cosiddetta teoria quantitativa della moneta vi sarebbe un legame diretto tra quantità di moneta e livello dei prezzi. Quest’idea, dopo decenni di dominio delle teorie neoliberiste, è diventata uno dei luoghi comuni più diffusi, ma è un vero mistero come possa sopravvivere a dispetto dei fatti: da anni la BCE inonda i mercati di liquidità, quasi settimanalmente Mario Draghi tuona e minaccia ulteriori stimoli monetari, eppure i prezzi in Europa non accennano a salire. Dell’inconsistenza teorica di quel legame, Draghi, che fu allievo di Federico Caffè quando l’economia si studiava seriamente, dovrebbe essere ben consapevole, ma si guarda bene dal denunciarlo essendo governatore di una Banca Centrale che quel luogo comune ha nel suo atto costitutivo.
L’informazione economica, purtroppo, è caratterizzata da simili amenità. Queste, ripetute all’infinito, assumono la veste di verità provate, e bene a fatto la casa editrice l’Asino d’oro a pubblicare questo prezioso volume (Economia e luoghi comuni. Convenzione, retorica, riti, a cura di Amedeo Di Maio e Ugo Marani) dove appunto si procede alla demolizione di una serie di luoghi comuni attorno ai quali ruota l’informazione economica.
Il filo conduttore del libro è costituito dai temi della finanza pubblica.
Leggi tuttoLa crisi economica e sociale, di sistema come si dice, mette apertamente in discussione la tradizionale democrazia borghese, fatta di legittimazione ottenuta attraverso il consenso e il compromesso sociale e spinge verso forme nuove di autoritarismo, sotto l’egida della dittatura dei mercati, dei suoi parametri. Se mai è esistito un tempo in cui la politica ha provato a regolare e governare l’economia, quel tempo oggi è trascorso: oggi l’economia tende direttamente a servirsi della politica e dei governi per realizzare i suoi “bisogni”. Nell’Europa odierna, importanti esponenti di interessi bancari, finanziari, capitalistici, hanno disinvoltamente sostenuto che sì la democrazia è un elemento importante, ma non come le leggi del mercato, del profitto e dell’accumulazione di ricchezza che stanno a un gradino superiore e, pertanto, fissano limiti e priorità rispetto a quella che la società liberal-borghese nascente proclamò essere la volontà popolare. Si può fare politica, votare, governare in nome del popolo, rispettando però i confini posti dall’economia, dalle sue leggi, dai suoi meccanismi atti a tutelare determinati interessi, nascosti ideologicamente dalla teoria della necessità oggettiva e quindi indiscutibile. Il dominio della necessità si fonda sui numeri, sulle funzioni liberal-capitalistiche matematiche non più su idee o teorie sociali. Numeri, parametri europei da condividere e rispettare, diventano la ragion d’essere delle scelte politiche dei governi. La sinistra è stata in questi decenni stretta in questa morsa. Una parte di essa ha scelto coscientemente di essere partito di governo senza se e senza ma, accettando le regole di cui s’è detto prima. Leggi tutto
Il recente bail-in di quattro banche italiane ha messo a nudo molte contraddizioni ed aporie dell’Eurosistema, tra cui:
Tutto già detto.
Forse ciò che non è stato evidenziato più di tanto è che, in un mondo di interessi negativi, nelle sabbie mobili di una trappola di liquidità, tali situazioni si riproporranno ancora per il semplice motivo che rendimenti “normali” implicheranno rischi “anormali” e che manca la benzina per il motore della banche (il margine di interesse).
Alla base di tutto è la distorsione deflazionistica della moneta unica, nota in letteratura e portata all’evidenza del grande pubblico in innumerevoli occasioni (un autorevole e preveggente riferimento di carattere divulgativo è Hahn, 1992). Leggi tutto
Critiche recenti riguardano le modalità di finanziamento della spesa pubblica in deficit. Pare pacifico che la “scuola Keynes iana” ritenesse indifferente il livello del debito pubblico raggiungibile.
Già il Monetarismo aveva obiettato che la continua spesa in deficit avrebbe causato tassi di interessi crescenti per la sottoscrizione dei titoli, mentre vedeva come il demonio la monetizzazione del debito per le inevitabili conseguenze inflattive. Ma questa impostazione non si rivelò del tutto esatta: l’aumento del debito pubblico non si accompagna necessariamente a tassi più alti.
Il punto fondamentale è che rimane senza unanime consenso l’interrogativo di come considerare il debito pubblico, specialmente nel suo rapporto al PIL: è assimilabile al debito privato,e quindi il rapporto rappresenta un effettivo indice di rischio di fallimento? oppure non vi è assimilabile perchè un paese che ha sovranità monetaria non è passibile di fallimento?
Sento già il ronzio delle obiezioni e allora può partire l’ANGOLO IMPERTINENTE: cosa ne pensate, il debito pubblico di un paese con o senza sovranità monetaria a cosa è assimilabile?
Personalmente penso che l’unico elemento quasi unanimamente accettato nella valutazione di un debito pubblico sia la sua sostenibilità misurata dalla famosa formula di Fisher:
Leggi tuttoDalla lotta di
classe al declassamento
1. Mentre avanza la precarizzazione della vita, unitamente alla precarizzazione delle condizioni di lavoro, e coinvolge settori sempre più ampi della popolazione, ritorna con forza il discorso sulla lotta di classe, la quale negli ultimi decenni sembra essere quasi scomparsa. Dapprima, data la crescente polarizzazione sociale, questo può sembrare plausibile. Tuttavia, come di solito avviene quando si ricorre a modelli interpretativi ed esplicativi del passato, questi non servono a chiarire il presente. Al contrario di quel che appare a prima vista, le categorie dell'antagonismo di classe non spiegano adeguatamente la crescente diseguaglianza sociale. Né, tantomeno, i conflitti di interessi derivanti da tale diseguaglianza coincidono con quello che, storicamente, è stato designato come lotta di classe.
2. Il grande conflitto sociale che ha modellato in maniera decisiva la società capitalista nel corso di tutto il periodo storico della sua formazione ed imposizione è stato, com'è noto, il conflitto fra capitale e lavoro. In questo conflitto si è espressa l'opposizione di interessi fra le due categorie immanenti alla società produttrice di merci: tra i rappresentanti del capitale che governano ed organizzano il processo di produzione con l'obiettivo di conseguire la valorizzazione del capitale ed i salariati, i quali con il loro lavoro "generano" il plusvalore necessario a questo obiettivo. Leggi tutto
Nella
prefazione alla terza edizione de Il Capitale di Marx, nel
novembre 1883, Friedrich Engels scriveva che «Non
poteva venirmi in mente di introdurre nel Capitale il gergo
corrente in cui sogliono esprimersi gli economisti tedeschi,
quello strano pasticcio
linguistico in cui, per esempio, colui il quale si fa dare
del lavoro da altri contro pagamento in contanti si chiama
il “datore” di
lavoro e “prenditore” di lavoro si chiama colui al quale
viene preso il proprio lavoro contro pagamento di un
salario. Anche in francese
“travail” si usa nella vita di tutti giorni con il
significato di “occupazione”. Ma a ragione i francesi
riterrebbero pazzo
l'economista che volesse chiamare il capitalista “donneur de
travail” e il lavoratore “receveur de travail”».
Ma, è noto ormai da qualche migliaio di anni, che i nomi vengono dati alle cose per mascherarne la sostanza. In effetti, la distinzione non certo linguistica, con cui Marx separava lavoro e forza-lavoro – la seconda essendo l'unica merce posseduta dal lavoratore e, dunque, da lui alienabile, vendibile; il primo essendo l'estrinsecazione dell'uso che di quella può fare colui che la compra, cioè il capitalista – pare con successo svanita dal gergo corrente degli odierni rapporti tra produttori diretti e possessori di capitale.
E rappresentando ogni codice giuridico l'ufficializzazione dei rapporti esistenti nella società, nessuna sorpresa che le pubblicazioni di regime confermino la scomparsa di quella distinzione marxiana e qualifichino dunque i «lavoratori dipendenti (altrimenti detti lavoratori subordinati)» come coloro che sono «occupati in una azienda alle dipendenze e sotto la direzione del “datore di lavoro”, tenuti a rispettare un orario di lavoro, in cambio di una retribuzione» (INPS; Lavoro dipendente). Leggi tutto
L’obiettivo statunitense nella formazione del Ttip e del Ttp è quello di realizzare una concentrazione imperialistica capace di imporre le sue norme a livello mondiale e di accerchiare il principale concorrente cinese. Qui la prima parte
La
crisi ha offerto il destro al capitale Usa per indebolire il
concorrente europeo, utilizzando abilmente l’arma della
speculazione per colpire
gli anelli deboli dell’Ue e la vicenda ucraina per
danneggiare i rapporti Ue-Russia isolando il concorrente
russo, e per spostare risorse nello
scontro principale contro la Cina.
Nelle trattative per il Ttip rimangono pur sempre degli ostacoli dettati dalla realtà dello scontro fra imperialismi rivali. In questa specie di “Nato economica” l’Ue rischia di ritrovarsi subordinata agli Usa esattamente come nella Nato militare. Inoltre, non si tratterebbe di un effettivo rapporto bilaterale visto che l’Ue non è uno stato unitario o federale e gli Usa potrebbero sempre puntare sulla divisione europea e su rapporti coi singoli stati. L’Ue ha la forza di essere il mercato più importante per popolazione e per ricchezza prodotta ma ha scarse risorse energetiche e non ha una forza militare paragonabile a quella degli altri attori dello scontro interimperialistico.
I principali esponenti del capitale a base Ue hanno ben presente il rischio di sottomissione agli Usa. A settembre Matthias Fekl, Segretario di Stato al commercio estero francese, ha lamentato che, di fronte a continue concessioni da parte europea, gli Usa non abbiano offerto contropartite serie, in particolare per quel che riguarda i servizi e gli Isds, e ha aggiunto che, andando i negoziati in una direzione sbagliata, la Francia si ritiene libera di considerare tutte le alternative, compresa l’interruzione degli stessi.
Leggi tuttoIl grande economista Anthony Atkinson indica «che cosa si può fare». Le risposte arrivano dal passato
Come testimoniano le gravi turbolenze che dai mercati azionari asiatici si stanno estendendo a quelli occidentali, l’anno nuovo eredita uno scenario gravido di incognite che i sintomi positivi non bastano a fugare. La decelerazione della Cina (al decimo decremento consecutivo del Pil e in cui si sono accumulate immense bolle nei settori immobiliare, bancario, finanziario) e dei paesi emergenti (con mercati che valgono il 60% del Pil mondiale e che assorbono metà delle esportazioni europee) si sta traducendo in pesante rallentamento dell’incremento del commercio mondiale.
In Europa continua ad aleggiare lo spettro della deflazione e rimane elevato il gap tra i livelli produttivi effettivi e quelli che si sarebbero raggiunti in assenza di crisi. La significativa ripresa che si registra negli Usa non è tuttavia tale da imprimere un netto impulso alle retribuzioni interne, la cui compressione è, invece, alla base di un paradossale incremento dei profitti e dei guadagni dei possessori di azioni, i quali — in mercati azionari mantenuti molto effervescenti dalle politiche monetarie “non convenzionali”, volte a creare liquidità, adottate dalle Banche centrali di tutto il mondo — hanno conosciuto il livello più alto degli ultimi due decenni.
Ma l’indicatore più eloquente della persistente drammaticità della situazione sociale è quello occupazionale: in tutto il mondo l’inoccupazione giovanile e femminile si è allargata paurosamente, la disoccupazione di lunga durata supera l’antecedente storico delle crisi petrolifere degli anni ’70, la precarietà è cresciuta esponenzialmente, in Italia raggiungendo il picco storico del 15%. Leggi tutto
Forse è meglio lasciarci alle spalle certe cose brutte e mettere in prospettiva quanto sta succedendo. Ne approfitto anche per chiarirvi un paio di concetti sugli indici, che non mi pare siano chiari a tutti.
Il sito dell'Eurostat ci fornisce i dati degli indici della produzione industriale a partire dall'inizio degli anni '90. Qui confrontiamo quelli del settore manifatturiero per Italia e Germania:
Lo Stato canaglia per eccellenza del Medio Oriente, l’Arabia Saudita, ha iniziato il 2016 esattamente come aveva concluso il 2015: ammazzando gente. 47 esecuzioni capitali per decapitazione o fucilazione in un solo giorno. Il che vuol dire che il secondo giorno dell’anno il regime wahabita ha già messo a morte un terzo delle persone uccise nel 2015 (157, secondo il calcolo delle diverse organizzazioni umanitarie) e più di metà di quelle uccise nel 2014 (87).
La pena di morte, in Arabia Saudita, è sempre meno uno strumento, pure allucinante, della giustizia penale e sempre più uno strumento di controllo sociale, usato senza alcun ritegno dall’accoppiata re-muftì. Il re Salman al-Saud, sul trono da meno di un anno, e Sheikh Abdul Aziz Alal-Sheikh, gran muftì dal 1999, per il quale parlano certe fatwa: per esempio, nel 2012, l’invito a distruggere tutte le Chiese cattoliche della penisola arabica e, sempre quell’anno, la conferma della legittimità del matrimonio coatto per le bambine di 10 anni.
Vedremo se la stampa internazionale, domani, parlerà di “svolta storica” per l’Arabia Saudita, come si precipitò a fare, poco tempo fa, per l’elezione di 13 donne in una tornata elettorale disertata dagli elettori (25% di affluenza ai seggi) perché coreografica e ininfluente.
Nell’attesa, molti si sono concentrati sulla messa a morte dello sceicco Nimr al-Nimr, influente esponente della comunità sciita, minoritaria in Arabia Saudita (10-15% della popolazione) ma forte nella provincia del Qatif, affacciata sul Golfo Persico, ricca di riserve petrolifere (produce 500 mila barili al giorno dal 2004) e vicina al Bahrein. Leggi tutto
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Uscito di recente, “Il
mondo nel 2016 in 200 mappe” per i tipi della Leg edizioni di
Gorizia, a cura di Frank Tétart, offre una
buona panoramica su i costituenti geopolitici del mondo
attuale ed a venire. Il volume è una guida che mira allo
sguardo panoramico, sintetico
e non particolarmente approfondito, sebbene abbastanza ampio e
completo. Forse si sorvola con un po’ troppa leggerezza
sull’intera
questione medio-orientale ma poiché Wikipedia.fra c’informa
che il compilatore insegna, tra l’altro, negli Emirati Arabi
Uniti, si
capisce l’auto-censura. Cinque le sezioni: attori geopolitici,
guerre – conflitti e tensioni, problemi ambientali,
globalizzazione,
aspetti sovrastrutturali. E’ una buona introduzione alla
complessità delle rete di variabili che tessono l’ordito
geopolitico del
pianeta, niente di che, ma un buon entry-level per approcciare
la questione.
L’attenzione per la geopolitica, anche in Italia, sta moderatamente crescendo. Buone le vendite per Internazionale (che è una rivista di fatti internazionali e non di geopolitica), cresce anche Limes che varia le sua offerte di accesso on line per far lavorare meglio l’archivio. Accanto, pubblicazioni più specifiche di buon livello come Eurasia e Geopolitica rivista dell’IsAG mentre rimane fisso l’appuntamento con l’Atlante Treccani in collaborazione con l’ISPI, la cui edizione 2015 (pubblicazione nata nel 2012) si presenta poderosa ed utile. Leggi tutto
Cosa succede quando la stessa saga è il più grande culto del mondo e allo stesso tempo la più grande macchina mainstream di sempre?
Nel caso
siate latitanti in un bunker sotterraneo da qualche anno,
potreste non essere al corrente del fatto che il 16
dicembre la Disney ha fatto uscire in pompa magna l’ultimo
(per ora) capitolo di Star Wars, questa volta col
sottotitolo Il risveglio della Forza, diretto da J.J.
Abrams e probabilmente destinato a battere tutti i record
battibili nel rutilante
mondo dei blockbuster hollywoodiani. Nel caso poi la vostra
latitanza duri da diversi decenni, potreste non sapere nemmeno
che Star
Wars ha fatto la sua comparsa nell’immaginario
collettivo nell’anno domini 1977, primo film di una serie
creata da George Lucas
che sarebbe poi proseguita con altri cinque capitoli
realizzati tra il 1980 e il 2005 (sulla qualità degli ultimi
tre episodi non ci
soffermeremo).
Ai fini di quest’articolo in fondo contano solo queste informazioni, insieme alle non trascurabili nozioni riguardanti gli incassi stratosferici (prima al cinema e poi in home video) e la straordinaria capacità della saga di convertire al suo credo milioni di fan, disposti a qualsiasi tipo di perversione pur di dimostrare al mondo la loro fede ed evangelizzare i non adepti. Perché in fondo ciò che conta è che Star Wars (o Guerre Stellari, per i più nostalgici o non anglofili) non è più “solo” una serie di film, ma una vera e propria entità iconica dalle mille sfaccettature, che ormai trascendono perfino i “testi” iniziali, ovvero le circa 12 ore di materiale cinematografico che la compongono. Leggi tutto
Gli eventi che definiscono un anno sono sempre più simili ai cigni neri, quegli eventi rari e difficili da prevedere rispetto alle normali aspettative razionali o al consenso generale. Almeno questo è quanto ci suggerisce la storia recente, se è vero che all’inizio del 2014 nessun esperto aveva previsto l’annessione della Crimea alla Russia o, all’inizio del 2015, l’arrivo in Germania di oltre un milione di rifugiati e l’ascesa improbabile di Donald Trump negli Stati Uniti. Meglio quindi guardare alle potenziali discontinuità piuttosto che affidarsi al “come prima, più di prima”.
Sotto il profilo economico-monetario, una prima sorpresa, o discontinuità rispetto alle aspettative della maggioranza degli esperti, potrebbe essere l’indebolimento del dollaro. Dopo l’aumento del tasso d’interesse direttore della Federal Reservedi fine 2015, il dollaro si è prevedibilmente rivalutato rispetto all’Euro e allo Yen, dato che queste due monete scontano politiche di tassi d’interesse prossimi allo zero e vengono create in grandi quantità dalle rispettive banche centrali. Non è detto però che la banca centrale statunitense riesca a mantenere le sue promesse, cioè di aumentare quattro volte ancora i tassi d’interesse nel corso di quest’anno. Leggi tutto
Da qualche giorno è possibile consultare l’interessante documento redatto dal Commissario Tronca (il Dup – Documento Unico di Programmazione). Un faldone monstre, quasi ottocento pagine di dati e indicazioni puntigliose, che delineano il percorso politico che dovrà affrontare il Comune di Roma a prescindere da chi vincerà le elezioni di giugno. Il documento programma infatti l’attività del Comune per il triennio 2016-2018. La vicenda riassume egregiamente il significato del commissariamento della politica in atto da diversi anni a questa parte, i rapporti di forza in campo, i ruoli dirigenti, nonché definisce una “visione del mondo”, quella imposta dall’Unione europea e a cascata da tutte le istituzioni preposte alla sua esecuzione. Un capolavoro: in anni di riflessioni e analisi contro le politiche neoliberiste della Ue non avevamo mai raggiunto tale capacità di smascheramento.
Il documento si presenta come concretizzazione particolare e cittadina del Fiscal compact europeo, cioè dell’accordo che stabilisce le “regole d’oro” deliberate in sede Ue e vincolanti ogni governo nazionale. A prescindere da chi sarà chiamato a governare (in questo caso la città di Roma), vige un programma politico-economico già definito. Non a caso, il Dup in questione si presenta come “allegato n.4 del D.LGS. del 23/06/2011”, cioè rimanda ad una legge nazionale che a sua volta costituisce il rimando ad una normativa europea, e tutta la catena risulta vincolante e non emendabile dalle forze politiche vincitrici le elezioni. Leggi tutto
Recensione a: Emanuele Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 392, 18 euro. (Scheda libro)
La storia economica è un campo di studi che sta attraversando un notevole fermento. Da un lato, in seguito alla volontà di ampliare l’evidenza economica a nostra disposizione, si sta verificando su scala internazionale un crescente sforzo di ricostruzione di serie storiche quantitative (indirizzo di studi che va sotto il nome di ‘cliometria’). Dall’altro, a partire dalla storia economica, si sono sviluppati interessanti concezioni alternative della politica economica e del suo ruolo nello sviluppo economico (approcci che possono essere raccolti nell’ambito della cosiddetta ‘New Institutional Economics’).
All’interno di queste ricerche diversi studiosi hanno iniziato a indagare approfonditamente anche la storia economica d’Italia, riuscendo a ricostruire un quadro, prima in larga parte ignoto, degli andamenti dei principali indicatori macroeconomici e sociali del nostro paese (reddito, disuguaglianza, povertà, divari regionali, condizioni di vita, andamento dei principali settori). Sull’impulso della ricorrenza dei 150 anni dall’unificazione si è inoltre ultimato un lavoro collettivo che ha permesso di ricalcolare e ricostruire l’andamento del Pil italiano a partire dal 1860.
Ascesa e declino – Storia economica d’Italia è un testo scritto da Emanuele Felice, giovane studioso di recente rientrato in Italia, e attinge a piene mani sia dall’ultima evidenza a disposizione, sia dai nuovi approcci alla politica economica.
Leggi tuttoIl senso della tempistica dei nostri media – dei loro proprietari – si vede da certi dettagli. Oggi il Corriere della Sera spara un editoriale autorevole, di Franco Venturini, che chiede al governo di promuovere un intervento militare il Libia, per difendere un nostro non meglio precisato “interesse strategico”. Qualche ora prima il premier designato del nascente “governo di accordo nazionale” libico, Fayez Sarraj, era sfuggito a un agguato. Il convoglio di auto su cui viaggiava è finito sotto il tiro di armi da fuoco sulla via verso Misurata.
I dettagli sull'agguato dicono molto. Quello di ieri sera era il primo viaggio che Sarraj compiva in Libia da capo del nuovo governo di “riconciliazione nazionale”. Neanche il tempo di ottenere il placet dalle potenze occidentali, di stringere gli accordi minimi necessari con le fazioni rivali, di ripartire le malsicure poltrone ministeriali, ed ecco che sei già sotto il fuoco.
Di chi?
La domanda è oltremodo interessante, perché sia il bersaglio che i suoi protettori – a partire dall'evanescente ministro degli esteri italiano, Gentiloni (a proposito: ha messo mano nella delegazione che si è spartita i Rolex sauditi?) - si sono affrettati a rassicurare: “non si è trattato di un attentato terroristico”. Il che dovrebbe voler dire che non è stato l'Isis, ma qualcun altro. E in effetti, se fosse stata lIsis significherebbe di fatto che il vero controllo - politico e militare - del paese sono in quelle mani. Leggi tutto
La
Legge fondamentale tedesca dispone il divieto dei partiti
«che per i loro fini o per il comportamento dei loro
sostenitori mirano a pregiudicare o sovvertire l’ordine
liberale e democratico» (art. 21). Questa disposizione
realizza ciò che nel
corso degli anni Trenta venne definita in termini di
«democrazia militante», ovvero impegnata a difendersi
attraverso il contrasto delle
forze che mirano a reprimere le libertà politiche, in
particolare quelle di ispirazione fascista[1].
A ben vedere, però, la repressione delle libertà politiche è solo una manifestazione del fenomeno fascista, che si è altresì connotato per un particolare modo di intendere il rapporto tra capitalismo e democrazia. Questo aspetto viene però trascurato nel dibattito politico tedesco, recentemente polarizzato dall’intensificarsi di episodi da cui ricavare una reviviscenza della violenza nazista o neonazista. In tal modo si impedisce la comprensione delle dinamiche, riconducibili anch’esse a un particolare rapporto tra capitalismo e democrazia, che presiedono allo sviluppo del processo di integrazione europea.
I partiti neonazisti agiscono indisturbati
Secondo quanto prevede la Legge fondamentale tedesca, il divieto dei partiti antidemocratici viene disposto da un giudice molto particolare, la Corte costituzionale, su istanza di un ramo del Parlamento, o dell’esecutivo federale o di uno regionale. Leggi tutto
In una
serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso
della realtà, la distinzione tra ciò che è, o
si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale,
dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina
Re ed
Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere
come: The Matrix (Lana ed Andy
Wachowski, 1999); Apri
gli occhi (Abre los ojos,
Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David
Andrew Leo Fincher,
1997); eXistenZ (David
Cronenberg, 1999); Pleasantville
(Gary Ross, 1998); The Truman
Show (Peter Weir, 1998); Dark
City (Alex Proyas, 1998); Il
tredicesimo piano
(The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale
produzione cinematografica, affiancata da una nutrita
produzione teorica, secondo gli autori
del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello
dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la
realtà”
come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di
matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà”
e sui
simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario
postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip
Kindred Dick, il saggio intende
«riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura”
originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la
definizione di una
“dominante ontologica” in grado di distinguere il
funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione
a quelle moderne, che
sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo
epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori
è quella di provare ad
applicare l’elaborazione di McHale all’attualità,
eliminando però la subordinazione della problematica
ontologica al
dibattito sul postmoderno. Leggi tutto
L’ex ambasciatore, oggi editorialista: «L’industria delle armi americana controlla la politica estera dell’Occidente. Schäuble dice bene, serve un esercito europeo, ma non accadrà»
Botti
d’inizio anno. A dare fuoco alle polveri per primo è
stato il presidente russo Vladimir Putin, che poche
ore dopo la mezzanotte del primo gennaio ha dichiarato,
aggiornando la lista delle principali minacce alla
Russia, che «la Nato è il
nemico». Poche giorni prima era stato il turno del
ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, che in
un’intervista alla Bild
am Sontag aveva detto che «Il nostro scopo finale
dovrebbe essere un esercito dell’Unione Europea», poiché
«le risorse
che spendiamo per i nostri ventotto eserciti nazionali
potrebbero essere usate molto meglio, se le spendessimo
assieme».
Così, nel giro di meno di una settimana, la Nato, l'alleanza militare occidentale nata in funzione antisovietica nel 1949, è stata messa nel mirino. Direttamente, da uno dei suoi più strenui oppositori. Indirettamente, ma nemmeno troppo, da un ministro di uno dei più importanti stati membri. La domanda, in fondo, è una sola, ma si può declinare in modi diversi: a che cosa serve oggi la Nato? Che senso ha? Contro chi combatte?
«Putin ha ragione, sulla Nato. E anche Schäuble». A dirlo non è uno qualunque, ma Sergio Romano, oggi apprezzato editorialista e scrittore, ma, negli anni ottanta, rappresentante italiano alla Nato e ambasciatore italiano in Unione Sovietica. Leggi tutto
I Grundrisse di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo, a cura di Marcello Musto, prefazione di Eric Hobsbawm, Edizioni ETS, Pisa, 2015
Da cinquant’anni mancava un’introduzione ai Grundrisse. Oggi finalmente abbiamo un testo che ci permette di affrontare i Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. I Grundrisse sono un testo enormemente difficile sotto tutti punti di vista. Sono appunti non destinati alla pubblicazione che offrono problemi di lettura colossali. Tuttavia, dietro la loro forma contorta, essi percorrono vie analitiche molto originali non sempre sfruttate.
La storia dei Grundrisse è fortunosa. Rimasti nascosti per un secolo, pubblicati durante la Seconda Guerra Mondiale, divennero noti dopo la prima ristampa tedesca del 1953. Negli anni cinquanta non furono quasi letti e solo in seguito furono recepiti come possibile alternativa al dogmatismo dell’ortodossia sovietica. Assieme agli scritti di Gramsci e ai manoscritti economico-filosofici del 1844, i Grundrisse aprirono la via alla possibilità di un nuovo marxismo critico di cui vi era un enorme bisogno teorico.
Nonostante il loro importante apporto concettuale, i Grundrisse non furono recepiti subito. Una ragione stava nelle loro enormi difficoltà di comprensione. Il testo non era destinato alla pubblicazione e questo lo si vede ancora benissimo. Adesso, dopo cinquant’anni, finalmente abbiamo un’opera che ci permette un approccio critico.
Leggi tuttoIl sito Movimento operaio del compagno Antonio Moscato è stato hackerato qualche giorno fa ed è tuttora bloccato. In attesa del ripristino del sito, ne ospitiamo volentieri qualche articolo (Red.)
Il governo di Nicolás Maduro, che aveva avuto un po’ più della metà dei voti quando venne eletto dopo la morte di Hugo Chávez, alla fine è stato battuto perdendo il 12% degli elettori e oltre 2 milioni di votanti che prima sostenevano il chavismo. Il processo bolivariano, così fondamentale per il Sudamerica, è in grave pericolo.
Finora, né il governo né i difensori acritici dei governi “progressisti” hanno fatto un serio bilancio di questa sconfitta, che è arrivata mentre Maduro chiamava ad infliggere una “sconfitta decisiva” ai suoi avversari, e neanche del vergognoso tracollo del kirchnerismo argentino, convinto che avrebbe vinto già al primo turno l’elezione presidenziale. Meno ancora esiste un bilancio sulla corruzione del Partito dei Lavoratori brasiliano, che fornisce pretesti all’estrema destra, o delle difficoltà di Evo Morales sul referendum per un suo terzo mandato consecutivo, né di Rafael Correa che si scontra con i movimenti sociali.
Tutti costoro – da Maduro fino ai suoi sostenitori più ciechi – accampano la giustificazione che l’imperialismo finanzia una feroce campagna di intossicazione dell’opinione pubblica e, con suoi agenti locali, vuole abbattere il governo e che i mezzi di informazione locali – e la grande stampa capitalista internazionale – sono riusciti a confondere le maggioranze popolari. Leggi tutto
Il reddito di cittadinanza o il reddito minimo garantito sono misure che contengono in sé un’ambivalenza fondamentale: da una parte sembrano essere inevitabili nel momento in cui la disoccupazione e la precarizzazione generalizzata mettono a rischio la domanda e dunque i profitti , dall’altra sono un colpo definitivo alla dignità del lavoro che almeno nelle sue forme tradizionali di base diventa in qualche modo superfluo. Da una parte sembrano focalizzare l’interesse sull’individuo e le sue libertà, dall’altra tendono a creare la situazione ideale per società totalmente dominate da elites e in cui l’unica vera libertà è quella sopravvivenza.
In tutta sincerità trovo piuttosto grottesco che si arrivi a questo dopo aver delocalizzato in Asia e dintorni la grande massa del lavoro manifatturiero per poi venire a dire che le tecnologie robotiche eliminano posti di lavoro, il che è certamente vero, ma comunque in una prospettiva relativamente lunga. E francamente non capisco perché a questo punto non si pensi a piani per la piena occupazione, sviluppando quei servizi, vecchi e nuovi (l’elenco potrebbe essere infinito dall’assistenza all’ambiente) che sono stati erosi dalla inesausta battaglia contro il welfare, a sostanziali tagli dell’orario di lavoro, allo sviluppo di attività incipienti, ma ancora inedite. Tuttavia questo abbasserebbe il livello di ricatto occupazionale e non sarebbe funzionale ai profitti. Il fatto è che il lavoro fa paura alle elites dominanti: esso conferisce forza, pensiero, colleganza, sapere, senso della dignità e dei diritti che sono potenzialmente pericolosi per il potere, mentre l’elemosina – come al tempo della decadenza imperiale romana – rende docili e dipendenti, servi ancorché senza servizio. Leggi tutto
A capodanno, a Colonia, decine di donne sono state molestate, stuprate e derubate da decine di uomini. Allo stato attuale delle indagini, sembra che le aggressioni non siano state concertate e pianificate; inoltre, gli «apparentemente arabi» che, secondo i primi resoconti, le hanno commesse non erano, almeno non tutti, rifugiati arrivati in Germania negli ultimi mesi. Il fatto è, dunque, che decine di donne sono state molestate, stuprate e derubate da decine di uomini che hanno trovato un’improvvisa sintonia e comunità d’intenti nella violenza sessuale, al di là della loro provenienza, dell’appartenenza religiosa o culturale, del loro status legale. Vi è però un altro fatto altrettanto incontestabile, ovvero che molti di quegli uomini erano migranti. La possibilità di prenderne atto e di pensarne le conseguenze per le donne sembra chiusa o almeno limitata dalla dinamica speculare che si è affermata tanto sui principali organi di stampa quanto nel dibattito di movimento, che vede un comprensibile e legittimo antirazzismo femminista contrapporsi a un inaccettabile e violento razzismo patriarcalista. Così, il rifiuto e il timore di essere complici delle retoriche razziste spinge donne e femministe a prendere risolutamente le difese dei migranti, a partire dal riconoscimento che il patriarcato è ovunque e che la «cultura dello stupro» era già presente anche nella civilissima Germania prima di esservi «importata» dai nuovi arrivati. Tuttavia, se è vero che il patriarcato è un fatto sociale globale, vale la pena pensare ai modi differenti attraverso i quali si manifesta, che non hanno a che fare con la cultura o la religione – benché ne siano inevitabilmente condizionati – ma con la configurazione dei rapporti di potere tra i sessi. Leggi tutto
Il 2015
è morto e l’annunciata nascita della sinistra non c’è
stata. L’anno buono sarà il 2016?
È difficile dirlo, anche perché al momento non è chiaro
neanche chi dovrebbero essere i promotori del nuovo
soggetto politico,
mentre il dibattito sulle finalità e sui contenuti del
progetto resta ben al di sotto delle necessità, e divaga
su aspetti tattici
secondari. Non emergono i nodi strategici di una crisi di
portata storica che coinvolge milioni di donne e di
uomini, i quali chiedono risposte
intellegibili e concrete di fronte all’incertezza della
vita e al degrado dell’ambiente. Il rischio che si corre
in questa condizione
è che nasca un’altra formazione politica minoritaria, di
fatto ininfluente sul corso reale delle cose
Ma il senso e la funzione storico-politica della sinistra si definiscono se si è in grado di indicare una via d’uscita dalla crisi, e di organizzare su questa via un movimento di lotta politica, sociale, culturale. Di cui le elezioni sono un aspetto fondamentale, ma solo un aspetto. E il governo non è il fine da raggiungere comunque e con ogni mezzo, bensì un mezzo per realizzare determinati fini di avanzamento sociale e civile. Dunque, preliminare per costruire un’alternativa alla crisi, è definire il carattere e la portata della crisi. Se su questo punto non si fa chiarezza è difficile compiere qualche passo avanti, incidendo sui rapporti di forza (e di proprietà) che caratterizzano il nostro tempo. Leggi tutto
Antefatto
Tralasciando
per il momento la "questione ambientale" (per il cui
ulteriore approfondimento rinvio a questo
commento
di "Correttore di Bozzi"), per l'argomento in
questione muoverei da quanto ricordatoci da Arturo nella
sua lunga citazione di
Losurdo (La sinistra assente
di Losurdo (Roma, Carocci, 2014, pp. 261 e ss.):
"Ma diamo uno sguardo alla storia del colonialismo nel suo complesso.
Il Terzo Mondo e la «grande divergenza» a danno di esso sono in larga parte il risultato della deindustrializzazione e della decrescita imposte dall’aggressione colonialista e dall’apertura subitanea e violenta del mercato nazionale alle merci più a buon mercato provenienti dalla metropoli imperialista; un’apertura subitanea e violenta anche perché finalizzata al mantenimento e al rafforzamento del dominio coloniale: ancora nel 1810 la Cina vantava un prodotto interno lordo che costituiva il 32,4% del prodotto interno lordo mondiale mentre « l ’ aspettativa di vita cinese (e quindi la nutrizione) era circa a livelli inglesi (e perciò sopra la media continentale) persino a fine Settecento». Non molto diversa è la storia dell’ India che, sempre nel 1810, contribuiva per il 15.7% al p i l mondiale (Davis, 1001, p. 299). Proprio in seguito all’aggressione coloniale i due grandi paesi asiatici sono stati investiti da un ciclo di progressiva decrescita e sono caduti in una miseria disperata e fatale per milioni e milioni di persone; ed è per porre rimedio a tale situazione che si è imposta una politica di sviluppo autonomo."
Il tema, e ormai lo dovremmo sapere, è stato ampiamente trattato da Chang ne "The Bad Samaritans", anche con riferimento ai dati del secondo dopoguerra, come trovate illustrato qui e qui (notare che, così come ai nostri giorni, col colonialismo del liberoscambio e del gold standard, nessuno cresceva in modo rilevante e, ovviamente, le industrie altamente inquinanti proliferavano eccome, mentre, più che mai, "le risorse erano scarse", tanto che ne derivarono ben due guerre mondiali). Leggi tutto
Il 2 gennaio l’Arabia Saudita
ha giustiziato 47
detenuti accusati di “terrorismo”.
Nonostante le vittime fossero perlopiù sunnite,
l’uccisione del religioso sciita Shaykh Nimr Baqr al-Nimr,
leader delle proteste contro
il governo di Riyadh nel 2011, ha scatenato violente
reazioni in Iran, stato di riferimento della comunità
sciita globale. A Teheran è
stata assaltata l’ambasciata saudita (qui
il video) e dalla capitale iraniana sono
giunte dure condanne dell’azione intrapresa dal governo
saudita: la massima autorità religiosa, l’ayatollah
Khameini ha
parlato di una “vendetta
divina” che si abbatterà sui politici sauditi per
aver sparso sangue innocente e il vice-ministro degli
esteri iraniano ha colto
l’occasione per accusare espressamente l’Arabia Saudita di
promuovere il terrorismo in Medio Oriente, dando
alla vicenda i contorni di una crisi diplomatica.
La reazione saudita è stata immediata: il ministro degli esteri Adel al-Jubeir ha annunciato che le relazioni diplomatiche con Teheran sono interrotte, i diplomatici iraniani hanno 48 ore per lasciare il paese. A poche ore dall’annuncio ufficiale anche Sudan e Bahrein si sono accodate alla decisione saudita. Questa “crisi dei missili di Cuba” mediorentale ha rinfocolato la tensione tra i due stati, finora, più stabili del Medio Oriente. Il parallelismo con lo scenario pre 1989 trae ulteriore legittimazione dalla contrapposizione indiretta tra i due paesi nella guerra in Yemen, dove già dall’inizio del conflitto in marzo si è parlato proprio di “guerra fredda”.
Leggi tuttoPubblicati da Aragno gli scritti di Tito Perlini, uno dei più importanti studiosi della «Scuola di Francoforte» e del nichilismo. Ma anche originale filosofo che ha operato per sganciare il marxismo dallo storicismo
Quello dell’intellettuale critico e non conformista non è mai stato un mestiere facile. Uno che lo ha praticato con coerenza e lucidità dagli anni Sessanta del Novecento fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2013 è stato Tito Perlini, di cui esce in questi giorni, per l’editore Aragno, una cospicua raccolta di scritti (Attraverso il nichilismo. Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria, prefazione di Claudio Magris, introduzione e cura di Enrico Cerasi, pp. 800, euro 40). L’itinerario intellettuale di Perlini, che l’ampia raccolta consente di ripercorrere nel suo complesso, è stato molto interessante e singolare. Perlini, che era nato a Trieste nel 1931, appartiene infatti a quel gruppo di studiosi italiani che, verso la metà degli anni Sessanta, scoprirono e importarono nel nostro Paese le tematiche della Scuola di Francoforte, allora sconosciute ai più e, anche in Germania, note molto parzialmente.
A frequentare intellettualmente e anche fisicamente Francoforte furono, in quegli anni, studiosi come Renato Solmi (di cui Quodlibet ha appena ripubblicato l’Introduzione del 1954 ai Minima moralia di Adorno), Furio Cerutti, Carlo Donolo, Gian Enrico Rusconi, che tutti diedero un contributo alla ricezione italiana del francofortismo. Ma il lavoro che, in questo campo, fu svolto da Tito Perlini, ebbe un’ampiezza senza pari. Leggi tutto
Sharknado 3 regia di Anthony C. Ferrante
Se l’ideologia dominante opera su almeno 3 livelli differenti, con le relative modalità; e se – procedendo dal più ovvio al più nascosto – possiamo definirli Livello Goebbels (dai Diari del gerarca nazista, citati da Goffredo Fofi nel film Sbatti il Mostro in Prima Pagina) che funziona “per semplice ripetizione”; Livello Orwell (dal romanzo 1984) in cui si manipola il linguaggio, e ad esempio “Guerra” diventa “Missione di Pace”; e infine Livello Althusser (dall’omonimo filosofo francese) che riguarda ciò che si dà per scontato, di cui “non c’è bisogno di parlare”: se tutto questo non è completamente inverosimile, è anche legittimo immaginare che certi film ultracommerciali, magari orrorifici ma spensieratamente tali, abbiano poco a che vedere con il livello Orwell (che è il più creativo), parecchio a che fare con il livello Goebbels, e moltissimo con il livello Althusser, quello più vicino all’inconscio collettivo e alle paure che vi albergano. È questo il caso di Sharknado 3, terzo episodio di una saga che – essendo già in preparazione per il 2016 Sharknado 4 – viaggia all’impressionante media di un film all’anno: da fare impallidire – quanto a produttività, anche se non quanto a effetti speciali – i 7 in 38 anni delle guerre stellari alla cui visione siamo stati appena, tristemente, precettati dal Regime. Il film (come tutta la serie) è stato definito con le 4 “F” che nel titolo ho fatto seguire dal punto interrogativo: vediamo allora se le ha meritate davvero.
1) Fesso? Chiamalo fesso! Le entrate di The Asylum – lo studio californiano che ha prodotto questa serie di film per la TV – sono in costante ascesa e hanno superato da tempo i 20 milioni di dollari annui, con un margine di profitto del 15%. Sharknado ha straripato nei social media, è diventato fenomeno di costume e ha pure resuscitato l’etica cormaniana dei bassi costi di produzione (2 milioni di dollari di budget, contro i 200 del Risveglio della Forza). Leggi tutto
Se l’Arabia saudita con la decapitazione dell’iman sciita Nimr al Nimr e la rottura delle relazioni diplomatiche con l’Iran intendeva lanciare un siluro al “nuovo ordine” regionale figlio dell’accordo sul nucleare tra Iran e Occidente, richiamare all’ordine l’Amministrazione Obama, aggravare il settarismo religioso in Iraq, Bahrain e Libano, affondare un possibile accordo in Yemen e sabotare i negoziati sulla Siria che l’Onu vorrebbe cominciare a fine gennaio, allora ha raggiunto, almeno in parte, i suoi obiettivi. Una guerra tra Tehran e Riyadh appare una ipotesi al momento improbabile – gli iraniani sono militarmente più forti ma sanno che in caso di conflitto gli Usa si schiereranno con gli alleati sauditi e salterebbe l’accordo sul nucleare e per la fine delle sanzioni economiche -, è probabile invece che si allarghi lo scontro sunnita-sciita in altri Paesi. Le prese di posizione dei leader nordafricani e mediorientali, successive alla decapitazione di al Nimr, riflettono schieramenti settari noti da tempo e, in definitiva, lo schema tracciato dalla stessa Arabia saudita quando ha annunciato, qualche settimana fa, la sua “coalizione antiterrorismo” che esclude l’Iran e altri Paesi a maggioranza sciita. La tensione è alta dove vivono sunniti e sciiti insieme. A cominciare dal Bahrain dove un movimento popolare da anni reclama con forza riforme politiche e uguaglianza tra la minoranza sunnita al potere e legata alla monarchia al Khalifa e la maggioranza sciita. Nel 2011, con l’aiuto di truppe scelte inviate dall’Arabia saudita, il re del Bahrain mise fine nel sangue al presidio democratico di Piazza della Perla, a Manama.
Leggi tuttoTra i filoni mediatici più praticati, e più fortunati, c'è quello dei commenti falsamente critici nei confronti dell'establishment. La situazione in Libia è talmente confusa e disastrata che non si può certo fingere di ritenere salvifica l'aggressione della NATO del 2011 che ha dato il via alla destabilizzazione del Paese, perciò, in un articolo su "Il Fatto Quotidiano", dai toni irriverenti e sbarazzini, l'economista Loretta Napoleoni non esita a parlare di "fiasco" della NATO, e si spinge a considerare del tutto strumentale agli interessi economici dell'Occidente l'accordo fatto firmare ai due governi in guerra tra loro in Libia, quello di Tripoli e quello di Tobruk. La Napoleoni conclude il suo commento esprimendo scetticismo nei confronti delle posizioni del governo di Tobruk, il quale non chiede interventi militari esterni per stabilizzare il Paese, ma solo di potersi dotare di armamenti più adeguati.
Se la Napoleoni fosse contraria per principio alle vendite di armi, la sua posizione avrebbe un senso, ma, per come si presenta, non fa altro che adagiarsi nei paradossi della posizione occidentale. Il governo di Tobruk è infatti quello ufficialmente riconosciuto dai governi occidentali, con l'eccezione della Turchia, la quale invece rifornisce di armi il governo di Tripoli, il più legato alle formazioni sedicenti jihadiste. La Napoleoni avrebbe potuto cercare di spiegarci che senso abbia riconoscere un governo e poi tenerlo sotto embargo di fornitura di armi, tanto più che l'altro governo le armi le riceve, eccome; per di più da Paesi nostri "alleati", come la Turchia, il Qatar e l'Arabia Saudita. Leggi tutto
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Roberto Fineschi, giovane filosofo senese, allievo del compianto Alessandro Mazzone, è uno dei pochissimi italiani che ha seguito da vicino i lavori della nuova edizione critica delle opere di Marx e di Engels. È autore di diversi saggi [1] che, partendo dall'illustrazione di questa novità editoriale, forniscono alcune indicazioni utili per sviluppare la ricerca sulle orme del lascito marxiano. Ha tradotto in italiano e curato la pubblicazione del primo libro del Capitale [2] che tiene di conto di tali novità
La nuova edizione
critica delle opere di Marx ed Engels, la
Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2) ci riserva molte sorprese.
Non cambiano solo le interpretazioni dei testi,
ma i testi stessi. Che uso farne per rilanciare una
prospettiva comunista su basi teoriche solide?
***
Roberto, puoi dirci in cosa consistono i lavori della MEGA2 e perché sono importanti?
Si tratta della nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels iniziata nel 1975. Prevede la pubblicazione di oltre un centinaio di volumi, tant'è vero che è stata definita scherzosamente “megalomane”. Si articola in 4 sezioni. La prima contiene tutte opere pubblicate e i manoscritti, escluso Il Capitale; la seconda comprende Il Capitale e i relativi lavori preparatori a partire dai manoscritti del 1857-58, i cosiddetti Grundrisse; la terza sezione è dedicata al carteggio e la quarta alle note di lettura e gli estratti dei due autori.
È importante perché Marx in vita non ha pubblicato molto e quindi la stragrande maggioranza delle sue opere che conosciamo sono pubblicazioni postume di manoscritti editati e curati da varie persone in maniera più o meno filologicamente corretta. Quindi la nuova edizione offre per la prima volta i veri testi di Marx. Si tratta di opere non marginali, ma capitali, sulla base delle quali si sono sviluppate le varie interpretazioni. Per esempio, i cosiddetti Manoscritti economici-filosofici del '44, nella forma in cui li conosciamo, non sono un'opera unitaria. Leggi tutto
Democrazia e lavoro sono
le radici della nostra
Costituzione del 1948. Una cosa è cambiare, un’altra è il come
cambiare. Il superamento del bicameralismo perfetto è
largamente condiviso, ma siamo di fronte a un testo
incomprensibile e al ritorno a condizioni pre-costituzionali
Coloro che, la riforma costituzionale, la vedono gravida di conseguenze negative non si aggrappano alla Costituzione perché è “la più bella del mondo”. Sono gli zelatori della riforma che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e distogliere l’attenzione dalla posta in gioco. La posta in gioco è la concezione della vita politica e sociale che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole “democrazia” e “lavoro” che campeggiano nel primo comma dell’art. 1. Qui c’è la ragione del contrasto, che non riguarda né l’estetica (su cui ci sarebbe peraltro molto da dire, leggendo i testi farraginosi, incomprensibili e perfino sintatticamente traballanti che sono stati approvati) né soltanto l’ingegneria costituzionale (al cui proposito c’è da dire che nessuna questione costituzionale è mai solo tecnica, ma sempre politica).
Molte volte sono state chiarite le radici storiche e ideali di quella concezione, perfettamente conforme alle tendenze generali del costituzionalismo democratico, sociale e antifascista del II dopoguerra, tendenze riassunte nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1948, di cui la nostra Costituzione contiene numerose anticipazioni, perfino sul piano testuale. Leggi tutto
Proseguiamo la riflessione sul ’68 che abbiamo iniziato alcuni giorni fa in seguito alla pubblicazione di una breve ma significativa testimonianza del compianto filosofo marxista Stefano Garroni, con questo interessante contributo di Armando Ermini che riportiamo di seguito. Si tratta di un argomento molto controverso in grado di suscitare ancora, a distanza di tanti anni, un vivace e accesissimo dibattito. Saremo ovviamente felici di ospitare i contributi di tutti coloro che volessero esprimere la loro opinione sul tema.
“Ripensare
quel periodo della nostra
storia non solo è legittimo ma anche doveroso. Oggi, lontano
dal fuoco della lotta di quegli anni, lo possiamo fare con più
razionalità e realismo, solo che si abbia la volontà e la
lucidità necessarie. Proprio quello che la grande
maggioranza di chi a quel movimento partecipò si rifiuta di
fare fino in fondo. Non si tratta di nostalgia per i
giovanili
anni ruggenti, né di fare i cantori dell’immobilismo
ideologico. Il cambiamento, nello sforzo di capire la
realtà che ci circonda, anche per trasformarla, è non solo
normale ma anche inevitabile. Non si tratta nemmeno di
rinnegare
alcunchè, di fare abiure del passato o simili penose pratiche.
Si tratta “solo” di tentare di capire se, dove e perché
sbagliavamo; non nel desiderare astrattamente un mondo
diverso, ma nel come realizzarlo concretamente. Non sto
pensando, ovviamente,
a quei figli dell’alta/media borghesia in “libera uscita”,
passati in breve tempo con la nonchalance degli snob, dai
gruppi
dirigenti duri e puri di Potere Operaio o Lotta Continua al
board di una Società per azioni. E nemmeno a coloro i quali,
bloccati
in ferree e malintese armature ideologiche, sono sconfinati
nella follia terroristica scambiandola per lotta di classe.
Sto invece pensando alla massa
di studenti di estrazione piccolo borghese diventati il nucleo
forte dell’intellighenzia, nei giornali, nelle TV, nelle case
editrici ,
nella scuola e nell’università, insomma in tutti quei luoghi
dove si forma il consenso. Essi si ostinano a credere di aver
fatto
qualcosa di grande e di rivoluzionario, magari non concluso
causa il destino cinico e baro, ma comunque nel flusso di una
trasformazione sociale
positiva e rivolta ad una più ampia libertà.
In caso di strage, soprattutto di terrorismo internazionale, non è strano che ci siano aspetti oscuri: è la materia stessa a produrli, senza bisogno di alcuna dietrologia. Questo non significa che non si debba cercare di ragionarci su. Qui ci sono tre ordini di domande fra loro connesse:
a. chi ha mandato l’attentatore, al di là delle apparenze e chi c’è dietro il mandante
b. quale era l’obiettivo dell’attentato
c. quale era lo scopo dell’attentato
In primo luogo: siamo sicuri che l’attentato venga dall’Isis? Abbiamo una rivendicazione, questo è vero, ma non ci vuole molto a fare una falsa rivendicazione. Però, di solito, le rivendicazioni false non vengono fatte con una firma conosciuta e di soggetto esistente che può smentire, ma con una firma “nuova” o generica magari giù usata (tipo “I guerrieri della Jihad”). Qui l’Isis esiste, è in grado di smentire ma non ha smentito. A volte le organizzazioni terroristiche trovano utile non smentire una falsa rivendicazione per appropriarsi di un attentato e sembrare più potente di quanto non sia. Ma non mi pare questo il caso: se chi ha fatto quell’attentato è soggetto estraneo all’Isis voleva spezzare il rapporto fra Isis ed Erdogan, quindi Daesh aveva tutto l’interesse a smentire. Leggi tutto
Nel giro di poche settimane l'emergenza terrorismo in Francia è diventata l'emergenza molestie sessuali in Germania. Dato che tra le forme di fanatismo ammesse in Occidente, oltre quella del Dio Mercato, c'è anche l'islamofobia, il governo slovacco ha vietato l'ingresso sul proprio territorio agli immigrati mussulmani, sempre con la motivazione di evitare stupri e molestie. Una strana forma di doppiopesismo, dato che, a quanto pare, il Sacro Occidente neanche scherza quanto ad emergenze stupri del tutto endogene. Nell'aprile dell'anno scorso il governo federale USA ha messo sotto accusa cinquantuno Università dipendenti dai fondi federali (ma non erano tutte private?), per aver insabbiato casi di stupro ai danni di studentesse. Magari anche questo caso era stato enfatizzato in modo strumentale e per secondi fini non ancora chiari, ma dimostra come sia facile e pretestuoso legare la questione stupri all'immigrazione.
Come sempre noi Italiani dimostriamo di saper fare di meglio, dato che nel 2007, sempre a proposito di immigrazione, fummo capaci addirittura di inventare un'emergenza lavavetri a Firenze; un'emergenza, per di più, lanciata da un sindaco di "sinistra". La creatività italica ne esce sempre vittoriosa.
I legittimi timori contro l'immigrazione di massa non trovano certamente una rassicurazione nella parodia del "politically correct", in base alla quale occorrerebbe rassegnarsi al dovere dell'accoglienza ed al presunto carattere "epocale" del fenomeno migratorio. Leggi tutto
Storia di un comunista: leggendo questa autobiografia di Toni Negri non sorprende il silenzio che ha accompagnato la sua uscita e la qualità delle poche recensioni apparse finora. Torna il refrain del cattivo maestro al quale non si perdona l’internità alle lotte operaie degli anni Sessanta e soprattutto a quelle degli anni Settanta ad opera delle bande autonome di “giovani perduti dietro un folle velleitarismo” [Simonetta Fiori, Repubblica 05-01-2016].
Sul senso di questa internità soprassiede tranquillamente anche Gad Lerner interessato ad attribuire la paternità di quelle bande per l’appunto al cattivo maestro (la “sua” creatura movimentista, quella in cui maggiormente si riconosce dal suo Blob 05-01-2016).
Se così stanno le cose, la censura ha ben altra motivazione che il mero imbarazzo che a suo tempo avrebbe provato il Pci a fronteggiare l’eresia del pensiero negriano. Quand’è che l’eresia non può essere contenuta? Evidentemente quando essa trova il suo inveramento in un’effettiva politica di liberazione. Se il ripiegamento sull’autonomia del politico ha salvato Tronti, il padre dell’operaismo, dalla demonizzazione picista, la fedeltà a quell’impianto teorico e la ricerca di una sua verifica pratica direttamente nella lotta di classe operaia hanno inchiodato Negri alla condizione di chi ha subito una messa al bando che si vuole perpetuo. E infatti nel linguaggio della gran parte di questi recensori Negri resta un bandito, anzi il bandito. Ma l’Autore avrebbe dovuto aspettarselo visto che la sua storia vuole essere quella di un comunista. Leggi tutto
La fine
del modello
bipolare e bipartitico in Europa
I risultati delle elezioni di fine 2015 in Francia e in Spagna confermano la crisi del sistema bipolare e bipartitico dell’Europa occidentale. Tuttavia, crisi non vuol dire fine del sistema. Al contrario la crisi del bipolarismo fondato sull’alternanza di due partiti o coalizioni principali, l’una di centro-destra e l’altra di centro-sinistra, ha determinato un irrigidimento del modello politico in senso maggioritario. Ne troviamo un esempio in Italia nella proposta di riforme elettorali (l’Italicum) e costituzionali che rafforzano la governabilità intesa come predominio dell’esecutivo sul resto delle istituzioni e soprattutto sulla società. Grazie a leggi elettorali maggioritarie, partiti sempre meno rappresentativi riescono a garantirsi il primato, squalificando la rappresentatività delle istituzioni politiche agli occhi di milioni di elettori e accentuandone l’astensionismo.
Alla crisi del bipolarismo e del bipartitismo corrisponde - nella prevalenza dei casi - l’affermazione di terze e quarte forze, al di fuori dello schema di alternanza centro-sinistra/centro-destra. Questi partiti, malgrado si caratterizzino per orientamenti politici a volte molto differenti, sono accomunati, nella maggior parte dei casi, dalla individuazione di cause e soluzioni alla crisi socio-politica al di fuori della crisi del modo di produzione capitalistico e del conflitto lavoro salariato-capitale. Leggi tutto
Friedrich Hayek: un ritratto a tutto tondo del pensatore austriaco di quel liberismo reazionario che è tornato di moda con il dominio del potere tecno-finanziario. Le sue controverse teorie sembrano essere un vademecum per i governanti di oggi
Le cronache
giornalistiche del tempo riferiscono che, durante una
concitata riunione del suo governo, Margaret Thatcher di
fronte ai
suoi ministri che litigavano fragorosamente, sbatté un grosso
tomo sul tavolo esclamando: «Basta signori, è inutile
dividersi. La nostra bibbia è contenuta in questo libro. Esso
ci indicherà la strada!».
Quel librone degli anni Sessanta del secolo scorso (The Constitution of Liberty) era lo stesso in cui Friedrich Hayek si lanciava in un’accorata e nostalgica esaltazione della Svizzera in cui le donne non avevano il diritto di voto (e in generale i diritti politici) e, nella ricostruzione dello stesso autore, erano per giunta contente di questo fatto.
Le possibilità allora sono due: o la signora Thatcher, donna e primo ministro inglese, non aveva letto quella che lei stessa considerava la bibbia del suo governo, oppure non si riteneva appartenente a un genere specifico e, quindi, accettava di conferire a quel volume un così grande valore, malgrado la discriminazione anacronistica nei confronti della popolazione femminile, contenuta fra le sue pagine.
In ogni caso, i conti non tornavano. O meglio, non tornavano per quel tempo, quando il liberalismo riteneva di aver costruito da solo le democrazie occidentali (sconfiggendo il comunismo), e Hayek veniva da molte parti presentato come «il più grande liberale del Novecento». Leggi tutto
“Non si
deve
essere confusi dai discorsi di istituzioni straniere: se
loro dicono che lo yuan calerà non significa certo che
debba accadere. Ci può
essere chi cerca di realizzare profitti diffondendo una
visione bearish sulla valuta per indurre le società
domestiche e il pubblico verso il
panico. Ma la Cina ha la determinazione e la capacità di
difendere lo yuan dalla speculazione” Guan
Tao, Capo
Dipartimento Pagamenti Internazionali SAFE (State
Administration of Foreign Exchange), citato da
Stefano Carrer, E la Banca Centrale compra
renminbi, Il Sole 24 Ore 12.01.2016.
“Alcune forze speculative stanno cercando di guadagnare giocando con il renmimbi ma tali attività di trading non hanno nulla a che fare con l’economia reale della Cina e hanno provocato fluttuazioni anomale”. Dichiarazione Ufficiale PBOC(People’s Bank of China) 7.01.2016, fonte www.advfn.com.
***
Lunedì 4 gennaio ore 06.00 in Italia. Le agenzie di stampa occidentali battono la prima notizia di giornata: grosso scossone in Cina nella prima seduta borsistica dell’anno. L’indice Composite di Shanghai (SEEC) crolla del 7%, lo yuan non fa più gola (come si dirà più tardi), e l’economia, rispetto alle previsioni di fine anno, rallenta, creando un forte terremoto finanziario. La divisa cinese perde d’improvviso il suo fascino, da moneta di traino dell’economia occidentale (scambi commerciali e investimenti produttivi in asset strategici), nuova di look per l’entrata nel paniere delle valute di riserva del FMI, diventa d’un tratto vulnerabile, debole, floscia, priva di slancio. Leggi tutto
A distanza di un anno si può dire senza paura di smentita che la strategia saudita di petrolio a prezzi bassi si stia rivelando come un completo fallimento, ecco come
Il 2016 è iniziato con l'acuirsi della crisi tra Iran e Arabia Saudita a causa dell'esecuzione, da parte dei sauditi, di un importante Imam sciita. In realtà la tensione tra queste nazioni è già molto forte da qualche anno e va letta comunque sullo sfondo della plurisecolare ostilità esistente tra sciiti e sunniti. Non pare azzardato dire che la guerra strisciante tra l'Iran - maggior paese sciita - e l'Arabia Saudita - paese chiave del sunnismo - vada ormai avanti da qualche anno sia sul piano militare (guerra per procura in Siria e in Yemen dove i due contendenti sono schierati su versanti opposti) che sul piano diplomatico (l'Arabia Saudita era ostile alla ripresa delle relazioni diplomatiche tra USA e Iran e alla fine delle sanzioni che colpivano l'Iran) sia sul piano economico (dove ormai da più di un anno va avanti una guerra scatenata dai sauditi tendente a colpire l'Iran con il crollo del prezzo del barile del petrolio).
Concentrandoci sull'aspetto economico di questa crisi non è azzardato dire che il focus è quello del prezzo del barile di petrolio. L'innesco della crisi può essere individuato con precisione anche dal punto di vista temporale: la riunione Opec del 27 novembre 2014, dove il ministro del petrolio saudita Ali al Naimi annuncia l'intenzione di aumentare la produzione di petrolio facendone crollare il prezzo. Leggi tutto
1. Nell'ultimo post avevamo appena finito di mostrare la fallacia e la miopia che sono alla base della fondamentale collaborazione che larghi strati della popolazione in posizione dominante forniscono alle potenze colonizzatrici, che subito ci arriva la conferma spaghetti tea-party:
Insomma apprendiamo, ma ormai senza stupore, che tagliare...il PIL (cioè la spesa pubblica) consentirebbe di abbassare il gettito tributario (che si abbasserebbe certamente in questo caso, ma perchè diminuiscono redditi e basi imponibili, aumentandosi così i buchi nel bilancio dello Stato, e quindi il deficit: cioè si verifica esattamente quello che l'€uropa proibisce e sanziona imponendo di riaumentare le tasse). Leggi tutto
Se è vero quanto affermano le autorità nordcoreane, l’esplosione di una bomba atomica all’idrogeno ha fatto eco nei giorni scorsi all’appello lanciato il 25 agosto di due anni fa da Papa Francesco dalla Corea del Sud, dove era appena arrivato in occasione dalla Giornata della gioventù dei popoli asiatici, celebrata a Daejon. – perché le due Coree, quella del Nord ancora a regime comunista, e quella del Sud, a economia capitalista e stretta alleata degli Usa, vivano finalmente in pace e perciò riunificate. E’ il caso di ricordare che le bombe H, all’idrogeno, sono enormemente più potenti e quindi devastanti di una semplice bomba A per il semplice motivo che usano una di queste come detonatore. L’esplosione della A permette infatti di raggiungere i milioni di gradi di temperatura necessari perché gli atomi di idrogeno fondano tra di loro perdendo così massa che si trasforma fulmineamente in energia.
Prima però di concludere che la Corea del Nord ha mire aggressive anziché esclusivamente difensive, vediamo di ripercorrere un po’ di Storia. Dal 668 d. C. la Corea è stata un Paese che ha unito il nord e il sud per oltre mille anni. Come mai allora le Coree oggi sono due e in quella del Sud ci sono ancora, fin dal 1945, poco meno di 40 mila soldati Usa anche se di militari coreani che occupano territori Usa non se ne sono mai visti? La divisione coreana è un avanzo della seconda guerra mondiale, un suo colpo di coda. Colpo sferrato dagli Usa l’8 settembre 1945, sei giorni dopo la resa del Giappone, con un’invasione che da lotta alle malefatte di Tokio in quella parte di mondo è stata trasformata nel giro di tre mesi in “guerra ai comunisti”, rivelando così il vero scopo degli Stati Uniti. Leggi tutto
Materialismo e ontologia dell'attualità in L'idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita di Paolo Virno
0. L'idea di mondo.
Intelletto pubblico e uso
della vita (ed. Quodlibet) di Paolo Virno è un volume
composito, si raccolgono testi vecchi e nuovi. Più nel
dettaglio: tre saggi
brevi, due filosofici e un “classico” della teoria politica
contemporanea. Il primo saggio, Mondanità (1993),
ha i tratti
del laboratorio, fanno la loro comparsa nozioni chiave della
ricerca materialista che l'autore non ha mai abbandonato. Il
secondo, Virtuosismo e
rivoluzione (1993), è un piccolo grande capolavoro, che
ha consegnato a militanti politici giovani e meno giovani «le
parole per
dirlo», la bussola per navigare «dentro e contro» la scena del
postfordismo o di ciò che, più recentemente, abbiamo
definito capitalismo neoliberale. Concetti come moltitudine,
esodo, intemperanza, diritto di resistenza “tornano
alla luce” per
ripensare radicalmente l'azione politica, quando la produzione
fa del linguaggio, degli affetti, in generale della vita della
mente, le sue risorse
decisive. L'uso della vita (2014), presentato per
la prima volta nel seminario della Libera Università
Metropolitana proprio alla
nozione di 'uso' dedicato, è un saggio di forza e bellezza
rare. Si sancisce un nuovo inizio, si delinea una ricerca a
venire.
Vista la ricchezza dei temi, ci risulta difficile, se non impossibile, la ricostruzione dettagliata dei tre saggi. E forse non è ciò che serve. Proveremo a soffermarci, quasi interrogando l'autore, su alcuni elementi comuni e, più in generale, sul gesto filosofico che Paolo Virno non smette di proporre. La mossa teorico-politica, condensata in Virtuosismo e rivoluzione, sarà semplicemente indicata, avendo quest'ultima già informato, per diversi anni, la ricerca e la prassi dei movimenti sociali radicali. Leggi tutto
Pubblichiamo un estratto da “Lavoro totale. Il precariato cognitivo nell’età dell’auto imprenditorialità e della Social Innovation” di Maurizio Busacca (CheFare / Doppiozero)
Lavoro
– Improduttività e i loro doppi
L’analisi che viene proposta in questo lavoro si fonda principalmente sulla produzione culturale, politica e tecnica di Franco Basaglia e Franca Ongaro perché la loro risposta operativa al governo della follia li rende soggetti e oggetti ideali dell’analisi che mi propongo di svolgere sui processi di soggettivizzazione dei knowledge workers nell’ambito della dialettica Lavoro totale – Improduttività malata.
La vocazione personale e il desiderio di esprimere il proprio talento spingono i lavoratori a costruire processi di identizzazione complessi, che rimescolano tra loro passioni, diritti e aspettative fino a rendere frastagliati i confini delle tradizionali sfere di definizione sociale. È proprio in seno alla volontà di autorealizzazione che si apre lo spazio soggettivo, e ambivalente, del lavoro cognitivo: da un lato spazio di auto-realizzazione, dall’altro spazio di umiliazione del lavoro (Chicchi, 2014). Il lavoro cognitivo mette così all’opera soggettività per la produzione di soggettività (Masiero, 2014) attraverso pratiche discorsive e non discorsive che generano comportamenti psichici di nuovo tipo (Dardot-Lavall, 2009) e analizzabili mediante la serie di “attrezzi” che Basaglia e Ongaro hanno utilizzato per tentare di comprendere la psicologia del colonizzato e la carriera sociale del malato.
Fin dalle sue origini il lavoro di Basaglia e Ongaro è fortemente influenzato dal lavoro sulla carriera sociale del malato e l’etichettamento di malattia di Goffman (1961). Leggi tutto
L’esistenza di un
rilevante livello e di una
ulteriore e apparentemente inarrestabile crescita
dell’indebitamento mondiale è un fenomeno molto evidente; ora,
il suo collegamento, per
diverse vie, alle difficoltà e al rallentamento dello sviluppo
dell’economia, nei paesi sviluppati come in quelli emergenti,
pone dei
rilevanti problemi di analisi e suggerisce anche delle
possibili linee di azione. Nelle tre puntate di questo
articolo cercheremo di individuare la
situazione e le prospettive di soluzione di una questione
cruciale.
Alcuni dati di base
Già in uno scritto apparso in questo stesso sito qualche tempo fa (Comito, 2015) ricordavamo alcuni dati che danno un’idea del fenomeno; ad essi ne aggiungiamo ora degli altri, più analitici.
Nel testo citato ricordavamo, in particolare, un rapporto Mckinsey (Mckinsey, 2015) del febbraio di quest’anno, che forniva delle informazioni di base sulla situazione.
Il debito complessivo a livello mondiale aveva raggiunto alla fine del 2014 il livello di 200 trilioni di dollari, essendo aumentato di ben 57 trilioni soltanto nel periodo tra il 2007 e il 2014. La sua incidenza sul pil mondiale raggiungeva ormai alla stessa data il 286%, contro il 270% del 2007. Si ha la sensazione, peraltro ancora non ancora suffragata da dati aggiornati, che la tendenza all’aumento sia proseguita nel 2015. Leggi tutto
«Stato, grande spazio, Nomos» da Adelphi. Il disorientamento del grande giurista che aderì al nazismo in un mondo in cui la politica e il diritto si erano ormai congedati dall’ancoraggio alla «terra»
Basata su due raccolte pubblicate negli scorsi anni in Germania a cura di Günter Maschke, esce ora da Adelphi un’ampia antologia di testi di Carl Schmitt titolata Stato, grande spazio, nomos (a cura di Giovanni Gurisatti, Adelphi, pp. 527, euro 60,00) che intende documentare sua la produzione «internazionalistica», negli anni che precedono e seguono la pubblicazione del Nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum». La ripresa della prima edizione del celebre saggio dedicato a Il concetto del politico, datata 1927, ha più che altro il senso di rendere evidente la cesura che nella riflessione di Schmitt si determina quando, nella seconda metà degli anni trenta, il suo interesse comincia a rivolgersi in modo prioritario al diritto internazionale – sulla base di una riflessione sul rapporto tra spazio e diritto, «ordinamento» e «localizzazione», che troverà proprio nel Nomos della terra la sua articolazione più sistematica.
Degli scritti di Schmitt raccolti da Gurisatti – che portano in epilogo le premesse di Günter Maschke all’edizione originale – scritti tutti già editi in italiano, benché non facilmente reperibili, i più interessanti sono due ampi studi pubblicati negli anni della seconda guerra mondiale: Leggi tutto
La pausa natalizia, come era prevedibile, ha messo la sordina su tutta la politica interna ed in particolare sulla questione delle banche. Ora vedremo se la storia riparte, ma nel clima dei giorni precedenti alle feste, c’è stata poca attenzione ad una serie di avvenimenti più o meno piccoli che, messi in fila, meritano d’essere meditati.
A dicembre era emersa la proposta di una commissione Parlamentare di inchiesta sulla questione delle banche popolari ed il Presidente del Consiglio, dimostrando molta sicurezza, si era detto subito d’accordo. La stessa sicurezza aveva mostrato la Boschi affrontando il voto di sfiducia individuale. Poi nel Pd era venuta fuori qualche voce per suggerire non una commissione di inchiesta ma una più tranquilla ed innocua commissione di indagine e le acque si erano un po’ agitate (pensate: ha alzato la voce persino del merluzzo lesso di Bersani…); ed allora commissione di inchiesta sia. E qui cominciano le prime cose strane.
Nella bozza voluta da Renzi, vengono fuori due particolari mica da poco:
a- la Commissione avrebbe il diritto di chiedere alla magistratura inquirente gli atti della loro inchiesta, man mano che si producono
b- il periodo sottoposto ad inchiesta è esteso sin dal 2000, periodo in cui ci furono i primi scandali finanziari della stagione liberista (Parmalat, banca 121, Antonveneta eccetera)
Leggi tuttoMai avrei pensato di provare simpatia per la signora Merkel e men che meno per Schauble (vedi nota 1) , ma i loro tentativi di sottrarsi alla gabbia di Washington e allo scontro con la Russia o alla crocifissione di Assad, sono sempre regolarmente puniti prima con il cosiddetto scandalo Volkswagen (vedi nota 2) e oggi con la trappola di Colonia, con il suo carico di tabù ancestrali, un episodio dietro cui si vede se non una regia vera e propria un coagulo estemporaneo di interessi politici, di umori, di isterie e di disegni opportunistici. Cosa che si evince con chiarezza dalla inazione, per comando superiore, della polizia prima e durante i fatti nonostante la consapevolezza della presenza di bande di borseggiatori nordafricani provenienti da Dusseldorf, dalla successiva clamorosa sottovalutazione del numero di persone presenti davanti alla stazione della città, dalle dichiarazioni di carattere apertamente politico e anti Merkel del capo della polizia federale Rainer Wendt e dal tentativo di generalizzare “l’attacco” con denunce tardive di oltre una settimana rispetto a violenze nel quartiere a luci rosse di Amburgo, quello delle donne in vetrina. Cosa che adesso ha dato voce e giustificazione alle parti più reazionarie ed estremiste della società che scendono piazza non per difendere le donne, ma loro proprietà sulle donne.
Ma ciò che più spiace è vedere gli sproloqui di illustri e note donne tutte passate al fronte dello scontro di civiltà, che ha creato una artificiale contraddizione fra i temi dell’accoglienza e quelli della sicurezza, diciamo così sessuale, come se non fosse evidente che questa è messa in forse in primo luogo dai poteri costituiti. Leggi tutto
Al netto della pleonastica fraseologia laclausiana, quella che ricopio qui sotto è una riflessione in gran parte condivisibile, sebbene resa un po' meno credibile dal contesto paradossale nel quale viene formulata. Nella sostanza è grossomodo quanto io stesso cerco di dire quando contesto l'alternativa tra Sinistra Carina e Taxidermia Comunista.
Alcune precisazioni sono però utili.
Il "populismo" di Laclau è il tentativo, iniziato già alla fine degli anni Settanta, di aggiornare il nazionale-popolare gramsciano alla società postmoderna in costruzione. Accettando tuttavia pressoché integralmente il terreno filosofico-politico di quest'ultima e riconoscendolo come una inusitata opportunità di liberazione. Laddove invece è già la costituzione di questo terreno come unico spazio politico praticabile che andrebbe respinta, a partire dalla comprensione e dalla denuncia della natura politica e di classe della sua genesi.
Non a caso, dopo diversi decenni il bilancio della proposta di Laclau è catastrofico. Perché la sua posizione - proprio per via del suo indebolimento postmoderno e soprattutto anti-dialettico del concetto di egemonia, un indebolimento divenuto luogo comune a sinistra già all'epoca di Genova 2001 se non già con la Carovana di Occhetto e Flores d'Arcais -, ha finito per rafforzare quei processi di egemonizzazione a destra che pure aveva visto in anticipo e aveva tentato di prevenire.
Leggi tuttoQui e qui la prima e la seconda parte
Uno sguardo sull’attività di cooperazione dei paesi del golfo e il caso della Qatar Charity in Siria: dall’introduzione del concetto di guerra umanitaria e di “bombing for democracy”, gli interventi di assistenza umanitaria sono sempre più legati a doppio filo a contesti di guerra, al di là di eventi quali catastrofi naturali. Anche la cooperazione internazionale, governativa o meno (attraverso il tramite delle cosiddetto associazionismo da società civile), costituisce molto spesso l’apripista per gli interventi belligeranti, laddove accordi, diplomazia e buone maniere non raggiungono il loro scopo: o c’è da dire che forse la guerra costituisce spesso il cavallo di troia attraverso cui è possibile instaurare nuovi tipi di relazioni politiche ed economiche.
Negli ultimi anni tra i donatori che non appartengono al Development Assistance Committee (DAC) dell’Ocse più recentemente saliti alla ribalta si distinguono i paesi del golfo: tra questi i donatori maggiori sono riconducibili ai paesi dell’Arabia Saudita, del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti. In particolare, gli EAU nel 2014 si sono classificati per il secondo anno di fila come il più grande donatore di ODA (aiuto ufficiale allo sviluppo) al mondo in relazione al PIL: circa 1,17% del prodotto interno lordo secondo le stime DAC. Leggi tutto
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A distanza di sei mesi i mercati finanziari internazionali ripiombano nel panico a causa dei ripetuti crolli dei titoli sulle borse cinesi. Ma ad una più attenta analisi dei fattori reali in campo e del contesto generale, gli allarmismi largamente diffusi a livello mediatico appaiono non del tutto giustificati e “sospetti” di servire da strumento per giustificare altre dinamiche che caratterizzano questa fase fluida del capitalismo contemporaneo
La recente vicenda del
crollo delle borse di Shanghai e Shenzhen in Cina ha aperto il
nuovo anno tenendo banco sul
“grande circo mediatico globale”, parimenti alle tensioni tra
Arabia Saudita e Iran ed agli esperimenti nucleari in Nord
Corea.
La vicenda, tuttavia, merita di essere analizzata con maggiore attenzione critica per scorporare i fattori effimeri e/o mediatici da quelli reali. È evidente infatti, come già accaduto con le analoghe crisi verificatesi nel mese di luglio 2015, che, per comprendere il reale impatto di questi eventi, non si può prescindere dal collocarli nel quadro più generale dell’attuale congiuntura politica ed economica cinese ed internazionale.
Già l’estate scorsa, su queste colonne, sia Alessandro Bartoloni che Ascanio Bernardeschi avevano evidenziato le caratteristiche tutte particolari dei mercati borsistici cinesi e le cause effettive di quei crolli che, in realtà, erano da imputare ad una serie di fattori endogeni ed esogeni ma molto specifici.
I fatti
I media mainstream internazionali hanno insistito sull’impatto negativo dell’andamento del mercato borsistico cinese a livello globale, anche se non viene data alcuna evidenza di quale sia l’effettiva interdipendenza tra i mercati dei capitali e valutari cinesi e quelli internazionali. Leggi tutto
Introduzione
In questa intervista,
gentilmente concessa da Giorgio Agamben, si discutono alcuni
dei temi più cari a Pier Paolo
Pasolini, sia da un punto di vista teoretico che da un punto
di vista personale. Agamben conosceva Pasolini e ha
interpretato il ruolo di Filippo ne
Il Vangelo secondo Matteo. La conversazione si
concentra sull’anarchia del potere, la scomparsa delle
lucciole e la potenza
aristotelica, con l’intenzione di riportare in vita questi
concetti, di evocare scenari. Dai ricordi di Agamben al
presente, attraverso la
strumentalizzazione del cibo, la decadenza delle città, fino
al futuro, accennando ad un nuovo modo di abitare e ad una
politica che possa
esserne all’altezza.
***
Pasolini è stato un lucido analista di quel Potere che definiva «senza volto» e della sua congenita arbitrarietà. A proposito dell’origine anarchica che lo contraddistingue - anarchia che al fondo sarebbe anche il suo fine - e al tuo riferimento a Salò o le120 giornate di Sodoma in Nudità («La sola vera anarchia è quella del potere»), come s’inserisce l’ingovernabile, «ciò che è al di là del governo e perfino dell’anarchia»? Si può pensarlo come una forma di resistenza prima, di principio, invece che di reazione?
Il potere si costituisce catturando al suo interno l’anarchia, nella forma del caos e della guerra di tutti contro tutti. Per questo l’anarchia è qualcosa che diventa pensabile solo se si riesce prima ad esporre e destituire l’anarchia del potere. Klee, nelle sue lezioni, distingue il vero caos, principio genetico del mondo, dal caos come antitesi dell’ordine. Nello stesso senso penso che si debba distinguere la vera anarchia, principio genetico della politica, dall’anarchia come semplice antitesi dell’archè (nel suo duplice significato di ‘principio’ e ‘comando’). Ma in ogni caso essa è qualcosa che diventerà accessibile solo quando una potenza destituente avrà disattivato i dispositivi del potere e liberato l’anarchia che essi hanno catturato. Leggi tutto
Riprendere in mano un libro di teoria economica
scritto ottant’anni fa; studiarlo a fondo, cercando
chiavi interpretative per il capitalismo contemporaneo, e
strumenti operativi in grado di emendarne i suoi peggiori
difetti, che, allora come
oggi, rimangono la disoccupazione di massa e la
distribuzione iniqua e arbitraria di reddito e ricchezza.
Scoprire
l’attualità, la freschezza di un pensiero che il tempo non ha
fiaccato. E contemporaneamente disfarsi di centinaia di
articoli,
papers, libri freschi di stampa ma già superati sul
piano delle idee. Scopo delle righe che seguono sarà di
riportare
alla luce la lezione del più grande economista del Novecento,
John Maynard Keynes: che l’economia capitalistica è
intrinsecamente
instabile e che la teoria economica dominante nell’accademia,
nei centri studi e nelle cancellerie internazionali, quella
neoclassica[1], basata sull’equilibrio economico
generale e sulla neutralità della moneta[2], non è in grado di spiegare i fatti
economici più rilevanti del mondo in cui viviamo.
Il ruolo dell'incertezza
L’innovazione profonda e radicale che John Maynard Keynes porta in dote alla teoria economica è di carattere metodologico; riguarda l’accento che egli pone sull’incertezza che caratterizza il contesto decisionale degli agenti economici . E che lo porta per questo a rifiutare l’approccio deterministico allo studio del sistema economico impiegato dalla teoria mainstream neoclassica.
L’incertezza è legata all’incapacità, da parte degli agenti economici, di fare previsioni attendibili su eventi futuri, per mancanza di conoscenza[3].
Leggi tuttoOltre il caso rifugiati: lo scontro Renzi-Juncker è alla fine del 'periodo di grazia' concesso al governo italiano, che ora sarà investito dal #FiscalCompact
Le guerre che circondano l'Europa alimentano una parte importante del flusso migratorio, e ora quel flusso si abbatte sui contrasti interni dell'Unione europea, disunita e fiaccata da troppi anni di austerity.
La Turchia, soggetto attivo e passivo della guerra siriana, ha in mano il rubinetto che regola l'intensità del flusso migratorio verso l'Europa, mentre l'Europa ha il rubinetto delle risorse finanziarie da dare alla Turchia: solo che sul rubinetto dei soldi le mani in lotta per controllarlo sono più d'una. Si ricorderà che a novembre 2015 fu firmato un accordo da 3 miliardi di euro fra la UE e la Turchia, a sostegno di un pacchetto di interventi pluriennali per i rifugiati, da spendere soprattutto sul suolo turco. Il problema è che quei 3 miliardi bastano a malapena per un anno (mentre Ankara chiede 3,5 miliardi l'anno per due anni), e nessuno sa chi metterà - e in che modo - già da ora, i due terzi della cifra.
Si presume che paghino in gran misura gli Stati membri, ciascuno in base al suo peso economico. Per Stati già sottoposti a vincoli di spesa sempre più penetranti rimane il dilemma: tagliare ancora le spese o chiedere all'Europa più libertà di spesa?
L'Italia, ad esempio, aveva già chiesto qualche flessibilità alla Commissione europea, sforando in modo concordato i rigidi parametri del deficit. Questo è bastato al presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, per dire "abbiamo già dato". Leggi tutto
Rosa Luxemburg studiando la società capitalista mette in luce che, condizione indispensabile per la sua sopravvivenza ed espansione, è l’annullamento delle economie altre. Questo è anche il senso delle così dette guerre umanitarie che non sono solo guerre coloniali, ma anche distruzione delle economie precapitalistiche, e che sono accompagnate contemporaneamente anche della guerra a tutto campo, feroce, che viene fatta nei confronti delle economie marginali che di fatto sono di autosussistenza, nei paesi capitalisti.
Inoltre, sottolinea l’importanza che assume l’apparato militare industriale come volano dell’economia. In definitiva, il capitalismo che è autoespansivo consiste nella dissoluzione di tutto quello che è altro sia all’interno che all’esterno dei confini politici dei rispettivi Stati. Tutti quei casi che Luxemburg definì “il mercato esterno del capitalismo”.
Tutto questo ne dimostra l’attualità perché ne facciamo i conti tutti i giorni anche nel quotidiano.
Da qui l’operazione di snaturarne e stravolgerne il ruolo e il pensiero a partire da una presunta contrapposizione a Lenin da posizioni più caute e misurate. Quella che è la normale dialettica fra marxisti viene innalzata a differenti posizioni di campo dimenticando volutamente che Luxemburg criticò Lenin per la collettivizzazione delle terre auspicandone la nazionalizzazione ed altresì che al Congresso costitutivo del Partito Comunista di Germania che si tenne a Berlino dal 30 dicembre 1918 al 1 gennaio 1919, Rosa Luxemburg aveva appoggiato gli interventi di alcuni delegati favorevoli alla soppressione dei sindacati mentre Lenin nella relazione al comitato centrale del 18 marzo del 1919 ribadisce l’utilità degli stessi. Leggi tutto
Una giornata molto importante quella di Sabato 16 Gennaio. Migliaia di persone hanno sfilato nelledue grandi manifestazioni di Milano e Roma indette dalla Piattaforma Sociale Eurostop nel triste 25esimo anniversario della prima guerra del golfo.
L'ampia partecipazione in piazza, nonostante i bombardamenti ideologici e guerrafondai a cui siamo sottoposti quotidianamente, ha certificato il successo di questa giornata di lotta. Per la prima volta da anni una grande manifestazione su base nazionale ha portato al centro del dibattito il tema dell'opposizione alla guerra che gli apprendisti stregoni del capitale hanno portato dentro e fuori l'Europa. Da questo punto vista la giornata del 16 Gennaio deve essere non il punto di arrivo ma il punto di inizio per costruire un'opposizione di massa alla guerra.
Riteniamo molto importante che al centro dei discorsi della giornata vi fossero quelli sul ruolo dell'Unione Europea. Nella logica perversa della competizione globale, l'UE da un lato riversa le sue ambizioni coloniali nei paesi attorno a sé (l'area mediorientale ma anche l'Ucraina), dall'altra conduce da anni una guerra di classe dall'alto verso il basso nei confronti dei propri lavoratori e dei propri cittadini. Una politica criminale, aggravata dal fatto che, mentre si tagliano i fondi per il welfare, i soldi per le guerre e per la militarizzazione delle nostre città si trovano sempre. Nell'essere contro le guerra e le politiche che ad essa portano dobbiamo guardarci bene quindi dal cadere in un facile umanitarismo, che non tocca le cause ma solo le conseguenze di guerre e migrazioni, una visione che senza volerlo troppe volte è sfociata nella complicità con queste politiche disumane. Leggi tutto
Come avrete letto su L’Espresso e in rete lo scandalo derivati sta travolgendo il Tesoro: l’anno scorso gli investimenti in scommesse fasulle e perse sono costati 3,6 miliardi mentre quest’anno la perdita arriverà a 5 (senza contare i 3,1 miliardi al tempo di Monti e altre operazioni di cui si sa poco o nulla per un totale di 16 miliardi già saldati a cui si aggiungeranno nel tempo altri 42 miliardi come calcola Il Sole 24 Ore). Investimenti sbagliati si dirà, fatti nell’illusione che la finanza casinò avrebbe diminuito il debito ne avrebbe allungato i i termini, atti di fede in un mercato che non aveva ancora conosciuto la crisi e che anzi si pensava immune da qualsiasi ripiegamento.
In definitiva questa perdita che annulla i vantaggi derivanti dalla diminuzione dello spread può essere messa sul conto della tetragona ideologia liberista che nei primi anni del nuovo millennio era la fede ufficiale sia del berlusconisno puro che della sua variante mascherata da socialdemocrazia. Tuttavia queste perdite giunte alla cronaca solo grazie ad un’interrogazione dei 5 stelle nascondono un lato più inquietante e in qualche modo illuminante che va oltre le fedi ottuse, le illusioni e la credulità: da quanto si evince già al momento del ricorso a questi strumenti finanziari da parte dello Stato, attraverso sistema bancario, la possibilità che essi avrebbero portato un ristoro o un guadagno era scarsissima, meno del 10%, prevedendo un rialzo dei tassi del 6 o 7 per cento, del tutto improbabile almeno a quei tempi. Circostanza a cui si aggiungono inspiegabili anomalie di contratto (per i particolari vedi qui). Leggi tutto
Trascrizione della prolusione di Luciano Canfora “Libertà e schiavitù”, tenutasi alla quarta edizione del convegno internazionale “Euro, mercati, democrazia: ripensare l’unione dell’Europa” il 14 novembre 2015 a Montesilvano (Pescara)
Grazie per questa
occasione importante nella quale sono lieto di ritrovarmi,
in un giorno non lieto, ma dolorosamente
significativo.
Temo che l’argomento suggerito sia un po’ troppo accademico rispetto al carattere molto battagliero – giustamente battagliero – del convegno. Però forse una riflessione un po’ fredda sulla tematica anche lessicale, oltre che storica, di questo binomio libertà-schiavitù qualche rapporto con la vicenda della costruzione europea potrebbe averlo: e vediamo in quale delle due direzioni.
Partirei da una riflessione lessicale, vale a dire l’uso improprio di questo termine latino – libertà, libertas – che è stato assai largamente praticato.
Faccio alcuni esempi, molto noti: gli estremisti bianchi del Sudafrica avevano dato vita alla metà degli anni ’90 a un movimento politico che si chiamava Fronte della libertà.
E potremmo soggiungere che il movimento politico che contribuì fortemente ad abbattere il presidente Allende si chiamava Patria e libertà, un binomio tornato anche in altre formazioni politiche; quando la giunta dei generali traditori emise il primo comunicato alla radio – Allende si era appena suicidato – dichiarò che le forze armate e i carabineros erano uniti nella missione storica di lottare per la libertà. Leggi tutto
In vista della presentazione a Bologna (qui l’evento Facebook) di La fabbrica rovesciata. Comunità e classi nei circuiti dell’elettrodomestico di Graziano Merotto (Roma, DeriveApprodi, 2015), pubblichiamo il poscritto al volume di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto
Ci sono poscritti che
si scrivono per dovere e altri che si scrivono per
convenienza. Questo lo scriviamo per interesse:
certamente non per lucrare qualche prebenda a beneficio
dell’autore; e neppure per chiedere venia delle eventuali
manchevolezze
dell’opera, consapevoli come siamo delle coscienziose
ricerche di Graziano Merotto in un reame industriale chiuso,
che soltanto nel corso di un
tempo da lui ben speso gli è stato possibile rischiarare. Il
nostro è un interesse inteso a incoraggiare il dibattito
sui
rapporti industriali del presente e del futuro, al di
fuori dei pregiudizi interessati alle armonie
prestabilite.
Si tratta di un dibattito che si situa all’intersezione di alcune branche delle scienze sociali. Altre discipline appaiono parche di contributi per la ricostruzione di controversi processi sociali contemporanei. Sull’argomento studiato da Graziano Merotto le eccezioni sono rare. Lettrici e lettori potrebbero dubitare degli ostacoli che l’autore ha dovuto superare per portare a termine questo volume. In effetti, gli ostacoli non traspaiono nel testo, che anzi mostra un sereno distacco sine ira ac studio rispetto alle singole figure che impersonano il capitalista e il proprietario fondiario, rappresentanti di rapporti sociali di cui in realtà sono le creature.
Il libro è il frutto di una ricerca priva di sostegni pubblici e privati, svolta nei meandri di ambienti industriali di cui poco si conosceva, e portata a termine con notevole motivazione. In realtà, l’autore ha sviluppato una conricerca esemplare con i protagonisti delle molteplici iniziative operaie che hanno trasformato in soggetto politico la forza-lavoro del comparto dell’elettrodomestico nell’area studiata. Leggi tutto
Aggressiva,
dissuasiva e preventiva; onnicomprensiva, globale e
multilaterale; cyber-nucleare, superarmata e
iperdronizzata; antirussa, anticinese, antimigrante e anche
un po’ islamofoba. Strateghi di morte e mister Stranamore
vogliono così la
NATO del XXI secolo: alleanza politico-economica-militare di
chiara matrice neoliberista che sia allo stesso tempo
flessibile e inossidabile, pronta
ad intervenire rapidamente e simultaneamente ad Est come a
Sud, ovunque e comunque.
La prova generale della NATO che verrà… si è svolta dal 3 ottobre al 6 novembre 2015 tra lʼItalia, la Spagna, il Portogallo e il Mediterraneo centrale. Denominata Trident Juncture 2015, è stata la più grande esercitazione NATO dalla fine della Guerra fredda ad oggi, con la partecipazione di oltre 36.000 militari, 400 tra cacciabombardieri, aerei-spia con e senza pilota, elicotteri, grandi velivoli cargo e per il rifornimento in volo e una settantina di unità navali di superficie e sottomarini. Presenti le forze armate di 30 paesi, sette dei quali extra-NATO o in procinto di fare ingresso formalmente nell’Alleanza (Australia, Austria, Bosnia Herzegovina, Finlandia, Macedonia, Svezia e Ucraina). In qualità di “osservatori”, inoltre, gli addetti militari di Afghanistan, Algeria, Azerbaijan, Bielorussia, Brasile, Colombia, Corea del Sud, El Salvador, Emirati Arabi Uniti, Giappone, Kyrgyzistan, Libia, Marocco, Mauritania, Messico, Montenegro, Russia, Serbia, Svizzera e Tunisia. Leggi tutto
Non essere choosy, diventa smart. Potrebbe essere questo lo slogan di Matteo Renzi per lanciare quello che viene chiamato smart working, e cioè, senza troppi vezzi linguistici che ne nascondano il significato, il lavoro agile, flessibile, senza troppi limiti di tempo e di spazio. Insomma, più precario. È questo il prossimo obiettivo del governo sul fronte lavoro, che ha già fatto passi avanti con un disegno di legge collegato alla Legge di Stabilità 2016
La proposta di legge, che sarà presto discussa in Parlamento, descrive all’articolo 1 lo smart working come “prestazione lavorativa al di fuori dei locali aziendali, per un orario medio annuale inferiore al 50 per cento dell’orario di lavoro normale”, ovviamente “se non diversamente pattuito”. E come viene pattuita la regolamentazione di questa modalità di lavoro? Come si legge all’articolo 2, attraverso “un contratto scritto tra lavoratore e datore di lavoro, nel quale sono definiti le modalità di esecuzione della prestazione resa fuori dai locali aziendali, gli strumenti telematici utilizzati dal lavoratore e le modalità di organizzazione dei tempi della prestazione lavorativa”.
Qui c’è un primo nodo importante: le modalità di lavoro sono disciplinate con una contrattazione che mette di fronte il singolo lavoratore al datore di lavoro. Quest’ultimo, in una ovvia posizione di maggiore potere contrattuale, di fatto avrà in mano gli strumenti per decidere modalità di esecuzione e dei tempi di lavoro, oltre che (come si legge al comma 2 dell’articolo 2) “le modalità di recesso, con preavviso o anticipato, e l’eventuale proroga o rinnovo”. Leggi tutto
Harlan Elrich insegna matematica in una media superiore californiana. È assurto agli onori della cronaca nazionale perché, assieme ad altri nove colleghi e con l’appoggio del Center for Individual Rights (un’associazione di destra finanziata da alcune fondazioni conservatrici), ha denunciato il sindacato degli insegnanti perché lo obbliga a versare una quota di iscrizione anche se non ne condivide la linea politica. Il caso è finito davanti alla Corte Suprema che si presume prenderà una decisione entro la prossima estate. Decisione che, secondo gli esperti in materia, sarà quasi certamente a favore di Elrich e contro il sindacato, e sarà quindi destinata ad avere pesanti conseguenze sul potere contrattuale di tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche negli Stati Uniti.
Sul piano formale le posizioni che si fronteggiano sono, da un lato, la tesi di Elrich e soci, secondo cui l’obbligo di versare la quota di iscrizione viola il Primo Emendamento perché, nella misura in cui il sindacato non si limita a contrattare il salario ma prende posizione su temi politici generali (per esempio appoggiando questo o quel candidato durante le campagne elettorali), limita la libertà di espressione e di pensiero di quella parte degli iscritti che non ne condivide le scelte; dall’altro lato, il sindacato obietta: 1) che a chi condivide il punto di vista di Elrich viene rimborsata quella parte della quota di iscrizione che serve a finanziare l’attività di lobbying politica; 2) che se il versamento della quota diventasse volontario, si offrirebbe a una parte dei lavoratori l’opportunità di usufruire delle conquiste sindacali (aumenti salariali e altro) a sbafo, sfruttando cioè chi versa la quota che permette al sindacato di svolgere la sua funzione. Leggi tutto
A poco più di due settimane dall’inizio delle elezioni primarie per la Casa Bianca negli Stati Uniti, anche la corsa all’interno del Partito Democratico sembra essere diventata nuovamente aperta nonostante lo status di favorita della ex first lady, Hillary Clinton. Il suo praticamente unico rivale per la nomination, il senatore “liberal” del Vermont, Bernie Sanders, secondo i più recenti sondaggi avrebbe ridotto sensibilmente il distacco in termini di voti complessivi, mentre sarebbe addirittura in vantaggio nei primi due stati chiamati a votare a partire dai primi giorni di febbraio.
I giornali americani hanno alzato il livello di attenzione sulla corsa in casa Democratica dopo la pubblicazione martedì di un’indagine commissionata da New York Times e CBS News. In essa si evince che, in un solo mese, su scala nazionale Sanders avrebbe portato da 20 a 7 punti percentuali il suo ritardo dall’ex segretario di Stato. Quest’ultima raccoglierebbe cioè il 48% dei consensi tra i potenziali elettori Democratici delle primarie, contro il 41% di Sanders.
Nei primi “caucuses” che tradizionalmente aprono la stagione elettorale delle presidenziali, quelli dell’Iowa, il senatore è accreditato attualmente del 49% delle preferenze e Hillary del 44%. Un altro istituto di ricerca considera inoltre Sanders nettamente avanti in New Hampshire, dove il distacco dalla Clinton sarebbe di 14 punti (53% a 39%). Leggi tutto
Le elezioni amministrative della primavera del 2016 interesseranno ben 1.316 comuni tra grandi e piccoli coinvolgendo capoluoghi di regione come Torino, Milano, Roma, Napoli, Bologna, Cagliari, Trieste ed altre importanti città del Paese come Novara, Varese, Pordenone, Latina, Salerno, Ravenna, Rimini, Savona, Cosenza e Crotone, per ricordare solo le più popolose.
Un test elettorale di grande rilievo per il numero dei cittadini coinvolti e per l’interesse nazionale che il risultato avrà sullo sviluppo della situazione politica generale e sugli stessi equilibri di governo.
Non ci interessa analizzare in questa sede le dinamiche
locali ed i problemi territoriali ma capire le ragioni di un
dibattito, a volte acceso,
sulla ricerca del candidato sindaco vincente, discussione
che attraversa tutti gli schieramenti e tutte le forze in
campo.
Gli esiti della
vicenda amministrativa influiranno sulla possibilità di dar
vita a nuovi progetti politici e nuove aggregazioni sociali.
Questo sarà il
vero ‘sondaggio’ in vista delle elezioni politiche generali.
Il dibattito infuria soprattutto per il tipo di alleanze da stipulare in primo luogo per le grandi città capoluogo. Ricostruire ove possibile l’alleanza di centro sinistra? Partecipare alle primarie del PD ? ripetere l’esperienza milanese con Pisapia? Con Zedda a Cagliari? Con Doria a Genova (anche se non si vota in questa città)? Leggi tutto
Il ministro Padoan risponde a un'interrogazione dei 5 Stelle. E si scopre che le perdite dello Stato sui prodotti ad alto rischio crescono sempre più. Vanificando gli effetti positivi sui conti del "quantitative easing" della Bce
Come se
non ci fosse Mario Draghi. Come se la
Banca centrale europea (Bce) non avesse mai lanciato
il “quantitative easing”, la massiccia manovra di sostegno
all’economia dei Paesi dell’Eurozona. Come se i tassi
d’interesse sul debito pubblico non fossero da tempo
crollati in prossimità dello zero. È questo l’effetto
paradossale che
il Tesoro è costretto ad affrontare negli ultimi mesi a
causa dei cosiddetti derivati sottoscritti negli anni
passati con le banche
internazionali, i cui contratti sono tenuti sotto stretto
riserbo. In poche parole: mentre il debito pubblico costa
allo Stato sempre meno in termini
d’interessi, grazie agli interventi effettuati dalla Bce di
Draghi, i derivati si stanno mangiando per intero o quasi i
risparmi che ne
dovrebbero venire, costringendo il Tesoro a un esborso
crescente.
L’amara verità emerge dalla risposta che il ministero dell’Economia ha fornito il 22 dicembre a un’interrogazione presentata dal Movimento 5 Stelle. Nel documento gli uffici di Pier Carlo Padoan hanno messo per la prima volta nero su bianco alcune cifre destinate a far discutere. Hanno reso noto che nel 2015 i derivati sono costati al Tesoro un flusso negativo in termini di interessi di 3,6 miliardi. E hanno aggiunto che nel 2016 la spesa è prevista salire a 4,1 miliardi.
Quello appena iniziato, dunque, rischia di essere un anno durissimo su questo fronte della spesa pubblica. In una precedente interrogazione, Padoan aveva infatti rivelato che, su uno dei vari derivati, esistono clausole che entro il prossimo marzo daranno alla banca che l’ha sottoscritto la possibilità di chiuderlo, facendosi liquidare dal Tesoro una cifra stimabile oggi in 849 milioni.
Leggi tutto“Quando racconto la verità, non è tanto per convincere coloro che non la conoscono, quanto per difendere quelli che la sanno”. (William Blake)
“E finchè facevano guerre, il loro potere veniva preservato, ma quando ottennero l’impero, caddero. Perché dell’arte della pace non sapevano niente e non si erano mai dedicati a nulla che fosse meglio della guerra”. (Aristotele. Gli Usa, dalla nascita, hanno fatto in media una guerra all’anno).
Una
partita con tre campi da gioco
In tutte le guerre, rivoluzioni, aggressioni che ho vissuto e ho provato a raccontare, si configuravano sempre tre schieramenti. Il primo stava sul campo “Realtà” ed era costituito dal popolo sotto attacco e dai suoi amici in giro per il mondo; il secondo stava sul lato opposto, in un campo chiamato “Menzogna” ed erano le armate e le parole di soldati, politici, banchieri, industriali colonizzatori. In mezzo, con una gamba di qua e una di là, in un campetto di nome “Né-Né”, ciondolavano gli Astenuti. Ho sempre pensato che, per primi, dovevano essere tolti di mezzo questi qua. Confondevano sia la vista, sia i suoni dello scontro, che quelli della “Realtà” si sforzavano di percepire. Spargevano, anche all’occhio di chi guardava dalla finestra, una nebbiolina che offuscava i contorni. Per me combattere quelli del campo “Menzogna” significa far piazza puilita degli “Astenuti”. Dopo, si sarebbero potuti affrontare i nemici, meglio identificati grazie alla scomparsa dei mistificatori. Con gli Astenuti, va detto, gli irreali non se la sono mai presa.
Sono parecchi i luoghi dove ho visto questi soggetti manifestarsi, sempre nella formazione appena descritta: Palestina 1967, Irlanda 1969-1990, Jugoslavia 1999-2001, Iraq 1977-2003, Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador 2002-2006, Cuba 1995-2005, Libano 1997-2006, Libia 2011, Siria dal 2012. Leggi tutto
Il potere
della moneta e quello della finanza sono all’origine del
capitalismo e in un certo senso ne esprimono
l’essenza. Prima della rivoluzione industriale, i meccanismi
d’accumulazione fondati sul potere della moneta e della
finanza sono stati
gli strumenti chiave alla base della cosiddetta
accumulazione primitiva e del capitalismo mercantilista che
si sviluppa tra il XVI e il XVIII secolo.
Poi, con lo sviluppo del capitalismo industriale e della
sussunzione reale, in particolare all’epoca fordista, il
potere del capitale è
parso cambiare di forma. Esso è sembrato poggiare
principalmente sullo sviluppo delle forze produttive e sul
controllo monopolistico della
conoscenza detenuta dalla tecnocrazia manageriale delle
grandi imprese.
In seguito alla crisi sociale del modello fordista e allo sviluppo di un’intellettualità diffusa, i rapporti di sapere e potere tra capitale e lavoro a livello dell’organizzazione sociale della produzione si sono rovesciati. Nel capitalismo cognitivo, la violenza della moneta e della finanza si presentano così nuovamente come la forma suprema del potere del capitale.
È su di esse (e non su un’egemonia fondata sul controllo della conoscenza e della tecnologia) che poggia la capacità del capitale di sottomettere la società del general intellect e di operare la cattura del valore creato dal lavoro a partire da una posizione di esteriorità rispetto all’organizzazione sociale della produzione. Al tempo stesso, perlomeno nei paesi a capitalismo avanzato, la logica della valorizzazione del capitale si fonda sempre meno sulla crescita delle forze produttive, ma piuttosto sulla creazione di una scarsità artificiale di risorse. Leggi tutto
«Il 2016 si annuncia molto complicato a livello internazionale, con tensioni diffuse anche vicino a casa nostra. L’Italia c’è e farà la sua parte, con la professionalità delle proprie donne e dei propri uomini e insieme all’impegno degli alleati»: così Matteo Renzi ha comunicato agli iscritti del Pd la prossima guerra a cui parteciperà l’Italia, quella in Libia, cinque anni dopo la prima.
Il piano è in atto: forze speciali Sas – riporta «The Daily Mirror» – sono già in Libia per preparare l’arrivo di circa 1000 soldati britannici. L’operazione – «concordata da Stati uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia» – coinvolgerà circa 6000 soldati e marine statunitensi ed europei con l’obiettivo di «bloccare circa 5000 estremisti islamici, che si sono impadroniti di una dozzina dei maggiori campi petroliferi e, dal caposaldo Isis di Sirte, si preparano ad avanzare fino alla raffineria di Marsa al Brega, la maggiore del Nordafrica».
La gestione del campo di battaglia, su cui le forze Sas stanno istruendo non meglio identificati «comandanti militari libici», prevede l’impiego di «truppe, carrarmati, aerei e navi da guerra». Per bombardare in Libia la Gran Bretagna sta inviando altri aerei a Cipro, dove sono già schierati 10 Tornado e 6 Typhoon per gli attacchi in Siria e Iraq, mentre un cacciatorpediniere si sta dirigendo verso la Libia. Sono già in Libia – conferma «Difesa Online» – anche alcuni team di Navy Seal Usa. Leggi tutto
Continuano le trattative tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea per il TTIP. La prima considerazione che balza agli occhi è che continuano ad essere segrete. Un trattato che avrà ripercussioni importanti nella vita di milioni di persone viene condotto segretamente. Alla faccia di quelli/e che si riempiono la bocca di parole come democrazia, rappresentatività, partecipazione.
Non è necessario ricordare qui cos’è il TTIP: un attacco a tutto campo alla sovranità dei singoli paesi che minerà le possibilità di sopravvivenza di interi settori economici e industriali nonché un attacco a tutto campo alle conquiste alimentari, sociali, culturali ottenute nei singoli Stati europei. Il TTIP è una vera e propria Nato economica.
La Nato, di fatto, detta la linea politica estera agli Stati aderenti all’Unione Europea. Il TTIP lo farà anche nel campo economico.
Non è sufficiente dire che le lobby delle multinazionali anglo americane fanno pressione, è necessario dire che le stesse dettano l’agenda. Questo non è una novità negli USA dove le multinazionali dirigono la politica in maniera compiuta dai tempi dell’assassinio di J.F.Kennedy. Già Eisenhower, che pure veniva dall’esercito, nel discorso di commiato alla fine del suo mandato presidenziale, denunciò l’invadenza e qualche cosa di più dell’apparato militare industriale. L’espansione e la sempre maggior forza politico-economica che questo settore avrebbe raggiunto nei paesi capitalisti è stata analizzata e raccontata con estrema chiarezza da Rosa Luxemburg. Leggi tutto
Che le istituzioni collaterali all’Unione europea fossero ontologicamente *dentro* i confini politici ed economici europeisti, inserite in una visione del mondo precisa e distante da ogni possibile “neutralità”, la vicenda della Corte europea dei diritti dell’uomo dovrebbe ulteriormente confermarlo. Brevemente, tale Corte, che dovrebbe occuparsi, come dire, della “difesa dei diritti dell’uomo” (ca va sans dire), ha sancito la legittimità delle aziende di licenziare i propri lavoratori qualora questi fossero scoperti ad utilizzare mail aziendali per fini privati. In pratica, il solo fatto di mandare mail private tramite il proprio indirizzo di posta durante(?) l’orario di lavoro costituirebbe motivo di licenziamento (non di multa o sanzione, di licenziamento, punto e basta). E la Corte in questione ha pure sancito che la cosa va bene, si può fare, non lede alcun diritto, e che anzi va integrata alla normativa sulla privacy contenuta nel Jobs act renziano (questo lo raccomanda la Ue, e come sappiamo una raccomandazione Ue è un offerta che non si può rifiutare). Motivo in più per augurarsi l’abolizione immediata di tutte queste propaggini liberiste formalmente poste a difesa dei diritti civili ma in realtà manifestamente contro ogni forma di diritto sociale dell’uomo. Detto questo, la vicenda è interessante per un altro motivo. Da decenni, e in quest’ultimo decennio in particolare, il confine tra orario di lavoro e orario di riposo è venuto meno, scardinato da nuove forme lavorative e contrattuali che hanno di fatto abolito la separazione dei diversi momenti (la mitologica produttività). Leggi tutto
Il commento più esilarante sui fattacci accaduti nella notte di San Silvestro a Colonia e, pare, in altre città tedesche, è quello del nuovo direttore de LA STAMPA, Maurizio Molinari.
«Da dove viene il branco di Colonia? L’assalto di gruppo alle donne di Colonia è un atto tribale che si origina dall’implosione degli Stati arabi in Nordafrica e Medio Oriente. (...) Fra chi arriva vi sono portatori di usi e costumi che si originano dalle lotte ataviche per pozzi d’acqua, donne e bestiame. Le conseguenze sono nelle cronache di questi giorni: dagli abusi di massa a Colonia al grido di «Allah hu-Akbar» per intimorire il prossimo a Brescia e Vignola».
Detto che sui fattacci di Colonia pende un'inchiesta giudiziaria e che le stesse versioni ufficiali si contraddicono palesemente, sostenere che le ataviche tradizioni e pulsioni tribali dei maghrebini sarebbero all'origine "dell'assalto"' e "degli abusi di massa", è una tesi che consegniamo al museo delle cazzate. Come se di "branchi", di abusi e violenze sulle donne (altro che "palpeggiamenti"!) non siano piene le cronache del "civile Occidente".
Vedremo, quando la cortina fumogena sollevata da media psicotici si sarà diradata, se c'è davvero stato un "assalto", apparentemente premeditato, e se ci sono stati "abusi di massa". Il fatto è che dentro la cazzata è interpolato surrettiziamente un velenoso siluro che merita di essere segnalato. Leggi tutto
Le grandi
strategie sono sempre composte da una sequenza di piccole
iniziative e il quadro finale diventa visibile solo
quando tutti i singoli pezzi del puzzle sono stati inseriti al
posto giusto. La divisione in singole iniziative permette di
focalizzare le discussioni
su aspetti minori, senza sottoporre la grande strategia al
vaglio dell’opinione pubblica o del dibattito parlamentare. Le
grandi strategie
sovranazionali, poi, hanno anche il vantaggio di limitare il
dibattito oltre che alle singole misure anche a specifiche
questioni locali, interne ai
singoli paesi. Il disegno strategico di fondo non può essere
contestato perché non è reso esplicito, non è sottoposto a
dibattito e supera i confini delle competenze nazionali. Esso
rimane quindi perfettamente al riparo dal processo
democratico.
Uno di questi grandi disegni strategici che si sta realizzando in questi anni è la trasformazione dello stato sociale e del mercato del lavoro in Europa. Il cambio di paradigma fu dichiarato vent’anni fa dall’OCSE: passare dall’attivismo dello stato in economia per promuovere la piena “occupazione” alle politiche liberiste e mercantiliste per promuovere la piena “occupabilità”. Destra e sinistra in tutti i paesi si sono egualmente spese senza grandi distinzioni, in Italia come in Europa, per applicare il nuovo paradigma. Come tutte le grandi strategie, anche questa è composta da una sequenza di misure specifiche e ha un preciso modello di riferimento.
Il primo punto è il contenimento dei salari. È fondamentale che livello dei salari sia basso per mantenere competitivo il sistema produttivo. Leggi tutto
1.
È oramai largamente condivisa l'idea secondo cui se dal 2008
ad oggi – negli USA prima e
più di recente nella UE – le cose non sono andate troppo
male è grazie alle politiche monetarie super-espansive – che
ancora
qualche anno fa venivano chiamate "non convenzionali".
Politiche che hanno permesso di respirare a economie
anemiche.
In effetti, l' obiettivo fondamentale di tale intervento è stato quello di ricostituire un livello minimo di fiducia al di sotto del quale le imprese non investono, i consumatori non spendono, le banche non prestano. Da questo punto di vista, quanto hanno fatto le autorità monetarie in questi ultimi anni è stato fondamentale, anche se non esente da rischi. Il problema è che, come i critici hanno sostenuto, la sovraesposizione finanziaria dell'economia globale dal 2008 ad oggi non solo non si è ridotta, ma è addirittura aumentata. Il che significa che quello che Keynes chiamava il "feticcio della liquidità" – e cioè la patologia dei mercati finanziari interessati solo ai rendimenti di breve periodo – è tutt'altro che debellato: in un sistema globale in cui fluttuano enormi quantità finanziarie, ritrovare un sentiero di crescita è molto difficile dato che vi sono contemporaneamente problemi di distribuzione del reddito, di disallocazione delle risorse e di instabilità cronica.
Quel che è chiaro è che la fiducia costruita solo sull'azione della Banche centrali non basta. Le politiche espansive adottate dalla FED (e più di recente della BCE) vanno intese solo come un modo per guadagnare tempo. Il tempo necessario alla politica e alla società per far ripartire l'economia reale e delineare un nuovo modello di crescita. Leggi tutto
Feticismo della merce
e narcisismo: è intorno a questi due concetti, ed alle loro
conseguenze, che si articola questo testo. Il suo
retroterra teorico è dato dalla critica del valore, del
lavoro astratto, del denaro e del feticismo della merce,
così come è
stata sviluppata soprattutto da Robert Kurz e dalle riviste
Krisis ed Exit!, in Germania, e da Moishe Postone, negli
Stati Uniti, dopo la fine degli
anni 1980.
Feticismo della merce, è un concetto introdotto da Karl Marx nel primo capitolo del Capitale. Lo si è spesso voluto intendere come una forma di falsa coscienza, o di una semplice mistificazione. Tuttavia, un'analisi più approfondita [*1] dimostra che si tratta di una forma di esistenza sociale totale che si situa a monte di ogni separazione fra riproduzione materiale e fattori mentali: essa determina le forme stesse del pensiero e dell'agire. Il feticismo della merce condivide questi tratti con altre forme di feticismo, come la coscienza religiosa. Potrebbe così essere caratterizzato come una forma a priori.
Il concetto di forma a priori evoca evidentemente la filosofia di Immanuel Kant. Tuttavia, lo schema formale che precede ogni esperienza concreta e che a sua volta la modella, che è qui in questione, non è affatto ontologico, come lo è in Kant, ma storico e soggetto ad evoluzione. Leggi tutto
Non contento di aver dettato il testo delle leggi che egli stesso dovrà osservare da qui all’eternità, il sciur padrun ottiene ora anche un ruolo da protagonista nella prima serata del palinsento della televisione pubblica. Nemico dei provincialismi linguistici che mantiene soltanto nel ristretto perimetro della sua “fabbrichetta”, il novello “giovin signore” preferisce farsi dare in pubblico del “boss”: lui è un “Boss in incognito”.
È questo, infatti, il titolo di una trasmissione che domina il prime time di Raidue prodotta dalla società esterna Endemol, trasmissione che rappresenta la concreta esemplificazione di quella che è stata definita da Colin Crouch l’essenza della “postdemocrazia”: la perdita del concetto di ente pubblico, il crollo dell’autostima e del significato di servizio pubblico a fronte della “conclamata superiorità” delle conoscenze e delle competenze dei privati[1]. Privati che dichiarano essere questo “format” – acquistato ovviamente a spese dei cittadini – il “docu-reality più rivoluzionario della tv”, dove i protagonisti sono i “boss che si camuffano e lavorano per una settimana sotto mentite spoglie insieme ai loro dipendenti”[2].
In cosa consiste lo sbandierato contenuto rivoluzionario?
È presto detto. Viene scelto ogni settimana il dirigente di una grande società e, dopo la consueta marchetta esercitata in favore delle mirabilie aziendali, il padre-padrone si cala nel mondo dei suoi figli, assumendo le fattezze dei dipendenti che osserva con sguardo attento nell’incedere del loro lavoro quotidiano: ecco all’opera la religiosa mistica dell’incarnazione datoriale, che agisce in modo occulto. Leggi tutto
Das Kapital. Senza patria né Dio, tampoco legge. Solo Il Profitto. È Das Capital. Cambiato il cambiabile; mutati i tempi, i luoghi, i trasporti, la tecnica, la tecnologia, le macchine, le imprese, le mode, le città, le campagne, le armi, i telefonini, le monete, i governi, i regimi, l’Urss, ecc ecc., lui non é cambiato, Das Kapital. Il Capitale.
Certo, non siamo nel 1845, ai tempi dell’inchiesta di un certo Engels sulla condizione della classe operaia inglese durante la rivoluzione industriale; ma provate a far cadere anche di un millesimo il suo sacro “saggio di profitto” e vedrete cosa sarà capace di fare, Das Kapital: fuoco e fiamme, guerra, golpe, carestia, devastazione, genocidio, terrorismo…Ieri come oggi.
Anche oggi? Anche oggi, al nostro tempo così evoluto, occidentale, democratico e amerikano, al tempo della celebrata globalizzazione?
Ebbene sì. Il Capitale è Il Capitale, e lui “non può” riformarsi. Perciò, se mi permettete, vi consiglio di mettere via Stephen King e di andare a comprare e soprattutto leggere il nuovo libro di Domenico Moro – "Globalizzazione e decadenza industriale", Imprimatur, pag. 249, € 16 -. Non certo un giallo, come dice il titolo stesso, anzi un testo che, strettamente e scientificamente, tratta solo di poltica ed economia; ma che nondimeno è carico di suspence e di horrror, appunto come un vero thriller. Capital the Cannibal. Leggi tutto
Poche recensioni sono così interessanti come la recente analisi di Paul Krugman sul nuovo libro di Robert Reich, Saving Capitalism: For the Many, Not the Few, nella New York Review of Books (17 dicembre 2015). Tanto per cominciare, è stato gratificante trovare il crudo candore dietro al titolo del libro di Reich "Salvare il capitalismo", il che implica che il capitalismo è alle corde - in pericolo di estinzione - un'implicazione alla quale credo e do il benvenuto.
Robert Reich, Paul Krugman e un altro collega, Joseph Stiglitz, si dividono alti onori nel mondo accademico economico e costituiscono il triumvirato di intellettuali che guidano la sinistra non-marxista negli Stati Uniti. Sebbene non vadano d'accordo su tutto, condividono un nucleo centrale di convinzioni relative alla vitalità del capitalismo e alla necessità di riformarlo. E' insolito vedere però Krugman e Reich esortare a una così sfacciata urgenza.
Questa urgenza impellente si è acuita con il drammatico aumento della diseguaglianza economica nei maggiori paesi capitalisti, in particolare negli USA. Krugman evidenzia che quella della diseguaglianza è questione che lui e Reich "hanno già preso molto sul serio" venticinque anni fa. Può essere, ma penso sia più onesto dire che nessuno dei due avesse preso sul serio la crescita della diseguaglianza come una caratteristica strutturale del capitalismo fino all'importante lavoro di Thomas Piketty di due anni fa. Leggi tutto
Devo ammetterlo, anch’io ho paura d’una particolare categoria di extracomunitari. Gli americani.
I. Con la
disfatta storica del movimento operaio, la parola
"imperialismo"
è scomparsa dal vocabolario della sinistra ed è stata
rimpiazzata da "globalizzazione". Tuttavia, se la parola è
scomparsa, la
realtà persiste.
Vediamo prima di tutto cosa non è l'imperialismo. Prendiamo ad esempio la nozione di Impero di Toni Negri. Ho scritto una lunga critica di Impero in un mio libro recente (Behind the Crisis). Qui posso solo menzionare telegraficamente alcuni dei punti chiave di Impero senza aver la pretesa di dare una valutazione anche minimamente completa .
Nell'Impero di Negri, mentre l'imperialismo era un'estensione della sovranità degli stati europei oltre i loro confini nazionali, ora l'Impero è un network globale di potere e contro potere senza un centro (p. 39). Quindi gli Stati Uniti non formano, e nessuno stato può formare, il centro di un progetto imperialista (p.173). Gli Stati Uniti intervengono militarmente nel nome della pace e dell'ordine (p.181).
Ma è ovvio
(1) che il ruolo degli stati non stia scomparendo, anche se come vedremo, alcuni sono inglobati in blocchi imperialisti
(2) che la nozione di potere e contropotere ignora che il potere delle nazioni dominanti non è lo stesso potere delle nazioni dominate
(3) che l'imperialismo, lungi dallo scomparire si sta trasformando pur rimanendo essenzialmente lo stesso
(4) che poi gli USA intervengano militarmente per mantenere la pace, è un'affermazione che glorifica e giustifica quell'imperialismo di cui Negri nega l'esistenza.
Consideriamo allora una persona più seria, Lenin.
Leggi tuttoDopo le manifestazioni riuscite di sabato contro la guerra permanente, urge ora incalzare di continuo il governo, sollecitato da più parti a mandare l'Italia in una nuova e catastrofica avventura militare in Libia
Venticinque
anni di guerra evidentemente non bastano a certi paesi
della Nato, preoccupati per il caos che regna in Libia.
Venticinque anni di guerra sono invece fin troppi per le migliaia di italiani scesi nelle piazze di molte città italiane sabato scorso per esigere la fine di un susseguirsi ininterrotto di guerre nel mondo, iniziate il 16 gennaio del 1991 con l'operazione “ Tempesta nel deserto”. Quel giorno attaccarono l'esercito iracheno di Saddam Hussein le forze armate degli Stati Uniti affiancate da quelle di numerosi alleati, ivi compresa l'Italia – e ciò malgrado il divieto della sua Costituzione di partecipare alle guerre offensive. Purtroppo, dopo aver assaggiato quel primo frutto proibito, l'Italia si è data poi ad una scorpacciata durata un quarto di secolo: nel 1996, la guerra in Kosovo; nel 2001 (e fino ad oggi), la guerra in Afghanistan; nel 2003 (e fino ad oggi), la guerra in Iraq e, poi, nel 2011 la guerra in Libia e, indirettamente, la guerra in Siria.
E oggi l'Italia sta forse per partecipare ad una nuova guerra in Libia, voluta dai paesi della NATO, Germania in testa , per portare l'ordine nel caos libico con i missili e con le bombe: infatti, per la Ministra tedesca alla Difesa von der Leyen, è l'unico modo per dare alla Libia una speranza per il futuro e per salvarla da un oppressore. Ossia, la stessa argomentazione di quattro anni fa, con “unità nazionale” che rimpiazza “primavera araba” come speranza e “Isis” che rimpiazza “Gheddafi” come oppressore. Leggi tutto
Il pensiero della complessità e l'interpretazione del mondo. Intervista a Pierluigi Fagan
Lei si occupa da anni di "complessità"
declinando con rigore e ironia una critica duplice: al
capitalismo globale,
con la sua classe politica e imprenditoriale, e ai
nemici del Sistema che continuano a ragionare adottando
schemi logici vecchi almeno di due secoli.
Quali sono, a suo avviso, gli errori principali di
coloro che, un giorno sì e l'altro pure, vorrebbero
capovolgere il capitalismo e
puntualmente non vi riescono?
Appunto il fatto che un giorno e l'altro pure, tentano, non vi riescono ma non riescono neanche a cumulare qualche avanzamento sostanziale nell'opera e dopo un secolo e mezzo non si pongono la domanda su cosa non va di questo loro tentare e non riuscire. Il sistema anticapitalista ha il suo problema nella sua stessa definizione, che è negativa. L'esercizio del negativo ha ragioni logiche che rispondono a valori, ma l'ordinatore del nostro vivere associato risponde solo alla capacità che ha di fornire un qualche tipo di adattamento. Possiamo criticarlo in quantità e qualità a piacere ma fino a che non verrà progressivamente mosso, manipolato intenzionalmente, per diventare qualcos'altro che produca miglior adattamento (magari non solo materiale, ma neanche solo ideale), da una parte rimarranno idee in forma di parole, dall'altra permarranno fatti in forma di prassi.
Leggi tuttoDi
fronte alle 700 pagine di Walter
Benjamin. Una
biografia critica, recentemente uscito da
Einaudi, di cui sono autori i curatori americani delle
opere benjaminiane Howard Eiland e Michael
W. Jennings, viene da chiedersi cosa alimenti questa
inesausta curiosità biografica nei confronti del filosofo,
critico e scrittore
tedesco.
Da quando Adorno e Scholem iniziarono, dopo la fine della seconda guerra mondiale, a pubblicare presso l’editore Suhrkamp le sue opere, vide la luce quasi da subito una quantità impressionante di studi, variamente assortiti tra ricerca, testimonianza e ricostruzione esistenziale. Scritture di tutti i tipi: indagini micrologiche, virtuosismi filologici, ossessioni archivistiche e fantasiose ricostruzioni narrative[1]. Il perché di questo inesausto accanimento biografico sta forse in una singolare caratteristica che Benjamin condivideva con altri intellettuali degli anni di Weimar, ma che in lui ebbe una declinazione particolarmente accentuata: la capacità di praticare il ‘saggismo’ non solo come uno stile di scrittura e una forma di pensiero ma come uno stile di vita. L’icona ideale che corrisponde a questa sintesi di pensiero e modo di vivere è il flâneur, colui che si sottrae alla razionalità strumentale – quella delle azioni finalizzate, del camminare verso una meta – per lasciarsi sorprendere dalla verità che si cela nella banalità del dettaglio: la sua apparente passività è la condizione che gli permette di vedere ciò che la massa in movimento non vede e non può vedere perché impedita dagli automatismi percettivi imposti dall’ordine sociale al quale è sottomessa. Il flâneur, e Benjamin si è identificato con esso fin dagli anni giovanili, è infatti colui che si sottrae alla tirannia del funzionale per osservare il mondo con la gratuità dell’esegeta a cui interessa scoprire la verità anziché perseguire un beneficio immediato. Ma non solo. Il flâneur è anche chi scopre gli indizi che rivelano il senso di un’epoca e la direzione del tempo storico. Leggi tutto
Dopo il lunedì di passione in borsa con il crollo dei titoli bancari, Mps in testa e con l’offensiva di Draghi che chiede chiarimenti a sei banche italiane, cè stato un parziale recupero della Borsa martedì mattina, ma i titolo bancari sono continuati a scendere. Che sta succedendo?
Certo, in questo c’è una forte pressione speculativa e sicuramente c’è una manovra destabilizzante, ma è anche vero che le banche italiane sono le più esposte, in questo momento, sul terreno delle sofferenze che ammonterebbero a 200 miliardi più 150 di cosiddetti “incagli” e per di più, data la ben nota inefficienza della giustizia italiana, ottenere il realizzo di una garanzia spesso richiede 7 o 8 anni. Il che significa che è a “bagnomaria” circa il 17-18% degli impieghi di tutte le banche.
Che si sappia, nessun altro sistema bancario in Europa ha difficoltà di questo spessore. Dunque la speculazione aveva una buona base di partenza e, per di più, è stata agevolata dal comportamento della Bce che viene pudicamente definito “ambiguo”, “erroneo”, “intempestivo. E qui mi chiedo se si sia trattato di ambiguità non volute, di errori e di ritardi occasionali o… di altro.
Il punto è che l’urto del bail-in sta portando allo scoperto il buco su cui stanno sedute le banche italiane: già due anni fa sapemmo del disastro di Carige e della Bpm, poi, con la strana riforma delle popolari voluta da Renzi, sono cominciate a venir fuori notizie sempre peggiori dell’Etruria, della Popolare di Vicenza e, dopo, delle popolari delle Marche, di Spoleto, che ora mette nei guai anche il banco di Desio che aveva avuto l’infelice idea di acquistarne un bel pacchetto azionario. Leggi tutto
Non senza timore apprendiamo che la segretaria del più grande sindacato Italiano, Susanna Camusso, ha scoperto che qualcosa sta accadendo nel mondo del lavoro. Sembra infatti che, nel corso del direttivo delegati e pensionati che si è svolto pochi giorni fa a Torino, abbia dichiarato: «dieci milioni di voucher sono un numero spaventoso… Vuol dire che una parte di lavoro che era regolare adesso è diventato sommerso, non registrabile e spesso non pagato civilmente». Di fronte a cotanta preoccupazione e lucidità la domanda dei soliti malevoli sorge spontanea: dov’è stata Susanna Camusso negli ultimi cinque anni, mentre «accadeva» (a prescindere dalla CGIL, a quanto pare) che i voucher toccassero lo spaventoso picco che ora tanto la preoccupa? Per rispondere a questa domanda googoliamo «Camusso+voucher» e scopriamo che, di recente, la nostra Susanna ha preso parola sul tema soltanto in un paio di occasioni: una all’inizio di novembre – quando ha proposto l’abolizione di questo sistema per il settore turismo – e la seconda alla fine dello stesso mese, in una replica al ministro Poletti. In quest’occasione, Susanna ha osservato che i voucher sono teoricamente un sistema di pagamento a ore mentre, di fatto, servono a coprire il lavoro nero. Lo scarso attivismo della Segretaria di fronte a un fatto tanto grave non stupisce visto che, a quanto pare, ha di fronte i numeri del 2010 quando, in effetti, erano stati attivati poco meno di dieci milioni di voucher. Secondo i dati INPS dello scorso anno, però, la cifra nel 2014 ha raggiunto i settanta-milioni-settanta. Leggi tutto
Il sistema capitalistico si è caratterizzato, nel corso del suo processo di evoluzione, per una progressiva diffusione del capitale all’interno dello spazio sociale. Il capitale infatti, in virtù della sua natura quantitativa e impersonale, è dotato della capacità di assumere molteplici forme e di propagarsi nel mondo qualitativo del valore d’uso e dei bisogni umani. È in grado cioè di smaterializzarsi e di penetrare in profondità nella cultura individuale e sociale. Con la conseguenza che quest’ultima assume a sua volta un carattere astratto. Infatti, il capitale tende a determinare nel corso del tempo un processo di progressiva astrazione della società.
Un processo di astrazione che riguarda prima di tutto il capitale stesso. Questo infatti si concretizza da sempre nella ricchezza economica, la quale, a sua volta, si è progressivamente modificata: era legata alla concretezza della terra e si è fatta decisamente più mobile e leggera, assumendo ad esempio le forme del credito e della finanza. Ne è testimonianza la smaterializzazione progressiva del denaro, il quale, a partire dalla sua nascita avvenuta nella Grecia ionica circa 2600 anni fa, ha attraversato successivamente tre principali fasi: il denaro che incorpora direttamente il suo valore (di un metallo prezioso come l’oro o l’argento), il denaro di carta e l’assegno (che svolgono una funzione simbolica in quanto sono realizzati con un materiale scarsamente dotato di valore, sebbene abbiano ancora un’esistenza concreta) e la moneta elettronica, cioè il denaro puramente virtuale che circola alla velocità della luce nelle molteplici reti informatiche che caratterizzano l’economia odierna. Leggi tutto
Ci si può dividere sull'asse tra conservatorismo e innovazione piuttosto che su quello destra-sinistra? Nell'editoriale programmatico di Mario Calabresi si afferma di sì. E questo chiarisce da subito quale linea seguirà Repubblica con il nuovo direttore
All'inizio del secolo scorso irruppe sulla scena europea un movimento che nasceva nell'ambito artistico-culturale, ma proponeva una vera e propria visione del mondo. Sua caratteristica, fin dal nome, la lotta contro il passato; e poi la velocità, la tecnologia, "l'abitudine all'energia", l'uomo al comando ("Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante..."). "È dall'Italia che noi lanciamo per il mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il FUTURISMO perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d'archeologi, di ciceroni e d'antiquari".
Anche allora, insomma, c'era chi voleva rottamare il passato, voleva far svelto, aborriva i "professoroni". Che fosse un movimento innovatore non c'è dubbio, che ci fosse un ampio fronte della conservazione (e non solo nell'ambito culturale e accademico) nemmeno. E dunque, se fossimo a un secolo fa, sarebbe giusto essere Futuristi?
Dipende. Bisognerebbe essere d'accordo anche, per esempio, con questi altri punti programmatici: "Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna". Leggi tutto
Quarto
è una ridente cittadina della provincia di Napoli, con
40.000 abitanti. Certo, non un centro piccolissimo, ma
insomma,
neanche una metropoli come New York o Shanghai e neppure
Milano o Roma. Se ne parla ininterrottamente da dieci
giorni. Per cosa poi?
Perché un consigliere del M5s avrebbe fatto pressioni sulla sindaca (parimenti del M5s) a proposito di alcune concessioni e/o appalti, e di un abuso edilizio per una mansarda, pressioni peraltro respinte dall’interessata. A questo sarebbero seguite imprecisate minacce e/o ricatti. Il ricatto riguarderebbe un abuso edilizio riguardante una mansarda di proprietà del marito della sindaca (mi adeguo alla vague femminista per cui bisogna declinare al femminile, ma è un orrore linguistico, sappiatelo) ora indagato. Non so a voi, a me non pare una notizia da prima pagina. D’accordo, la vicenda è tutta pasticciata, ma alla fine, stiamo parlando di pressioni per favori non ricevuti e di un abuso edilizio che è veramente piccola cosa. Certo: Quarto è un comune sciolto più volte per infiltrazioni camorristiche (come ce ne sono a centinaia) ed è giusto che ci sia un po’ più di attenzione, ma che tenga la prima pagina per dieci giorni, mi pare cosa un po’ sproporzionata: se vi prendete la briga di misurare in righe lo spazio dedicato, in questi 10 giorni, agli attentati di Istanbul, Dijakarta, Burkina Faso, alla crisi della borsa di Shanghai, allo scandalo Renault, a quello della Banca Etruria ed alla riforma costituzionale, noterete che si tratta più o meno dello stesso spazio e, tendenzialmente, un po’ meno. Leggi tutto
Il capitalista di ventura, l’ingegnere e il pubblicitario. In tre saggi la descrizione di altrettante figure che operano per normalizzare la produzione di nuovi manufatti e idee. Wall Street è diventato il motore della ricerca scientifica di base e applicata. Parola dell’economista e capitalista finanziario William H. Janeway. Per il fisico Guru Madhavan, serve un pensiero sistemico modulare. È questo infatti il segreto per dare via libera alla creatività e produrre buoni manufatti. I cacciatori di idee devono infine conoscere bene «la cultura di strada» per vendere una merce sinonimo di uno stile di vita. Il saggio di Wally Olin per Einaudi
Il
capitalista di ventura, l’ingegnere, il pubblicitario. Tre
figure attorno alle quali è stata cesellata
la retorica dell’innovazione, la parola magica per
legittimare socialmente il capitalismo come la forma forse
imperfetta ma migliore di tante
altre nell’organizzare le relazioni umane.
Il capitalista di ventura è, recita la vulgata, colui che mette in rapporto il denaro con le idee. Ha cioè il compito di raccogliere gli iniziali finanziamenti per far decollare iniziative economiche tese alla produzione di prototipi, che in secondo momento possono diventare prodotti da mettere sul mercato. Definisce dunque lo spazio per l’incontro tra la finanza e la produzione.
Nell’immaginario collettivo è rappresentato come un personaggio eccentrico restio a mostrarsi in pubblico. Opera dietro le quinte, da dove svolge un’opera di paternage rispetto a uomini – le donne sono poco presenti – che possono avere idee brillanti ma sono incapaci di fare i conti con la realtà.
Nella ormai vasta pubblicistica sull’innovazione il venture capitalist è altresì qualificato come un avido ma pragmatico e lucido corsaro: il suo è il pragmatismo del giocatore d’azzardo. Tutto deve essere calcolato, pianificato, anche il rischio di fallimento. Leggi tutto
L'Assoluto
[Absolutheit] e la relatività nella Storia. Per la
critica della riduzione fenomenologica della teoria
sociale
A ben vedere, quasi sempre si può constatare che esistono delle corrispondenze e delle correlazioni fra mutazioni storiche del tutto diverse, in aree del sapere o sfere della vita apparentemente separate fra di loro. Nel sistema produttore di merci della modernità, già nella sua costituzione primitiva, aree come la filosofia, la medicina, l'economia, le scienze naturali, la politica, il linguaggio, ecc., sebbene non si siano sviluppate secondo lo stesso ritmo, si sono pur sviluppate secondo una direzione comune, riferendosi sempre, oggettivamente, le une alle altre. Il motivo di questa concordanza o correlazione, a volte sorprendente, dev'essere evidentemente cercato nello sviluppo della relativa formazione sociale, la quale costituisce il legame comune intrinseco ai vari domini esistenziali, aree di conoscenze e competenze. Con ciò, tuttavia, si dice che non si può avere un sapere assoluto nel modus esistenziale della temporalità: tutto il sapere, anche quello che sembra puramente oggettivo, "rigido", atemporale, è storico e socialmente condizionato, ed è anche in un certo qual modo (non a caso) relativo.
Apparentemente, questa consapevolezza della relatività costituisce un progresso del sapere avvenuto nel XIX e nel XX secolo, che proviene dalla storiografia (a partire dallo storicismo) e passa dall'economia politica (dottrina del valore soggettiva o relativista), dalle scienze naturali (fisica quantistica), dalla linguistica (Saussure) e dalla filosofia (il "pensiero post-metafisico", la "svolta linguistica"), e sfocia nel generalizzato anti-essenzialismo, e relativismo, postmoderno. Leggi tutto
Formarsi un giudizio equilibrato sull’economia cinese è complesso per due motivi: l’oggettiva difficoltà di inquadrare un paese così distante, e la porca rogna del buttare sempre tutto in politica, cercando di scaricare sugli altri la responsabilità di nostre scelte.
Una decina di anni fa la Cina veniva dipinta come causa di tutti i nostri mali. Ricordo grafici nei quali le bilance dei pagamenti cinese e americana erano rapportate ai rispettivi Pil: a sentir certi colleghi il deficit americano (intorno al 5% del Pil) era causato dall’enorme surplus cinese (circa il 10% del Pil), a sua volta frutto di manipolazioni del cambio. Ma c’erano due problemi. Intanto, la Cina stava rivalutando (non svalutando) la propria valuta. E poi, il Pil cinese era (ed è) più piccolo di quello statunitense: un surplus del 10% del Pil cinese corrispondeva a circa 350 miliardi di dollari, mentre il deficit estero americano era una voragine da 700 miliardi di dollari. Difficile che il primo causasse il secondo.
Con la crisi dei subprime il vento cambiò: i media ci presentarono una Cina salvifica, motore dell’economia mondiale, che ci avrebbe tirato fuori dalle secche. Ma anche qui c’erano due problemi. Uno lo abbiamo citato: nonostante le dimensioni geografiche e demografiche, la Cina faceva solo il 7% del Pil mondiale ed era difficile che riuscisse a tirarsi dietro il restante 93%. Inoltre, anche se in Cina la crescita media nel decennio precedente era stata dell’11%, il paese prima o poi avrebbe rallentato. Si chiama teoria della convergenza, sta in tutti i libri, e deriva dal fatto che il capitale è molto produttivo (determinando tassi di crescita elevati) dove è più scarso (e quindi nelle economie meno progredite). Leggi tutto
La strage di Deir Ezzor, dove le milizie dell’Isis, secondo le diverse fonti, hanno ucciso tra 200 e 400 civili, molti dei quali donne e bambini, e hanno rapito altre centinaia di persone, si candida fin d’ora a diventare una delle pagine più orrende della già orrenda guerra civile che da cinque anni dilania la Siria. I seguaci del Califfato hanno voluto, con questo raid, rispondere ai colpi ricevuti di recente, sia per opera dell’esercito regolare siriano appoggiato dai russi, che lentamente ottiene risultati sul fronte Ovest del conflitto, sia per opera di quello iracheno, appoggiato a terra dagli iraniani e dall’aria dagli aerei americani e inglesi.
Su questo lato della battaglia contro l’Isis, l’episodio più eclatante degli ultimi tempi è stata la riconquista di Ramadi, uno dei centri più importanti del cosiddetto triangolo sunnita dell’Iraq, quello che ha ai vertici appunto Ramadi, Baghdad e Tikrit. Poco prima di Ramadi era stata riconquistata Baijii, a poca distanza da Tikrit, sede di una delle più importanti raffinerie irachene. Perché questa è una delle aree petrolifere dell’Iraq e il sanguinoso attacco contro Deir Ezzor porta il segno anche di questa matrice: oltre a servire da risposta alla perdita di Ramadi, per mostrare al mondo che l’Isis non è finito, serve anche a garantire al Califfato l’approvvigionamento di greggio che è una delle principali fonti di finanziamento delle milizie. Reazione militare, petrolio e anche la necessità di mantenere aperto il collegamento tra tra la parte occupata della Siria e la parte occupata dell’Iraq, ovvero mantenere in vita il cosiddetto Siraq: ecco le tre motivazioni di questa ennesima strage dell’Isis. Leggi tutto
«La cosa più triste, nella crisi europea, è l’ostinazione con la quale i leader europei al potere presentano la loro politica come l’unica possibile; e il loro timore per ogni scossa politica che possa alterare anche solo di poco l’attuale quadro istituzionale. La palma del cinismo spetta sicuramente a Jean-Claude Juncker il quale, dopo le rivelazioni di LuxLeaks spiega tranquillamente all’Europa sbalordita di non avere avuto altra scelta, quand’era alla testa del Lussemburgo, se non quella di gonfiare la base fiscale dei suoi compatrioti: “L’industria declinava, vedete, dovevo pur trovare una nuova strategia di sviluppo per il mio paese; cos’altro potevo fare se non trasformarlo in uno dei peggiori paradisi fiscali del pianeta?”». Lo scriveva nel 2014 su Libération Thomas Piketty, economista all’École des hautes études en sciences sociales e all’École d’economie di Parigi – ma soprattutto autore del famosissimo, e molto citato, Il capitale nel XXI secolo, pubblicato da Bompiani un paio d’anni fa.
Ora quell’articolo e altri, apparsi sul quotidiano francese tra il 2004 e il 2015, sono raccolti nel volume Si può salvare l’Europa?, pubblicato in italiano sempre da Bompiani. Offrendo una sintesi – molto condivisibile in quasi tutti i punti – del suo pensiero di economista e di storico della disuguaglianza oltre che di critico delle politiche europee di austerità. Una sintesi che copre campi diversi – molto francesi alcuni, più europei se non globali altri – che parte appunto da un prima della crisi per arrivare poi alla analisi dettagliata e appunto critica della crisi scoppiata nel 2007 in America e in Europa nel 2008 – e delle diverse strade scelte da Stati Uniti e Unione Europea per uscirne. Leggi tutto
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Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, traduzione e cura di Laura Boella, Mimesis, 2015, pp. 482, € 32,00.
In un’epoca dominata
rassegnazione e passioni tristi può essere di grande utilità
recuperare il
pensiero di Ernest Bloch, un autore che rivendica al marxismo
la forza dell’utopia concreta, della speranza e della
fantasia, anche nelle loro
dimensioni apparentemente anacronistiche, oscure e
irrazionali. Tra il serio e il faceto potremmo dire che Bloch,
preso atto della potenza del lato
oscuro della forza, ci esorta a sottrarre il suo potere al
nemico, convinto che si possano diradare le tenebre solo
percorrendo fino in fondo il
sentiero oscuro senza rimanerne dominati e consumati, checché
ne pensino il maestro Joda e tutti gli altri cavalieri Jedi.
Non può che fare piacere, dunque, la ripubblicazione di Eredità di questo tempo, libro dato alle stampe a Zurigo nel 1935, ora disponibile per il pubblico italiano con una nuova introduzione e una nuova traduzione a cura di Laura Boella, traduttrice e curatrice anche della prima edizione italiana del 1992 (uscita con il titolo Eredità del nostro tempo).
In questa recensione ci concentreremo soprattutto sul concetto di non contemporaneità che Bloch utilizza per analizzare il nazismo, ma che può essere utilmente impiegato per comprendere alcuni fenomeni contemporanei come il fondamentalismo e i movimenti sociali sudamericani. Non sorprenda il riferimento a due fenomeni dalle valenze politiche opposte: secondo Bloch, infatti, la capacità o meno di occupare il territorio della non contemporaneità può dare luogo a esiti politici completamente differenti. Leggi tutto
L’indipendentismo ha assunto i tratti dell’autodeterminazione dei popoli o, all’opposto, quelli xenofobi e populisti. Ma viene altresì declinato, nella prospettiva dell’autogoverno delle risorse, come mezzo per rilanciare il welfare state e per definire in senso democratico i rapporti tra stati a livello europeo
Nel più
prossimo futuro dell’Unione europea, la questione delle
autonomie, o delle indipendenze, sembra
destinata a occupare una posizione centrale e decisamente
complicata. Nel senso che non riguarderà più solamente il
rapporto
tra le regioni che rivendicano l’autonomia e lo stato
nazionale da cui aspirano a separarsi, ma porrà problemi
politici di
carattere generale tali da investire l’assetto stesso
dell’Unione. La quale, nei suoi trattati e nelle sue
politiche, ha
completamente eluso la questione, adottando implicitamente
quella posizione che nel diritto internazionale è raccomandata
come principio
di «non ingerenza». Insomma, soprattutto dopo l’esito delle
elezioni catalane e spagnole, le indipendenze non potranno
più restare affare esclusivo dei catalani, dei baschi, degli
scozzesi o dei corsi, ma lo diventano di tutti gli europei
e dell’idea di democrazia che vorranno affermare.
Oligarchie regionali
Converrà, tuttavia, definire chiaramente una premessa. Chi non ama, come chi scrive, gli stati nazionali, non può certo vedere di buon occhio la loro moltiplicazione. Ciò che è accaduto dopo il 1989 non ha fatto che confermare questa decisa avversione. Leggi tutto
1. Il sistema
capitalista è entrato in una grave
crisi. Non si tratta di una crisi ciclica ma di una crisi
terminale, non nel senso di un collasso istantaneo bensì come
un processo che segna
la fine di un sistema plurisecolare. Non si tratta di
profetizzare un evento futuro, ma di constatare un processo
che ha cominciato a rendersi
visibile all'inizio degli anni 1970 e le cui radici risalgono
all'origine stessa del capitalismo.
2. Non stiamo assistendo ad una transizione verso un altro regime di accumulazione (come avvenne con il fordismo) o a nuove tecnologie (come avvenne con l'automobile), né tanto meno allo spostamento del centro del sistema verso altre regioni del mondo, ma all'esaurimento di ciò che è la fonte stessa del capitalismo: la trasformazione del lavoro in valore.
3. Le categorie fondamentali del capitalismo, così come sono state analizzate da Karl Marx nella sua critica dell'economia politica, sono il lavoro astratto ed il valore, la merce ed il denaro, che si riassumono nel concetto di "feticismo della merce".
4. Una critica morale, basata sulla denuncia della "avidità" di alcuni individui o gruppi, perderebbe di vista ciò che è essenziale.
5. Non si tratta di definirsi marxisti o post-marxisti, né di interpretare l'opera di Marx o di completarla per mezzo di altri contributi teorici.
Leggi tuttoPer settimane Governo, giornali e televisioni ci hanno raccontato che le banche italiane sono “le più solide d’Europa” e che il caso di Etruria e di altre banche popolari sono “casi isolati”. Poi è bastato che girasse la voce che la Banca Centrale Europea aprisse una nuova inchiesta su sofferenze e crediti deteriorati e… boom!
Piazza Affari è crollata, con le banche che tirano giù l’intero listino, e già si pensa a possibili aumenti di capitale o a eventuali piani di salvataggio.
Ma perché sta succedendo tutto questo casino?
Perché evidentemente i mercati sanno che i bilanci
delle banche italiane non sono così in ordine e
che,
soprattutto, non sono state effettuate le svalutazioni
necessarie rispetto ai crediti problematici che ogni istituto
ha in pancia. Le grandi banche
nel 2015 hanno annunciato risultati straordinari e utili da
capogiro, ma più d’uno negli ambienti finanziari sospetta che
ciò sia
stato possibile solo grazie a una valutazione estremamente
benevola delle possibili sofferenze.
Prendendo per buoni i dati forniti
dalle banche in Italia le sofferenze lorde ammontano ad oltre
201 miliardi di euro, tanto da essere ai primi posti
in Europa insieme a Grecia,
Spagna e Irlanda. Le sofferenze italiane però
presentano due particolarità rispetto a quelle degli altri
paesi: Leggi tutto
Una volta c’era la “macchietta” del pensionato che, mentre aspettava l’autobus o era in fila alla posta, non faceva altro che borbottare contro “le donne, il tempo ed il governo” come diceva De Andrè. E, magari, suscitava anche simpatia perché ricordava il vecchietto masticatabacco dei film western.
Oggi è cambiato ed è stato sostituito da nuovi figuri tutt’altro che simpatici: quello che aggredisce i disperati/e, spesso Rom, che rovistano nelle immondizie, quello che chiama subito i vigili urbani quando qualcuno scrive sui muri o attacca un manifesto, quello che insulta chi chiede l’elemosina o lava i vetri delle macchine ai semafori, quello che ha il cellulare sempre pronto per chiamare i carabinieri e fare la spia quando qualcuno schiamazza o alza la voce. Per non parlare di quelli/e che guardano con sospetto chi veste in modo dimesso e vorrebbero cacciare dai mezzi pubblici chi, secondo loro, puzza. Poi ci sono quelli/e che segnalano subito chi non paga il biglietto e chi, magari, occupa una casa. Come se fosse un piacere lavare i vetri agli angoli delle strade, rovistare nelle immondizie o non avere un tetto sulla testa.
E’ una cultura della delazione, ma quelli che l’hanno fatta propria sono gli stessi, ed è inutile che si nascondano dietro un ditino, che avrebbero segnalato chi era in sospetto d’essere ebreo o partigiano o semplicemente aveva avuto la leggerezza di esprimere critiche al regime. Leggi tutto
Goldman Sachs, Jp Morgan e Morgan Stanley: ecco gli amici dell'Europa! Giusto per togliersi qualche sassolino dalle scarpe
Ecco una notizia gustosa e succulenta. Una di quelle che ci parla del mondo reale. Che, come dovrebbe esser noto, è distante mille miglia dalle credenze degli euro-grulli del «più Europa». Ma anche da quelle dei dietrologi che pensano che l'UE disturbi, in qualche modo, i disegni imperiali di Washington. Togliamoci dunque qualche sassolino dalle scarpe. Ogni tanto ci vuole, perché non possiamo occuparci tutti i giorni di chi vive con simili fantasticherie. E ce ne sono ancora, a dispetto di ogni evidenza. La notiziola di cui stiamo per occuparci viene dunque a fagiolo.
Come tutti sanno, Cameron ha promesso lo svolgimento di un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell'Unione Europea. Allo scopo di avvantaggiare il SI', che al momento pare sia sotto nei sondaggi, Londra ha aperto un negoziato con Bruxelles per strappare condizioni più favorevoli (leggi QUI). Gli verranno concesse? Non lo sappiamo ancora. Quel che sappiamo invece è chi finanzierà la campagna elettorale per impedire il cosiddetto Brexit, cioè l'uscita del paese dall'UE.
La notizia è uscita un paio di giorni fa, ma viene confermata da un nuovo articolo del Sole 24 Ore di questa mattina: le principali finanziatrici della campagna per il SI' saranno tre grandi banche americane. Nell'ordine Goldman Sachs, Jp Morgan e Morgan Stanley. Ma guarda un po' quanto piace l'UE ai pescecani della finanza d'oltreoceano! Leggi tutto
Questo 95°
anniversario della fondazione del Pcdi a Livorno cade in un
momento particolare, in cui i comunisti in
Italia si cimentano nuovamente con l’impresa “grande e
terribile” di ricostruire in Italia un partito comunista
“degno di
questo nome”. Impresa grande e terribile perché i comunisti,
che hanno contribuito in modo determinante a scrivere la
storia
d’Italia nel ‘900 – dalla Resistenza antifascista alla stesura
della Carta costituzionale, alle lotte politiche e sociali del
secondo dopoguerra condotte lungo il filo rosso della
strategia della “democrazia progressiva” – sono oggi ridotti
ai minimi
termini, dispersi e frammentati in piccoli rivoli. Eredi di
una storia gloriosa, ma anche di errori teorici e di pratiche
politiche rovinose, dovuti
in gran parte a subalternità ideologica e politica alle classi
dominanti e ai loro partiti di riferimento, ci proponiamo di
consegnare alle
nuove generazioni uno strumento – il partito comunista – che
riteniamo, oggi come ieri, indispensabile per resistere al
capitalismo
finanziario e all’imperialismo sempre più aggressivi, e
accumulare forze per la trasformazione rivoluzionaria della
società.
Impresa resa ancor più difficile dal fatto che oggi è abbastanza diffusa anche nella cultura di “sinistra” la messa in discussione del partito politico tout court, in quanto tale. Questo attacco alla “partitocrazia”, apparentemente anarchico e libertario, è funzionale allo stadio oggi raggiunto dal dominio del capitale finanziario, che privilegia una società “liquida”, il più possibile atomizzata e incapace di esprimere strutture e corpi organizzati, resistenti e duraturi, alla quale far pervenire messaggi dall’alto, senza il filtro e l’elaborazione di un organismo critico e strutturato. Leggi tutto
Una
democrazia già fragile, uscita incrinata dalla guerra fredda e
entrata fiacca nella globalizzazione, adesso
rischia il peggio.
La legge elettorale truffaldina del 2005 – proprio uno dei suoi confezionatori la chiamò «porcata» – è stata spazzata via dalla Corte costituzionale, ma ecco che la maggioranza parlamentare eletta proprio con quelle norme, una maggioranza che a sua volta si regge su un voto minoritario, su una parte della magra fetta dell’elettorato che è andata a votare, vuole cambiare di nuovo proprio la legge elettorale, e senza seguire i principi dettati dalla stessa Corte costituzionale.
Un governo sostenuto dalla fiducia di pochi spinge una modifica della Costituzione che riduce la partecipazione democratica. Propongono un ibrido furbo, un esile guscio di rappresentanza popolare con una polpa oscura: due camere, ma solo una è elettiva, benché figlia di un voto distante dalla partecipazione della cittadinanza. L’altra si chiama ancora Senato, ma i componenti non sono più elettivi; vengono individuati dagli enti locali, sulla base di logiche che in questo momento non sono esplicitate, ma che fanno indovinare basse manovre e stretti interessi delle segreterie di partito, o delle segreterie senza neppure un partito. Leggi tutto
A proposito della crisi bancaria, del conflitto Renzi-Juncker e del gigantesco scontro di interessi in atto. In coda un breve commento sulle dichiarazioni di Draghi
«Le banche vengano dunque salvate (evitando il bail-in e mandando a quel paese l'UE), ma nello stesso tempo nazionalizzate»
Rassicurare. L'ordine di
giornata è questo, e non potrebbe essere altrimenti. Crollano
i valori borsistici delle banche italiane?
Per Renzi e Padoan il sistema bancario italiano è il più
solido d'Europa. Il Monte dei Paschi di Siena (Mps) perde
oltre il 50% della
propria capitalizzazione dall'inizio dell'anno? La soluzione
"arriverà dal mercato", dice il presidente del consiglio in
una mega
intervista (prima, seconda e terza pagina)
sul Sole 24 Ore di stamane.
Rassicurano ovviamente i banchieri - e cos'altro dovrebbero fare! -, rassicurano gli speculatori professionali (uno su tutti: il "leopoldino" Davide Serra: “ci pensiamo noi”) e rassicura perfino la Bce: la lettera alle banche sulle sofferenze? Una comunicazione di routine di ben poca rilevanza... Strano era sembrato a tutti il contrario...
Ma mentre lorsignori "rassicurano", segno evidente che non hanno al momento idee chiare sul da farsi, sarà bene fare mente locale sui cosiddetti "fondamentali". Oggi, come prevedibile, le borse europee hanno realizzato il più classico dei rimbalzi, e naturalmente chi più aveva perso nei giorni scorsi (vedi Mps e Carige) più è “rimbalzato”, senza però recuperare le perdite precedenti. Ma le borse sono solo un sintomo di una malattia che ha ben altre cause. E che richiederebbe ben altre medicine, esattamente quelle che non si trovano nelle farmacie del sistema neoliberista.
Cerchiamo perciò di risalire ai "fondamentali" per tentare di capire, pur tra tante incertezze, come potrà svilupparsi la situazione. Per farlo bisognerà però tener conto che i "fondamentali" non sono soltanto quelli di natura economica, ma pure quelli di matrice politica. Leggi tutto
Celebriamo anche noi i “40 anni di Repubblica” con un videoclip dedicato alle sue più clamorose menzogne finalizzate ad alimentare la guerra. Un compito svolto da “Repubblica” sfruttando – oltre ai soliti cliché della propaganda bellica - i valori di quel popolo di “sinistra”, “progressista”, “antifascista” e “politically correct”, suo principale target. E così già nel 1999 - per supportare la Guerra NATO-D’Alema alla Jugoslavia – Repubblica presentava i Serbi come i nazisti (si legga, a tal proposito, questo ottimo libro (oggi integralmente on line) e i “ribelli kossovari” come ebrei destinati ai campi di sterminio. Poi, Repubblica, per promuovere guerre e/o per additare altri “stati canaglia”, ha sposato la salvezza di altre “categorie” care ai suoi lettori di “sinistra”rifilando bufale su donne, gay, lesbiche, animalida compagnia . Il tutto accompagnato da un sempre più marcato travisamento della realtà: basti guardare i servizi di Repubblica sulla Palestina o il suo davvero sbalorditivo servizio fotografico che consacrava i fascisti del battaglione Azov che baciavano le “fidanzate” (in realtà fotomodelle reclutate dall’agenzia di pubbliche relazioni Weber Shandwick, che aveva realizzato il servizio) prima di partire per le loro mattanze nel Donbass.
Ma con questa sempre più marcata linea bellicista, Repubblica ha perso lettori? Purtroppo no. Il quotidiano di De Benedetti continua ad arpionare un target socio-economico medio-alto (il più ambito dagli inserzionisti).
Leggi tuttoLo scontro fra il pinocchio di Rignano e l’alcolista di Bruxelles, Juncker contiene un rischio: quello di creare una nuova narrazione sul passaggio del guappo da burattino a essere in carne ed ossa, ancorché rozzo e impari al compito. Ma si tratta di un illusione perché in ogni caso il narciso della Leopolda è attaccato ai fili, muovendo manine e piedini a comando, non essendo in grado avere alcun pensiero che non riguardi la sua poltrona: il vero problema è che i burattinai sono due o forse anche tre e non vanno più così d’accordo. Dato per scontato che il massoncino toscano sarebbe ancora a cenare a sbafo sui lungarni se l’oligarchia europea non gli avesse messo gli occhi addosso alla ricerca di un tronista politico di riserva visto lo scarso successo dell’amico Monti, qualcosa si è incrinato proprio con le classi dirigenti italiane alle prese con i nodi bancari, finanziari, politici che vengono al pettine.
Alla fine del post troverete una corposanotache spiega punto per punto la genesi di Renzi, ma il fatto è che il premier scalcia e si dibatte fra poteri europei che non vogliono e non possono concedere deroghe eccessive per evitare un effetto domino e le oligarchie nazionali per le quali il progetto autoritario e neo liberista di Bruxelles è vitale, ma che non intendono assolutamente vedersi restringere il loro spazio di manovra, di prebenda, di opacità a tutto campo nell’ambito del sistema affaristico politico.
Leggi tuttoIl
minacciato sgombero di Esc, a cui diamo comunque la nostra
solidarietà, non può certo definirsi un fulmine
a ciel sereno. È invece l’ennesimo tassello di una stagione
segnata dal commissariamento della politica. Il problema non è
la
difesa di questo o quel centro sociale, sebbene ovviamente
necessaria (come Esc, si trovano sotto sgombero il Corto
Circuito, Casale Falchetti,
l’Auro e Marco, mentre per la Casa della Pace e Degage già si
è provveduto in estate; per non parlare delle decine di
occupazioni
abitative perennemente in bilico). Il problema è che non è
possibile alcuna resistenza “militare” che non passi per un
riequilibrio dei rapporti di forza politici. Oggi questi sono
al punto zero. Se Prefetto o Commissario decidessero di
sgomberare tutto, la resistenza
che potremmo mettere in campo sarebbe, in tutta onestà,
ininfluente. Per ripartire dovremmo allora capire perché oggi
la nostra
capacità d’influenza politica è azzerata. È questa la domanda
che ci pone la minaccia di Tronca: non “come faremo a
resistere”, ma: come siamo arrivati a questo punto?
Anche perché, alla prima domanda, non c’è risposta: in queste condizioni non si può resistere. Questo non vuol dire arrendersi, chiaramente, ma dovremmo operare un salto di sincerità almeno fra compagni: immaginare una nostra capacità di invertire la rotta confrontandoci militarmente con il potere, come se fosse l’uso della forza la discriminante capace di fermare la volontà di pacificazione, significherebbe raccontarci una favola che ha davvero fatto il suo tempo.
Leggi tuttoStefano G. Azzarà, Dalla caduta del muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur editore, Reggio Emilia 2014
Vogliamo presentare il testo di
Azzarà sintetizzandolo con alcune
parole chiave, che certo non esauriscono l'analisi assai
accurata e al tempo stesso spietata che l'Autore restituisce
in merito alla crisi culturale e
politica che investe l'Italia ormai da tempo, almeno dagli
anni Novanta, ancora oggi decisamente in corso. Una crisi che
paradossalmente
sprovincializza il nostro paese - per ragioni legate
innanzitutto alle relazioni economiche e geopolitiche
globalizzate che lo investono - rendendo
l'Italia quasi un paradigma, soprattutto nelle sue
manifestazioni patologiche. Il testo di Azzarà andrebbe letto
nelle aule scolastiche (oltre
che universitarie, s'intende) nell'ora di educazione civica,
oggi derubricata a mezz'oretta di cittadinanza e costituzione
strappata alle ore - assai
ridotte anch'esse - di storia. Perché è un quadro completo di
riferimenti culturali e politici della storia italiana più
recente.
Ma è anche un attacco frontale senza mezzi termini alle
responsabilità oggettive che hanno coinvolto la sinistra, di
opposizione e di
governo, comunque la si voglia considerare, nell'aggravamento
di una sconfitta che risulta adesso molto complicato
recuperare. Impossibile da
recuperare? Qui la prospettiva è radicalmente realistica, se
non pessimistica.
Meritevole di segnalazione poi è la bibliografia: una mappa di interpretazioni, letture filosofiche e non solo, della più recente storia culturale italiana e internazionale. Per chi volesse approfondire il tema del postmoderno ad esempio, qui c'è pressoché tutto, spesso anche commentato in nota a piè di pagina nel testo. Una sorta di guida allo studio. Ma veniamo al contenuto tematico. In sintesi.
Leggi tutto1.
Anamnesi
Il tema della perduta, fragile, confusa e smarrita identità della sinistra italiana rappresenta da tempo un luogo comune, del pensiero politico non meno che della satira. L’afasia politica del funzionario del PCI Michele Apicella in Palombella Rossa (1989) è attuale oggi quanto un quarto di secolo fa.
Per ribadire tale condizione patologica, divenuta oramai seconda natura, possiamo ricordare la recente riunione, tenutasi quasi clandestinamente tra i quattro partiti/movimenti che oggi si muovono alla sinistra del PD (Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, i civatiani di Possibile e SEL). Questi gruppi, riunitisi il 14 dicembre scorso per ‘trovare una sintesi’ in vista delle prossime elezioni amministrative, nella migliore tradizione della sinistra italiana non sono giunti ad alcun accordo. E per apprezzare appieno lo spirito tragicomico di questo fallimento è utile ricordare che questi quattro gruppi non rappresentano neppure la totalità del panorama politico alla sinistra del PD: andrebbero infatti aggiunti diversi gruppi a tutt’oggi non disciolti, anche se dallo statuto ontologico incerto, come i Verdi, l’Italia dei Valori, l’Altra Europa con Tsipras, e gli arancioni (De Magistris).
Tutto ciò ha un aspetto ovviamente comico, ma ha anche un lato tragico ben visibile se si pensa a cosa ciò significhi in termini di domanda politica priva di riferimenti credibili. Leggi tutto
Siamo a gennaio, ma l’aria è quella di novembre. Del novembre 2011, per la precisione: questa è la volta che si fanno Renzi.
Anche se la voce sta girando, non credo che ci sarà una lettera di Draghi al pagliaccio fiorentino: sarebbe troppo spudorato e sarebbe una mancanza di fantasia. D’altro canto, capirete che Mario (a proposito: è l’onomastico) ha il dente avvelenato: lui, è noto, sta pensando al dopo Bce che è vicinissimo e pensa di trasmigrare il deretano sulla poltrona più importante del Fmi e questo piccolo serpe di Renzi si è permesso di minacciare una commissione parlamentare di inchiesta che indaghi sulla Banca d’Italia al tempo di Mario… Non sono cose che si dimenticano.
Poi, molto interessati alla nomina del Marione al dopo Lagarde sono anche gli amici, anzi, i “fratelli” della Goldman Sachs e queste sublimi architetture non possono essere spezzate da un piccolo tanghero fiorentino. Quindi, come togliete la sedia al tamarro?
Un sistema lo si trova. Un incidente finanziario, un crollo dei titolo di Stato con uno spread in preda al delirio, un po’ di notizie “etrusche” tali da animare una fronda nel partito, una banca americana che offre titoli con rendimenti oltre il 3% per fare impazzire il mercato… (magari con un trucco di salvaguardia per la banca, nel caso di grande crisi, una cosa giusto per far crollare i titoli italiani). Insomma una cosa si trova. Anche perché il colpo, per riuscire, deve essere doppio: togliergli Palazzo Chigi e la segreteria del partito, altrimenti non si riesce a fare il governo successivo. Leggi tutto
La vicenda del pazzo dittatore nord-coreano con la bomba atomica sembrerebbe uno di quei successi senza tempo, ciò che gli anglosassoni chiamerebbero un "evergreen". Al contrario, la fiaba mediatica del dittatore pazzo è erosa da un crescente scetticismo trasversale, tanto che, per supportarla, è stato necessario associarla ad uno di quei personaggi pubblici addetti alla provocazione a tempo pieno, di quelli che affidano la loro credibilità al proprio discredito personale, cioè Antonio Razzi. Un'operazione analoga fu condotta nei confronti di Gheddafi, accostato mediaticamente ad un altro campione del discredito, il Buffone di Arcore.
Lo scopo di queste fiabe mediatiche è quello di seppellire la categoria di imperialismo sotto una discussione a vuoto a proposito di persone e modelli sociali, come se gli intenti aggressivi del sedicente Occidente non esistessero; perciò, in base ai canoni della parodia del "politically correct" vigenti nella "sinistra", si potrebbe discutere di Corea del Nord come se gli USA negli ultimi tempi non avessero già aggredito la Serbia, l'Afghanistan, l'Iraq, la Libia e la Siria, e sicuramente nella lista ci si è dimenticato di qualcosa. In base alla parodia del "politicorretto", la nostra missione di "occidentali" nei conflitti internazionali sarebbe di stabilire chi siano i buoni e chi i cattivi; e, nell'ambito di questo gioco, oggi ci viene concesso di "schierarci" con i Curdi, come se lo "schierarsi" contasse qualcosa. Leggi tutto
…Come il FMI ha imposto l’“Aggiustamento Strutturale”, e ha sottoposto a torsioni i governi, costringendoli a tagli della spesa pubblica per sanità, istruzione, assistenza all’infanzia, sviluppo, le ONG sono entrate in azione.
La “Privatizzazione del Tutto” ha comportato anche l’“ONGanizzazione del Tutto”.
Alla scomparsa dei posti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, le ONG sono diventate una fonte importante di occupazione, anche per coloro che sono consapevoli di ciò che in realtà rappresentano. E certamente, non tutte le ONG sono cattive.
Fra i milioni di ONG, alcune conducono un lavoro notevole, radicale e sarebbe un travisamento addossare a tutte le ONG gli stessi difetti.
Tuttavia, le ONG finanziate dalle imprese o dalle Fondazioni costituiscono il mezzo con cui la finanza mondiale coopta i movimenti di resistenza, letteralmente come gli azionisti acquisiscono quote delle compagnie, per cercare di assumerne il controllo dall’interno. Si innestano come nodi sul sistema nervoso centrale, i percorsi lungo i quali scorre la finanza globale.
Le ONG funzionano come trasmettitori, ricevitori, ammortizzatori, mettono sull’avviso ad ogni impulso sociale, attente a non infastidire i governi dei paesi che le ospitano. Leggi tutto
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«Vogliamo essere
certi che il fondo abbia un fondamento stabile. Non siamo
contrari, in linea di principio, ma è importante
che si rispetti ogni passaggio per arrivarci. In primo
luogo bisogna far convergere i diversi quadri legislativi
dei Paesi, che influenzano
enormemente sulla solvibilità di una banca e la solidità
di un sistema bancario. Abbiamo bisogno di un diritto
fallimentare unico.
Inoltre dobbiamo rendere più solide le banche al livello
nazionale, dunque adeguare il capitale delle banche alla
presenza di bond
sovrani». (Dombrert, Ecco le condizioni per
il fondo europeo salva-risparmio. Intervista a Alfred
Dombrert, Vice Presidente
Bundesbank, Vice Presidente Vigilanza Bce, La Stampa 23
gennaio 2016).
“Di fondamentale rilievo la modifica al codice civile, nel quale, dopo l'art. 2929 è inserita la Sezione I-bis riguardante l'espropriazione di beni oggetto di vincoli d'indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito. In proposito, l'art. 2929-bis c.c. introduce una tutela rafforzata per il creditore in caso di pignoramento, grazie alla revocatoria semplificata. L'istituto introdotto dal d.l. in esame fa sì che il creditore ove si ritenga pregiudicato da una donazione, da un fondo patrimoniale, da un trust ovvero da un vincolo di destinazione in genere, possa iniziare l'esecuzione forzata indipendentemente dall'ottenimento di una sentenza dichiarativa d'inefficacia del trasferimento (cd. revocatoria)”. (www.altalex.com)
“Ma non dimentichiamo gli interventi importanti già fatti dal Governo per accelerare il recupero del credito. Perché alla fine il salto di qualità è proprio questo. Il recupero svelto è la condizione necessaria per lo smaltimento dei credit non performing, un veicolo ad hoc in grado di fare incontrare domanda e offerta sarebbe la classica ciliegina sulla torta”. (Giù le mani dalle banche italiane, Intervista a Carlo Messina, Amministratore delegato Intesa SanPaolo, MilanoFinanza 23 gennaio 2016).
***
Di questi tempi ti accorgi che ci vorrebbe Sbancor. Lui, che dall’ufficio studi della fu Capitalia seguiva i movimenti di capitale e scriveva note sugli indici borsistici. Peccato, sarebbe stato di fondamentale utilità di questi tempi. Leggi tutto
“Oriente, questione d’ Complesso dei problemi politici internazionali aperti dalla progressiva decadenza dell’impero ottomano. La questione d’O. interessò le cancellerie europee dalla fine del sec. 17°, dopo la sconfitta dell’esercito turco a Vienna (1683). L’impero ottomano divenne oggetto delle ambizioni delle potenze occidentali.”(Dizionario di storia, Enciclopedia Treccani)
“L’infelicità araba ha questo di particolare: la provano quelli che altrove parrebbero risparmiati, e ha a che fare, più che con i dati, con le percezioni e con i sentimenti”. (Samir Kassir)
Il modo in cui funziona l’occhio
umano dà luogo al quel fenomeno
per il quale l’illuminazione di un oggetto impedisce la vista
di ciò che vi sta intorno. E’ così che la luna nasconde il
firmamento e che i fari dell’automobile impediscono di vedere
ciò che sta ai lati della strada. Così vale anche per la
cronaca,
che nasconde la storia ed impedisce di comprendere i fatti.
Per questo, prima di ricostruire i minuti, i giorni, o gli
anni che precedono gli
attentati di Parigi (e del Sinai, di Beirut, di Bamako, di
Tunisi…) occorrerebbe volgere lo sguardo ai secoli che li
precedono.
Verso la fine del 17° secolo quella vasta area geopolitica che va dal Maghreb all’Azerbaigian, dai Balcani allo Yemen[1], allora controllata dall’impero ottomano, comincia ad andare in crisi. Con la perdita di centralità nel commercio mondiale, dovuto all’apertura delle rotte marittime ed il ritardo tecnologico rispetto all’area europea, si avvia un declino economico che favorisce l’emergere di spinte centrifughe dal variegato mosaico di popoli che la componevano.
E’ da allora che tra le cancellerie europee si discute la “Questione d’Oriente” come modalità di spartizione delle sue future spoglie. Se ne parlerà già al Congresso di Vienna, a latere dei negoziati sul ripristino dell’ordine monarchico seguito all’avventura napoleonica, e terrà impegnate le cancellerie europee per tutto il XIX secolo.
Leggi tuttoDal racconto del “racket originario” all’analisi del tentativo di governare il disordine da parte dei moderni regimi democratici, Mastropaolo si sofferma sui limiti di un’entità la cui autorità è senza sosta contesa e negoziata
Né
monopolio, né ordine
Uscito di scena il marxismo, una questione è stata spesso trascurata. Lo Stato è un’istituzione di dominio, fatta di esseri umani in carne e ossa. Aiutano a riprenderla tre autorevoli scienziati sociali di estrazione tutt’altro che marxista: Charles Tilly, Norbert Elias e Pierre Bourdieu.
Punto di partenza ideale per rileggere questi tre autori è l’incipit a dir poco irriverente di Charles Tilly. «Se il racket costituisce la forma più raffinata di crimine organizzato, allora la minaccia della guerra e la costruzione degli Stati – classiche forme di racket col vantaggio della legittimità – costituiscono il più grande esempio possibile di crimine organizzato». Così esordisce, sulle orme dello stesso Weber e su quelle molto più antiche di Agostino d’Ippona, un brillante saggio contenuto in un volume che nel 1985 reinscriveva lo Stato nell’agenda di ricerca della political science d’oltre oceano, refrattaria, dai primi anni Cinquanta, alla parola e all’argomento.[1]
Raffigurare coloro che le scienze sociali chiamano gli State-builders come imprenditori violenti di successo, protesi a accumulare a spese d’altri ricchezze, territori, popolazione, prestigio, vendendo protezione da minacce da essi stessi suscitate, è molto realistico. Nessuno dei cosiddetti State-builders intendeva edificare lo Stato. Ancor meno nessuno tra loro aveva in mente che ciò che costruivano dovesse essere moderno, altro dalle forme preesistenti d’organizzazione e dominio politici.
Leggi tuttoEsiste una sinistra carina, postmoderna e dirittumanista che umilia la politica identificandola esclusivamente con i diritti civili. E che l'altro giorno è scesa in piazza con il PD, confermando che il suo orizzonte unico è ancora e sempre il caro Centrosinistra delle alleanze e degli assessori.
A questa sinistra subalterna si contrappone però con sempre maggiore rozzezza una "sinistra" che - nella migliore delle ipotesi - intenderebbe affermare la secondarietà dei diritti formali rispetto a quelli materiali e vorrebbe maggiore impegno per una trasformazione strutturale della società. Ma che per fare questo finisce per negare e ridicolizzare i diritti civili stessi. E per andare in maniera più o meno inconsapevole alla coda delle provocazioni, delle trappole e delle parole d'ordine della destra, come quella sintetizzata nella grottesca e oscena immagine qui sotto.
In questa sinistra che si vorrebbe popolare ("prima i bisogni della gente!") ma che rappresenta l'altra faccia della stessa subalternità e incapacità di autonomia politica, riaffiora purtroppo sempre più il richiamo alla dimensione "naturalistica" di una presunta autenticità umana o sessuale violata dal capitalismo. A questa sciocchezza e alla reiterata e orgogliosa professione di anti-intellettualismo - che è offensiva della storia della sinistra stessa e coniuga il culto della forza con un pensiero magico non lontano da quello dell'omeopatia e del veganesimo - non vale la pena rispondere.
Più interessante, anche se non meno sbagliato e stupido, l'argomento secondo cui i diritti civili e in particolare il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto (soprattutto quelle omosessuali) sarebbero funzionali al capitalismo consumeristico, se non addirittura il subdolo strumento di un vero piano o complotto del capitale.
Leggi tuttoAlcuni passaggi politici di queste ultime settimane di gennaio hanno ancora una volta mostrato serie difficoltà del PD ad offrire un’immagine chiara ed univoca della sua proposta politica, quella che un tempo si sarebbe chiamata la ‘linea’ del partito.
Le vicende delle unioni civili e della ‘riforma’ costituzionale, comunque vadano a finire, hanno già dimostrato due cose : la prima è che sui temi etici esistano due PD, uno di cattolici integralisti ed uno di ‘laici’ variamente motivati, la seconda che sui temi costituzionali la minoranza di sinistra non ha rinunciato del tutto a dare battaglia sulla elezione diretta dei senatori. Anche su questo versante un altro PD.
Siamo ancora all’ “amalgama mal riuscito” (D’Alema) od al “partito mai nato” (Cacciari)?.
Finora, tra le due minoranze, quella cattolica appare più convinta e decisa rispetto all’altra che sovente è apparsa risibile con i suoi penultimatum sempre finiti in capitolazioni di fatto. Ricordate i fieri propositi di Bersani che affermava non esservi disciplina di partito che tenesse di fronte alla modifica della Costituzione? Affermazione ‘coerentemente’ confermata dal voto favorevole di quasi tutti i senatori dissidenti al primo voto al Senato sulla riforma Boschi? Solo in pochi ne trassero le conseguenze votando contro o uscendo dal PD come Mineo. Ma allora quanti PD esistono? E la maggioranza di governo a quale ‘linea’ del PD risponde? Leggi tutto
Dalle colonne del
Guardian Costas Lapavitsas, ex membro di Syriza,
ripercorre l’ultimo anno della vita politica greca, dalle
iniziali illusioni del nuovo
governo fino alla vergognosa disfatta. Tsipras si è
ridotto ad applicare alacremente quelle stesse politiche
contro le quali si era battuto non
perché il “nemico” fosse troppo potente, ma perché egli
stesso era totalmente impreparato all’alternativa, alle
implicazioni che essa doveva portare con sé: perché l’euro
È l’austerità, e non puoi volere uno e rifiutare
l’altra.
(Articolo segnalato da Vladimiro
Giacché.)
Oggi, esattamente un anno fa, in Grecia veniva eletto un governo di sinistra radicale. Il suo giovane e dinamico primo ministro, Alexis Tsipras, prometteva di sferrare un colpo decisivo contro l’austerità. Yanis Varoufakis, il suo non-convenzionale ministro delle finanze, poco dopo andò a Londra e creò un evento mediatico. Ecco qui, si diceva, un governo che abbandona le antiquate convenzioni borghesi e si lancia nella lotta. C’erano grandi aspettative.
Un anno dopo, il partito di Syriza sta alacremente applicando quelle stesse politiche di austerità che un tempo disprezzava. È stato purgato della sua ala sinistra e Tsipras ha gettato via il suo radicalismo pur di rimanere al potere ad ogni costo. La Grecia si è avvilita. Leggi tutto
Non
è stato
l’Occidente a essere colpito dal mondo; è stato il mondo
che è rimasto colpito - e duramente colpito -
dall’Occidente
A. Toynbee,
Il
mondo e l’Occidente
Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 387
L’assenza cronica di
visioni globali della storia è il più grave colpo inflitto
dall’umore
postmoderno alla contemporaneità. Di questa assenza soffre
anche certa cultura marxista, spesso retrocessa a visioni che
hanno rimosso
dall’orizzonte storico la portata universalistica del
conflitto di classe, qualche volta ridotto a semplice stagione
del più ampio
processo moderno di emancipazione, qualche altra a progetto
fallimentare di cui solo la tradizione liberal-riformista
avrebbe saputo tesaurizzare gli
aspetti propulsivi.
In questa situazione culturale e politica analizzare i processi storici attraverso la categoria della lotta di classe è un’operazione coraggiosa perché tocca questioni ideologiche e etico-politiche che dal crollo del comunismo sovietico è politicamente scorretto, se non scandaloso, evocare. La critica dell’ideologia però resiste, in uno studioso che ne è tra i più illustri e forse ortodossi rappresentanti e di cui ci sono noti i meticolosi controcanti all’edificante apologia di quella storia che l’Occidente proclama come progressiva e propria. Con questo libro, Losurdo riprende il filo di una ben nota narrazione che si vuole far passare per fallita o passé, ma che forse non si conosce ancora abbastanza. Ne scandaglia l’interna complessità e senza riduzionismi di sorta ci restituisce una visione globale della storia nella quale la lotta di classe riceve il ruolo di spinta che le spetta nel processo di emancipazione e costruzione di unità del genere umano. Leggi tutto
Il dibattito
sull’automazione ed i suoi effetti lavoristici e sociali sta
avendo una rinascita, in corrispondenza con quella che
sembra prospettarsi come una nuova rivoluzione tecnologica
pervasiva, fatta essenzialmente di sviluppi nei settori della
intelligenza artificiale,
della produzione, uso e distribuzione sostenibile
dell’energia, delle biotecnologie e della progettazione
digitalizzata in 3D. Qualcuno chiama
“Rivoluzione Industriale 4.0” questa ondata tecnologica
imminente, che riconfigurerà completamente gli assetti
produttivi,
occupazionali, sociali e politici del mondo.
Naturalmente non mancano i cantori dell’ottimismo, appositamente convocati per preparare il campo a questi sconvolgimenti che saranno, per chi dovrà viverne la fase di transizione (cioè noi) devastanti non meno di quelli che hanno accompagnato la prima Rivoluzione industriale. Nel campo della green economy, si va da chi, come Jeremy Rifkin, immagina un futuro di “produzione democratica” di energia da parte di autoproduttori individuali proudhoniani, che si scambiano energia fra loro in una rete in cui nessuno può assumere una posizione oligopolistica, all’idea che l’innovazione tecnologica in materia energetica possa risolvere il riscaldamento globale (quando probabilmente il problema è quello, da un lato, di preparare le contromisure nei confronti di un fenomeno già in atto e non reversibile, e dall’altro di preoccuparsi di problemi ambientali altrettanto se non più gravi, come l’eccessiva impronta idrica ed alimentare). Leggi tutto
Dopo la guerra che
Israele scatenò contro la popolazione di Gaza nel 2008,
Stefano Nahmad (la cui famiglia subì le
persecuzioni naziste) scrisse queste parole: «hai fatto una
strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo
che li hanno usati
come scudi. Non so pensare a nulla di più infame […] li hai
chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad
ammazzarli con le
armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri
avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse
giorno, per colpirli
meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una
vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».
La guerra che Israele conduce contro il popolo palestinese non è finita, non finisce mai. Continua ogni giorno, e ogni giorno uccide, distrugge, depreda. Negli ultimi mesi è esplosa una povera Intifada, chiamata l’Intifada dei coltelli. Si manifesta con azioni suicidarie compiute da uomini donne, anziani e giovani che il razzismo quotidiano del gruppo dirigente di Israele ha reso a tal punto disperati da cercare la morte per strada, nel tentativo generalmente fallimentare di accoltellare uno dei superarmati agenti dell’esercito di Israele.
Come ogni anno si avvicina il giorno della Memoria, e come ogni anno mi preparo a parlarne con gli studenti della scuola in cui insegno. Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri. È un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo. Qualche anno fa, in occasione di questa ricorrenza, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato. Leggi tutto
Renzi afferma che sulle sorti del Monte dei Paschi «sarà il mercato a decidere», spalancando le porte a chi vuole mettere le mani sulle banche italiane. Raramente il dogma neoliberista è stato espresso in maniera così franca
«Il Monte dei Paschi oggi è a prezzi incredibili. Penso che la soluzione migliore sarà quella che il mercato deciderà. Mi piacerebbe tanto fosse italiana, ma chiunque verrà farà un ottimo affare… Gli eventi di queste ore agevoleranno fusioni, aggregazioni, acquisti. È il mercato, bellezza». Così il premier Matteo Renzi in un’intervista al direttore del Sole 24 Ore ha risposto sulla profonda crisi che sta attraverso il sistema bancario italiano.
Si tratta di una dichiarazione gravissima, che riflette in maniera drammaticamente chiara l’ideologia iper-mercatista del nostro primo ministro. In sostanza, quello che Renzi sta dicendo è che nel bel mezzo della crisi più grave nella storia dell’unità d’Italia, in cui la già fragilissima economia del nostro paese rischia di ricevere il colpo di grazia da una crisi bancaria che sembra ogni giorno più probabile, a causa dell’austerità europea e delle assurde regole dell’unione bancaria, ma anche di evidenti casi di mala gestione; in cui avremmo bisogno di un intervento deciso di politica pubblica che non si limiti a stabilizzare la situazione bancaria (anche se questo già sarebbe qualcosa), per esempio attraverso la nazionalizzazione di MPS, ma utilizzi tutti gli strumenti che il governo ha a disposizione – per quanto limitati, per le ragioni che conosciamo tutti – per rilanciare l’occupazione e risollevare un’economia che ogni giorno che passa dimostra in maniera sempre più evidente di non essere assolutamente in grado di risollevarsi Leggi tutto
È in arrivo una nuova serie che mescola fiction e cronaca per
raccontare un pezzo di storia del nostro paese.
Trama: una banda di
giovani rampanti e famelici, sostenuti da loschi appartenenti
ai poteri occulti, dà la scalata alla capitale.
Personaggi principali:
Matteo detto Er Bomba, il capo. Parlantina facile, manie di
grandezza, e una passione per le serie USA e
l’inglese maccheronico degna del Nando Moriconi di Sordi.
Maria Elena, ‘A Giaguara. Figlia d’arte e fashion victim,
considerata la Jackie Kennedy della banda.
Graziano, Er Patriarca. Nove figli e un solo credo. Braccio
destro e consigliori di Matteo.
Marianna, ‘A Perla de Labuan. Riccioli d’oro e nervi
d’acciaio, ammanigliata oltretevere.
Deborah detta Frangetta, e Luca Er
Lampadina, capi del gruppo di fuoco. Fedelissimi di Matteo,
che li usa per rottamare e rimpiazzare i vecchi boss della
zona.
Pier Carlo, Er
Cravatta, cassiere della banda. Coriaceo come una tartaruga
centenaria.
Flavio, Er Carbonaro. Faccendiere piduista, consulente del
padre di
Maria Elena per il fallimento della Banca Etruria. Leggi tutto
Nome in codice «Timber Sycamore»: così si chiama l’operazione di armamento e addestramento dei «ribelli» in Siria, «autorizzata segretamente dal presidente Obama nel 2013»: lo documenta una inchiesta pubblicata domenica dal «New York Times». Quando è stata incaricata dal presidente di effettuare questa operazione coperta, «la Cia sapeva già di avere un partner disposto a finanziarla: l’Arabia Saudita».
Insieme al Qatar, «essa ha fornito, armi e diversi miliardi di dollari, mentre la Cia ha diretto l’addestramento dei ribelli».
La fornitura di armi ai «ribelli», compresi «gruppi radicali come Al Qaeda», era iniziata nell’estate 2012 quando, attraverso una rete predisposta dalla Cia, agenti segreti sauditi avevano comprato in Croazia e nell’Europa orientale migliaia di fucili da assalto Ak-47 con milioni di proiettili e i qatariani avevano infiltrato in Siria, attraverso la Turchia, missili portatili cinesi Fn-6 acquistati sul mercato internazionale.
Poiché la fornitura di armi avveniva a ruota libera, alla fine del 2012 il direttore della Cia David Petraeus convocava gli alleati in Giordania, imponendo un più stretto controllo dell’Agenzia sull’intera operazione.
Pochi mesi dopo, nella primavera 2013, Obama autorizzava la Cia ad addestrare i «ribelli» in una base in Giordania, affiancata da una in Qatar, e a fornire loro armi tra cui missili anticarro Tow. Sempre con i miliardi del «maggiore contribuente», l’Arabia Saudita. Non nuova a tali operazioni.
Negli anni Settanta e Ottanta, essa aiutò la Cia in una serie di operazioni coperte. Leggi tutto
Quali possono essere gli interlocutori internazionali di un'alternativa al capitalismo? Dopo aver esaminato i paesi cosiddetti Brics, giungendo a conclusioni problematiche e non definitive, parliamo – con viva preoccupazione – dell'Alleanza Bolivariana per le Americhe (Alba) che negli ultimi anni si è opposta alla supremazia Usa nel continente latinoamericano
Un po'
di storia
La quasi totalità dei paesi dell'America latina è integrata in vario grado nel Mercato Comune dell'America Latina, Mercosur, (per approfondimenti v. sotto Rif. 1) istituito nel 1991. Ancora più ampia è l'Unione delle Nazioni Sudamericane, Unasur (per approfondimenti v. sotto Rif. 2), che costituisce una comunità non solo economica ma anche politica.
Tradizionalmente l'America Latina costituiva il “cortile di casa” degli Usa ai quali sono legati Canada e Messico, attraverso l'Accordo nordamericano per il libero scambio, Nafta (per approfondimenti v. sotto Rif. 3), accordo che venne subito contestato dall'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale della regione del Chiapas (Ezln), perché molto favorevole agli USA.
Includendo le maggiori economie nordamericane, il livello degli scambi all'interno del Nafta è nettamente superiore a quello del Mercosur (vedi grafico n. 1). Ma il livello di integrazione delle economie latinoamericane tra di loro e con la Cina è andato crescendo negli ultimi anni.
Per consolidare la propria egemonia nell'area, gli Stati Uniti, ai tempi di George W. Bush, proposero la costituzione dell'Area di Libero Commercio delle Americhe, Alca (per approfondimenti v. sotto Rif. 4), ma nel 2004, con l'ascesa al potere di Hugo Chàvez in Venezuela, si realizzò un asse tra quel paese e Cuba, quale primo impianto di un disegno alternativo a quello statunitense. Leggi tutto
Attraverso alcuni “appunti” vorrei connettere la necessità di riformulare e chiarire il concetto di riproduzione sociale degli individui associandolo alla necessità di produrre nelle città dello spazio comune perché questo si possa realizzare. Pensare ad uno spazio veramente pubblico e veramente relazionale in cui si possa attivare una visione di genere dei rapporti sociali, associando i saperi “alti” alle pratiche di resistenza sperimentate nella crisi
1)
Cosa si intende per “riproduzione sociale”? La
riproduzione degli individui
è sociale perché comandata o controllata, in un continuo
scivolamento tra pubblico e privato.
Intendo parlare della riproduzione degli individui in una società data. Riproduzione sociale contrapposta a individuale, pubblica contrapposta a privata, comandata e sottoposta a regole piuttosto che libera nelle scelte, produttrice di solitudini e frustrazioni al posto di gioiose cooperazioni.
Nelle società occidentali1 la riproduzione degli individui è sottoposta ad un’oscillazione costante tra il sociale e il privato, con il sociale che si presenta sotto forma di comando diretto, organizzato da leggi, dalla spesa pubblica, da costumi, da regole morali, che appiattiscono i desideri e un privato volgarmente idealizzato come spazio di libertà, ma che si svela essere nella gran parte dei casi abbandono, miseria, frustrazione, impotenza, solitudine.
La forma sociale della riproduzione degli individui non è solo il welfare (che nella fase fordista ha funzionato come controllo sulla riproduzione della forza lavoro e oggi è solo l’ombra di una spesa statale ormai ridotta a poca cosa) ma è anche l’insieme delle visioni che le società hanno del rapporto sociale tra i sessi e dello sviluppo, della crescita e della formazione delle persone. Leggi tutto
Quella che segue è la trascrizione dell'intervento tenuto nello scorso aprile a Pistoia all'interno del seminario "La cultura di massa dall'emancipazione all'alienazione". Sui numeri 182-183 e 184 abbiamo pubblicato le altre relazioni
In poco
più di trent'anni, dall'inizio degli anni ottanta a oggi, le
conquiste di secoli di lotta delle classi
subordinate - salari, condizioni di lavoro e di vita
dignitose, diritto all'assistenza sanitaria, e alla
pensione, ampliamento degli spazi democratici
- sono stati spazzati via senza incontrare praticamente
resistenza. Voi vivete letteralmente in un altro mondo,
rispetto a quello in cui è
vissuta la mia generazione.
Forse vi può essere utile apprendere qualche cenno biografico su chi vi sta parlando per aiutarvi a capire. Ho sessantasette anni, non ho visto la guerra, ma ho vissuto altre grandi mutazioni. Quando insegnavo all'università di Lecce, ora sono in pensione, iniziavo sempre il corso con questa breve nota autobiografica, perché sono convinto che non esista alcun sapere, alcuna conoscenza, anche quelle che si pretendono scientifiche, che non sia situata. Parliamo sempre da un punto di vista: appartenenza di genere, di classe, appartenenza a un'epoca storica e alla sua cultura, eccetera... E quindi il mio punto di vista - per quanto io possa essere dotato di autoconsapevolezza critica, capacità di auto-distanziamento o di autoironia - è determinato da tutti questi fattori.
L'età ve l'ho già detta. Ho fatto diversi mestieri perché ho sempre avuto l'abitudine - quando non mi sentivo più a mio agio in un determinato ruolo - di cambiare vita, buttando via quello che oggi si chiama il mio "capitale sociale" per ricominciare da zero. Mio padre era un artigiano di origini contadine nato nel 1903, quindi ha fatto in tempo a vedere la ritirata di Caporetto, i disertori che venivano accolti nei fienili dai contadini del suo paese e, quando venivano trovati dai carabinieri, fucilati sul posto. Leggi tutto
È sistematico: ogni volta che si approfondisce lo scontro sul governo, il conflitto nel Pd si surriscalda. Ed è altrettanto sistematico che la minoranza dem, la sedicente sinistra interna, alzi la voce e minacci sfracelli. Per poi pentirsene e allinearsi obbediente.
I fatti, innanzi tutto. La Direzione nazionale del Pd, riunitasi venerdì 22, segue l’ennesima grave decisione della minoranza interna, quella di votare compatta in senato lo scempio della Costituzione, fornendo al governo — insieme ai senatori verdiniani — un contributo indispensabile (una ventina di voti) all’approvazione della controriforma. È stato un gesto clamoroso di sostegno al governo e al suo capo, dopo una settimana nera per Renzi, in gravi difficoltà per lo scontro politico generale sui diritti delle coppie omosessuali e per il profilarsi di qualche seria sconfitta alle prossime amministrative. Non solo. La «sinistra» del Pd ha soccorso il presidente del Consiglio proprio nel momento di massima sofferenza per lo stringersi di una micidiale tenaglia: da un lato l’attacco di Juncker per le critiche italiane all’austerità europea; dall’altro lo stillicidio di indiscrezioni e il procedere della talpa giudiziaria in merito alle vicende bancario-corruttive di Arezzo, che vedono pesantemente coinvolti pezzi del cerchio magico renziano e figure di rilievo degli entourages famigliari del ministro per le riforme e dello stesso presidente del Consiglio.
Nella riunione della direzione la minoranza ha lamentato la mancanza di «agibilità politica» nel partito, ha posto la questione del doppio ruolo del segretario-premier, che lo indurrebbe a trascurare il lavoro nel partito, e ha attaccato per i voti dei verdiniani in senato, che comportano a suo giudizio un allargamento della maggioranza incompatibile con la vocazione riformista del Pd. Leggi tutto
Leggo la notizia sull'ennesimo giro di vite contro i "furbetti del cartellino" e mi viene da ridere. Lavoro da quasi dieci anni nella Pubblica Amministrazione e una volta ogni sei mesi circa mi imbatto in una notizia del genere, montata ad arte, perchè non c'è nulla di nuovo. E’ banale, ma da che mondo è mondo, nel pubblico come nel privato, la legge dice che se non vai a lavorare senza un giustificato motivo, o se dichiari di essere a lavoro e invece sei, per dire, a fare la spesa, vieni punito e puoi essere licenziato.
La grande novità, sbandierata dal Governo, è che col nuovo Dlgs in discussione la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sarebbe automatica e obbligatoria, senza appello, in caso di flagranza di reato. Fine della pacchia per i fannulloni, i rubastipendio? Nemmeno per idea!
Qualche furbetto, in dieci anni di lavoro, l'ho visto: qualcuno che entra più tardi, oppure esce prima, fingendo di aver "dimenticato" di marcare - può succedere, negli uffici dove non ci sono i tornelli - e poi chiede al collega o al responsabile di turno di correggere "l'errore" direttamente dal computer. C'è anche chi compare in ufficio, poi misteriosamente sparisce per tornare ore dopo. Pochissimi casi, per la verità: la maggior parte di noi arriva spessissimo in anticipo - se vai a lavoro coi mezzi pubblici tendi a prendere i primi della mattina, altrimenti rischi di non arrivare più - e molti restano anche oltre l'orario - perchè gli uffici sono per la maggior parte, checché se ne dica, sottodimensionati, il lavoro è tanto e i dirigenti sono col fiato sul collo...
Leggi tuttoRecensione del volume
Economia e luoghi
comuni, Convenzioni, retorica e riti
a cura di Amedeo Di Maio e Ugo
Marani, L’Asino d’oro edizioni, 2015
edizione cartacea 18 €; e-book 8
€ Link
“Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più.”(1) Con questa consapevolezza, dichiarata nelle parole di Ludwig Wittgenstein, si faceva strada nella Cambridge del periodo tra le due guerre l’idea che la complessità del mondo non può essere imbrigliata in rigide codifiche linguistiche e men che meno lo può essere quella che caratterizza il sistema delle relazioni sociali e i fatti dell’economia. In quel contesto John Maynard Keynes, nel fitto confronto con il pensiero dei filosofi cantabrigensi che aveva accompagnato l’evoluzione del suo pensiero, si accingeva a spiegare perché la “grande crisi” di quegli anni dovesse essere considerata endemica al capitalismo e connaturata alla dimensione dell’incertezza che sta in capo alle decisioni di investimento degli imprenditori. E’ una critica radicale quella che Keynes muove alla teoria tradizionale neoclassica e alla credenza che il mercato sia dotato di capacità di autoregolazione, che relega la sottooccupazione del sistema economico a fenomeno accidentale e del tutto transitorio. E risulta tanto più radicale quanto più si riconosce che ciò che la anima non consiste nel “trovare crepe logiche nella sua analisi, quanto nell’indicare che i suoi presupposti non sono soddisfatti mai o quasi mai, e che di conseguenza non può risolvere i problemi economici del mondo reale”. Leggi tutto
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Marx 21 ha tradotto (da qui) l'importante intervento di Emiliano Brancaccio all'incontro di Parigi del 23-1-2016 per un Piano B per l'Europa, un piano da preparare nel caso i tentativi di riforma dell'Unione Europea non funzionassero. Un piano sempre più necessario, come mostra la vicenda greca. Le proposte di Emiliano Brancaccio hanno creato un vivace dibattito all'incontro di Parigi, in particolare per quanto riguarda l'imposizione sui controlli di capitale e sulle merci tra i paesi, come mostra questo video, dove Martin Höpner (Max Planck Institute, Germania) sostiene una riproposizione dello Sme con l'imposizione di rivalutazioni per i paesi in surplus
Oskar Lafontaine propone
di tornare al vecchio Sistema Monetario Europeo (SME). Per
rendere questa soluzione percorribile sarebbe
necessario imporre sanzioni ai paesi che adottano politiche
deflazioniste per accumulare surplus verso l’estero.
Un'efficace sistema di sanzioni
potrebbe basarsi su limiti alla indiscriminata mobilità dei
capitali da e verso questi paesi. A riprova del suo realismo,
tale soluzione
potrebbe essere applicata immediatamente e indipendentemente
da singoli paesi così come potrebbe essere estesa passo dopo
passo a ulteriori
accordi tra paesi.
1. Il Monito degli Economisti: il destino dell'Euro è
segnato
Nel Settembre 2013 il Financial Times pubblicò il cosiddetto “Monito degli Economisti”, una lettera firmata da molti influenti membri della comunità accademica internazionale appartenenti a diverse scuole di pensiero: Dani Rodrik, James Galbraith, Wendy Carlin, Jan Kregel, Mauro Gallegati e altri. [1]
Le idee alla base del Monito erano le seguenti. La continuazione delle politiche di austerità e di deflazione nell'Unione Monetaria Europea aumenterà gli squilibri tra paesi creditori e debitori, con una conseguente centralizzazione dei capitali dal Sud al Nord Europa e ulteriori crisi bancarie. Come risultato di questo processo, il destino dell'Euro sarà segnato. L'Unione Monetaria Europea, almeno come l'abbiamo conosciuta, tenderà a deflagrare e i responsabili politici saranno lasciati di fronte a una scelta tra differenti vie di uscita dall'Euro, ciascuna con differenti effetti sulle diverse classi sociali. Leggi tutto
Perché non finirà a
tarallucci e vino
C'è o non c'è un attacco tedesco all'Italia? Certo non ci sono i carri armati al Brennero, ma c'è o non c'è una guerra economica neppure tanto nascosta? Chi rispondesse con sicumera di no avrebbe di diritto l'iscrizione garantita al concorso a premi per l'ipocrita dell'anno. La cosa è così palese che persino i grandi imbonitori del politicallycorrect (uno per tutti: Paolo Mieli) preferiscono assumere una diversa postura: non negano l'attacco, ma pensano che all'Italia convenga far finta di non vederlo. Che nella classe dirigente non manchino i vigliacchi è cosa nota. Costoro non fanno mai seri bilanci storici. La loro narrazione del «sogno europeo» sta andando a pezzi? Non importa, conta solo continuare ad esser servi, a dire signorsì ai padroni di turno che gli staccano l'assegno mentre loro scrivono articoli sempre più timorati del Dio Euro(pa).
Ci sono poi i quadratori del cerchio. Costoro vedono già meglio il problema, ma pensano di poterlo risolvere con qualche brillante trovata lessicale.
Leggi tutto1.
Oltre un
secolo fa Hilferding scrisse il suo principale (e famoso)
libro: Il capitale finanziario. Alcuni marxisti,
presi da troppo facile entusiasmo,
lo considerarono il nuovo Il Capitale o comunque la
sua continuazione, una sorta di IV libro. Questo testo è nella
sostanza
invecchiato. Lenin lo criticò subito perché dava eccessiva
importanza al capitale bancario. Tuttavia, va detto che
Hilferding non fu
così sciocco come gli economisti odierni; il suo capitale
finanziario non è esclusivamente bancario, è un intreccio di
questo con
quello industriale. Indubbiamente però nell’intreccio tra i
due, il bancario veniva trattato come quello decisivo.
Ciò indubbiamente fu dovuto al carattere assunto dallo sviluppo economico nei paesi della seconda ondata industriale, tenuto presente che la prima riguardò la sola Inghilterra. Quelli della seconda erano soprattutto Germania, Giappone; e indubbiamente gli Stati Uniti, paese che ebbe però caratteristiche particolari (non notate all’epoca), prese più volte da me in esame. La seconda ondata di industrializzazione vedeva in primo piano le società per azioni, un già avanzato processo di centralizzazione dei capitali (da non confondere con la concentrazione come sovente si fa) e la conseguente, iniziale, presa in considerazione di quella forma di mercato detta monopolio; anche se, più precisamente, si sarebbe dovuto parlare di oligopolio come più tardi infatti si fece.
Lenin, distanziandosi dall’impostazione di Hilferding, usò la felice espressione di simbiosi per indicare quell’unione di bancario e industriale che dà vita al capitale finanziario. Leggi tutto
Il 28 dicembre 2015 Ian Murdock, colui che creò Debian, è morto, ma cosa ci ha lasciato in eredità?
Il 28 dicembre 2015 Ian Murdock è morto. Ancora non ne sono chiare le cause: dal suo account twitter, ora chiuso, emergono frasi inquietanti come: "Scriverò più tardi di più sul mio blog. Ma la polizia mi ha picchiato [...]. Mi hanno mandato all'ospedale." e "mi hanno seguito a casa. Poi mi hanno buttato fuori e lo hanno fatto di nuovo." e ancora: "Il resto della mia vita sarà votata a combattere contro gli abusi della polizia".
Comunque sia andata sta di fatto che è venuta a mancare una delle figure più importanti nel campo dell'open software, colui che creò Debian nel 1993 (la "ian" viene dal suo nome mentre "deb" è il nome dell'allora sua fidanzata Deborah), un sistema operativo composto unicamente da software libero, sviluppato con la collaborazione di migliaia di volontari che da ogni parte del mondo sono accomunati dal comune ideale di rendere la conoscenza e gli strumenti per ottenerla accessibili a tutti, garantendo costante attenzione e aggiornamenti al sistema operativo (QUI il manifesto ). Un sistema operativo, quindi, in aperto contrasto con le logiche capitalistiche che si riscontrano invece in altri OS, con la necessità di acquistare licenze di utilizzo.
Ma perchè l'Open Source è importante?
Se qualcuno ha una buona idea la mette a disposizione di tutti, poi chi ha maggiori conoscenze, o altre idee, migliora l'idea iniziale e la mette nuovamente a disposizione di tutti, e così via. Leggi tutto
Ci capita sempre più di frequente di cominciare i nostri articoli con la classica locuzione “credevamo di essere arrivati al fondo e invece continuiamo a scavare nella merda”. O qualcosa di simile. Riprodotta troppe volte diventa fastidiosa, eppure non sapremmo davvero come diavolo iniziare un ragionamento riguardo alla polemica che imperversa su ogni media sulle stramaledette statue coperte per la visita del presidente iraniano Rouhani.
L’inutile, strumentale, marginalissima vicenda campeggia da due giorni su ogni quotidiano nazionale, ogni telegiornale, ieri addirittura al centro di due talk show nazionali in prime time, protagonista di polemiche, richieste di dimissioni, articolesse imbizzarrite, che ribadiscono la sacralità (e la superiorità) dei nostri valori su quelli del profugo iraniano, capitato per caso e utile solo in vista dello spoglio controllato delle risorse energetiche e umane del paese mediorientale da parte delle multinazionali occidentali. Descrive meglio questa vicenda lo schifo di mondo in cui viviamo e in cui lentamente ci incattiviamo che le fredde analisi di un sistema produttivo incapace di generare profitti per eccesso di produttività.
Fosse solo il piano economico il terreno dello scontro, avremmo già il comunismo da un secolo e mezzo! Viviamo evidentemente in un paradosso di questo tipo. Anche noi cadiamo nel tranello di commentare una non-notizia. Eppure, se lo facciamo, è per smascherare il riflesso pavloviano di unacerta sinistra prontamente accorsa in difesa del sistema dirittoumanista ordoliberale (con Sel in prima fila: “Renzi spieghi questa vergogna!”). Il tranello qui sarebbe entrare nel merito della vicenda, una vicenda che non ha alcun merito.
Leggi tuttoNel 1949,
il filosofo e psichiatra tedesco Karl Jaspers, pubblicava
“Origine e senso della storia”, oggi
riproposto dopo lunga assenza da Mimesis edizioni (2014, 28
euro). In esso vi era contenuto una osservazione divenuta poi
patrimonio della riflessione
dell’uomo sulla sua propria storia. La constatazione che tra
l’800 ed il 200 a.e.v., si è registrata una sincronia di
pensieri e di
pensanti che fonda tutto quanto si è poi successivamente
espresso nella formazione delle principali civiltà. Confucio,
Laozi, Buddha ma
anche la composizione delle Upaniṣad, Zarathustra, la
composizione dell’Antico testamento, i Greci, filosofi,
scienziati, storici,
drammaturghi, politici ma anche mitografi come Esiodo ed
Omero. Jaspers individuò questo periodo come una svolta, un
tornante che
s’inerpica intorno ad un asse, da cui l’uso del termine
“assiale”.
Jaspers in base alle visioni e conoscenze dell’epoca, supponeva non vi fosse stata interrelazione di fatti sottostanti, queste espressioni culturali erano più o meno sincroniche nel tempo ma non furono dovute ad un contagio umano negli spazi dell’Eurasia. Quest’ultima assunzione, oggi che con l’ultima globalizzazione vediamo all’opera la più recente e potente espressione di quel fenomeno ricorsivo che è la tendenza del genere umano ad interconnettersi formando una più o meno fitta, unica, rete fatta di reti, è discussa. Un’intero comparto del’evoluzione dello sguardo storico, si sta muovendo da qualche decennio, ad assumere il mondo intero come oggetto di narrazione e riflessione, la World history. Questo tipo di storia che ha in oggetto il mondo, predilige la lettura proprio della relazioni, che si suppongono esser state vaste e profonde, sin dai tempi più antichi.
Uno dei suoi founding father è lo storico canadese, quasi centenario ma vivente, William H. McNeill che è quasi impubblicato in Italia. Leggi tutto
“Gratta molti comunisti, e troverai degli sciovinisti gran-russi” (Lenin).
Il presidente russo,
Vladimir Putin, ha criticato l’operato di Lenin, leader
bolscevico ed architetto della Rivoluzione russa. A
detta di Putin le teorie leniniste sull’autodeterminazione dei
popoli sarebbero una ‘’bomba atomica’’, la vera
causa della distruzione dell’Urss. La posizione di Putin è
impegnativa e non può essere liquidata con poche battute. Per
il capo
del Cremlino “E’ stato proprio questo modo di pensare – il
presidente russo si riferisce alla teoria bolscevica
sull’autonomizzazione – che ha portato al crollo
dell’Unione Sovietica”, “La rivoluzione mondiale
non ci
serviva”. Putin non attacca l’esperienza sovietica, ma
rinviene nel leninismo la ‘bomba’ che ha fatto crollare
l’esperimento nazionalcomunista staliniano. Questa
contrapposizione Lenin/Stalin – contrapposizione reale – ha
una sua precisa
genesi storica ma, prima di dare le dovute spiegazioni, è bene
chiarire cosa intendesse Lenin per ‘’diritto delle nazioni
all’autodecisione’’.
La reale posizione di Lenin sulla questione nazionale
Per prima cosa chiariamo che cos’è una nazione. Una nazione secondo Stalin è ‘’ un’entità stabile di linguaggio, territorio, vita economica, formazione psicologica, che si è storicamente evoluta e si manifesta in una cultura comune’’ ( Il Marxismo sulla Questione Nazionale e Coloniale ). Leggi tutto
Il problema
“La televisiùn la g’ha una forsa de leùn… la televisiùn la t’endormenta cume un cuiùn” – cantava Jannacci agli albori della neotelevisione. Nel 1999 Mario Morcellini, studioso dei media e dell’educazione, invece avrebbe pubblicato, in polemica con vari pedagogisti e psicologi, un volumetto dal titolo provocatorio: La televisione fa bene ai bambini. La questione oggi può parere superata, come la stessa televisione generalista “calata dall’alto”: alla fine –a causa soprattutto dei canali tematici e di Internet- anche in Italia sono sostanzialmente diminuiti quanti la considerano piatto unico della loro dieta mediatica. Ma per capire il nostro presente –la situazione attuale della nostra cultura popolare- la questione televisiva resta molto importante. Tanto più che la pubblicità, che è diventata un fenomeno sociale veramente pervasivo da noi a partire dai tempi del boom delle tivù private, lo è a ancora oggi e si è prontamente trasferita nei nuovi media, mettendo sotto assedio anche quelli vecchi (si pensi alla pubblicità per telefono) e avvolgendoci letteralmente perfino sui mezzi di trasporto (ci sono autobus e treni la cui carrozzeria è fasciata dalla pubblicità anche all’esterno, finestrini compresi).
Per questo è importante comprendere il ruolo della neotelevisione commerciale egemonizzata dalla pubblicità nella formazione dei cittadini all’epoca della nascita della cosiddetta “Seconda Repubblica”.
Leggi tuttoLo sguardo di Jared Vennett, investitore per Deutsche Bank, è sveglio e ammiccante. Il ruolo di narratore interno, deputato a rompere la quarta parete, gli sta a pennello; eppure è proprio Vennett a mettere subito le cose in chiaro, durante i primi minuti de La grande scommessa: non è un eroe, nemmeno un antieroe, è solo uno che racconta i fatti nudi e crudi. Il personaggio, interpretato da un Ryan Gosling pesantemente truccato, è già a una notevole distanza dal Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street. Non ammalia, non incanta, non fa desiderare di essere come lui. Addirittura, ci spiffera il finale della storia, una storia che già conosciamo.
Dovrebbe essere tutto ben noto, stiamo parlando della crisi dei mutui subprime del 2008, ma il film diretto da Adam McKay tratta lo spettatore da completo ignorante, non dando quasi nulla per scontato. La scelta è corretta, perché sono passati meno di dieci anni e quasi nessuno ne parla più. Sono quindi frequenti le interruzioni del racconto, soprattutto durante la prima ora, per spiegare alcuni concetti fondamentali del mercato finanziario, interventi affidati a celebrità insospettabili come Selena Gomez o Margot Robbie, un modo irriverente per rendere una materia ostica alla portata di tutti.
The Big Short strizza l’occhio alla forma documentario, è quasi sorprendente che un regista come McKay, di solito impegnato nelle commedie di Will Ferrell, sia riuscito a produrre un lavoro più dalle parti di Michael Moore che di Scorsese o Stone. Leggi tutto
Giulietto Chiesa, impossibilitato a partecipare al convegno, manda un breve intervento scritto. Con una sfida intellettuale e politica di fronte al pericolo guerra
Cari colleghi e amici,
trovandomi fuori Italia non posso prendere parte all'iniziativa promossa dal Movimento 5 Stelle sul tema - che io ritengo assolutamente cruciale - della partecipazione dell'Italia alla Nato. Cerco di farvi pervenire, nella inevitabile forma sintetica, le mie opinioni.
La discussione in materia è benvenuta. Sono decenni, letteralmente, che questo tema è rimasto al di fuori dell'attenzione pubblica in Italia. Al punto che la stragrande maggioranza degli italiani non sanno nulla della Nato, di come è nata, di come è stata utilizzata e da chi, di come si è trasformata nel tempo alle spalle dei cittadini di un paese che, da tempo, non è più sovrano.
Plaudo quindi alla vostra iniziativa e alle domande che voi avete posto, a voi stessi e a tutti gli italiani. Esse aiuteranno molti a capire meglio la situazione nella quale ci troviamo - e ci troveremo - di grave pericolo per le sorti dei nostri figli.
È a mio avviso del tutto evidente che la Nato è divenuta lo strumento che prepara una guerra di vaste dimensioni contro la Russia, oggi, e che si accinge a imporre le decisioni dell'Occidente al resto del mondo. Il secondo obiettivo, dopo la Russia, è già stato individuato: è la Cina. Non c'è bisogno di portare qui documenti a sostegno: sarebbero volumi. Leggi tutto
Proprio quando avevo
terminato la lettura del saggio pubblicato presso
DeriveApprodi da Peppe Allegri e Papi Bronzini
(Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo
sociale oltre la subordinazione) mi sono imbattuto in
una sentenza del Tribunale
di Potenza che merita menzione e commento.
La motivazione è stringata. Sostiene il Giudice del Lavoro, dottoressa Isabella Tedone, che non esiste nel lavoro autonomo alcuna presunzione di onerosità della prestazione richiamando un (per la verità solo preteso) precedente di Cassazione in tal senso (2769/2014, basta scorrerla in motivazione per capire che in realtà parla d’altro). Pacifico, comunque, che il nostro fosse un collaboratore non subordinato e che avesse fornito ad un quotidiano on line (La Nuova del Sud) una serie numerosa di servizi giornalistici, nell’arco di un biennio, mai retribuiti. Ma il Giudice nega l’esistenza di un diritto al pagamento, chiarendo le ragioni che avevano rafforzato tale convincimento: all’epoca dei fatti il ricorrente aveva trent’anni e, come noto, nel settore in questione è tutt’altro che infrequente, magari nelle more del conseguimento del titolo di pubblicista, che il giornalista si presti a consentire, anche gratuitamente, la pubblicazione dei propri articoli, anche solo allo scopo di acquisire notorietà ed esperienza. Per rivendicare un compenso non basta, secondo il Tribunale di Potenza, dimostrare lo svolgimento di attività lavorativa in favore di un’impresa operante nel settore della comunicazione; il collaboratore autonomo deve farsi carico di provare anche un accordo con chi utilizza le sue prestazioni circa la retribuzione pattuita. In conclusione il povero cococo non ha preso un centesimo ed ha pure pagato tremila euro di spese processuali. Leggi tutto
Nato 125 anni fa, Gramsci è il pensatore italiano più letto e studiato al mondo dopo Machiavelli. Il suo pensiero è infatti ancora attuale per chi non intende limitarsi a comprendere la realtà, ma mira a trasformare radicalmente un mondo nel quale l’1% della popolazione si accaparra più ricchezze del 99%, in cui le 62 persone più ricche si appropriano di maggiori risorse del 50% più povero, ossia di 3,6 miliardi di persone
L’opera
di Gramsci può essere interpretata come un trait
d’union fra il marxismo della Terza
Internazionale e i successivi sviluppi che ha avuto la
riflessione marxista nel mondo occidentale. Gramsci,
infatti, si pone il compito di
tradurre il pensiero di Lenin, adattandolo alle peculiari
condizioni delle società a capitalismo avanzato.
Antonio Gramsci nasce ad Ales (Cagliari) nel 1891. Terminate le scuole elementari, è costretto a lavorare, ma continua a studiare e, nonostante la difficile situazione economica della famiglia, riesce a iscriversi all’Università di Torino. Sono anni molto duri per la condizione di povertà, l’isolamento e un grave esaurimento nervoso.
Rimessosi, si iscrive al Partito Socialista e decide di lasciare l’università per dedicarsi all’attività pubblicistica sui giornali del partito. Il crescente impegno politico non lo porta ad abbandonare gli interessi culturali: diventato direttore di un piccolo settimanale di propaganda di partito, “Il grido del popolo”, lo trasforma in una rivista di cultura. In seguito fonda «Ordine Nuovo», di cui è direttore. La rivista ha un ruolo di direzione nel movimento dei consigli, durante l’occupazione delle fabbriche del 1920. La sconfitta del movimento, scarsamente appoggiato dal Partito Socialista, porta Gramsci a seguire Amedeo Bordiga nella costruzione del Partito Comunista d’Italia (1921). Leggi tutto
di Antonio Pagliarone
http://www.sinistrainrete.info/estero/6501-guglielmo-carchedi-l-imperialismo-oggi-che-cos-e-e-dove-va.html
Non si
capisce cosa c'entrino i riferimenti all'imperialismo di
Lenin con il resto dell'articolo.
Viviamo nel nuovo millennio e si insiste nel blaterare di
imperialismo quando ciò che sta accadendo mostra il totale
stravolgimento delle
banalità del passato. Ma oltre a ciò viene presentato il
seguente grafico che illustrerebbe l'andamento della
produttività in
Germania e Italia.
Si tratta
di una clamorosa cantonata.
La produttività in Germania ha avuto negli ultimi anni una fra le crescite più basse del mondo (vedi ad es. Lapavitsas e vedi il grafico sottostante a quello che Carchedi ha tratto dall'articolo di Giussani sull'Eurozona apparso sul n 1 di Countdown, dove ci sono assieme il saggio di accumulazione netto tedesco e il tasso di variazione della produttività della Germania - i quali, guarda caso, vanno insieme-, che sono anche più basse della Grecia. Esattamente come l'accumulazione in capitale fisso che è pressochè zero. Cose che sono state notate da tutti al mondo.
Tasso di crescita della produttività del lavoro (PIL/L) in
Italia e Germania
Germania. Saggio netto di accumulazione e tasso di variazione della produttività del lavoro. 1971-2012.
Suggerirei anche di visionare il grafico 12 relativo agli investimenti netti in Capitale fisso in Germania. 1951-2012 presente sempre nell'articolo di Giussani “L’Euro e la crisi dell’Eurozona”.
Giussani così commenta: “La diminuzione del saggio del profitto può spiegare il declino del saggio di accumulazione solo fino all’inizio degli anni ’80 (grafico 9). Dopo, il movimento del saggio di accumulazione assume una sua propria fisionomia discendente che lo porta a formare nel tempo una notevole massa di capitale monetario eccedente (grafico 11).L’interessante sarebbe capire come questo capitale è stato impiegato. Ma la Germania è altra cosa dagli Stati Uniti, e, in omaggio alle sue grandi tradizioni di libertà, tolleranza, circolazione delle idee, spirito critico e efficienza, non possiede statistiche pubbliche degne di tal nome, ergo dei flussi di capitale e reddito dell’economia tedesca sappiamo poco o nulla”
Suggerisco una lettura di tutto il poderoso articolo di Giussani che smentisce tutti i luoghi comuni sulla zona Euro che circolano regolarmente. Leggiamo meno i quotidiani pseudo economici e cerchiamo di andare a fondo alle questioni.
Come ogni
buon libro di filosofia, anche Del Comune parte
dalla
etimologia della parola. Munus in latino è “dono”;
da munus viene mutuum, che indica la
“reciprocità” (cfr. p. 22). Aggiungo io che risalendo
all’indoeuropeo si scopre che mit, da cui proviene
mutuum, indica “mettere un limite (mi)tra
due punti (t)”, “formare una coppia”,
“alternare”, “unire”, “capire”, “comprendere”. D’altronde il
greco
μάθησις è apprendimento e μάθος è conoscenza. La
congiunzione tedesca mit
mantiene molti di questi significati o permette, unita
a verbi o sostantivi, di dare il senso dell’unità o della
comprensione;
ancora in tedesco rimane una presenza del munus nel
gemein, “comune”, ad evidenziare che anche le
lingue germaniche
mantengono la stessa radice indoeuropea del latino.
Ritornando a Dardot e Laval, essi concludono rilevando che cum
e munus formano la parole
communis e, quindi: «Il termine “comune” è
particolarmente adatto a designare il principio politico di
una
co-obbligazione per tutti coloro che sono impegnati
in una stessa attività» (p. 22) e proprio in
questo senso lo usava
Kant. Se c’è una co-obbligazione, questa si fonda su una
co-partecipazione, quindi il comune è compartecipazione, se
non si
partecipa insieme non si è obbligati. Nella Rivoluzione
ungherese del 1956, i due autori, riprendendo una
suggestione di Castoriadis, vedono la
prima rivoluzione, cioè il superamento della divisione tra
la politica professionalizzata, il Partito comunista
ungherese, e la società
civile (cfr. p. 70). In quei giorni, tra il 23 ottobre e il
4 novembre 1956, la società civile ungherese instaurò una
“politicizzazione universale della società”, che esercitava
una democrazia diretta, fondata sulla vera eguaglianza
politica,
radicata in collettività concrete ed autogestite, i
Consigli, o, per dirla in russo, i Soviet.
Il neoliberismo, fase attuale dell’autoespansione del capitale sottopone la vita alla guerra e quest’ultima impone a tutti una conseguente violenza esercitata e/o subita.
Disoccupazione, povertà, conflitti etnici e religiosi costituiscono la trama dello sviluppo di questo modello. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre di più e sempre più poveri.
Sono stati rimossi con scelta voluta i grandi dispositivi della sanità pubblica, del pensionamento universale, dell’assistenza generalizzata ai deboli della società.
In Europa, perché in Usa sono stati già realizzati da tempo, questi processi, promossi dalla socialdemocrazia, risultano particolarmente veloci e precipitosi.
Il comando capitalista in questa stagione dalla fabbrica si è esteso all’intera società. La modalità dello sfruttamento si espande, instaura tecniche di appropriazione capitalistica nuove e, per la stragrande maggioranza delle persone, insostenibili. La sussunzione della società nel capitale oggi allarga indefinitamente lo sfruttamento sull’intero terreno sociale. Leggi tutto
In questi giorni sulle tv italiane è impazzato, nuovamente, il caso del vigile sanremese immortalato dalle telecamere della Guardia di Finanza a timbrare il cartellino in mutande. Tale solerzia degli autori dei vari canali televisivi è dovuta alla volontà di presentare le nuove norme sul licenziamento facile dei dipendenti pubblici scoperti a frodare l’amministrazione pubblica con assenze ingiustificate e retribuite grazie alla timbratura del badge fatta con vari artifizi.
Lungi da me difendere acriticamente coloro che frodano il proprio datore di lavoro sia esso pubblico che privato ma l’accanimento nei confronti del povero vigile ha un sapore di Medio Evo e di gogna che mi lascia sconcertato. Facile vedere in questo zelo farisaico usato contro il reprobo la voglia dei mass media, del Governo e di tutta una classe dirigente allo sbando di consegnare al popolino un capro espiatorio per far sfogare frustrazioni, ossessioni e cattiverie figlie di una infinita crisi economica che sta devastando intere generazioni.
Anche i paletti dello stato di diritto sembrano saltati: con il licenziamento prima di un regolare processo si appalesa una giustizia (sic) che ha del tribale e dell’animalesco. Non solo, licenziare una persona per un danno patrimoniale che la stessa procura ha quantificato in 1500 euro (questo almeno ci racconta la stampa) introduce anche il principio di una pena che può essere abnorme rispetto al reato commesso (sempre se commesso visto che ora la pena viene inflitta, a furor di popolo, prima di un regolare processo). Leggi tutto
Ci sono momenti impagabili e illuminanti nei quali il servilismo innato, l’ipocrisia e insieme la xenofobia profonda del Paese escono dalla tana dove sono a malapena nascoste e latrano la loro presenza. E’ accaduto proprio nel giorno della memoria con la polemica assurda per le pudenda delle statue castamente nascoste in occasione della visita del presidente iraniano Rouhani. La “censura” visiva non era stata affatto chiesta dal leader di Teheran, così come l’assenza del vino dai banchetti, diciamo che è stato un atto di cortesia così eccessiva da sconfinare nella piaggeria che però ha dato la stura ad assurde polemiche dal sottofondo xenofobo e a recriminazioni pseudo culturali probabilmente suggerite da un servilismo uguale e contrario.
La cosa è del tutto evidente perché queste operazioni di censura pubica, oltre ad essere state per qualche secolo primaria preoccupazione della chiesta cattolica che a questo fine devastò persino la Cappella Sistina con orridi mutandoni, sono cose che avvengono comunemente anche ai giorni nostri. Sette mesi fa sono stati coperti e nascosti manifesti (peraltro assai casti) della mostra di Tamara de Lempicka per non turbare la visita del Papa a Torino, senza che gli indignati di giornata abbiano detto nulla, mentre otto anni fa il governo decise di cancellare con qualche pennellata i capezzoli della Verità svelata dal Tempo di Tiepolo a Palazzo Chigi poiché poteva urtare “la sensibilità di qualche spettatore” che di certo non Rouhani. Leggi tutto
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In calce a questo articolo un primo provvisorio commento di Pagliarone, seguito da una replica di Carchedi
Punto Primo
Carchedi definisce l’imperialismo come “appropriazione, anche con la forza ma non solo, di plusvalore internazionale”. Cosa significhi lo sa solo lui. Secondo gli esempi che fa (petrolio e bilancia commerciale in deficit) sembrerebbe che teorizzi l’imperialismo come appropriazione ossia l’aggressione (militare ed economica) per rapinare materie prime o chissà che altro). Innanzitutto vorrei ricordare a Carchedi che nell’opuscolo “Imperialismo fase suprema del capitalismo” Lenin riprende le tesi di Bucharin e di Hilferding per diffonderle alle masse. In esso si fa riferimento all’espansione del capitale nei paesi arretrati per la realizzazione di plusvalore grazie al lavoro e a materie prime a basso costo. Non si tratta di appropriazione pura e semplice ma di classici investimenti di capitale. Naturalmente a quel tempo la guerra mondiale rappresentava lo strumento per poter realizzare l’obiettivo della conquista di aree di egemonia. Purtroppo l’epoca delle guerre mondiali preconizzata da Lenin si è rivelata erronea. Dopo il Secondo Conflitto mondiale (in realtà prosecuzione del Primo) non abbiamo mai più visto, e grazie al cielo non subiremo mai più, una devastazione del genere a meno che Carchedi non voglia paragonare le “guerre” che sono seguite al conflitto planetario terminato nel 1945 ad un conflitto imperialistico, allora saremmo veramente alla frutta. Ma Carchedi ci fornisce una sua definizione: “Allora che cos'è l'imperialismo? Se ci limitiamo all'aspetto economico, che è poi quello determinante, l'imperialismo è la concorrenza capitalista portata a livello internazionale. Leggi tutto
Uno dei paradossi del M5s è che è tutt’ora su valori molto sostenuti nei sondaggi, a pochi punti dal Pd, ma, nello stesso tempo si manifestano forti turbolenze interne: a Bologna è aspramente diviso sul sindaco da candidare, a Milano la candidata scelta meno di due mesi fa provoca molti malumori e dalla Casaleggio associati arriva il consiglio di ritirarsi, a Napoli addirittura si pensa di non presentare nessuno a causa delle divisioni interne mentre le cose vanno meglio a Torino e (forse) a Roma, mentre ci sono forti problemi con i sindaci eletti.
Il tutto mentre Grillo decide di fare il “Passo di lato” e togliere il suo nome dal simbolo, la vicenda di Quarto non è stata gestita al meglio nella comunicazione e sulla questione dei giudici costituzionali il gruppo parlamentare ha fatto una solenne fesseria sulla quale caliamo caritatevolmente un velo.
Inutile dire che se questa situazione dovesse protrarsi potrebbe dare frutti molto amari alle prossime amministrative e compromettere seriamente le politiche. Cari amici pentastellati attenti: la befana passa una volta nell’anno e non ogni settimana. Tre anni fa, il M5s ebbe un successo insperato ed al di là di ogni aspettativa, però poi fra la stucchevole polemica sugli scontrini, la processione delle espulsioni, l’assurda scelta di disertare le trasmissioni televisive e pasticci vari, venne sperperato un capitale ed alle europee arrivò il caffè amaro della flessione al posto della squillante vittoria sognata.
Leggi tuttoUnico tra le Nazioni della terra, il governo americano insiste che le proprie leggi e i propri dettami abbiano la precedenza sulla sovranità delle altre Nazioni. Washington sostiene il potere dei tribunali degli Stati Uniti nei confronti dei cittadini stranieri e rivendica la giurisdizione extraterritoriale dei tribunali USA su attività estere che Washington o gruppi di interesse americani non approvano. Forse la peggiore dimostrazione dello sprezzo che Washington prova per la sovranità degli altri Paesi è l'aver dimostrato il potere degli USA su cittadini stranieri basato esclusivamente su accuse infondate di terrorismo.
Vediamo alcuni esempi.
Washington prima costrinse il governo svizzero a violare le proprie leggi bancarie, poi costrinse la Svizzera ad abrogare le proprie leggi sul segreto bancario. Si presume che la Svizzera sia un paese democratico, ma le leggi di quel Paese sono decise a Washington da persone non elette dal popolo svizzero.
Consideriamo lo "scandalo del calcio" che Washington si è inventato, a quanto pare, allo scopo di imbarazzare la Russia. La sede del calcio internazionale è la Svizzera, ma questo non ha impedito a Washington di inviare agenti dell'FBI in Svizzera ad arrestare cittadini svizzeri. Provate ad immaginare la Svizzera che manda i propri agenti federali negli Stati Uniti ad arrestare cittadini americani. Leggi tutto
Un tempo le piazze si riempivano per manifestazioni per il lavoro e per i diritti sociali. Il Servo scendeva in piazza per difendere il salario e i suoi diritti contro le continue aggressioni operate dal Signore.
Oggi, invece, vediamo le piazze gremite solo per questioni legate al sesso e ai diritti civili, ossia per ciò che nemmeno sfiora i rapporti di forza dominanti. E’ il capolavoro del potere, che intanto può continuare indisturbato nella sua offensiva ai danni del mondo del lavoro.
È quanto avvenuto con le piazze di #SvegliatiItalia e #FamilyDay, i cui nomi già la dicono lunga: “sveglia Italia” ricorda sinistramente il motto “Deutschland Erwache” di nazistica memoria. Quanto a “Family Day”, trovo paradossale – per non dire di peggio – che i difensori dell’identità familiare violentino quella linguistica chiamando “family day” la loro manifestazione.
Laddove la lotta tra le classi andava pur sempre a confliggere con i rapporti di forza dell’economia, la lotta – favorita artatamente dall’odierno ordine del discorso – tra eterossessuali e omosessuali, tra immigrati e autoctoni, tra atei e credenti, tra rossi e neri, tra uomini e donne, tra cristiani e islamici non li sfiora nemmeno. Di più, li nasconde, vuoi perché direttamente non li prende di mira – su tutto oggi è lecito dissentire, fuorché sul rapporto di forza egemonico – vuoi perché, nella migliore delle ipotesi, come nella Lettera rubata di Edgar Allan Poe, occulta la lotta contro il classismo ponendola accanto a una galassia di altri micro-conflitti. Leggi tutto
Stanno suonando le
trombe del giudizio? L’orizzonte economico che si presenta nel
primo scorcio dell’anno 2016 suscita vivo
sgomento negli osservatori. Mario Draghi ripete l’esorcismo
estremo: «Whatever it takes». Ma il pericolo attuale non è
più quello di un collasso finanziario come nel 2008. Il
pericolo è quello di una crisi di sovrapproduzione globale, e
di una stagnazione
di lungo periodo. Il crollo delle borse non è che un segnale.
Da sei anni le banche centrali prestano denaro a costo zero, e
da un paio di anni
il petrolio scende ininterrottamente. Cionostante la domanda
cala, e la stagnazione persiste, si aggrava, tende a divenire
recessione.
Il 10 gennaio il «New York Times» ha pubblicato un articolo di Clifford Kraus dedicato agli effetti che il calo della domanda cinese produce sull’economia globale:
«Per anni la Cina s’è ingozzata di ogni tipo di metalli e di energia perché la sua economia si espandeva rapidamente; le grandi aziende hanno ampliato aggressivamente le loro operazioni di estrazione e produzione, scommettendo sulla prospettiva che l’appetito cinese sarebbe continuato per sempre. Adesso tutto è cambiato. L’economia cinese si contrae. Le compagnie americane, che tentano disperatamente di pagare i loro debiti mentre aumentano i tassi di interesse, debbono continuare a produrre. Questo eccesso spinge i prezzi verso il basso, e colpisce le economie dipendenti dalla produzione di merci di consumo come il Brasile e il Venezuela, ma anche i paesi sviluppati come l’Australia e il Canada» (Clifford Kraus, «New York Times»: China ’s Hunger for Commodities Wanes, and Pain Spreads Among Producers).
Negli anni passati le grandi corporation hanno investito somme enormi nell’estrazione di petrolio, nella raffinazione dello shale gas, nelle tecnologie necessarie per il cracking, e così via. Il sistema bancario globale ha finanziato queste operazioni. Leggi tutto
Premessa
Sono passati ormai ventisei anni da quando Federico Caffè ha deciso di scomparire: riformista solitario e sempre combattivo, ma forse anche uomo per cui i dolori privati e l’infelicità pubblica avevano superato la soglia della sopportabilità. Non è facile parlarne in modo misurato. Come recita il titolo di un libro di qualche decennio fa, sopprimere la distanza uccide. Forte la tentazione di sovrapporre le proprie preferenze e i propri giudizi su una figura che ha sempre brillato per equilibrio dottrinale nella passione conoscitiva, per volontà determinata nella battaglia riformista, per approfondimento concettuale nella costante tensione all’intervento. Un economista che non ha mai voluto farsi profeta, e che ha però saputo essere un maestro.
Ha detto Mario Draghi, nella giornata in ricordo di Caffè svoltasi a Roma il 24 maggio 2012: «Ai suoi allievi ha insegnato a pensare con la propria testa, non ha trasmesso un credo vincolante. Ha aiutato i suoi studenti – scienziati dell’economia, pensatori, servitori dello Stato e delle Istituzioni, cittadini consapevoli – a scoprire se stessi». Le due raccolte di articoli per le edizioni Studium – questo Economia senza profeti: Contributi di bibliografia economica (1977; d’ora in poi ESP, tutti i riferimenti sono da considerarsi infra e riguardanti questa edizione) e L’economia contemporanea. I protagonisti e altri saggi (1981, d’ora in poi EC, citato nella nuova edizione curata da Stefano Zamagni e uscita in questa stessa collana nel 2013): due libri che vanno letti e valutati assieme, e che congiuntamente danno un accesso privilegiato a questo economista – possono aiutarci ad andare oltre la celebrazione, e consentirci di intavolare un dialogo con Caffè una generazione dopo. Leggi tutto
Ogni
cosa oggi sembra portare in
sé la sua contraddizione. Macchine, dotate del meraviglioso
potere di ridurre e potenziare il lavoro umano, fanno morire
l'uomo di fame e lo
ammazzano di lavoro. Un misterioso e fatale incantesimo
trasforma le nuove sorgenti della ricchezza in fonti di
miseria.
Le conquiste della tecnica sembrano ottenute a prezzo
della loro stessa natura. Sembra
che l'uomo nella misura in cui assoggetta la natura, si
assoggetti ad altri uomini o alla propria abiezione. Perfino
la pura luce della scienza sembra
poter risplendere solo sullo sfondo tenebroso
dell'ignoranza. Tutte le nostre scoperte e i nostri
progressi sembrano infondere una vita spirituale
alle forze materiali e al tempo stesso istupidire la vita
umana, riducendola a una forza materiale.
Karl Marx
La
settimana scorsa, il 19 Gennaio, è morto a 85 anni Richard
Levins, contadino, rivoluzionario, biologo,
matematico, filosofo della scienza. Negli Stati
Uniti, dove è nato e ha vissuto la maggior parte della sua
vita, la notizia circola
grazie a qualche articolo e all’annuncio di morte sulla sua
pagina web di Harvard, l’università dove ha insegnato nel
dipartimento
di Ecologia e Sanità Pubblica per quasi 50 anni. In Italia il
suo nome lo può aver incontrato chi si sia imbattuto in un
qualsiasi
manuale di Ecologia, ma la sua scomparsa rischia di passare
del tutto inosservata. E sarebbe un vero peccato.
Non tanto perché sia importante ricordare i notevoli risultati e la sua vita straordinaria da scienziato eccezionale e militante infaticabile, ma perché rischieremmo di perdere il suo prezioso insegnamento sulla sintesi dei due aspetti. Perché per Richard Levins era impossibile tenerli separati: per lui che veniva da un ambiente familiare proletario ma colto -di quel tipo cultura che è uno dei più bei frutti dell’impegno politico-, in cui “era scontato che il mondo fosse ricco, complesso, interconnesso e soprattutto pieno di cose interessanti”; un ambiente in cui “la realizzazione personale coincideva con il contributo che si dava per migliorarlo”; per lui, appunto, era facile, addirittura “inevitabile”, come sapeva già da ragazzino, crescere da “scienziato e comunista”. Leggi tutto
Pur con il massimo rispetto per gli sforzi del diplomatico italo-svedese Staffan de Mistura, inviato speciale dell'Onu per la Siria, ci vuole un bel coraggio a chiamare "colloqui di pace" quelli che cominceranno mercoledì (anche se le delegazioni sono già all'opera da venerdì) a Ginevra.
Da un lato ci sono il regime di Assad, la Russia e l'Iran (più l'Hezbollah libanese) che sanno perfettamente ciò che vogliono: nessun discorso, ora, su una cacciata di Assad; ora stop alle ostilità, poi avvio di un processo politico di dialogo tra le parti che porti a libere elezioni. Lì sarà il voto dei siriani a determinare il futuro del Paese. Ciò in cui spera l'asse russo-sciita è chiaro: impedire la spartizione della Siria (almeno Turchia, Israele, Giordania ne vogliono un pezzo) e, arrivati al momento del voto, presentare un personaggio nuovo, un volto diverso da quello di Assad, ormai troppo compromesso, che possa garantire al Paese una continuità nelle alleanze con Mosca e con Teheran.
Ma questi sono quelli che la propaganda americana e i grandi media descrivono come i "cattivi" della situazione. Sull'altro lato del tavolo delle trattative i "buoni".Anche loro, né più né meno di quegli altri, difendono precisi interessi. Ma lo fanno in un modo così ambiguo da minare alla base qualunque ipotesi di trattativa e da trasformarsi in complici più o meno consci del jihadismo.
Esagero? Sul terreno, cioè nel Nord della Siria, gli Usa collaborano con i combattenti curdi del Pyd (Partito dell'Unione Democratica), ai quali forniscono armi, mezzi, addestramento eintelligence. Leggi tutto
Nella “guerra dell’euro” non contano tanto i “dati” quanto come questi vengono utilizzati per sostenere una tesi: la funzionalità e bontà dell’euro. Come dice un noto e intelligente opinionista, non conta il “dato” ma il “fatto”. Posto un obiettivo dialettico (il sostegno all’euro), si ricercano e si utilizzano solo quei dati che possono essere presentati di volta in volta in modo da rafforzare l’obiettivo. Ma i dati raccontano una storia diversa: la disfunzionalità e la distruttività dell’euro.
Ecco alcuni fatti che vengono costantemente riproposti in questi giorni:
È agevole dimostrare (ed è stato ampiamente dimostrato) che invece: Leggi tutto
Il Neorealismo è stato un momento testimoniale di autoriflessione della società italiana che usciva dalle macerie del fascismo e della seconda guerra mondiale o un “marchio” identitario finalizzato a una rifondazione degli italiani sulla base di una complessiva rimozione? Gaspare De Caro, mancato a Roma il 6 ottobre 2015, nel suo ultimo libro Rifondare gli italiani? Il cinema del neorealismo ci ha lasciato in eredità questa domanda, insieme, ovviamente, a un’articolata e pessimistica risposta.
Storico del rinascimento e dell’età contemporanea, De Caro è stato uno dei protagonisti della stagione operaista (Toni Negri parla del suo contributo ai Quaderni Rossi come di “un’introduzione alla metodologia storiografica legata all’impegno politico” che ha fatto scuola per una generazione di intellettuali) con studi e interventi che hanno saputo attraversare con lucidità gli ultimi decenni della vita italiana, offrendo riflessioni circostanziate sulla società, il capitale, la composizione di classe, la cultura.
Nella sua “controstoria” De Caro ribadisce la continuità fra il neorealismo e la cinematografia italiana dei secondi anni ’30. L’esigenza di un cinema della testimonianza capace di illuminare la quotidianità delle condizioni sociali era stata preparata già durante il fascismo: il regime aveva un ventre culturale mobile, in grado di digerire e fare coesistere diverse istanze, come l’evasione dei telefoni bianchi, i non troppo convinti film di propaganda ideologica ma anche l’esigenza di rinnovamento elaborata in riviste come Cinema, diretta da Vittorio Mussolini, in cui intellettuali e registi prefiguravano un cinema che mettesse la macchina da presa nelle strade piuttosto che nei salotti della borghesia. Leggi tutto
Abbiamo già scritto
circa due mesi fa su questo sito dello sviluppo di un
movimento a difesa e rilancio della costituzione repubblicana
in opposizione alle
“riforme” costituzionali del governo Renzi e alla legge
elettorale battezzata Italicum, peggiore del Porcellum,
dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte
costituzionale del dicembre 2013. Il “combinato disposto” di
legge elettorale, che
potrebbe dare la maggioranza alla Camera dei deputati a un
partito che ha nel paese il 20-25% di consensi di chi va a
votare (cioè, stando alle
ultime consultazioni, il 50-55% degli aventi diritto al voto)
insieme con una “riforma” (più correttamente ribattezzata
“deforma” dall’avvocato Besostri, animatore dei ricorsi in
tribunale per incostituzionalità dell’Italicum),
che svuota il Senato delle sue competenze legislative e i cui
componenti, ridotti a 100, non sono più eletti dai cittadini,
ma nominati tra i
consiglieri regionali, ha fatto parlare eminenti
costituzionalisti di “svolta autoritaria.
Nel merito e nel metodo questa “riforma” costituzionale rappresenta un nuovo passaggio, una marcia del gambero, dal governo parlamentare su cui era stata imperniata la Costituzione del 1948, a una forma di governo presidenziale, con ulteriore svuotamento del ruolo e delle funzioni delle assemblee elettive. Basti pensare che l’articolo 12 della “deforma” renziana prevede che sia il governo a dettare l’agenda dei lavori parlamentari. E che il disegno di legge costituzionale per questa “deforma” è di iniziativa governativa. È il trasferimento all’esecutivo di funzioni e ruolo spettanti al parlamento. L’approvazione definitiva della “deforma costituzionale” è prevista – ormai senza intoppi per la maggioranza renziana (ottenuta nelle ultime elezioni politiche del 2013 grazie allo scandaloso premio dichiarato incostituzionale dalla Consulta) – per la metà di aprile. Leggi tutto
1. Che "Il
Giornale" sia critico sugli esiti
del "vertice" Merkel-Renzi, in un certo senso, è (quasi)
logico:
"...per mettere un tappo al flusso di disperati che affolla le strade della Germania. «L'attuazione dell'accordo con la Turchia è urgente», dice Angela. Così quello che è un problema sociale e politico tedesco, lo pagheranno tutti i Paesi europei. Come avvenne per la riunificazione delle due Germanie. Renzi, al contrario, non ha ottenuto alcuna apertura in termini di flessibilità di bilancio: vero obbiettivo della missione del premier.
«Non mi immischio - ha detto Angela - in queste cose. É compito della Commissione decidere le interpretazioni» su tempi e livello di riduzione del debito pubblico. La Merkel, insomma, davanti a Renzi veste i panni di Ponzio Pilato: si lava le mani del problema italiano del mancato rispetto del fiscal compact.
Tocca a Juncker decidere, dice. E Juncker ha già fatto sapere come la pensa. I suoi uffici hanno già detto che la manovra di bilancio del governo Renzi non rispetta il fiscal compact per quanto riguarda la riduzione del debito (l'avanzo primario è un terzo di quello promesso) e non onora il Patto di Stabilità, in quanto non riduce il deficit strutturale dello 0,5% all'anno.
E tra breve, bisognerà aspettare all'incirca un mese, la Commissione europea dovrà fornire un parere completo sulla Legge di Stabilità, approvata sub judice da Bruxelles."
2. Ma la criticità del momento è talmente grave che criticare il premier per qualcosa che hanno fatto tutti, ma proprio tutti, i nostri capi di governo (cioè fare acquiescenza totale non appena la Germania si trincera dietro l'applicazione, da parte della Commissione, delle regole che noi abbiamo accettato, normalmente con entusiasmo, senza obiettare nulla al fatto che le stesse fossero poste nell'esclusivo interesse della stessa Germania), appare quasi ingeneroso. Leggi tutto
Aver messo i piedi nel
piatto nazionale (e internazionale) dell’indifferenza e della
complice sudditanza nei confronti del
North AtlanticTreaty Organization è merito del
Comitato No Guerra No Nato che ha raccolto e cercato di dare
espressione unitaria e
istituzionale alle mobilitazioni che, non da ieri, sono state
portate avanti da avanguardie e comunità in Sicilia (No Muos),
Sardegna (No
Nato), Vicenza (No Base Usa), Friuli (No Base Usa) e anche in
Val di Susa (No Tav contro la militarizzazione del territorio
e del mondo). Aver
raccolto queste istanze, come espresse anche in una legge di
iniziativa popolare depositata in Parlamento fin dal 2008, e
averle interpretate in
termini di messa in discussione del Trattato e della sua
applicazione, se non dell’immediata uscita dell’Italia (e
dell’Europa),
quanto meno nell’esame dell’ipotesi e della fondamentale
rivendicazione della neutralità del nostro paese, è una grande
merito dei parlamentari Cinque Stelle. Tanto più che succede
in coincidenza con uno Stoltenberg (forzando un po’: Montagna
degli
stolti, nomen omen), maggiordomo Nato con il logo SS
tatuato sulle natiche, dalla Nato scovato in qualche manicomio
criminale, che aveva
appena finito di intimarci di spendere di più per agire e
perire di guerre e di atomiche. Bella risposta, quella del 29
gennaio a Roma.
Il 29 gennaio, nella sala dei gruppi della Camera, si è svolto un convegno dal significativo titolo “Se non fosse NATO”, che già adombra, al di là delle puntualizzazioni di vario peso dei relatori e convenuti, un’Italia che non abbia subìto dal patto leonino con gli Usa l’affronto alla sua sovranità e alla sua Costituzione. Leggi tutto
Abolire Schengen per salvare Schengen. Il paradosso è servito. L’imponente afflusso di migranti dal Medio Oriente e dall’Africa non sarebbe più compatibile, sono in molti a pensarlo, con la libera circolazione all’interno dell’Ue, di fatto già interrotta dalla decisione unilaterale di diversi stati di ristabilire controlli alle frontiere.
Nessuno ignora, tuttavia, che la fine di Schengen ostacolerebbe anche la circolazione delle merci e della forza-lavoro (anche quella comunitaria) assestando un serio colpo all’integrazione economica e al mercato comune.
Una frontiera nazionale non la si può infatti circoscrivere a una singola emergenza né ricondurre a una regola generale condivisa. È, per definizione, affare della nazione che la istituisce. A questa e solo a questa sono riconducibili i criteri e i metodi di gestione del confine, la larghezza delle sue maglie, i suoi principi di selezione.
Sul confine nazionale si arresta il diritto comunitario. L’involuzione autoritaria in corso nei paesi dell’est potrebbe, per esempio, sbarrare il passo ad altri fattori «inquinanti», quali attivisti transnazionali o altre persone «non grate». L’Unione si è del resto rivelata piuttosto impotente nel contrastare sostanziali deroghe ai principi della democrazia in alcuni dei suoi paesi membri. Leggi tutto
Siamo alla vigilia di un’altra guerra contro la Libia, “a guida italiana” questa volta. Sembra ormai assodato che le forze speciali SAS sono già in Libia, per preparare l’arrivo di mille soldati britannici. L’operazione complessiva, capitanata dall’Italia, dovrebbe coinvolgere seimila soldati statunitensi ed europei per bloccare i cinquemila soldati dell’Isis. Il tutto verrà sdoganato come “un’operazione di peacekeeping e umanitaria”. L’Italia, dal canto suo, ha già trasferito a Trapani quattro cacciabombardieri AMX pronti a intervenire.
Il nostro paese-così sostiene il governo Renzi – attende però per intervenire l’invito del governo libico di unità nazionale, presieduto da Fayez el Serray. E altrettanto chiaro che sia il ministro degli Esteri, Gentiloni, come la ministra della Difesa, Pinotti, premono invece per un rapido intervento. Sarebbe però ora che il popolo italiano-tramite il Parlamento, si interrogasse, prima di intraprendere un’altra guerra contro la Libia. Infatti, se c’è un popolo che la Libia odia, siamo proprio noi che, durante l’occupazione coloniale, abbiamo impiccato o fucilato centomila libici. A questo dobbiamo aggiungere la guerra del 2011 contro Gheddafi per “esportare la democrazia”, ma in realtà per mettere le mani sull’ oro ‘nero’ di quel paese. Come conseguenza, abbiamo creato il disastro, facendo precipitare la Libia in una spaventosa guerra civile, di tutti contro tutti, dove hanno trovato un terreno fertile i nuclei fondamentalisti islamici. Con questo passato, abbiamo, noi italiani, ancora il coraggio di intervenire alla testa di una coalizione militare? Leggi tutto
Molto spesso le apparenze ingannano, specie se sono così vistose e pervasive da imporsi alla mente e scacciare caratteristiche meno visibili o successivi cambiamenti di prospettiva. Così, ad esempio, Obama viene considerato il primo presidente nero degli Usa, mentre la sua caratteristica peculiare è quella di essere l’ultimo presidente, almeno nel senso in cui siamo abituati a considerare l’inquilino della Casa Bianca. Non c’è dubbio che il suo “colore”, unito all’insorgenza della crisi economica, abbia favorito per qualche anno il permanere di un concetto di presidenza già gravemente in crisi e sulla via di venire totalmente assorbito dentro logiche dinastiche e lobbistiche: non bisogna essere indovini per preconizzare che egli sia stato l’ultimo ad avere coagulato su di sé entrambe le caratteristiche della democrazia: un voto popolare relativamente spontaneo e massicci contributi della base per la campagna elettorale.
Poco importa che la sua azione sia stata timida, contraddittoria, inefficace, talvolta disastrosa e quasi sempre condizionata dai poteri economici: dopo di lui il diluvio. E lo si vede bene dai personaggi scesi in campo per succedergli: la dinastia Clinton, con l’alleanza ribadita alcuni giorni fa con il complesso militar industriale, contro quella Bush o la comparsa di corsari della finanza e degli affari che come generali dell’impero romano o cinese muovono le loro truppe di carta moneta con buone speranze di successo come Trump senza bisogno di esprimere qualcosa di razionale e di pensato, di fare discorsi al posto di slogan giocando sulla delusione e la rabbia delle persone. Leggi tutto
“Nessuno ha il potere di modificare, se non in meglio (cioè se non ampliando i diritti), i primi dodici articoli della nostra Costituzione. Né la Corte, né il Parlamento, né il Governo. Nessuno.” Vladimiro Giacchè
L’ultimo saggio di Giacchè dimostra che i Trattati esprimono un’idea di società che confligge con la nostra Costituzione, violandone i diritti fondamentali, a partire dal diritto al lavoro. Come uscire dalla gabbia dei mercati e dai vincoli dell’euro?
Incontro Vladimiro
Giacchè a “Casale Alba2”, uno dei cinque
casolari immersi nella cornice naturale del parco Aguzzano
di Roma. È un luogo dove si svolgono attività
socio-culturali-didattiche e di ristoro L’occasione è la
presentazione del suo ultimo libro “Costituzione
italiana contro i
Trattati europei”. Un saggio che l’autore,
economista d’eccellenza, presenta con maestria.
Il tema è intricatissimo, intrigante (ndr: nell’accezione di affascinante, che incuriosisce, che cattura) ed è assolutamente attuale. Giacchè, ne argomenta i punti focali: l’attacco alla Costituzione italiana, come uscire dalla gabbia economica, in cui ci hanno rinchiuso i Trattati europei, riaffermando la validità dell’impianto della Costituzione e la sua priorità sugli stessi Trattati. Si sofferma a lungo l’economista sul nuovo art.81 che prevede l’obbligo del pareggio di bilancio, in conformità delle regole europee del Fiscal compact, e fa un’accurata analisi “dolens” sulla sua incostituzionalità. Offre spunti per riflettere su come l’inserimento in Costituzione dell’art.81 sia “un vero e proprio cuneo che scardina il sistema dei fondamentali diritti”. Nell’intervista a seguire, concessa da Giacchè in esclusiva per La Città futura, pillole di economia per i lettori.
***
Mi permetta una domanda iniziale che non vuole essere una critica al titolo del suo saggio. Ma, con l’occhio europeista, è la Costituzione italiana a essere contro i Trattati europei o viceversa? O c’è, come poi si afferma nel sottotitolo, un’incompatibilità che è diventata conflitto fra le due leggi-principe fondanti, ovvero la Costituzione e i trattati Ue?
Leggi tuttoDa un punto di vista
storico è corretto sostenere che la fame o più genericamente
le sofferenze materiali non sono mai state levatrici
di rivoluzioni, neppure di trasformazioni sostanziali o di
mutamenti radicali. In assenza dei mezzi per provvedere al
proprio sostentamento poca
attenzione si finisce per prestare al contesto generale, a
struttura e sovrastruttura, oppure alle condizioni in cui
versano gli altri, intorno. Le
sommosse per il pane dell’Ancien régime sono state
certamente un potente indicatore di conflittualità sociale,
tuttavia
il significato politico di tali azioni è spesso subordinato a
quello scenico, comunque condizionato dalla rivendicazione
delle briciole, di un
piccolo spazio di sopravvivenza, senza grandi orizzonti. Detto
questo in termini molto stringati e banali, sarà anche
necessario specificare
che, pur nel grave e progressivo accrescersi delle
diseguaglianze, non è possibile paragonare la nera miseria che
ha attanagliato anche questo
Paese fino al secondo Dopoguerra con l’odierna condizione
della maggior parte della popolazione occidentale, ambito dal
quale parliamo. Di tali
cornici credo valga la pena di tenere conto, senza troppo
farci condizionare da visioni eccessivamente miserevoli che
sottostanno a logiche
assistenziali che non ci appartengono.
È completamente vero che all’interno degli ambiti teorici e politici di movimento sembra crescere l’attenzione per quella che Antonio Alia, in un ottimo articolo pubblicato su Commonware, ha definito “politica del bisogno”: si intende con essa un insieme di “pratiche sociali che si pongono prima di tutto, se non esclusivamente, il problema del soddisfacimento di un bisogno (la salute, la liquidità, una buona alimentazione, ecc.) che il mercato o lo stato non riescono a garantire”. Leggi tutto
Su Economonitor, Thomas Fazi denuncia le storture della cosiddetta “unione bancaria” europea. Paradossalmente, se con le nuove norme gli Stati non possono più aiutare le proprie banche in difficoltà, sono di fatto costretti a sostenere i maggiori oneri in caso di salvataggio bancario tramite i meccanismi “europei”, eventualmente sottoponendosi alle condizionalità della Troika. La cosiddetta “unione bancaria” è nei fatti il definitivo strumento di dominio in una lotta inter-capitalista tra centro e periferia (motivo per il quale ora anche i capitalisti di casa nostra hanno paura)
Il primo gennaio 2016 è
entrata ufficialmente in vigore l’unione bancaria europea – un
sistema di supervisione e risoluzione
bancaria a livello europeo. La creazione dell’unione bancaria
è stata, in termini di regolamentazione, l’esito più
significativo della crisi – “un cambio di regime più che
un rattoppo istituzionale“, lo ha definito Christos
Hadjiemmanuil della London School of Economicsin un approfondito articolo
sull’argomento – e c’è ampio accordo sul fatto che “anche
nella sua attuale forma incompleta [l’unione bancaria]
è il più grande successo politico dell’Unione Europea in
termini strutturali da quando è iniziata la crisi
finanziaria“. Uno sguardo più ravvicinato, però,
mostra che l’unione bancaria – quantomeno nella sua forma
attuale – è solamente l’ultima fase di un percorso europeo
post-crisi guidato dai creditori sulla via
dell’austerità e dell’aggiustamento asimmetrico. Una fase che
potrebbe fissare l’ultimo chiodo sulla bara
dell’euro.
Nelle sue intenzioni iniziali, l’unione bancaria doveva essere finalizzata a “spezzare il circolo vizioso tra le banche e gli stati sovrani“ mutualizzando i costi fiscali delle risoluzioni bancarie. Questo era il risultato del tardivo riconoscimento, da parte dei decisori politici europei dopo molti anni di crisi, della natura non-fiscale – e cioè bancaria e monetaria – della crisi dei debiti sovrani nell’eurozona. Leggi tutto
Nel 2009, il Ministro Tremonti aveva cominciato a raccontarci che l’Università italiana era popolata da professori baroni, nullafacenti e nepotisti e che “con la cultura non si mangia”. In nome dell’ obiettivo di tenere i conti pubblici in ordine, procedette coerentemente a un taglio del fondo di finanziamento ordinario alle Università statali che dai 702 milioni di euro nel 2010 raggiunse nel 2011 gli 835 milioni, in netta controtendenza con quanto si faceva in altri Paesi europei (Germania, in primo luogo). In fondo, si disse, più o meno esplicitamente, i trasferimenti di risorse pubbliche agli Atenei sono uno spreco. Con i loro più o meno puntuali resoconti sui concorsi truccati, giornalisti ed economisti di area “riformista” avevano fornito le “basi teoriche” della “riforma”, che verrà poi ricordata con il nome di Maria Stella Gelmini. Se anche l’obiettivo da perseguire era quello, non era chiaro perché il settore maggiormente colpito dai tagli dovesse essere quello della formazione: in fondo, si è sempre ritenuto (e si ritiene in altri Paesi) che il sottofinanziamento della ricerca è la strada più efficace per prolungare e intensificare la recessione. E’ difficile negare, infatti, che il finanziamento pubblico della ricerca scientifica sia strategico per l’attuazione di flussi di innovazioni nel settore privato e dunque per generare crescita economica[1].
Come è noto, negli anni successivi non vi è stata alcuna inversione di tendenza. Leggi tutto
L'iniziativa della Rete italiana per il disarmo
Un esposto in diverse Procure per chiedere un’indagine sulle spedizioni di bombe aeree dall’Italia all’Arabia Saudita. Questa l’iniziativa della Rete Italiana per il Disarmo, illustrata ieri durante una conferenza stampa alla Camera — dal titolo «Controllarmi» — e presentata in Procura da Alfio Nicotra, Lisa Pelletti Clark, Massimo Valpiana, Giorgio Beretta, Maurizio Simoncelli e Francesco Vignarca. L’articolo 1 della legge 185/90 — ha spiegato ieri Vignarca, coordinatore della Rete — vieta l’esportazione di armi verso paesi in stato di conflitto armato e che violino i diritti umani. Invece, partono dalla Sardegna «continue spedizioni con tonnellate di bombe aeree dirette in Arabia Saudita»: 5 dal 2015 a oggi. Bombe che servono a rifornire le Royal Saudi Air Force che «dallo scorso marzo bombardano lo Yemen senza alcun mandato da parte delle Nazioni unite, esacerbando un conflitto che ha provocato quasi 6.000 morti, la metà dei quali vittime civili e sta determinando la maggior crisi umanitaria in tutto il Medioriente».
Le spiegazioni fornite dal governo, sono state tardive e ambigue, «al punto da farmi rimpiangere i governi Andreotti — ha detto Giuseppe Civati, presente in sala, e ha proposto che ogni parlamentare pubblichi gli allarmanti dati del traffico di armi e il testo dell’esposto. «Il Parlamento non è più la sede politica adatta per chi tiene alla pace e al rispetto delle norme», ha rincarato Giulio Marcon, criticando la risposta del governo secondo cui la vendita di armi viene «decisa caso per caso»: perché occorrerebbe comunque una decisione del Consiglio dei ministri e il voto delle Camere. Leggi tutto
La finanza “subordinata” al Capitale in crisi
Fra gli “esperti” a servizio del Capitale, il leit motiv più diffuso sarebbe questo: l’economia va moralizzata, soprattutto nel settore finanziario (in quello produttivo di merci la “moralizzazione” riguarderebbe soltanto i salari e le pensioni, da contenere…).
La mancanza di una “sana dinamica morale” sarebbe la causa di stagnazione del Pil (drammatica per il capitale!), di “perturbazioni” del sistema bancario, malefatte delle società per azioni, ricchezza “mal distribuita”, crimini della mafia, corruzione del ceto politico, scorribande monetarie, ecc.
Principali imputati, nel circo mediatico borghese, figurano i servizi finanziari: con i profitti industriali in calo, il restringersi dei valori immobiliari e i titoli statali ad interesse zero, l’atmosfera si è fatta pesante anche fra i banchieri. Tutti i gestori del capitale sono alle prese con una aggrovigliata matassa di “affari” pubblici e privati, attorno ad una girandola di titoli tossici emessi dalla finanza globale (la stessa Deutsche Bank ne ha sparsi un po’ ovunque) sostenuta da folli ricorsi alla stampa di carta colorata spacciata per denaro autentico. Si diffonde un globale e sempre più approfondito malessere finanziario, alimentato da incombenti pericoli di insolvenze e devastanti rese dei conti, quando la crisi continua a bloccare la produzione di reale valore nei settori merceologici. Guardando, per esempio, aI sistema finanziario americano, il quale rappresenta il 7% del PIL assorbendo circa il 30% dei profitti. la contraddizione è lapalissiana: se gli Usa e l’economia mondiale crescono del 2-3% annuo, come possono gli “investimenti” finanziari rendere il doppio o il triplo?
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La crisi
del Vicino oriente sembra divenire sempre più calda e
complicata. Le sue ricadute, dirette e indirette,
sull’Europa si fanno sempre più pesanti. Ma è l’intero clima
internazionale a surriscaldarsi.
La dinamica è innescata dal tentativo statunitense si ottenere un dominio a pieno spettro che affermi Washington come l’unico vero centro decisionale del pianeta a scapito della libertà e della sovranità degli altri popoli e delle altre nazioni.
Con la prima guerra mondiale si è assistito all’urto tra gli imperialismi delle Grandi Potenze europee che fino a prima si erano spartiti il mondo all’interno di una logica che potremmo definire di “concerto competitivo”. Fino a che gli antagonismi non divennero tanto irriducibili da accendere il fuoco alle polveri e mettere in moto la macchina infernale degli ultimatum, delle alleanze, delle dichiarazione di guerra e delle mobilitazioni.
Con la seconda guerra mondiale si è assistito al fenomeno della guerra totale nel pieno senso del termine, con il coinvolgimento diretto dei civili nel conflitto (sia passivo che attivo) e con l’implosione definitiva dell’ordine eurocentrico delle relazioni internazionali. La guerra segnò, de facto, l’egemonia statunitense e la subordinazione a Washington degli altri paesi a capitalismo avanzato. Un fenomeno senza nessun precedente storico.
Durante la guerra fredda l’egemonia statunitense è stata frenata e contrastata dall’URSS e dal campo socialista. La guerra fredda in fondo è stata la terza guerra mondiale. O la prima guerra mondiale dell’era atomica. Il meccanismo della mutua distruzione assicurata ha impedito che il confronto bipolare degenerasse in uno scontro diretto tra giganti. La guerra ha così assunto una molteplicità di forme: corsa agli armamenti strategici, competizione economica, conflitto ideologico, gara d’influenza nel Terzo Mondo, guerre calde, per procura, a livello regionale, etc… Leggi tutto
In un’estesa
intervista l’ex ministro greco delle finanze Yanis
Varoufakis, sostiene che lo stato-nazione è morto e
che la democrazia nella UE è stata sostituita da una tossica
depoliticizzazione algoritmica che, se non contrastata,
condurrà alla
depressione, alla disintegrazione e forse alla guerra in
Europa. Egli sollecita il lancio di un movimento pan-europeo
per democratizzare
l’Europa, per salvarla prima che sia troppo tardi.
Questa intervista, tratta da ‘State of Power’ del Transnational Institute – gennaio 2016, è stata condotta a fine dicembre 2015 da Nick Buxton del TNI con l’ex ministro greco delle finanze.
* * *
Quali consideri le maggiori minacce alla democrazia oggi?
La minaccia alla democrazia è sempre stata il disprezzo che il sistema prova per essa. La democrazia, per sua stessa natura, è molto fragile e l’antipatia nei suoi confronti da parte del sistema è sempre estremamente pronunciata e il sistema ha sempre cercato di svuotarla. Leggi tutto
Nato e cresciuto in
Germania Anselm Jappe ha studiato
filosofia in Italia e in Francia. È autore di
vari vari libri, tra cui: Guy Debord, Roma, Manifesto
libri, 2013²; Les Aventures de la marchandise.
Pour une nouvelle
critique de la valeur, Éditions Denoël, 2003; Crédit
à mort: la décomposition du capitalisme et ses
critiques, Éditions
Lignes, 2011; Contro il denaro, Milano, Mimesis,
2013; Uscire
dall’economia. Un dialogo fra
decrescita e critica del valore: letture della crisi e
percorsi di liberazione, con Serge Latouche,
Milano, Mimesis, 2014. Ha
collaborato con le riviste tedesche “Krisis” e “Exi”t
(fondate da Robert Kurz), che sviluppano la “Critica del
valore”.
Il 17 dicembre del 2015, ospite delle comunità zapatiste del Chiapas, ha presentato la conferenza “En busca de las raíces del mal” al Cideci/Universidad de la Tierra Chiapas, visualizzabile → qui.
Nell’intervista rilasciata successivamente a Radio Zapatista, tradotta per TYSM (e → qui ascoltabile in versione originale), Jappe parla del modo in cui certi concetti marxisti – in particolare la critica del valore – risultino indispensabili alla comprensione della realtà attuale, soprattutto in relazione a quella che egli chiama la crisi terminale del capitalismo. Allo stesso modo, Jappe riflette sulle implicazioni che tutto questo ha rispetto agli attuali movimenti di emancipazione. Leggi tutto
Nel suo discorso di Ventotene del 30 gennaio, Matteo Renzi ha paventato la fine di un'Europa nella quale sia disatteso o abbandonato il Trattato di Schengen sulla migrazione. Qualche anno fa era di moda irridere al "benaltrismo", cioè al rifiutarsi di affrontare i problemi sul tavolo prospettandone ogni volta di più gravi. Oggi si dovrebbe ricorrere invece al "benoltrismo", nel senso che in molti casi la realtà è già andata ben oltre la rappresentazione che se ne vorrebbe offrire. La questione del rispetto del Trattato di Schengen è già superata dai fatti dopo la decisione del parlamento danese, laburisti compresi, di sequestrare i beni dei migranti a beneficio delle "spese del loro sostentamento". Il provvedimento danese ricorda un po' la pratica nazista di strappare i denti d'oro ai deportati. Roba da far apparire il tanto vituperato muro ungherese come una misura umanitaria.
A proposito di reminiscenze naziste, in Francia infuria una campagna mediatica anti-ISIS/Daesh che ripropone i toni e i temi della propaganda antisemita nella Germania della seconda metà degli anni '30. Ai bambini ed ai ragazzini vengono somministrati fogli di propaganda così assurdamente faziosi, in un Paese con sei milioni di mussulmani, da riabilitare il leader della Corea del Nord, per non dire di quella del Sud. I fumetti riportano gli orridi islamisti mentre picchiano donne e distruggono templi. Poi c'è la parte didattica: le vostre domande/ le nostre risposte. Chi è il Daesh? Qual è il suo scopo finale? Come si finanzia? Perché ci attacca? Immaginate le risposte. Leggi tutto
Con il suo Nein il presidente della Bce strapazza malamente Ignazio Visco e chiarisce una volta di più chi comanda in Eurolandia
Non che ci fossero dubbi, ma Mario Draghi l'ha voluto affermare con chiarezza: lui sta con Berlino e con la Bundesbank, non certo con Bankitalia e con il governo di Roma.
Il governatore Ignazio Visco, che di Draghi prese il posto alla Banca d'Italia quando quest'ultimo si insediò a Francoforte, si è così beccato un no secco, rapido ed irrevocabile. Vedremo ora se Visco avrà la forza di replicare, ma ne dubitiamo fortemente.
La materia del contendere è ovviamente il dispositivo del bail in. Un meccanismo che si è rivelato micidiale per le banche italiane, la cui crisi è soltanto all'inizio.
Venerdì scorso, parlando al Forex, Visco ha riaperto la questione, invitando il governo Renzi a chiedere la revisione del bail in sfruttando una clausola della stessa direttiva europea che permetterebbe di promuovere un suo riesame «da avviare entro il giugno 2018», ma che il governatore vorrebbe accelerare.
Ieri, parlando a Strasburgo, Draghi ha gelato il suo successore a Palazzo Koch con un no, anzi un Nein. «Si applichi il bail-in con coerenza», questo il titolo del Sole 24 Ore di stamattina che sintetizza il succo del discorso pronunciato all'euro-parlamento. Leggi tutto
Giovedì e venerdì scorso hanno avuto luogo due incontri internazionali tutto sommato marginali ma estremamente simbolici. Giovedì la Lega Nord di Matteo Salvini si è incontrata a Milano con le destre “euroscettiche” di tutta Europa e in particolare con Marine Le Pen, vero cardine della moderna destra radicale continentale; venerdì invece è avvenuto l’atteso vertice bilaterale tra l’Italia di Matteo Renzi e la Germania di Angela Merkel. I due eventi rientrano in quella diplomazia priva di significati sostanziali. La concomitanza li ha però innervati di significati simbolici tutt’altro che secondari.
Mai come nella scorsa settimana si è avuta la netta sensazione di una faglia storica che andrà sempre più approfondendosi: da una parte le forze coerentemente “europeiste”, quel partito unico formato dai centrosinistra e centrodestra nazionali espressione politica del processo liberista europeista; dall’altra quelle forze politiche che a parole combattono l’Unione europea, tutte oggi inequivocabilmente schierate a destra.
Simbolicamente le immagini e le parole dei due fronti non potevano essere più distanti. Da una parte un establishment politico-economico che reitera se stesso costruendo un polo imperialista sempre più contraddittorio; dall’altra un “anti-establishment” reazionario capace però di raccogliere i consensi se non di tutti, di una grande parte della popolazione impoverita dall’accentramento ordoliberista. Questa faglia, questa contraddizione insanabile tra Europa e anti-Europa (dove per Europa deve intendersi Unione europea), invaderà sempre più il campo dei rapporti politici del prossimo futuro nel nostro continente. Leggi tutto
Avvertenza: nel seguito, quanto è
in corsivo tra parentesi quadre, è di Micah Lee; quanto
è in tondo
corpo 8 tra parentesi quadre, è del
traduttore.
Il mese scorso ho incontrato Edward Snowden* in un hotel nel centro di Mosca, a pochi isolati dalla Piazza Rossa. Era la prima volta che ci incontravamo di persona. Mi aveva scritto un paio di anni fa, poi avevamo creato un canale di comunicazione criptato per i giornalisti Laura Poitras e Glenn Greenwald, ai quali Snowden voleva rivelare la dilagante e frenetica sorveglianza di massa messa in atto dalla National Security Agency (NSA) e dal suo equivalente britannico GCHQ (Government Communications Headquarters).
Oramai Snowden non era più nascosto nell’anonimato. Tutti sapevano chi era, molte delle informazioni che aveva rivelato erano di dominio pubblico ed era noto che viveva in esilio a Mosca, dove era rimasto bloccato quando il Dipartimento di Stato USA gli aveva annullato il passaporto mentre stava recandosi in America Latina. La sua situazione adesso era più stabile e le minacce contro di lui un po’ più facili da prevedere. Quindi ho incontrato Snowden con meno paranoia di quella che era invece giustificata nel 2013, ma con più precauzioni per la nostra sicurezza personale, visto che questa volta le nostre comunicazioni non sarebbero state telematiche ma di persona.
Leggi tuttoIn occasione dell’uscita dell’autobiografia di Toni Negri (Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano 2015), che tante polemiche ha sollevato, abbiamo intervistato il curatore del volume Girolamo De Michele
Marco
Ambra: Lasciamo da parte l’acritica stroncatura
di Simonetta Fiori su Repubblica, segno di un evidente
fastidio provocato dalla lettura di questa autobiografia,
alla quale peraltro lo stesso Negri
ha replicato
sine ira ac studio.
Partiamo invece dal testo. Scorrendo le seicento pagine della vita di Toni Negri il lettore ha l’impressione di avere a che fare con una confessione, nel senso dato a questa categoria dalla filosofa Marìa Zambrano: la confessione è un genere letterario che sorge laddove l’autore intenzionato a raccontare la propria vita individui un conflitto di questa con la verità (La confessione come genere letterario, ed. it. Bruno Mondadori, Milano 2004). L’effetto principale di questo conflitto sarebbe l’emergere, nell’autore, dell’uscita dal senso di isolamento attraverso la comunicazione di questo conflitto. Ma per farlo l’autore della confessione deve farsi carico di lavoro faticoso, della produzione di un linguaggio in grado di raccontare. Come dice lo stesso Negri «il linguaggio bisogna reinventarlo, attraverso segni e parole che corrispondono ad altro, che indicano altro rispetto a quello che nella mia infanzia ancora mi dicevano» (p. 15). In che modo l’io narrante della vita di Toni Negri è riuscito a parlare questo nuovo linguaggio? Quale relazione ha questa esigenza con il suo essere un filosofo? E con il suo essere un militante?
Leggi tutto***
... Carchedi definisce l’imperialismo come “appropriazione, anche con la forza ma non solo, di plusvalore internazionale”. Cosa significhi lo sa solo lui. Secondo gli esempi che fa (petrolio e bilancia commerciale in deficit) sembrerebbe che teorizzi l’imperialismo come appropriazione ossia l’aggressione (militare ed economica) per rapinare materie prime o chissà che altro). Innanzitutto vorrei ricordare a Carchedi che nell’opuscolo “Imperialismo fase suprema del capitalismo” Lenin riprende le tesi di Bucharin e di Hilferding per diffonderle alle masse. In esso si fa riferimento all’espansione del capitale nei paesi arretrati per la realizzazione di plusvalore grazie al lavoro e a materie prime a basso costo. Non si tratta di appropriazione pura e semplice ma di classici investimenti di capitale. [Ma io dico che alcuni elementi della teoria di Lenin sono ancora validi (per esempio l’appropriazione di petrolio) mentre altri sono nuovi (la bilancia commerciale USA perennemente in deficit)]. Naturalmente a quel tempo la guerra mondiale rappresentava lo strumento per poter realizzare l’obiettivo della conquista di aree di egemonia. Purtroppo l’epoca delle guerre mondiali preconizzata da Lenin si è rivelata erronea. Dopo il Secondo Conflitto mondiale (in realtà prosecuzione del Primo) non abbiamo mai più visto, e grazie al cielo non subiremo mai più, una devastazione del genere a meno che Carchedi non voglia paragonare le “guerre” che sono seguite al conflitto planetario terminato nel 1945 ad un conflitto imperialistico, allora saremmo veramente alla frutta.
Leggi tutto18 novembre 2015, Saint-Denis, banlieue nord di Parigi. Un nutrito gruppo di agenti del RAID, le forze speciali della polizia francese, si sta avvicinando a un palazzo nel centro della cittadina. Sono le quattro di notte. Hanno ricevuto l’informazione che dentro vi si nascondono alcuni dei presunti organizzatori degli attentati di cinque giorni prima. Pare che siano in procinto di realizzarne un altro alla Défense, il quartiere finanziario un po’ più a Ovest, e che siano armati fino ai denti.
L'appartamento a 8 rue du Corbillon, una piccola strada a Saint Denis. Immagine via the Guardian L'appartamento dell'assalto a 8 rue du Corbillon, una piccola strada a Saint Denis. Immagine via the Guardian Parigi è in quel momento al centro dell’attenzione dei media di tutto il mondo; su Place de la République sono parcheggiati i camion delle televisioni straniere, tra cui CNN, NBC, Al-Jazeera, ci sono anche la RAI e Mediaset.
Il commando di polizia si avvicina alla porta dell’appartamento. L’artificiere piazza l’esplosivo pensato per un portone blindato, lo innesca: il boato sconvolge la notte ma la porta, che non è blindata, non si apre. Inizia una battaglia che dura fino alle sette del mattino, quando cominciano ad arrivare i giornalisti come me.
In serata, il procuratore capo di Parigi, François Molins, dichiara che c’è stato uno scambio a fuoco “praticamente ininterrotto” per “quasi un’ora”, poi aggiunge: «posso dirvi che la polizia ha sparato più di 5000 munizioni». Leggi tutto
Quest’anno il Carnevale romano si apre il 2 febbraio, quando si esibisce alla Farnesina lo «small group», il piccolo gruppo ministeriale (23 paesi più la Ue) della «Coalizione globale anti-Daesh/Isis», co-presieduto dal segretario di Stato Usa John Kerry e dal ministro degli esteri Paolo Gentiloni.
Ne fanno parte, mascherati da anti-terroristi, i maggiori sponsor del terrorismo di «marca islamica», da decenni usato per minare e demolire gli Stati che ostacolano la strategia dell’impero. Alla testa della sfilata in maschera gli Stati uniti e l’Arabia Saudita. Quelli che – documenta una inchiesta del «New York Times» (24 gennaio) – armano e addestrano i «ribelli» da infiltrare in Siria per l’operazione «Timber Sycamore», autorizzata segretamente dal presidente Obama nel 2013, condotta dalla Cia e finanziata da Riyad con milioni di dollari. Confermata dalle immagini video del senatore Usa John McCain che, in missione in Siria per conto della Casa Bianca, incontra nel maggio 2013 Al Baghdadi, il «califfo» a capo dell’Isis.
È l’ultima delle operazioni coperte Usa-Saudite, iniziate negli anni Settanta e Ottanta: per destabilizzare l’Angola e altri paesi africani, per armare e addestrare i mujahiddin in Afghanistan, per sostenere i contras in Nicaragua.
Ciò spiega perché gli Stati uniti non criticano l’Arabia Saudita per la violazione dei diritti umani e la sostengono attivamente nella guerra che fa strage di civili nello Yemen. Fanno parte del gruppo mascherato anche la Giordania e il Qatar dove, documenta il «New York Times», la Cia ha costituito le basi di addestramento dei «ribelli», compresi «gruppi radicali come Al Qaeda», da infiltrare in Siria e altri paesi. Leggi tutto
Una raccolta di articoli lucidi e appassionati composti dal filosofo di Treviri che tra il 1852 e il 1861 si trasferì a Londra e lavorò nella redazione della «New York Daily Tribune», dividendosi tra le ricerche per i «Grundrisse» e l’attività da reporter
Qualunque
soggetto volesse tornare a mettere piede sul campo
delicatissimo e strategicamente determinante
dell’organizzazione politica delle masse, lo dovrebbe fare
tenendo sempre presente le indicazioni fornite da Gramsci in
quella nota del primo
quaderno del carcere dedicata a Hegel e l’associazionismo. Ciò
che si trova di operativo in queste annotazioni si riferisce
non tanto a
Hegel ma, naturalmente a Marx: «Marx non poteva avere
esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto
superiori), ma aveva il
senso delle masse, per la sua attività giornalistica e
agitatoria. Il concetto di Marx dell’organizzazione rimane
impigliato tra questi
elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini,
cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione
giornalistica».
Sebbene limitate dalle condizioni storiche del tempo, teoria e prassi dell’organizzazione di Marx vengono riportate da Gramsci al medium egemone dell’Ottocento: il giornale. Tradotta e operativizzata nel linguaggio di una qualunque media theory, questa geniale osservazione non vuol dire altro che Marx, lavorando come giornalista, faceva esperienza delle masse nella forma di quella del pubblico di lettori e che riversava, tra gli altri, il modello organizzativo dell’industria culturale giornalistica su quello dell’organizzazione operaia. Tornare a mettere piede sul terreno organizzativo significa, allora, riflettere sul modo in cui i media strutturano i pubblici e li fidelizzano e su come, debitamente riutilizzato, questo stesso modo può rilanciare le forme politiche dell’associazionismo collettivo. Leggi tutto
Un gruppo di studiosi ed esperti fa appello ad un'informazione corretta e approfondita sul Medio Oriente e il mondo arabo. A partire dai fatti di Colonia, una risposta forte - e unita - a Molinari, a La Stampa e ai media italiani in generale. La pubblichiamo di seguito (e aderiamo anche noi di OssIraq)
Siamo un
gruppo di studiosi e docenti universitari di storia,
letteratura e cultura dei paesi arabi, africani e islamici, e
scriviamo dopo la pubblicazione di alcuni articoli sulla
stampa italiana a seguito dei fatti di Colonia. Da essi è
scaturito un dibattito
pubblico superficiale, incentrato sulla paura dell’Islam,
dell’immigrato, dell’arabo; focalizzato, in senso lato, sulla
costruzione
dell’arabo-musulmano come “altro” e, in quanto tale,
“pericoloso”.
Si tratta di un discorso che, come insegna uno dei testi fondanti degli studi post-coloniali (Edward Said, Orientalismo), ha radici storiche profonde, riproponendosi con recrudescenza in ogni momento di crisi.
Riteniamo importante prendere posizione contro la stampa generalista che fa della banalizzazione e della schematizzazione, antitesi di ogni forma di analisi complessa e articolata, il mezzo di un progetto di disinformazione di massa quantomeno preterintenzionale.
In particolare ci ha colpito, il 10 Gennaio scorso, l’editoriale intitolato “Da dove viene il branco di Colonia” di Maurizio Molinari, già corrispondente da Gerusalemme per La Stampa e suo neo-direttore, oltre che autore del controverso instant book Il Califfato del Terrore. Varie critiche sono state subito mosse al testo, un vero e proprio pamphlet. Ad esempio, il collettivo di scrittori WuMing osserva come “nel generale squallore e servilismo”, sia tuttavia “importante segnalare passaggi di fase, salti di qualità, ulteriori salti in basso e spostamenti a destra”[1].
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Milton Friedman, con la sua “scuola di Chicago”, ha saputo fornire, fin dagli anni ’50, gli strumenti teorico/ideologici indispensabili alle multinazionali, alla Cia, ai militari perché potessero, in nome della libertà e della morale, realizzare “cambi di regime” e colpi di stato al servizio delle popolazioni oppresse (Guatemala, Honduras, Iran, Indonesia...)
L’apparato teorico di Friedman è complesso e si avvale di una strumentazione matematica per “evidenziarne” la sua scientificità.
L’assioma di base è di una semplicità disarmante. Perché si realizzi un sistema economico funzionante è necessario che ci sia un “capitalismo puro” che non sia inficiato da interventi distorcenti dello stato con le sue regolamentazioni, con i limiti che pone ad una privatizzazione capillare, con le inutili spese sociali.
Milton Friedman non era soddisfatto neanche del capitalismo statunitense imbavagliato da lacci e lacciuoli che ne impedivano una maggiore produttività.
Perciò innanzitutto: deregolamentazione, privatizzazione, lotta contro gli sprechi statali per le spese sociali.
Milton Friedman era convinto tuttavia che i mutamenti che auspicava non fossero di facile soluzione a causa degli incompetenti Keynesiani che avevano ancora una grande presa presso i governi occidentali… Leggi tutto
Lo scorso 23 dicembre, l’azienda ha pensato di “premiare” con la “coppa dell’assenteista” i dipendenti che nel corso dell’anno più si erano assentati per malattia. L’imprenditore si giustifica considerandola una goliardata per porre in questione il tema del cosiddetto assenteismo. La retorica utilizzata dal goliardico imprenditore è la solita: qualche mela marcia rovina un cesto di buoni frutti e, secondo il classico copione del divide et impera, nel consegnare gli umilianti premi afferma che assentarsi troppo “non è giusto di fronte a chi è sempre presente”.
Quello che il bontempone Nobili non sapeva e chissà se gli interessa, è che le persone chiamate a ritirare il premio di fronte a 250 colleghi avevano avuto (e si portano ancora dietro) gravi problemi di salute. Le malattie sono certificate, ma quel diritto non fa parte della contabilità aziendale. Si ripropone, quindi, un tema classico: si potrebbe fare meglio, si potrebbe crescere ed essere più competitivi; ma occorre essere più efficienti, aumentare la produttività e fare sacrifici tutti insieme, e questi presupposti sono in contrasto con regole che permettono le assenze dal lavoro. A porre la questione in maniera stringente fu, guarda caso, Marchionne qualche anno fa.
Poco più di cinque anni or sono, l’Ad Fca intervistato da Fabio Fazio se la prendeva con le tutele sindacali e l’assenteismo negli stabilimenti Fiat. Un anno dopo, Marchionne, parlando all’Unione industriale torinese, se la prese con l’assenteismo in Sevel, dove si fabbrica il Ducato. L’attacco fu così grave da spingere alla replica anche i sindacati che qualche tempo dopo avrebbero firmato il contratto speciale Fiat. Leggi tutto
Il
2016 si preannuncia un anno movimentato: la tensione
internazionale, in progressivo aumento sin dal 2011,
difficilmente decrescerà
ma, al contrario, toccherà lo zenit in coincidenza con
l’elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca che,
imprimendo una svolta
militare alla situazione mediorientale, incendierà
probabilmente le polveri. L’elaborazione di qualche carta è
utile a comprendere
la strategia di fondo delle oligarchie euro-atlantiche che,
abbandonati i sogni di egemonia globale di inizio millennio,
hanno ripiegato sino
all’attuale ipotesi di un conflitto militare per impedire
che il vuoto lasciato dietro di sé sia colmato da Russia e
Cina.
* * *
Il piano A
Per comprendere la realtà, afferrarne le dinamiche sottostanti ed ipotizzarne gli sviluppi, bisogna sempre partire dagli obbiettivi di fondo di chi occupa la stanza dei bottoni: solo così si può evitare di interpretare i fatti secondo i propri parametri e scadere in analisi autoreferenziali. La corretta comprensione degli attuali avvenimenti necessita quindi dell’interrogativo: qual è l‘obbiettivo strategico delle oligarchie euro-atlantiche? La risposta, può sembrare sproposita, ma non lo è, è il dominio globale, una meta quasi raggiunta nel periodo che intercorre tra il collasso dell’URSS (1991) e la bancarotta di Lehman Brothers (2008).
Leggi tuttoRenzi punta al regime ma l’attacco alla democrazia viene da lontano, dal neoliberismo e dall’Europa
Quello che si svolgerà
in autunno sarà il referendum più importante della
storia repubblicana. Il
suo esito sarà decisivo per due motivi: si deciderà lì se lo
stupro in atto da un quarto di secolo della Costituzione del
1948
avrà condotto infine alla sua definitiva sepoltura; si
deciderà lì il destino del progetto di regime incarnato da
Matteo Renzi.
Le due cose sono strettamente legate tra di loro, e chi le
separa sbaglia.
Detto questo è detto quasi tutto. Le ragioni del nostro no sono evidenti. Si tratta di impedire una svolta autoritaria, riaprendo concretamente la battaglia per la democrazia. Si tratta di mandare a casa un famelico gruppo di potere, portatore delle più feroci politiche ultraliberiste (jobs act, privatizzazioni, mercatismo allo stato puro, eccetera). Ma se da tempo insistiamo sulla centralità di questa battaglia non è solo per la sua oggettiva rilevanza, è anche perché siamo convinti – contrariamente a quel che vorrebbe far intendere il tam tam mediatico – che vincerla sia assolutamente possibile. È questo un punto che va affermato con forza, battendosi contro la logica da eterni sconfitti di certa sinistra sinistrata.
Il referendum può essere vinto per due motivi. Primo, perché sarà innanzitutto un pronunciamento su Renzi, il quale è sì segretario del partito di maggioranza relativa, ma è ben lontano da quella assoluta. Secondo, perché la sensibilità democratica è ancora forte in vasti strati popolari. Leggi tutto
Uno dei più gravi errori giudiziari del nostro tempo sta risolvendosi. Il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria – il Tribunale Internazionale che giudica e decide se i governi rispettano i loro obblighi sui diritti umani – ha stabilito che Julian Assange è stato arrestato illegalmente dalla Gran Bretagna e dalla Svezia.
Dopo cinque anni di lotta per riabilitare il suo nome, infangato di continuo pur senza vere accuse di reato, Assange è più vicino alla giustizia e rivendicazione, e forse alla libertà, che in qualsiasi altro momento da quando è stato arrestato e trattenuto a Londra con un mandato di estradizione europea, lo stesso che adesso ha perso credibilità in Parlamento.
Il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite emette le sue sentenze in base alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e di altri tre trattati vincolanti per tutti i suoi firmatari. Sia la Gran Bretagna che la Svezia hanno partecipato alla lunga indagine delle Nazioni Unite di 16 mesi e presentato prove a difesa della loro posizione davanti al tribunale. Sarebbe dimostrare disprezzo nei confronti del Diritto Internazionale, se non si conformassero al verdetto, permettendo ad Assange di lasciare il rifugio che il governo ecuadoriano gli ha concesso nella sua ambasciata di Londra.
In precedenti casi eclatanti su cui il Gruppo di Lavoro si è pronunciato – come quello di Aung San Suu Kyi in Birmania; o quello del leader dell'opposizione Anwar Ibrahim imprigionato in Malesia; o del giornalista del Washington Post Jason Rezaian arrestato in Iran – sia la Gran Bretagna che la Svezia hanno dato il loro sostegno al Tribunale. Leggi tutto
“Ormai a tutti è noto che l’Unione Europea e gli organismi derivanti dal Piano Marshall non sono l’espressione spontanea della volontà e delle esigenze dei popoli europei, bensì sono stati artificiosamente creati con lo scopo politico di fare d’un gruppo di nazioni europee uno schieramento in funzione antisovietica, e con lo scopo economico di fare dell’Europa Occidentale un campo di sfruttamento della finanza americana“.
Frase sorprendente, che è stata pronunciata da Sandro Pertini nel 1949, all’alba di quel piano Marshall (dal nome del segretario di Stato Usa che lo annunciò il 5 giugno 1947) con cui gli Stati Uniti iniziavano ad esportare, in un’Europa distrutta, il loro modello economico e sociale al fine di sottometterla e colonizzarla. Pertini, compreso questo, ritirò anche la sua adesione dal manifesto di Ventotene, ovvero al progetto di Europa unita scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Ursula Hirschmann tra il 1941 ed il 1944 durante il loro confino sull’isola di Ventotene. Il manifesto si diversificava dal progetto di Pan-Europa del Conte Kalergi, che nel 1922 immaginava un’Europa a conduzione tecnocratica e non un’Europa in cui un Parlamento sovrano, eletto a suffragio universale, determinasse le politiche comuni.
Cosa comprese dunque Pertini già nel 1949? Che tra il dire ed il fare c’era di mezzo il mare… Leggi tutto
Il
potere del cane è il capolavoro degli anni Duemila,
il libro finora insuperato. Ci sbagliavamo. Il
Cartello è almeno al suo livello. Non è
facile essere riconosciuti in vita come l’autore di uno dei
romanzi
più importanti degli ultimi decenni. Ma essere l’autore dei
due romanzi più importanti degli ultimi decenni,
beh, questo
apre a Don Winslow le porte dell’immortalità letteraria.
James Ellroy ha definito il libro “il Guerra e pace
della lotta
alla droga”. È maledettamente così. E a noi non rimane che
prenderne atto.
Il libro racconta la lunga, straziante, soffocante, sporca e ambigua lotta al narcotraffico tra Stati uniti e Messico. Una lotta dove non ci possono essere vincitori o sconfitti, perché ambedue le parti – chi produce e vende droga e chi dice di combatterla – sono un unico cartello. La forza degli uni aumenta la potenza degli altri. Gli interessi collimano, le persone si scambiano di ruolo. Il cartello vince sempre, sia nella sua veste ufficiale del narcotraffico che in quella ufficiosa della “lotta al narcotraffico”. Come già raccontato dal Potere del cane, la droga è paradossalmente il prodotto della “lotta alla droga”. Una lotta alla droga che sradica popolazioni che ingrossano le file dei cartelli narcotrafficanti in una spirale di interessi convergenti che rende impossibile immaginare spazi di sviluppo sociale ed economico. Gli unici a perdere sono i poveri, massacrati da tutte e due le parti, inutili orpelli di una storia che non li riguarda se non come carne da macello. Leggi tutto
Il giornalista Aldo Giannuli scrive un post sul M5S. le sue osservazioni meritano un'attenta considerazione. La mia modesta risposta
Aldo
Giannuli, persona preparata e intelligente
che appartiene alla categoria ristrettissima dei
“veri” giornalisti, ha scritto una riflessione sul
Movimento Cinque Stelle. Essendo le sue osservazioni
non pregiudiziali meritano una
risposta.
Concordo su una considerazione: sul piano politico il movimento è “adolescente”, con tutte le potenzialità, le ansie “ormonali” e le contraddizioni che questo comporta. Ma è un “ragazzo” speciale: è cresciuto senza genitori (le ideologie) e si trova nella condizione di dover affrontare una crescita forzata – e rapida – dettata dagli eventi che incombono. Contrariamente alla facilonerie intellettuali che vogliono rinchiuderlo nell’ambito del “populismo”, governato da un duo semi dittatoriale – dentro il quale beoti ingenui sono soggiogati dai guru, – la storia del movimento è ricca di spunti umani, politici e sociali come non si vedeva da almeno trent’anni in questo paese.
La riprova ne è la varietà delle storie politiche personali (desta, sinistra, centro, a-partitica) che sono in esso confluite. In comune condividono alcuni principi, o valori – potremmo azzardarci ad affermare, – orfani (anche questi) di una casa politica che li sostenga con coerenza. Leggi tutto
Il fallimento delle teorie della crisi del marxismo dell'ontologia del lavoro e le barriere ideologiche contro la continuazione dello sviluppo della critica radicale del capitalismo. Qui la prima parte
Soggetto
ed oggetto nella teoria della crisi. La soluzione
apparente del problema per mezzo di mere relazioni di
volontà e di forza
Se dovessimo tornare a rivedere tutto il dibattito storico, sarebbero due realtà a richiamare la nostra attenzione. Da una parte, la fobia rispetto all'idea di limite interno della valorizzazione del valore in realtà non si trova associata a situazioni sociali dell'economia e della politica, di crisi e di prosperità. La cosiddetta teoria del collasso è stata fin dall'inizio uno scandalo ed un estremo imbarazzo, sia durante i tempi indolenti di notabili marxisti dell'impero guglielmino che all'epoca delle catastrofi delle guerre mondiali e della crisi economica mondiale, e lo è stata maggiormente nell'epoca di prosperità del dopoguerra, ed infine lo è anche oggi, di nuovo, nella crisi mondiale della terza rivoluzione industriale. Lo scandalo è rimasto, indipendentemente dalle specifiche esperienze storiche, e così l'idea di un limite assoluto immanente non è mai diventata egemone nel discorso marxista mainstream, nemmeno nel bel mezzo delle maggiori catastrofi della storia mondiale.
Dall'altra parte, però, quel che è palese è la mancanza di profondità nella riflessione teorica intorno a tutto questo dibattito, la rapidità con la quale si passa sopra il concetto di dinamica capitalista e quanto poco si tenga in considerazione tutto l'armamentario concettuale che era già rappresentato da Marx. Leggi tutto
Tecnologia da ogni parte, app per ogni situazione, tutti doverosamente connessi, innovazioni affascinanti, incessanti e desiderabili – più di ogni altra cosa. Tecnica che un tempo – molto tempo fa – era solo un mezzo, mentre oggi siamo arrivati alla techno-obesity: a un eccesso di tecnica che ci aliena sempre più da noi stessi, portandoci a condividere i (dis)valori di quella tecnica che ci sta saturando il corpo e la mente.
Sapere aude!, diceva Kant sognando un uomo illuminista, autonomo e capace di uscire dalla sua minorità, quindi non più eteronomo. Ma poi il sapere aude! lo abbiamo realizzato e declinato con modalità invertita rispetto a Kant, delegando ancora una volta a chi sa tutto – e soprattutto vuole sapere tutto di noi e della nostra vita (Big Data e Rete e Social network, come ieri la Chiesa) – il compito di decidere per noi. I dati che lasciamo nelle nostre libere navigazioni in rete permettono infatti a chi ha fatto dei nostri dati il suo mezzo di produzione e di profitto di controllarci e indirizzare le nostre scelte, liberandoci dalla fatica di scegliere e decidere. Pensare è faticoso, la tecnica pensa per noi, conformarsi è dunque facile e comodo, illusi di avere realizzato il general intellect marxiano.
E così, ogni giorno siamo attivati massmediaticamente a cercare il nuovo per il nuovo, a promuovere start-up, a fare i makers in servizio permanente effettivo: è una sorta di pedagogia tecnologica ed economica (oltre che sociale), continua e incessante: Leggi tutto
Dirlo una volta è un’ opinione, due una ripetizione, tre una noia, quattro una cazzata, cinque un’indizio del tentativo di controllo dell’informazione e dalla sesta volta in poi tutte queste cose insieme più un certo grado di ottusità. Dunque è difficile sorprendersi se Le Scienze, ovvero la versione italiana della scientofilia dogmatica di marca americana ( vedi nota), presentino un articolo in cui per l’ennesima volta si attacca il web come diffusore “di tesi complottiste e pseudoscientifiche, definita dal World Economic Forum uno dei rischi principali per la società”.
Si direbbe il World Economic Forum, in quanto portatore esplicito di un’ideologia e voce confidenziale del potere economico globale, abbia poco a che vedere con la scienza e potrebbe tranquillamente fregarsene dei gruppi che credono agli alieni, al male assoluto delle scie chimiche e dei vaccini, ma annualmente finanzia ricerche in questo senso, ovvero paga delle persone perché “dimostrino” come i complottisti variamente intesi siano in sostanza dei malati di mente (perché è questa la sostanza se la sanità è essere impregnati di pensiero unico), avvertendo tutti del disastro che incombe su di noi visto che questi pazzi hanno un’audience pari a quella delle notizie e delle idee ufficiali. E si sa che su questa china si può arrivare a qualunque cosa , persino a pensare che Poroshenko sia un fantoccio degli Usa. L’articolo è firmato da tale Walter Quattrociocchi, un parmigiano emigrato negli Usa che ricerca presso la Northwestern University di Boston il quale pare ossessionato da questo tema su cui ritorna a cadenze regolari e che pare il suo solo interesse, nonostante ufficialmente sia un esperto in computer science. Leggi tutto
Due cose sono infinite. L’universo e la stupidità umana. E non sono sicuro dell’universo”. (Albert Einstein).
“Le azioni sono ritenute buone o cattive, non per il loro merito, ma secondo chi le fa.Non c’è quasi genere di nequizia– tortura, carcere senza processo, assassinio, bombardamento di civili – che non cambi il suo colore morale se commessa dalla ‘nostra’ parte. Lo sciovinista non solo non disapprova atrocità commesse dalla sua parte. Ha anche una notevole capacità di non accorgersene”. (George Orwell)
Un eroe? Calma e gesso
Sulla persona di Giulio Regeni, trovato morto con segni di tortura al Cairo, probabilmente fatto trovare morto con segni di tortura, non ho elementi e quindi diritto di pronunciarmi. Prendo atto della sua formazione accademica anglosassone, della sua vicinanza giornalistica al più discutibile e filoccidentale informatore sul Medioriente (Giuseppe Acconcia, “il manifesto”), del suo impegno per i "sindacati indipendenti". Leggo anche della notizia riferita dal “Giornale” secondo cui Regeni avrebbe lavorato per il servizio segreto AISE. Prendo quest’ultima notizia con le pinze, come con pinze lunghe cento metri prendo l’uragano di interpretazioni uniformi e apodittiche, nella solita chiave razzista eurocentrica, scatenate, sul solito pubblico basito e disarmato, in perfetta unanimità dai due giornali opposti di opposizione (“manifesto” e “Fatto Quotidiano”) e dalla gran maggioranza dei mainstream media di stampa e radiotelevisivi. In ogni caso, compiango la sua morte e il dolore dei suoi.
Non ho certezze, ma come per tutti gli avvenimenti che rivestono una portata strategica ed esercitano una fortissima pressione sull’opinione pubblica, potenziata dal concorso dei media citati, mi permetto di rilevare indizi e raggiungere un’ipotesi che, alla luce di quanto c’è di concreto e inoppugnabile, ha la stessa dignità e validità di quelle conclamate con sospetta sicumera da tutti gli altri che, a minuti dalla scoperta del cadavere, sanno già perfettamente su chi puntare il dito.
Regeni scriveva per il “manifesto” sotto pseudonimo. Per timore di rappresaglie, come dice la direttrice del suo giornale, dotata di certezze incrollabili fin dalle prime ore della notizia del ritrovamento, o perché sotto copertura?
Leggi tuttoRiprendiamo da «Il Manifesto» del 3 febbraio 2016 il testo introduttivo del convegno «Globalizzazione e crisi. Lavoro, migrazioni, valore» che si è svolto presso l’Università di Padova il 4-5 febbraio 2016
Due
fotografie, per cominciare. La prima mostra le
lavoratrici marocchine in lotta a Monselice, nella bassa
padovana, per
difendere il proprio lavoro. La cooperativa per la quale
operano la selezione della plastica nelle ecoballe di
rifiuti a mani nude, con semplici
guanti e mascherina, le ha licenziate per essersi
sindacalizzate con l’Adl-Cobas. La seconda mostra i
lavoratori migranti spagnoli che
un’agenzia interinale tedesca ha selezionato per Amazon a
Bad-Hersfeld, nell’Assia. Essi lavorano a salari molto più
bassi di
quelli che erano stati prospettati; non sono stati assunti a
tempo indeterminato da Amazon come era stato loro promesso,
ma solo per smaltire il
carico di ordini di Natale e da una ditta subappaltatrice;
vengono acquartierati in molti per camera in piccoli
alberghi attorno ai magazzini di
distribuzione controllati anche nel tempo libero o dedicato
al riposo da una agenzia di security imbottita di
neonazisti. Queste due
fotografie evidenziano una serie di processi che marcano
le condizioni del lavoro oggi e rendono problematiche le
categorie con le quali
l’Europa si autorappresenta. Migranti spagnoli in
Germania per effetto del job on call; donne
(marocchine) che lavorano tra i
rifiuti a Monselice come se si trattasse di recuperadoras
nelle discariche di qualche metropoli sudamericana. Leggi tutto
a Stefania
L’istituzione museale,
nell’epoca della riproducibilità tecnica, non espone al suo
interno nulla che non
sia noto. È finalizzata alla conservazione e alla fruizione
di una parte del patrimonio storico del territorio cui
appartiene, ma quel
patrimonio – almeno nei suoi elementi reputati fondamentali
– è già riprodotto, divulgato, diffuso: le sue images
percorrono lo spazio mediale e anticipano la fruizione
materiale dell’opera. Gadget, merchandising,
pubblicità: l’estetico
diffuso – che trovi il suo punto di emissione nel Museo o in
altri punti della rete di produzione estetica globalizzata –
usa
continuamente le immagini del passato (quante borse con la
stampa della Gioconda abbiamo visto nella nostra
vita? Quante volte abbiamo visto
usata la Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer?); e se
non è noto allo Straniero, all’Altro, è almeno noto – o
gli è facilmente reperibile l’informazione – al cittadino
occidentale, all’abitante del territorio; a maggior ragione
se si
tratta di una figura istituzionale o di rappresentanza.
Si spiega facilmente: il discorso mediale pubblico è completamente permeato dalle immagini del passato, cui in particolare l’Occidente dedica cure e sforzi nel tentativo di trovar loro una collocazione; in quella che si è pretesa essere l’era della fine delle grandi narrazioni (era che ormai volge al termine), l’Occidente continua a non poter fare a meno della Storia. Possiamo dire con serenità che era impossibile non essere a conoscenza della presenza di nudi che avrebbero potuto “offendere gli ospiti islamici”. I Musei Capitolini contengono la romanità antica per eccellenza. Si spiega però anche la goffa misura adottata come mediazione: era impensabile che figure di nudo – storicizzato e “artisticizzato” – potessero offendere qualcuno. Leggi tutto
Lo scorso 29 gennaio si è consumato il vertice bilaterale tra il nostro primo ministro Matteo Renzi e la cancelliera Angela Merkel. I nostri media si sono concentrati molto sulla questione degli aiuti alla Turchia: circa tre miliardi di euro di finanziamento da suddividere tra Belgio, Lussemburgo, Olanda, Austria, Francia, Germania e Italia, paesi che fanno parte della cosiddetta “coalition of the willing” e nella quale l’Italia dovrebbe partecipare con 281 milioni di Euro in proporzione al proprio PIL. La polemica segue alcuni “battibecchi” tra il nostro governo e il Presidente della Commissione europea Juncker riguardo ai rapporti tra gli apparati burocratici europei e l’Italia ed in particolare la supposta subalternità, secondo le uscite del nostro premier, alle decisioni della UE in materia di bilancio e politiche economiche.
Si ritiene che l’incontro tedesco sia importante non solo per aver affrontato il problema dei flussi migratori dal medio oriente, ma perché sono stati toccati temi che riguardano il ruolo geopolitico dell’Italia in Europa. Sembra infatti che Renzi voglia rivendicare un ruolo di “big” nella stanza dei bottoni dell’Unione Europea che assume sempre di più le vesti di istituzione a propulsione nazionale che federale, in cui il processo decisionale dovrebbe avvenire con la partecipazione di tutti gli stati componenti.
Il fatto che siano stati affrontati problemi come le riforme – in particolare quelle sul mercato del lavoro - e sulla flessibilità delle regole di bilancio europeo, lascia pensare che Renzi probabilmente si sia accorto – come lui stesso ha dichiarato – che le politiche di austerità, Leggi tutto
Ultima in ordine d’arrivo, la sostanziale bocciatura di S&P della strategia del governo italiano per ridurre le sofferenze bancarie italiane, non aggiunge granché alle numerose analisi che sono state svolte all’indomani dell’accordo raggiunto fra il governo e la Commissione europea. La garanzia governativa offerta alle obbligazioni senior cartolarizzate con sottostante crediti deteriorati, in tal senso, viene interpretata per quello che sostanzialmente è: un modo per prendere tempo sperando che la ripresa, semmai arriverà robusta quanto serve, faccia il miracolo.
Per dirla con le parole di S&P, “il piano italiano per ridurre i non performig loans non è per niente una cura”, semmai un palliativo. La qualcosa è di sicuro meglio che niente, ma non vuol dire che sarà sufficiente. Ma questo non dipende dalla manovra in sé, ma dalla quantità di NPLs che le banche italiane si trovano a dover gestire. Le stime di S&P parlano di 350 miliardi di crediti sofferenti, dei quali ben 207 sono considerati NPLs, ossia deteriorati.
Per capire quanto pesi questa contabilità sui bilanci bancari italiani, può essere utile una simulazione svolta dal Credit Suisse alcuni giorni fa, che lascia anche immaginare perché non sia stato possibile procedere con il progetto di bad bank di cui si era parlato nei mesi scorsi.
La banca ha calcolato che sui circa 200 miliardi di NPLs il settore bancario abbia riserve che ne coprono 113. Leggi tutto
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“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”*, osservava Gramsci in una nota scritta in carcere nel 1930; questa considerazione è purtroppo ancora oggi particolarmente attuale. Se non saremo in grado di far nascere una più razionale organizzazione della società, sulle rovine dell’attuale, andremo incontro a un’epoca ancora più oscurantista e imbarbarita della presente
Sfruttando a
proprio vantaggio una crisi provocata da assetti proprietari
sempre più monopolizzati da pochissimi privati, che
impediscono lo sviluppo economico, una élite progressivamente
ristretta si appropria di una quota sempre più spropositata
del prodotto
di un lavoro in misura crescente diviso e strutturato a
livello internazionale. Così oggi l’1% della popolazione,
senza dover lavorare,
possiede maggiori ricchezze del 99%, spesso costretto a
faticare per tutta la vita per consentire a una ristrettissima
minoranza di vivere nel lusso
più sfrenato, tanto che 63 nababbi si appropriano di una quota
maggiore della ricchezza totale di 3 miliardi e seicento
milioni di persone, il
50% più povero dell’umanità.
In tale situazione ormai solo un mentecatto può dar credito all’ideologia positivista, espressione sovrastrutturale del dominio della borghesia, secondo la quale il progresso tecnologico e scientifico risolverà progressivamente i problemi della società visto che gli interessi degli industriali non possono che coincidere con gli interessi dei salariati. Allo stesso modo non può che apparire assurda la fede liberale nelle capacità della società civile, non ostacolata dal potere politico, di autoregolarsi secondo le sacre leggi di un mercato, per cui domanda e offerta tenderebbero spontaneamente a equilibrarsi. Leggi tutto
"Niente panico", titola un nuovo
rapporto del Berkman Center for Internet & Society
dell'Università di
Harvard: proteggere le nostre comunicazioni online tramite un
ricorso sempre più diffuso e sofisticato alla crittografia non
impedirà
alle forze dell'ordine e all'intelligence di fare il loro
lavoro. Una preoccupazione che le agenzie governative ripetono
da decenni, e che tuttavia
secondo gli autori – un gruppo di esperti di sicurezza
informatica provenienti dal mondo accademico, dalla società
civile e perfino dalla
stessa comunità dell'intelligence – non trova fondamento per
ragioni tecniche, economiche, e per la traiettoria oggi
intuibile dello
sviluppo tecnologico nel lungo periodo.
Sbagliano dunque le spie a ripetere la metafora del "going dark", lo spettro sempre incombente di "restare al buio" circa le comunicazioni di criminali o sospetti terroristi a causa dei progressi delle tecniche di cifratura dei loro messaggi. Un mantra che si è letto e riletto nuovamente anche e soprattutto dopo lo scandalo Datagate: ora che sappiamo di essere tutti potenzialmente sorvegliati, e che giganti come Google e Apple implementano forme di cifratura "forte", stiamo forse privando forze dell’ordine e intelligence del necessario accesso a comunicazioni indispensabili per sventare attacchi terroristici? E davvero la soluzione, come chiedono, è che i fornitori dei servizi di comunicazione – a partire dai colossi web, ma non solo – consentano comunque un accesso a quelle comunicazioni (tramite le cosiddette backdoor)?
Leggi tuttoNella storia dell’Occidente, alcune particolari merci hanno avuto la capacità di funzionare come status symbol. Si trattava solitamente di prodotti appartenenti all’ambito del lusso, dotati di un prezzo elevato e in grado di far sentire i loro possessori parte di un livello sociale superiore e prestigioso, mentre nel contempo davano la sensazione di essere esclusi da tale livello ai non-possessori. Il sociologo Thorstein Veblen ha sostenuto, nel libro La classe agiata uscito negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, che ciò consentiva alla classe agiata, cioè all’élite economica e sociale, di dimostrare la sua superiore ricchezza e il suo status sociale prestigioso, si riconduceva, a suo avviso, al «consumo vistoso», ovvero a un vero e proprio spreco praticato attraverso l’acquisto e l’ostentazione di nuovi abiti e, in generale, di nuovi beni di consumo di lusso.
Quando, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, è arrivata la società dei consumi di massa in conseguenza di un potente processo di espansione economica, sono arrivati anche dei notevoli cambiamenti per gli status symbol, che hanno continuato a operare, ma sono stati affiancati da nuovi beni dotati di differenti caratteristiche. Si trattava di oggetti di uso quotidiano che erano prodotti dalle industrie e che riempivano progressivamente le abitazioni degli europei. Per la prima volta, infatti, molte famiglie hanno potuto disporre nella loro casa di elettrodomestici estremamente utili come il frigorifero o la lavatrice e ciò ha costituito un chiaro segnale del notevole miglioramento intervenuto nelle condizioni di vita di gran parte della società. Tutti sembravano poter raggiungere una situazione di benessere. Leggi tutto
Venerdì 5 febbraio è stato indetto un presidio dalla Rete contro guerra e militarismo di Napoli presso piazza San Domenico Maggiore, alle ore 17,00 per protestare e denunciare i preparativi di una nuova aggressione contro la Libia. Di seguito la presa di posizione elaborata unitariamente nell’ultimo incontro di Catania dai vari comitati che si riconoscono nella Rete.
Diciamo NO all’intervento militare in Libia
Che si tratti di giorni o qualche settimana, una cosa è certa:
si
stanno scaldando i motori per un nuovo intervento militare in
Libia. Forze speciali sono già sul posto per preparare
l’arrivo di un
contingente di oltre 6000 militari europei, italiani compresi,
e statunitensi. L’Italia, che si candida a guidare questa
nuova missione
militare, ha già inviato 4 cacciabombardieri AMX del 51°
Stormo di Istrana (Tv) presso la base di Trapani Birgi in
Sicilia.
Dobbiamo sin da ora dire NO a questa nuova
aggressione al popolo libico.
Diciamo NO perché, da che mondo
è mondo, chi è causa di problemi non può ergersi a soluzione
degli stessi. E le potenze imperialiste occidentali, con la
NATO,
hanno provocato l’esplosione della situazione libica con
l’intervento militare del 2011, lasciando poi che il vuoto
politico creato
venisse riempito da fazioni, bande, tribù in conflitto tra
loro e con le potenze straniere. Leggi tutto
In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore… cioè i mezzi di produzione… e i mezzi d sussistenza,… benché tale rapporto si realizzi soltanto nel processo di produzione reale, che è essenzialmente processo di produzione di plusvalore; processo di autovalorizzazione del capitale anticipato. Marx, Il Capitale, libro I, cap. VI inedito.
Mediaticamente coinvolti
in questi ultimi tempi solo dai cosiddetti diritti civili,
forse non ricordiamo nemmeno più quella
proposta effettuata nel dicembre scorso dal ministro Poletti,
sull’abolizione “tecnologica” della misurazione temporale
dellagiornata lavorativa. Dopo l’impegno, in
settembre, ad abbassare le pensioni a chi ne avesse anticipato
la fruizione,
l’ineffabile ministro del Lavoro si è messo all’opera per
rosicchiare, non solo il salario differito sui binari della
riforma
Fornero, ma anche quello diretto, angustamente percepito solo
come busta paga, ma in realtà di natura sociale. I diritti
fondamentali, quelli
conquistati entro il rapporto lavorativo vessatorio e
fraudolento, sono così scivolati nell’inavvertita prassi
governativa abile
nell’elargire una progressiva dimenticanza da spargere su
tutto il piano del reale. Sublimati su battaglie giuridiche, i
conflitti sono stati
spostati su piani ideologico-religiosi con altri soggetti di
diritto, dal piano economico a quello sociale, più permeabile
a compromessi. Il
capitale rimane pertanto nel cono d’ombra, libero di far
erodere anche il salario indiretto con il taglio delle spese
sociali e i favori fiscali
alle imprese.
Quando poi le “innovazioni” politiche non si vogliono far capire bene agli interessati, ormai si usa la lingua dominante sul mercato mondiale. Leggi tutto
1. Il
fenomeno in cifre
Gli studenti che hanno seguito percorsi di alternanza scuola lavoro nel solo anno scolastico 2013/2014 sono stati 210.506 (il 10,7% degli iscritti alle scuole superiori di II grado) per una media di quasi 100 ore a studente. Secondo i dati diffusi dall’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa) l’alternanza scuola lavoro, introdotta nel 2005, ha riguardato negli ultimi 10 anni un numero crescente di alunni (45.897 nell’as 2006/2007).
La legge 107_2015, ossia la “Buona scuola” di Renzi, determinerà un incremento notevole tanto del numero di studenti quanto delle ore minime pro-capite impegnate nell’alternanza scuola lavoro. La riforma infatti prevede per la prima volta un monte ore minimo obbligatorio a cui tutti gli studenti saranno costretti a conformarsi: almeno 200 ore nei licei e almeno 400 nei tecnici e nei professionali1. Parliamo, in soldoni, di circa 500.000 studenti interessati già a partire da quest’anno, e di circa un 1 mln e mezzo quando la riforma sarà entrata a regime. Un’enormità. Leggi tutto
La potente offensiva ideologica che ha accompagnato il progressivo deterioramento delle condizioni materiali della classe lavoratrice negli ultimi decenni ha sortito l’effetto di privare di una propria base teorica l’agire collettivo e organizzato dei lavoratori
L’interiorizzazione dell’ideologia del capitale non si registra solamente nella implicita e pacifica condivisione degli assunti dell’economia politica borghese da parte della maggioranza dei lavoratori ma trova un suo riscontro nell’impostazione politica di quelle organizzazioni sindacali ormai completamente funzionali alle esigenze del sistema delle imprese palesandosi, infine, per quanto concerne i sindacati più conflittuali, come un elemento di forte debolezza strategica.
La pratica sindacale ci offre esempi quotidiani di tale debolezza. Il rispetto delle compatibilità economiche aziendali sembra infatti condizionare, come un fiume carsico, anche le piattaforme più radicali.
E’ in tal senso che il sindacato collaborativo e quello conflittuale vengono a caratterizzarsi per posizioni certamente diverse, ma pur sempre all’interno di un conflitto esclusivamente distributivo, per giunta consolidatosi da tempo su posizioni resistenziali.
Snodo ineludibile per un’azione sindacale rispondente alle dinamiche della lotta di classe è, allora, la costruzione di una pratica strettamente connessa ad una meticolosa critica dei dispositivi culturali di controllo, inculcati dagli apparati mediatici del capitale. Leggi tutto
«Il
Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è
d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».
Bertolt Brecht
Se non altro ai tempi di Brecht era un "Comitato centrale" ad avere la pretesa di nominare un popolo più acquiescente. Oggi invece basta una presidentessa della Camera, trovatasi lì quasi per caso a presiedere un'assemblea peraltro eletta con un sistema dichiarato incostituzionale.
Ma i tempi sono quelli che sono. Ed è così anche nelle redazioni. Pensate un po' al dottor Scalfari: un tempo intervistava le personalità importanti, oggi si è ridotto alla Boldrini.
Quella che il primo ha fatto alla seconda (la Repubblica del 5 febbraio) non è una vera intervista, è piuttosto una chiacchierata tra amici uniti da un'incrollabile fede eurista. Una fede esposta in termini quasi lirici, certamente patetici, per certi aspetti comici. Ma non per questo meno gravi, dato l'assoluto disprezzo elitario che traspare ad ogni virgola della pseudo-intervista.
Alla signora presidentessa della Camera il popolo (quello italiano, ma non solo) proprio non piace. Se ne crei dunque un altro più confacente ai suoi gusti raffinati. E lo si faccia alla svelta, che tempo ce n'è poco. Leggi tutto
In un mondo del lavoro frammentato e sconfitto come ripartire? Chi e dove sono i nostri referenti di classe? Chi e dove sono i nostri nemici e come riunificare le mille lotte che attualmente non comunicano fra loro? La borghesia sa che le condizioni strutturali inevitabilmente vanno omogeneizzando il mondo del lavoro e cerca perciò di introdurre elementi di divisione sovrastrutturali. Un'inchiesta del collettivo Clash City Workers ci aiuta a capire
La crisi generale del capitalismo aggrava
pesantemente le condizioni del mondo del lavoro. Qua e là
assistiamo a momenti di ribellione e
di lotta che nessuna forza della sinistra è stata in grado di
unificare. Nello scoramento generale stanno facendo breccia le
semplificazioni
populiste e la peggiore destra xenofoba, mentre la “sinistra”
si aggrappa alle mode culturali del momento, dimostrandosi
incapace di
un'analisi della fase all'altezza delle necessità.
Per cambiare il mondo deve essere posto al centro il nodo della contraddizione capitale/lavoro, ma cos'è oggi il lavoro? Non tutti i proletari sono uguali davanti al capitale. In una realtà volutamente frammentata bisogna capire “dove sono i nostri”.
Clash City Workers, un collettivo “di lavoratrici e lavoratori, disoccupate e disoccupati, e di precari”, si è cimentata in questa impresa e ci offre un prezioso contributo, una sorta di inchiesta sul mondo del lavoro e alcune deduzioni politiche conseguenti.
La lettura di questa indagine è raccomandata a tutti coloro che sono impegnati nelle lotte del mondo del lavoro. In questa sede cerchiamo di riferirne alcuni punti principali.
Leggi tuttoProponiamo ai nostri lettori un breve testo riassuntivo che comparirà in una futura pubblicazione a cura dell'ARS
Quando, nel 2011,
abbiamo cominciato ad argomentare la necessità per il nostro
paese di abbandonare l'euro1 , non
era facile imbattersi, nel dibattito pubblico, in critiche
esplicite alla moneta unica. Per
fortuna abbiamo quasi subito incontrato persone che andavano
nella stessa nostra direzione, a partire da Alberto Bagnai2 e
dagli amici che avrebbero poi dato vita all'ARS. Nel corso del
tempo, i contenuti che diffondevamo
hanno mostrato in pieno la loro correttezza, tanto che alcuni
di essi sono entrati a far parte del mainstream
economico.
Recentemente, un gruppo eterogeneo di economisti molto noti ha pubblicato una comune analisi, una “consensus narrative”, della crisi che ha raccolto ampie adesioni3 . Ciò che ha messo d'accordo esperti appartenenti a orientamenti diversi, non diverge da quanto abbiamo cercato di diffondere già diversi anni fa. Il punto fondamentale è che la crisi dell'euro non è una crisi di debito pubblico, bensì una crisi di debito estero (pubblico e privato), generata dai deficit delle partite correnti nei paesi della periferia dell'eurozona. Tali saldi negativi si sono perpetuati nel tempo a causa delle profonde differenze fra le diverse economie nazionali.
È accaduto che con l'unificazione della moneta i paesi più deboli si sono trovati in mano una valuta troppo forte, mentre quelli del centro hanno goduto di un cambio più favorevole alle loro politiche economiche basate sulle esportazioni. Leggi tutto
E' in corso una campagna forsennata di demonizzazione del presidente russo Vladimir Putin.
Molti se ne accorgono, tanto è evidente. Non tutti ne capiscono le ragioni. Non tutti si rendono conto di chi la organizza.
Mettiamo in fila i fatti. Gli ultimi, perché la faccenda va avanti da diversi anni. Da quando il presidente russo ha capito che con l'Impero c'è solo da difendersi. Deve avere letto il libro di Arnold Toynbee. Putin "aggressore" dell'Ucraina. Putin che ha "annesso" la Crimea con la forza. Putin che ha abbattuto il Boeing malaysiano. Putin che ha ammazzato la Politkovskaja. Putin che ha ammazzato Boris Nemtsov sul ponte del Cremlino. Adesso è in corso la nuova ondata. (Nuova si fa per dire).
Putin che ha ammazzato Aleksandr Litvinenko, con il polonio. Lo dice un giudice inglese, che però aggiunge: "probabilmente". Le ricchezze sterminate di Putin propagandate da un documentario della Bbc senza uno straccio di prova. Ma riprese e amplificate da un ministro dell'Amministrazione americana e avallate dal portavoce di Obama. Che è come mandargli a dire: con te non discutiamo più. Mentre lui ancora si ostina a chiamarli "i nostri partners". Che pazienza!
E , tra poco, aspettatevi un'altra "bomba": il Tribunale Penale Internazionale annuncia di avere aperto l'indagine sulle responsabilità della guerra di Georgia dell '8 agosto 2008. Leggi tutto
La nuova frontiera della privatizzazione dei servizi pubblici locali si basa sul mantra dell’economia di scala: servono pochi grandi player nazionali per gestire acqua, rifiuti, energia e gas. In realtà, se si ragionasse logicamente e non per teoremi indiscutibili, si capirebbe come l’economia di scala abbia una sua motivazione, laddove la si interpreti nel suo reale significato: in un dato territorio e per una data attività, un certo dimensionamento geografico e territoriale della stessa consente, attraverso le sinergie intrecciabili, la riduzione degli sprechi.
L’economia di scala ha tuttavia dei limiti, legati alla particolarità dell’attività in oggetto, superati i quali si trasforma in diseconomia; solo per citarne alcuni, con importanti conseguenze sulla produttività complessiva: il costo della comunicazione, il peso (e gli stipendi) del management, il costo del controllo e dell’asimmetria informativa, il peso della diminuzione del senso di appartenenza dei lavoratori.
Ma, aldilà delle summenzionate cause di possibile diseconomia, in che senso la crescente dimensione aziendale consente una miglior gestione del servizio idrico, dell’igiene urbana e dei servizi energetici?
Se guardiamo alla realtà, solo ed esclusivamente dal punto di vista economico-finanziario, relativo al fatto che la maggior dimensione aziendale rende più conveniente l’accesso al credito sul mercato bancario (e, anche questo, dovuto esclusivamente ai limiti volutamente posti dal patto di stabilità e dal pareggio di bilancio all’intervento pubblico). Leggi tutto
La Cina rappresenta davvero una minaccia a livello geopolitico per gli Stati Uniti e i Paesi ad essa confinanti nella regione del Pacifico? Vi presentiamo un estratto del Prof. Domenico Losurdo che analizza alcune questioni relative alla cosiddetta “minaccia cinese”
Il pivot asiatico
Il “pivot” viene spesso presentato in Occidente come una risposta alla “minaccia“ proveniente da Pechino. Non c’è dubbio che con l’ascesa o, più esattamente, col ritorno della Cina, dopo la fine del “secolo delle umiliazioni“, e con l’avanzare del processo di maturazione della Repubblica popolare, il quadro internazionale sta cambiando in modo radicale. Nel marzo 1949 il generale statunitense MacArthur poteva constatare compiaciuto: «Ora il Pacifico è diventato un lago Anglo-Sassone» (in Kissinger 2011, p. 125). Dati i rapporti di forza esistenti, gli USA potevano sperare di bloccare con il loro intervento l’ascesa al potere del partito comunista e di Mao Zedong; la speranza andava rapidamente delusa e a Washington, tra polemiche furibonde, si scatenava la caccia al responsabile della “perdita” del grande Paese asiatico.
Il Pacifico non era più in senso stretto “un lago Anglo-Sassone” ma, come sappiamo, ancora alla fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti violavano indisturbati lo spazio aereo e marittimo cinese. Erano gli anni in cui la superpotenza ormai solitaria cercava di consolidare e rendere permanente e incolmabile la sua già netta superiorità militare mediante la Revolution in Military Affairs. Leggi tutto
Il recente annuncio della Banca
del Giappone
(BoJ), che introdurrà un tasso di interesse
negativo (NIRP) per le banche commerciali in
possesso di riserve di contanti,
è l'ammissione finale che la politica monetaria supportata
dagli economisti ufficiali ed implementata a livello globale
dalle banche centrali
ha fallito.
Le principali armi di politica economica, usate a partire dal crac finanziario globale e della conseguente Grande Recessione al fine di evitare un'altra Grande Depressione come quella del 1930, erano state prima il tasso di interesse a zero (ZIRP), poi le 'non-convenzionali' misure monetarie del 'quantitative easing (QE)' (che incrementava la quantità di denaro con cui vengono rifornite le banche), che un anno fa o giù di lì avevano fissato al 2% l'obiettivo dell'inflazione. Si supponeva che lo ZIRP e una fornitura di denaro virtualmente illimitata (QE) avrebbero rilanciato l'economia globale, in modo che eventualmente il capitalismo e le forze del mercato avrebbero prevalso e avrebbero portato ad una 'normale' e duratura crescita economica e ad una più piena occupazione.
Ma QE e ZIRP hanno fallito nel raggiungimento del loro obiettivi di inflazione (e crescita).
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Abbiamo rivolto
qualche domanda a Marco Veronese Passarella, docente di
economia presso l’Università di Leeds e co-autore
con Emiliano Brancaccio del libro: “L’austerità è di destra.
E sta distruggendo l’Europa”. Come era già
accaduto alla Scuola di formazione estiva del Collettivo
Stella Rossa, dalla conversazione che abbiamo avuto sono
emersi diversi temi, non soltanto
tecnici, ma anche politici, sociali, culturali.
* * *
“CSR: In Italia, si guarda molto alle esperienze della sinistra radicale di altri paesi europei, in particolare di Spagna e Grecia. Gianis Varoufakis, però, ha recentemente rilasciato un’intervista in cui critica le recenti scelte del governo di Syriza e parla delle politiche di austerità che potrebbero derivare da un governo di coalizione fra Socialisti del PSOE e Podemos.
MP: Vi sono delle similitudini fra il caso greco e quello spagnolo. Personalmente, se proprio devo scegliere, mi sento più vicino a Syriza che a Podemos. Podemos non ha un chiaro riferimento di classe nel suo programma. Sostanzialmente, è un movimento sganciato dalla topologia politica tradizionale. Il che di per sé non è una cosa negativa. Solo che non mi è chiaro quale sia la loro idea di società e come pensino di darle corpo. D’altra parte, Varoufakis ha ragione quando sostiene che non vi sono margini di agibilità politica dentro l’Unione Europea. Il rischio, infatti, è che tutti i governi, anche i più progressisti e ben intenzionati, facciano come in Grecia. Leggi tutto
Il neo-presidente argentino
Mauricio Macri non ha perso
tempo. Dopo la sua risicata vittoria elettorale (51,4%), due
mesi dopo il suo insediamento si può trarre un primo bilancio
del governo del
“Berlusconi gaucho”, figlio di un buon amico degli Agnelli e
di Licio Gelli.
Approfittando della “luna di miele” dei primi tempi, ma soprattutto della chiusura del parlamento in vacanza, Macri avanza come un bulldozer. Non c’è settore che non sia sotto attacco del revanscismo neo-liberista della destra al governo, che ha prodotto un drastico rovesciamento del quadro politico con l’appoggio del Partito Radicale (ex social-democratici) di Alfonsin Jr. L’obiettivo dichiarato è quello di smantellare strutturalmente il progetto-Paese dei governi Kirchner e sbarazzarsi delle conquiste politiche, economiche e sociali.
Macri agisce come un potere de facto, ai margini della legalità democratica, saltando il Parlamento dove è ancora in minoranza. Un dettaglio in via di soluzione, visto che, nei giorni scorsi, è riuscito a spaccare l’unità del peronismo e a far passare una ventina di parlamentari dalla sua parte.
In nome del “repubblicanesimo”, a colpi di “Decreti di Necessità ed Urgenza” (DNU), ha fatto piazza pulita di molte delle conquiste degli ultimi anni, iniziando dal nuovo Codice di Procedura Penale e dalla “Legge sui mezzi di comunicazione”, che metteva in discussione poteri forti, consolidati all’ombra della passata dittatura, a cominciare dal Gruppo Clarín, una potenza mediatica di tutto rispetto.
Leggi tuttoSi registra l’emergere
impetuoso, ma privo di rappresentanza politico/sindacale
adeguata, di un proletariato del general
intellect, le cui modalità di riproduzione e di sfruttamento
non passano più tramite la “spremitura” di una energia
lavorativa, con modalità di organizzazione del lavoro
standardizzate e ripetitive, come succedeva all’operaio
fordista, ma anche
all’impiegato “di concetto” novecentesco (basta guardare un
qualsiasi film di Fantozzi per vedere come, nel secolo scorso,
anche il
ceto impiegatizio fosse sottoposto ad una forma peculiare di
taylorismo). Le modalità di sfruttamento di questo nuovo
proletariato del general
intellect passano per il tramite dello sfruttamento della
propria intelligenza, della propria preparazione culturale e
della propria capacità
di elaborare in modo creativo e comunicare in modo efficace
informazioni e conoscenze.
Lo sfruttamento e il disciplinamento di questo nuovo proletariato devono quindi passare tramite organizzazioni del lavoro diametralmente opposte rispetto a quelle neofordiste novecentesche (caratterizzate dalla stabilità del lavoratore sul posto di lavoro), che ne flessibilizzino gli orari ed i tempi di lavoro e di consegna del prodotto richiesto dal datore di lavoro, al fine di controllare l’appropriabilità dei risultati del suo lavoro, posto che le tradizionali tecniche dei “tempi e metodi” del fordismo non sono più applicabili adu n lavoro discontinuo, non standardizzato e creativo.
Dette organizzazioni del lavoro, inoltre, devono trovare l’equilibrio ideale fra autonomizzazione del singolo lavoratore intellettuale ed esigenza crescente di interazione di gruppo, unica forma attraverso la quale la creatività del singolo può trovare una espressione compiuta in un “prodotto intellettuale” perfettamente definito ed idoneo alla valorizzazione di mercato. Leggi tutto
In un lungo, interessante articolo pubblicato dall’Huffington Post, il professore Jedediah Purdy della Duke Law School esamina gli argomenti con cui l’establishment democratico tenta di screditare la candidatura di Bernie Sanders, dopo che l’anziano senatore del Vermont, contro ogni pronostico, si è rivelato un pericoloso competitor per la beniamina dell’apparato, Hillary Clinton. Purdy esamina, in particolare, due posizioni: quella dell’economista neokeynesiano Paul Krugman e quello di un’autorevole firma del New Yorker, Alexandra Schwartz.
L’argomentazione di Krugman, ridotta all’osso, suona così: governare è un compito troppo duro per un socialista democratico “idealista” come Sanders, incapace di accettare i compromessi che ogni vero leader politico deve necessariamente compiere. Per inciso: visto che le proposte di politica economica di Sanders sono neokeynesiane, Krugman confessa candidamente che le proprie idee sono impraticabili, visto che fra tali idee e quelle liberiste tertium non datur (ove si escluda il superamento del capitalismo). La Schwartz attacca invece sul versante del massiccio consenso che Sanders riscuote fra giovani e giovanissimi: ciò gli riesce, scrive, perché Sanders evoca antichi fantasmi di “purezza”, coltiva nostalgie per un tempo immaginario in cui la politica era più semplice e diretta. Bisognerebbe dunque aprire gli occhi ai ragazzi e invitarli a scegliersi leader più “adulti” (come dire: Sanders è un vecchio rimbambito). Leggi tutto
Le cose dovrebbero andare più o meno così, secondo la vulgata della teologia economica: se c’è un calo della domanda, i prezzi al consumo dovrebbero scendere e questa discesa dovrebbe far risalire la domanda innescando una serie di investimenti in grado di stimolare ulteriore crescita. Ma nulla di tutto questo sta avvenendo dimostrando che l’economia in sé non è altro che un aspetto delle relazioni e delle prospettive politiche, qualcosa di molto diverso da quella “scienza” newtoniana su cui la borghesia in ascesa volle fondare la propria legittimazione. Il costo delle materie prime a cominciare dal petrolio per finire al ferro è calato dal 30 al 50 per cento dal 2012 ad oggi trascinando con sé anche le quotazioni di molti prodotti alimentari, ma i prezzi o sono diminuiti di un’inezia o sono rimasti al palo o addirittura in qualche caso sono addirittura aumentati non appena c’è stato un timido accenno di ripresa del mercato come è accaduto per le auto.
Tenendo conto che il costo del lavoro in tutta la filiera produttiva va dal 30 al 50 per cento, i prezzi sarebbero dovuti calare di un quarto abbondante. Ma il fatto è che il capitalismo finanziario ha cambiato la concezione stessa delle cose trasformando il profitto da misura relativa all’insieme del sistema domanda – offerta, ad assoluto che non dipende più dalle condizioni reali e anzi le costruisce. Leggi tutto
Succede, nella ricca eurozona, che la crescita dei risparmi superi quella degli investimenti non finanziari, quindi di imprese e famiglie. E succede in un momento in cui viene riconosciuta anche dai più ottimisti la persistente debolezza degli investimenti per diversi motivi.
E tuttavia questi risparmi devono trovare un impiego. Sicché, non trovandolo laddove si originano, finiscono all’estero. La crescita dei prestiti netti esteri dell’eurozona, infatti, continua imperterrita da diversi anni, e ormai è in pieno boom.
Per capire come mai alla crescita del risparmio europeo non corrisponda un incremento degli investimenti interni, ma di quelli esteri, può essere utile l’analisi dei saldi settoriali, che la Bce di recente ha rilasciato.
Qui si può osservare un grafico che racconta tutta la storia. L’evidenza più visibile, che la stessa Bce rileva, è la sostanziale scomparsa degli investimenti pubblici nell’area, che anzi sono diventati negativi. Ciò comporta che i circa 500 miliardi di risparmi netti dell’eurozona (dati riferiti al terzo quarto 2015) si distribuiscono per metà in investimenti del settore privato non finanziario, e per il resto in prestiti esteri.
L’evoluzione è chiaramente osservabile a partire dal 2012, quando gli investimenti pubblici, per quanto già residuali, esprimevano ancora una valutazione positiva. In particolare, negli anni più duri della crisi, quindi fra il 2008 e il 2010, gli investimenti pubblici erano ancora nell’ordine dei 50-80 miliardi, mentre si riducevano drasticamente quelli esteri. Leggi tutto
1. Periodicamente, viene
offerta come notizia qualche "indiscrezione"
sulla volontà tedesca di uscire dall'euro.
Questa diffusione di "voci", a dire il vero, assume più spesso, nei toni di chi la diffonde, il sapore di un'implicita minaccia mediatica a noi italiani: la mamma severa ma esemplare, la Germania, si sarebbe stancata di noi discoli e ci manderebbe in collegio, prendendosi una lunga vacanza da questa integrazione €uropea, che tanto gli costa in termini di sacrifici fatti per noi inutili PIGS indisciplinati.
Risultato: senza l'euro come faremmo ad andare avanti, chi ci proteggerebbe dalla Cina? Cosa potrebbe evitare il default del debito sovrano italiano e la conseguente spaventosa crisi di finanziamento dello Stato e di travolgimento di tutto il welfare che ne conseguirebbe?
Insomma, viene agitato implicitamente lo "spauracchio Grecia" (in caso di uscita dall'euro!!!), dimenticando allegramente che quello che si è verificato in Grecia, in termini di tagli alle pensioni e sostanziale disattivazione del sistema sanitario pubblico nonchè di svendita di ogni possibile asset pubblico (e deprezzamento totale degli asset privati), sta avvenendo dentro la moneta unica e, anzi, a causa del memorandum di misure fiscali imposte dall'ESFS (ESM), FMI, e Eurogruppo, per poter rimanere dentri l'UEM.
Leggi tuttoSu di un metodo di
lotta per il lavoro
Ormai è da più di un anno che stiamo supportando le attività della Lista dei Disoccupati e Precari del VII Municipio e del Coordinamento Disoccupati e Precari Organizzati nato tra le diverse liste esistenti sul territorio romano. Un breve – ma intenso – periodo di lotta, condiviso finora con compagni dei Carc, della Casa del Popolo Giuseppe Tanas, dell’Unione Sindacale di Base e di altre realtà e singoli provenienti da diverse esperienze politiche o di lotta. E, naturalmente, con precari e disoccupati di Roma e provincia. L’idea alla base di un movimento di disoccupati e precari nasce principalmente dalla constatazione che in una regione dove il tasso di disoccupazione supera il 12% e quello dei giovani è quasi il triplo, il tentativo di ricomposizione di una classe di lavoratori (occupati e disoccupati) sempre più frammentata, oltre che di organizzazione di un movimento politico e sociale capace di agire da controparte e alternativa all’establishment centrale e locale, non possa che passare – anche – dall’organizzazione di un movimento di lotta per il lavoro. Tanto più in territori periferici come quello del VII Municipio (Cinecittà) dove il livello di disoccupazione e di marginalità sociale raggiunge livelli ben più alti di quelli registrati su scala provinciale e regionale. Leggi tutto
Stando ai numerosi enunciati
riguardanti le
sorti della letteratura che puntualmente si susseguono negli
ultimi anni, la maggior parte degli scrittori e dei critici –
anche di orientamento
diverso – è concorde nell’affidare alla scrittura letteraria
una funzione etica, uno slancio moralmente costruttivo, in
grado
di custodire e rilanciare l’intero patrimonio di valori
appartenenti all’ambito individuale e collettivo del Bene. Che
si tratti di un
obiettivo assolutamente nobile, in tutti i sensi, è fuori
discussione. Bisogna vedere, però, se dietro questa nobiltà
etica non
si nascondano delle insidie profonde, tali da paralizzarne gli
esiti.
La prima proviene da una concezione teleologica della temporalità, granitico presupposto – come ha dimostrato, nel corso del Novecento, la più agguerrita tradizione filosofica – di un radicale, inaggirabile nichilismo. L’adempimento di qualsiasi progetto costruttivo, inscritto nel solco del Bene, è inestricabilmente congiunto, infatti, a una consolidata idolatria del divenire storico.
Progettare, costruire, rinnovare – oppure, al contrario, restaurare un valore consegnato all’oblio – significa trasformare ciascun segmento temporale nello strumento finalizzato al raggiungimento di uno scopo. Nietzsche, quasi in ogni pagina della sua opera, non si è mai stancato di ricordarlo. Tale tensione rivolta verso il divenire implica necessariamente lo svuotamento dell’attimo: irripetibile nella sua particolarità, nella sua «abissale» singolarità, direbbe Nietzsche in Così parlò Zarathustra.
Leggi tuttoCome è ovvio, le notizie per capire cosa sia successo e perché sono ancora troppo poche e, per ora, possiamo fare solo un catalogo delle possibili spiegazioni azzardando qualche valutazione sulla loro maggiore o minore credibilità. Unici dati certi su cui fondarci, al momento presente, sono questi:
-Giulio era in Egitto per fare una tesi di dottorato sul movimento sindacale egiziano
-È stato rapito ma non ucciso subito
-Per 3-4 giorni è stato torturato crudelmente ma con tecniche che denotano mani esperte.
Allo stato attuale le ipotesi sui responsabili sono:
a- criminalità comune, tesi ufficiale del governo egiziano
b- fratelli Musulmani tesi ufficiosa fatta filtrare dallo stesso governo
c- uno dei servizi segreti egiziani.
Questa ultima ipotesi ha poi una serie di sotto ipotesi sul movente, ma ne parliamo dopo. Per ora possiamo sgombrare il campo dalle prime due ipotesi che sembrano infondate. Leggi tutto
Con un’espressione in bilico tra l’onesto riconoscimento della realtà fattuale e l’arroganza propria del potere, così ebbe modo di affermare uno dei massimi miliardari del pianeta: “La lotta di classe esiste e la mia classe la sta vincendo”. Si tratta, in effetti, di una chiara e ludica analisi del rapporto di forza quale si è venuto riconfigurando nel tempo della ribellione delle èlites e dell’offensiva neoliberista al mondo del lavoro e dei diritti. Scenario di cui, tuttavia, non si ha contezza, poiché il potere impone le sue mappe ingannatorie e usa armi di distrazione di massa.
Per una comprensione della reale entità dell’èlite neo-oligarchica come maschera di carattere e come agente del capitale assoluto-totalitario nel tempo del disarmo del Servo può giovare soffermare l’attenzione sul cosiddetto “gruppo Bilderberg”, emblema dell’Internazionale liberal-finanziaria del tempo neofeudale.
Contrariamente a quanto si può a tutta prima essere indotti a pensare, il gruppo Bilderberg non consiste in una società, né in una cospirazione: si tratta, invece, di un incontro privato tra potenti di tutto il mondo, che ricorre annualmente, a partire dal primo consesso, che avvenne nel 1954 presso l’Hotel Bilderberg della cittadina olandese di Oosterbeek.
Tale incontro annuale ha lo scopo di porre a confronto i potenti dell’èlite, uniti dall’ideologia neoliberista che li rappresenta e dalla volontà di porre in essere una rete atta a tutelare i loro interessi e a unire le istituzioni finanziarie. Leggi tutto
“Il vecchio mondo muore e il nuovo non può nascere; in questo chiaro-scuro sorgono i mostri” scriveva Gramsci nei suoi quaderni. Sia il “vecchio” che il “nuovo” mondo cui pensava lui sono stati archiviati dalla storia, ma di mostri se ne incontrano più che mai.
Zombi e chimere, come creature fantastiche, nascono da tradizioni lontanissime, ma come mostri politici sono invece strettamente affini. Come definire, ad esempio, un soggetto come il partito Nazi-Bolscevico se non una chimera formata da due zombi? Per citare un solo esempio, particolarmente spettacolare e inquietante.
Fra tanti mostri, quelli probabilmente più pericolosi sono quelli genericamente riconducibili ad un revival di nazionalismo e ad un ricorrente desiderio di “un governo forte”. Entrambi fenomeni cui tutti i popoli europei (e non solo) hanno già versato un ingente tributo di lacrime e sangue, ma che ostinatamente tornano ad emergere. Quasi che, quando le cose si mettono male, sorga una specie di irrefrenabile desiderio di farle andare ancora peggio. Forse non aveva tutti i torti Freud con la sua “Pulsione di morte”.
Ma esiste un altro zombi, particolarmente insidioso perché seduce anche molte persone impermeabili alla retorica nazionalista e/o razzista. Si tratta del “complotto”. Non sembra tanto pauroso, anzi molte delle sue varianti, dalle scie chimiche al dominio dei rettiliani, sono particolarmente stravaganti, perfino buffe. Eppure… Leggi tutto
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Dicono gli
esperti di borsa che di solito il mese di gennaio è un mese
favorevole per gli indici azionari. Ma si dice anche, secondo
la tradizione
popolare e le statistiche passate, che i giorni della Merla,
gli ultimi tre di gennaio, siano i giorni più freddi
dell’anno.
Beh, il mese di gennaio 2016 ha sicuramente rappresentato un’eccezione. Ma si tratta veramente di un’eccezione o invece sta avvenendo qualcosa, sia a livello economico che a livello meteorologico, che induce a pensare che siamo di fronte ad un fatto strutturale, alla conferma di un nuovo ciclo?
Sul piano meteorologico e ambientale, sono oramai tanti i segnali che ci indicano che la struttura ecologica si stia modificando in tempi relativamente brevi sotto l’influsso dell’avvento dell’antropocene.
Sul piano dell’analisi economica, nonostante i vari campanelli d’allarme, sono ancora molti gli economisti (quelli della scuola neoclassica, secondo la quale il sistema economico è rappresentato da un equilibrio economico generale, perfettamente razionale e quindi immutabile, o, di converso, quelli della scuola marxista più ortodossa secondo la quale i rapporti di sfruttamento tra le classi di oggi avvengono ancora con le modalità di quelli dell’Ottocento) che, nonostante il periodo di turbolenza e di crisi, credono che in fin dei conti nulla sia cambiato nelle leggi economiche e nei fondamentali.
Leggi tuttoCon due testi, firmati
rispettivamente da Raffaella Battaglini e
da Francesco Raparelli, dedichiamo il
piccolo speciale di questo sabato
alla Storia di un comunista di Toni Negri che, uscita da
poco per Ponte alle Grazie, ha sollecitato reazioni diverse,
in diversi casi caratterizzate
da una notevole aggressività. A segnalare ancora una volta
che nelle vicende italiane dell'ultimo mezzo secolo c'è una
ferita rimasta
aperta, e difficile - a quanto pare - da rimarginare.
* * *
Raffaella Battaglini
Dichiaro subito la mia parzialità: conosco Toni Negri da quando sono nata, e questa frase va intesa in senso letterale, perché Toni era amico di mio padre. Nella seconda metà degli anni Settanta, anch’io ho fatto parte di quel movimento che Negri in quanto teorico e militante ha contribuito a creare e organizzare. Molto più tardi, nel 2006, ho scritto insieme a Toni un testo teatrale su quegli anni, intitolato appunto Settanta.
Leggi tutto"Voi
banchieri siete un covo di vipere e ladri. Con l'aiuto di
Dio, vi
sconfiggerò"
(Andrew Jackson, settimo
presidente Usa, 1815)
"La
verità è che la finanza è proprietaria del governo fin dai
giorni
di Andrew Jackson“
(F.D. Roosevelt, 1933)
1.
Nella ritualità dell'opposizione politica, qualunque veste questa assuma, la questione bancaria ricopre tre ruoli: quello dell'indifferenza, verso un fatto "tecnico", comunque risolvibile quando emergerà un qualche tavolo di trattativa sul problema; quello della protesta che cerca di evidenziare l'uso sacrificale dei risparmiatori nella crisi ma non indica verso quale sistema bancario si debba andare; quello del calcolo superficiale, quello del "tanto non accade nulla" perchè, in qualche modo, le banche sistemeranno il problema tra di loro appena sfiorando la politica.
Ognuno di questi ruoli è contenuto nel rituale di metabolizzazione della crisi bancaria da parte di ogni sorta di opposizione politica. Rituale che deve condurre, come tutti i riti, alla metabolizzazione ma non alla risoluzione del problema. Si parla di una opposizione che, qualsiasi sia l'atteggiamento o la colorazione che la caratterizza, conta su due elementi di fiducia: quello che vuole che l'allargamento della platea dei partecipanti alla democrazia deliberativa non sia un metodo ma una soluzione (di tutto, anche della crisi bancaria), quello che vuole la propria base sociale, o il settore di opinione pubblica di riferimento, magari in difficoltà oggi ma con un sicuro avvenire. Una volta allargata la platea dei partecipanti alle decisioni democratiche, s’intende.
E qui il problema non sta nello scoprirsi antidemocratici ma di indicare le attuali retoriche sulla democrazia taumaturgica come un atteggiamento di cui non si sa se è più fuori dal tempo o dallo spazio. Leggi tutto
Era prevedibile che Russia e Usa, di fronte al disastro della Siria, sarebbero tornati a parlarsi. Troppe, ormai, le variabili che rischiano di finire fuori controllo. E proprio per questo colpisce il dato politicamente più clamoroso, cioè quanto sia ormai impazzito l’impero di Washington.
Ammetto di aver usato il termine “impazzito” pensando più alla maionese che alla psichiatria. Siamo di fronte all’applicazione costante e tenace di una ricetta in apparenza semplice ma che ormai non produce più nulla di commestibile. Guardiamoci intorno. Partiamo dall’Arabia Saudita, il più fedele alleato in Medio Oriente, dice l’impero. Ha fatto di tutto per far saltare l’accordo sul nucleare siglato tra il Cinque più Uno (Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia più Germania) e ha reagito alle innovazioni in campo energetico (shale oil e shale gas) facendo precipitare il prezzo del greggio per mandare fuori mercato le aziende americane che usano la tecnologia del fracking. Con ripercussioni fortissime non solo in Occidente (le aziende petrolifere e quelle collegate licenziano, mentre gli effetti del calo del prezzo sono ancora marginali nell’economia delle famiglie) ma anche in Medio Oriente: per la prima volta i Paesi del Golfo Persico devono affrontare l’austerità, le tasse, la riduzione del welfare, e non è detto che la botta venga assorbita senza scosse. In più, tornando alla Siria, l’Arabia Saudita muove verso la guerra totale, con una mossa ce pare più subita dagli Usa che concordata. Leggi tutto
Un’ opportunità da sfruttare con il massimo rigore e con tutto il cinismo necessario . Secondo il massimo teorico del neoliberismo Milton Friedman , il keynesismo, favorendo con l’intervento dello stato occupazione e sussidi sociali, ha disturbato gravemente il libero gioco del mercato, impedendo la nascita di un capitalismo puro, il solo che può garantire una reale crescita al servizio non solo del capitale ma anche della popolazione.
Un disastro di qualsiasi natura può spezzare la resistenza di coloro che difendono welfare, industria e agricoltura locale, occupazione, salari, pensioni, e deve essere messo a profitto con la massima urgenza da un team di esperti, possibilmente fan di Milton Friedman provenienti dalla “Scuola di Chicago”.
Lo shock sulla popolazione determinato da uno tsunami,da un colpo di stato , da un uragano , da una bolla finanziaria ,da un debito pubblico creato artificialmente tramite speculazioni mirate , può creare con l’ausilio di accademici neoliberisti, dei mass media, uno stato di paralisi ,di confusione , di incertezza tra la popolazione che favorisce una “stato di emergenza” che ben utilizzato faciliterà un pacchetto di leggi che abbatta gli intralci alla privatizzazione, alla presenza “eccessiva” dello stato nella scuola, nella ricerca, nella sanità…
Gli interventi saranno differenti secondo la tipologia del disastro ma saranno tutti facilitati dal collasso economico del Paese e dalla necessità da parte dello stato di indebitarsi con istituzioni internazionali quali il FMI o la Banca Mondiale ben felici di imporre condizioni terrificanti come auspicati dall’elite locale. Leggi tutto
Il tempo, si sa, è galantuomo. Ed i nodi vengono sempre al pettine. Anche quelli del renzismo. Costui continua ad assicurare crescita ed a predicare flessibilità. Si annuncia invece una nuova recessione, mentre sulla flessibilità delle regole di bilancio Juncker gli ha risposto picche.
Per la verità i nodi del renzismo sono anche altri. Prendiamo, ad esempio, il caso delle banche. Prima il governo ha trasformato in legge la suicida regola (per l'Italia) del bail-in, poi si è accorto del disastro compiuto ed ora vorrebbe tornare indietro. La spinta in questo senso è forte —dopo le parole di Visco, la richiesta di una sospensione del bail-in viene da un editoriale del Sole 24 Ore— ma per Berlino, per la Commissione, per la Bce, la risposta è una sola: le regole sono regole e devono solo essere applicate.
Risuonano ancora le stolte parole del fiorentino di fronte ai primi crolli borsistici delle banche italiane: «è il mercato, bellezza». Ma il mercato non sta risolvendo un bel nulla. Ci sarà magari qualche fusione, ma non pare proprio che ci sia la coda di potenziali acquirenti. La capitalizzazione di molte banche vola ormai verso lo zero, ma siccome il prezzo deve tener conto anche delle perdite future dovute alle "sofferenze" dei loro crediti, per ora non se ne fa niente. E la crisi bancaria continua così ad avvitarsi su se stessa. Leggi tutto
Desta veramente scandalo ed indignazione il cumulo di menzogne spudorate con cui i giornalisti dei principali canali TV e dei maggiori quotidiani descrivono le operazioni militari in Siria che potrebbero segnare una svolta nel corso della guerra che insanguina il paese da quasi 5 anni. L’apice dello scandalo è raggiunto nella descrizione, del tutto capovolta rispetto alla realtà, della battaglia per Aleppo, che potrebbe rivelarsi decisiva per le sorti della guerra.
La grande città industriale, posta nel Nord della Siria, è stata sempre la capitale economica del paese. Nel 2012 la città fu attaccata da bande jihadiste di diversa tendenza, in buona parte costituite da jihadisti e mercenari stranieri, che riuscirono a circondarla quasi completamente, ad occupare alcuni quartieri periferici comprendenti varie industrie e le centrali elettrica ed idrica, e ad infiltrarsi anche in alcuni quartieri centrali.
Gli abitanti non collaborarono minimamente all’attacco, ma ne subirono tutte le conseguenze. Infatti le industrie furono tutte smantellate dai jihadisti, continuamente riforniti dalla vicina Turchia con armi e rinforzi. Le attrezzature industriali furono tutte rivendute nella stessa Turchia, ovviamente con la complicità delle autorità turche.
Poiché però la città continuava a resistere, grazie anche ad un’incerta via di rifornimento posta a Sud-Est del centro e tenuta aperta dall’esercito, i jihadisti, cui nel frattempo si erano aggiunti anche i miliziani dello Stato Islamico (o Daesh) provenienti dall’Est, Leggi tutto
L'evidente fallimento delle politiche imposte all'eurozona dall'asse Berlino-Bruxelles ha provocato la sconfitta di tutti i governi che ne sono stati fedeli esecutori. Il premier italiano ne ha preso atto e ha aperto un confronto conflittuale, lontano dall’etichetta dei rapporti riservati. E' comunque un’occasione da non perdere
La crisi dell’eurozona
nella quale abbiamo assistito alla ribellione di Matteo Renzi
viene da lontano. L’origine risale alle conseguenze
del collasso finanziario egli stati Uniti nel 2008. Ma la
crisi dell’eurozona non era fatele. E’ il risultato di
politiche sbagliate e
autolesioniste. Il confronto fra le due sponde dell’Atlantico
è istruttivo.
1. Dopo il collasso della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, il governo americano decise senza esitazioni di intervenire per bloccare il contagio. Il Congresso mise a disposizione del governo (erano gli ultimi giorni di George Bush) 700 miliardi dollari da impiegare per disinnescare la crisi bancaria. L’operazione ebbe successo. Il temuto ripetersi di della catastrofe del 1929 fu scongiurato.
Una politica equivalente fu negli anni successivi adottata in Europa. Gli Stati investirono centinaia di miliardi di euro nel salvataggio delle banche: da quelle britanniche, che furono nazionalizzate, a quelle tedesche e francesi, nonché irlandesi, spagnole, e così via. Si trattò di una reazione analoga a quella adottata in America. Ma l’analogia si ferma qui.
A parte il salvataggio delle banche, le politiche cominciarono a divergere radicalmente. In America, Barack Obama decise, non appena approdato alla Casa Bianca, una manovra di bilancio di 800 miliardi di dollari per ridare fiato all'economia, con la crescita di investimenti e consumi. In Europa si adottò la linea opposta. Poiché il salvataggio delle banche aveva accresciuto i disavanzi di bilancio e del debito pubblico, le autorità dell’eurozona imposero una politica di austerità finalizzata al rientro del disavanzo. Leggi tutto
"Una nuova
interpretazione della teoria critica di Marx" è il
sottotitolo del libro di Moishe Postone
"Tempo, Lavoro e Dominio sociale" del 1993 [*1]. Questa bella
dichiarazione fa venire
l'appetito e se, come ho fatto io, si comincia a leggerlo
pieni di grande aspettativa e poi, in seguito, si partecipa
anche ad un seminario per poter
completare la discussione del libro in un circolo di lettura,
con partecipazione attiva - e sì, allora probabilmente quanto
meno alcuni
desideri si avverano, e vuol dire che in questo paese
l'elaborazione della teoria critica non è poi messa tanto
male... Eravamo fiduciosi, fin
dall'inizio della nostra lettura e della nostra discussione
cominciata più di un anno fa, che, al di là della definizione
o della
reinterpretazione di molte categorie sociali, come il genere,
il valore, il lavoro, il denaro, il capitale ecc., il testo si
sarebbe pronunciato circa
quello su cui si può basare una prospettiva che punti al
superamento della formazione sociale capitalista o del
patriarcato produttore di
merci: fornire, fra le altre cose, una teoria (radicale) della
crisi. Tale teoria della crisi, da un lato, dovrebbe riferirsi
ai frammenti in tal
senso ammissibili di tutta l'opera di Marx, in particolare ai
tre volumi del Capitale, ai Grundrisse e al Contributo alla
Critica dell'Economia
Politica. Dall'altro lato, si dovrebbe condurre la discussione
anche nel senso di unire, collegare e trasformare questi
frammenti, con l'obiettivo di
effettuare il completamento e l'attualizzazione di tale
teoria. Dopo la morte di Marx nel 1883, com'è noto, questi
tentativi vennero intrapresi
varie volte, ma in realtà più sporadicamente, fra gli altri da
Rosa Luxemburg, Karl Korsch ed Henryk Grossmann. Leggi tutto
È un fatto tristemente
noto, grazie anche alla pluralità di pellicole
girate sul soggetto e,
soprattutto per esperienza diretta di coloro che tra la fine
degli anni settanta e l’inizio degli ottanta erano almeno
adolescenti, che
l’eroina è una bestia feroce in grado di trasformare
completamente qualsiasi essere umano sino a ridurne in fumo
ogni traccia di
razionalità. Questo concetto doveva essere ben chiaro anche
alla classe dominante giacché, anche attraverso l’inondazione
del
mercato di questa immondizia, che si sostituiva alle
cosiddette droghe leggere, o agli allucinogeni, ampiamente
usati nella decade precedente, essa
riuscì – in modo estremamente più efficace di qualsiasi altra
manovra repressiva – ad infliggere un colpo mortale a quello
che era restato del movimento della sinistra alternativa
italiana erede della resistenza al fascismo e delle battaglie
di classe di fine anni
cinquanta ed inizio anni sessanta[1]. È altrettanto
riconosciuto, anche grazie alla recente uscita di libri o
testi sul tema, come la cocaina, droga di classe (dominante)
per eccellenza, circoli
abbondantemente negli ambienti della finanza ed in particolare
a Wall Street, come ampiamente descritto e documentato da un
recente film di
Scorsese.
Dunque, droga, dipendenza e tossicomania sono elementi che, in un modo o in un altro sono connaturati al modo di produzione del capitale giacché, essendo esso stesso un meccanismo sociale che agisce alla stregua di un organismo biologico, non può esimersi dall’essere attratto da sostanze\elementi che possono generare dipendenza risollevando, nell’immediato, da fasi più o meno lunghe di crisi profonda. Leggi tutto
Sulle prime pagine del più noto quotidiano economico della borghesia italiana sbarca un bell’annuncio pubblicitario che vale la pena leggere. Basta poco per capire che cosa susciti in Confindustria tanto entusiasmo da spingere addirittura il Sole24ore a fare da sponsor. Si chiama Jobee e ha lo scopo di far incontrare domanda e offerta di lavoro tramite inserzioni online. È un sito internet che, pur essendo stato lanciato da poco, presenta nella homepage già numerosi annunci di lavoro. Anzi, non è solo un sito: è uno strumento tecnologico pensato per aiutare il lavoratore in un momentaccio come questo. Lo vuole sinceramente aiutare, sì: a farsi sfruttare meglio, più intensamente e con meno garanzie possibili – magari nessuna, già che ci siamo.
D’altro canto, bisognerà pure fare i conti con questa nuova realtà! Jobs Act e altre amenità hanno reso il panorama italiano «un mondo che è sempre più orientato a seguire il realismo della condivisione di esperienze rispetto all’autopromozione di se stessi», come scrive il commentatore del Sole24ore. Uno strumento al passo con il ritmo cooperativo della sharing economy, che tanto entusiasmo suscita oggigiorno. Se questo non bastasse, leggiamo ancora, tutto questo bel congegno può offrire anche una «reputation di valore»… Quale diavoleria moderna potrà mai offrire, anzi regalare, ai precari non solo lavoro ma persino una reputazione nel settore?! Leggi tutto
L’estenuante dibattito sulla regolamentazione europea del sistema bancario ci sembra volutamente mantenuto ad un livello di incomprensione tecnicista capace di annoiare persino i più interessati alla questione. Eppure, è uno dei tasselli fondamentali della costruzione europeista, e andrebbe narrato in termini comprensibili e soprattutto politici. Nonostante ciò, pochi lo fanno. Gli economisti contemporanei, tronfi del proprio tecnicismo scientifico, da decenni hanno abbandonato il ruolo di critici dell’economia politica; i giornalisti invece si dividono in tre categorie: chi capisce di economia condivide lo stesso atteggiamento degli economisti di cui sopra, autocelebrando il proprio ego raccontando il tutto in forma volutamente criptica e per iniziati; i giornalisti ignoranti di economia, che credono che tutta la questione si riduca ad una serie di norme tecniche ad interesse esclusivo dei correntisti, obbligazionisti o azionisti degli istituti di credito; e i giornalisti che intuiscono il problema di fondo ma che o non vogliono raccontarlo o non possono raccontarlo; infine, ci sono i politici, ma quelli abbiamo la certezza che non stiamo capendo un cazzo della vicenda (ovviamente parliamo dei politici della “sinistra” a sinistra del Pd; tutti gli altri invece hanno capito benissimo i termini politici della questione e li assecondano con ogni mezzo).
Bene, veniamo al dunque. Stiamo assistendo alla normazione tecnico-giuridica del più grande processo di concentrazione dei capitali da molti anni a questa parte. Leggi tutto
La retorica neoliberista occulta l’analisi strutturale della globalizzazione. La modernità liquida di Bauman è già post-capitalismo o una forma del capitalismo?
Nell’articolo di Piero Bevilacqua (il manifesto, 28 gennaio) il centro del problema riguarda le possibilità di convergenza di un ampio ventaglio di saperi in un comune denominatore di critica alla «cultura neoliberista, alla sue strategie, alle sue pratiche». «Un comune denominatore molto ampio – dice ancora Bevilacqua – in grado di tenere anche posizioni politiche distanti».
Discutere di tali questioni a partire dai nomi contenuti nella «parziale» mappa degli studiosi di varie discipline che l’autore ha collocato in appendice del suo testo è fuorviante perché il panorama degli studiosi «critici» è più ampio, più articolato e, d’altra parte, l’autore stesso parla di una lista «tracciata alla buona». È possibile che tale «comune denominatore» possa tenere insieme posizioni politiche anche distanti, ma dal punto di vista analitico le cose sono più complicate.
Coloro che si riconoscono interni a quella grande tradizione intellettuale che ha fatto della «critica» il momento centrale della pratica di pensiero che si pone, in primis, l’obbiettivo del «disvelamento», quindi pressoché tutti coloro a cui Bevilacqua si rivolge, sanno perfettamente che termini come «neoliberismo» ed anche «liberismo» altro non sono che componenti di una narrazione ideologica di «superficie».
Leggi tuttoSpiegare ai compagni
della Whirpool cosa significhi deflazione salariale
è in un certo senso imbarazzante. Suppongo che loro
sappiano benissimo cosa significhi per averla provata sulla
propria pelle. Il padrone glielo avrà spiegato mille e una
volta: in tanti altri
paesi i salari sono molto, ma molto più bassi che in Italia.
Allora che fate? O i vostri salari diminuiscono, oppure
decentriamo la produzione
(oppure chiudiamo e basta). È la globalizzazione bellezza, e
se a decidere è una multinazionale è ancor peggio perché il
ricatto di spostare la produzione è più forte.
BOX 1 – Deflazione salariale vuol dire competere con gli altri paesi giocando su un basso costo del lavoro. Si noti che questo vuol dire rinunciare a un ampio mercato interno per i prodotti – se i salari sono bassi, tali saranno anche i consumi – con l’obiettivo di conquistare mercati esteri. La strategia di deflazione salariale è detta anche deflazione competitiva: si punta a tenere prezzi e salari nazionali bassi per spiazzare i concorrenti sui mercati esteri. L’obiezione fondamentale alla deflazione competitiva è che se tutti i paesi adottano questa strategia, chi compra? E’ questo il nodo fondamentale del capitalismo, per cui oggi si parla di stagnazione secolare, un pericolo che deriva dal pauroso aumento della diseguaglianza. |
Una prima linea di difesa dei lavoratori è nella qualità del lavoro, che non è la medesima in tutti i paesi ed è certamente più elevata in Italia. In sostanza quello che l’impresa guadagna via minori salari se sposta la produzione, lo perde sul piano della produttività (prodotto per lavoratore). Ma naturalmente questo è vero fino a un certo punto, in quanto le produzioni più standardizzate sono facilmente trasferibili, e con macchinario adeguato la produttività è la medesima. È solo quando il prodotto richiede conoscenze molto puntuali e non facilmente trasferibili che ci si difende bene. Leggi tutto
Monaco
1938-2016
La sciarada è in enigmistica lo schema per cui unendo due parole se ne forma una terza: X+Y = XY. Capirai che impresa. Di conseguenza è anche il modo per dire di una chiacchierata che non porta a niente, si arrotola su se stessa. E quello che abbiamo visto a Ginevra, poi a Vienna, poi di nuovo a Ginevra e, ora, a Monaco. Con i gufi che già strillavano alla Monaco della resa, rianimando il patto di Monaco del 1939 con Chamberlain che avrebbe ceduto a Hitler, con le conseguenze immaginabili. A parte il fatto che gli anglosassoni, allora e fino a qualche anno dopo, speravano che la Germania di Hitler costituisse un baluardo contro l’assai più temuta URSS, e le si avventarono addosso solo quando divenne manifesto che quel baluardo si sbriciolava (e anche perché i tedeschi rompevano ai colonialisti inglesi in Africa), la Monaco dell’altro giorno rappresenta, come i negoziati precedenti, una sciarada. La chiacchierata finisce con un OK, vocabolo nuovo, ma con dentro le stesse parole di prima.
I siro-irano-russi che avanzano e vanificano l’intero disegno del Nuovo Medioriente, gli statunitensi (con Israele sulla spalla destra) che non se la sentono di finire nel pantano in fase pre-elettorale, i francesi che non ce la farebbero mai da soli, i turco-sauditi che se la vedono proprio male, anche internamente, se tutto quanto hanno combinato in 5 anni, mettendo in piedi lo sfracello Nusra-Isis e appendici terroristiche, non portasse alla cancellazione perlomeno della Siria. Sono questi ultimi a spingere per l’intervento di terra. Ridicolo quello delle armate raccogliticce di Riyad, svaporerebbero al primo impatto con i ben altrimenti motivati combattenti patriottici. Leggi tutto
Cari
lettori,
questo 2016 è stato segnato da una notizia che ha occupato una parte apprezzabile del sempre conteso spazio mediatico: la volatilità della borsa cinese. Nell'Impero di Mezzo si sono vissuti giorni di grande ribasso, fino al punto che si è dovuta sospendere la sessione per un paio di giorni, essendo il ribasso oltre il 7%. La borsa cinese aveva avuto un'evoluzione abbastanza mediocre nel 2015 e a quello che sembra tutti i problemi accumulati sono sempre più evidenti nel 2016. Le borse occidentali hanno accusato l'impatto con diminuzioni accumulate che ammontano alla metà di quelle cinesi, ma dimostrano che l'evoluzione del gigante asiatico ha molta influenza in ciò che avviene nel mondo.
Ma che succede alla Cina? Semplicemente che la Cina, la fabbrica del mondo, sta accusando con forza la diminuzione della domanda mondiale di ogni tipo di bene. Cosa logica, se si tiene conto del fatto che la riduzione della leva finanziaria del debito iniziata nel 2008 è andata a minare progressivamente la rendita disponibile delle classi medie (tramite la diminuzione delle prestazioni ed il degrado della qualità del lavoro salariato). E quella classe media, sempre più impoverita, compra meno cose e consuma di meno. Leggi tutto
I violenti spasmi dei mercati azionari, e segnatamente del settore più sistemico che esista, quello delle banche, sembrano indicare che, contrariamente a quanto anche da noi sempre pensato sin qui, le banche centrali siano ormai diventate le prime vittime dei loro passati successi. O meglio che, dopo aver vinto molte battaglie, stiano per perdere la guerra.
Alcuni indizi a sostegno della tesi: dopo lo scoppio della bolla del debito e della deflazione da essa indotta, le banche centrali hanno iniziato a ricorrere a misure sempre meno convenzionali e a spingere i tassi d’interesse dapprima a zero e poi, in alcuni casi, sotto quella soglia. Chi scrive non pensa che questa sia una condizione “artificiale”: è realmente possibile che il tasso d’interesse reale “naturale” sia ora negativo, non per azione delle banche centrali ma per motivi legati allo scoppio della bolla globale degli ultimi lustri. Ma questo non cambia la realtà delle cose: un oceano di liquidità si è riversato sui mercati finanziari globali, spesso gonfiandone le quotazioni e scontando flussi di utili basati su aspettative eccessivamente ottimistiche, al limite dell’irrealistico.
Ad ogni ricorrente fase di crisi dei mercati, il timore dell’impatto di tali crisi sull’economia reale ha spinto le banche centrali ad immettere altra liquidità. Ma le dinamiche dinsinflazionistiche e deflazionistiche “di fondo”, quelle cioè che vanno oltre la spiegazione immediata del crollo del prezzo delle materie prime, hanno continuato ad operare. Leggi tutto
Quando il senatore Razzi fa i suoi interventi, dimostrando di possedere la sfrontatezza che gli richiede il suo ruolo, la riflessione sull’etica della politica sembra dovere spostare il suo focus sull’estetica dell’azione politica, quell’area in cui il pensiero si confronta con il dato sensibile dell’esperienza e tenta di elaborare una teoria sulle condizioni minimali che dovrebbero essere rispettate perché una funzione di rappresentanza politica sia assegnata a questi o a quelli.
La questione in realtà è molto più complessa, se estendiamo il discorso al problema di quanto e come la satira rientri a pieno titolo fra i fattori qualificanti della scena politica contemporanea.
Il lavoro di Crozza è risaputo: deve faticare non poco per cavare qualcosa da personaggi che già sono autonomamente dotati di un appeal comico indubitabile. La sua meta-satira è moderna, forse addirittura si potrebbe definire post-moderna, e non vi è alcun dubbio che il trattamento che riserva ai suoi soggetti contribuisce non poco ad accrescere la visibilità, la popolarità, il valore, degli stessi.
Perché la cosa inedita è proprio questa: la satira dovrebbe avere la funzione di correggere, con gli strumenti che le sono propri, le errate attribuzioni di valore che vengono fatte. Leggi tutto
Prosegue imperterrita la “danza degli schiaffoni” fra Renzi e l’Unione Europea. In prima linea ci sono i popolari, ma il silenzio sprezzante dei socialisti pesa ancora di più.
Quel povero diavolo di Pittella (per sua sfortuna capogruppo socialista a Strasburgo) cerca di sostenere il suo signore e padrone italiano, giungendo a minacciare la crisi dell’accordo popolari-socialisti che regge la Commissione, mentre i suoi compagni di gruppo francesi, tedeschi e olandesi lo guardano come lo scemo del villaggio con l’aria di pensare “Ma che stai dicendo?”. Da dove nasce questa inedita replica della Cavalleria Rusticana?
I punti veri di dissenso sono due: l’applicazione del bail in e la riduzione delle tasse. Renzi ha bisogno di margini di flessibilità molto più ampi (e usa l’emergenza rifugiati) perché vuol fare un taglio di tasse prima delle elezioni. Sul primo punto, Renzi, che non aveva mosso paglia contro la formazione della direttiva sul bail in e neppure sulla sua immediata applicazione dal 1 gennaio 2016, aveva pensato di cavarsela con qualche furbata all’italiana (tipo il “salvabanche”), ma gli “europei” non glielo permettono, dando della direttiva l’interpretazione più restrittiva possibile (e ci vuol poco, perché la lettera è già più che sufficiente a bloccare il giullare). E questa rigidezza dipende dal fatto che i nostri valenti alleati tedeschi e francesi hanno già forchette in pugno e tovagliolo al collo per banchettare sui beni italiani.
Leggi tuttoInfuria la polemica sulle regole interne ai partiti fra le due maggiori forze politiche italiane, PD e Movimento 5 Stelle. Il M5S ha manifestato l’intenzione di introdurre in alcune città sanzioni pecuniarie, oltre che l’espulsione, per i consiglieri che violano le regole del movimento, dissentono, o cambiano casacca. I critici si sono lanciati in riferimenti al testo sacro della Costituzione, e all’olio di ricino, per contestare queste regole punitive. Il dibattito meriterebbe un’analisi più pacata, perché tocca un nodo delle forme politiche democratiche che da sempre, e oggi più che mai, oppone due diverse concezioni di come dovrebbe funzionare la democrazia.
Il mandato libero consente ai politici di ignorare le opinioni dei propri elettori e le promesse ad essi fatte. Da sempre, i fautori della democrazia diretta vedono nel mandato libero uno svuotamento della democrazia. Secondo questa linea argomentativa, bisogna cercare di trasformare i rappresentanti in meri “portavoce” di coloro che li hanno nominati. La libertà in sede politica dei rappresentanti va limitata. Ci vuole il mandato imperativo.
I fautori della rappresentanza invece aborrono il mandato imperativo, e ritengono che l’indipendenza di giudizio dei rappresentanti sia garanzia per leggi buone e governi imparziali. Secondo questa prospettiva, diceva il filosofo Edmund Burke, l’eletto ha non solo il diritto ma anche il dovere di non seguire le opinioni dei suoi elettori, e di dare priorità alla propria capacità di giudizio. Leggi tutto
Il tempo
della disperazione
Al termine del Disagio della civiltà, dopo aver mostrato come il processo della civilizzazione fosse il risultato del controllo progressivamente esercitato sul corredo pulsionale degli esseri umani, Freud veniva a contrapporre l’una all’altra le due forze elementari che riteneva di avere scoperto, Eros e Morte. E proprio nelle righe finale, aggiunte nel 1931, segnalava come i pericoli maggiori per il genere umano giungessero dalla pulsione di morte e dalle tendenze aggressive che ne discendevano:
«Il problema fondamentale del destino della specie umana, a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione»[1].
È facile riconoscere in quelle parole il riflesso cupo della stagione di barbarie che si avvicinava. Leggi tutto
Sembra ufficiale:
secondo Bloomberg la prosecuzione dei cali sulle borse
mondiali - i più consistenti dalla crisi dei debiti
sovrani del 2011 - segna inequivocabilmente il passaggio da
toro a orso, da un mercato ascendente a uno in discesa di cui
non
si riesce a prevedere
l’atterraggio. Controprove principali: corsa all’oro
come bene rifugio (faccia nascosta della moneta creata con un
click del
computer); acquisti a valanga di titoli di stato Usa,
tedeschi, inglesi come “porti sicuri” per il risparmio anche a
costo di rendimenti
negativi e del gonfiamento di una nuova bolla; assicurazioni
sui rischi di default (cds) in netto rialzo.
C’è di più. Fin qui il crollo dei titoli, soprattutto bancari ed energetici, veniva messo in riferimento con il ribasso del prezzo del petrolio, lo scoppio delle bolle speculative e il rallentamento dell’economia cinesi, le difficoltà delle economie emergenti colpite da ingenti fughe di capitali e svalutazioni valutarie, nonché con il pur modesto aumento dei tassi statunitensi da parte della Federal Reserve (la banca centrale). Tutto vero. Ora però viene fuori che il problema di fondo sono i profitti in calo di buona parte della maggiori corporation mondiali - ma con epicentro proprio negli States! - con prospettive ancora più fosche dato il trend negativo di investimenti e ordinativi. Con l’aggravante di livelli di indebitamento -supportati in questi anni dalle politiche monetarie “facili” delle banche centrali- che ora diventano difficili da reggere sia per le imprese sia per le banche che devono cancellare dai bilanci sempre più crediti inesigibili. Il che porta a ulteriori vendite di titoli in un circolo vizioso che si autoalimenta. Leggi tutto
Si chiama New Public Management, nuova gestione pubblica, quel programma di riforme, ispirato ai modelli di gestione delle risorse umane all’opera nell’economia privata, che ha accompagnato il processo di aziendalizzazione dei servizi pubblici negli ultimi anni. Si tratta di un insieme di procedure, o “puzzle dottrinale”, in cui si intrecciano vari principi, in particolare la teoria dell’individuo come attore razionale volto a massimizzare il suo interesse personale.
Benché in origine, ossia sin dai tempi della Signora Thatcher, l’obiettivo fosse niente meno che la privatizzazione dei servizi pubblici nel nome dello “Stato minimo”, nel corso del tempo il New Public Management è, almeno in Svizzera, l’altra faccia dell’aziendalizzazione, ad esempio delle ex-regie federali, ossia la loro trasformazione in Società anonime, sempre a maggioranza azionaria della Confederazione, ma decisamente orientate ad una gestione di tipo privato dell’organizzazione aziendale che ha modificato profondamente la specificità del servizio pubblico.
Un documento del 2006 di Hans-Rudolf Merz, ministro delle finanze, sintetizza la strategia del Consiglio federale: scorporo, cioè esternalizzazione, di interi settori per snellire l’organizzazione produttiva riducendone i costi di gestione; moltiplicazione degli indici di performatività trasformando i fruitori dei servizi pubblici in clienti; aumento dei compiti di vigilanza interni ma anche, se necessario, esterni.
Per una curiosa eterogenesi dei fini, laddove il New Public Management è stato applicato con maggior zelo, Leggi tutto
Ho iniziato la mia carriera nel dipartimento fondato da Federico Caffè alla Sapienza, dal quale provengono tanti personaggi illustri. Voglio parlarvi di un paio di loro, cominciando dal più giovane, Pier Carlo Padoan. Lo ricordo negli anni ’80 salire a piedi le scale della facoltà, severo, assorto, il corpo sbilanciato dal peso di una borsa stracolma di libri e tabulati (erano i tempi delle stampanti a catena). Per me, giovane laureando, Padoan era una figura autorevole, carismatica. Per un po’ scomparve: era al Fmi. Poi tornò. Lo ricordo, sempre per le scale, sopraffatto da una quantità esorbitante di compiti da correggere. Nel frattempo io, diventato ricercatore, ironizzavo sul regalo che gli avevano fatto i suoi colleghi, assegnandogli un affollatissimo corso del primo anno. Lui, burbero ma spiritoso, stava al gioco. Partì per Parigi, e io, più modestamente, per Pescara.
L’ho poi rivisto, come voi, in televisione, dove gli ho sentito dire cose che il suo ruolo istituzionale gli imponeva di dire, ma della cui assurdità, ne sono certo, era lui stesso, per primo, dolorosamente consapevole: annunciare nel 2014 una ripresa che non era nei numeri, difendere nel 2015 riforme dell’offerta (come il jobs act) che non avevano alcuna logica in una crisi di domanda. Poi, all’improvviso, nel 2016, forse provato dalla Caporetto bancaria, Padoan, in un attimo di cedimento, ha confessato. È successo il 26 gennaio, e se ne sono accorti in pochi. Parlando a Bruxelles, Padoan ha detto che occorre un sussidio di disoccupazione europeo, perché in assenza dell’aggiustamento del cambio, la risposta alle crisi avviene “con la compressione del mercato del lavoro”. Leggi tutto
Cinematograficamente parlando ci consideriamo di bocca buona, degli spettatori praticamente onnivori capaci di gustarsi il perlage raffinato di un film d’autore tanto quanto la sostanza delle Storie con la S maiuscola raccontate dal “grande cinema”, senza però mai disdegnare il retrogusto pecoreccio del cinema di genere o di certa commedia popolare all’italiana con cui siamo cresciuti. Probabilmente, se andassimo a scavare, ci accorgeremmo che Steno ha influenzato il nostro immaginario molto più dei film di Kieślowski o di Lars Von Trier. Confessiamo però che l’ultimo blockbuster della coppia Nunziante-Zalone non siamo proprio riusciti a digerirlo. E dire che eravamo entrati in sala con le migliori intenzioni, per la simpatia che nutrivamo nei confronti del comico barese, e con la curiosità di capire cosa ci fosse dietro “il film campione d’incassi” divenuto un fenomeno di costume capace addirittura di mettere d’accordo la critica “colta”, la politica e il grande pubblico. Ora, sia ben chiaro, non staremo qui a recensire l’irrecensibile. La sceneggiatura è quel che è, la regia pure, ma non è certo questo che si chiede a Checco Zalone. Forse qualche battuta meno scontata, quello si, ma i gusti sono soggettivi, difficilmente comprimibili in canoni ben definiti, per cui pure su questo eviteremo di esprimerci. Quello che però abbiamo trovato davvero insopportabile, e su cui vale la pena spendere due parole, è invece l’humus ideologico a cui la pellicola attinge e che fa di “Quo vado?” un film oggettivamente neoliberista, prima ancora che di destra, e che ben si sposa con la filosofia del Jobs Act e di tutte le altre (contro)riforme del lavoro di questi ultimi decenni. Leggi tutto
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Introduzione
Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni interpretativi principali che si richiamano a Marx e che proclamano una sua rinnovata attualità. Il primo, proposto da quegli autori che si vogliono marxisti “ortodossi”, è quello che legge la finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio del profitto, e in quest’ottica individua una lunga tendenza alla stagnazione che comincia negli anni Settanta del Novecento. L’altra interpretazione, prevalente per lo più in quei marxisti influenzati dal keynesismo e dal neoricardismo, fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizzazione, ovvero da insufficienza da domanda. Questo secondo filone evidenzia come, dopo la controrivoluzione monetarista degli anni Ottanta del Novecento, siano avvenuti profondi mutamenti nella distribuzione del reddito con la caduta della quota dei salari, e sostiene che in un mondo di bassi salari la ragione di fondo della crisi sia l'insufficienza della domanda di consumi: una prospettiva più o meno dichiaratemente sottoconsumista. In entrambi i casi, la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sarebbe la crisi di un capitalismo che si può ben definire asfittico, sostanzialmente e (ormai) perennemente stagnazionistico.
Ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, ma che questa vada interpretata come una sorta di metateoria della crisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale. Leggi tutto
Recensione del saggio “Globalizzazione e decadenza industriale”. Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale: l’Italia tra delocalizzazioni,”crisi secolare” ed euro, Edizioni Imprimatur, Anno 2015, Pagine 249, 16 euro
Il tema del rigoroso
saggio di Domenico Moro,”Globalizzazione e decadenza
industriale”, è l’attuale crisi del
sistema economico italiano. Il testo tratta inoltre tre
rilevanti fenomeni che sono strettamente intrecciati a tale
vicenda, e cioè la
realizzazione del mercato mondiale, la “crisi secolare” del
modello capitalista, l’integrazione valutaria europea.
Oltre che da una introduzione, il volume è composto da cinque capitoli. Il primo ed il secondo riguardano la misurazione dell’entità della crisi nelle aree periferiche e in quelle centrali dell’Europa e del mondo. Il terzo capitolo analizza le cause delle crisi cicliche e della “crisi secolare” del modello capitalista. Il quarto descrive le caratteristiche dell’ultima fase della globalizzazione economica ed interpreta le notevoli trasformazioni che essa ha determinato. L’ultimo capitolo prende in esame il passaggio dalla critica al neoliberismo a quella del capitalismo globalizzato e la prospettiva della realizzazione di un nuovo modello di economia e di società.
Nella parte introduttiva si evidenzia che il nostro Paese sta vivendo, dal 2007, la crisi economica forse più profonda della sua storia, addirittura più grave di quella legata alla Grande depressione degli anni ’30. Tra i vari indicatori economici con andamento negativo, spicca quello relativo alla capacità manifatturiera, che si sarebbe ridotta tra un quarto ed un quinto del totale. Leggi tutto
Prima di parlare del
libro di Maria Nadotti (Necrologhi
- saggio sull'arte del
consumo, Il Saggiatore) e della sua importanza,
stabiliamo il campo.
Gli uomini di lettere oggi non sanno niente della pubblicità. Non la studiano, non la annoverano tra i fenomeni d'interesse. Costoro si occupano volentieri di cinema, tv, giornalismo, design, fumetti, raccolte di figurine e di ogni altro linguaggio della modernità, ma quello della pubblicità rimane loro estraneo e lo lasciano volentieri allo studioso settoriale. Come dire che non è adatto a un discorso collettivo, dunque politico.
La crepa di questo distacco si è aperta nel tempo e inesorabilmente. La progressiva scomparsa dell'Italia industriale (Gallino) oggi ha separato gli intellettuali dal mondo della produzione e dai suoi linguaggi. Eppure nel 1961 un editore come Giangiacomo Feltrinelli presentava "La pubblicità" di Walter Taplin descrivendo luoghi comuni che sembravano sul punto di essere superati: "Uno studio senza divagazioni moralistiche sulla pubblicità come fenomeno tipico dell'economia moderna (...) un fenomeno-chiave della società contemporanea su cui tutti quanti son pronti a straparlare. Questo libro non si compiace di descrivere i pubblicitari come maghi o bari della psicologia di massa, ma conduce un ragionamento serrato misurandosi con i fatti – e con le teorie degli economisti, che sinora, non diversamente dall'uomo comune, hanno parlato della pubblicità in termini superficiali".
C'è nel nostro passato una relazione tra intellettuali e linguaggio delle merci. Il primo in Italia a parlare di umanesimo pubblicitario, cioè della necessità di un linguaggio alternativo alla "pubblicità autoritaria" fu Vittorini nel 1939. Anni nei quali era concepibile per l'uomo di lettere entrare nel mondo della produzione, cercare un rapporto tra l'oggetto fabbricato e le mani dell'uomo che lo realizzavano. A quel punto diventava naturale soffermarsi sul linguaggio pubblicitario, che del processo produttivo era la fase conclusiva. Olmi nel 1969 entra in un'agenzia pubblicitaria di Milano, non la guarda da fuori: la studia e ne trae il più informato e profondo film italiano su quell'ambiente professionale, Un certo giorno. Leggi tutto
L'analisi dei dati Inps sul precariato. Boom di dicembre per i contratti a tempo indeterminato, tra nuovi assunti e trasformazioni: gli 8 mila euro scadevano per lasciare spazio ai meno attrattivi 3 mila. Quasi 115 milioni i voucher attivati nei dodici mesi
L’ultima pubblicazione dell’”Osservatorio sul precariato” dell’Inps relativa ai contratti di lavoro di dicembre chiude definitivamente il quadro dell’anno appena trascorso.
A dicembre, il numero di assunzioni a tempo indeterminato (al netto delle cessazioni) è aumentato vertiginosamente, facendo registrare un più 71.236 rispetto agli 8.118 contratti medi nei mesi precedenti. Sull’intero anno, il numero di nuovi rapporti “indeterminati” è 186.376 con una distribuzione territoriale assai variegata: il Lazio è la regione con più contratti netti a tempo indeterminato (51.492), seguito da Campania (41.894) e, con distacco, dalla Lombardia (19.571). In Veneto e Trentino Alto Adige le attivazioni di contratti sono inferiori alle cessazioni, presentando quindi un saldo annuale negativo.
La distribuzione per tipologia oraria mostra che le attivazioni di contratti a tempo indeterminato sono per il 58% contratti part-time.
Sul fronte delle cosiddette stabilizzazioni, le trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo “indeterminato” raggiungono nel solo mese di dicembre le 104.275 unità, il triplo rispetto alla media (30.840). Leggi tutto
Da Moratti a Moratti: alla fine il bilancio della giunta Pisapia è questo. Pisapia era stato eletto sindaco nel maggio del 2011 sull’onda di una mobilitazione culminata nella vittoria dei referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali e contro il nucleare. La sua elezione poneva fine a venti anni di potere della destra e altrettanti di dominio craxiano ed era stata sostenuta da una straordinaria partecipazione di base alla campagna elettorale: comitati per Pisapia (poi comitati per Milano, ma subito rinsecchiti) in tutti i quartieri della città, intellighenzia (quel che ne resta), creativi, borghesia d’antan, parrocchie e persino centri sociali. Poi, contestualmente a quella dei referendum abrogativi nazionali, la vittoria in cinque referendum consultivi cittadini. I quesiti di quei referendum e la loro articolazione non erano un piano di governo della città, ma ne fornivano importanti indirizzi, peraltro in linea con il programma della candidatura di Pisapia. Nessuno degli impegni previsti da quella consultazione ha trovato attuazione.
Si può capire, per il costo dell’intervento, che non sia stato realizzato il ripristino della rete dei navigli – limitandosi alla riapertura della darsena – anche se ben 40 milioni sono stati sprecati nel progetto delle nuove “vie d’acqua”, che avrebbero dovuto portare in barca all’expò i visitatori; ma che, strada facendo, si sono trasformate in una fogna per raccogliere gli scoli dei suoi padiglioni.
Leggi tuttoÈ la
seconda volta che Hillary Clinton, la candidata
«inevitabile» alla presidenza degli Stati Uniti, vede la sua
corsa ostacolata da un
outsider. Sappiamo come è andata a finire la volta
scorsa con Obama. La storia non si ripete, non si deve
ripetere, questo il mantra
recitato negli ultimi giorni dal potente staff della ex
segretario di Stato. Ma i risultati delle primarie del Partito
democratico in Iowa e nel New
Hampshire hanno proiettato Bernie Sanders nel ruolo di
antagonista credibile di Hillary, la «combattente globale» che
difende i diritti
civili, non disdegna gli interventi militari ad ampio raggio
ed è molto vicina a Wall Street. È vero, e si sa, che le
primarie
americane, non fa differenza se democratiche o repubblicane,
sono tutto meno che un esercizio di democrazia da parte dei
cittadini elettori. Regole
diverse e non sempre chiare e condivise nei vari Stati,
mancanza di controlli su chi vota e chi ne ha diritto, lanci
di monetine per determinare la
vittoria in alcune circoscrizioni, interventi a tutto campo
delle società di marketing politico sui social network e nei
sondaggi che hanno lo
scopo non di rilevare le intenzioni di voto ma di orientarle.
Come se ciò non bastasse con la sentenza della Corte Suprema
nel 2009 si è
dato il via libera – togliendo qualsiasi limite di spesa e di
rendicontazione – ai PAC e super PAC (Political Action
Committes) e
cioè a quei gruppi organizzati di imprenditori, banche,
multinazionali, fondazioni che raccolgono denaro e fanno
campagne perlopiù
aggressive, usando tutti i media possibili, a favore o contro
un candidato. Sempre però senza mai accordarsi e coordinarsi,
così dice la
sentenza, con il candidato che appoggiano.
Prosegue con questo intervento di
Giangiorgio Pasqualotto (titolare della
cattedra di estetica dell’Università di Padova e cofondatore
dell’Associazione
“Maitreya” di Venezia per lo studio della cultura
buddhista) , il dibattito a cura di Amina Crisma sul libro
di Maurizio Scarpari,
Ritorno a Confucio. I precedenti interventi di
Paola Paderni Luigi Moccia, Ignazio Musu e Guido Samarani
sono stati pubblicati nella
rubrica “Osservatorio Cina” di questa rivista . Il prossimo
intervento è di Attilio Andreini.
* * *
Il più recente libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato (Il Mulino, 2015) è un’ opera importante: non solo per la consueta acribia analitica messa in gioco dall’autore, né solo per la sua chiarezza espositiva, né soltanto per la capacità di produrre sintesi con argomenti enormi (come quelli dell’incredibile sviluppo economico cinese e della millenaria tradizione confuciana), ma soprattutto perché ci risulta che il suo sia il primo tentativo di cercare le radici profonde di un’operazione che appare a tutti gli effetti – e non solo agli ‘occhi’ europei – assolutamente inedita ed inaudita: proporre gli antichi insegnamenti di Confucio come modello di vita e di sviluppo per la Cina del futuro.
Leggi tuttoIl concetto di
“classe” è nuovamente
divenuto popolare. Dopo la più recente crisi economica
globale, anche i giornali borghesi hanno cominciato a
porsi la domanda: “Dopo
tutto, forse che Marx non avesse ragione?”. “Il Capitale
nel XXI secolo” di Thomas Piketty è stato nella lista dei
bestseller
degli ultimi due anni – un libro che descrive in modo
dettagliato e puntuale come storicamente il processo
capitalistico di accumulazione
abbia sortito il risultato di una concentrazione di
ricchezza nelle mani di una stretta minoranza di
possessori di capitali. Per di
più, nelle democrazie occidentali le notevoli
diseguaglianze hanno provocato un accentuato timore di
rivolte sociali. Negli ultimi
anni, questo spettro ha ossessionato il mondo – dai
disordini di Atene, Londra, Baltimora, fino alle rivolte
in Nord Africa, a volte con la
cancellazione di governi statali. Come di consueto, in
questi tempi di agitazione, mentre una fazione dei
detentori del potere invoca la repressione
armata, l’altra solleva la “questione sociale”, che si
suppone dovrebbe essere risolta attraverso riforme o
politiche
redistributive.
* * *
La crisi globale ha de-legittimato il capitalismo; la politica dei padroni e dei governi per costringere i lavoratori e i poveri a pagare per la crisi ha alimentato la rabbia e la disperazione. Chi potrebbe ancora contestare il fatto che noi viviamo in una “società classista”? Ma questo che cosa sta a significare?
Le “classi” nel senso più stretto del termine emergono solo con il capitalismo - ma l’appropriazione indebita dei mezzi di produzione, da cui deriva la condizione del proletariato privo di proprietà, non è stato un processo storico eccezionale. L’appropriazione indebita è un ripetersi quotidiano all’interno del processo produttivo: i lavoratori producono, ma il prodotto del loro lavoro non appartiene a loro.
Leggi tuttoSembra che ormai siamo al nocciolo della vicenda che è costata la vita al povero Giulio Regeni: l’Egitto inizia ad ammettere (per ora ufficiosamente) che egli è stato preso da un qualche corpo di polizia che lo avrebbe torturato per i suoi contatti con l’opposizione (si parla anche dei Fratelli Musulmani) e sarebbe morto più o meno casualmente. Dunque, ci stiamo avviando alla soluzione del caso? Neanche per sogno: questa versione non quadra affatto.
Il punto da cui dobbiamo partire è questo: in un paese dove 300 persone sono scomparse nel nulla, nonostante i parenti li cerchino, se trovi il cadavere torturato di qualcuno che è stato nelle mani della polizia, è perché te lo hanno voluto far trovare e non per caso. E, se il posto del ritrovamento è a due passi da una sede della polizia politica, la stessa cui una compagnia italiana ha venduto i programmi per le intercettazioni, non è perché non sapevano dove altro metterlo.
Per cui le spiegazioni possono essere solo due:
a- la cosa ha valore di “avvertimento” ad altri che vogliano mettere troppo il naso nelle vicende interne egiziane e la cosa parte dal governo
b- chi ha fatto trovare il cadavere voleva l’incidente diplomatico con l’Italia e non è affatto un sostenitore del governo, ma un suo avversario.
Prima ipotesi, quella dell’avvertimento:
Leggi tuttoPremessa: non si tratta di andare a simpatie. A me, come ad altri, Renzi non è mai stato particolarmente simpatico. Questo però non mi sembra un buon motivo per dargli addosso nel momento in cui, fra tante cose sbagliate, ne sta facendo una giusta: chiedere che in Europa non si facciano sistematicamente due pesi e due misure a nostro svantaggio. Lo sta facendo tardi? Lo sta facendo per il motivo sbagliato (cioè per salvare se stesso, piuttosto che il paese)? Forse. Però lo sta facendo, e andrebbe sostenuto nel suo sforzo.
Certo, anche Renzi potrebbe cooperare, ad esempio non circondandosi di persone che di economia capiscono molto poco. Al cospetto di una squadra simile è difficile sfuggire alla sgradevole sensazione che, nonostante la sua buona volontà, il consenso di cui ancora gode, e il suo istinto di conservazione, il nostro premier non potrà che schiantarsi, portandosi dietro noi.
Volete un esempio?
Ricorderete che il governo aveva promesso nel 2014 che l’Italia sarebbe cresciuta nel 2015 dell’1% e oltre. Nell’aprile 2014 il Documento di Economia e Finanza (Def) prevedeva per il 2014 una crescita dello 0.8% e per il 2015 dell’1,3% (nella Tavola II.2A: Prospettive macroeconomiche). Tuttavia, a fine 2014 il governo aveva preso un bel bagno: invece dello 0.8% previsto, la crescita era stata del -0.4% (un errore di 1.2 punti percentuali).
Leggi tuttoLa battaglia di Aleppo è iniziata. Ed è iniziata con un attore inatteso: i curdi. Milizie curde, infatti, hanno conquistato l’aeroporto di Aleppo, da anni sotto il controllo delle agenzie del terrore. La città è ormai circondata dalle forze siriane che hanno chiuso i jihadisti nei quartieri da loro controllati. La conquista dell’aeroporto consente alle forze di Damasco e dei suoi alleati (curdi, russi, hezbollah e iraniani), di poter usufruire di un notevole supporto logistico, del quale hanno privato gli avversari.
L’attivismo curdo sta facendo infuriare la Turchia, che li annovera tra i suoi più acerrimi nemici, tanto che su di essi riversa le sue attenzioni attraverso raid che fanno strage di civili (l’ultima quella al villaggio di Cizre, sessanta vittime innocenti). Recep Tayyp Erdogan, infatti, rischia di vedere materializzata la sua più grande paura: la nascita di uno Stato curdo ai confini turchi, che potrebbe diventare un faro di attrazione e di mobilitazione per la minoranza curda del suo Paese, oggi considerata una minaccia alla sicurezza nazionale e perciò stretta nella morsa di un pugno di ferro.
Il problema, per Erdogan, è che i curdi si sono rivelati una risorsa preziosa per contrastare l’Isis sia in Iraq che in Siria, tanto che si sono guadagnati un ruolo internazionale prima sconosciuto. E hanno ottenuto l’invito al tavolo negoziale di Ginevra (nato per trovare una soluzione al conflitto siriano), al quale non si sono potuti sedere per l’opposizione di Ankara.
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Un lucido intervento di
Sapir apparso il 13 febbraio scorso. Lo condividiamo
ampiamente. Sapir, come noi facciamo da anni, utilizza il
concetto di "borghesia compradora" per caratterizzare la
natura delle diverse élite nazionali. Ma ci trova anche
d'accordo il paradigma
politico dell' amico/nemico per cui, per vincere lo
scontro con le oligarchie euriste (scontro di natura
antagonistica) saranno necessarie
alleanze tattiche momentanee tra forse oppositive e
"agoniche". Quello che per noi dovrà essere il Comitato
di Liberazione
Nazionale.
* * *
«Caro Pablo Iglesias,
Di fronte alla crisi multiforme che colpisce l'Unione europea, il successo elettorale di PODEMOS suscita diverse questioni. Voi proponete un nuovo discorso politico sui cui punti di forza è bene meditare. Nella battaglia per la conquista del senso comune accettato dalla stragrande maggioranza dei nostri cittadini, a voi è sembrato preferibile privilegiare alla tradizionale dicotomia sinistra/destra l’opposizione dei popoli alle loro elite. La crisi della socialdemocrazia sembra confermare la necessità di tale aggiornamento. Leggi tutto
In un recente documento
del Centro studi di Confindustria (2015) si argomenta che:
“La quota del valore aggiunto che va al lavoro è ai massimi storici, mentre la redditività delle imprese è ai minimi, con un impatto negativo sulla dinamica degli investimenti e sulla crescita anche futura” (p.1)
La conseguenza di tale analisi è la richiesta di revisione delle retribuzioni, per tener conto della minore inflazione dei prezzi che si è verificata nell’economia rispetto a quanto previsto al momento dei precedenti rinnovi contrattuali, in modo da ridurre l’incremento del costo del lavoro in termini reali. Richiesta accolta nel caso del CCNL dei chimici e adesso in discussione nel caso dei metalmeccanici. Ma fino a che punto è giustificata l’affermazione concernente l’andamento delle quote distributive, e a cosa è dovuto tale andamento?
I dati portati a sostegno da Confindustria sono gli andamenti delle quote distributive nel settore manifatturiero e nel settore privato dell’economia al netto delle locazioni.[1] Nel calcolare la quota dei redditi da lavoro (al lordo delle imposte e degli oneri contributivi) viene aggiunta al costo del lavoro l’IRAP pagata dalle imprese, senza che tuttavia sia del tutto chiaro quale metodo venga adottato dal Centro Studi di Confindustria per imputare una quota del gettito IRAP al costo del lavoro.[2] Riproponiamo dunque una analisi dell’andamento delle quote distributive che non tiene conto del prelievo Irap, e che contribuisce dunque a fare chiarezza sul ruolo dell’andamento del costo del lavoro – a prescindere da quell’imposta – nel determinare tali quote. Leggi tutto
Nota introduttiva:
mi scuso se, ad alcuni,
questo post potrà apparire "lungo". Ma la sua lunghezza è
dovuta all'intreccio di eventi di eccezionale
rilevanza,
che vedono l'Italia al centro della perturbazione
gravissima che sta colpendo l'economia e la situazione
geo-politica
mondiale.
In altri termini, per quanto al sistema mediatico ed "espertologico" italiano non piaccia dover ammettere che il nostro problema non è "fare le riforme" - e liberalizzare e privatizzare e tagliare la spesa pubblica-, tutte queste belle cose non servirebbero, ora, altro che ad accelerare e a peggiorare la congiuntura italiana, con la novità che, venendo questo nodo al pettine, l'Italia può essere l'epicentro di un terremoto finanziario mondiale: epocale.
Ed è veramente irresponsabile insistere a guardare il dito invece della luna, in una situazione del genere.
* * *
1. Star dietro alle recenti dichiarazioni di Draghi con l'ansia di scovarvi qualcosa di nuovo è cosa veramente vana. I "mercati" ne hanno disperato bisogno, ma il "principio di realtà" non ne viene minimamente scosso.
Leggi tuttoDecolla la proposta di una giornata di mini-manifestazioni in tanti comuni d'Italia – iniziative spontanee e fai-da-te – per sensibilizzare la popolazione ai pericoli di un nuovo intervento militare italiano in Libia. Si vuole così preparare il terreno per la riuscita del grande incontro nazionale contro la guerra che Alex Zanotelli convocherà, non appena otterrà le adesioni delle varie associazioni pacifiste italiane
Dopo la manifestazione per la pace tenutasi a Roma il 16 gennaio, un lettore di PeaceLink, il sig. Maurizio Zano, ha scritto una lunga email alla nostra redazione lamentandosi del successo solo parziale dell'evento. C'erano sì mille, due mila attivisti in piazza, scrive Zano, ma mancavano "tutte quelle associazioni, che ancora oggi, proclamano di continuo messaggi di pace. Perché il 16 gennaio non erano a manifestare contro la guerra?"
Forse con l'arrivo anticipato della primavera caliente, il Sig. Zano avrà soddisfazione, vedendo alla fine sbocciare dappertutto nel paese tantissime iniziative popolari per contrastare il ventilato progetto del governo Renzi di tornare a bombardare la Libia come nel 2011 (già Renzi autorizza i voli dei droni USA da Sigonella per sostenere l'imminente invasione delle truppe USA in Libia – ragguagli qui).
Si tratta di iniziative popolari spontanee e fai-da-te alle quali potrebbero partecipare – se non i dirigenti – almeno gli iscritti alle varie associazioni pacifiste nel paese. Leggi tutto
Perché ci sono così poche alternative alle grandi aziende tecnologiche statunitensi? È interessante confrontare il percorso di una compagnia come Uber (che oggi vale più di 62,5 miliardi di dollari) con quello di Kutsuplus, una startup finlandese che ha chiuso i battenti alla fine del 2015. Kutsuplus puntava a diventare l’equivalente di Uber nel trasporto pubblico, tramite una rete di minibus che caricavano e scaricavano i passeggeri in qualsiasi punto della città. Nata all’interno di un’università locale, Kutsuplus non era sostenuta dal grande capitale, e probabilmente questo è stato uno dei motivi del suo fallimento: l’autorità che gestisce i trasporti locali l’ha ritenuta troppo costosa.
“Costosa” non è certo un aggettivo che si può applicare a Uber. Qualcuno potrebbe pensare che il servizio costi poco perché è ben congegnato e opera su scala globale, ma il motivo è molto più banale: grazie agli investimenti colossali che la sostengono, Uber può investire miliardi di dollari per distruggere la concorrenza, che siano i vecchi taxi o le startup innovative come Kutsuplus. Il sito The Information ha ipotizzato che durante i primi nove mesi del 2015 Uber abbia perso 1,7 miliardi di dollari, registrando incassi per 1,2 miliardi. L’azienda dispone di così tanto denaro che in alcune aree del Nordamerica offre tariffe talmente basse da non coprire nemmeno i costi per la benzina e l’usura del veicolo.
Da dove viene questo denaro? Con investitori come Google, Jeff Bezos e Goldman Sachs, Uber è l’esempio perfetto di un’azienda che ha potuto espandersi a livello globale grazie all’incapacità dei governi di tassare le aziende tecnologiche e i giganti della finanza. Leggi tutto
La scelta della destra di presentare candidati a sindaco Parisi a Milano e Bertolaso a Roma può risultare ardua per certi aspetti, incomprensibile per altri o inevitabile per altri ancora. Un elemento accomuna i due candidati: nessuno dei due dispone di un profilo elettorale vincente, ovvero d un carisma e di un seguito popolare che potrebbero coagulare il consenso necessario a vincere.
E se per Parisi ci si potrebbe limitare a questo, visto che sul piano politico non è certamente più a destra di Sala, per Bertolaso c’è l’aggravante un profilo giudiziario e il tratto arrogante di un personaggio famoso soprattutto per i lavori incompiuti e gli intrecci serrati con una rete di corruttela. Un candidato sotto processo per corruzione nella Roma di Mafia Capitale è azzeccato tanto quanto proporre Erode come preside di un asilo infantile.
C’è sicuramente un tema di rapporti di forza interni al centro destra. Berlusconi non ci pensa nemmeno a mettere il suo peso elettorale e i suoi interessi nelle mani della Meloni o di Salvini, e questo già chiude il discorso delle candidature. La scelta di Parisi e Bertolaso si deve alla ritrovata leadership del Cavaliere, che ha già dimostrato con Toti in Liguria di vedere più lontano dei suoi scherani.
Resta però il dato politico sul quale vale la pena riflettere: perché Berlusconi propone ed impone candidati che, salvo terremoti (ci perdoni Bertolaso l’involontario accostamento) non possono vincere? Paola Taverna, deputata grillina che non spicca per garbo e stile, sostiene che la volontà è quella di far vincere il Movimento 5 Stelle. Leggi tutto
Subito dopo la fine della guerra fredda, in seguito allo scioglimento del Patto di Varsavia e alla disgregazione dell’Urss, Washington lanciava ad avversari e alleati un inequivocabile messaggio: «Gli Stati uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana». Sottolineava allo stesso tempo la «fondamentale importanza di preservare la Nato quale canale della influenza e partecipazione statunitensi negli affari europei, impedendo la creazione di dispositivi unicamente europei che minerebbero la struttura di comando dell'Alleanza», ossia il comando Usa.
Oggi 22 dei 28 paesi della Ue, con oltre il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva». Sempre sotto comando Usa: il Comandante supremo alleato in Europa è nominato dal Presidente degli Stati uniti e sono in mano agli Usa tutti gli altri comandi chiave della Nato. Non si può dunque pensare di liberarci dai poteri rappresentati dalla Ue senza liberarci dal dominio e dall’influenza che gli Usa esercitano sull’Europa direttamente e tramite la Nato. Obiettivo fondamentale, sul piano nazionale, è costruire un forte movimento per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per un’Italia indipendente e sovrana, per una politica estera basata sull’Articolo 11 della Costituzione.
La Nato sotto comando Usa ha inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre della ex Jugoslavia (demolita dalla Nato con la guerra), tre della ex Urss, e tra poco ne ingloberà altri (a partire da Georgia e Ucraina, questa di fatto già nella Nato), spostando basi e forze, anche nucleari, sempre più a ridosso della Russia. Leggi tutto
Pubblichiamo ampi stralci di un’intervista a Emiliano Brancaccio, la cui versione integrale uscirà in cartaceo sul prossimo numero de Il Ponte
Un
confronto a tutto campo sui temi teorici e politici del
nostro tempo, per mettere alla prova l’attualità del metodo
di analisi marxista.
Ma anche un’occasione per commentare le posizioni di alcuni
studiosi annoverabili nella “foto di famiglia” del marxismo,
tra cui
Negri, Fusaro e Losurdo. Conversazione con l’autore del
saggio “Anti-Blanchard”,
appena uscito in edizione aggiornata,
dedicato a una critica del modello macroeconomico prevalente
insegnato dall’ex capo economista del FMI.
Era il 2003 quando Robert Lucas, esponente di punta del pensiero economico ortodosso nonché premio Nobel, dichiarò trionfante che «il problema centrale della prevenzione delle recessioni è stato risolto». Da allora non è passato molto tempo, eppure quell’ottimismo sembra appartenere a un’epoca lontana. L’emergere di quella che il Fondo Monetario Internazionale ha definito la “grande recessione” ha riportato alla ribalta una visione alternativa, tipica delle scuole di pensiero critico, secondo cui il capitalismo tende strutturalmente a entrare in crisi. Tuttavia, anche tra i critici dell’ortodossia le valutazioni sulle cause del disastro attuale non sono univoche. Ne discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio, autore di vari saggi dedicati al tema marxiano della “centralizzazione del capitale” pubblicati sul Cambridge Journal of Economics e su altre riviste internazionali.
Leggi tuttoRecentemente sono stati rinnovati,
o lo
saranno a breve, molti contratti collettivi nazionali del
lavoro (Ccnl),alcuni dei quali scaduti datempo. Qui entreremo
neldettaglio di quattro Ccnl
particolarmente significativi (Chimici, Metalmeccanici,
Commercio e Trasporto pubblico), dopo aver provato a
caratterizzare la cornice entro cui sono
avvenuti questi rinnovi e quali linee di tendenza sono ormai
emerse in maniera chiara.
Il problema dei Ccnl
Qual è il ruolo che il contratto collettivo nazionale sta giocando nello scontro ormai diretto e palese fra governo e associazioni padronali da una parte e lavoratrici e lavoratori dall’altra? Partiamo da alcuni spunti che ci fornisce il gruppo editoriale che esprime la voce della Confindustria. In una rivista del gruppo Il Sole 24 Ore troviamo scritto che il contratto collettivo “resta lo strumento privilegiato per la definizione di un punto di equilibrio dinamico fra gli interessi dei lavoratori […] e quelli delle aziende” (1). Se questo riconoscimento coglie elementi di realtà, è anche vero, però, che i Ccnl sono il frutto della stratificazione di decenni di mobilitazioni operaie e di accordi con le associazioni padronali, non un armonioso e dinamico “punto di equilibrio”.
Leggi tuttoLe avvisaglie di
guerra che cogliemmo nel 2015
si concretizzano un passo alla volta: dopo aver
individuato già nello scorso autunno il Medio Oriente come
probabile innesco del conflitto, i
recenti sviluppi avvalorano l’ipotesi che ad incendiare le
polveri siano Turchia ed Arabia Saudita, semplici pedine
di una partita manovrata da
angloamericani ed israeliani. Le probabilità di uno
scontro bellico sono direttamente proporzionali al
deterioramento del quadro
economico-finanziario: il livello di indebitamento
insostenibile e la deflazione strisciante indicano che il
ciclo avviato nel secondo dopoguerra
è ormai esaurito. Alle oligarchie finanziarie non resta
che la guerra per evitare le aborrite politiche
finanziarie non ortodosse che
castrerebbero il loro potere. Per trascinare l’Europa nel
conflitto è probabile il ripetersi di un attentato in
stile 13/11: in Siria si
verificano già con crescente frequenza sinistri attacchi
falsa bandiera.
* * *
È sempre questione di moneta…
Se guerra sarà, sarà ancora un volta questione di moneta. Se da qualche parte nel deserto siriano ed iracheno sarà sparato il primo colpo d’artiglieria che innescherà un conflitto prima regionale e poi globale, sarà ancora una volta una questione di banche centrali: che l’evidente correlazione, percepita da molti nel subconscio e trattata da pochi a livello di pubblicistica, non trovi spazio nel dibattito mediatico, è solo l’ennesimo sintomo del controllo ferreo esercito dalle oligarchie massonico-finanziarie sui media e sul mondo accademico.
Leggi tuttoPiù di un commentatore ha notato l’assoluto nonsenso della lettera di risposta di Matteo Renzi ad Eugenio Scalfari, il quale sollecitava una posizione del governo italiano sulla proposta del presidente della BCE, Mario Draghi, di istituire la figura del ministro del Tesoro europeo. Renzi ha infatti ripresentato, persino nelle virgole, la stessa litania che ripete da due anni: l’austerità non basta, la Germania non rispetta le regole, mentre noi le rispettiamo, ecc.
Se Renzi avesse voluto, o potuto, spostare la polemica su un piano più incisivo, avrebbe quantomeno messo in evidenza l’inganno insito nella proposta di Draghi, la quale non fa altro che prospettare ai governi del Sud-Europa altre deleghe in bianco in cambio di promesse generiche. In queste condizioni di impotenza, la strada maestra per Renzi sarebbe di tacere di più e di fare di meno in termini di “riforme”, dato che ogni atto di obbedienza non fa altro che ribadire la sottomissione ai diktat di Bruxelles e di Francoforte. Se è vero che Draghi tiene il Tesoro italiano per i cosiddetti, dato che è proprio la BCE oggi a sostenere il debito pubblico italiano comprando i suoi titoli, è anche vero che un default dell’Italia non sarebbe una buona notizia per le banche del Nord-Europa.
Non è questione di “sovranità” o di indipendenza, dato che ci sarebbe da discutere sul fatto che l’Italia tale indipendenza l’abbia mai avuta davvero. Molti storici tedeschi ritengono, legittimamente, che l’Unità d’Italia sia una creatura prussiana. Leggi tutto
Considero la tirannide e lo stragismo di Boris Eltsin un esperimento esemplare del liberismo della “scuola di Chicago” che preme continuamente in tutte le latitudini per la formazione di governi antidemocratici al fine di realizzare, tramite la “distruzione creativa” di società refrattarie alla religione neoliberista, le condizioni ideali per la costruzione di un “capitalismo puro” che garantisca crescita e benessere.
Le “riforme” di Gorbaciov erano considerate dall’ Unione Europea e dagli States modeste e poco incisive.
Il colpo di stato di Eltsin che pone fine all’Unione Sovietica è salutato dai media occidentali come un grande fatto democratico che restituirà benessere a tutto il popolo russo. Il modello auspicato dal nuovo leader è il Cile di Pinochet. La cricca neoliberista è infatti convinta che la democrazia dei mercati (privatizzazioni, destatalizzazioni, deregulation…) perché possa esplicarsi in tutto il suo splendore necessita di “un uomo forte” e preferibilmente di una dittatura.
Boris Eltsin non deluderà i suoi sostenitori. Rimuove i controlli dei prezzi, sospende i sussidi per i disoccupati, limita al massimo le spese sociali, intraprende le prime privatizzazioni delle aziende statali. Arrivano dall’Occidente i finanziamenti che non erano stati concessi a Michael Gorbaciov ma dopo un anno la situazione sociale ed economica appare già grave tanto che il Parlamento toglie i poteri speciali che aveva con una notevole superficialità concesso allo stesso Boris Eltsin. Leggi tutto
Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, “crisi secolari” ed euro, Imprimatur, 2015, pp. 254, € 16,00
La figura geometrica che rappresenta meglio lo sviluppo del modo di produzione capitalistico è la spirale: una sequenza di cerchi che si allargano e collassano ciclicamente, per riprendere poi il proprio movimento da un nuovo punto d’inizio. Domenico Moro, nel saggio Globalizzazione e decadenza industriale, illustra con chiarezza la causa di tali movimenti, sia sul piano alto e modellistico della critica dell’economia politica marxiana, che su quello empirico delle cronache economiche e politiche contemporanee.
Uno dei temi principali del libro riguarda la perdita di capacità produttiva subita dall’Italia. Nel periodo 2007-2014 nel nostro paese gli investimenti fissi lordi in valore reale sono diminuiti del 30,4% a fronte del 12,3% nell’Unione europea. Ciò tuttavia non va considerato un fallimento del sistema, mera decadenza industriale, ma una “riorganizzazione complessiva dell’economia e della struttura delle imprese italiane, in quanto necessario adattamento alla nuova fase di accumulazione caratterizzata dalla globalizzazione e dallo stato endemico di sovrapproduzione in cui versa il capitale.” In sostanza, le perdite dell’Italia non sono frutto di scelte sbagliate di avidi operatori economici, né dell’inefficienza e corruzione di un ceto politico-amministrativo che avrebbe impedito l’adeguamento del paese al nuovo contesto internazionale. Il rallentamento economico del nostro paese rispetto ad altre zone industrializzate è il risultato dell’applicazione profonda e tempestiva di strategie neoliberiste utili a contrastare la caduta del saggio di profitto che misura il ritorno del capitale investito. Leggi tutto
Abbiamo più volte avuto l’occasione di prendere parola sul tema, sempre più ricorrente, dello stato di malversazione della città di Roma, dall’assenza di manutenzione delle strade e delle aree verdi alla scarsa qualità dei servizi pubblici e, più in generale, della vivibilità stessa della capitale. Attraverso il lavoro e le lotte della Lista dei Disoccupati e Precari del VII Municipio siamo riusciti ad individuare problematiche, responsabilità e possibili soluzioni che possano essere utili, tanto alla risoluzione di quest’annosa questione, quanto ad un allentamento del dilagante problema della disoccupazione massiva: gli scioperi alla rovescia, durante i quali i disoccupati di diversi quartieri (Cinecittà, ma anche Primavalle e Montemario) hanno riqualificato aree cittadine lasciate all’abbandono e al degrado, hanno voluto dimostrare che le due problematiche possono avere una risoluzione comune. Lo slogan che abbiamo agitato è stato proprio questo: il lavoro da fare sul territorio c’è, e anche i disoccupati disposti a svolgerlo, in modo dignitoso, equamente retribuiti e garantiti. Il problema, dunque, risiede tutto in un’evidente mancanza di volontà politica. Infatti le rivendicazioni che, all’interno del progetto di lotta della Lista Disoccupati agitavamo, erano chiare ma poco allineate a quelli che erano i progetti che i Governi (qui parliamo nello specifico dell’amministrazione capitolina, ma sappiamo bene che la direzione è nazionale e sovranazionale) avevano in serbo per il servizio pubblico.
Leggi tuttoUna prima impressione di
questa tre giorni che lancia il progetto di SI. Positiva
l’energia che si respira, la grande
determinazione a rilanciare un progetto di riscatto della
sinistra. Si capisce che stavolta si vuole scommettere
veramente su qualcosa di non ancora
ben delineato. Positiva la presenza diffusa di militanti
giovani e giovanissimi. E’ positivo che, nelle parole di
Mussi, che parla di tempesta
economica perfetta, in quella di tanti costituzionalisti, che
evidenziano la possibile fine della democrazia parlamentare,
nelle parole preoccupate di
Prospero, vi sia la netta consapevolezza della gravità estrema
della situazione.
E proprio questa consapevolezza diffusa di quanto grave sia lo stato del Paese e del mondo rende poco comprensibile una certa leggerezza dei temi programmatici trattati da quella che sarà la dirigenza di quel nuovo soggetto politico. Nemmeno una parola sull’euro, da parte di nessuno, ma in compenso una cacofonia sulla necessità “storica” di proseguire nel processo di unificazione europea, gli Stati Uniti d’Europa, l’omaggio oramai stereotipato a Ventotene, il progetto, che si ripete nelle bocche di ogni oratore, di fare una fantomatica alleanza politica transnazionale con Podemos, Syriza, socialisti portoghesi, per cambiare i Trattati. Qualcuno degli oratori arriva persino ad ipotizzare un unico partito di sinistra europeo, non si capisce come, non si capisce in quale forma, se al di fuori dalle famiglie politiche europee esistenti (una Internazionale del keynesismo?) oppure dal di dentro (e allora sarebbe bene studiare e capire che esistono già, in una assise che si chiama Parlamento Europeo, il problema è che quella assise non ha alcun reale potere). Leggi tutto
Con "Il container e l'algoritmo" di Moritz Altenried, do inizio ad una serie di traduzioni di alcuni scritti apparsi in rete che individuano a mio avviso le principali tendenze presenti nell'attuale situazione socio-economica; scritti che non condivido necessariamente in toto, almeno per quanto riguarda presupposti e consclusioni - oppure categorie come quelle del lavoro e della "lotta di classe" ivi utilizzate - ma che tuttavia credo siano nondimeno degne di discussione nel quadro della necessaria emancipazione e fuoriuscita dal capitalismo. Uno sguardo acuto sulla "contraddizione in processo" del "soggetto automatico", così come si svolge economicamente e socialmente nella produzione, nella circolazione e nel consumo, dentro la crisi
Voglio cominciare,
riportando un'interessante osservazione di Thomas Reifer,
secondo la quale oggi Marx comincerebbe Il Capitale
sottolineando come la ricchezza delle nazioni contemporanee
appaia sempre più come un'immensa collezione di container
(Reifer, 2007). Anche se
si può obiettare che un container ed una merce fanno parte di
due categorie concettuali diverse, questa affermazione
provocatoria è
molto rivelatrice in quanto evidenzia l'importanza della
logistica non solo in quanto industria ma in quanto
prospettiva per comprendere il
capitalismo contemporaneo.
Di conseguenza, propongo di differenziare tre significati del termine "logistica". In primo luogo, la logistica è un settore industriale o di mercato specializzato nello spostamento di cose che è cresciuta in importanza e che costituisce in quanto tale un oggetto di ricerca affascinante. In secondo luogo, la logistica è diventata in qualche modo una logica - o un dispositivo in senso foucaltiano - che è andata oltre il suo settore in senso stretto e che fonda il capitalismo contemporaneo. Per cui, quest'ultimo può essere compreso come un capitalismo di "catena di distribuzione", per riprendere l'espressione di Anna Tsing (Tsing, 2009). Se ciò è vero, allora la logistica, in terzo luogo, diviene una prospettiva di ricerca. Intendo difendere l'idea che la logistica può servire come una sorta di prisma che ci aiuta a comprendere in maniera critica la trasformazione in corso nel capitalismo globale. Leggi tutto
Quando
Renzi si candida alle primarie del 2012 per la segreteria del
Pd, sceglie lo slogan “Adesso!”. Un
imperativo all’azione, pronunciato nei confronti della
missione di cui si è fatto carico e che promette di portare a
compimento:
rottamare la classe dirigente del partito. Punto centrale
della campagna elettorale è infatti il conflitto
generazionale: la sfida non è
tra ‘buoni’ e ‘cattivi’ ma tra ‘nuovo’ e ‘vecchio’. Si
presenta come il volto dei trentenni, attivi,
capaci, pronti a fare il bene del Paese ma tenuti all’angolo
dalla generazione dei sessanta/settantenni al potere; si
scaglia contro
un’idea di partito definita novecentesca e controbatte con una
forte impronta personalistica e post ideologica: nessuna
bandiera o simboli del
Pd, chi lo vota non deve necessariamente provenire dal
centrosinistra ma solo riconoscersi renziano, credere in lui e
nella sua missione. Vende un
sogno, indefinito quanto emozionante: nei video promozionali,
nelle interviste, nei comizi non delinea un programma politico
ma trasmette sensazioni,
l’eccitazione per una nuova avventura, la speranza per il
futuro, il dinamismo giovanile.
Si è in piena crisi economica e politica: la recessione colpisce l’Italia più di altri Paesi, dopo le dimissioni di Berlusconi al governo c’è l’esecutivo Monti, e il Pd affonda nell’impossibilità di giustificare alla propria base elettorale il sostegno alle manovre neoliberiste dei ministri ‘tecnici’. La rottamazione lanciata dal sindaco fiorentino investe un intero sistema politico, ed è presentata come l’unica via che può salvare l’Italia dal baratro.
Renzi perde la competizione a favore di Bersani, ma la vince l’anno successivo, diventando segretario del Pd a trentotto anni. Dopo meno di tre mesi, fa lo sgambetto a Enrico Letta e diventa presidente del Consiglio. Per una gran parte di italiani diviene un leader carismatico. Leggi tutto
Sull’Huffington Post, Jeffrey Sachs lancia una durissima accusa contro la politica estera statunitense, la CIA, e in particolare Hillary Clinton —ex First Lady, ex Segretario di Stato, attuale candidata a Presidente degli Stati Uniti— che tramite i suoi ruoli istituzionali è sempre stata in prima fila a sostenere e promuovere le più criminali aggressioni statunitensi verso gli altri paesi: dalla Yugoslavia all’attuale macello della Siria, che era stato preparato da anni, e ora sta costando centinaia di migliaia di vite umane, milioni di sfollati, e una nuova clamorosa avanzata del terrorismo.
* * *
Nel dibattito di Milwaukee, Hillary Clinton si è vantata del proprio ruolo in una recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che riguardava la tregua in Siria. Ha detto così:
Vorrei aggiungere questo. Sapete, il Consiglio di Sicurezza finalmente si è deciso ad una risoluzione. Al centro di questa risoluzione c’è un accordo che io avevo negoziato nel giugno 2012 a Ginevra, che ha stabilito una tregua e avvicinato a una soluzione politica, una soluzione che cercasse di rimettere assieme le varie parti della disputa siriana.
Questo è il genere di rappresentazione compulsivamente fuorviante della realtà che rende la Clinton inadatta a essere Presidente. Leggi tutto
Solo pochi ricorderanno l’epoca ormai remota in cui il mondo pativa la scarsità di dollari. All’epoca – si era nel decennio successivo al secondo dopoguerra – la valuta americana era preziosa perché oltre ad essere scarsa era l’unica che potesse servire per gli scambi internazionali, oltre a valere (come la sterlina) come asset di riserva. Senza dollari non potevano esserci scambi, e quindi niente ricostruzione. Sicché la paura che i dollari non fossero sufficienti si radicò a lungo nell’immaginario economico internazionale. Almeno fino a quando il mondo non sperimentò il contrario. Che poi è quello che succede da un quarantennio a questa parte.
Una bella ricognizione della Fed di S.Louis, anzi, aggiunge un altro particolare alla nostra conoscenza: mai come in questo di secolo, almeno a far data dal 1980, l’estero ha assorbito così tanti dollari, nella forma consueta degli strumenti finanziari in esso denominati. Mai come oggi il mondo si è dimostrato assetato di verdoni e, soprattutto, capace di assorbirne tanti quanti la generosità americana è in grado di produrne. Una tendenza che mi sembra la dimostrazione più palpabile dell’ottimo stato di salute del Secolo americano, pure nel suo contrarsi spasmodico e caotico, che minaccia sfracelli che hanno come esito soltanto la circostanza che il mondo chieda più dollari, come se così si rassicurasse. E in effetti è così. Il mondo compra dollari e li stipa nei suoi forzieri quando ha bisogno di sentirsi più sicuro e così paga un premio al gigante Usa. Così facendo lo salva pure dall’iperinflazione che questo mare di dollari potrebbe generare, se fosse davvero speso. Leggi tutto
Fabrizio Barca, critica la tesi del determinismo tecnologico, sostenendo che le nuove tecnologie mettono di fronte a biforcazioni. Barca traccia un parallelo tra effetti sul lavoro e sulla democrazia e sostiene che dipenderà dalle scelte politiche se la rivoluzione informatica favorirà la democrazia deliberativa o l’autoritarismo e dipenderà dalla capacità dei lavoratori di partecipare al governo dei processi se essi controlleranno soltanto il proprio lavoro. Adottando questa prospettiva Barca sottolinea l’importanza del ruolo dei sindacati e dei partiti politici.
* * *
La capacità e l’incentivo di tutti noi di usare la politica per “cambiare il mondo”, ossia per influenzare il corso delle cose, sono scoraggiati dal dilagare di una visione deterministica del rapporto fra nuova tecnologia e democrazia, sia nella società, sia nei rapporti di lavoro. Il corso delle cose sarebbe sostanzialmente segnato e tutti noi dovremmo soltanto adattarci. L’agile saggio di Mario Sai – Vento dell’Est. Toyotismo, lavoro, democrazia, Ediesse, 2015 – arriva per mostrarci l’infondatezza di questo determinismo e per convincerci che la politica ha spazio di azione. Per apprezzare a pieno il contributo di Sai è utile partire dalla tesi simile, relativa alla democrazia politica.
A lungo si è voluto sostenere che la rivoluzione dell’informazione produce un effetto univoco di diffusione della democrazia politica: Leggi tutto
In un articolo pubblicato dopo gli attentati del 13 novembre scorso, lei ripercorre in maniera critica i diversi discorsi pubblici che sono stati formulati in seguito agli attentati. In particolare quei discorsi che, in modalità diverse, hanno contribuito a fare un “amalgama” tra islam e terrorismo, ad esempio chiedendo ai musulmani francesi di condannare gli attacchi terroristici. Secondo lei, come viene percepita questa ingiunzione e in che modo contribuisce a rinforzare i meccanismi di esclusione sociale?
La questione dell’amalgama tra Islam e terrorismo non è emersa con gli attentati del 13 novembre, e neppure con quelli di gennaio scorso. Si tratta di un fatto datato, fa parte di una lunga serie di pregiudizi diffusi mediaticamente e politicamente da diversi decenni: tutti i discorsi sull’incompatibilità tra islam e democrazia, sull’islam come religione priva di storicità, sull’islam come religione che prevedrebbe implicitamente la commistione tra sfera pubblica e privata, sull’islam come religione omogenea in ogni tempo e in ogni luogo, sull’islam incompatibile con i diritti delle donne, sull’islam intrinsecamente violento, e così via.
Tutti questi pregiudizi hanno abituato il cittadino medio ad avere una concezione essenzialista dell’islam e dei musulmani e, di fatto, hanno contribuito alla diffusione dell’islamofobia nella società francese. Islamofobia che, perciò, non è un prodotto “spontaneo” della società, ma il risultato di discorsi politici e mediatici diffusi da anni. Leggi tutto
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(...è uscito un
libro che non dovete leggere. Si chiama Finanziamenti
comunitari - Condizionalità senza frontiere. Lo ha
scritto Romina Raponi e spiega come funzionano realmente i
finanziamenti comunitari.
Leggerlo nuoce gravemente alla salute.
Gli effetti collaterali sono: esofagite, gastrite,
insonnia, sindrome depressiva, problemi
cardiovascolari. Io vi ho avvertito, voi fate come vi
pare. Meglio conservarsi in salute, piuttosto che capire
perché chi vi dice "eh, ma noi
non riusciamo nemmeno a spendere i fondi europei!" è un
perfetto imbecille. D'altra parte, quando non avevamo
capito un cazzo, possiamo anche
dircelo, stavamo tutti meglio... In ogni caso, quella che
segue è la mia prefazione - così gli effetti collaterali
li subite
ugualmente!...)
* * *
“Ce lo chiede l’Europa!” Quante volte ce lo siamo sentiti dire, in questi ultimi anni? Col passare del tempo, però, la retorica patriottarda di questo ritornello (“siam pronti alla morte, l’Europa chiamò!”) si sta sgretolando. È la realtà a inseguire e raggiungere chi non sia stato già convinto per tempo dalle tante autorevoli analisi, come quella di Luciano Canfora (È l’Europa che ce lo chiede! Falso!, Laterza, 2013), o quella di Giandomenico Majone (Rethinking the unionof Europe post crisis, Cambridge University Press, 2014). Leggi tutto
Con Faust e Marx. Metafore
alchemiche e
critica dell’economia politica. Satura inconclusiva non
scientifica (Luciano Pellicani editore 1989; nuova
edizione: Mimesis, Milano 2004),
Luciano Parinetto tende a effettuare una doppia operazione:
da una parte una rivisitazione della lunga tradizione del
sapere alchemico che rompe sia
con generici “esoterismi”, sia con il pregiudizio storicista
che riconosce nell’alchimia il ruolo di “mezzana” tra la
chimica come scienza normale e i saperi premoderni;
dall’altro, una lettura coerente di modelli e metafore di
chiara impronta alchemica
nell’opera marxiana.
* * *
Come si motiva questo tipo di impostazione del tuo libro?
È ben noto che chi sia completamente inserito in una totalità (e soprattutto in una totalità alienata, come è il caso di quella che va sotto il nome di capitale) è ben difficile che trovi il punto archimedeo sul quale far leva per poter iniziare a considerarla criticamente, proprio perché ogni posizione assunta rischia di risultare interna e coerente a quella totalità. Nel caso dei mio ultimo libro, l’alchimia rappresenta dunque un possibile punto archimedeo, trattandosi appunto di una visuale talmente remota dal capitale che, non solo esso la disconosce in quanto sapere, ma le oppone polemicamente le proprie scienze, ancorate al quantitativo, castrate dell’immaginario.
Leggi tuttoIl piano della Germania: creare un oligopolio bancario germano-centrico che disporrà del potere assoluto di decidere di quanto e a che condizioni finanziare il debito degli Stati
La settimana scorsa
abbiamo parlato della duplice proposta tedesca che sta
scatenando il panico nei corridoi di Palazzo Chigi e di
Palazzo Koch (Banca d’Italia). La prima è quella che vorrebbe che ai
titoli pubblici posseduti dalle banche dell’eurozona siano
attribuiti
coefficienti di rischiosità corrispondenti a quelli degli
Stati (mentre ora sono considerati privi di rischio); che sia
messo un tetto alla
presenza di titoli di Stato del loro paese nel portafoglio
delle banche; e, infine, che in caso di crisi del debito
pubblico – e di contestuale
richiesta di assistenza al Meccanismo europeo di stabilità
(MES) da parte del governo interessato – sia applicato ai
titoli pubblici lo
stesso principio di bail-in introdotto per le banche con
l’unione bancaria: allungamento delle scadenze e magari anche
sospensione e riduzione
degli interessi. In pratica un default obbligatorio i cui
costi ricadrebbero sui possessori dei titoli pubblici, cioè in
primo luogo sulle
banche del paese interessato. La seconda
proposta riguarda invece la creazione di un
“superministro” dell’economia dell’eurozona – un «lord supremo
del
bilancio dell’eurozona», nella sapida definizione data da
Yanis Varoufakis –, che assorbirebbe i residui di autonomia
degli Stati
nella gestione dei bilanci, senza prevedere come contropartita
alcun bilancio federale.
È evidente che tali proposte, se passassero, rappresenterebbe un colpo letale per l’Italia e per gli altri paesi della periferia. Leggi tutto
Unioni civili e disunioni politiche o delle rocambolesche vicende del Disegno di Legge Cirinnà
La senatrice Monica Cirinnà probabilmente non immaginava che la sua proposta di legge provocasse un tale sommovimento nella vita politica italiana, nel suo partito, il Pd, e nel suo governo.
Non dimentichiamolo ma il governo Renzi è un governo di coalizione tra il PD, il Nuovo Centro Destra di Alfano ed il gruppo ‘alato’ di recente acquisizione di Denis Verdini; un governo che dispone di una larga maggioranza in grado di approvare parecchie leggi e ‘riforme’ indigeste.
Non entreremo’, in questa sede, nel merito della legge in discussione poiché una parola chiara e definitiva su questa proposta di legge, sull’enorme importanza di una sua approvazione, sulla necessità di un riconoscimento pieno dei diritti di tutti i cittadini senza discriminazioni di sorta, è stata detta proprio su questo giornale dalla vice direttora Maria Teresa Busca e non ci torneremo’ ulteriormente.(http://caratteriliberi.eu/2016/02/01/editoriale/unioni-civili-lintolleranza-religiosa-negazione-della-dignita-delle-persone/)
La appoggiamo incondizionatamente e ci auguriamo che veda finalmente la luce. Non è accettabile che sulle unioni civili l’intolleranza religiosa neghi la dignità delle persone.
Cio’ detto la vicenda che si va snodando sotto i nostri occhi è di grande importanza fornendoci interessanti spunti di riflessione e più di un insegnamento politico. Leggi tutto
A giudicare dalle candidature che iniziano a profilarsi il panorama è decisamente deprimente:
Torino, forse è quella che sta messa meglio: Fassino non è proprio l’ideale ma è il meno peggio che il Pd possa offrire, il M5s ha una candidata dignitosa anche se non celeberrima, a destra un candidato senza infamia e senza lode;
Bologna: calma piatta con il ricandidato Merola per il Pd, Max Bugani per il M5s (dopo un bel po’ di sbranamenti interni), centro destra non pervenuto;
E sin qui siamo alle situazioni migliori, poi iniziano i dolori:
Milano: c’è un candidato di destra per la destra (Parisi), un candidato di destra per il Pd (Sala), praticamente nessuno per il M5s, mentre la sinistra trova modo di perdere tempo ma forse sta trovando il nome giusto (così almeno uno da votare c’è). La cosa più divertente è Sinistra Italiana che avrebbe dovuto sorgere dall’unione fra fuoriusciti del Pd e Sel e che già alla prima prova si divide fra i cacciatori di assessorati di Sel (dietro la maschera del “continuare l’esperienza della giunta Pisapia”, mentre tutti ridono) e l’altra componente che sembra andare verso il polo di sinistra;
Napoli: De Magistris si ripresenta per i fatti suoi, nonostante l’esperienza passata non proprio strepitosa, il Pd è diviso fra Bassolino e l’assessore regionale Valeria Valente (direi meglio il primo, ma è un po’ una minestra riscaldata), la destra si orienta per ripresentare Lettieri già sconfitto 5 anni fa, il M5s non pervenuto e non si capisce niente di cosa bolle in pentola, anche se già fioccano espulsioni; Leggi tutto
«Noi abbiamo bombe nucleari»: lo ha dichiarato il 19 febbraio a Russia Today l’analista politico saudita Daham al-Anzi, di fatto portavoce di Riyadh, ripetendolo su un altro canale arabo (vedi intervista su Pandora Tv). L’Arabia Saudita aveva già dichiarato (The Independent, 30 marzo 2015) l’intenzione di acquistare armi nucleari dal Pakistan (che non aderisce al Trattato di non-proliferazione), di cui finanzia il 60% del programma nucleare militare.
Ora, tramite al-Anzi, fa sapere che ha cominciato ad acquistarle due anni fa. Naturalmente, secondo Riyadh, per fronteggiare la «minaccia iraniana» in Yemen, Iraq e Siria, dove «la Russia aiuta Assad». Ossia, dove la Russia aiuta il governo siriano a liberare il paese dall’Isis e altre formazioni terroriste, finanziate e armate dall’Arabia Saudita nel quadro della strategia Usa/Nato.
Riyadh possiede oltre 250 cacciabombardieri a duplice capacità convenzionale e nucleare, forniti dagli Usa e dalle potenze europee. Dal 2012 l’Arabia Saudita fa parte della «Nato Eurofighter and Tornado Management Agency», l’agenzia Nato che gestisce i caccia europei Eurofighter e Tornado, dei quali Riyadh ha acquistato dalla Gran Bretagna un numero doppio rispetto a quello dell’intera Royal Air Force.
Nello stesso quadro rientra l’imminente maxi-contrattto da 8 miliardi di euro – merito della ministra Pinotti, efficiente piazzista di armi – per la fornitura al Kuwait (alleato dell’Arabia Saudita) di 28 caccia Eurofighter Typhoon, costruiti dal consorzio di cui fa parte Finmeccanica insieme a industrie di Gran Bretagna, Germania e Spagna. Leggi tutto
Ci sono poche cose al mondo che osino riproporsi sempre nella stessa veste. La selezione naturale fa infatti piazza pulita con una certa severità, per semplice evoluzione ambientale. Se, dunque, la sedicente “sinistra italiana” si ripropone secondo l'identico schema ogni tre-quattro anni, deve esistere una qualche ragione ambientale che permette un ripetersi altrimenti inspiegabile.
Diciamolo subito: l'elemento ambientale si chiama malessere sociale, emarginazione della conflittualità o anche della semplice vertenzialità sindacale, politicamente traducibile come ostilità contro Renzi e il Pd. Problemi sociali veri, che portano facilmente all'individuazione esatta del nemico politico. Una domanda sociale di rappresentanza politica, dunque, di opposizione forte, che la paccottiglia raccolta in “sinistra italiana” prova ancora una volta a coprire con un'offerta ridicola, pasticciata, indifferente alle ragioni del malessere sociale ma attentissima al mantenimento di un presenza istituzionale individuale.
Impressionante, da questo punto di vista, la schiera di trombati, rottamati, sconfitti e dispersi che si è riunita ieri intorno e sopra il palco del Palazzo dei Congressi, a Roma, sotto la scritta "Cosmopolitica". Individui, non forze reali, che non avranno mai più un ruolo politico (e una poltrona retribuita) se non trovano rapidamente un contenitore che possa raccogliere quel che basta a superare la soglia di sbarramento prevista dalla legge elettorale. Leggi tutto
L’ultimo numero di
Foreign Affairs (Feb. ’16), la punta avanzata della
riflessione strategica americana,
ripropone il tema della “stagnazione secolare” una sorta de
“il re e nudo” lanciato non molto tempo fa da Larry Summers[1]. Il re nudo di Summers si chiama
strutturale e perdurante assenza di crescita, l’assenza di
crescita potrebbe oscillare come crescita positiva o negativa
ad
esempio allo 0,2% (stagnazione) o potrebbe risultare
addirittura decrescita. Occorre poi sempre dettagliare
l’ambito di cui si sta parlando, se
cioè parliamo dell’economia americana, di quella occidentale,
di quella OECD (Ocse), di quella del mondo ed il quando, in
quale
prospettiva temporale accadrebbero i fatti. A sfavore della
crescita americana, occidentale, OECD, è l’evidenza lampante
che
è più probabile che cresceranno i mai o poco cresciuti che i
già cresciuti se si è in un trend generale di crescita
difficile. Ma siamo in un trend strutturale di crescita
difficile?
Beh, sembrerebbe proprio di sì. Gli indici e le previsioni son quelle, la sistematica revisione al ribasso di previsioni già non troppo ottimiste è ormai una consuetudine (OECD-2016). Il prezzo del petrolio e delle materie prime, dicono della flessione di domanda e soprattutto, grave allarme ha destato un altro re nudo, il fatto cioè che la capacità di stimolazione dell’economia, degli investimenti, della circolazione e dell’inflazione da parte delle torrentizie immissioni di moneta pompate dalle banche centrali, non ha sortito alcuno degli effetti sperati. Leggi tutto
Chi, ostinatamente, si
pone il problema della trasformazione della società presente
non può limitarsi soltanto a darne una
descrizione critica, individuandone i limiti, le inadeguatezze
e i punti di rottura. Oltre a formulare un’analisi che sia la
più fedele
possibile allo stato delle cose esistenti, deve anche provare
ad esaminare le modalità con le quali, in passato, sono stati
sperimentati i
tentativi di cambiamento. Una tale osservazione vale a maggior
ragione per il più importante, drammatico e straordinario
tentativo di rottura
rivoluzionaria con il capitalismo e di costruzione del
socialismo compiuto lungo la storia del XX secolo. Quello
relativo alla rivoluzione del
’17 e alla nascita dell’URSS.
Del sistema sovietico si sono date le definizioni teoriche più svariate e differenti: Stato operaio degenerato, collettivismo burocratico, capitalismo di Stato, società di transizione al socialismo, società di transizione al capitalismo. E ancora, modo di produzione statuale, sistema di produzione asiatico, dispotismo statale interventista e dispotismo orientale. Il punto è, tuttavia, che nella misura in cui ognuna di queste definizioni può esprimere tracce di verità, essa comunque cela, al contempo, elementi di complessità più ampi e profondi. Peraltro, nessuna di tali definizioni può negare il fatto che, nella misura in cui l'Unione Sovietica si presentava come ‘un sistema socialista realmente esistente’, essa sembrava concretamente rappresentare un’alternativa reale e effettiva all’anarchia del capitalismo. Sì, proprio così, l’inaspettato successo della rivoluzione russa mostrò a tutto il mondo che una società socialista poteva essere edificata sulle macerie della guerra e di uno Stato imperialista. Leggi tutto
Dai tempi
in cui Francis Fukuyama proclamava la vittoria definitiva del
capitalismo democratico e, con essa, «la fine della Storia»
(cfr. La fine della Storia e l'ultimo uomo, Rizzoli,
Milano 1992), qualche cosa è indubitabilmente cambiata. E «la
fine della
fine della Storia» (come titolava poco tempo fa un articolo di
Le Monde, 16-10-2014) non può che rimettere in discussione
tutto
ciò che, con quelle tesi, pareva acquisito: la democrazia come
orizzonte politico insuperabile della contemporaneità, la fine
delle
classi sociali e della loro lotta, la perdita di centralità
del lavoro salariato, la capacità del capitalismo a
perpetuarsi
indefinitamente senza «generalizzare le proprie
contraddizioni» (Marx). E, almeno su questi punti, tra i vari
maitres à penser del
postmoderno, da quel Samuel Huntington teorico dello Scontro
di civiltà (Occidente vs. Islam) fino a Impero di
Toni Negri e Michael
Hardt, i più strenui oppositori e antagonisti potevano,
nonostante tutto, trovare un qualche terreno d'accordo.
Che le classi esistano e che la lotta di classe possa condurre oltre il capitalismo e oltre la democrazia è invece l'assunto di fondo che permea tutto il saggio di Dauvé e Nesic che qui presentiamo. E benché i temi e i riferimenti siano tutt'altro che nuovi, e non mancheranno di far storcere il naso per cotanto vecchiume, il libro che ne risulta è unico o quasi; e il suo merito fondamentale è quello di prendere finalmente sul serio il proprio bersaglio.
Leggi tuttoLa corsa per la nomination Democratica alle elezioni presidenziali si fa incerta, mentre i commentatori di entrambe le sponde dell’Atlantico continuano a chiedersi come sia possibile che un indipendente che si dichiara seguace delle teorie di Eugene Debs, l’unico socialista che si sia candidato alla presidenza degli Stati Uniti, riesca a competere alla pari con la macchina da guerra dei Clinton (non solo Hillary: il marito è sceso a sua volta in campo, con la consueta tracotanza). Per capirci qualcosa sarebbe meglio leggere, piuttosto che gli articoli degli esperti, “Outsider in the White House”, la straordinaria autobiografia di Bernie Sanders pubblicata da Verso.
È la storia appassionante di un uomo che senza soldi, senza il sostegno di un apparato di partito, né tantomeno dei media, classificato come “sovversivo” in base ai canoni della correttezza politica americana, nel giro di trent’anni è riuscito: 1) a farsi eleggere sindaco della più grande città del Vermont, 2) a vincere quattro campagne elettorali per l’elezione al Congresso, sbaragliando i candidati repubblicani e democratici, 3) a vincere, nel 2006, l’unico seggio senatoriale che spetta al piccolo stato al confine con il Canada in cui vive da decenni (è nato a New York da immigrati dell’Est Europa di origine ebraica).
La sua non è la solita storia del self made man americano che si fa largo lottando con il coltello fra i denti contro tutti e tutto, ma quella di una persona onesta e tenace che ha costruito la propria carriera politica attraverso l’amicizia delle tante persone che è riuscito a convincere, non ad aderire alla proprio ideologia, ma a nutrire fiducia nel fatto che ne avrebbe difeso sempre e con tutti i mezzi gli interessi (gli interessi dei più deboli, per chiarezza), fiducia che ha ottenuto dimostrando di far seguire i fatti alle parole. Come ha fatto a mettersi nelle condizioni di dimostrarlo? Leggi tutto
Forse qualcuno si ricorda la boutade di quest’autunno del presidente di Confindustria Squinzi, secondo il quale le richieste dei sindacati alla vigilia del rinnovo dei contratti collettivi nazionali erano inaccettabili, dato che chiedevano aumenti delle retribuzioni “insostenibili” e addirittura “fuori dalla realtà”. Un attacco frontale alla contrattazione nazionale, dato che in realtà i nostri timidi sindacati chiedevano i soliti minimi aumenti salariali che si prevedono a ogni rinnovo dei CCNL, appena sufficienti a star dietro all’aumento del costo della vita, dei servizi, a quello che tutti noi chiamiamo “arrivare a fine mese”.
Sappiamo poi com’è andata a finire:
i sindacati
confederali hanno facilmente ceduto alle richieste degli
imprenditori in quasi tutti i casi, e quest’ultimi sono
riusciti addirittura a
ottenere soldi indietro dai lavoratori del settore della
chimica e sono in procinto di fare altrettanto con i
metalmeccanici.
Dietro le
considerazioni di Squinzi c’era una famigeratanota
del centro studi di confindustria in cui si sosteneva
che “La quota del valore aggiunto che va al lavoro è ai
massimi
storici”. Tradotto: della quella parte della ricchezza
prodotta in un anno nel paese, che finisce in tasca ai
lavoratori è alta come mai
lo è stata prima. Potrà sembrare molto strano a chi abbia la
sfortuna di lavorare in questo paese, ma secondo confindustria
al lavoro
dipendente va una quota di PIL che supera “il picco di metà
anni Settanta, quando il sindacato dei lavoratori era
all’apice del
potere rivendicativo”. Per questo i sindacati dovrebbero
smettere con le loro anacronistiche pretese! Leggi tutto
L’anniversario è atipico, ma ogni 17 febbraio che si rispetti a Roma tutti si sentono in dovere di dire qualcosa sulla cacciata di Lama dalla Sapienza. L’atto che apre il ’77 romano, chiusosi dopo un mese nella grande e tragica manifestazione del 12 marzo, il giorno seguente la morte di Francesco Lorusso. In fondo la “geometrica potenza” si espresse compiutamente in quel mese che cambiò, se non i destini di un paese, quantomeno i riferimenti culturali di un movimento. Non poteva che finire così, con un doloroso e necessario canto del cigno. Sono completamente fuori fuoco i ragionamenti che continuano ad immaginare, col senno del poi, una possibile fine diversa, una “salvezza”, per un movimento che non aveva alcuna rivendicazione particolare da portare avanti, alcuna mediazione da proporre, che non fosse la diretta politicità della sua essenza e presenza. Per ciò stesso, irriducibile a possibili integrazioni pacificanti, a parziali intendimenti con le nascenti convergenze di potere nate proprio per impedire quei parziali intendimenti. Detto questo, e rilevata fino in fondo la grandezza di un processo politico, bisogna anche uscire dal reducismo di chi ancora fatica a comprendere quel 17 febbraio, che segnò non solo l’apoteosi di un movimento, ma anche il suo decisivo limite politico. Sul momento, e per qualcuno ancora oggi, la cacciata di Lama costituiva la resa dei conti con un apparato politico transitato dalla rivoluzione alla gestione consociativa del potere in chiave repressiva. Valutato in una prospettiva più generale, come dovrebbe essere in tempi, come questi, decisamente “altri” e quindi senza alcuna necessità di legittimazione forzata, quel 17 febbraio certificò la rottura storica tra la classe operaia e la sinistra dei movimenti rivoluzionari. Leggi tutto
Purtroppo non c’è proprio nulla da festeggiare e nemmeno da celebrare. Questo generoso movimento, sorto nel 1991 dalle ceneri del Pci, ha dato vita a un percorso politico che pare oggi finito in un binario morto. A maggior ragione oggi ci sarebbe bisogno di un nuovo Movimento per la rifondazione comunista, a meno che non ci si accontenti di sopravvivere nella tenebra del quotidiano. Resta perciò necessario distinguere lo spirito di tale percorso dai limiti della sua realizzazione storica, che andrebbero egualmente conosciuti per evitare di ripeterli.
Un bilancio storico? A partire dal Movimento per la Rifondazione comunista? Un tentativo che appare ormai abortito di rianimare il cadavere di un’ideologia totalitaria nell’epoca della fine della storia o, quantomeno, delle ideologie. Sauve qui peut?
Tuttavia è proprio la storia che ha permesso al genere umano di distinguersi, nell’evoluzione della natura, dalle altre specie animali. Come è l’ideologia a far sì che la plebe moderna non resti sempre all’opra china e possa, prendendo coscienza di sé come classe, alzare la testa e rivolgersi al padrone senza tenere più il cappello in mano.
Tanto più che il comunismo è stato dato per morto troppe volte nel corso della storia, a partire dal fallimento dei tentativi di realizzare l’utopia pitagorica e poi platonica in Magna Grecia. D’altra parte tale utopia è comunque risorta persino negli anni oscuri del medioevo cristiano, in quei pensatori e uomini di azione critici, che hanno mirato a trasformare in suo nome lo stato di cose presenti e sono stati bollati come eretici [1]. Leggi tutto
“Si possono
inoltre gestire meglio quei crediti deteriorati (quasi
un terzo del totale) che fanno capo a imprese in
temporanea difficoltà ma con concrete possibilità di
rilancio, soprattutto con il
rafforzamento della ripresa economica. È essenziale a
questo fine un adeguato coordinamento tra le banche
finanziatrici, che preveda anche
l’intervento di operatori specializzati nelle
ristrutturazioni aziendali”. (Governatore
Banca d’Italia Ignazio Visco, Intervento ad Assiom
Forex - Torino 30
gennaio 2016, pag, 12)
“Gli industriali italiani non riuscirono a salvare il meccanismo della svalutazione. Ne presero atto e si dedicarono, nel decennio seguente l’unione Monetaria, a salvare i propri capitali. Gli investimenti crollarono di fronte alla certezza del cambio forte. Lo sciopero fiscale raggiunse vette sempre più elevate. Le imprese si indebitarono con le banche. I proventi delle esportazioni, per quanto possibile, furono lasciati all’estero. Restò alle banche chiudere il credito, decretando la fine del 25% dell’apparato industriale”. (Marcello de Cecco, Deflazione, il male sottile, Affari&Finanza, 8 febbraio 2016.)
Rimane ancora quel 75% in vita, o in apnea, che dir si voglia. Per quanto? Nel Mezzogiorno non esiste più industria, il pericolo riguarda la fascia adriatica, il nord est e le ex regioni rosse, anch’esse a grosso rischio di ulteriore deindustrializzazione. Le crisi delle banche locali, da Cariferrara a Popolare Vicenza, da Banche Marche a Veneto Banca, sono il chiaro segno che l’industrializzazione del Nord est centro è ad un crocevia. Visco ritiene che possa essere salvata. I crediti deteriorati sono circa 360 miliardi, un terzo dunque sono 120. Leggi tutto
Servaas Storm, econonomista eterodosso olandese vincitore del Premio Myrdal 2013 e autore di Macroeconomics Beyond the NAIRU (Harvard University Press, 2012), sfida la visione mainstream della crisi dell’eurozona che ha per lungo tempo contagiato anche il campo eterodosso: gli squilibri tra i paesi dell’Eurozona, spiega Storm, non dipendono dal differenziale accumulato del costo del lavoro, né in generale dai prezzi, ma vanno ricercati nel lato finanziario dell’economia europea
In risposta
alla mia analisi critica
della moderazione salariale tedesca e della crisi
dell’euro zona, Heiner
Flassbeck e Costas Lapavitsas hanno chiarito la loro versione su ciò che
grosso modo si intende per modello da manuale neoclassico di
una unione monetaria.
Il loro punto principale è che non ci sarebbero stati grandi
squilibri delle partite correnti insostenibili all’interno
della zona euro,
e di conseguenza nessuna crisi del debito sovrano nei paesi in
deficit, se tutti gli Stati membri avessero mantenuto la
crescita dei salari nominali
pari alla crescita della produttività del lavoro più il 2%
(l’obiettivo di inflazione). Professor Wren-Lewis
(2016) ha sostenuto lo stesso punto.
Il delicato equilibrio delle partite correnti con l’estero è stato deliberatamente sconvolto dalla moderazione dei salari nominali praticata dalla Germania mercantilista, che ha portato la crescita del surplus commerciale tedesco ad essere il rovescio della medaglia della crescita del deficit commerciale nel Sud Europa. E’ piuttosto ironico, a mio parere, che una logica simile sia adottata da osservatori mainstream come Sinn (2014) o persino dallo stesso signor Schäuble, con questa differenza: Sinn e Schäuble sostengono che gli squilibri delle partite correnti sono stati causati da un errore dei paesi in crisi nel seguire l’esempio di successo della Germania del taglio dei costi unitari del lavoro. Mi spiego meglio: il problema per me non è quale delle due parti di questo dibattito – da un lato chi accusa la Germania di impoverire i suoi vicini portando i propri salari su livelli inferiori, dall’altro coloro che lodano la Germania per essere ultra super competitiva dal lato dei costi – sia quella nel giusto. Leggi tutto
Il lungo,
annoso dibattito
su crittografia e
terrorismo, e dunque tra protezione dei nostri dati personali
in rete e capacità delle forze dell’ordine e dell’intelligence
di
accedervi per sconfiggere il “terrore”, è giunto in queste ore
a un (pericoloso) punto di svolta.
Una corte federale californiana ha infatti imposto ad Apple “un aiuto nel consentire l’ispezione” di un iPhone 5c: quello posseduto da Syed Rizwan Farouk, uno degli autori dell’attentato terroristico che fece 14 vittime a San Bernardino, il 2 dicembre scorso. Gli agenti sarebbero secondo il Washington Post a caccia di foto, contatti e messaggi “cruciali” per le indagini. Messaggi però cifrati, contenuti nel telefonino e non copiati sui server di Apple tramite iCloud - a quelli, dice l’FBI, l’azienda ha già fornito accesso. E l’attentatore non faceva un backup da ottobre 2015, si pensa intenzionalmente.
Il problema è che gli agenti hanno dovuto arrendersi, come ha spiegato la scorsa settimana il direttore FBI, James Comey, alle tecniche di cifratura utilizzate dallo smartphone di Cupertino. Che prevedono che quando un utente imposta una password, la combinazione scelta generi una chiave di cifratura. Questa viene poi usata insieme a un'altra chiave hardware, del telefono, per cifrare i messaggi scambiati. Apple dice di non averne una copia (end-to-end encryption). Leggi tutto
1. Un mondo di incertezze
I responsabili del sistema industriale e finanziario europei ripetono il ritornello del “tutto si aggiusterà, la tempesta passerà presto, il sistema è solido”. Ma quelli che parlano così sono in generale gli stessi che devono difendere i loro soldi e i loro incarichi. La realtà è che nessuno sa veramente come siamo messi e cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi; la finanza appare ancora una volta come una variabile impazzita, mentre sono oscuri, come al solito, i nessi tra i suoi andamenti e quelli dell’economia reale.
La settimana scorsa è stata di quelle da ricordare: a ondate di panico si sono succeduti in borsa dei momenti di respiro, comunque in una timorosa attesa di un possibile crollo. Questa settimana le acque sembrano meno agitate, ma chissà, le fonti di preoccupazione sono molte. Sembrano essere in ogni caso in campo molte delle premesse di una nuova recessione.
Nel caso dell’Italia le possibili nuove difficoltà appaiono evidenti: nel primo trimestre del 2015 il pil è cresciuto dello 0,4%, nel secondo dello 0,3%, nel terzo dello 0,2%, nel quarto dello 0,1%. Cosa succederà nel prossimo quarto? Tali notizie fresche si aggiungono a quelle di qualche giorno fa sull’occupazione, dalle quali si palesava che nel 2015, anno del job act, si erano creati meno posti di lavoro che nel 2014, quando la legge non era ancora in essere. Miracoli di Renzi e Poletti! Leggi tutto
Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per
fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si
imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui
vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua
latina o greca si impara
secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta
esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si
ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far
contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di
compostezza fisica, di concentrazione
psichica in determinati oggetti. Uno studioso di
trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino
sedici ore filate, se da bambino non
avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto
le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare
anche
degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere
su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche
solo dozzine di studiosi
di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.
Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. Leggi tutto
Il 15 gennaio scorso è stato varato dal Consiglio dei Ministri il decreto legislativo sulle depenalizzazioni che prevede che una serie di reati non rientrino più nella casistica penale, ma vengano sanzionati amministrativamente. Nei vari commi di legge per i comportamenti in questione viene sostituito al termine “è punito” il termine “è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria”. Si tratta di illeciti svariati che vanno da reati cosi detti “Contro la fede pubblica” e cioè, per esempio, uso di atto privato falso, falsità in scrittura privata a quelli “Contro la moralità e il buon costume”, da quelli in “Materia di Previdenza” come omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali a quelli in “Materia di circolazione stradale” come la guida senza patente, solo per citarne alcuni e varrebbe la pena che ognuno/a se li andasse a leggere tutti.
In questa casistica estremamente varia è contemplato anche il reato d’aborto, cioè l’aborto fuori dalle regole imposte dalla Legge 194/78. La Legge 194/78 prevede la possibilità di aborto solo se viene seguito un percorso obbligatorio amministrativo e medico e solo nelle strutture pubbliche. Se la donna che vuole abortire non segue questo percorso e se non lo fa nelle strutture pubbliche, fino all’altro giorno, la trasgressione era penale. A seconda della gravità della trasgressione era prevista la multa fino a centomila lire, vale a dire 51 euro, o la reclusione fino a sei mesi. Ora le regole e il percorso sono rimaste le stesse, ma la trasgressione è stata depenalizzata e soggetta a multa da 5 mila a 10 mila euro. Leggi tutto
A qualcuno parrà esagerato sottolineare l’esito cinese del capitalismo americano, ossia la sua metamorfosi in un sistema dove il privato esercita i suoi talenti sotto l’egida rassicurante dello stato. Ma d’altronde come si fa a non usare l’iperbole quando si scopre la quota, questa sì iperbolica, di debito privato garantito dal governo negli Usa?
Secondo l’ultima rilevazione del Bailout barometer della Fed di Richmond, infatti, il livello di garanzie pubbliche, implicite o esplicite, sul sistema finanziario americano ha ormai raggiunto la quota di quasi il 61% del totale nel 2014, in crescita esagerata dal comunque già notevole 43-45% del 1999 (vedi grafico). Ciò significa in pratica che due terzi dei debiti privati del sistema finanziario sono in qualche modo garantite dal governo, con tutte le conseguenze che ciò provoca sulla propensione al rischi di questi intermediari e sulla probabilità di bai out prossimi venturi, come la stessa Fed rileva in epigrafe.
Peraltro, non parliamo di bruscolini. Una tabella gentilmente fornita dalla Fed calcola in oltre 26 trilioni di dollari il valore di queste garanzie, pari al 60,7% dei 43 trilioni totali di debiti che il sistema finanziario americano ha cumulato a fine 2014. “Quando i creditori si aspettano di essere protetti dalle perdite – scrivono gli autori – tendono a sovrainvestire sulle attività più rischiose, rendendo le crisi finanziarie e i bail out come quelli avvenuti fra il 2007 e il 2008 più probabili”. Inoltre un “safety net” così esteso costringe i supervisori a una maggiore supervisione. Leggi tutto
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Basta scorrere i titoli
delle Conclusioni dell’ultimo Consiglio Europeo (17-18
dicembre 2015), per cogliere la gravità
delle crisi in cui si dibatte l’UE: migrazioni, terrorismo,
unione monetaria, mercato interno, clima, Brexit, ISIS e
Siria. Leggendole ci si
accorge subito che l’UE le affronta con il consueto approccio:
varare misure per affrontare nell’immediato le crisi senza
essere mossi da
prospettive di lungo periodo, attuarle passo dopo passo,
sempre però in funzione della costruzione e gestione del
mercato unico sovranazionale,
il vero e solo grande disegno delle élite europee. Nella
‘realtà effettuale’, per usare parole di Machiavelli, quelle
che si
vanno compiendo non sono scelte di routine, anche se l’UE le
presenta business as usual. Questo approccio non è casuale, in
quanto tipico
del pluridecennale metodo funzionalista – ‘da cosa nasce
cosa’, ciò che raffinati esegeti chiamano ‘effetti di spill
over’; in secondo luogo, perché questa routine dai tratti
burocratici esprime la consapevolezza delle élite europee
dell’ampiezza dei loro poteri in grado di imporre le proprie
scelte senza che in nessun paese – neanche là dove sono stati
infranti
equilibri politici come in Spagna Grecia e Portogallo –
governi, partiti, sindacati o movimenti abbiano l’intenzione
e, soprattutto, la
forza di opporvisi. A scontrarsi, almeno a parole, con l’UE
sono formazioni di estrema destra che si battono
esclusivamente contro
l’ingresso dei migranti e che come alternativa prospettano al
più il ritorno allo Stato-nazione, ormai indebolito dalla
devoluzione di
poteri sovrani; oppure sono capi di governo, come Renzi, che
sperano grazie alle polemiche con la Commissione di lucrare
consensi nei sondaggi
d’opinione e alle elezioni. Leggi tutto
Pubblichiamo un estratto del saggio contenuto ne Le nuove forme dell’impegno letterario in Italia, a cura di Federica Lorenzi e Lia Perrone (Giorgio Pozzi Editore, 2015)
Felice chi è
diverso
essendo egli diverso.
Ma
guai a chi è
diverso
essendo egli comune.
Sandro Penna
Quello della fine dell’”intellettuale-legislatore”, per riprendere ancora la definizione di Bauman, è un mantra che in Italia va avanti non da anni, bensì da decenni. È già a metà degli anni Settanta (in un saggio poi confluito nella volume Il critico senza mestiere), che il critico Alfonso Berardinelli parla di prendere atto di una
avvenuta dissoluzione di un corpo ideologico al cui interno sono state vissute quasi tutte le vicende italiane degli ultimi trent’anni [nei quali] poesia e letteratura sembrano, inoltre, aver perduto del tutto il loro carattere di relativa e simbolica centralità all’interno del sistema culturale. [1]
Quando Berardinelli scrive queste righe siamo nel 1975; poco più di un decennio dopo Zygmunt Bauman conierà la sua fortunata e abusata definizione, efficace certamente dal punto di vista comunicativo ma non altrettanto convincente dal punto di vista concettuale. Leggi tutto
Scrivere un
libro sullo Stato e su Foucault può apparire o impresa
impossibile o banale ripetizione. Impresa
impossibile in quanto Foucault è notoriamente il teorico del
potere inteso come relazione e non come cosa che
si
possiede e che sta in un luogo od in un altro e, per questo,
un grande critico dello statocentrismo, cioè di ogni
analisi
(Hobbes) che consideri il potere risiedere nelle mani dello
Stato, cioè del detentore della violenza fisica in ultima
istanza. Banale
ripetizione perché in effetti Foucault dello Stato ha parlato
parecchio, sopratutto nei corsi tenuti al College de France
dal 1975 al 1980. In
quegli anni ha elaborato le assai conosciute e spesso abusate,
sopratutto in Italia, categorie di biopolitica e
governamentalità, ed ha
approfondito e studiato la storia del liberalismo e del
neoliberalismo, tutti concetti evidentemente legati a quello
di Stato. Ognuno di questi
termini è stato soggetto di saggi ed articoli a non finire e
l’ennesimo libro sulla governamentalità nel pensiero di
Foucault, o
sulla concezione neo ed ordo liberale dello Stato, non
desterebbe alcun interesse.
L’ultimo libro di Arnault Skornicki, La grande soif de l’État (La grande sete dello Stato), per Les praires ordinaires, non risulta né assurdo né banale. Questo è dato, credo, da una duplice motivazione: in primo luogo l’approccio dell’autore, che è essenzialmente comparativo (non a caso il sottotitolo è Michel Foucault avec les sciences sociales), che gli consente numerosi excursus tra vari autori come Bordieou, Elias, Weber, Poulantzas ed altri, utili sia per comprendere il pensiero di Foucault sui vari punti, sia per allargare il respiro del testo, rendendolo così un libro non tanto su Foucault ma sullo Stato. Leggi tutto
Questa volta generalizziamo ferocemente. Perché nulla come i dettagli ci fanno perdere di vista l’essenziale. Con eterna gratitudine a William Blake, che vide nascere il mostro
Non parliamo né di Destra né di Sinistra, ma di Liberalismo, che è la visione sottostante a tutto il resto.
Il liberalismo nasce rifiutando l’idea feudale della natura umana: “Io sono nato con la corona, tu no, quindi tu porta la legna e io mi sfrego le mani al fuoco”.
Il liberalismo introduce un’altra visione e per questo dicono che sia democratico e pure di Sinistra.
Ma la visione liberale è arbitraria e fideistica quanto quella feudale.
Tutti gli Uomini sono individui. Internamente, inscindibili e unici, esternamente scissi dal mondo, come se la pelle non avesse pori e gli occhi non vedessero che il nostro riflesso.
Chi è Uomo (maiuscola obbligatoria)?
La storia del liberalismo consiste in una lunga serie di gente che bussa alla porta e di scenate di gelosia da parte di chi è già stato riconosciuto Uomo. Femmine, negri, pezzenti e froci che fanno le capriole per dimostrare di essere anche loro Uomini, e i già-Uomini del momento che dicono, “di questo passo finirà che dovremo riconoscere pure le tenie!”
Leggi tuttoCiò che la crisi ormai più che settennale ha mostrato con chiarezza è l’inconsistenza della finzione teorica che vuole stato e mercato entità separate e quasi antagoniste. Le grandi protagoniste del post-crisi sono state, e non a caso, le banche centrali, ossia le entità che incarnano compiutamente il connubio stato/mercato che nei fatti decide le sorti dell’economia. E infatti ancora oggi, mentre la paura di un nuovo crash viene ogni giorno alimentata dalle cronache di borsa, tutti gli sguardi tornano a volgersi verso la Fed e la Bce, alle quali si chiede di trovare soluzioni a un avvitamento che essere stesse hanno contribuito a provocare.
Mentre tutto ciò accade, le cronache riportano del grande aumento di debito pubblico registrato in pressoché tutte le contabilità nazionali, in conseguenza dei guasti del 2008, mentre sorvolano ancora pudiche su ciò che potrebbe accadere ai bilanci nazionali da oggi in poi, visto che nel tentativo di rassicurare la bestia costantemente affamata e impaurita dei mercati gli stati hanno finito col farsi carico di gran parte dei rischi che gli stessi mercati hanno lasciato crescere in questi anni tormentati sotto l’occhio benigno delle banche centrali.
Il problema insomma non è solo quanto hanno dovuto spendere gli stati per socializzare le perdite del sistema finanziario privato – pure se questi debiti hanno reso estremamente difficile gestire il proprio spazio fiscale – ma quanto potrebbe costare a noi tutti un altro armageddon in stile 2008, visto che nel frattempo sempre gli stati si sono incaricati di accendere pesantissime garanzie, implicite ed esplicite, sulle contabilità degli intermediari finanziari. Leggi tutto
Mentre la nostra opinione pubblica era ancora distratta da questioni decisive come le unioni civili, verso la metà di febbraio l’Assemblea Nazionale francese approvava silenziosamente l’estensione dello stato di emergenza sino al prossimo 26 maggio. In Francia si prospetta quindi un semestre (solo un semestre?) di sospensione delle garanzie civili, una misura senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale. Neppure il traumatico passaggio della Francia alla Quinta Repubblica nel 1958 aveva giustificato tanto. E non si può dire che nel 1958 in Francia non ci fosse un’emergenza-terrorismo, perciò si potrebbe concludere che oggi si tratta di un miracolo del terrorismo islamico.
Nel contesto attuale la questione della legittimità politica e morale del terrorismo rappresenterebbe una domanda senza senso, per la quale ogni risposta sarebbe altrettanto priva di senso. Nell’epoca delle kill-list, ed anche dei droni - grazie ai quali si possono distruggere villaggi e famiglie standosene comodamente seduti a chilometri di distanza davanti ad un quadro comandi, magari mangiando patatine -, ogni etica della guerra (ammesso che vi sia mai stata) risulta liquidata persino come mera astrazione retorica. Rimane il potere dell’emergenza suscitata dal terrorismo, lo stato di eccezione permanente, che riduce lo Stato di Diritto a qualcosa di meno di una finzione. Lo Stato di Diritto vale solo per la domenica, mentre nei giorni feriali basta il timore di poche decine di terroristi per legittimare lo Stato di polizia. Leggi tutto
È uscito "Nella notte ci guidano le stelle", il terzo e ultimo volume del Sole dell'Avvenire (Mondadori Strade Blu), l'imponente trilogia inaugurata da Valerio Evangelisti con la pubblicazione del primo volume nel 2013 ("Vivere lavorando o morire combattendo”), al quale è seguito nel 2014 il secondo ("Chi ha del ferro ha del pane"). La saga narra le vicende di alcune famiglie romagnole e costituisce un unico romanzo, anche se ogni singolo volume può esser letto autonomamente. La narrazione parte con l'Italia post-risorgimentale e arriva fino al secondo dopoguerra.
I protagonisti del nuovo volume sono tre e a ognuno di essi è dedicata una parte specifica del libro. Spartaco, "Tito", Verardi è un ex legionario fiumano, un fascista della prima ora. È un villain drammaticamente scisso: ama i genitori che sono socialisti, ma ne è respinto; è progressivamente deluso dal fascismo - che da strumento della "rivoluzione" dei produttori contro il "parassitismo" si evolve in braccio armato dei grandi proprietari terrieri - ma non riesce a separarsene; odia i socialisti e la "plebaglia rossa interessata solo ai problemi alimentari", ma ha una segreta ammirazione per Lenin. Grazie alla psicologia profonda e oscura di questo personaggio riviviamo contropelo la tragedia degli anni venti, con un partito socialista prima forza parlamentare, ma completamente imbelle di fronte alla distruzione delle istituzioni proletarie (camere del lavoro, leghe di resistenza, cooperative, case del popolo). I dirigenti socialisti assistono ai pestaggi e agli omicidi che umiliano operai e contadini ridando forza ai ceti benestanti, ma sostengono la tesi dell'ondata che passa, del "coraggio della viltà". Leggi tutto
Dal sito de l’Union Populaire Républicaine – nuovo movimento politico francese che si propone il ristabilimento della democrazia con l’uscita dalla UE e dall’euro – una interessante analisi del Prof. Vincent Brousseau sul meccanismo e la dinamica dei saldi Target2: essi sono allo stesso tempo condizione necessaria dell’unione monetaria, ma anche pomo della discordia; riprendendo la loro fuga in avanti, portano ad una situazione sempre più irragionevole e inaccettabile
Qualche
giorno fa, l’UPR ha segnalato che i saldi
Target avevano ripreso la
loro fuga in avanti, cosa sulla quale i media francesi
rimangono straordinariamente discreti.
Il grafico accanto mostra l’evoluzione di questi saldi Target da prima dell’inizio della crisi fino ad ora. Questi saldi sono debiti e crediti in un sistema chiuso; la loro somma è quindi pari a zero, il che spiega l’aspetto simmetrico del grafico. I debiti (in basso) riflettono i crediti (in alto).
La fase 2011-2013 è stata un momento di panico. Col passare del tempo, abbiamo accumulato dati sufficienti per poter fare una constatazione: Se non si considera questo episodio di panico, si può constatare ora che il ritmo di fondo della progressione non si è mai interrotto. La Bundesbank accumula ogni anno, in media, circa 80 miliardi di crediti supplementari. E, dal 2008, si arriva a un rispettabile totale di 600 miliardi.
Per dare un ordine di grandezza, vorrei ricordare che il bilancio totale della Bundesbank all’inizio dell’euro era solo di 250 miliardi, e nel 2005, di 300 miliardi.
Leggi tuttoViolazione degli artt.
1 e 48 della Costituzione
Il Governo Renzi, con il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, già approvato nella prima delle due deliberazioni richieste per le leggi di revisione costituzionale, si propone di modificare le disposizioni costituzionali contenute nei titoli I, II, III, V, VI della Parte II della Costituzione e nelle disposizioni finali. Ebbene, poiché tali modifiche sono svariate – come si desume dalla stessa intitolazione della legge («Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione») – una volta che tale legge fosse sottoposta a referendum, coercirebbe la libertà di voto degli elettori (art. 48 Cost.) e violerebbe, nel contempo, la proclamazione della sovranità popolare «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 comma 2 Cost.), in quanto, trattandosi di una legge dal contenuto disomogeneo, l’elettore potrebbe esprimere, sull’intero testo, solo un sì o solo un no ancorché le scelte da compiere sono almeno due: la modifica dell’attuale forma di governo (e cioè il rafforzamento del Governo a spese del Parlamento, con un Senato ridotto ad una larva) e la modifica della forma di Stato (essendo rafforzata la posizione dello Stato centrale nei confronti delle Regioni).
Il che evidenzia l’illegittimità costituzionale che caratterizza il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, perché viola, come già detto, gli artt. 1 e 48 Cost. Un vizio che non contraddistingueva invece la c.d. riforma della Costituzione proposta dal Governo Letta (d.d.l. cost. n. 813 AS), naufragata strada facendo, il cui art. 4 comma 2 prevedeva appunto che «Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico». Leggi tutto
1.
Il lettore di “Proteo” sa bene che questa rivista a
carattere scientifico è, nello stesso tempo, una pubblicazione
di
classe. Le due cose vanno insieme. Da sempre, lotta di classe
dalla parte dei lavoratori vuol dire anche conoscere, rendersi
conto del mondo,
migliorarsi, emanciparsi. (Cento anni fà, la prima lotta mondiale,
quella per la giornata lavorativa di 8 ore, aveva per motto: 8
per
lavorare, 8 per riposare, 8 per migliorarci.) - Questo è il
lato soggettivo. Il suo sviluppo, nel corso di ormai quasi due
secoli, ha portato
alla costruzione di organizzazioni economiche (cooperative),
sindacali, politiche dei lavoratori; in Italia, a Camere del
lavoro, Case del popolo,
istituzioni di vita autonoma delle classi lavoratrici, che
insieme erano strumenti di lotta e di cultura attiva.
Ma, naturalmente, c’è un lato oggettivo della lotta, che emerge non appena si considera la controparte. Anche la borghesia è mutata profondamente nel tempo, fino a generare un’oligarchia ristretta che oggi, con strumenti economici, politici, culturali (o anticulturali), impone il suo dominio, direttamente e indirettamente, a miliardi di uomini in quasi ogni Paese. E oggi diventa via via più chiaro qualcosa, che in linea di principio è sempre stato vero: che l’oggetto della lotta di classe è sempre stato, fin dai primi confronti parziali, locali, fin dalle Leghe di Resistenza dell’‘800, il modo di organizzare la vita degli uomini associati, la produzione e riproduzione di questa attraverso e mediante il lavoro [1].
Leggi tuttoNel 1935, John Maynard Keynes scrisse a George Bernard Shaw: “Credo che scriverò un libro di teoria economica che rivoluzionerà in gran parte – non credo immediatamente, ma nel corso dei prossimi dieci anni – il modo in cui il mondo guarda ai problemi economici.” E, in effetti, l’opera magna di Keynes, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel febbraio del 1936, ha trasformato la teoria e la politica economica. Ma la teoria keynesiana regge ancora dopo ottanta anni?
Due sono le componenti dell’eredità Keynesiana che sembrano essere consolidate. In primo luogo, Keynes ha inventato la macroeconomia, la teoria della produzione nel suo complesso. Ha chiamato la sua teoria “generale” per distinguerla dalla teoria pre-keynesiana, che assume un livello unico di reddito, la piena occupazione.
Dimostrando come l’economia potrebbe rimanere bloccata in un equilibrio di “sottoccupazione”, Keynes ha sfidato l’idea centrale della teoria economica ortodossa del suo tempo: che i mercati, per tutti i beni, compreso il lavoro, vengono simultaneamente portati in equilibrio dai prezzi. E la sua sfida implicava una nuova dimensione per l’elaborazione delle politiche economiche: i governi possono avere bisogno di fare deficit per mantenere la piena occupazione. Leggi tutto
La controriforma costituzionale voluta dal governo Renzi, che sarà sottoposta a referendum nel prossimo autunno, arriva a conclusione di un trentennale processo di ridefinizione della forma Stato, i cui primi passi sono da rintracciare già alla fine degli anni ’70. Processo che ha subito accelerazioni costanti negli anni della sconfitta operaia e del declino dei movimenti di classe. Questa spinta alla restaurazione e alla ridefinizione in senso reazionario e antipopolare del campo della politica non è certo slegato dalla controrivoluzione sociale ed economica della fase neoliberista del capitalismo attuale, e non è addebitabile esclusivamente al pinocchio fiorentino e al convitato di pietra del Pd e dei transfughi del fu blocco berlusconiano.
La riforma costituzionale che introduce il Superamento del bicameralismo paritario e la revisione del Titolo V della parte seconda della Costituzione, in via di definitiva approvazione e iter che si concluderà nella primavera, è l’ultimo tassello di un percorso storico e politico che viene da lontano. Un passo politico-istituzionale di pari importanza fu l’introduzione del maggioritario nel 1993 nel sistema politico elettorale, sancendo la fine dell’epoca dei partiti di massa e della democrazia parlamentare a condizionamento dal basso che dal dopoguerra fino alla fine degli anni ’70 aveva retto il quadro della compatibilità generale, in una fase espansiva del modello socialdemocratico o liberaldemocratico. Leggi tutto
Il Ministero dell’Economia ha negato la consegna dei contratti derivati tra lo Stato e alcune banche internazionali. Eppure la tutela del cliente richiederebbe il controllo della Consob sui contratti
In queste settimane di turbolenze bancarie appare evidente che il governo ha qualche problema a confrontarsi in maniera adeguata con il settore e i temi finanziari. Può essere utile, a questo proposito, ricordare un altro episodio che rimonta a sole alcune settimane fa e che è passato quasi inosservato.
Il Ministero dell’Economia, di fronte alle pressanti richieste di alcuni settori dell’opinione pubblica, del Movimento5Stelle, di alcune associazioni di consumatori, di trasmissioni televisive e di alcune testate giornalistiche, ha negato la consegna e la diffusione di copia dei contratti derivati tra lo Stato italiano e alcune banche d’affari internazionali.
Gli aspetti tecnici dei derivati con lo Stato
Si tratta di un diniego del tutto surreale ed in contrasto con la normativa. L’offerta al pubblico di strumenti derivati è un’attività di servizi di investimento in strumenti finanziari, riservata a banche e S.I.M. e soggetta a particolari controlli di stabilità, trasparenza e correttezza, controlli affidati alla Consob. In tale ottica, il contratto deve rispondere a certi principi e criteri e, anche quando sviluppato con clienti esenti da alcune particolari esigenze di tutela, in particolare con clienti istituzionali come lo Stato italiano, deve sempre essere finalizzato all’interesse dei clienti. Leggi tutto
Tutti conoscono la storia del dito che indica la luna e dell’imbecille che guarda il dito. Sembra che in questi giorni a Bologna si sappia solo vedere il dito. Il dito è l’azione di un gruppo di studenti del CUA che hanno esposto un telo con su scritto “Fuori i baroni della guerra dall’università” durante la lezione del professor Panebianco. Si è trattato di una presa di parola le cui modalità non mi importa discutere, perché si tratta di minuscoli dettagli a confronto della luna. E la luna cos’è?
La luna è quel che il professor Panebianco ha scritto in un editoriale pubblicato dal Corriere della sera.
Egli scrive dapprima:
“L’ennesima sentenza della magistratura ha dato ragione a mamme preoccupate e ambientalisti vari che cercano di impedire che il Muos, il sistema militare americano di comunicazioni satellitari entri in funzione a Niscemi, in Sicilia. Il Muos potrebbe essere uno strumento prezioso per anticipare eventuali attacchi missilistici ma c’è chi ipotizza che il suo funzionamento danneggerebbe la salute.”
Fin qui niente di nuovo, si sa che i destini della patria sono più importanti delle preoccupazioni mammesche. Ma dopo aver ridicolizzato “mamme preoccupate e ambientalisti vari”, Panebianco dice qualcosa di enorme, che merita di essere preso in considerazione molto seriamente.
Egli scrive:
Leggi tuttoEsce in questi giorni giorni, presso Mimesis, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga di Giorgio Griziotti. Anticipiamo qui, per gentile concessione dell’editore, l’Introduzione di Tiziana Terranova
Nella ormai sterminata
produzione di testi, studi e analisi sulle reti informatiche
e i media digitali, non capita davvero
spesso di imbattersi in un libro, quale quello scritto da
Giorgio Griziotti, capace di coniugare un competente sguardo
tecnico con una coerente
prospettiva teorica e una evidente passione politica. Come
questa sintesi sia stata possibile, Griziotti ce lo racconta
nella sua premessa, il momento
in cui sceglie di mettere la sua soggettività in campo
seguendo quella esortazione femminista che ha insistito e
continua a insistere (da Donna
Haraway, Gayatri Spivak e Sandra Harding a Rosi Braidotti e
Karen Barad) sull’importanza di un sapere situato e
corporeo, parziale e partigiano,
che si distende a partire da un luogo e un tempo specifico
piuttosto che da una prospettiva disincarnata e
ostentatamente imparziale. Come non
sottolineare dunque che questo è un testo in cui si
incrociano, come Griziotti ci racconta all’inizio e come ci
lascia intravedere
attraverso tutto il libro, diverse dimensioni esistenziali
in una ricerca animata da grande passione politica nutrita
dal «comune
dell’apprendimento» dell’auto-formazione collettiva.
Giorgio Griziotti è un ingegnere informatico, un programmatore e dunque è uso all’intensa attività di corpo a corpo solitario con il linguaggio e i codici che coraggiosamente estende dalla programmazione di software alla scrittura saggistica. Leggi tutto
“Quando, nel mese di
aprile 1919, abbiamo deciso in tre, o quattro, o cinque di
iniziare la pubblicazione di questa rassegna,
nessuno di noi pensava di cambiare la faccia al mondo,
pensava di rinnovare i cervelli e i cuori delle moltitudini
umane, pensava di aprire un nuovo
ciclo della storia… L’unico sentimento che ci unisse, in
quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga
passione di una vaga
cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare…”. A poco più
di un anno dalla fondazione della rivista “Ordine Nuovo”,
che, da scopi genericamente culturali, sarebbe passata in
poco tempo a sostenere il movimento dei consigli di fabbrica
nella Torino industriale del
primo dopoguerra, così Antonio Gramsci rievocava l’inizio di
quell’avventura di alcuni giovani intellettuali socialisti
(a fianco
di Gramsci, segretario di redazione, c’erano Togliatti,
Terracini e Tasca), che non si ponevano come detentori della
coscienza di classe o come
mentori filosofici della classe operaia, ma come analisti e
promotori della soggettività rivoluzionaria che
essa era in grado di
esprimere da sé, in un frangente storico che, in Italia e in
altre parti d’Europa, sembrava propizio alla rivoluzione,
almeno agli occhi
dei gruppi di sinistra più radicali e all’osservatorio
speciale del Comintern. Leggi tutto
Parassiti che si nutrono delle relazioni sociali e si appropriano dei profili personali. Occhi puntati sulla sharing economy e sull’industria dei Big Data. «Silicon Valley: i signori del silicio» di Evgeny Morozov per Codice edizioni. Sempre dagli Stati Uniti arriva il saggio del teorico Trebor Scholtz "Platform Cooperativism", dove viene proposta la strategia di mettere in Rete le cooperative di produzione e di servizi attraverso l'uso di piattaforme digitali aperte
Sharing economy
è una espressione che si è fatta largo tra la selva delle
definizioni che caratterizzano il capitalismo che ha
nella Rete il suo medium. Segue quella dal sapido sapore
controculturale della peer to peer production, che metteva
l’accento sulla condivisione
alla pari di conoscenze e mezzi di produzione nella quale
Internet è una neutra piattaforma per determinate attività
economiche separate
tuttavia da quanto accade al di fuori dello schermo.
Soltanto che il confine tra dentro e fuori la Rete è
svanito. La logica della
condivisione, infatti, è ormai riferita ad attività
produttive, di informazione, conoscenza, software. Coinvolge
infatti ogni
attività di intermediazione tra produzione e consumo.
Inoltre la sharing economy non prevede un rapporto
alla pari, bensì una
relazione mercantile, dove l’attività di intermediazione
prevede un pagamento di una percentuale tra produttore e
consumatore. Non
è un caso che i nomi usati per esemplificare la sharing
economy sono Uber e Airbnb, cioè servizi di taxi e di
affitto di una
stanza o di un appartamento per viaggi di lavoro o di
piacere. Il tutto accompagnato da una melassa ideologica sul
potere del consumatore di poter
scegliere il miglior prodotto a prezzi accessibili e sulla
possibilità di vedere realizzati il proposito neoliberista
di trasformare ogni uomo
o donna in imprenditore di se stesso.
In nome del municipalismo
Sarebbe un errore ridurre la sharing economy a mera ideologia, perché individua una forma specifica di organizzare tanto la produzione che la distribuzione o il consumo di merci, poco importa se tangibili o «immateriali».
Leggi tuttoLa corsa agli armamenti e le contrapposizioni politiche e diplomatiche rischiano di portarci a una crisi incontrollabile: "Se finirà con una nuova guerra, magari con l’Italia alla testa della coalizione, le ripercussioni saranno durissime”
“Non siamo mai stati così vicini a una guerra tanto grande: se inizia, diventerà un conflitto nucleare che avrà ripercussioni catastrofiche sul mondo attuale”. Non è catastrofismo, ma un lucido e preoccupato realismo, se a dirlo è Giulietto Chiesa, una delle più importanti penne italiane, corrispondente storico da Mosca per La Stampa e da sempre analista scrupoloso delle questioni geopolitiche. Lo abbiamo intervistato per La VOCE di New York perché chi scrive da tempo cerca di raccontare quello che non viene raccontato, svelare e rendere semplice quello che molte volte ad arte viene complicato.
Ci sono dei chiari elementi di gravità che il sistema mediatico confonde a posta – spiega Giulietto Chiesa – Siamo davanti a una situazione che può diventare incontrollabile con un rischio gravissimo di scontro diretto tra la Nato e la Russia almeno su tre fronti: quello siriano, quello ucraino e quello del baltico settentrionale”. Secondo Chiesa, nel giornalismo occidentale non ci sono più pluralismo e libertà: “I giornali sono solo uno strumento di propaganda della politica occidentale, dove non c’è più spazio per analisi e inchieste, ma solo per le veline dei governi, dei servizi segreti, della polizia. Pensate agli attentati di Parigi: quanti hanno raccontato che l’indagine su Charlie Hebdo è stata chiusa con il segreto militare? Leggi tutto
Sembra ormai assai diffusa, nel dibattito culturale e intellettuale contemporaneo, l’idea che l’orizzonte del neoliberalismo influenzi radicalmente la condizione attuale di identità, lavoro, morale, razionalità, solidarietà, sicurezza. Su queste evoluzioni, negli ultimi decenni, si sono assommate numerose interpretazioni filosofico-sociologiche assai rilevanti, che inquadrano il neoliberalismo come la risposta alla crisi culturale e strutturale del capitalismo societario, ossia del capitalismo nella sua connotazione più originaria e lineare (si veda Magatti, M., Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009). In quest’ottica, le forme di apatia e scarsa partecipazione e interesse alla politica, nonché il sostanziale distacco da ideali politici, tutte tendenze che caratterizzano le nuove generazioni, non dipendono soltanto da meccanismi istituzionali, o normativi, quanto piuttosto dalle trasformazioni dovute al modello neoliberale che stanno caratterizzando le relazioni sociali tra gruppi e individui, la formazione della soggettività, le modalità di comunicazione, l’impoverimento dell’immaginazione politica e della capacità di riflessione più autentica e profonda. Nella condizione del neoliberalismo le dimensioni della libertà e della sfera pubblica conoscono una nuova strutturazione.
Il neoliberalismo ridefinisce l’idea di libertà e tutte le logiche dei rapporti tra l’individuo e le istituzioni: nella attuale società tardo moderna, ci troviamo di fronte a una libertà senza autonomia, a una libertà che è meramente economica e che determina una società non tanto di cittadini, quanto di semplici consumatori. Leggi tutto
A riprova del fatto che lo scontro fra Renzi e l’Europa non è solo una manfrina ma ha contenuti reali e rappresenta due diverse frazioni dello stesso universo con due diverse concezioni del potere, Renzi ha scelto bene le parole, con studiata ambiguità e la parola chiave è “illuminati”.
Il termine ha due diversi piani di lettura: per il lettore comune significa “quelli che credono di avere il monopolio della verità, i tecnici da salotto” e via di questo passo, un semplice sarcasmo, ma c’è un significato più proprio: il richiamo alla setta degli “illuminati di Baviera”, fondata in Germania nel 1776, rivale della Massoneria. Gli Illuminati si ritenevano portatori di conoscenze superiori a quelle della Massoneria (infatti spesso non erano credenti, ma atei e materialisti, si opponevano all’idea di Nazione ed erano cosmopoliti, sognando un unico comando mondiale ispirato dai fisosofi ecc). Avevano come obiettivo l’unificazione tedesca ma non in omaggio ad un qualche principio di nazione, quanto come primo passo verso un governo europeo che, all’epoca, era l’equivalente di ordine mondiale. Gli Illuminati avevano una composizione sociale più elevata di quella media della Massoneria (ne avrebbero fatto parte anche Goethe ed Erder, ma è lecito nutrire qualche dubbio in proposito) che consideravano come una sorta di proprio organismo di massa, tendendo ad usarla come propria appendice operativa, attraverso una sorta di entrismo e celandosi dietro l’immagine di un innocuo sodalizio culturale. Insomma, una sorta di massoneria al quadrato. Leggi tutto
La bolla occupazionale generata, nel 2015, dal massiccio trasferimento di risorse alle imprese non ha contribuito a invertire le tendenze strutturali che inchiodano l’Italia agli ultimi posti in Europa in termini di produttività, innovazione tecnologica e occupazione giovanile
L’Osservatorio sul Precariato dell’INPS ha fornito i dati di sintesi circa la dinamica del mercato del lavoro nell’anno 2015. Queste comunicazioni consentono di stilare il primo bilancio degli effetti del Jobs Act. Si ritrova non soltanto la dinamica legata alla decontribuzione e il suo intreccio con il contratto a tutele crescenti, ma anche la trasformazione del lavoro, tra contratti a termine e l’evoluzione del lavoro accessorio occasionale, gestito attraverso i voucher. I dati forniti dall’INPS parlano di 606.000 nuovi rapporti di lavoro di cui 186.048 a tempo indeterminato. A questi ultimi vanno aggiunte 492.729 e 85.352 trasformazioni, rispettivamente da a termine e da apprendistato in contratti a tempo indeterminato. In un quadro generale di incremento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, la cui attivazione garantisce l’accesso alla decontribuzione introdotta dal governo a dicembre 2014, le trasformazioni sembrano aver fatto, sin qui, la parte del leone, aumentando del 50% rispetto al 2014. In tal senso, il legame tra Jobs Act e nuova occupazione rimane limitato dal momento che le cosiddette stabilizzazioni riguardano individui già occupati. Sul piano della qualità dell’occupazione, la retorica della stabilizzazione si scontra con l’indebolimento sostanziale del contratto a tempo indeterminato, sostituito dal contratto a tutele crescenti. Leggi tutto
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Stiamo per entrare in guerra. Silenziosamente, con il dibattito parlamentare ridotto a zero. Il nostro compito più urgente: suonare l'allarme. Per farlo è prevista una giornata di manifestazioni contro la guerra il 12 marzo
Ieri il
Giornale ha svelato che lo scorso 10 febbraio il
Consiglio dei Ministri ha varato, segretamente,
l'autorizzazione all'utilizzo di forze speciali italiane in
Libia, al di fuori di qualsiasi autorizzazione dell'ONU e
senza l'invito del governo
libico, ancora in formazione (ma i cui principali esponenti
hanno già fatto capire che considererebbero qualsiasi
invasione europea come un
atto di aggressione). Trattandosi dell'invio di forze speciali
per una “operazione di emergenza” e non (ancora) dell'invio
delle truppe
regolari, si è potuto evitare il vaglio parlamentare.
L'ordine di invasione sarebbe imminente e attende solo la firma del Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Si tratta, concretamente, d'inviare per ora “solo” una testa di ponte il cui scopo dichiarato sarebbe quello di proteggere alcuni impianti petroliferi che interessano l'ENI; in seguito il governo conta di inviare diverse migliaia di truppe ma spera di annacquare il relativo dibattito parlamentare includendo l'invasione della Libia tra le “missioni di pace all'estero” da approvare in un pacchetto complessivo.
Ma quale sarebbe l'emergenza attuale in Libia che giustificherebbe l'invio immediato delle forze speciali italiane? Si tratta forse di proteggere certi impianti petroliferi, adocchiati dall'ENI, dalla minaccia del cosiddetto “Stato Islamico” (o “ISIS” o “Daesh”)? Leggi tutto
1. Se c’è un
aspetto sul quale val la pena di focalizzare l’attenzione – se
si guarda,
anche con uno sguardo di sorvolo, al quadrante storico che va
da Baudelaire fino ai giorni nostri – è la pervasiva e
crescente
irruzione della vita quotidiana a tutti i livelli. Dall’arte
(cinema, fotografia, letteratura, pittura, come anche nella
musica)
fino agli altri ambiti della realtà, emerge – con l’avvento
soprattutto della vita metropolitana – una visione delle
cose che si separa dalle forme spirituali, perfette,
armoniose, dalle figure eroiche del passato, per lasciare il
posto alle forme informi della
vita anonima e brulicante, refrattaria ad ogni qualifica, del
quotidiano. Sì che alla figura dell’eroe (ovvero
dell’eroina) subentra quella dell’uomo qualunque, del
“chiunque” anonimo, insomma dell’«uomo senza
qualità» per dirla con la celeberrima espressione di Musil. Il
che smantella quella nozione di soggetto che trova nel
personaggio
dell’eroe, effigiato in una luminosa aureola identitaria, quale
soggetto incomparabile, individualmente unico e
insostituibile, il suo
emblema principe. Non a caso, del resto, il processo di
progressiva, per dir così, “quotidianizzazione” del reale va
di pari passo
proprio con quella radicale dissoluzione della categoria di
soggetto che ha attraversato, come ben si sa, l’intero
Novecento.
Solo che – ecco il punto che in questa sede vorrei sviluppare – l’irruzione della vita quotidiana conferisce a quella dissoluzione una connotazione molto significativa. Leggi tutto
Una grande
confusione ha caratterizzato la lettura dei risultati elettorali
iraniani da parte della stampa internazionale,
nell'interpretazione di un voto per le elezioni parlamentari e
dell'Assemblea degli Esperti in Iran
che ha visto i principali titoli dividersi tra una vittoria
netta dei riformisti e del presidente Rohani e le smentite
dall'Iran che hanno dato invece
per vittoriose le forze conservatrici.
La ragione di questa confusione è in larga misura da individuarsi nel modo in cui, ancora una volta, gli europei e gli occidentali in genere si ostinano a leggere le dinamiche politiche e sociali dell'Iran, delineando una netta linea di demarcazione tra i riformisti e i conservatori.
I riformisti, per gli occidentali, rappresentano il "desiderata politico" con cui misurarsi e che immaginano come una forza ideologica anti-regime, anti-rivoluzionaria e pro-occidentale, animata dal solo desiderio di mutare il connotato politico dell'Iran in un qualche ibrido vicino ai modelli occidentali.
Allo stesso tempo, i conservatori sono visti dalla gran parte degli occidentali come un insieme di anziani teocrati radicali, fanaticamente religiosi e anti-democratici, animati dal solo desiderio di mantenere in vita l'apparato tradizionale islamico forgiato con la rivoluzione. Leggi tutto
Per fortuna che in tanta pecoraggine, in tanto mediocre conformismo, in tanta disonestà intellettuale sciorinati a piene mani sul “caso Panebianco”, si sono sentite voci dissonanti, da quella che era in qualche modo attesa e prevista, del Manifesto (per la penna, garbata, della direttrice, Norma Rangeri), a quella inattesa e sommessa, di un accademico (Guido Itzcovich sul Secolo XIX), e, per finire la galleria, la voce invece sonora e persino clamorosa di Fulvio Scaglione che dalle pagine di Famiglia Cristiana da tempo è tra i pochi giornalisti che in questo Paese si rifiuta ostinatamente di piegarsi al coro.
Proprio dei giornalisti qui vorrei parlare. Perché al di là del professor Panebianco, mediocre studioso, ma potente opinion leader sul Corriere della Sera, e degli studenti che hanno osato contestarlo a lezione, sono i media da mettere sotto osservazione. Con una buona dose di disgusto.
Che cosa dunque è accaduto di così drammatico? Che Angelo Panebianco, docente di Scienza politica all’ateneo bolognese, l’“Alma Mater”, la più antica università del mondo, mentre svolgeva una delle lezioni de suo corso è stato interrotto da un gruppo di discenti che lo hanno accusato di essere un guerrafondaio. Mai accusa fu più meritata.
Panebianco da anni svolge un’azione incessante di esaltazione del preteso “realismo politico”, di invocazione all’uso della forza, di identificazione di nemici dell’Occidente da sgominare. Leggi tutto
Una recensione di "The City – London and the global power of finance", di Tony Norfield
Tony Norfield ha avuto un esperienza ventennale nelle sale operative della City di Londra, per 10 anni, come direttore esecutivo e responsabile globale della strategia in una delle maggiori banche europee. Ha conseguito un dottorato in ricerca in scienze economiche al SOAS di Londra. Soprattutto. è un marxista. E questa è la ricetta perfetta per un eccellente libro sul moderno imperialismo britannico e sulle caratteristiche della finanza globale nel 21° secolo.
Nella City, Norfield porta con sé alcune delle intuizioni chiave per la comprensione della natura dei moderni sistemi finanziari e su quale ruolo essi giochino nel funzionamento (o nel non-funzionamento) del capitalismo. Norfield sottolinea come la finanza e la produzione nel capitalismo del 21° secolo siano inseparabili - "sono partner stretti nello sfruttamento". Lo sono sempre stati fin dall'inizio del capitalismo industriale, ma ora lo sono ancora di più. Ragion per cui il punto di vista che viene spesso espresso nei circoli keynesiano e marxisti circa il fatto che ci sia una divisione categoriale fra finanza e capitale produttivo, dove il primo è "cattivo" ed il secondo è "buono", è un errore che porta ad un'incomprensione della natura dell'imperialismo e del ruolo dei centri finanziari come la city di Londra.
Un'altra osservazione svolta da Norfield ci parla del ruolo avuto dal capitalismo britannico nell'imperialismo. Leggi tutto
Nonostante gli oscar i film più significativi saranno quelli che non vedremo né doppiati, né sottotitolati: la diuturna opera per renderci disponibili tutti i possibili sottoprodotti dell’ideologia americana non si riesce ad applicare a Where to invade next (Chi invadiamo dopo) l’ultimo film documentario di Michael Moore. Eppure non si tratta come in altri casi di una forte denuncia sui mali della società Usa, ma sostanzialmente di un viaggio in Europa nel quale si mostra la vita di una fabbrica come la Ducati, di una mensa scolastica in Francia, di un carcere Norvegese o Portoghese, le dinamiche di una fabbrica tedesca dove si lavora 36 ore la settimana con un salario da 40 ore, una visita ginecologica gratuita in Tunisia, una scuola Finlandese dove non si danno compiti a casa e via dicendo. Insomma una sorta di diario di viaggio in Europa, spesso se non sempre edulcorato che tuttavia ha la forza di una bomba e sul quale è caduto un silenzio sospetto, complici pure i problemi di salute del regista.
Meno il pubblico lo vede meglio è per il semplice fatto che qui non si attacca la General Motors, né i venditori di armi, né il presidente Bush o il capitalismo: ma va dritto al cuore della vera ideologia statunitense, ovvero il sentimento di eccezionalità che per l’uomo della strada e tra questi comprendo anche persone relativamente acculturate, si traduce rozzamente e concretamente nell’idea che le condizioni di vita siano sempre e comunque migliori negli Usa che da qualunque altra parte. Ricordate lo spavento dei parenti di Amanda Knox per la prospettiva che la figlia venisse detenuta in un carcere italiano, come se quelli texani fossero un eden e non fossero invece assai più pericolosi? Leggi tutto
Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi ha «autorizzato caso per caso» la partenza di droni armati Usa da Sigonella verso la Libia e oltre. Quando è noto che già nel 2011 fu un drone Usa Predator Reaper, decollato da Sigonella e teleguidato da Las Vegas, ad attaccare in Libia il convoglio su cui si trovava Gheddafi, spingendolo nelle mani dei miliziani di Misurata.
L’Italia entra così nell’elenco ufficiale delle basi dei droni Usa da attacco, sotto esclusivo controllo del Pentagono, insieme a paesi quali Afghanistan, Etiopia, Niger, Arabia Saudita, Turchia.
Il ministro degli esteri Gentiloni, precisando che «l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al parlamento», assicura che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia.
Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – stanno segretamente operando in Libia. Dall’hub aeroportuale di Pisa, limitrofo alla base Usa di Camp Darby, decollano in continuazione aerei da trasporto C-130 (probabilmente anche statunitensi), trasportando materiali militari nelle basi meridionali e forse anche in qualche base in Nordafrica.
Nella base di Istres, in Francia, sono arrivati aerei Usa KC-135 per il rifornimento in volo dei cacciabombardieri francesi. L’operazione è diretta non solo alla Libia. Leggi tutto
Intervista di Lucia Bellaspiga a Luisa Muraro in Avvenire 4 novembre 2015
«La tratta e la schiavitù sono già un crimine riconosciuto e condannato a livello internazionale, invece contro l’utero in affitto, la forma più odiosa di sfruttamento del corpo delle donne, bisogna combattere. Siamo ancora in tempo». Luisa Muraro, filosofa e figura di riferimento del femminismo italiano, fondatrice a Milano nel 1975 della Libreria delle Donne, è persona difficile da circoscrivere: «Figura storica del femminismo? No, ho cominciato prima del femminismo, con il Comitato per la pace nel Vietnam, che fu iniziazione politica di molta gente della mia generazione, prima ancora del Sessantotto. Poi fondai un piccolo circolo dissidente dedicaito a Bernanos per il suo documento sulla guerra di Spagna. Infine l’incontro con femministe davvero storiche come Lia Cigarini e Carla Lonzi, e la nascita della Libreria delle Donne…». Leggi tutto
Le deboli obiezioni di coloro che si battono per l'utero in affitto, le loro sottovalutazioni, le distorsioni che non vogliono dibattere
Malgrado mi fossi
ripromesso con me stesso e con altri amici di non parlarne
più, torno sulla questione dell'utero in affitto o,
se si preferisce GPA (gestazione per altri), per due motivi.
Il primo è che il dibattito in questi giorni ha assunto i toni di una vera guerra di opinioni come non ne vedevo da tempo e siccome io sono schierato con chi è contrario a questa pratica non mi sottraggo alla chiamata alle armi.
E il secondo è che mi sento molto urtato nel vedermi accostato a personaggi tipo Adinolfi o a un qualunque retrogrado cardinale di Santa Romana Chiesa. Con questa gente, a parte l'aria che respiro, non ho nulla in comune.
Quindi esporrò alcune mie considerazioni - che potranno interessare qualcuno, essere liberamente criticate da altri o semplicemente ignorate da tutti - solo per evitare fraintendimenti.
Prima di cominciare vorrei però sottrarmi ad una specie di obbligo che pare sia, in questi giorni, necessario da parte di chi parla di queste cose. Non mi interessa nulla della questione di Vendola né mi interessa augurargli tutto il bene possibile a lui e famiglia. Sinceramente non ne sento la necessità altrimenti avrei dovuto pure fare gli auguri alla nipote della regina d'Inghilterra per i figli che ha avuto e a tutta un'altra infinita serie di personaggi pubblici che hanno avuto figli, in una maniera o nell'altra, e di cui non mi è mai fregato assolutamente niente. Leggi tutto
Riceviamo da Fabio Bentivoglio questo contributo alla discussione sui diritti di Walter Moretti, che pubblichiamo volentieri (M.B.)
Se siamo
qui a scrivere sulla questione dei diritti delle coppie
omosessuali, dopo aver letto e sentito milioni di parole
in proposito, è perché ritengo che il dibattito sia a un
livello a dir poco avvilente, perché monopolizzato da quelli
che Massimo
Bontempelli nel suo scritto “Diciamoci la verità” (Koiné,
Gennaio/giugno 2001 ed. C.R.T.) ha definito i teorici del
“libertarismo arbitraristico”, tipico della sinistra
progressista, a fronte del falso moralismo repressivo tipico
dei cattolici e della
destra.
Prima ancora di dividersi in merito alla questione in oggetto, ritengo di fondamentale importanza cercar di comprendere perché oggi il tema del diritto delle coppie omosessuali di sposarsi e avere figli (queste due possibilità sono strettamente collegate tra di loro, nonostante i tentativi di farli apparire come scindibili, perché se anche il parlamento non dovesse legalizzare l'adozione, tale possibilità dovrà comunque esser concessa per via giudiziaria) sia avvertito come una questione così dirimente, addirittura un discrimine di civiltà, in un’ epoca in cui l’economia e di conseguenza la politica hanno fatto piazza pulita di tutti i diritti sociali acquisiti dal dopoguerra fino all’inizio degli anni ‘80. Non mi occupo professionalmente di filosofia e di storia (che coltivo per mio interesse personale), ma credo che se sapute interrogare, queste discipline siano in grado di darci delle “lezioni” che consentono di meglio decodificare le questioni del nostro tempo. Sono “lezioni” che costano fatica, ma credo che valga la pena riproporle sia pure in termini ultra sintetici. Leggi tutto
Nel 2013 il Pd firmava il Fiscal compact e il pareggio di bilancio. Oggi per evitare rotture e fusioni a freddo la sinistra deve contraddire quel pensiero economico dominante
La tre giorni di Cosmopolitica non è lo sviluppo e tantomeno l’esito di quel lungo percorso che alla fine del 2015 aveva portato alla stesura comune di un documento, “Noi ci siamo, lanciamo la sfida”, il quale, nonostante le debolezze, era davvero unitario e non escludente.
Cosmopolitica, invece, ha come «vizio di origine» una considerazione meramente tattica di quel documento, valutato, secondo un atteggiamento politico tipico di «provincialismo temporale» (il manifesto, 5 gennaio), come scritto sull’acqua.
Alle origini della «rottura a freddo», così è stata definita, non casualmente, da esponenti de «L’altra Europa», cioè dell’unica esperienza davvero inclusiva che ha avuto risultati non negativi, ci sono motivazioni differenti. Molte hanno a che vedere proprio con la furbizia connessa a quel «provincialismo temporale» di cui si è detto e con l’eredità di una lunga vicenda particolarmente divisiva, apportatrice di velenosi rancori. Altre invece hanno che vedere con differenze profonde di carattere analitico.
Giustamente Carlo Galli in una recente intervista (il manifesto 17 febbraio) ha messo l’accento sull’esigenza di misurarsi con «gigantesche questioni strutturali», quelle del tutto ignorate da Renzi e dal renzismo dominante. Ignorate solo dal nuovo padrone del Pd o anche dai dirigenti che l’hanno preceduto? Questo è il punto. Leggi tutto
Non molti anni fa, ma in un tempo ormai lontano, è esistito un movimento intellettuale che, coniugando una grande originalità teorica con una volontà di riscatto politico del meridione, è divenuto noto con il nome di école barisienne. Nata nel seno del PCI e con l’aspirazione di rinnovarne le forme – stirando la verticalità politica con una dose di orizzontalità civica – l’école si distingueva per una certa rilettura di Marx in chiave gramsciana. Purtroppo (o per fortuna – secondo i punti di vista) la configurazione istituzionale di allora si è sfaldata, la luce di quel vecchio Partito non illumina più i corridoi delle università (ma al massimo qualche isolata scrivania qua e là) e persino parlare di scuole, in un clima di crescente dismissione dell’Università, sembra del tutto fuori luogo.
Ma poiché, come si sa, non tutti i mali vengono per nuocere, è capitato che un giovane (e precario, ça va sans dire) ricercatore barese, Alfredo Ferrara, abbia organizzato un convegno su Gramsci e il presente, raccogliendo altri giovani (e precari) ricercatori italiani con l’intento spudorato di leggere Gramsci nel presente, e viceversa il presente con Gramsci, liberi da ogni autorità politica o accademica che decidesse in anticipo la legittimità delle loro scelte teoriche.
Ne è risultato un agile e frizzante volume, “Prospettiva Gramsci”, pubblicato meritoriamente da una casa editrice barese indipendente ed emergente, Caratteri Mobili, che si è accollata il merito e la responsabilità di ospitare le riflessioni di questi giovani apolidi della sociologia e della teoria politica. Leggi tutto
Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera aperta della National Security Agency degli Stati Uniti.
Cari italiani,
Sappiamo che state protestando perché intercettiamo i vostri
premier. In realtà dovremmo essere noi a
lamentarci, perché i vostri premier sono una rottura di
coglioni tremenda.
Specialmente quello attuale.
Logorroico, petulante, ignorante, cazzaro. Gli agenti addetti a sbobinare le sue registrazioni reggono pochissimo, il turnover è frenetico.
Almeno Berlusconi era buffo, c’era la possibilità d’ascoltare qualche porcata, ma da Monti in poi siete andati sempre peggio.
Intercettare Monti era come guardare il vostro Consorzio Nettuno alle tre di notte. Ci si poteva addormentare sul lavoro per ore senza perdersi niente.
Con Letta era come intercettare il monoscopio.
Renzi però è insopportabile.
Leggi tuttoLe acque si agitano violentemente in casa Pd e Speranza è arrivato a chiedere il congresso straordinario. Lo so: la “sinistra” Pd ne ha dette tante, ritirandosi ignominiosamente ogni volta, e non ha alcuna credibilità. Questa volta, però c’è da capire chi è il regista che sta dietro le quinte.
Forse sto invecchiano, ma sento un certo odore di “Conte Max”, un uomo che ormai è ai margini, ma che conosce il partito uomo per uomo, sa dove e come toccare per spostare simpatie e fedeltà, che ha forti legami in Europa e nel mondo finanziario.
Soprattutto un uomo con la memoria di ferro e poco incline a perdonare le offese ricevute. Certo, oggi non è in grado da solo di scalzare il fiorentino, ma non è affatto detto che si stia muovendo la solo. In fondo ogni film ha un regista, ma anche un produttore e qui potrebbero esserci diversi produttori che mettono i capitali necessari a girare il film. Il punto è questo: ormai è chiaro che ci sono settori di poteri forti che hanno deciso di licenziare Renzi, anche perché quello che doveva fare lo ha fatto (legge truffa per le elezioni, stupro della Costituzione, job act, buona scuola ecc.) e, invece adesso si è messo in testa di mettersi alla testa dell’onda populista per fondare il suo regime. E questo non va bene.
Ma non ci si può limitare a far cadere il suo governo magari con un voto sfavorevole in Senato (ad esempio io non scommetterei sul fatto che il gruppo dei senatori a vita, Monti e Napolitano in testa, voterebbero ancora la fiducia al governo oggi): se Renzi resta segretario, dopo fa mancare i voti per qualsiasi altro governo che non presieda lui e ci sono le elezioni anticipate che potrebbe rivincere o che potrebbero segnare la vittoria del M5s (orrore!!!). Leggi tutto
Nazionalizzare per privatizzare: le pittoresche contraddizioni del sig. Giavazzi
Pubblicizzare le
perdite per privatizzare i profitti: sai che novità!
Il "bostoniano" della Bocconi, al secolo Francesco Giavazzi, ce l'ha riproposta ieri mattina sul Corsera come fosse l'innovazione del secolo. Quando, invece, è quel che Lorsignori van facendo da decenni. Questa volta si tratta di nazionalizzare le perdite del Monte dei Paschi di Siena (Mps), per mettere le mani sui profitti delle maggiori aziende che lo Stato ancora controlla.
Nell'articolo Giavazzi non si occupa solo di questo. Già il titolo dell'edizione cartacea è un doveroso omaggio all'indiscussa presunzione del soggetto: «Le 5 cose da fare per ripartire». Il Nostro prende atto che la ripresa non c'è —sai che scoperta! E perché non c'è? Perché il Renzi del Jobs act è sì bravo, ci mancherebbe!—, ma è troppo attento alle scadenze elettorali. Eh, bei tempi, quando non c'era neppure la seccatura del voto!
Dunque, cosa bisogna fare? Ovviamente dar retta a lui. Nei 5 punti elencati, ve n'è perfino uno condivisibile (il rilancio degli investimenti pubblici). Per il resto è la solita solfa fatta di liberalizzazioni, come se non fossero in atto da un quarto di secolo; di imponenti tagli alla spesa pubblica per consentire una forte riduzione delle tasse; di nuove massicce privatizzazioni.
Ovviamente le tasse che Giavazzi vuol tagliare sono solo quelle delle imprese. Leggi tutto
Esce in questi
giorni da DeriveApprodi un
libro molto atteso, Al cuore delle cose. Scritti politici
(1967-1989) di Elvio Fachinelli (255 pp., € 18),
che ci restituisce la parte sinora
oscurata di un’opera che per il resto è giustamente
celebrata, a livello editoriale, da marchi come Adelphi e Feltrinelli.
L’infaticabile Dario Borso ha rintracciato sessantuno
testi dispersi, per lo più brevi o
brevissimi, che Fachinelli andò pubblicando in quegli
anni sulle sedi più diverse: dalle riviste di politica e
cultura alle quali
collaborò (Quaderni piacentini, Quindici,
anche la prima alfabeta: con la relazione al
convegno milanese ispirato
nel 1984 al libro omonimo di George Orwell, Le
vivenze, uscita sul numero di dicembre dello stesso
anno) oltre ovviamente quella che
fondò (L’erba voglio, uscita dal 1971 al ’77:
quando venne chiusa, dopo la pubblicazione del numero
29-30 – e una
perquisizione di polizia), ai settimanali e ai
quotidiani: L’Espresso, la Repubblica,
il Corriere della Sera (sembra
un altro secolo, e in effetti lo era; era, però, appena
trent’anni fa).
Si compone attraverso questi tasselli una specie di mosaico dunque, più che un affresco, della realtà psichica italiana (e non solo). Come scrive Borso nella sua prefazione, «il paziente suo più complicato fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana»: un trattamento che procedeva «per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano pur senza spiegarla (senza risposta cioè) una realtà in continuo movimento, ossia un sommovimento».
Leggi tuttoSoleva essere
presentato come una storia di successo. Ci raccontavano che
in mezzo a un Medio Oriente stuprato, circondato da
disperazione, morte e dolore, brillava luminosa come una
fiaccola di speranza una terra di latte e di miele.
O era più come una torta circondata da marciume? Quel luogo eccezionale era chiamato Kurdistan o, ufficialmente, ‘Regione Kurdistana’.
E’ qui che il vittorioso capitalismo globale è andato riversando ‘massicci investimenti’ mentre l’occidente stava ‘garantendo sicurezza e pace’.
Qui imprese turche stavano realizzando e finanziando innumerevoli progetti, mentre le loro autobotti e poi un oleodotto trasferivano in occidente quantità sbalorditive di petrolio.
Nell’elegante aeroporto internazionale di Erbil uomini d’affari, soldati ed esperti della sicurezza europei socializzavano con specialisti ONU dello sviluppo.
Che cosa importa che il governo della Regione Kurdistana continuava a scontrarsi con la capitale, Baghdad, sulle riserve di petrolio o sulla portata dell’autogoverno e su molti altri temi essenziali.
Che cosa importa che (come accade spesso in società estremamente capitaliste) gli indicatori macroeconomici erano improvvisamente in spaventoso contrasto con la crescente miseria della popolazione locale. Leggi tutto
Non credo più al valore salvifico della cultura di per sé, non mi dicono più nulla frasi come “la poesia salverà il mondo”… Dimentichiamo forse come dice George Steiner che
“un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz” (…) e aggiunge “non si tratta soltanto del fatto che gli strumenti tradizionali della civiltà – le università, le arti, il mondo librario – non sono riusciti a opporre una resistenza adeguata alla bestialità politica: spesso anzi essi si levarono ad accoglierla, a celebrarla e a difenderla”.
La storia avrebbe dovuto insegnarci che non possiamo vivere e agire come come se non fosse successo nulla nel ‘900″, come se “lo sterminio per fame o per violenza di circa settanta milioni di uomini, donne e bambini in Europa e in Russia tra il 1914 e 1945 non avessero alterato in profondità, la qualità della nostra consapevolezza”. Oggi giustamente condanniamo le atrocità di un gruppo di musulmani, ma dobbiamo ricordare “che l’apice della barbarie politica scaturì dal cuore dell’Europa. Due secoli dopo che Voltaire ne aveva proclamato la fine, la tortura tornò ad essere un processo normale di azione politica” e che in molti casi “gli alti recessi della cultura e dell’arte umanistica accolsero e sostennero il nuovo terrore. Leggi tutto
E’ difficile orientarsi in tempi di tardo impero e quindi molte, troppe cose sfuggono. Quando due anni fa la Ue, sulla scia degli Usa, annunciò una variazione dei calcoli del Pil che comprendeva non solo l’incorporamento di attività criminali, ma anche i cosiddetti investimenti militari la cui natura era ed è rimasta quanto mai ambigua, pensai esclusivamente ad una mossa per sostenere artificialmente il prodotto interno lordo per avvalorare il mito della ripresa. Alla luce di quanto è accaduto nel frattempo si può però mettere a fuoco meglio quel provvedimento destinato con tutta evidenza a supportare le guerre prevedibili e/o in programma pur in presenza di bilanci statali ridotti all’osso dalle politiche austeritarie. Forse non è un caso che l’elaborazione di questo nuovo criterio di calcolo sia stato introdotto nel periodo preparatorio del golpe ucraino e quando si pensava che la caduta di Assad in Siria fosse imminente, aprendo le prospettive di un vasto rimaneggiamento territoriale in medio oriente con la massiccia partecipazione di truppe occidentali.
La storia presenta sempre delle sorprese (oltre che il conto) e dunque le cose non sono andate come si immaginava senza per questo tralasciare il fatto che il rifornimento di armi ai fascisti ucraini o la strana guerra all’Isis sono condotte con il parziale ristoro della presenza nel pil di tali “investimenti”. Ma chi legge questo post si chiederà: cosa cambia? Direi molto, perché se quel nuovo criterio del pil è stato adottato per permettere maggiori spese militari nel contesto della geopolitica di Washington, allora vuol dire che il colpo di mano contro Letta, avallato e anzi preparato da Napolitano per conto terzi, prevedeva che nel “pacchetto Renzi” vi fosse anche una totale disponibilità del guappo alla guerra. Leggi tutto
Chi si aspettava dal G20 “finanziario” qualche indicazione coerente per affrontare in modo efficace la crisi – mai interrotta, dal 2008 ad oggi – dovrà rimettere nel cassetto le sue speranze. Non c'è nessuno che sappia cosa fare a livello globale, mentre all'interno delle gradi istituzioni internazionali prevale orami in modo evidente una visione strettamente “nazionalistica”.
I fatti. La riunione dei venti primi paesi del mondo, convocata stavolta a Shangai, ha evidenziato soprattutto le divisioni. Non solo sul piano sempre ostico delle “soluzioni”, ma addirittura al livello dell'analisi. Stupefacenti, in questo senso, le posizioni dei ministri economici francese e statunitense. Il primo, Michel Sapin, ha sopreso buon parte dei presenti affermando che “non si può parlare di crisi dell'economia mondiale in questo momento” e quindi «non abbiamo bisogno di mettere in atto nuove politiche». Se si tiene conto che la situazione economica francese è senza dubbio tra le peggiori del Vecchio Continente, la sortita di Sapin appare quasi una formula di scongiuro.
Stessa impostazione, dall'alto però di una posizione economica e soprattutto finanziaria migliore, quella del segretario del Tesoro Usa, Jack Lew.
«Questo non è un momento di crisi. Non aspettatevi una risposta da crisi in uno scenario non da crisi».
Belissimo, la crisi non esiste, quindi non bisogna fare nulla di nuovo...
Leggi tuttoLeggere. E magari ri-leggere. Già perché, sopraffatti come siamo dalle novità editoriali troppo spesso dimentichiamo di andare a ri-prendere in mano un vecchio libro e di ri-leggerlo. Scopriremmo invece che ciò che un autore scriveva quaranta o sessant’anni fa è ancora attualissimo. Che ciò che descriveva era sì la società di allora ma ancor di più è la società di oggi. Che l’eclisse della ragione che denunciava nel 1946 si replica oggi in tempo di rete, di algoritmi, di autoritarismo apparentemente democratico. Che la società industriale di allora è la società in rete di oggi, con effetti molto simili in termini di alienazione, estraniazione, falso individualismo. Che la società era in transizione negli anni Settanta come lo è oggi, perché il capitalismo e la tecnica vivono di perenne transizione e di incessante modificazione di se stessi, imponendo agli individui e alla società intera di adattarsi e solo di adattarsi al cambiamento che producono, chiamando presuntuosamente razionale questo adattamento che però nega l’individuo (pur esaltandolo), la sua soggettività, e lo fa semplice (ma sempre più efficiente e convinto) funzionario dell’apparato, oggi perfetto nodo della rete cui viene semplicemente chiesto di funzionare al meglio; a consolare basta l’industria culturale che lo stesso apparato produce per distrarci e divertirci.
Rileggendolo scopriremmo, ancora, che se la società di allora si avviava a essere una società amministrata (tutto potrà essere regolato automaticamente, che si tratti dell’amministrazione dello stato, del traffico o del consumo). Lo è diventata davvero oggi: quando il connettersi in rete è un dovere individuale e l’amministrazione è il prodotto della stessa rete e dei suoi algoritmi. Leggi tutto
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Premessa:
quello che state per leggere è il nostro quarto o quinto
contributo sul Jobs Act. Se la nostra è
un'ossessione, lo è in misura speculare a quella del governo e
dei suoi megafoni ambulanti che, nel corso dell'ultimo anno,
ci hanno quasi
quotidianamente edotto sui prodigiosi effetti delle politiche
governative sul lavoro.
Arriviamo buoni ultimi a rivelarvi che, in realtà, di prodigi se ne sono visti pochi: ma l'ansia da prestazione dell'apparato di governo su questi temi è di per sé rivelatrice del fatto che l'attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere mediatico.
Nota di metodo: ascriveremo alla categoria Jobs Act molte cose diverse: gli esoneri contributivi stabiliti dalla legge di stabilità 2015; i decreti che costituiscono il Jobs Act vero e proprio (decreti Poletti del 2014, contratto a tutele crescenti, demansionamento e controllo a distanza); l'estensione della possibilità di utilizzo dei voucher. Leggi tutto
In un'intervista con Maria-Christina Vogkli e George Souvlis, apparsa sull "LSE researching sociology blog", Mike Davis riflette sulla sua educazione e discute delle primarie presidenziali degli Stati Uniti del 2016. Traduzione a cura della redazione di InfoAut
1)
Potresti raccontarci un po' del
tuo background familiare?
Il mio background familiare si distingue solo per il suo essere incredibilmente nella media. Mio padre viene dall’ambiente protestante rurale dell’Ohio ed è stato un fervente "Democratico del New Deal". Mia madre era una Cattolica Irlandese di città e una repubblicana registrata nelle liste, ma due volte votò per il candidato socialista Norman Thomas. Lei adorava ugualmente il Presidente Eisenhower e Liberace. Entrambi erano diplomati. A parte la Bibbia non abbiamo avuto libri nella nostra casa, ma mio padre era un lettore avido di giornali (sport e politica) e mia mamma divorava i Reader’s Digest dalla prima all'ultima pagina. Mio padre ha lavorato nel settore della vendita di carni all'ingrosso in uno strano ibrido lavorativo tra colletto bianco e colletto blu. La sua giornata di lavoro è stata equamente divisa tra le chiamate di vendita, la fabbricazione degli ordini e la consegna della carne. Il nostro reddito familiare, il mutuo di casa, il valore dell’auto, ore trascorse a guardare la TV, e così via erano sempre questioni tipiche della vita media nazionale nel corso del 1950. Sono nato nel 1947 in una villetta a schiera al confine esatto tra l'ultima suddivisione e i rimanenti frutteti di arance e avocado della zona orientale di San Diego County.
Leggi tutto“L’Italia s’è offerta per un ruolo guida”
Secondo il ministro della Difesa USA Ashton Carter, ci siamo offerti di ricolonizzare la Libia.
Quand’è che ci siamo offerti di ricolonizzare la Libia?
Quando abbiamo votato per il governo Renzi.
Ma noi non
abbiamo mai votato per il governo Renzi.
Le ultime elezioni per il parlamento nazionale si sono svolte
nel 2013. Allora Renzi era sindaco di Firenze.
Sono passati tre anni da
quando l’Italia ha scoperto d’essere spaccata in tre, e
teoricamente ingovernabile. Quel giorno sono naufragati i
sogni di gloria di
Bersani e Monti, il tecnico che sembrava aver previsto tutto,
tranne il fatto che gli elettori potessero schifarlo.
Così, l’Italia
che nessuno degli eletti aveva i numeri per governare è stata
governata da qualcuno che nessuno aveva eletto.
E che oggi quasi nessuno sopporta più.
Mentre la vernice dorata del PD renziano si scrostava a vista
d’occhio, e i Golden
Years della sua popolarità si riducevano dai venti
previsti dai leccaculo più renziasti (entusiasti di Renzi) ad
un paio scarso
tutto compreso, anche gli altri due spicchi dello scenario
tripartito si trovavano il loro renzoide, il loro aspirante Re
Sóla quarantenne.
«Un tempo i reazionari spaventavano chi possedeva una casa dicendo che i comunisti gliela avrebbero presa. Oggi che nessuno ci cascherebbe più, sono ben altri gli espropriatori in agguato…»
La porcata è venuta alla luce ed il governo sta provando a rattopparla. Ma l’esproprio resta, chiariamolo subito. Dopo i ritocchi annunciati, molti si chiedono se le case degli italiani messi in difficoltà dalla crisi siano davvero sotto attacco. La risposta è sì. E gli attaccanti sono i soliti noti, un trio composto da banche, governo ed Unione Europea.
Del resto, perché stupirsi? Non è forse il medesimo trattamento imposto da Bruxelles a Spagna e Grecia? All’origine del decreto governativo c’è infatti la solita direttiva europea. Renzi avrebbe voluto recepirla senza troppo rumore, ma gli è andata male. Questa volta l’azione dei deputati M5S è stata impeccabile. La riunione della commissione Finanze è saltata, i media sono stati costretti ad un minimo di informazione, il governo ha dovuto annunciare “modifiche”.
Ovvio che se il silenziamento avesse funzionato, nessuno nella maggioranza avrebbe accettato cambiamenti sostanziali al decreto. Ma non è il caso di cantare vittoria perché, quando nella prossima settimana i lavori parlamentari riprenderanno, il tentativo sarà quello di abbellire il testo per tenere fermo l’obiettivo che interessa a Lorsignori. Leggi tutto
“Alcune persone ciniche che hanno seguito fin qui il ragionamento concluderanno che soltanto una guerra può far cessare una grande depressione economica. Perché fin qui la guerra è stata l’unico oggetto di stanziamenti statali su larga scala giudicato rispettabile dai governi. In pace, invece, essi sono timidi, iperprudenti, irresoluti, privi di perseveranza o decisione. Uno stanziamento in pace è visto come come una passività e non come un anello nella trasformazione in utili capitali fissi delle risorse in eccesso della comunità, risorse che altrimenti andrebbero sprecate“.
“Le guerre sono l’unica forma di spesa in deficit su grande scala ritenuta giustificabile dagli statisti“.
(Keynes, citato da Nicholas Wapshot in Keynes o Hayek, Feltrinelli 2015, pagg. 127 e 138).
* * *
L’opuscolo da cui è tratto il primo passaggio, The Means to Prosperity, raccoglie una serie di articoli apparsi sul Times, preludio – in termini accessibili al grande pubblico – ai temi che Keynes stava trattando nel suo lavoro più importante, la Teoria Generale, da cui è tratta la seconda citazione.
L’opuscolo uscì nel 1933, poco meno di un secolo fa. I cinici di allora sono presumibilmente tutti morti, ma la logica per cui gli stanziamenti bellici sono gli unici che i governi giudicano rispettabili (e insindacabili) è viva e vegeta. Leggi tutto
La stanchezza e il fastidio che
alcuni
di voi hanno esternato nei commenti al post precedente sono
anche i miei. Devo sinceramente dirvi che non ne posso più.
Non ne posso più
di vedere colleghi che passano dall'aperto tradimento dei più
elementari principi della nostra disciplina, a sensazionali
scoperte dell'acqua
calda, presentate sempre, si badi bene, come "lezioni apprese
dalla crisi", quando invece, voi lo sapete bene, questa crisi
non ci ha insegnato nulla
che non sapessimo già (e ne abbiamo parlato tante volte).
Tanto opportunismo, o, nella migliore (?) delle ipotesi, tanto
conformismo, a fronte
di tanto strazio e di tanta distruzione, mi lasciano senza
parole, e mi inducono a desistere da quella che, per quanto
impossibile, era la missione
fondamentale di questo blog: portare un minimo di
ragionevolezza nel dibattito, per scongiurarne nella misura
del possibile esiti politicamente e
socialmente violenti. Non ho più la salda certezza, dalla
quale mi ero mosso, che questo obiettivo, pur nella sua
impossibilità, sia
meritevole di essere perseguito.
Il nodo centrale, quello che dovrà venire al pettine, è estremamente semplice, e l'ho espresso svariate volte in questi anni (e naturalmente in entrambi i libri): dalla crisi non potremo uscire se non rilanceremo la domanda con un massiccio intervento di investimenti pubblici (preferibilmente in piccole opere) finanziato con moneta.
Che occorra rilanciare la domanda (cioè la capacità di spesa dei cittadini) mi sembra un punto non contestato da alcuno. Che non lo si possa fare aumentando il debito pubblico, che l'austerità ha aggravato (come previsto), mi sembra altrettanto ovvio: il debito pubblico, che non è stato la causa della crisi, ne è però diventato una conseguenza potenzialmente pericolosa.
Leggi tuttoIntroduzione a Norbert Trenkle, “Terremoto nel mercato mondiale”, Mimesis 2014
I due testi
qui presentati sono solo una piccola parte della notevole
produzione del gruppo Krisis, un gruppo tedesco che
si occupa oramai da quasi trent’anni delle tematiche della
crisi capitalistica e del possibile superamento del sistema
che la genera. Molti
scritti, per lo più in tedesco, si possono trovare nel loro
sito web http://www.krisis.org.
La crisi
economica deflagrata nel 2008, che in qualche modo ha inverato
le loro posizioni – sostenute in tempi non sospetti e ben
prima che questa stessa
crisi scoppiasse – ha convogliato l’attenzione di molti su
questo pensiero, che è stato tradotto con una certa insistenza
un
po’ ovunque nel mondo. La ricezione italiana non ha, invece,
fatto grandi passi in avanti, e ciò può forse spiegarsi con il
fatto
che le tesi sostenute da questo gruppo appaiono decisamente
indigeste e inusuali per il panorama della sinistra italiana,
tutto rivolto ad
interpretare il crack capitalistico come una sorta
di passaggio attraverso il quale il capitale affina/aggiorna
le sue pratiche di
sfruttamento e pone le basi per un ulteriore e ancora più
efficace fase di accumulazione.
Il gruppo nasce per iniziativa di Robert Kurz, purtroppo recentemente scomparso, Ernst Lohoff, Peter Klein, Udo Winkel, Norbert Trenkle ed altri, dapprima nel 1986 come rivista dal nome Marxistische Kritik poi dal 1990 come gruppo Krisis, nome che assume anche la rivista stessa. Nel 2004, infine, Robert Kurz si è separato dal gruppo Krisis fondando una sua rivista, Exit, molti articoli della quale sono consultabili sul sito http://www.exit-online.org. Leggi tutto
[Questo saggio fa parte del volume collettivo Politiche della filosofia. Istituzioni, soggetti, discorsi, pratiche, curato da Pierpaolo Cesaroni e Sandro Chignola, e appena uscito per DeriveApprodi]
Cosa significa
considerare la filosofia nella sua dimensione di discorso,
nel senso determinato che Michel Foucault attribuisce al
termine?
Affrontare questo tema non consente solamente di chiarire il
senso del lavoro filosofico svolto da Foucault, ma anche di
affrontare più
generalmente cosa possa significare oggi fare filosofia e come
continuare a farla. Il testo più utile a questo fine è la
risposta che
Foucault indirizzò al saggio di Jacques Derrida Cogito e
storia della follia contenuto in La scrittura e la
differenza
(1967). La risposta di Foucault ha due versioni, entrambe
scritte nel 1972: quella più nota fu pubblicata in appendice
della seconda
edizione di Storia della follia, con il titolo Il
mio corpo, questo foglio, questo fuoco; una seconda
versione, che verosimilmente
è stata scritta per prima, fu invece pubblicata, nello stesso
anno, nella rivista giapponese Paideia con il titolo
Risposta a
Derrida[1]; la rilevanza di questo testo
consiste nel fatto che si
apre con alcune pagine estremamente interessanti eliminate
nella redazione successiva.
Per capire cosa significhi concepire la filosofia come discorso e perché ciò consenta di porre in modo nuovo la domanda sul suo statuto, è necessario chiarire preliminarmente rispetto a cosa si misuri questa novità. Per fare questo mi riferirò, in modo alquanto schematico, a due altri pensatori: da un lato Jacques Derrida, obbiettivo polemico principale di Foucault; dall’altro lato Pierre Bourdieu, il quale condivide con Foucault sia un atteggiamento critico nei confronti della filosofia sia l’individuazione di Derrida quale esponente paradigmatico di quest’ultima; i due tuttavia seguono delle strade diverse. Leggi tutto
1) L’economia mondiale nel 2015:
PIL, disoccupazione, debito, fallimento delle politiche
economiche.
A) Crescita asfittica del PIL.
Da anni seguo la dinamica dell’economia mondiale 1 ed ho la sensazione di essere spesso ripetitivo, ma questo avviene perché le situazioni si riproducono continuamente senza alcuna sostanziale soluzione: ogni anno il debito pubblico cresce, la disoccupazione rimane elevata (anche se le statistiche tendono a nasconderla), l’evasione fiscale si impenna, si fanno riunioni dei vari G (7, 8, 20) che non producono alcun risultato, i consumi delle famiglie cinesi non riescono a decollare, il Giappone oscilla tra recessione e ristagno, etc, etc. etc.
Questo ripetersi avviene anche per i giudizi sull’andamento del PIL almeno dopo il 2010, allora ci fu un rimbalzo abbastanza forte (dopo il calo del 2009) che fece dire a molti (non a me) che la ripresa aveva gambe, ma dal 2011 il quadro cambia pressocchè ininterrottamente: la ripresa c’è ma è modesta, fragile, moderata, inadeguata etc. ed il 2015 non fa eccezione. Così Jack Lew, Ministro del Tesoro USA, osserva che essa è deludente in termini di PIL ed occupazione 2 , Larry Summers, un tempo consigliere economico numero uno di Obama, parla addirittura di ristagno secolare alle porte 3 , Draghi sottolinea che i rischi di ribasso nella crescita non sono transitori etc. 4 . Di particolare rilievo è, a questo proposito, un’intervista della elegantissima signora Lagarde (numero uno della FMI) al noto economista venezuelano Moisés Naìm in cui, pur non accettando la tesi della stagnazione secolare, si osserva che la crescita soffre di una “nuova mediocrità”, che i posti di lavoro creati non sono sufficienti, che enormi quote di ricchezza si concentrano nelle mani della finanza e c’è il rischio che i costi della crisi ricadano sui poveri e le classi medie impoverite 5 .
Leggi tuttoEsattamente 11 anni dopo Calipari, un'altra tragedia intorno a questioni di ostaggi italiani e una sporca guerra sullo sfondo. Un ambasciatore loquace, un governo silente
La tragica vicenda - ancora misteriosa - dei due tecnici italiani uccisi in Libia ci induce a qualche riflessione in libertà, non basata su dati certi (che mancano), ma su considerazioni logiche e domande che chiunque abbia un minimo di raziocinio può porsi.
I tecnici italiani erano stati rapiti mesi fa da bande di jihadisti - criminali -mercenari (le tre cose non sono affatto in contraddizione nel panorama nordafricano e mediorientale dei paesi devastati dalle guerre di questi anni), ritenute vicine allo Stato Islamico, nella città di Sabrata, posta a circa 60 Km ad ovest di Tripoli, verso la frontiera tunisina.
Queste bande si disputavano il territorio con le altre bande che hanno preso il potere a Tripoli (come "Alba Libica") e Misurata, legate alla Fratellanza Musulmana e finanziate da Turchia e Qatar. Negli ultimi mesi era stata esercitata una forte pressione internazionale perché il "governo di Tobruk", unico riconosciuto internazionalmente, di tendenze laiche e sostenuto dalle truppe del generale Haftar e dall'Egitto, si alleasse con il cosiddetto "governo di Tripoli", formando un unico governo. Il parlamento di Tobruk ha finora rifiutato, ed anzi ha attaccato le bande jihadiste che dominavano a Bengasi (come "Ansar Al-Sharia"), potenziali alleate del "governo di Tripoli". Leggi tutto
Nell’articolo apparso su Flassbeck-Economics l’economista Martin Hoepner analizza il manifesto e gli obiettivi di DiEM25, la nuova iniziativa lanciata dall’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis. A emergere è il quadro di un movimento alquanto contraddittorio, che sceglie di ignorare le problematiche strutturali alla base dell’Unione monetaria e ne propone il superamento con un ulteriore accentramento politico. Secondo Hoepener negli “Stati Uniti D’Europa” auspicati da DiEm25 persisterebbero le evidenti asimmetrie economiche dell’attuale Unione Europea e, di conseguenza, lo stesso deficit democratico. Come già fatto in Italia dal prof. Alberto Bagnai, Hopener smonta lucidamete la teoria del “Più Europa”, mettendone in evidenza le ingongruenze di fondo e l’incoerenza dei suoi fautori
Martedì 9 Febbraio al teatro Volksbuehne di Berlino si è tenuto l’evento inaugurale di DiEM25, l’autorevole iniziativa lanciata dall’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis.
L’abbreviazione “Diem” sta per “Democracy In Europe Movement” (Movimento per la democrazia in Europa, ndr), mentre 2025 sta per l’anno in cui si aspira a creare il primo Stato Europeo (di questo parlerò in modo approfondito più avanti).
L’evento è stato organizzato in modo estremamente professionale e ha trovato grande eco nella stampa e sui social network. Non si può che fare i complimenti agli attivisti di DiEM25 per l’impegno dimostrato. Nella sostanza, purtroppo, l’impressione che lascia quest’iniziativa è desolante. Leggi tutto
La lunga
recessione italiana non dipende né dall’elevato debito
pubblico né dall’adozione della
moneta unica, come le narrazioni dominanti – ovviamente su
sponde politiche diverse – provano a spiegarla. Si tratta di
motivazioni che,
nella loro semplicità, sono facilmente divulgabili e, per
un’opinione pubblica disattenta o poco informata, facilmente
assimilabili. Non
vi è però dubbio in merito al fatto che l’adesione alla moneta
unica ha contribuito ad accentuare i problemi, sia
perché l’impalcatura istituzionale dell’UME è di fatto
costruita in modo da produrre deflazione e recessione[1],
sia perché, attraverso
l’attuazione di misure di austerità, contribuisce alla
crescita del debito, in particolare nei Paesi periferici.
La recessione italiana andrebbe piuttosto inquadrata in una prospettiva di carattere più generale che attiene a ciò che viene definito il declino economico italiano: quella italiana è una crisi nella crisi, che non trova eguali nel resto d’Europa[2]. Per darne conto, può essere sufficiente il solo dato per il quale nel 2014 l’Italia è stato l’unico grande Paese europeo a sperimentare un tasso di crescita ancora di segno negativo, con un Mezzogiorno che continua a diventare sempre più povero (SVIMEZ, 2015).
La categoria del declino economico attiene a una prospettiva di lungo periodo ed è difficile individuare una data esatta dal quale farlo partire. Leggi tutto
Il direttore di Avvenire Marco
Tarquinio ha avuto
la bella idea, e lo dico senza alcuna ironia, di far scendere
in campo il noto comunista di Treviri contro Nichi Narrazione
Vendola a proposito della
sempre più scottante questione dell’utero oggetto di
transazione mercantile. «Stavo per ricorrere a un’immagine di
papa
Francesco o di Benedetto XVI, ma poi ho pensato che a Nichi
Vendola era meglio dedicare una citazione di Karl Marx, quella
che pubblichiamo qui sotto.
Il triste mercato dell’umano cresce, e ha ingressi di destra e
di sinistra. Si smetta di chiamarli “diritti”» (1). Qui mi
limito a osservare che i “comunisti” alla Vendola o alla
Bertinotti meritano invece proprio le perle luogocomuniste di
un Papa Francesco,
considerato che tali personaggi non hanno mai avuto nulla, e
sottolineo nulla, a che fare con il comunismo
marxiano. Questa considerazione
naturalmente va estesa a quanti a vario titolo si richiamano
alla tradizione del cosiddetto “comunismo italiano”,
declinazione italica
dello stalinismo internazionale. Ma non è di questo che
intendo scrivere brevemente adesso.Veniamo al regalo che
Tarquinio ha voluto consegnare
al neo padre, nonché ideologo della “famiglia arcobaleno”,
oggi al centro dell’attenzione dei media e dell’opinione
pubblica, sempre pronti a trovare occasioni utili a creare
opposte tifoserie. Si tratta di uno splendido passo marxiano
inteso a colpire la concezione
robinsoniana (astorica, adialettica, idealistica,
piccolo-borghese) di Proudhon circa la genesi dello scambio,
il quale trovò infine la sua
forma più sviluppata nella moderna società borghese, non a
caso stilizzata da Marx come «una immane raccolta di merci»
– e questo oltre un secolo e mezzo fa! Leggiamo:
Devo scusarmi subito in apertura se
arriverò a
rispondere alla questione solo dopo lunghi giri. Primo,
[perché] mi sembra che la questione in sé non sia stata finora
sufficientemente
chiarita. Secondo, e più importante, perché scorgo nella
situazione attuale problemi del tutto particolari, che
rinviano oltre una
specificazione normale della questione generale e la cui
analisi soltanto consente teoricamente una risposta concreta.
I nostri ragionamenti devono dunque culminare nelle due questioni seguenti, fra di loro strettamente connesse: esiste una responsabilità specifica del filosofo, che va oltre la responsabilità normale di ogni uomo per la propria vita, per quella dei suoi simili, per la società in cui vive e il suo futuro? E inoltre: tale responsabilità nella nostra epoca ha acquistato una forma particolare? Per la teoria dell’etica, entrambe le questioni implicano il problema se la responsabilità contenga un momento storico-sociale costitutivo. È un interrogativo che va posto subito all’inizio, giacché proprio l’etica moderna, specialmente quella che si è sviluppata sotto l’influenza di Schopenhauer prima e di Kierkegaard poi, pone l’accento sul fatto che il comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita mira proprio a tenersi lontano da tutto ciò che è storico-sociale per pervenire all’essere ontologico, in contrapposizione netta a tutto l’essente. È ovviamente impossibile trattare qui, sia pure per grandi linee, tutto questo complesso di problemi. Possiamo occuparci solo di quegli aspetti che riguardano oggettivamente il nostro problema.
1. Nell’etica, così come si è configurata sinora, possiamo osservare – grosso modo** – due correnti decisive. La prima considera rilevante esclusivamente l’atto in sé della decisione etica, del comportamento.
Leggi tuttoA quanti sostengono che il capitalismo non può crollare si risponderà in seguito, in modo da perfezionare la risposta: ma una cosa è certa, non sarà un venerdì il giorno in cui il mondo capitalista si renderà conto della sua propria rovina. Ci saranno sicuramente dei cattivi lunedì, dei martedì catastrofici, dei mercoledì ancora peggiori e dei giovedì fatali. Ma non verrà permesso che ci sia un ultimo venerdì nero.
Sarà di lunedì quando avverrà che un nuovo paese, significativo a livello degli scambi economici mondiali, dichiarerà che da parte sua che non accetterà più pagamenti fatti con i dollari del Monopoli. Sarà un martedi quello in cui altri paesi seguiranno. I mercati finanziari - sui quali i raccoglitori di fondi statali ed i venditori privati dei titoli obbligazionari vendono i debiti di Stato, vale a dire ricevono fondi (il cui valore è noto) in cambio di una promessa di versamento di un interesse annuale e di un rimborso del capitale a termine (ad un valore futuro incerto) - si renderanno conto che i grandi speculatori capitalisti non vogliono più comprare obbligazioni espresse in dollari, comprese quelle emesse da quei governi che non hanno la possibilità di stampare dollari a volontà - e quindi svalutare la moneta per mezzo della quale dovrebbero più tardi effettuare i rimborsi - e che cercano anche di vendere le obbligazioni di cui sono in possesso. Leggi tutto
Quando si incontreranno martedì al palazzo Ducale di Venezia, Matteo Renzi e François Hollande guardandosi negli occhi dovrebbero farsi una domanda: per quali ragioni facciamo la guerra in Libia?
La risposta più ovvia - il Califfato - è quella di comodo. La guerra di Libia è partita nel 2011 con un intervento francese, britannico e americano che con la fine di Gheddafi è diventato conflitto tra le tribù, le milizie e dentro l’Islam, che però è sempre rimasto una guerra di interessi geopolitici ed economici. L’esito non è stato l’avvento della democrazia ma è sintetizzato in un dato: la Libia era al primo posto in Africa nell’indice Onu dello sviluppo umano, adesso è uno stato fallito.
La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio.
Qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione, conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare.
Per loro, anche se l’Italia ha perso in Libia 5 miliardi di commesse, stiamo già accantonando risorse per un contingente virtuale in barili di oro nero. Leggi tutto
Pubblichiamo, in anteprima, con autorizzazione dell’autore, che ringraziamo, uno stralcio inedito, della seconda edizione del libro Full Time Blues. Un diario cronaca degli anni Settanta, di Antonio Festival, in cui si discute dei dati emersi recentemente sui retroscena dell’inondazione di eroina che colpì l’Italia, e gli USA, alla fine degli anni Settanta
Ciao Tonì… È da qualche mese che mi vedo spesso con Tonino ‘A Perzeca. Ha preso casa giusto 200 metri più su della mia. Fortunatamente anche lui, a botta d’astinenze, comunità andate perse e patimenti, è riuscito ad uscire dal tunnel della roba.
Il passato a volte è appena dietro l’angolo, a parte i ricordi che vanno e vengono, gli amici ancora persi non sono pochi. L’ultimo ad andare via è stato Felice della zona porto. Giusto un paio di giorni prima che uscisse la 1° Edizione di questo testo; 35 anni di eroina, 35 anni di strada, solitudine e disperazione.
Tonì… hai saputo dell’ultima novità venuta fuori dallo specchio magico? La valanga di polvere bianca che ci travolse in quegli anni ha un nome: operazione BLUEMOON. La notizia è ufficiale; Rai Storia ha dedicato alla vicenda l’intera puntata del 25/06/2013.
Andiamo per gradi: agli inizi dei ’70, partono le prime inchieste e i primi servizi giornalistici sulle droghe e il mondo giovanile… ci siano o meno, bisogna darne notizia per screditare-diffamare il movimento in ascesa. Una vicenda in particolare sembra segnare l’inizio della strategia. Leggi tutto
Mi sia consentito di partire, per fissare i pochi punti del mio intervento, da un’osservazione storica a prima vista marginale, o tutt’al più laterale. Come certamente molti sanno, e come si legge nei testi di scienze politiche, la distinzione parlamentare tra destra e sinistra sembra risalire all’assemblea detta Costituente, durante la Rivoluzione francese: i rivoluzionari moderni sedevano alla destra del presidente, i rivoluzionari accesi alla sua sinistra.
Rilevo questo particolare: i due lati erano e sono tuttora individuati rispetto al capo o centro dell’assemblea. Non sarà allora azzardato supporre che in questa distribuzione spaziale abbia inconsapevolmente giocato un riferimento simbolico ben noto in tutto l’Occidente e singolarmente coerente sia nella tradizione greco-romana che in quella ebraico-cristiana. Alla destra del presidente: come alla destra del Signore stanno i santi e gli eletti; la destra, ossia il lato, secondo Eschilo, del braccio che brandisce la lancia; il lato maschile di Adamo, secondo i commenti rabbinici che vedevano nel primo uomo un androgino; il lato divino e diurno, secondo i teologi medievali; il lato dei buoni presagi, dell’abilità e del successo, secondo gli indovini romani. E la sinistra? Si può notare come i suoi principali predicati simbolici si dispongano fondamentalmente in opposizione a quelli della destra: la sinistra è il lato dei dannati e dell’inferno, di Satana e della notte; il lato femminile di Adamo; il lato dei cattivi presagi e degli insuccessi: sinister è passato a significare, in alcune lingue tra cui la nostra, l’incidente o la sciagura. Leggi tutto
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La droga finanziaria del Quantitative
easing (Qe)
non funziona, ma dà dipendenza. E siccome uscirne è
maledettamente difficile, aumentarne la dose è la tipica
risposta di chi non
sa più a quale santo votarsi. Questa, in breve, la dinamica
che ha portato alle decisioni della Bce, annunciate ieri da
Draghi. Per gli
apologeti di casa nostra costui è di nuovo "SuperMario",
una specie di super-eroe dotato di poteri speciali, se non
addirittura
risolutivi. Ora, che i poteri della Banca Centrale Europea
siano davvero rilevanti è ovviamente fuori dubbio; che possano
essere risolutivi
dell'infinita crisi economica che tormenta l'Eurozona dal 2008
ci pare quantomeno dubbio. Di certo le scelte fin qui
adottate, ed in particolare il
Qe, hanno finora mancato clamorosamente gli obiettivi
prefissati: riportare l'inflazione attorno al 2%, innescare
una crescita economica degna di
questo nome.
La cosa è così palese, che è proprio il fallimento su entrambi questi due versanti - evidentemente in stretta correlazione tra di loro - ad aver motivato il rafforzamento del Quantitative easing. Un rafforzamento superiore alle previsioni proprio in conseguenza della presa d'atto di una situazione economica estremamente grave.
Che quella di Francoforte sia stata, nella sostanza, una scelta obbligata, ce lo ha detto, papale papale, proprio un'affermazione di Draghi:
Leggi tuttoIl 4-5
febbraio si è svolto a Padova il convegno “Globalizzazione e
crisi. Lavoro, migrazioni, valore”
[qui la sua
presentazione di Sandro Chignola e Devi Sacchetto]. Quello che
segue è un report
degli interventi, redatto sulla base dei materiali distribuiti
e degli appunti presi. Ho scelto di far parlare una sola voce
collettiva, per
focalizzare l’attenzione sul quadro d’insieme piuttosto che
sui singoli interventi, rimandando al programma, nella sua
interezza, per il
dettaglio degli argomenti [G.D.M.]
È probabile che la migliore sintesi di questo convegno sia stata l’affermazione di uno storico: «ho imparato più qui ascoltandovi per due giorni, che in tre mesi di studio e letture». Affermazione in apparenza paradossale: quale presa di parola può avere lo sguardo dello storico su un tentativo sincronico e orizzontale – o comunque definito da un arco temporale ben più ristretto di quello dello sguardo storico – di descrizione dell’intreccio fra migrazioni, lavoro e produzione di valore? Ad esempio, la messa in discussione dello “statocentrismo” implicito in alcuni studi migratori, nei quali il globale sembra essere considerato come qualcosa di esterno allo Stato; e la contestazione di quel “colpo di Stato linguistico” che derubrica e occulta i movimenti migratori locali rispetto a quelli a largo raggio: laddove questi ultimi emergono invece da un pulviscolo di movimenti locali. Leggi tutto
Tra le date che
scandiscono la vita e la militanza politica dei compagni,
alcune assumono un valore imprescindibile (il 25 Aprile e il
Primo Maggio, per citarne un paio…), mentre altre, anno dopo
anno, sembrano perdere il loro significato collettivo,
sfumarsi in quello che le
forze politiche più disparate (e per loro volontà i media
mainstream) hanno deciso di dare loro.
È il caso dell’8 Marzo. Davvero la celebrazione di questa data può essere ridotta a una cena tra donne con le amiche? Abbiamo davvero bisogno che sia la Vodafone a ricordarci le disparità di genere, attraverso il suo ultimo spot?
E soprattutto, vogliamo davvero che questa disparità venga trattata solo per quelli che sono gli aspetti culturali e sociali (l’invecchiamento – e, quindi, la bellezza; il matrimonio; i figli) che, per quanto urticanti e onnipresenti, sono evidentemente solo la punta dell’iceberg di una questione che riguarda le disparità economiche, lo sfruttamento e le differenze di classe? Eppure, negli ultimi mesi, se non anni, la questione dei diritti delle donne è stata quotidianamente dibattuta a mezzo stampa nazionale e internazionale, in tv, sulla rete, ma sempre (o quasi sempre) dalla prospettiva sbagliata. Si è osannata la bellezza (e soltanto quella) delle combattenti curde, ci si è indignati di fronte alla notizia delle violenze di Colonia avvenute durante la notte di Capodanno e, negli ultimi giorni, ci si è affannati a dibattere se una donna possa o non possa decidere di avere un bambino per donarlo ad altri: il tutto in una cornice buonista incentrata sul senso di protezione del “sesso debole” che acuisce la sensazione di un vero e proprio balzo indietro, sia nel dibattito sia nella pratica, del ruolo della donna nella società.
Origine e contemporaneamente conseguenza di questo fenomeno è stato l’allargarsi, anno dopo anno, dell’utilizzo strumentale delle vicende che vedono coinvolte le donne da parte delle forze politiche più reazionarie. Leggi tutto
Dal lontano Ottocento alle aspre dispute teoriche del secolo breve. Ai nodi irrisolti del presente. In tre volumi una accurata e mai consolatoria storia del marxismo per Carocci
Stefano Petrucciani, studioso consolidato del marxismo, della Scuola di Francoforte, dell’opera di Jürgen Habermas, ha curato una articolata nuova Storia del marxismo che ora viene pubblicata dall’editore Carocci in una edizione in tre ampi, ma insieme maneggevoli, volumi.
L’impresa è di tutto rispetto, perché dopo la Storia del marxismo della Einaudi pubblicata ormai quasi cinquant’anni fa, si prova a ripensare, in un modo articolato e non riducibile a una prospettiva uniforme, «una mappa delle molte avventure di pensiero – come scrive il curatore – che, a partire più o meno dal 1883, l’anno della morte di Marx, si sono dipanate prendendo le mosse dalla sua eredità intellettuale».
Il primo volume (Socialdemocrazia, revisionismo, rivoluzione. 1848-1945) è dedicato alla stagione più classica dei marxismi: alla configurazione che Engels ha consegnato dell’opera di Marx alla tradizione socialista, al dibattito tra ortodossia e revisionismo nella socialdemocrazia, alla prima discussione sul marxismo in Italia tra Labriola e Croce, alla specificità e originalità del marxismo di Gramsci rispetto a quello sovietico, all’austromarxismo e alla nesso tra filosofia e marxismo tra Seconda e Terza Internazionale (con saggi di Merker, Mustè, Carpi, Cesarale, Liguori e lo stesso Petrucciani).
Leggi tuttoAvevo accennato in un post precedente alla manovra sotterranea per farla finita con il “fiorentino spirito buzzurro” e sul ruolo che in essa possiamo dubitare che abbia il “conte Max”.
Sarà un caso ma è qualche tempo che il summentovato conte va in giro, fa battute (“Vedo più spettatori che votanti a queste primarie”, “C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto” ecc…) si mostra di insolita giovialità e direi quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il leader Maximo si è lasciato sfuggire una battuta lieve come un’incudine sui piedi “”Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere”.
Certo una battura conviviale sicuramente è sfuggita; tutti sappiamo che Max è un distrattone che fa queste cose senza pensarci e senza badare che è presente un giornalista e si sa come fanno questi infami della carta stampata: ti carpiscono un pensiero, una battuta confidenziale e poi te la sparano sui giornali. Poi, pare che la giornalista si fosse introdotta clandestinamente ed assistesse alla cena travestita da ficus.
Certo che non è una cosa da poco dire che il Presidente in carica è un agente di influenza di un servizio segreto straniero (e che servizio!). E poi lo pensereste mai di uno come Renzi? Va bene, si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele, ma questo che vuol dire? Spesso è parso in sintonia con l’asse Telaviv-Mosca, ma è solo un impressione.
Leggi tuttoQuando la crisi finanziaria diventa economica, poi valutaria e infine geopolitica, l'economista realista deve interessarsi di geopolitica e di scienze militari
Quando la crisi finanziaria cambia di stato trasformandosi prima in crisi economica, poi in crisi valutaria e infine in crisi geopolitica, l'economista interessato alla comprensione del reale e non alle masturbazioni narcisistiche deve interessarsi di geopolitica e di scienze militari.
A tale proposito segnalo che la Russia sta testando un nuovo missile antinave, lo 3M22 Zircon , destinato a sostituire il già temibilissimo P-700 Granit.
Si tratta di un missile di cui ancora non si conosce la gittata (ovviamente non sarà inferiore ai 600 Km del Granit) ma di cui però si sa che ha una velocità di 5 Mach: dunque praticamente non intercettabile dalle batterie antimissile navali, segnatamente quelle dei gruppi navali d'attacco delle portaerei americane. Questo soprattutto se gli ordigni verranno lanciati "a sciami" contro di esse.
Il nuovo missile russo, è stato comunicato, sarà installato negli incrociatori pesanti d'attacco ereditati dalla vecchia marina sovietica e nel frattempo dotati di ogni ritrovato dell'elettronica, come il Moskva. Il primo incrociatore che avrà questo aggiornamento letale sarà il Pyotr Veliky, che sarà nuovamente in servizio presumibilmente nel 2019. Leggi tutto
Se riusciamo a far sporgere il capino dalle slavine di informazione artificiale che giorno dopo giorno, da schermi e pagine stampate mainstream, ci travolge, forse riusciamo a intravedere ancora qualche brandello di realtà. Qui si espone un’ipotesi, tra le tante verità incontrovertibili che ci sommergono, che mancherà di pezze d’appoggio granitiche, ma ha il pregio, imparato da Maria Montessori, di trarre un minimo di logica dal collegamento dei dettagli.
C’è un direttore d’orchestra, da qualche tempo è quello a stelle e strisce con stella di David sul cappello. E c’è un’orchestra che a volte suona in armoniosa sintonia, a volte perde il sincrono perché qualcuno va per conto suo e stona. Succede quando un settore dell’orchestra prende l’abbrivio e inserisce uno spartito diverso sul leggìo.E pare succedere ora, con un’orchestra in dissonanza tra due gruppi di musicanti che anziché andare di conserva, come il direttore vorrebbe, suonano l’uno contro l’altro.
Fuor di metafora, fanno gruppo e si muovono compatti all’attacco Turchia, Qatar e Tripoli, cavalli di razza di una Fratellanza Musulmana cui il direttore, o regista, memore dei servizi storicamente forniti dalla confraternita al colonialismo, aveva voluto affidare la risistemazione del Medioriente, nel segno di un islamismo integralista, lontano dalle fregole nazionaliste, sovraniste, laiche e addirittura socialisteggianti, degli Stati tempratisi nel fuoco delle lotte di liberazione. Leggi tutto
Postfazione a Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch, La cultura dell'egoismo, Elèuthera, 2014
Non c'è da sorprendersi
per questo incontro, avvenuto nel 1986 durante una
trasmissione televisiva di Channel 4 (canale britannico del
servizio pubblico), tra Christopher Lasch e Cornelius
Castoriadis, incontro animato da Michael Ignatieff1.
Lasch e Castoriadis, critici
irriducibili della civiltà capitalista, avevano abbastanza
punti in comune - e sufficiente stima reciproca - per rendere
amichevole e
particolarmente fruttuoso il loro dibattito.
D'altra parte, pur attraverso percorsi filosofici differenti, erano entrambi giunti ad avere lo stesso sguardo disincantato sulla triste evoluzione delle moderne sinistre occidentali e su quello che fin dal 1967 Guy Debord definiva «Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato» {La società dello spettacolo, tesi 56)2. Ci si sorprende quindi ancor meno del fatto che un tale incontro non abbia praticamente lasciato traccia nei media o nelle università (almeno per quanto riguarda la Francia), al punto che la stessa emittente Channel 4 non ricordava di averlo trasmesso3. Va ricordato che in quegli scoppiettanti «anni Tapie»4 - quando la trasmissione Vive la crise, condotta da Yves Montand e Laurent Joffrin, si prodigava a fornire al grande pubblico gli «elementi linguistici» fondamentali - l'idea che ogni critica radicale della logica capitalista conducesse ineluttabilmente alla miseria generalizzata e alla negazione dei «diritti dell'uomo» era già diventata, per i chierici mediatici e intellettuali, una opinione largamente condivisa (anche se non si lasciava ancora intendere, come ha poi fatto un Luc Boltanski, che questo tipo di critica potrebbe trovare il proprio fondamento nelle idee di Charles Maurras e dell'estrema destra degli anni Trenta). Leggi tutto
I. Quando più
di 25 anni fa il cosiddetto socialismo reale colò a picco, il
pubblico
liberal-democratico si convinse che il «sistema sociale»
basato sull’economia di mercato e sulla democrazia si fosse
aggiudicato una
storica vittoria nel «conflitto tra i sistemi». Francis
Fukuyama decretò la sua celebre sentenza circa la
«fine della storia», che fece rapidamente il giro del mondo,
mentre alla sinistra tradizionale venne a mancare il terreno
sotto i
piedi.
In questo clima euforico furono ben poche le voci dissenzienti. Qualcuno suggerì spiritosamente che in realtà l’Occidente non aveva vinto, che sarebbe stato solo l’ultimo degli sconfitti. Lungi dal promuovere il benessere generale il capitalismo scatenato, senza più neppure l’opposizione di un sistema antagonista, dispiegò la sua forza distruttiva con una dinamica ancor più incontenibile. Dalla prospettiva della critica del valore, come era stata formulata nell’ambito del gruppo Krisis, la questione si poneva in termini assai differenti. Secondo la nostra analisi il crollo del socialismo di Stato non segnava affatto la fine di un sistema sociale antagonista, ma solo quella di un regime statalista dispotico della modernizzazione di recupero, ormai giunto ai suoi limiti storici, che a causa della sua struttura sclerotizzata e inerte non era più in grado di saltare sul treno della terza rivoluzione industriale, con i suoi nuovi standard produttivi. Allo stesso tempo interpretammo il collasso di quel regime come l’inizio di una crisi fondamentale del modo di produzione capitalistico complessivo, che avrebbe soffocato, in ultima analisi, l’iperproduttività da esso stesso scatenata (vedi Stahlmann 1990; Kurz 1991). Leggi tutto
“Considerando
che la produttività dipende dalle performance delle
singole imprese, dobbiamo lavorare duramente
per aiutare queste imprese a essere più grandi e più
forti. Se sei troppo piccolo, non puoi sopravvivere”. Pier
Carlo
Padoan Guindhall, City, Londra 4 marzo 2016
“Se a ristrutturare le aziende sono gli stessi manager-imprenditori che le hanno portate alla crisi è difficile cambiare le cose. E poi ci vuole una nuova finanza adeguata a risollevare davvero le sorti delle aziende e finanziarne il rilancio. Finanza che le banche non possono assicurare, ma che invece possono portare veicoli di investimento specializzati come il nostro”. R. Saviane, Idea Capital Partners, in Milano Finanza, Crediti dubbi? Tutte Pmi, 5 marzo 2016
“Il
mercato italiano è destinato ad essere l’epicentro del
trading delle
sofferenze bancarie”. Justin Sulger,
Fondo Anacap Padoan, gli Npl frenano la crescita ma per le
banche nessun
rischio di tracollo, Il sole 24 ore 5 marzo
* * *
Il compianto Marcello de Cecco, assieme all’ex ministro delle finanze Vincenzo Visco, a metà degli anni duemila coniò il detto “rimettere il dentifricio nel tubetto”. Leggi tutto
Per fissare le coordinate del costituendo “partito della nazione” renziano prendiamo due notizie Ansa di oggi, su argomenti che appaiono lontani solo se si resta inchiodati al palinsesto televisivo.
La prima è di carattere banalmente elettorale e riguarda le sedicenti “primarie del Pd” a Napoli:
Anche esponenti di centrodestra a presidio di seggi delle primarie Pd a Napoli. Nelle immagini riprese da Fanpage e girate a Scampia, ci sono Claudio Ferrara, assessore di centrodestra dell'VIII Municipalità, candidato alle politiche del 2013 con Berlusconi e ritiratosi dopo l'esclusione di Cosentino, e Giorgio Ariosto, candidato nel 2011 alla stessa Municipalità con Pid. Ariosto nel video dà a una persona anche l'euro per il voto ed è anche presente nel comitato della candidata Valente la sera per i festeggiamenti.
La seconda investe invece gli assetti proprietari dell'industria basata su questo territorio, in un settore delicato - “strategico”, si dovrebbe dire senza peli sulla lingua – come le telecomunicazioni:
"Siamo ben felici se si creerà un polo che potrà valorizzare la cultura latina, franco-italiana, europea, ma lasciamo che sia il mercato a fare la propria parte. “È finito il tempo in cui si investiva a parole e non con i soldi". Leggi tutto
La banca per i regolamenti internazionali, BRI (BIS, Bank for International settlements), è preoccupata che recenti fattori di disturbo nei mercati azionari potrebbero rappresentare il segno che un’altra crisi finanziaria sia attualmente in fermentazione. In un sobrio rapporto intitolato “Una strana calma è il segno d’avvio di una turbolenza ” la BRI dichiara ben poco allegramente che: “Quello a cui stiamo assistendo potrebbe non essere un qualche fulmine sparso a ciel sereno ma piuttosto l’avvisaglia dell’imminenza di una tempesta le cui nuvole si stanno accumulando già lungo tempo”.
Gli autori del rapporto sono particolarmente preoccupati del fatto che la caduta dei prezzi dei titoli azionari e il rallentamento della crescita globale si stanno verificando nello stesso momento in cui la fiducia nelle banche centrali è in declino. L’annuncio da parte della Banca del Giappone di aver pianificato l’introduzione di tassi di interesse negativi (NIRP, negative interest rate policy) nel tardo , ne è una dimostrazione. La Banca del Giappone sperava che sorprendendo i mercati la misura sortisse maggior impatto sui prestiti, così generando crescita. Ma al contrario delle previsioni, l’annuncio ha messo in moto una “seconda fase di turbolenza”nei mercati azionari e valutari poiché gli investitori innervositi hanno venduto i titoli a rischio ed hanno trasferito i capitali verso il porto sicuro dei titoli di Stato. La mossa della Banca centrale del Giappone è stata vista da molti come un atto di disperazione da parte di un organismo regolatore che sta rapidamente perdendo il controllo sul sistema che dovrebbe regolare. Leggi tutto
1) L’ articolo che hai pubblicato sul tuo blog del Manifesto ha suscitato grande scalpore. Cerchiamo di approfondire alcuni passaggi del tuo testo che certamente richiedono un supplemento di sensibilità. Nell’articolo sembri sostenere che la pratica della gestazione per altri sia una opzione costitutivamente legata al sistema «tecno-finanziario» imperante. Si tratta di un giudizio molto ultimativo. Non credi che un intervento normativo intelligente potrebbe liberare quella scelta dalle costrizioni materiali che in taluni casi la influenzano, rendendola possibile come gesto solidale e gratuito?
Una delle estremizzazioni della logica capitalistica consiste in questo assunto, nelle varie fasi della storia reso più o meno esplicito: ciò che non posso ottenere, con il consenso (la facoltà di governare), con la natura (l’amore di un’altra persona), con le mie capacità (un impiego, un ruolo sociale), con la legge (la “giustificabilità” sociale di un’azione) allora me lo compro. Lo ottengo facendo intervenire il feticcio del denaro. Una Sinistra degna di questo nome, e soprattutto consona rispetto ai tempi mutati e alle rinnovate logiche che essi propongono, non può fornire l’impressione di arrendersi, fino addirittura ad applicarla essa per prima, a questa logica.
Proprio nell’epoca in cui vengono distrutti i più elementari fondamenti della giustizia sociale, in cui assistiamo a un ritorno prepotente del trionfo dei dogmi liberisti, fornire anche solo questa impressione significa condannarsi alla frattura più totale rispetto ai bisogni dei cittadini e delle cittadine. Leggi tutto
All’ombra delle cronache, veloci e superficiali, la bomba a tempo del debito del governo Usa, continua a bruciare la sua miccia, che è ancora lunga per fortuna loro e nostra. Ma brucia. E che sia preoccupante, questa combustione, lo testimonia l’attenzione con la quale l’epopea di questa mostruosità contabile viene monitorata – e per evidenti ragioni – da osservatori assai più competenti di me, che pure sospetto qualcosa.
Troppo lungo e sicuramente stucchevole sarebbe riprodurre qui la mole di analisi sul debito pubblico Usa prodotte in questi anni, anche perché dicono tutte più o meno la stessa cosa: i debiti del governo crescono a rotta di collo e sono bene inseriti lungo un percorso di insostenibilità, con conseguenze che possiamo immaginare. E soprattutto concordano sul punto dolente: uscire fuori da questa situazione è molto difficile. Tutte le strade che si può immaginare di percorrere spuntano in un vicolo cieco, rappresentando infine il debito pubblico Usa la perfetta epitome del nostro tempo cresciuto tanto e male, e in costante debito – questo sì – di resa dei conti. Col risultato che, a furia di posporlo questo redde rationem, viviamo un bad equilibrium dove imperano l’incertezza – che oggi si chiama volatilità – e l’insicurezza, che oggi si chiama bassa crescita.
Affinché non pensiate che queste riflessioni siano frutto esclusivo della mia fantasia, mi sembra opportuno mettervi a parte di un articolo pubblicato di recente sull’economic quaterly della Fed di Richmond, che di sicuro giudicherete attendibile, se non altro perché è scritto in casa. Leggi tutto
Una recensione di "Imperialismo nel 21° secolo" di John Smith
Il libro di
John
Smith è un potente e bruciante atto d'accusa dello
sfruttamenti di miliardi di persone in quello che veniva
chiamato Terzo Mondo e che ora da
parte dell'economia principale vengono denominate come
economie "emergenti" o "in via di sviluppo" (e che da Smith
viene chiamato "il Sud"). Ma il
libro è molto, molto più di questo. Dopo anni di ricerche che
includono anche una tesi di dottorato, John ha dato un
importante ed
originale contributo alla nostra comprensione del moderno
imperialismo, sia a livello teorico che empirico. In tal senso
il suo libro "Imperialismo"
è un complemento a "The
city" di Tony Norfield, già
recensito qui - o potrei anche dire che è il libro di Tony ad
essere un complemento di quello di John Smith. Mentre il libro
di Tony Norfield
mostra lo sviluppo del capitale finanziario nei moderni paesi
imperialisti ed il dominio di potere finanziario del "Nord"
(Stati Uniti e Gran
Bretagna, ecc.), John Smith mostra come sia il
"super-sfruttamento" dei lavoratori salariati nel "Sud" ad
essere la base del moderno imperialismo nel
21° secolo.
Il libro comincia con alcuni esempi di come i lavoratori salariati nel Sud siano "super-sfruttati" per mezzo di salari al di sotto del valore della forza lavoro (i lavoratori tessili del Bangladesh): "I salari di fame, le fabbriche come trappole mortali, ed i fetidi slum del Bangladesh sono rappresentativi delle condizioni patite da centinaia di milioni di persone che lavorano in tutto il Sud globale, sono la fonte del plusvalore che sostiene i profitti ed alimenta un sovra-consumo insostenibile nei paesi capitalisti" (p.10)... e come il plusvalore creato da questi lavoratori super-sfruttati viene acquisito dalle corporazioni trans-nazionali e trasferito attraverso la "catena del valore" ai profitti dei paesi imperialisti del Nord (Apple, I-phone e Foxconn). "L'unica parte dei profitti della Apple che appare avere origine in Cina, è quella risultante dalla vendita dei suoi prodotti in quel paese. Come nel caso delle T-shirt made in Bangladesh, anche con gli ultimi gadget elettronici, il flusso di ricchezza proveniente dai salariati cinesi e da altri lavoratori a basso salario che sostiene i profitti e la prosperità delle aziende e delle nazioni del Nord, diventa invisibile sia nei dati economici che nei cervelli degli economisti" (p. 22).
Leggi tutto[La prima versione di questa intervista, curata da Fabio di Lenola e Aldo Scorrano, è uscita sul sito del Csepi]
Daniele Tori si è
laureato all’Università di Pavia in Scienze politiche e in
Economia. È membro
del Greenwich Political Economy Research Centre e membro del
Post Keynesian Economics Study Group. Dal prossimo settembre
assumerà la posizione
di Lecturer in Finance alla Open University (UK).
Attualmente si occupa di investimenti da un punto di vista
microeconomico, le evoluzioni del sistema
finanziario, e i processi di finanziarizzazione in generale.
* * *
Sono ormai trascorsi quasi dieci anni dallo scoppio della crisi che ha investito il mondo occidentale. In questo periodo l’Italia ha visto l’alternarsi dei vari governi Monti, Letta e Renzi che si sono mossi, sostanzialmente, in continuità con una linea o agenda europea di politica economica che potremmo definire conservatrice. Alla luce di quanto è emerso dall’operato di questi governi, possiamo dire che tale “linea”, sia stata e continui ad essere fallimentare?
Questi governi hanno essenzialmente provveduto, con modalità simili, a meri aggiustamenti in senso restrittivo delle politiche di bilancio in accordo con i dettami europei. Era già evidente in partenza che queste politiche, frutto di una comprensione meramente tecnica della crisi (regolamentazione del sistema bancario-finanziario, contenimento di deficit e debito), sarebbero state fallimentari. Leggi tutto
Gigi Roggero, Elogio della militanza. Note su soggettività e composizione di classe, Derive Approdi, 2016, pp. 213, € 13,00
Elogio
della militanza è prima di tutto un titolo
appropriato. Non elogio dell’attivista o del
volontario, o altre definizioni post-moderne della
partecipazione politica. Il militante, secondo le parole
dell’autore, è “colui o
colei che mette interamente in gioco la propria vita”, è “un
soggetto divisivo, produce continuamente il “noi” e il
“loro”, prende posizione e costringe a schierarsi. Separa per
ricomporre la propria parte”. Non una figura qualunque,
pacificata,
della partecipazione politica liberale, ma una figura
specifica e storicamente determinata della lotta politica. Il
titolo è già di per
sé una forma di rottura rivendicata, una rottura necessaria,
che avviene non contro la normalizzazione liberal-democratica
(troppo facile), ma
dentro il campo della sinistra antagonista, che da tempo ha
accettato supinamente la traslitterazione semantica (di
provenienza anglosassone)
dell’attivista.
“Quando al giro di boa del millennio si è iniziato a chiamarlo attivista, non si è trattato di una semplice concessione linguistica, ma di un cedimento strutturale. Si è così persa la sua incommensurabilità rispetto ad altre figure, come quella del volontario. Figura dell’interesse generale, dunque della riproduzione dell’esistente”.
Attivismo e militanza non sono concetti sinonimi o ambivalenti: presuppongono opposte visioni della politica e sedimentano antitetiche coscienze dell’esistente e degli strumenti per combatterlo. Leggi tutto
“Adam Smith a Pechino” è il titolo di un libro di Giovanni Arrighi di qualche anno fa, in cui si sosteneva che la Cina conserva, malgrado le liberalizzazioni, caratteristiche che la distinguono dai Paesi a capitalismo “puro”: la preferenza per produzioni labour intensive che garantiscono alti livelli di occupazione; una politica che persegue equilibri stabili anche a costo di periodici rallentamenti della crescita, oltre, ovviamente, al ruolo strategico dell’intervento statale in economia.
L’economista francese Mylène Gaulard - in un libro che fa il verso al titolo di Arrighi, “Karl Marx a Pechino” - spiega tuttavia che oggi le cose sono molto cambiate, al punto che l’attuale crisi cinese ricalca le dinamiche di quella che ha sconvolto l’economia globale nel 2008: preparata dalla perdita di competitività del sistema produttivo dovuta alla crescita dei salari, e dalla rapida crescita dei debiti –pubblici e privati –, la crisi è esplosa – proprio come in Occidente - quando è scoppiata la bolla speculativa di un mercato immobiliare cresciuto troppo in fretta e disordinatamente.
A dare la misura di quanto poco sia rimasto della vecchia Cina è ancor più la ricetta che il partito e il governo guidati dal Presidente Xi Jinping si appresterebbero ad adottare, secondo un articolo del New York Times, per fronteggiare la situazione. Ispirate alla teoria del “supply-side” (quella, per intenderci, che legittimò le politiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher) le nuove riforme si baserebbero sui tagli alle tasse per gli investitori, sulla deregulation finanziaria e su radicali sforbiciate agli investimenti pubblici. Leggi tutto
«Dall’età dell’innocenza siamo passati all’età della corruzione», affermava Pier Paolo Pasolini in un’intervista del 1973. Una dicotomia efficace, ma forse semplicistica. Così almeno apparve al grande psicoanalista Elvio Fachinelli, di cui in questi giorni arriva in libreria la raccolta di scritti “Al cuore delle cose”.
L’11 gennaio 1974 lo psicanalista Elvio Fachinelli scrisse una lettera a Pier Paolo Pasolini dopo aver letto sull’«Espresso» il resoconto di una polemica con Edoardo Sanguineti, che iniziava con brani del pasoliniano Sfida ai dirigenti della Rai apparso sul «Corriere della sera» del 9 dicembre precedente: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il Fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta… Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata… Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo Potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana… Fino a pochi anni fa, i sottoproletari rispettavano la cultura, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà, ora cominciano a vergognarsi della loro ignoranza, abiurano dal proprio modello culturale».
Il giornalista citava poi altri bani della replica sanguinetiana apparsa su «Paese sera» del 27 dicembre: «Sono proprio dei cafoni, i sottoproletari dei nostri tempi! Perduta la splendida “rozzezza” di un tempo, non hanno più soggezione per il latinorum del signor curato… Leggi tutto
Anche se la stampa è scatenata a descrivere gli imminenti scenari sul “bel suol d’amore”, a quanto pare il fiorentino ha più di un mal di pancia a pensare al da farsi e i sondaggi dicono che l’81% degli italiani è contro la spedizione. Io non credo ai sondaggi, ma qui basta parlare con il portiere, con il taxista e la signora che ha il banco della frutta per capire che non è aria di avventure militari. Per cui, se Renzi si convince a dare il via libera alla spedizione si mette contro quell’81% e sono in vista elezioni amministrative importanti e non facili per il Pd.
Ma se decidesse più saggiamente di evitare questa avventura sconclusionata dovrà affrontare nell’ordine:
a. gli industriali manifatturieri che temono di pagare di più il petrolio dopo l’estromissione dalla Libia
b. l’Eni che, nel timore di essere fatta fuori dalla Bp e dalla consorella francese, gli mette una carica di tritolo sotto la sedia a Palazzo Chigi
c. gli alti gradi militari che sognano allori bellici, promozioni e quattrini e che sarebbero capaci di marciargli sulla testa
d. gli “alleati” franco-anglo-americani che ne farebbero carpaccio da servire con limone e pepe bianco.
Insomma, come la fa la sbaglia. Vediamo gli esiti possibili in caso di spedizione:
a. l’operazione ha piena riuscita: in poche settimane il califfato di Derna è raso al suolo, gli jhiadisti tutti uccisi, catturati o in fuga, prima vittoria piena sulla jhiad dopo un quarto di secolo di tracolli
Leggi tuttoRenzi vuole intervenire in Libia, ma senza che si sappia in giro. Ma stavolta si è infilato in un gioco ben più complesso e pericoloso di quelli che ama giocare a colpi di alleanze variabili e discorsi fiume
Ě difficile credere che l’ambasciatore Usa Philips abbia parlato a vanvera, quando ha detto di aspettarsi 5000 uomini dall’Italia per l’intervento in Libia. Non sorprende perciò che Matteo Renzi, di solito oratore inarrestabile e sfiancante, taccia da giorni sulla questione, preferendo occuparsi dei sindacati della reggia di Caserta. Ma allora, che vuol fare Palazzo Chigi? Andare in Libia o no?
Tutto dipende, naturalmente, dal significato di “andare in Libia”. Per chiarire la questione dobbiamo tornare al decreto del 15 novembre 2015, con cui si ponevano i corpi speciali delle forze armate sotto il comando dell’Aise (servizi di sicurezza esterna), cioè di Renzi. Un decreto passato incredibilmente con 395 voti a favore, 5 contrari e 26 astenuti (tra cui Sel e M5S, che sarebbero gli “oppositori” di Renzi). Un decreto formalmente legale, come vuole il Quirinale, ma che sottrae al parlamento, con il suo consenso supino e preventivo, il controllo delle operazioni militari. Una carta in bianco al governo, insomma, per qualsiasi guerra presente o futura.
Successivamente, la parte attuativa del decreto è stata secretata in modo così maldestro, che tutti ne sono venuti a conoscenza. Leggi tutto
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«Non sono più
iscritta al partito comunista, ma sono ancora comunista».
Questa una delle affermazioni di Angela Davis
durante la lezione magistrale che ha tenuto lunedì scorso
all’Università di Roma Tre. Parole decise, prive di ipocrisia
e senza
toni attenuati, pronunciate in risposta all’intervento
polemico del germanista Marino Freschi, che – e la frecciatina
anticomunista nelle
sue affermazioni era palese – evidenziava i rapporti di Davis
con Erich Honecker, segretario della Sed (il partito comunista
della Repubblica
democratica tedesca) e poi presidente della Ddr, e l’esistenza
di una foto che la ritrae con sua moglie Margot. La foto
in
questione, che vede anche la presenza della cosmonauta
sovietica Valentina Tereshkova, è del 4 agosto 1973, pochi
giorni dopo la morte di
Walter Ulbricht, fino ad allora presidente della Ddr con pochi
poteri effettivi: Freschi non ha potuto fare a meno di fare un
po’ di polemica,
dicendo che Honecker aveva tenuto nascosta questa morte perché
allora nella Ddr non si poteva dire la verità. La
dichiarazione di Davis
di essere ancora comunista e l’affermazione precedente sulla
possibilità di un futuro socialista («Non solo perché non
ci sono più paesi socialisti dobbiamo pensare che non ci
sarà più un mondo socialista in futuro», ma andiamo a
memoria) assumono, in questo contesto ufficiale, ancora più
valore.
Queste parole, infatti, sono state pronunciate da Davis nell’aula magna della facoltà di Lettere dell’Università di Roma Tre, nel corso di un incontro ufficiale organizzato dall’istituzione universitaria. Le cinquecento poltrone dell’aula non sono bastate a contenere tutto il pubblico, composto in gran parte di compagne e compagne, e molti si sono seduti a terra o sono rimasti in piedi. Leggi tutto
1. È stupefacente vedere
come il governatore della Banca Centrale Europea si dia da
fare per evitare che l’Eurozona
precipiti nel baratro della deflazione (-0,2% il dato di
febbraio per l’area euro[1]) e non ci riesca.
Il pericolo è che anche l’Eurozona cada in quello stato comatoso dell’economia che, resistendo ad ogni terapia, affligge da vent’anni il Giappone (cfr. G. Visetti, La strenua lotta del Giappone ad una deflazione ventennale, “Affari e Finanza”, 23.11.2015). Ma, siccome per curare bisogna prima diagnosticare la malattia, è proprio qui che Mario Draghi inciampa, facendo il reticente quando rinvia a generiche «forze nell’economia globale oggi che, tutte assieme, stanno mantenendo bassa l’inflazione» (“La Repubblica”, 5.2.2016). Ma quali queste “forze” (“oscure”, come si sarebbe detto una volta) se non precise variabili macroeconomiche che per pudore non s’intendono nominare?
Più espliciti sono stati i due governatori di Bundesbank e Banque de France in una lettera congiunta (ma il governatore della Banca d’Italia dov’era?) in cui hanno proposto che gli Stati europei cedano più sovranità, allo scopo di «rafforzare la governance della zona-euro», mediante l’istituzione di un Ministro unico del Tesoro con il compito di coordinare l’«unione dei finanziamenti e degli investimenti» per affrontare «il paradosso di un risparmio abbondante che non viene sufficientemente mobilizzato per investimenti» (“La Repubblica”, 9.2.2016). Leggi tutto
1. Niente. Deflazione, insolvenze diffuse delle
famiglie,
fallimenti seriali di imprese e deindustrializzazione non
contano nulla.
Quello che conta è mantenere la moneta unica.
L'euro, lo diciamo in altre parole rispetto a quelle che abbiamo tante volte detto, è una scelta politica volta a eradicare definitivamente la possibilità di redistribuzione del potere sociale al di fuori dell'oligarchia.
L'euro è infatti il presupposto e il fine ultimo (in un processo circolare inavvertito dalle masse anestetizzate dai media) che conferisce la legittimazione per poter adottare misure come quelle cui fanno riferimento le dichiarazioni sopra riportate.
In assenza del vincolo dell'euro, la necessità di quanto preannunciato da Nannicini non avrebbe nè la priorità assoluta nè l'intensità che gli viene, variamente ma costantemente attribuita, da quando l'Italia ha intrapreso il cammino della convergenza dettata da Maastricht, aderendo poi alla moneta unica.
2. Accettiamo pure quello che non appare affatto così scontato, cioè che l'Italia debba essere una economia fortemente "aperta", in modo massimizzato rispetto all'area UE, e in modo negoziato "in crescendo", in base alla intensificata apertura prevista da altri trattati rispetto al resto del mondo.
Leggi tuttoAbbiamo più volte avuto modo di analizzare il fenomeno Retake, il falso associazionismo sponsorizzato dalle multinazionali come Wind, Groupama, Eataly, LVenture Group, e coadiuvato dall’università privata Luiss. Una forma corrotta di associazionismo, che spiana la strada, attraverso metodi presuntamente cooperativi, all’ideologia liberista privatizzante ogni settore della vita pubblica gestito dallo Stato. E’ però una battaglia politica e culturale complessa, perché apparentemente le motivazioni e gli intenti dei “retakers” appaiono di buon senso, forse ingenui ma genuini, in buona sostanza fenomeni di attivismo cittadino magari inconcludente ma sicuramente positivo.
Chi ci ha letto in passato sa quanta importanza diamo alla questione del degrado romano, un fatto presente e degenerato che ha ridotto Roma a una latrina a cielo aperto, sporca, invivibile, stressante, inquinata e via dicendo. Sbaglia la sinistra di classe a disinteressarsi o, peggio ancora, banalizzare tale fenomeno. Perché il degrado cittadino è il degrado delle periferie, perché influisce direttamente sulla qualità della vita dei lavoratori, perché aliena la cittadinanza al suo tessuto metropolitano, incattivendo i rapporti e generando sfiducia collettiva. “Roma fa schifo”, uno slogan purtroppo legato ad un personaggio spregevole, avrebbe dovuto essere una nostra parola d’ordine: Roma fa davvero schifo, inutile minimizzare o celare una realtà lapalissiana agli abitanti della sua sterminata periferia. Leggi tutto
In Germania, la mossa della Bce riaprirà lo scontro fra Merkel e gli anti-euro: se questi ultimi riuscissero a prevalere potrebbe essere la fine della moneta unica e forse nel modo per noi meno peggiore
Stavolta la Bce ha persino superato le aspettative dei mercati, che ipotizzavano sì alcune delle decisioni prese, ma non tutte insieme e comunque in misura minore. La sorpresa si è subito riflessa sull’andamento delle Borse, che sono partite a razzo. Ma poi, in un tempo brevissimo, i mercati “si sono girati” e quasi tutti sono andati in rosso, alcuni neppure di poco (Francoforte -2,3, Londra -1,78, Parigi -1,7). E’ vero che nel frattempo anche i mercati americani andavano giù, e si sa che questo influenza quelli europei. Ma un cambiamento di rotta così repentino e così consistente non può certo essere attribuito solo a quel fattore.
Le spiegazioni plausibili sono varie, e tra quelle di cui si è parlato la più probabile sembra quella secondo cui i mercati, dopo una fiammata iniziale di entusiasmo, pensandoci bene hanno deciso che se il bazooka era stato caricato al massimo significa che l’andamento dell’economia preoccupa assai più di quando non si fosse dato a vedere.
Le decisioni della Bce, in effetti, appaiono dettate dalla disperazione. Il QE finora ha clamorosamente fallito entrambi i suoi obiettivi principali, riportare l’inflazione verso il 2% e indebolire il cambio dell’euro. Leggi tutto
Se negli scacchi esiste il contropiede, Vladimir Putin lo pratica da gran maestro. L’annuncio del ritiro immediato delle truppe russe impegnate in Siria, a sei mesi dall’inizio della campagna contro le formazioni terroristiche e i ribelli anti-Assad e alla vigilia della terza tornata dei colloqui di pace di Ginevra, spiazza tutti proprio come tutti aveva spiazzato l’intervento militare russo.
C’è ovviamente un po’ di scenografia in tutto questo, un atteggiamento da “veni, vidi, vici” che all’inquilino del Cremlino non sarà certo dispiaciuto accentuare. Intanto l’annuncio è stato dato nel quinto anniversario della guerra civile. E poi, ecco la puntigliosa evocazione dei successi russi sul campo, affidata a un fedelissimo come Sergej Shoigu, ministro della Difesa: 2 mila foreign fighters arrivati dalla Russia neutralizzati, tra i quali 17 comandanti; 209 impianti per la lavorazione del petrolio e 2 mila camion e autobotti distrutti; 400 aree abitate e 10 mila chilometri quadrati di territorio liberati. Soprattutto Putin si attribuisce il merito di aver rovesciato le sorti della guerra.
Evidentemente ben istruito, il presidente siriano Assad si dice “pronto a iniziare il processo politico”. Ed è evidente la sorpresa sia degli americani sia delle opposizioni siriane. A loro tocca, adesso, l’onere della prova. Barack Obama dovrà mettere le redini alla Turchia (che peraltro sembra assai meno bellicosa sulla Siria di qualche tempo fa e ha grossi problemi in casa propria) e soprattutto all’Arabia Saudita, che non ha mai smesso di appoggiare i jihadisti di Jaysh al-Islam. Leggi tutto
“La Cina non potrà farsi ingabbiare in
schemi
come il
Trattato di Maastricht. Che non vanno
affatto bene per l’economia cinese”*
Pochi ci hanno fatto
caso, ma nell’annunciare le nuove misure della Bce, Draghi il
10 marzo scorso comunicava che il
tasso di inflazione atteso per il 2016 nell’eurozona passava
da +1% allo 0,1%. Da anni le previsioni della banca centrale
vengono smentiti dai
fatti, dunque è probabile che, nonostante il QE dell’anno
scorso, l’eurozona è in preda alla deflazione. Lo stesso
Draghi in
conferenza stampa faceva capire che non è attesa una fiammata
inflazionistica giacché non ci sono rivendicazioni salariali
consistenti.
Tradotto: il proletariato europeo è ben bastonato.
Draghi ha spronato i governi alla deflazione salariale e ora quasi si rammarica, come la Yellen della Federal Reserve, che i salari non aumentano. Gira e rigira, la questione è quella: quanto guadagnano i lavoratori dell’eurozona. Il rapporto capitale-lavoro, per chi pensasse che gli operai non ci siano più ci pensa Draghi a far capire che sono determinanti, a tal punto di ucciderli del tutto. Con evidenti contraccolpi, appunto la deflazione e la crisi da domanda.
Ma Draghi si è spinto oltre, invitando i governi ad una politica espansiva per spese per investimenti ad invarianza della stabilità dei conti. In pratica ha detto: fate la Salerno Reggio Calabria ma nel frattempo tagliate posti di lavoro nel settore pubblico, riducete le spese per sanità e soprattutto tagliate le pensioni. Con quel che risparmiate fate lavori pubblici e fate pagare meno tasse alle imprese con minor costo del lavoro e minor tassazione sui profitti (protezionismo fiscale). Leggi tutto
Le nuove misure espansive annunciate dalla BCE sono un implicito riconoscimento che il QE non funziona e che la politica monetaria finanzia soprattutto l’inflazione dei valori finanziari
Nella sua conferenza stampa del 10
marzo
scorso (<http://www.soldionline.it/notizie/economia-politica/diretta-discorso-draghi-bce-10marzo2016
<) il Presidente della BCE ha preannunciato una
lunga stagione di tassi di interesse negativi per le banche,
il rafforzamento del
Quantitative Easing (QE) attraverso l’aumento degli acquisti
di titoli, l’estensione della gamma dei titoli oggetto di
acquisto alle
obbligazioni non bancarie “investment grade”, l’istituzione di
nuovi T-ltro (Targeted long term refinancing operations)
miranti a
premiare le banche che fanno più prestiti a soggetti privati
per finanziare la loro domanda (sia per consumi che per
investimenti, si
immagina).
C’è da essere ammirati dalle capacità retoriche di Draghi e al contempo agghiacciati per quello che è sembrato un clima da ultima spiaggia. Difficile non leggere, nelle parole del Presidente, qualcosa che assomiglia molto al riconoscimento di un sostanziale fallimento del QE, appena mascherato dal riferimento al fatto (ovvio) che senza il QE la situazione sarebbe stata peggiore e dalla ostentata generosità verbale nelle risposte ai giornalisti.
Esistevano, in effetti, solo due alternative, dopo il riconoscimento – appena velato – che la terapia non ha sortito l’effetto desiderato:
– attribuire il fallimento al dosaggio insufficiente;
– riconoscere che le politiche monetarie sono inadeguate, quanto meno senza associarle ad un finanziamento di deficit di bilancio, vuoi di un rilanciato “bilancio federale europeo”, vuoi dei singoli stati.
Leggi tuttoGiovedì 10 marzo,
Mario Draghi è
intervenuto in modo deciso per potenziare le politiche di
Quantitative Easing (QE). Non solo ha alzato a 80 miliardi
al mese il livello degli acquisti
di titoli di stato estendo anche l’acquisto a nuovi titoli
privati per creare liquidità, ma ha anche abbassato i
tassi di interesse di
riferimento allo 0.0%. La stampa italiana ha salutato
questa manovra con entusiasmo e ha declamato le lodi e il
coraggio del governatore della Bce. Ma
si è trattato, crediamo, di un coraggio dettato dalla
disperazione
Il bilancio di due anni di QE è infatti deludente e i risultati attesi non si sono realizzati, come argomentiamo nel presente articolo. E per di più una nuvola nera si affaccia all’orizzonte: l’insofferenza crescente del potentato economico rappresentato dalle Sparkasse tedesche (e non solo) che mal sopporta la riduzione dei tassi d’interessi se questi diventano negativi. Per il sistema bancario, infatti, tassi d’interesse reali negativi implicano una drastica riduzione degli introiti dell’intermediazione bancaria, in un momento in cui lo scoppio della recente bolla mette a rischio anche le plusvalenze di natura speculativa. E’ facile prevedere un aumento di tensione all’interno del board della Bce. Le avvisaglie di una crisi finanziaria ci sono tutte e Drsghi insiste nel perseverare della sua politica e soprattutto nel metodo finora adottato. Finanziare il sistema finanziario ben sapendo che difficilmente ci saranno ricadute sull’economia reale. Errare è umano ma perseverare è diabolico.
Leggi tuttoRiceviamo dal compagno Domenico Losurdo. Lo ringraziamo per l'attenzione rivolta al nostro sito
Sulla pretesa della repubblica nordamericana di collocarsi sulle orme dell’Impero romano, conviene dare la parola a uno dei più autorevoli strateghi statunitensi:
«Nella supremazia globale dell’America è possibile scorgere in qualche modo le tracce degli antichi imperi [e in particolare di “quello romano”], benché la loro estensione fosse senz’altro più ridotta. Quegli imperi fondavano il loro potere su un ordine gerarchico costituito da vassalli, protettorati e colonie, e coloro che non vi appartenevano erano considerati barbari. Per quanto anacronistica possa sembrare, questa terminologia ben si addice ad alcuni Stati che attualmente gravitano nell’orbita americana» (Brzezinski 1998, pp. 19-20).
In conformità all’«ordine gerarchico» qui precisato, per quanto riguarda il presente, in questo mio libro si parla di Impero (e imperialismo) solo in relazione agli USA. Gli alleati europei o asiatici possono ben essere protagonisti di guerre coloniali infami, ma possono far ciò solo a condizione di non sfidare il Grande Fratello; essi esibiscono sì la loro presunta superiorità morale rispetto ai «barbari» collocati all’esterno dell’Impero, se non dei «vassalli», degli alleati subalterni degli Stati Uniti: ospitano le loro basi militari, correndo così il rischio di essere coinvolti in guerre decise sovranamente da Washington, e sono esposti alla sorveglianza e al controllo del Grande Fratello.
Leggi tuttoL’ultimo numero della rivista Limes, in edicola dal 4 febbraio, si descrivere le coordinate del “mondo di Putin”. Oltre all’editoriale di Lucio Caracciolo che fa da cappello all’intero numero, la rivista consta di tre parti. Nella prima, “Una strana solitudine”, si fa il punto sia sulla situazione interna russa sia sullo scenario che la circonda: un paese dall’economia fragile a causa delle sanzioni e della riduzione del prezzo del petrolio sul mercato internazionale, da cui è troppo dipendente, ma anche un paese molto diverso rispetto a qualche anno fa. Oggi, la Russia di Putin è un paese solo, anche se non ancora completamente isolato. La seconda e terza parte, invece, si occupano di due degli scenari in cui la Russia è più attiva: Medio Oriente e Ucraina: rispettivamente “La Russia torna in Medio Oriente” e “Ucraine ed altri esteri vicini”. Lo scenario dipinto, quindi, è ben diverso rispetto a quello di qualche anno fa, quando Putin, che incassava un successo diplomatico dopo l’altro, era acclamato “Zar di tutte le Russie”. Ad oggi sembra, piuttosto, che la gloriosa ascesa di Putin e del paese forgiato secondo i suoi schemi sia terminata. Il numero non offre un punto di vista unico sulla Russia di Putin, bensì fornisce pareri discordanti, che provengono sia da esponenti più vicini al Cremlino -Lavrov-, sia da coloro che sostengono apertamente una visione opposta -Hrojsman, presidente della Rada ucraina-. Leggi tutto
I sionisti si schierano con la guerrafondaia Hillary Clinton
Le divisioni interne al Partito repubblicano statunitense – secondo Tarpley il Partito dei fascisti – fomentate dal razzista Donald Trump, stanno mettendo a rischio l’egemonia repubblicana spingendo avanti nei sondaggi Hillary Clinton: la regina del caos.
Il clan dei Clinton – nella sua prima ascesa alla Casa Bianca, il marito Bill, ebbe fra i suoi sponsor proprio Trump – è responsabile di numerose guerre imperialiste: dalla distruzione della Jugoslavia alla destabilizzazione di Libia e Siria. Siamo i fronte ad un clan corrotto, protettore delle grandi imprese transnazionali che si arricchiscono trafficando armi e, naturalmente, strettamente legato ad Israele e Arabia Saudita. Molte cose potrebbero cambiare in peggio con l’elezione di Hillary.
Hillary Clinton: la madrina di Daesh ed Israele
Il presidente uscente, Barak Obama, ha cercato con un colpo a sorpresa di smorzare il potere di Casa Saud riconoscendo Teheran in quanto potenza regionale. Questo ha scatenato le ire, non solo delle petromonarchie, ma anche della lobby sionista, vero piede di porco israeliano all’interno della società statunitense. Leggi tutto
Molti commentatori sembrano concordare sul fatto che le banche centrali abbiano “finito le munizioni”. Ma gli rimane ancora un’arma: creare moneta e distribuirla direttamente ai cittadini
Il colossale fallimento delle politiche monetarie non convenzionali perseguite in questi anni dalle banche centrali è ormai sotto gli occhi di tutti, almeno per ciò che riguarda l’obiettivo dichiarato di riportare l’inflazione verso l’obiettivo del 2 per cento annuo. È della settimana scorsa la notizia secondo cui l’eurozona, ad un anno esatto dal varo del programma di quantitative easing della BCE, è addirittura tornata in deflazione (e non poteva essere altrimenti, data la bassa domanda, l’alta disoccupazione, i salari stagnanti e il prezzo del petrolio il calo).
Quello dell’“impotenza delle banche centrali” è ormai un argomento di dibattito diffuso. Jeremie Cohen-Setton ne ha discusso recentemente sul sito dell’istituto Bruegel. Molti commentatori sembrano concordare sul fatto che le banche centrali abbiano “finito le munizioni” e che ora tocca ai governi fare la loro parte, attuando misure di stimolo della domanda (a partire da un aumento degli investimenti pubblici, come auspicano ormai anche istituzioni tradizionalmente “austeritarie” come l’FMI e l’OCSE). Leggi tutto
Addio a Marcello De Cecco: è morto a 77 anni lo studioso della storia monetaria e finanziaria internazionale, critico della globalizzazione indiscriminata. Il suo «Money and Empire» analizzò i rapporti tra moneta e potere, senza astrattismi
L’economista Marcello De
Cecco è morto lo scorso 3 marzo, a Roma. Nato nel 1939 a
Lanciano, laureatosi in legge a Parma e
in economia a Cambridge, ha insegnato in numerosi atenei
italiani ed esteri, tra cui Norwich, Siena, la Normale di Pisa
e la Luiss di Roma. Dotato di
simpatia innata, colto e raffinato interprete della storia
della moneta e della finanza, De Cecco conquistò uno spazio
nella ricerca accademica
internazionale per i suoi contributi alla comprensione del
“gold standard”, il sistema aureo vigente fino alla prima
guerra mondiale. Il
suo Money and Empire, pubblicato nel 1974 da Basil
Blackwell, è considerato un autorevole esempio di analisi
storico-critica delle
relazioni monetarie internazionali. Il libro, basato su una
accurata disamina delle fonti documentali, rivela il radicato
scetticismo
dell’autore verso ogni tentativo di esaminare le relazioni
economiche tra paesi in base a teoremi astratti e
decontestualizzati [1].
Alla luce di questa metodologia di ricerca, De Cecco ha avanzato spesso obiezioni verso la tradizione di pensiero economico sostenitrice dei “meccanismi di aggiustamento automatico”, secondo i quali le forze spontanee del mercato dovrebbero essere in grado di garantire l’equilibrio degli scambi commerciali e finanziari tra i diversi paesi. Per gli esponenti di questa visione, il funzionamento del gold standard era assicurato dal meccanismo spontaneo secondo cui, per esempio, l’eventuale eccesso di importazioni di un paese avrebbe dato luogo a un deflusso d’oro verso l’estero tale da generare un calo di domanda interna e quindi dei prezzi nazionali, con un conseguente aumento della competitività e un riequilibrio tra import ed export. Leggi tutto
L'altro
giorno in Francia sono scese in piazza quasi mezzo milione di
persone. Si, avete capito bene, quasi 500
mila persone in piazza mentre uno sciopero generale e le
proteste degli studenti bloccavano trasporti, aziende e
scuole. Tutto questo nel
silenzio generale dei media italiani.
Un popolo in lotta, il “debutto di un movimento” come lo ha definito Le Monde, il secondo giornale di Francia, che si è scagliato contro la riforma del lavoro di Myriam El Kohmri, il ministro del Lavoro. Un intervento del Governo socialista che se dovesse essere approvato in primavera inciderà profondamente nel diritto del lavoro francese. Per il lettore italiano, tuttavia, tutto ciò risuonerà come un film già visto: le affinità con le riforme degli ultimi anni, dagli accordi di Pomigliano del 2011 fino al Jobs Act, sono sorprendenti. Chi sa che non sia per questo che i giornali di regime non danno notizia delle proteste francesi? D’altronde, se c’è un qualcosa che accomuna i paesi europei in questo momento storico, esso è stato pienamente riassunto da Myriam El-Khomri in un’intervista rilasciata al giornale Echos il 19 febbraio scorso: “L’obiettivo […] è quello di adattarsi ai bisogni delle imprese”. Leggi tutto
I momenti di svolta che hanno segnato lo sviluppo delle arti figurative e della letteratura non possono essere spiegati solo sulla base della loro dinamica storica, come tappe di un’evoluzione più o meno lineare degli eventi. Con il suo ultimo libro, L’anima e il cristallo. Alle origini dell’arte astratta (il Mulino), Stefano Poggi ricostruisce in modo inedito quelle tendenze culturali e filosofiche, in particolare nei contesti di lingua tedesca, che tra Otto e Novecento hanno segnato in modo decisivo la rivoluzione culturale europea dell’inizio del xx secolo, collocando al centro del discorso il rapporto tra creazione artistica ed esperienza mistica, nella varietà delle sue manifestazioni
Nell’ambito degli studi sull’arte
d’inizio Novecento, tanto sul versante strettamente storico
quanto su quello estetologico o filosofico, la produzione è
notoriamente
vasta. Ciononostante, il libro di Stefano Poggi, che sempre ha
percorso itinerari di ricerca inediti e accattivanti, stupisce
per
l’originalità e la profondità con cui affronta il tema delle
radici mistiche e filosofiche dell’arte astratta. Nei sei
capitoli in cui è organizzato il saggio, viene proposta una
lettura che apre scenari interpretativi innovativi, orizzonti
ermeneutici realmente
inattesi, destinati senza dubbio a gettare sulla genesi
dell’arte astratta (o, quanto meno, di alcune delle sue
tendenze principali) una luce
nuova e inaspettata.
Muovendo da una consuetudine di molti anni di studi sulla cultura tedesca otto-novecentesca, Poggi ha affrontato in modo inconsueto alcune questioni centrali nel dibattito culturale e artistico della Germania del primo ventennio del XX secolo, a partire dalla sottolineatura di come vi fosse in quel periodo una «fervida elaborazione filosofica» che, dopo aver concentrato l’attenzione sul significato e la direzione della storia, è andata caratterizzandosi per un atteggiamento sempre più «critico nei confronti dell’impianto teorico e conoscitivo dell’indagine scientifica» (pp. 7-8).
Leggi tuttoUn'unione fra Stati economicamente diversi è destinata a fallire senza massicci trasferimenti di bilancio, che i membri più forti non vogliono: l’unica possibile è quello con uno Stato minimo che detti le sole regole di mercato, che è l'Europa che già abbiamo. Bisogna puntare al ripristino dell'autonomia nazionale, il solo ambito in cui si può esercitare la democrazia, e prepararsi al crollo dell'euro
La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire. Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia.
Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.
Spiega la disaffezione quale dovuta all’incapacità dei politici di risolvere i problemi, la disoccupazione in primis, mentre tutti si riempiono la bocca del medesimo mantra delle riforme (operando delle feroci contro-riforme). Leggi tutto
Christine Delphy, femminista materialista francese, dichiarava in un famoso articolo degli anni’70, che la questione più importante era l’individuazione del nemico e, nel caso in questione, si riferiva al sistema di espropriazione e di dominazione patriarcale.
Ma, al di là dello specifico di quell’intervento, la dichiarazione è fondamentale perché senza l’individuazione del nemico e lo smascheramento di come questo agisce, le lotte diventano inutili, fuorvianti e costituiscono un notevole spreco di energie. Oltre ad avere il dannosissimo risultato, proprio per il fatto che sono fuorvianti, di demoralizzare le militanti e i militanti e allontanarle/i dall’agire politico.
Il discredito da cui ora è colpita la sinistra, infatti viene da lontano, viene dalla mancata individuazione e denuncia con fermezza e determinazione del ruolo, negli anni ’60 e ’70, del PCI e della socialdemocrazia, cosa che ha permesso l’annientamento delle lotte di quegli anni e che ha trascinato fino ad ora l’equivoco su queste entità politiche nelle svariate configurazioni che hanno assunto, permettendo il massacro del concetto stesso di sinistra, la demonizzazione del termine compagno/a per arrivare fino alle dichiarazioni che non esisterebbero più destra e sinistra e che la politica è sporca.
Ora, leggendo la chiamata per le manifestazioni contro la guerra del prossimo 12 marzo salta agli occhi la mancanza assoluta del nome, neanche pronunciato per sbaglio, degli Stati Uniti. Leggi tutto
In base alle notizie di stampa, pare che un vincitore sul campo in Libia vi sia. Il capo delle forze armate del governo di Tobruk, il generale Haftar, avrebbe posto sotto assedio Bengasi e messo alle strette le milizie islamiche che i nostri media presentano tout court come ISIS. L’iniziativa militare del pur ambiguo Haftar starebbe quindi scongiurando il pericolo di una dissoluzione della Libia.
Se la notizia è attendibile, molte delle motivazioni, sia ufficiali che mediatiche, addotte a favore dell’intervento italiano in Libia risulterebbero superate dai fatti. O no? In realtà la vera motivazione di un massiccio intervento occidentale potrebbe essere proprio quella opposta, cioè prevenire ed impedire una stabilizzazione della Libia.
Sempre in base a notizie di stampa, Haftar, oltre ad aver incassato il sostegno dell’Egitto, e quindi indirettamente della Russia, avrebbe ottenuto il favore del governo francese, che addirittura sosterrebbe le operazioni militari dello stesso Haftar con azioni di commando. Ma sarà vero? Non è che il governo francese sta salendo sul carro del probabile vincitore solo per pugnalarlo più agevolmente alla schiena?
Oltre che reparti francesi, agiscono in Libia anche formazioni statunitensi e britanniche, ed anche quelle in presunta funzione anti-ISIS. Gli Stati Uniti avrebbero effettuato anche i soliti bombardamenti contro “postazioni dello Stato Islamico”. Leggi tutto
E così alla fine non aveva torto chi, quasi tre anni fa, preconizzava che le banche centrali rischiavano di rimetterci le penne a furia di spingere sul pedale dell’allentamento monetario. Laddove rimetterci le penne, per le banche centrali, non significa fallire, visto che queste entità non possono portare i libri in tribunale, ma peggio. Significa perdere la loro credibilità. E quindi venire percepite come non risolutive, se non addirittura dannose. Con la conseguenza che i poteri pubblici, ai quali le banche centrali si iscrivono di diritto e di fatto, rischiano di perdere la loro arma migliore, per non dire l’unica che finora è stata utilizzata, in difetto di volontà di utilizzarne altre, che sarebbero troppo dolorose anche solo da confessare.
Che il timore di tre anni fa sia diventato uno dei pericoli del nostro tempo, lo deduco scorrendo una breve allocuzione di Claudio Borio, capo del dipartimento monetario della Bis, rilasciata in occasione del recente quaterly review dell’istituto di Basilea. La perdita di fiducia nell’azione delle banche centrali è una delle “tre mine vaganti” che Borio intravede lungo la sofferta strada che dovrebbe condurci – e mai condizionale fu più d’obbligo – alla ricostruzione delle economie terremotate da una crisi che sembra essere trascorsa senza aver mutato di nulla il pensiero che ha contribuito a provocarla. Leggi tutto
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Offriamo alla vostra lettura un lucido saggio che rilegge in modo spregiudicato gli ultimi cinque anni della crisi sistemica e le premesse delle prossime mosse
1. Le
vicende nel Vicino Oriente impongono di riflettere sulle
modalità e le categorie con cui cerchiamo di
interpretare la realtà.
Una di queste categorie, "caos", tra quelle che devono essere maggiormente chiarite. Di questa necessità mi sento un po' responsabile perché sono stato uno dei primi a farne uso
Questo termine viene sempre di più utilizzato per descrivere situazioni incomprensibili nei termini di una strategia razionale da parte dell'impero statunitense.
La vittoria alleata in Europa nel 1945 non ha prodotto caos. La "mission accomplished" (in Iraq) di Bush sulla portaerei Lincoln nel 2003 segnò invece l'inizio dell'impressionante caos mediorientale oggi sotto i nostri occhi. Parimenti, il rovesciamento violento di Gheddafi non ha portato a un cambio di governo favorevole all'Occidente, bensì ha gettato quello sventurato paese nel caos più orrendo. Lo stesso destino che attendeva la Siria se l'Esercito Arabo Siriano e le milizie curde, infine con l'aiuto della Russia, non si fossero eroicamente opposti all'aggressione jihadista diretta e sostenuta dagli USA e dai suoi alleati (fra cui l'Italia).
A distanza di cinque lustri, l'Afghanistan "de-talebanizzato" persiste ad essere in una situazione caotica. Leggi tutto
Sono passati oramai
quasi quarant’anni da quando Foucault con straordinaria
lungimiranza teneva il famoso seminario (Nascita
della biopolitica. 1978-79[1])
nel quale proponeva una genealogia del neoliberalismo, letto
come fenomeno epistemologico e “governamentale” emergente, ma
di sicuro
avvenire. Già dal 1973 in Francia era stato infatti
precocemente annunciato l’imminente tramonto di quell’”età
d’oro” delle politiche keynesiane, da Stato provvidenziale,
che erano invalse nei paesi capitalisti dal dopoguerra fino
appunto alla
metà degli anni ’70[2].
1. Ascesa ed apogeo
Quanto ne è seguito non ha fatto che confermare questa previsione.
Impugnato come bandiera da Reagan e dalla Thatcher, coi loro famigerati slogan “meno stato, più mercato”,”no alternative!”, il neoliberalismo si è trovato a cavalcare da conquistatore la stagione segnata dal crollo del muro di Berlino, il disfacimento dell’Urss e la conversione capitalistica della Cina. Uscita trionfante da tali prove, questa dottrina ha quindi iniziato a impiantarsi ovunque nel mondo, influenzando a suo modo le più clamorose novità intervenute tra il secondo e terzo millennio: dalla “globalizzazione dei mercati”alla “rivoluzione informatica”, dalla “finanziarizzazione dell’economia” all’ unificazione monetaria di buona parte dell’Europa, dal nuovo sviluppo di paesi già “arretrati” (i cosiddetti Bric) al progressivo approfondirsi della povertà su tutto il pianeta. E così via. Leggi tutto
Due secoli e mezzo fa,
il filosofo ginevrino J.J. Rousseau, partecipando ad un
concorso indetto dall’Accademia di
Digione, presentò il suo lavoro: Discours sur l’origine
et les fondements de l’inégalité parmi les hommes –
1755, conosciuto anche come Secondo Discorso per chi è
pratico della messa a fuoco critica dell’intera opera
dell’Autore o
Discorso sull’ineguaglianza[1]. Non vinse il concorso, aveva vinto
quello precedente in cui aveva inaspettatamente risposto
negativamente al quesito se il
progresso delle scienze e delle arti avessero apportato
benefici all’umanità, ma la sua opera rimase nei secoli lì ad
occupare in
bella solitudine lo spazio dell’indagine sull’ineguaglianza
sociale. Prima ancora che nella argomentata risposta di
Rousseau, il bello
stava già nella domanda in quanto essa stessa dava per
scontato che ci fosse una origine della diseguaglianza, che
non fosse stato sempre
così nella storia umana come i più sono oggi portati a
credere. Rimanendo attoniti davanti al fatto che a metà del
XVIII°
secolo ci fossero accademie che stanziavano borse per premiare
elaborati su tali questioni, abbiamo tenuto lì a memoria
l’indagine dello
svizzero come mappa per avventurarci, anche noi ed ancora una
volta[2], sullo stesso sentiero.
La prima cosa che abbiamo scoperto, è che le orme di Rousseau sono ancora ben leggibili, a distanza di tanto tempo, nei lavori di altri che hanno percorso la stessa incerta strada. L’opera ha quindi una sua attualità per quanto possa averla un’opera su fatti indagati a lume di ragione e quindi senza il conforto di tutto il registro paleo-antropologico, antropologico comparativo, archeologico, storico, sociologico, biologico molecolare successivamente prodotto. Leggi tutto
Come si fa a giustificare la guerra se non c’è un nemico che ci minaccia? Semplice, basta inventarlo o fabbricarlo. Ce lo insegna il generale Philip Breedlove, il capo del Comando europeo degli Stati uniti che sta per passare a un altro generale Usa il bastone di Comandante supremo alleato in Europa. Nella sua ultima audizione al Pentagono, avverte che «ad Est l’Europa ha di fronte una Russia risorgente e aggressiva, la quale pone una minaccia esistenziale a lungo termine». Capovolge in tal modo la realtà: la nuova guerra fredda in Europa, contraria agli interessi della Russia, è stata provocata col putsch di piazza Maidan dalla strategia Usa/Nato, che continua ad alimentare le tensioni per giustificare il crescente spiegamento di forze nell’Europa orientale. In Ucraina, è stato costituito un Comando congiunto multinazionale per l’addestramento «fino al 2020» delle forze armate e dei battaglioni neonazisti della Guardia nazionale, di cui si occupano centinaia di istruttori della 173a Divisione Usa trasferiti da Vicenza, affiancati da britannici e canadesi.
Il Comando europeo degli Stati uniti, sottolinea Breedlove, lavora con gli alleati per «contrastare la Russia e prepararsi al conflitto se necessario». A Sud, avverte il Comandante supremo alleato in Europa, «l’Europa ha di fronte la sfida della migrazione di massa provocata dal crollo e dalla instabilità di interi Stati, e dell’Isis che si diffonde come un cancro minacciando le nazioni europee». Leggi tutto
I writers somigliano ai tanti pittori vissuti prima del Rinascimento e di cui conosciamo la produzione ma non i nomi In qualche modo chi dipinge su un muro rifiuta l’eredità del moderno e predilige una tradizione fatta di comunità e non di singoli
Chi è Banksy? Chi è Elena Ferrante? Siamo disposti ad arrampicarci sulle più improbabili congetture pur di riuscire a dare un volto, una biografia, una foto senza trucco ai pochi artisti o scrittori che hanno scelto di negare al circo mediatico la propria persona. Non tolleriamo che qualcuno «si nasconda » dietro uno pseudonimo: e basterebbe la scelta del verbo «nascondersi» per rivelare lo spirito vagamente inquisitoriale col quale guardiamo a chi vuole parlare solo con le proprie opere. Molti che non hanno mai visto un Banksy, né letto una riga della Ferrante si sono, negli ultimi giorni, appassionati all’abilissima cronaca della caccia alla loro identità anagrafica: poterli mettere a sedere tra gli ospiti in un programma del primo pomeriggio (quando «non c’è due senza trash», come canta Fedez) sarebbe il sogno di qualunque venditore di immagine.
Intendiamoci, il culto della personalità degli artisti è un culto antico. Se è vero che esso conta tra i molti tratti che si sono esasperati e radicalizzati nel passaggio dalla «società dello spettacolo» (Guy Débord) alla totalitaria «civiltà dello spettacolo» (Mario Vargas Llosa), è anche vero che la storia dell’arte come la intendiamo oggi rinasce — dopo l’anonimato del millennio medioevale — con un’autobiografia d’artista: Leggi tutto
L’ultima fatica di
Michele Filippini, Una politica di massa. Antonio
Gramsci e la rivoluzione della società,
Carocci, Roma 2015 è un libro contenutisticamente
ricco, rigoroso sul piano della ricostruzione, pieno di
accenni teorici e rimandi
storici sempre esaustivi, come d’altronde ben testimoniato
dalla folta bibliografia. Tuttavia, non è di ricostruzione
storica che il
libro si occupa, e nemmeno di questioni post-gramsciane,
interesse che l’autore ha dimostrato in altre sedi
(Filippini, 2011; Laclau e Mouffe,
2011). Qui invece la riflessione è prettamente gramsciana,
rimanendo tesa all’esercizio esegetico del corpus del
pensatore sardo. Il
prisma attraverso cui questa interpretazione viene condotta
non è però scontato ed è in questo aspetto che il contributo
risulta
prezioso. Si tratta infatti di rileggere Gramsci alla luce
di due delle grandi novità, fra loro correlate, che
caratterizzarono la sua epoca:
l’irruzione della politica di massa e lo sviluppo delle
scienze sociali. L’opera rimane in questo senso una lettura
storica per espresso
obiettivo del libro, ma che potenzialmente fornisce spunti e
intuizioni di grande impatto strategico anche per la
politica odierna, se ripensati sulla
scorta delle circostanze attuali.
Vale la pena di soffermarsi sui due aspetti centrali per inquadrare meglio il campo all’interno del quale si muove il contributo di Filippini. La politica di massa corrisponde al trasferimento del locus della pensabilità del politico dal palazzo alla società, e più concretamente alla moltiplicazione dei corpi intermedi che mobilitano e attivano fasce crescenti di popolazione, infittendo in tal modo le trame sociali, politiche ed economiche. È una transizione di non poco conto, giacché presuppone un’uscita delle masse dalla passività che le aveva contraddistinte in epoche precedenti e che pone una sfida particolarmente delicata per il mantenimento della società borghese. Leggi tutto
Jean-Claude
Michéa ha il merito di riportare le questioni che affronta
alla radice, senza mai dissimulare il rischio
di ridurre all’osso i problemi, e anzi insistendo
sull’aperta complessità delle sue argomentazioni. Ne viene
fuori una forma di
saggismo militante che il nostro paese ha da molto tempo
accantonato per rifugiarsi in una pamphlettistica di mercato
spesso vacua quanto
politicamente innocua. Si può forse riassumere in una
duplice argomentazione il nocciolo di I misteri della
sinistra (Neri Pozza, pp.
128):
1) la crisi del progetto socialista di emancipazione si spiega attraverso l’accettazione – non solo ideologica, ma etica e comportamentale – del modello di pensiero unico imposto dalla società capitalista, in grado di attribuire alla sinistra una funzione solo fintamente contrastiva, e anzi pacificamente coesistente con le ragioni del libero mercato;
2) tale accettazione si fonda sullo sbilanciamento della sinistra verso un orizzonte di senso in cui l’elemento fondamentale non è più la collettività, ma l’individuo, colto nel suo diritto solipsistico alla libertà (e, dunque, al consumo) – individuo che la sinistra ha trasformato nell’unica ragione di mantenimento di un supposto progetto emancipativo, a scapito, come scrive Michéa, “della difesa prioritaria di coloro che vivono e lavorano in condizioni sempre più precarie e sempre più disumanizzanti”.
Non si tratta della solita lamentazione nostalgica. Il docente e filosofo francese articola le due tesi che abbiamo appena menzionato ricostruendone la ragione d’essere attraverso un’analisi ideologica delle recenti politiche socialiste in Europa. Leggi tutto
La capitale belga,
Bruxelles, è nuovamente sotto attacco terroristico. Alle
otto del mattino, un kamikaze si è fatto
esplodere all’aeroporto internazionale Zaventem, mentre,
un’ora dopo, sono scoppiati degli ordigni in metropolitana
tra le fermate di
Maelbeek e Schuman, nei pressi delle istituzioni
comunitarie. I media locali, dopo le ore 13, hanno riferito
che il bilancio è di 34
morti.1
L’attentato è stato rivendicato da Daesh, mentre – sempre a Bruxelles – pochi giorni fa è stato arrestato Salah Abdeslam, ultimo degli attentatori parigini, il quale, fra lo stupore dei servizi d’intelligence, s’era trasferito a 300 metri dalla sua precedente abitazione: “Salah è rimasto tra noi per mesi, attraversando indisturbato le frontiere”, commenta Alberto Negri con un interessante articolo scritto, a caldo, subito dopo la diffusione della notizia2.
Il giornalista de Il Sole 24 Ore, più acuto di molti altri suoi colleghi, tocca un aspetto importante della questione: “L’Europa deve rendersi conto che il terrorismo vive tra noi, che vittime e carnefici stanno gli uni accanto agli altri, che non si tratta di episodi isolati, che hanno radici profonde tra le guerre mediorientali e nei conflitti che percorrono lo stesso continente”. Nello stesso modo – aggiungo – l’Europa è fra i responsabili della catastrofe in corso. Leggi tutto
Questo post su CounterPunch lancia un atto d’accusa contro l’establishment politico americano —tanto Repubblicano quanto Democratico— che dopo avere spremuto e impoverito la classe lavoratrice e la classe media per quarant’anni, dopo avere spinto la competizione al ribasso tra lavoratori tramite gli accordi “di libero scambio” (come il NAFTA), dopo avere intrapreso ogni genere di aggressione e guerra fomentando esodi di profughi e terrorismo internazionale, ha l’ipocrisia di fingere sorpresa e preoccupazione di fronte all’avanzata di Trump, dell’esasperazione xenofoba e antipolitica. In tutto ciò, Trump è un perfetto figlio di quella ristretta classe sociale di straricchi, di quell’uno percento tutelato e coccolato per decenni dallo stesso establishment
Con tutto l’inchiostro versato su quel buffone neofascista, nonché probabile prossimo Presidente degli Stati Uniti, di Donald Trump, si è detto ben poco di sensato sulle circostanze che stanno fomentando la sua candidatura. L’America è da sempre il paese degli stravaganti ricconi bianchi razzisti e xenofobi. Talvolta li si cita perfino tra i Padri Fondatori. In tempi normali, indipendentemente da cosa ciò possa significare, le candidature di eccentrici stravaganti come Trump sono limitate dal fatto che la gente è occupata a farsi la propria vita. Ma dopo quaranta anni di eviscerazione economica della classe media e della classe lavoratrice americana, tramite un’accuratamente orchestrata competizione al ribasso con i lavoratori di oltre confine, a un ampio numero di persone non resta più una propria vita di cui continuare ad occuparsi. Leggi tutto
Edward Snowden
sintetizza nel suo tweet le opzioni disponibili nella corsa
alla presidenza della nazione più potente al mondo. Da
un lato, un miliardario populista accusato di simpatie per
il fascismo e pulsioni razziste. Dall’altro una sociopatica
militarista, che al
pari del marito ha costruito la propria carriera politica
sulla commistione con gli apparati finanziari e l’industria
militare.
In un’epoca dove l’offerta di dirigenti politici in occidente ha raggiunto livelli di mediocrità generalizzata quali non si erano mai visti, e dove leader come Putin o Xi Jimping hanno buon gioco a giganteggiare rispetto ai colleghi occidentali, la logica che necessariamente viene a prevalere in una scelta elettorale è quella del male minore, (cfr Andrew Levine “lesser-evilism logic“).
Ma anche così le cose non sono tanto più facili, perché non è poi così scontato capire qual è il male minore. Leggi tutto
Lo dicono i dati: il PIL ristagna, la crescita latita e la bolla occupazionale è scoppiata. L’illusione del Jobs Act e della decontribuzione, un mero trasferimento di risorse dal lavoro al capitale
La bolla occupazionale del Jobs Act è scoppiata, dunque, e sembra averlo fatto prima del previsto. Nulla di nuovo sotto il sole, tuttavia. Come preconizzavamo lo scorso novembre, la crescita dei contratti a tempo indeterminato nell’era Jobs Act-decontribuzione si sarebbe dimostrata nulla più che un’illusione, in particolare dopo il dimezzamento degli incentivi operato ad inizio 2016 (fino a dicembre 2015, per ogni nuovo contratto o trasformazione di altri contratti in contratti a tempo indeterminato il governo ha garantito un sconto sui contributi per le imprese di 8060 euro).
In un contesto di debolezza strutturale con un PIL stagnante – variazione del PIL su base annua dello 0,8% per il 2015 rispetto al 2,8% europeo – ed una modestissima crescita degli investimenti – 0,2% rispetto a 2,3% europeo -, non ci si sarebbe potuti aspettare gran che di diverso. Il combinato disposto Jobs Act-decontribuzione non ha in alcun modo favorito l’occupazione, ne tantomeno quella “stabile” ma ha esclusivamente coinciso con un generoso regalo alle imprese. Un nuovo tassello della lotta di classe alla rovescia, un trasferimento di risorse dal lavoro (via fiscalità generale) al capitale (sconto sui contributi alle imprese). Leggi tutto
È insopportabile la
retorica europeista che accompagna le stragi che colpiscono
le città europee, ultima Bruxelles. Il
dolore per le persone uccise del terrorismo jihadista, la
paura di esserne prima o poi vittime, vengono oramai
stravolti e sottomessi al dominio
ideologico della casa comune europea assediata.
Cento e più anni fa il nazionalismo era amministrato paese per paese, oggi viene diffuso in una dimensione continentale, ma con gli stessi scopi e non facendo meno danni.
Ricordate l'immagine della manifestazione dei governanti a Parigi, poco più di un anno fa dopo il massacro di Charlie Hebdo? Un clamoroso falso mediatico (dietro i capi di governo non c'era nessuno) che voleva mostrare che i governi europei uniti guidavano il corteo dei loro popoli.
Ma di quale Europa stiamo parlando? Di quella che ha fatto mercato dei migranti con la Turchia, organizzando la più grande deportazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale? Leggi tutto
TARATATATA TRAK-TRAK PIC-PAC-PUM-TUMBPLUFF
PLAFF FLIC FLC ZINH ZING SCIAAACKCROOOC-CRAAAC PAACK CING
BUUM CING CIAKKK CIACIACIACIACIAAK
VAMPEVAMPE VAMPEVAMPE VAMPE VAMPE...
Neanche le più scatenate onomatopee dei futuristi potrebbero riprodurre il kolossal terroristico di queste ultime ore in giro per il mondo. Scusate, questo Palazzeschi onomatopeico vi risulterà un po’ tirato per i capelli, forse anche incongruo se riferito ai macelli che il mercenariato jihadista dell’imperialismo va moltiplicando, ormai senza posa, pur di arrivare al suoi risultato –riconquiste coloniali, stati di polizia - prima che un po’ di masse se ne avvedano ed escano dalla sincope indotta dalla tecnologia smart phone e altre. Ma se ogni tanto non ci mettiamo un po’ di cultura, un po’ di memoria di quando ancora pensavamo, immaginavamo, non ci eravamo smarriti e dispersi, annegati nelle seghe mentali della “comunicazione social”, o storditi dalle pere di eroina televisiva, vuol dire che quelli hanno già vinto e il discorso è chiuso.
L’escalation è frenetica e sempre più scellerata: Costa d’Avorio, Mali, Burkina Faso, Ankara, Bruxelles, di nuovo Parigi… 14 morti, 30 morti, 90 morti, 37 morti….Quelle africane e turche sono tragedie, quelle europee, per come gli operatori della sicurezza si scoprono a recitare, svarieggiano tra la tragedia (quando qualcuno ci rimette la pelle) e la farsa (quando diventa manifesto il trucco). L’organizzazione criminale è unica e conduce, per mandato dall’alto, la lotta di classe. Ormai senza più opposizione, se non in qualche pezzo di Sud del mondo.
Leggi tuttoI. Nella
discussione attuale sugli immigrati si fa una distinzione
tra migranti economici e rifugiati politici. Solo i
rifugiati politici dovrebbero essere accolti per ragioni
umanitarie. I migranti economici dovrebbero essere messi
in prigione (come proposto dal
partito razzista olandese) o accolti a fucilate (come
proposto dal partito razzista tedesco). La distinzione tra
rifugiati politici ed economici
è falsa, ipocrita e cinica. Se le guerre creano povertà, i
rifugiati politici sono anche migranti economici. E se i
migranti economici
scappano dalla disoccupazione e dalla povertà creata dalle
guerre, i migranti economici sono anche rifugiati
politici. Tutti devono essere
accolti per ragioni umanitarie.
Gli xenofobi e razzisti nostrani se ne fregano delle ragioni umanitarie. Per loro i migranti economici dovrebbero essere respinti perché essi ruberebbero il lavoro agli Italiani. Falso. L'Italia è un paese a forte decrescita. La presenza degli immigrati è tale che se improvvisamente domani partissero, il paese andrebbe a rotoli. Senza gli immigrati, interi settori fallirebbero e molti italiani perderebbero il loro lavoro.
Ma, proseguono i beceri difensori del patrio suolo, se non ci fossero stati gli immigrati, quei lavori sarebbero andati ai lavoratori Italiani. Questo è il tipico esempio in cui si dà la colpa alla vittima. La questione è: chi ruba il lavoro agli Italiani? Non certo gli immigrati. Sono certi imprenditori che, approfittandosi della debolezza contrattuale degli immigrati, possono assumerli illegalmente o comunque a salari inferiori a quelli che dovrebbero pagare ai lavoratori Italiani. Leggi tutto
Gli analisti politici si sono a lungo interrogati sul motivo per cui in Libia è stato necessario un intervento di forza violento. I messaggi di posta elettronica di Hillary Clinton di recente pubblicazione confermano che l’obiettivo di proteggere le persone da un dittatore era del tutto secondario rispetto a questioni di soldi, di operazioni bancarie, e al problema di prevenire l’instaurarsi della sovranità economica e monetaria dell’Africa
La breve visita
dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton in Libia
nell’ottobre del 2011 veniva commentata dai media
come un “traguardo vittorioso”. “Siamo arrivati, abbiamo
visto, è morto!”, così la Clinton si gloriava in una
video-intervista alla CBS, commentando la cattura e
l’uccisione brutale del leader libico Muammar el-Gheddafi.
[N.d.tr.: Evidentemente la
Clinton scimmiottava Giulio Cesare! “Veni, vidi, vici”
(lett. Venni, vidi, vinsi) è la frase con la quale,
secondo la
tradizione, Gaio Giulio Cesare annunciava la
straordinaria vittoria riportata il 2 agosto del 47 a.C.
contro l’esercito di Farnace a Zela
nel Ponto.]
Ma il traguardo vittorioso, come hanno scritto Scott Shane e Jo Becker sul New York Times, era lungi dall’essere conseguito. La Libia veniva relegata in secondo piano dal Dipartimento di Stato , come “un paese dissolto nel caos, piombato in una guerra civile che avrebbe destabilizzato la regione, che avrebbe alimentato la crisi dei rifugiati in Europa e consentito allo Stato Islamico di stabilire in Libia un’enclave, che gli Stati Uniti ora stanno disperatamente cercando di contenere."
L’intervento degli Stati Uniti e della NATO veniva intrapreso presumibilmente per motivi umanitari, dopo voci di atrocità di massa; ma le organizzazioni per i diritti umani mettevano in discussione queste affermazioni per mancanza di prove. Comunque, è oggi che si stanno riscontrando atrocità verificabili. Come Dan Kovalik ha scritto sul Huffington Post, Leggi tutto
Nonostante sia biologicamente errato parlare di “razze” umane, nell’era post-genomica l’impiego del termine “razza” come categoria biologica applicata alla specie umana è cresciuto. Un recente articolo uscito su Science a firma di quattro studiosi statunitensi chiede a gran voce di estromettere questo concetto dalla genetica umana, invitando la comunità scientifica a riflettere con più rigore su questi temi. Al di là di importanti conseguenze socio-economiche, la questione aperta della “razza” rischia infatti di compromettere la nostra comprensione della diversità genetica umana
Nel dibattito
scientifico alcune idee fanno fatica a scomparire,
nonostante le evidenze raccolte contro di esse. Si
è convinti di averle smantellate una volta per tutte e loro
invece rientrano dalla porta di servizio, o forse non se ne
erano mai andate.
È questo il caso delle “razze” nello studio della diversità
genetica umana. Pagine e pagine sono state scritte
sull’origine, l’evoluzione, la pericolosità e l’inutilità di
questo concetto. Per limitarsi al Novecento, basti
ricordare i lavori del genetista ed evoluzionista Theodosius
Dobzhansky, sul fronte biologico, e quelli dell’antropologo
francese Claude
Lévi-Strauss, sul fronte dell’antropologia culturale. Già
nel 1942 l’antropologo Ashley Montagu l’aveva definita uno
dei miti più pericolosi elaborati dall’essere umano. Nel
1950, pochi anni dopo la fine del secondo conflitto
mondiale, la
Dichiarazione sulla razza stilata a Parigi
dall’Unesco puntava a fare ordine sulla questione, con la
consapevolezza che i confini tra
biologia, cultura e politica erano ormai indissolubilmente e
tragicamente intrecciati tra loro.
Tutto a posto allora? Stando a un articolo uscito poche settimane fa su Science sembrerebbe proprio di no[1]. Leggi tutto
Ancora una volta il Partito Democratico è al centro della scena politica per alcune vicende che ne scuotono la vita interna e che alimentano il dibattito sulla natura ed il futuro del partito: le primarie di domenica 6 marzo e l’intervista di D’Alema di cui ci occuperemo in un prossimo articolo.
A Roma la partecipazione alle primarie è stata di 44.000 elettori, numero di gran lunga inferiore a quello che incoronò Marino candidato sindaco con 104.000 voti nel 2013. Un fallimento. ‘Una città dalla pelle scorticata’ (Bersani). A Napoli numeri altrettanto scarsi ma con lo scandalo dei voti comprati e la ‘non vittoria’ di Bassolino per poche centinaia di voti. Uomini che ‘sussurravano alle tessere’. Accuse, ricorsi e contro-ricorsi. Una faida.
Delusioni, frustrazioni, richieste di regolare le primarie per legge, messa in dubbio dell’istituzione stessa. Impietosi giudizi di autorevoli commentatori politici vicini al PD come Ezio Mauro che ha parlato di anima smarrita del Pd nato proprio nell’auto mitologia delle primarie che oggi ‘vengono viste come un rito usurato e inutile, di auto-conferma di una nomenclatura minore’; Antonio Polito lamenta un PD lacerato, Massimo Franco che il PD stia cambiando meno di quanto dichiara, il patetico Veltroni che implora di non sciupare il suo PD “partito-società che fa scegliere ai cittadini e non a ristretti gruppi dirigenti i candidati ai vertici istituzionali” (sic !). Leggi tutto
Ringrazio, prima di tutto, Andrea Fumagalli per aver ripreso e articolato il discorso sul Quantitative easing fot the People che da un po’ di tempo vengo sostenendo con Marco Bertorello, con qualche intervento su il manifesto (qui e qui) e, recentemente, su il Fatto quotidiano. Lo ringrazio perché in Italia (almeno) questa idea, salvo qualche raro spunto su il Sole 24 Ore, non mi sembra abbia suscitato particolare interesse, certamente non a sinistra. Acqua sui vetri, al punto che in una tavola rotonda non proprio entusiasmante con Fassina e Paglia (Sel) sul cosiddetto Piano B dello scorso novembre a Milano, il Qe for the people che avevo ventilato come possibile alternativa alle misure di politica monetaria della Bce era stato comparato agli 80 euro di Renzi.
I dubbi di natura politica sollevati da Andrea sono certamente condivisibili, in particolare là dove si chiede se esiste in Europa la forza politica “di movimento” per orientare la svolta monetaria nella direzione di una reale redistribuzione della liquidità per ridurre le disuguaglianze e per contrastare le politiche austeritarie che stanno distruggendo i sistemi di Welfare. La proposta di Andrea di un Qe “dal basso”, che parta da realtà locali e concrete di auto-produzione e auto-organizzazione, per contrastare la versione liberista del Qe oggi predominante (cioè quella friedmaniana dell’Helicopter money a vantaggio delle imprese più che dei cittadini europei), mi sembra anch’essa condivisibile, almeno in teoria. Leggi tutto
La vicenda del “salvataggio” delle quattro banche è scandalosa da qualsiasi punto di vista la si consideri. Ai lettori di questo giornale sono noti gli errori commessi, oltre che dal management delle banche coinvolte, dalla Banca d’Italia, dall’Abi, dagli organismi di vigilanza dei mercati finanziari, dal governo italiano, ed è ormai chiaro che questi errori sono costati parecchi miliardi di euro ai risparmiatori italiani (attraverso il crollo delle azioni del comparto bancario) e la vita a uno di essi (sperando che finisca qui).
Tanti errori diversi con una radice comune: l’essersi rifiutati di ammettere la natura sistemica della crisi bancaria, cioè, in altri termini, i problemi creati dall’euro alla nostra economia e quindi alle nostre banche. A valle di questo peccato originale, puramente ideologico, ne sono poi successe di ogni: dal comportamento incomprensibile dell’Abi, che nel 2012, quando la Commissione Europea domandava se fosse opportuno dare alle persone il tempo di informarsi, replicava con piglio virile che le norme sull’esproprio andavano applicate senza indugio (al punto 9 di questo documento); alla negligenza altrettanto incomprensibile delle istituzioni italiane tutte, che non si sono minimamente poste il problema di informare i risparmiatori del cambio di regole, nonostante fossero state allertate dall’Autorità bancaria europea sugli evidenti rischi che il collocamento di certi prodotti stava creando (ma certo, se i risparmiatori avessero saputo, ricapitalizzare le banche a loro spese sarebbe stato meno facile); per finire al folklore locale (intrecci familiari, comportamenti collusivi, ecc.), sul quale non sono competente, ma che una sua rilevanza indubbiamente ce l’ha. Leggi tutto
Come di consueto, Sapir ha parole sagge sul suo blog in tema di eurocrisi. L’economista francese articola in cinque tesi i modi in cui la moneta unica sta condannando alla miseria un intero continente. Occorre al più presto riconoscere la verità: l’euro è la causa, non la soluzione dei nostri problemi. E l’unico modo di salvare l’Europa è superare questo strumento inadeguato, tornando alle flessibilità valutarie
I
problemi posti dall’euro diventano sempre più evidenti con
le mobilitazioni e le dimostrazioni di piazza in
Francia contro la cosiddetta legge “Labour”. E’ ormai
evidente che la basi economiche di questa legge sono imposte
dalla nostra
partecipazione all’eurozona. Dal momento in cui gli Stati
vengono privati della possibilità di regolare la loro
situazione economica
tramite la svalutazione (o la rivalutazione) del cambio
valutario, e in assenza di qualsivoglia sistema di
trasferimenti fiscali previsti a
priori, gli aggiustamenti possono avvenire solo
a spese del fattore lavoro. Questa è l’amara verità, che si
evidenzia sempre di più sotto forma della legge “labour”, la
cosiddetta legge El Khomri, ossia il nome del Ministro a cui
è
stato imposto di presentarla, senza avere la possibilità di
prendere parte alla sua ideazione. I problemi creati
dall’euro possono essere
esposti in 5 punti.
1. L’euro non è una moneta; non corrisponde a un singolo soggetto politico né a una volontà politica basata sulla legittimazione popolare.
L’euro è un sistema che paralizza il commercio tra paesi. E’ un regime di cambi fissi di fatto affine al gold standard. Non ammette alcuna flessibilità. Leggi tutto
A gennaio è uscito un
interessante
articolo del filosofo sloveno Slavoj Zizek sui fatti
di Colonia nella notte di Capodanno. Interessante non perché
condivisibile, ma
perché illustra bene tutti i cliché mentali di
una certa sinistra, radicale ma anti-marxista. Ci sembra
importante tornare
sull’argomento perché il testo di Zizek ha carattere
generale, parte dai fatti di Colonia per allargare lo
spettro e affrontare di petto
la questione migrante. E’ il risultato di un ragionamento di
lungo(?)periodo, e siccome Zizek è uno dei punti di
riferimento
intellettuale della sinistra di cui sopra, ha senso
rifletterci sopra.
Per Zizek i fatti di Colonia costituirebbero la rappresentazione oscena-carnevalesca dell’invidia migrante nei confronti del tenore di vita occidentale. Un tenore di vita al quale loro aspirerebbero e che, frustrati dall’impossibile raggiungimento, scatena pulsioni individuali e sociali di invidia e di odio. “L’islamo-fascismo” non sarebbe altro che la materializzazione sociale di questa invidia, di società che vorrebbero adeguarsi agli standard di vita dei paesi occidentali (o almeno competere su di un piano di parità) e non ci riescono, generando forme di reazione autoritaria, pre-moderna, religiosa, in altre parole forme aggiornate di fascismo, che altro non sarebbero che la concretizzazione politica di questo odio. Per leggere interamente il ragionamento di Zizek rimandiamo comunque alla sua versione originale e, in calce a questo articolo, alla nostra traduzione. Ne consigliamo vivamente la lettura, per comprendere la natura dei problemi e delle contraddizioni da lui sollevati. Leggi tutto
Chi riveda oggi
Traitement de choc – un vecchio polar francese del
1973 firmato da Alain Jessua e noto in Italia con il titolo
L’uomo che
uccideva a sangue freddo – non può non riconoscere, seppur
nella forma esasperata della cinematografia di genere,
almeno alcuni dei
problemi in cui ci imbattiamo quando consideriamo le
potenzialità offerte dalle tecnologie di manipolazione della
vita. Nel film la
protagonista, una non più giovanissima Annie Girardot, dopo
essere stata lasciata dal marito, decide di ricorrere alle
cure della dottor
Devilars, un medico, impersonato da Alain Delon, celebre per
aver scoperto formidabili metodi di ringiovanimento. Ospite
della clinica, la donna
inizia però a nutrire qualche sospetto sui metodi di cura,
che inizialmente sembra si basino sull’utilizzo di una
sostanza di origine
ovina, che consentirebbe di rigenerare i tessuti. Ma i
ripetuti malori dei inservienti, tutti giovanissimi africani
che parlano solo portoghese,
inducono la protagonista a indagare ancora. Fino al momento
in cui scopre – come gli spettatori hanno già intuito – che
il
misterioso componente in grado di ringiovanire viene
estratto da esseri umani, i quali però, prelievo dopo
prelievo, si indeboliscono fino a
morire. Nel tentativo disperato di mettere a tacere la
donna, il dottor Devilars – come vuole il copione di ogni
buon film d’azione
– ha la peggio. Ma qualcun altro prenderà il suo posto. E il
film si conclude così con le immagini di un furgone che
conduce verso
la clinica un nuovo carico di disperati, provenienti da
qualche sperduto Sud del mondo e destinati a rifornire di
carne viva l’inquietante
fabbrica della giovinezza.
Questo articolo potrebbe ridursi a pochissime parole: Renzi ha la maggioranza relativa dei simpatizzanti, ma la maggioranza assoluta degli odiatori. Non c’è dubbio che, fra i politici attualmente in corsa, Renzi sia quello che conta il maggior numero di simpatizzanti, magari non più il mitico 41% delle europee di due anni fa, ma, comunque, è al di là del 30%, un livello che non raggiunge nessun altro esponente politico attuale. Però è anche molto odiato da tutti gli altri.
Dai sostenitori del M5s a quelli della Lega, da quelli di Sel e Rifondazione a quelli di Forza Italia e raccoglie una nutrita schiera di antipatizzanti anche nell’area di chi non vota. Detto così potrebbe essere un’ affermazione ovvia: ogni uomo politico raccoglie il maggior numero dei suoi simpatizzanti fra gli elettori del suo partito, mentre ha più numerosi antipatizzanti fra quelli che votano per gli altri partiti.
Ma non si tratta di questo: Renzi è un caso particolare, come lo fu Berlusconi (quando ancora era vivo). Il fiorentino non suscita solo ovvi dissensi, freddezza o semplici antipatie come qualsiasi altro politico, lui accende ostilità feroci. Fra gli elettori di altri partiti, uno come Veltroni, Bersani, Franceschini può attirare antipatie, ma anche molta indifferenza, freddezza, forse anche una vaga commiserazione, mentre Renzi non risulta mai indifferente: è detestato. Neppure D’Alema è mai riuscito a riscuotere tanta avversione. Leggi tutto
The Corbett Report ci mostra come molto di quello che anche solo pochi anni fa veniva bollato e deriso come “complottismo”, oggi pian piano sta sfondando la cortina dei media ed emerge allo scoperto. Il tenebroso gruppo Bilderberg ha addirittura un suo sito web, lo ‘Stato Profondo’ delle neodemocrazie si scopre essere ben radicato anche in America (e figuriamoci nel mostro UE). Ma forse anche questa emersione non è casuale, e se da un lato può offrire una soddisfazione effimera a chi gridava nel deserto, dall’altro potrebbe avere il senso di imporre allo scoperto una verità indicibile a una società sempre più sbandata per difendersi
Si può definire in tanti modi: governo ombra, stato profondo, squadra segreta. Qualunque sia il nome, l’idea è semplice: dietro la facciata del governo apparente che esercita il potere, c’è un gruppo non eletto, privo di responsabilità, in gran parte sconosciuto, che lavora per il perseguimento di obiettivi a lungo termine, qualsiasi sia il partito politico o il fantoccio in carica.
All’interno della temuta comunità dei “teorici della cospirazione“, l’idea è emersa qua e là nel corso degli anni. L’assassinio di JFK ha dato origine a molti resoconti di tipo confidenziale e a rivelazioni su The Secret Team. Lo scandalo Iran-Contra ha portato ad un documentario di Bill Moyers sul governo segreto che dopo 19 anni vale ancora la pena guardare. E’ stato anche apertamente riconosciuto che il 9/11 era stato reso operativo un “governo ombra”. Leggi tutto
Le elezioni presidenziali americane costituiscono una di quelle circostanze nelle quali l’opinione pubblica europea non riesce a fare a meno di appassionarsi e, persino, di suggestionarsi.
Il “caso” mediatico delle attuali primarie presidenziali negli USA è rappresentato da un candidato repubblicano, il miliardario Donald Trump, speculatore immobiliare e divo televisivo, pervenuto agli onori delle cronache per le sue posizioni “islamofobe”. In base ai punti di vista, Trump viene percepito come un “pericolo” o come una “speranza”, senza peraltro preoccuparsi di sostanziare più di tanto queste percezioni.
Da un osservatorio europeo è difficile valutare se e quanto siano pilotate, o enfatizzate, le manifestazioni di giubilo o di ostilità suscitate da Trump. Si dice che dietro le manifestazioni ostili vi sia la mano di un altro miliardario, altrettanto famoso, o famigerato, George Soros. Quel che è certo, è che Soros ha dichiarato apertamente la sua avversione verso Trump, accusandolo di lavorare indirettamente per l’ISIS.
Abbiamo quindi da un parte un miliardario reazionario e, dall’altra, un miliardario “progressista” che si confrontano sull’arena mondiale, come a dire che solo un miliardario può contrastarne un altro e fare la differenza.
Nella società attuale la super-ricchezza ha assunto quasi una valenza mistica e i miliardari sono i nuovi santi. Il miliardario è una figura che emana un alone di potenza personale e di spregiudicata libertà di azione, come se i soldi non fossero la risultante degli intrecci di potere e di lobbying in cui sono coinvolti e da cui sono controllati. Leggi tutto
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Quando il 24 marzo 1976
il colpo di stato civico-militare in Argentina diviene realtà,
per molti, questo appare come l’unica soluzione
al caos nel quale verserebbe il paese. E’ il quarto colpo di
Stato in ventuno anni, dal 1955, da quella cosiddetta
“Rivoluzione
liberatrice” che le classi dirigenti e le Forze Armate
realizzano sempre con lo stesso obiettivo: cancellare dal
paese quel fenomeno complesso
che è il peronismo, che mescolano e confondono con il
marxismo. Questo continua ad avere l’egemonia
dell’identificazione delle
classi popolari che vedono nel “Giustizialismo” la fine di uno
stato escludente quando non apertamente razzista e la
costruzione di uno
stato sociale avanzato. Il nome del partito di Perón è spesso
traslato in maniera inesatta in italiano per identificare la
richiesta di
giustizia spiccia verso la partitocrazia ma non ha nulla a che
vedere con l’accezione argentina.
Sono almeno due i fattori che concorrono all’idea del caos in quell’Argentina di metà anni ‘70. Il primo è la situazione economica. In quella che fino agli anni Cinquanta è stata tra le prime dieci economie del mondo e che ancora nei primi anni Settanta vive la quasi piena occupazione, il modello dirigista instaurato tanto dal peronismo classico nel dopoguerra, come dalle forze liberal-conservatrici che al peronismo si opposero con vari colpi di stato dal 1955 in avanti, è a fine corsa. L’inflazione, per dare solo un numero, nei 12 mesi prima del golpe, è del 566%. Per chi vive di salario è drammatico ma sarà solo quindici anni dopo che il problema troverà soluzione. Leggi tutto
Dal sito Politico.eu, vale davvero la pena di riportare la traduzione integrale del lungo e dissacrante articolo (di cui abbiamo già parlato qui) in cui Robert Kennedy jr riassume agli americani ipnotizzati (e agli alleati europei) il “disgustoso” contesto storico, a partire dalla seconda guerra mondiale, in cui si inserisce la terribile guerra siriana dei nostri giorni e la creazione dell’Isis da parte della Cia, a protezione del cartello del petrolio
In parte perché mio
padre è stato assassinato da un arabo, ho fatto uno sforzo per
comprendere
l’impatto della politica degli Stati Uniti in Medio Oriente e
in particolare i fattori che motivano a volte le sanguinarie
risposte del
mondo islamico contro il nostro paese. Concentrando
l’attenzione sull’ascesa dello Stato islamico e andando alla
ricerca delle cause
originarie della barbarie che ha portato via così tante vite
innocenti a Parigi e San Bernardino, sarebbe meglio andare al
di là delle
spiegazioni di comodo sulla religione e l’ideologia. Dovremmo
invece esaminare le logiche più complesse della storia e del
petrolio
– e renderci conto che spesso esse chiamano in causa le
responsabilità del nostro paese.
Il disgustoso record americano di interventi violenti in Siria – poco conosciuto dal popolo americano ma ben noto ai siriani – ha seminato un terreno fertile per il jihadismo islamico violento che ora complica una qualsiasi risposta efficace del nostro governo per affrontare la sfida dell’ISIL. Finché l’opinione pubblica e i politici americani non si rendono consapevoli di questo passato, ulteriori interventi rischiano solo di aggravare la crisi. Questa settimana il Segretario di Stato John Kerry ha annunciato un cessate il fuoco “provvisorio” in Siria. Ma dal momento che il potere di influenza e il prestigio degli Stati Uniti in Siria sono al minimo – e il cessate il fuoco non include combattenti importanti come lo Stato islamico e al Nusra – nel migliore dei casi è destinato ad essere una tregua piuttosto precaria. Allo stesso modo, l’intensificazione da parte del presidente Obama dell’intervento militare in Libia – attacchi aerei degli Stati Uniti la scorsa settimana hanno preso di mira un campo di addestramento Stato islamico – è probabile che rafforzi, piuttosto che indebolire, gli esponenti più radicali. Leggi tutto
Un breve
articolo di Stefano Rodotà apparso recentemente sulla rivista
Micromega,1 riguardante
gli inediti scenari etici e giuridici prospettati
dall’applicazione delle nuove tecnologie al corpo umano, offre
l’occasione per alcune
considerazioni sul concetto di post-umano (o trans-umano).
«Post-umano» è un termine utilizzato per
indicare una nuova concezione dell’uomo, secondo la quale la
scienza e le sue applicazioni tecnologiche ci mettono, per la
prima volta nella
storia, nella condizione di superare i nostri limiti
biologici, compresi quelli che riguardano le capacità
cognitive. La possibilità di
integrare e potenziare l’intelligenza umana che – secondo
alcuni – sarebbe offerta dalle nuove tecnologie informatiche
e, più
in generale, dalla cosiddetta intelligenza artificiale,
rappresenta indubbiamente uno degli aspetti più rivoluzionari
del progresso
scientifico. Nelle teorizzazioni più spinte si arriva
addirittura a prevedere una “ibridazione” stabile tra esseri
umani e sistemi
artificiali, tesa a realizzare dei cyborg, dove le
capacità motorie, le capacità percettive e la stessa
intelligenza vengono
accresciute a dismisura. Si arriverebbe così a superare i
limiti imposti all’uomo dalla sua natura biologica,
proiettandoci verso
traguardi che fino a poco tempo fa sembravano essere riservati
alla narrazione fantascientifica, compresa la capacità di
collegarsi e
interagire in modo istantaneo con altre menti o di raggiungere
una sorta di immortalità registrando tutti i ricordi e le
attitudini di un
individuo su potenti chip di memoria, da innestare su sistemi
robotici appositamente costruiti.
Nell’articolo in questione, Rodotà si interroga sui rischi connessi alla creazione di sistemi dotati di un’intelligenza capace non soltanto di dar vita a «nuove simbiosi tra uomo e macchina», ma anche di arrivare un giorno a «sopraffare e sottomettere l’intelligenza umana».2 Leggi tutto
Per Aristotele il limite è il punto estremo di ogni cosa; il punto, cioè, al di là del quale c’è il nulla della cosa e al di qua del quale c’è il tutto di essa. Il limite è dunque ciò che disegna l’esserci della cosa, che fa essere la cosa ciò che essa effettivamente è, ovvero, detto diversamente ancora, ciò a partire da cui la cosa assume un suo specifico senso e una sua specifica determinazione. Se questo vale per tutti gli enti – non c’è infatti ente fuori dal limite che lo costituisce – l’animale umano appare da un lato anch’egli segnato da limiti ineliminabili (il corpo, la nascita e la morte, ma anche la necessità di nutrirsi e di respirare), dall’altro come incessantemente spinto a una sorta di guerra contro i propri limiti costitutivi, nel tentativo di spostarli sempre più in là, di trasformarli e padroneggiarli in vista di un incremento continuo di essere, della possibilità di essere di più rispetto a ciò che egli è.
In questa sfida con il limite c’è evidentemente, per l’umano, il pericolo estremo. Il tentativo di andare al di là del limite, di oltrepassarlo, di opporsi alla sua stabilità, espone infatti al rischio della perdita di sé, dell’annullamento del proprio esserci, dello svaporare del modo d’essere stesso che lo costituisce in quanto umano. Il superamento del limite proprio – del limite cioè che appartiene all’ente in quanto tale e che gli consente di essere ciò che è – è ciò che i Greci chiamarono Hybris, ovvero la tracotanza, la pretesa di essere, appunto, altro da ciò che si è, il voler infrangere il limite che ci costituisce e di modificare così, attraverso lo sfondamento dei limiti dati, lo stato delle cose stabilito dagli dei. Leggi tutto
Il blog Fawkes news riassume le recenti dichiarazioni dell’avvocato Robert Kennedy Jr – nipote dell’ex presidente USA e figlio di Robert – sulle vere cause della guerra in Siria. Lo scoppio della violenza sarebbe stata la risposta statunitense al rifiuto del governo siriano di concedere il passaggio di un importante gasdotto proveniente dai paesi del Golfo verso l’Europa; la Siria infatti, alleata di Russia e Iran, avrebbe preferito anteporre gli interessi economici di questi due paesi
L’avvocato Robert Kennedy junior, nipote dell’ex Presidente degli Stati Uniti J. F. Kennedy, ha spiegato in un articolo per la rivista Politico le vere cause della guerra in Siria.
La radice del conflitto armato in Siria nasce in gran parte dal rifiuto del Presidente siriano Bashar al-Assad di consentire il passaggio di un gasdotto dal Qatar verso l’Europa.
“La decisione americana di organizzare una campagna contro Bashar al-Assad non è iniziata a seguito delle proteste pacifiche della primavera araba del 2011, ma nel 2009, quando il Qatar ha offerto di costruire un gasdotto per dieci miliardi di euro che avrebbe dovuto attraversare Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia“. Leggi tutto
I candidati a sindaco di Roma sembrano il cast d’un disaster movie. I personaggi tipici ci sono quasi tutti: il mascellone fatuo, la donna incinta, il funzionario subdolo, l’avvocatessa figa, il trippone arrogante, lo sfigato lagnoso, l’esperto di disastri che tutti trattano da rincoglionito e al quale nessuno dà retta. Ci sono anche un paio di redshirt, e di comedy relief.
Manca solo l’eroe, quello che legato a testa in giù impara a pilotare l’aereo coi denti, che fa un trapianto di cervello con le posate di plastica del catering, che frena la frana parcheggiandoci l’aereo davanti a spina di pesce. L’eroe manca perché avrebbe rischiato di vincere, e a Roma nessuno vuole vincere, soprattutto le opposizioni, non soltanto perché la città sia già di per sè un disaster movie, ma anche perché nessuna delle opposizioni stavolta vuole battere il PD.
Nel 1994 Berlusconi è sceso in campo per curare i suoi interessi, e per lo stesso identico motivo nel 2011 s’è fatto da parte, sostenendo prima i governi tecnici, e poi Renzi. Stavolta però non ci sono soltanto le ragioni personali di Berlusconi.
Una sconfitta alle amministrative, e in particolare perdere la capitale, fiaccherebbe Renzi davanti alla vendicativa minoranza interna del PD, mettendo in crisi il governo. Renzi cadrebbe, e a qualcuno delle opposizioni potrebbe toccare di rimpiazzarlo sulla sedia di Palazzo Chigi. Leggi tutto
A Roma ci sono
due anni di buoni motivi per scendere in piazza e pretendere
democrazia: è
dal 2014, all'epoca del cosiddetto Salva-Roma, che
regna un commissariamento di fatto. Da qualche mese è
poi seguito un commissariamento di diritto, con l'insediamento
del super-prefetto
Tronca che riunisce in sé il potere del Sindaco, della Giunta
e dell’Assemblea Capitolina.
Ma le buone e sacrosante ragioni spesso non bastano, soprattutto in una fase di tale scoraggiamento e disaffezione verso la politica da parte delle maggior parte dei cittadini. Aver quindi saputo portare 15.000 persone in piazza è un dato tutt'altro che scontato, ed è merito dei movimenti romani aver risposto alle minacce di sgombero che incombono sui loro spazi provando ad allargare il fronte dell'opposizione sociale, piuttosto che arroccandosi a difesa della propria situazione particolare. La svendita del patrimonio pubblico, che mette in discussioni esperienze decennali di occupazioni che hanno spesso trasformato edifici abbandonati in luoghi di socialità e cultura, è infatti solo la scintilla di una rabbia che doveva (deve) prima o poi esplodere e prendere voce. Il Documento Unico di Programmazione varato da Tronca e prima di esso il piano di rientro di Marino, prevedono tanto altro, anche di peggio: continui tagli ai salari dei dipendenti capitolini, la privatizzazione di alcune aziende municipali, l'ulteriore riduzione dei servizi.
Leggi tuttoIn Siria
non
è andata come doveva andare. La spartizione neocoloniale del
paese è rinviata a tempi migliori. Contrordine: va interrotta
l’evacuazione forzata della popolazione civile e bisogna
promuovere il rientro, forzato, dei profughi; via dall’Europa,
compatibilmente
con le esigenze tedesche di capitale umano di qualità; i campi
di concentramento in Turchia saranno aree di transito per il
rientro in Siria,
mentre al governo turco è stato concesso di lucrare sui
profughi con finanziamenti europei. La Nato passa al piano B:
consolidare la Turchia
come avamposto dell’Occidente contro la Russia (la guerra ai
curdi siriani e irakeni, la feroce repressione della società
turca, sono
effetti collaterali da «comprendere»), spostare il focus degli
interventi militari dalla Siria alla Libia, all’intero
continente
africano. Il cambio di strategia comporta la dislocazione
nell’area libica di quello che resta dell’Isis, indebolito
dalla sconfitta
militare in Siria e da conflitti crescenti con la galassia del
jiadismo, in primo luogo con le reti di al Qaeda.
Nella notte del terrorismo tutte le vacche sono grigie, ma le semplificazioni non aiutano certo a capire quanto sta accadendo nel continente africano: un intreccio caotico di «islamizzazione della radicalità» sul retroterra delle lotte anticoloniali degli anni sessanta del Novecento e delle esperienze del nazionalismo, del socialismo, del panarabismo e del panafricanismo.
Leggi tuttoQuesto articolo, Dialogo
sopra un minimo sistema dell’economia – a proposito della
concezione di Sraffa e degli “economisti
in libris” suoi discepoli, fu messo insieme,
sistemato e redatto da Gianfranco Pala, per la rivista Marxismo
oggi, 3,
Milano 1993. La parafrasi del Dialogo
galileiano qui scelta trae spunto da una serie di
circostanze. Innanzitutto, è da
considerare in maniera un po’ sarcastica l’esagerata
importanza che, per seguir le mode, negli anni trascorsi
fu data all’opera di
Sraffa che, conseguentemente è stata qui definita come
“sistema minimo” dell’economia; all’opposto, ma forse
proprio
per quell’esagerazione pregressa, è altrettanto
ingiustificata la dimenticanza in cui essa è stata poi
gettata, tanto più
se la si compara con le “nuove” mode dell’economia
neoliberista dai “tratti demenziali”, come la
connoterebbe Brecht.
Tuttavia, l’abbandono e la successiva sedimentazione del
dibattito intorno a Sraffa può oggi costituire un
elemento vantaggioso per
riparlarne post festum (e post mortem).
In secondo luogo, per ciò che interessa maggiormente i comunisti, vi è da soppesare il ruolo, che è stato attribuito alla teoria di Sraffa e alla “sraffologia” in genere, da giocare contro il marxismo in un supponente “superamento” o “approfondimento” o “rafforzamento” o “miglioramento” di quest’ultimo; e quel ruolo, in quanto assegnato allo sraffismo nei caldi anni 1960\70 in Italia, ha da essere guardato con legittimo sospetto, in quanto l’ideologia dominante, mascherata a sinistra, cercava di accreditare così la presunta “crisi del marxismo”, epperò presentandola dal di dentro di quella che veniva suggerita come una delle possibili letture del “marxismo-senza-Marx”.
Leggi tuttoModernità, Europa, occidente usati come un’invocazione rituale senza scomodare la parola "capitalismo". Proprio il cuore della riflessione del nuovo soggetto politico
Alcuni giorni fa su questo giornale è uscita un’ampia recensione ad una nuova «Storia del marxismo». Come la quasi totalità delle storie generali del marxismo, si tratta di un’opera dedicata all’analisi di una particolare forma marxismo: il marxismo teorico. Il recensore, Roberto Finelli, è un professore di storia della filosofia con propensioni sostanzialmente teoretiche.
Ci troviamo quindi di fronte ad un insieme culturale di per sé tendente alle sfere rarefatte dell’astrazione, un insieme che dovrebbe essere adatto alla spiegazione della nostra realtà economica, politica, sociale soltanto attraverso un lungo e complicato sistema di mediazioni. Un percorso che appare comunque lontano dall’analisi del nostro quotidiano.
A ben vedere, però, nell’articolato testo Finelli si è interrogato su una prospettiva che rivendica la necessità di usare categorie come «sistemi: e a trattare della privatezza dell’esistenziale e del personale in un dialogo con lo studio della sistematica economica e sociale della nostra realtà, che non è postmoderna quanto invece ipermoderna». Leggi tutto
Avevamo scritto che SuperMario non esiste. Sono bastati alcuni giorni ed al suo posto è apparso una specie di Super Pippo rimasto senza noccioline. Il Draghi del fantasmagorico QE ha già lasciato il posto a quello della solita litania eurista, ma con qualche interessante dubbio in più. Gli espertoni poi - quegli stessi che lo avevano osannato come il Salvatore - hanno già ripreso a scrivere dei limiti della politica monetaria, che da sola non può bastare, eccetera, eccetera. Sai che scoperta! Ma anche questo lo avevamo già previsto:
«SuperMario non esiste, e la seconda revisione del Qe non potrà dare altri risultati se non quello - che per le oligarchie è però quel che conta - di prendere ancora tempo. Il grande spacciatore di Francoforte ha solo aumentato la dose di una droga dagli effimeri effetti euforizzanti. Tra non molto, vedrete, gli espertoni torneranno a parlare dei limiti dell'azione della Bce. Nel frattempo la crisi continuerà la sua azione disgregatrice dell'edificio europeo, e Mario Draghi dovrà inventarsi qualche altra trovata. Fino a quando potrà durare tutto ciò?». (Lo spacciatore di Francoforte, 11 marzo 2016)
Giovedì scorso, parlando alla sessione economica dell'ennesimo vertice europeo - quello che ha deciso di sbolognare 72mila profughi alla Turchia per la modica cifra di 40mila euro cadauno da versare ad Erdogan (grande l'Europa, grandissimi i suoi principi!) - il sig. Draghi, smessi prudentemente gli abiti del supereroe, ha chiesto ai suoi interlocutori politici tre cose. Anzi, tre cose più una, quella decisiva. Leggi tutto
Traduciamo
e pubblichiamo qui questa lettera al prof. Bagnai di Grigoriou
Panagiotis, etnologo ed antropologo greco ben noto al
popolo di Goofynomics per i suoi
interventi alle conferenze di Pescara. La crisi greca sta
arrivando al suo prevedibile epilogo, la fine della
democrazia si sta consumando nel
paese in cui è nata. Questa testimonianza ci tocca
intimamente non solo perché riguarda il popolo fratello
che si affaccia
sull’altra sponda del nostro mare, ma anche perché
drammaticamente rappresenta il nostro prossimo futuro…
Buona
lettura.
* * *
Caro Alberto,
è già da un po’ che non le ho fatto avere mie notizie, a parte quello che scrivo sul blog greek crisis, che forse segue ancora. Ahimè, abbiamo brutte notizie.
Le ho appena inviato un messaggio con un appello per la nostra campagna di finanziamento partecipativo (“crowdfunding”) per Greece Terra Incognita, che potrebbe far circolare attraverso la sua rete (ma anche, se possibile, attraverso la rete degli economisti, universitari, attori economici – potrebbero aiutare?) e anche via Facebook, è importante. Leggi tutto
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E' una questione di logica elementare fare il secondo passo in più e cercare di capire gli obiettivi dei padrini degli attentati
1. Vi ricordate Beppe
Braida e le sue notizie a Zelig sui contrattempi di
Berlusconi, che esposti in un crescendo di esagerazioni dai
vari
telegiornali finivano col TG5 che decretava immancabilmente: "Attentato!
Trattasi di attentato!"?
Il mainstream sta facendo un percorso inverso e partendo da veri, orrendi attentati dove persone reali, come me e come voi, hanno perso tragicamente la vita, in un retro-crescendo di panzane finisce per sminuire, volutamente, l'origine e il significato degli attentati di Bruxelles.
Sembra ad esempio che ci sia uno sforzo per reprimere una serie di domande del tutto naturali: Come mai mentre l'Europa sta discutendo se e come intervenire in Libia "contro l'ISIS", il suo centro nevralgico viene provocato con un sanguinoso attentato? È una coincidenza? O è fatto per impaurirci? Per dirci di non provarci? O, al contrario, per spingerci a lasciar perdere la prudenza e intervenire?
In compenso il fatto che i fratelli Bakraoui, oggi indicati come i responsabili dell'attentato all'aeroporto di Bruxelles, fossero noti ai servizi segreti ma siano lo stesso riusciti a entrare in zone sorvegliatissime senza nemmeno tentare di camuffarsi, desta la solita meraviglia e il solito stupore che vediamo in bocca agli "esperti" ad ogni attentato. Leggi tutto
La questione si potrebbe
riassumere nei seguenti termini: l'uomo sarebbe un lupo per
l'uomo, e lo stato di natura
corrisponderebbe ad uno stato di guerra permanente. La guerra
di tutti contro tutti, insomma. In questo si può riconoscere
l'antropologia
pessimista di Hobbes e la sua opera principale, il Leviatano.
In contrapposizione a questo pregiudizio troviamo la visione
irenica di un Rousseau, per
il quale, al contrario, l'uomo è naturalmente buono ma viene
corrotto dalla società.
Sembra quasi che si debba scegliere, in una linea che parte da Hobbes ed arriva a Rousseau, dove piazzare il cursore. Ma, davvero, la violenza e lo stato di guerra sono sempre esistiti? Cosa ne pensano gli archeologi e gli studiosi di preistoria, come ad esempio Marylène Patou-Mathis, la quale sull'argomento ha scritto un libro, « Préhistoire de la violence et de la guerre » (Odile Jacob 2013).
Cominciamo dal concetto di guerra, e diciamo da subito che la guerra, definita come uno stato di conflitto armato fra più gruppi politici costituiti, all'epoca dei cosiddetti "cacciatori-raccoglitori" semplicemente non esisteva! Se la definizione di "guerra" può variare a seconda dell'autore, lo spirito rimane il medesimo: è un atto di violenza che ha come sua caratteristica essenziale quella di essere metodica ed organizzata, ed è volta a costringere l'avversario ad eseguire la nostra volontà. Nel caso delle guerre cosiddette "tribali" si tratta allora di un "modo di risolvere una crisi intervenuta durante la conduzione di transazioni pacifiche, ossia come sostituto", e vanno distinte le "guerre sia difensive degli agricoltori che quelle offensive dei pastori - e quelle punitive nel nome del sovranno contro i vassalli refrattari".
Sappiamo dalle ricerche archeologiche che "nel corso del paleolitico, fra molte centinaia di ossa umane esaminate, solamente due attestano atti di violenza volontari". E sono stati perpetrati dall'uomo moderno (homo sapiens)". Leggi tutto
Riteniamo
utile
pubblicare un denso testo del compianto Costanzo Preve
pubblicato nel 2010 dall'editrice Petite Plaisance.
Il saggio comparve con questo
titolo: «Elementi
di
Politicamente Corretto. Studio preliminare su
di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro
sempre più invasivo e
importante».
Preve aveva visto giusto.
Il "politicamente corretto", nato in certa sinistra liberal nordamericana, è diventato la neolingua ufficiale, quindi prescrittiva, degli oratores (clero) e degli apologeti della modernizzazione capitalistica. Si prescrive infatti non solo come dire e nominare le cose, ma quali cose non si debbono né nominare né dire, pena la scomunica, l'interdizione dal dibattito pubblico.
Lasciamo alla lettura i nostri lettori.
* * *
1. La teoria marxiana dei modi produzione, e del modo di produzione capitalistico in particolare, è generalmente intesa in forma spaziale-topologica, e cioè con un sopra e con un sotto.
Leggi tuttoC’è poco da esultare, perché la guerra è comunque una cosa schifosa. E c’è poco da gridar vittoria, perché la battaglia per estirpare l’Isis sarà ancora lunga e sanguinosa. Ma le notizie che arrivano da Palmira, la grande città e il grande sito archeologico occupati dall’Isis un anno fa e adesso sul punto di essere liberati dall’offensiva dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa, fanno tornare alla mente tutte le volte in cui ci siamo sentiti ripetere, in questi mesi, che l’intervento militare ordinato da Vladimir Putin non avrebbe fatto che complicare le cose, allungare la guerra, favorire l’Isis.
Quanti illustri analisti americani hanno tentato di propinarci questo parere? Ho sotto gli occhi, mentre scrivo, un complesso articolo pubblicato a fine ottobre 2015 dalla Brookings Institution, intitolato appunto: “L’intervento russo in Siria: come prolungare un conflitto già senza fine”. A metà di questa “analisi” veniva anche detto che “L’Isis beneficerà del coinvolgimento russo, in particolar modo perché l’opposizione subisce una grande offensiva nei dintorni di Aleppo”. Perché come tutti sanno intorno ad Aleppo operavano non (anche) i miliziani di Al Nusra o Jaysh al-Fatah ma solo nuclei di gentlemen in ghette e bombetta. E con quanta solerzia questi pareri venivano trasferiti sui nostri organi di stampa.
Adesso, invece, i cattivi russi e siriani incalzano l’Isis a Palmira e anche a Deir Ezzor, dove 200 mila persone sono assediate da un anno dai tagliagole dell’Isis senza che nessuno strepiti o protesti per la violazione dei diritti dell’uomo. Leggi tutto
Che la lunga e tormentata guerra Jugoslava degli anni ’90 non sia andata come la narrazione mediatica prevalente l’ha riportata è ormai un dato acquisito, almeno dalla parte più ricettiva dell’opinione pubblica. E’ certo ormai che l’attribuzione del ruolo di villain della situazione al pur sanguinario Slobodan Milošević, presidente serbo dal 1989 e fautore della pulizia etnica del paese a favore dell’etnia serba, abbia peccato di faziosità: sono stati infatti fautori di disegni genocidiari paralleli e antitetici anche il presidente croato Franjo Tuđman e quello bosniaco Alija Izetbegović, con le rispettive cricche. E’ forte il sospetto di interessi politici specifici che avrebbero portato Europa e USA a individuare nella Serbia (pur sempre la legittima ex-repubblica jugoslava) la vittima predestinata della disgreagazione del Paese. Ma forse, mai come in Califfato d’Europa di Antonio Evangelista, in uscita a maggio-giugno, le ragioni sottostanti a tale caotico smembramento appaiono tanto precise, dettagliate, crudeli. L’autore possiede una competenza invidiabile in materia: comandante della Polizia Italiana in Kosovo con l’ONU tra il 2000 e il 2004, si è occupato di crimini di guerra, terrorismo, criminalità organizzata, mafie balcaniche e corruzione. Nel 2004 partecipa alla missione UE in Bosnia come Consigliere del Ministero dell’Interno e del Direttore della Polizia della Repubblica Srpska. Già autore di importanti volumi quali La Torre dei Crani (2007, Editori Riuniti), sui massacri della Guerra in Kosovo o Madrasse (2009, Editori Riuniti), sul terrorismo islamico, con particolare attenzione verso i Balcani.
Leggi tuttoIl 24 marzo ’99 i bombardamenti di Belgrado, la guerra della Nato contro la popolazione civile di un paese europeo. L’Italia era, ed è, in prima linea. C’entra qualcosa con quello che scuote l’Europa?
Il 24 marzo 1999 la NATO, con la partecipazione in prima fila del governo D’Alema, iniziava a bombardare ciò che restava della Jugoslavia per ottenere la secessione del Kosovo, con popolazione a maggioranza albanese. Fu una guerra tenuta in totale spregio del diritto internazionale, fu l’aggressione ad un paese democratico avvenuta solo per sporchi affari e logica di potenza. Sui mass media guerrafondai di allora, quasi tutti, ricorrevano le stesse parole false e bugiarde che sentiamo ogni. Si doveva difendere la civiltà europea, si dovevano fermare i nuovi Hitler, si doveva esportare la democrazia. I bombardamenti NATO uccisero 2500 persone, in gran parte civili. Alla fine il Kosovo divenne uno stato indipendente ed oggi è il centro del traffico di droga in Europa, un nodo logistico fondamentale per tutte le mafie, la sede di transito e organizzazione per gruppi jihadisti.
Ricordiamolo a tutti i fanatici attuali della guerra ed in particolare a quell’interventismo democratico ed europeista che oggi di nuova suona la sua grancassa, dal solito Blair al direttore de La Repubblica Calabresi. Leggi tutto
Il 24 marzo 1999 è una data da non dimenticare. E’ la data in cui l ‘Alleanza Atlantica, guidata dagli Stati Uniti, Bill Clinton presidente e Madeleine Albright Segretario di Stato, senza alcun mandato delle Nazioni Unite, avviava la campagna militare “Allied Force”, che, avrebbe determinato in breve tempo il completo collasso della Repubblica Federale della Jugoslavia. La lunga strada verso Damasco è cominciata da Belgrado. Questo è stato possibile perché in Europa erano al governo i socialdemocratici, comunque si chiamassero, in Germania era Cancelliere Gerhard Schroder dell’SPD, in Francia primo ministro Lionel Jospin del Partito Socialista, in Inghilterra primo ministro Tony Blair del Partito Laburista e in Italia primo ministro D’Alema, con il PdCI che faceva parte dell’esecutivo, e segretario generale della Nato era un alto dirigente del PSOE ,Javier Solana.
Il neoliberismo, per potersi realizzare, ha potuto utilizzare e ha potuto contare sulla socialdemocrazia che, diventata destra moderna, ha trasformato i partiti locali in agenzie territoriali delle multinazionali e i suoi dirigenti in funzionari delle stesse.
Ed abbiamo assistito al ritorno della guerra in Europa, sia pure in forma di aggressione unidirezionale.
Il secondo governo D’Alema fu costituito proprio per poter aderire e partecipare all’aggressione alla Jugoslavia. Furono imbarcati anche noti fascisti e il PdCI era nell’esecutivo con il suo segretario ministro della giustizia. Leggi tutto
Mi dispiace essere
disfattista, ma parlare di “misure di sicurezza” per
scongiurare futuri attentati terroristici in Europa
equivale a suggerire di sorvegliare gli ingressi delle scuole
per contrastare il traffico di droga internazionale. Una
scemenza sia sul piano logico
che su quello politico. Allo stesso modo temo che obbligare il
dibattito all’attualità – con il risibile argomento che,
essendo
assediati, saremmo perciò stesso obbligati a misure d’urgenza
– equivalga a presumere che le grandi psicopatologie che si
manifestano in età adulta non abbiano origine in un’infanzia
assai remota.
Agli analisti di queste ore, di proposte “usa-e-getta”, suggerisco dunque di tenere presente, oltre all’implicito insegnamento di Freud – secondo cui esiste un’infanzia anche simbolica dietro ogni sintomo del presente – quello di ogni elementare spirito analitico: il bubbone che sta esplodendo in Europa ha radici antiche. E solo comprendendolo nell’ampio raggio delle sue determinazioni pregresse e secolari è possibile sottoporlo a una qualche forma di cura. Ogni provvisoria e isterica terapia di tamponamento non leva linfa al suo perpetuo riprodursi e, soprattutto, al suo possibile estendersi. In altre parole, non si cura il terrorismo global-jihadista con le miserrime “misure di sicurezza” dalle parvenze di tamponi-cerotti apposti frettolosamente sul bubbone, ma interrogandosi sulle sue remote scaturigini. Leggi tutto
Antonio Pagliarone ci segnala, dopo aver letto l'intervento di Guglielmo Carchedi recentemente pubblicato qui e con cui concorda pienamente, questa critica ad Enzo Modugno sul keynesismo militare, da lui scritta nel 2004 insieme a Paolo Giussani e tuttora pienamente attuale
1. Keynes Redux ?
L’articolo di Enzo Modugno “Il prodotto interno lordo della guerra” apparso sul Manifesto del 17 marzo 2004, in cui si trova ripetuta una tesi vecchia come Noé sul rapporto fra spese militari e capitalismo, è un concentrato di luoghi comuni, tanto diffusi quanto difficili da scardinare. Sarebbe assai bello se gli scritti e le critiche servissero a spingere gli appartenenti agli ambienti dell’ultrasinistra verso l’analisi dei fenomeni e la ricerca di prove su cui basare i punti di vista. Sarebbe una gran bella cosa ma è un augurio totalmente cretino. L’ultrasinistra non è che il cascame della politica e della cultura ufficiali, il precipitato evolutivo di un passato narcisisticamente irrilevante potentemente affetto dall’inveterato vizio di costruirsi e presentare “analisi” fatte delle medesime spiegazioni offerte dal senso comune e diffuse dai media (una tempo etichettati “borghesi”) solo rivestite del solito vieppiù intollerabile linguaggio da guru.
Secondo Modugno, che ritiene di riprendere una tesi espressa nel Capitale monopolistico di Paul Sweezy, il settore militare, in particolare quello statunitense, svolgerebbe la funzione di “indispensabile sostegno al capitalismo”. Modugno in particolare asserisce che le 85.000 aziende che compongono il cosiddetto Complesso Militare Industriale USA sono “il vero motore dell’economia”. Considerando che l’economia USA è composta da circa 6,5 milioni di aziende, sembra bizzarro che di tutte queste esista uno speciale 1.3% che possa fare da sostegno e da “vero motore” al restante 98.7%. Leggi tutto
Facendosi catturare vivo nel suo quartiere a Bruxelles e decidendo di collaborare con gli inquirenti, evenienza che ha forse causato come risposta gli attentati di ieri nella capitale belga, Salah Abdeslam ha illuminato per un momento lo specchio che vede le azioni del Califfato come rovesciamento di quelle agite in Occidente. Salah non si era fatto saltare in aria come previsto, e questo lo rende un soggetto emblematico nel panorama della guerra asimmetrica, quanto feroce, che contrappone il Califfato all’Occidente: un segnale da cogliere, in questo scontro, prima ancora che di armi e propaganda, di valori contrapposti. Come in uno specchio deformante, infatti, l’immaginario del terrore si riproduce nell’opposizione alle pratiche occidentali, evidenziandone e nutrendosi al tempo stesso di tutte le sue contraddizioni.
Chissà cosa direbbero Foucault e Fanon nel vedere questi professionisti del terrore applicarne i «dispositivi» in una sorta di biopolitica rovesciata. Nata dal cuore stesso dei «dannati delle terra», essa tematizza le aporie del paradigma occidentale tanto da far rinascere come se fosse un novus assoluto, la narrazione di un mondo arcaico, la cui tradizione oscurantista si esprime però con gli stessi mezzi della modernità che avversa.
Da una parte, dunque, la biopolitica occidentale come governo dei corpi in nome della plusvalenza che si trae dalla loro nuda vita, dall’altra un credo che li utilizza come simbolo religioso, siano essi quelli dei combattenti o degli sgozzati o ancora, nel caso delle donne, semplicemente invisibili. Leggi tutto
Il giorno successivo al doppio attentato di Bruxelles, con inattesa tempestività le autorità belghe hanno reso nota l’identità dei tre terroristi sospettati di essersi fatti esplodere all’aeroporto di Zaventem e alla stazione della metropolitana di Maelbeek. Due degli attentatori sarebbero i fratelli El Bakraoui, già ricercati dalle autorità in connessione con le stragi di Parigi dello scorso novembre. Vista la manifesta incompetenza della polizia e dei servizi di sicurezza belgi, è molto probabile che in questi mesi fossero entrambi nascosti più o meno tranquillamente a Bruxelles o nei dintorni della città.
Secondo la stampa belga, infatti, Khalid El Bakraoui aveva affittato sotto falso nome un appartamento di Forest, comune alle porte della capitale, perquisito dalla polizia il 15 marzo scorso durante la caccia all’unico membro ancora in vita del commando responsabile degli attentati di Parigi, Salah Abdeslam.
Prevedibilmente, come è sempre accaduto in occasione degli attentati di questi anni attribuiti al fondamentalismo islamista in Europa e altrove, i fratelli El Bakraoui erano ben noti alle forze dell’ordine, anche se prevalentemente per avere commesso crimini comuni. Khalid era stato condannato a cinque anni di carcere nel 2011 per furto, mentre il fratello maggiore, Ibrahim, a nove anni per avere sparato sugli agenti che lo stavano inseguendo dopo una rapina. Leggi tutto
Lo scorso anno il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi ha rischiato seriamente la santificazione.
Molti commentatori, da Eugenio Scalfari a Toni Negri, hanno contribuito a questo tentativo di elevazione alla gloria degli altari, sciogliendo laudi ai “quantitative easing”, cioè agli acquisti di titoli di Stato e di titoli bancari da parte della BCE. Ciononostante il mito di Draghi continua a perdere colpi. Anche se i supporter di Draghi incalzano gli scettici mettendoli in guardia contro i nefasti demoni del nazionalismo e del “sovranismo”, si fa strada l’idea che nazionalismo e “sovranismo” non c’entrino proprio nulla e che si tratti semplicemente di buonsenso.
Il sospetto che Draghi ci stia prendendo per i fondelli è infatti basato sulla constatazione delle sue contraddizioni. Da un lato Draghi rivendica di aver fatto la propria parte per evitare la stagnazione dell’economia e dei prezzi, dall’altro lato egli persiste ad “invitare” i governi europei a fare le “riforme”, cioè provvedimenti che vanno inevitabilmente proprio nel senso della stagnazione e della deflazione. Ma le riforme non sono già state fatte? Sì, ma erano quelle riforme lì, ed invece bisogna ancora fare quelle riforme là. Le riforme non finiscono mai.
Negli ultimi tempi le critiche nei confronti del sistema euro hanno acquistato in lucidità, ed alcuni dei commentatori più incisivi non considerano più il problema euro in termini europei ma “atlantici”. Che l’euro si regga ormai esclusivamente per volere della NATO, cioè degli USA, è un’evidenza che comincia a fare proseliti. Leggi tutto
Qualcuno
ricorda il nome di Ahmad Al Mohammad, il suo viso, appena
incorniciato da una barba rada, il bel volto di ragazzo?
E Bifal Hadf, vent’anni, cappelli ricci e radi peli sul mento,
chi è? E Mohammed Al Mahmoud, faccia triste nella foto, ma
così
giovane anche lui? E ancora: chi sa qualcosa di Ibrahim
Abdeslam trentenne francese, barbetta e occhi scuri? O di
Salah Abdeslam, volto tondo, sguardo
ambiguo, di anni 26? E infine chi conosce Abdelhamid Abaaoud,
il più sbarazzino di tutti, sorridente, cappello di cotone in
testa, quasi un
rapper? Se non li ricordate: i primi tre sono quelli che si
sono fatti esplodere vicino allo stadio; degli altri tre: uno
si è fatto esplodere
a Boulevard Voltaire, uno è scappato ed è stato preso, il
terzo è stato ucciso in un blitz a St Denis. I loro nomi sono
legati
all’assalto al Bataclan, alla strage nei ristoranti, allo
stadio di Parigi. In poco tempo anche i nomi degli uomini che
spingevano il carrello
all’aeroporto di Bruxelles, quelli con il guanto, sono stati
identificati.
Perché l’hanno fatto, perché lo fanno, perché lo faranno ancora? Secondo gli studiosi del fenomeno del terrorismo suicida – di questo si tratta – non esisterebbe una teoria in grado di spiegare in maniera esaustiva le cause di queste campagne. A leggere i libri dedicati all’argomento, ad esempio quello di Francesco Marone, La politica del terrorismo suicida (Rubettino 2013), non c’è neppure unanimità nel definire il terrorismo in generale. Leggi tutto
Mentre il governo
italiano sventola ai quattro venti gli ultimi dati Istat
strombazzando che l’Italia è
finalmente fuori dalla recessione, grazie al fatto che
l’economia italiana è cresciuta nel 2015 di un misero 0,6%,
dopo un quinquennio di
contrazione del Pil, i mercati borsistici di tutto il mondo
hanno fatto registrare il peggior inizio anno della storia
finanziaria del moderno
capitalismo. Il crollo degli indici azionari delle principali
piazze borsistiche mondiali nelle prime sei settimane
dell’anno in corso è
stato nettamente il peggiore tra quelli finora registrati,
ancor più negativi di quelli fatti registrare nel 1931 e nel
2009, gli anni
immediatamente successivi alle due grandi crisi finanziarie
del 1929 e del 2008.
Tale crollo non è stato ovviamente un fulmine a ciel sereno, come qualche prezzolato commentatore vorrebbe far credere per nascondere le reali difficoltà del sistema capitalistico internazionale; infatti, i primi scricchiolii si erano già manifestati nell’estate scorsa quando la borsa di Shangai ha fatto registrare pesanti perdite anche a causa del rallentamento nella crescita della produzione cinese e dell’eccessiva crescita della bolla speculativa sui mercati finanziari della stessa Cina. L’attuale crisi finanziaria è globale e per la prima volta nella storia del capitalismo la propagazione degli effetti dello scoppio della bolla speculativa all’intero sistema internazionale è avvenuta con la velocità della luce. Ciò rappresenta un vero salto qualitativo che differenzia questa crisi di molto non solo da quella del 1929, quando gli effetti del crollo di Wall Street si propagarono sul piano internazionale soltanto nell’arco di qualche anno, ma anche rispetto a quella più recente del 2008 durante la quale i tempi di dilatazione globale degli effetti dello scoppio della bolla speculativa dei mutui sub-prime sono stati nell’ordine di alcune settimane o addirittura di mesi. Leggi tutto
ovvero
La filosofia è la ricerca razionale di un senso dell'esistenza umana. Questa caratterizzazione permette di distinguere facilmente la filosofia dalla religione e dalla scienza. La religione fornisce un senso all'umano in un contesto non razionale, tramite la fede (e il dogma), la scienza è ricerca razionale applicata ad altri problemi che quelli del senso.
La tradizione filosofica occidentale ritiene che il senso dell'esistenza emerga da una rete trascendentale di valori che viene indagata dalla razionalità filosofica. Hegel conclude la grande stagione dell'idealismo classico sostenendo che questa rete di significati si è ormai compiutamente dispiegata nella storia umana, per cui è possibile esprimerla senza timore che la storia successiva introduca nuovi significati ontologici. Se davvero esiste in Hegel la tesi sulla "fine della storia", è questo il suo senso: non fine delle vicende umane, ma fine del disvelamento di nuovi fondamentali significati ontologici.
L'ultimo importante anello di questa catena è il valore della libertà individuale, che si dispiega nel mondo occidentale a partire dalla rivoluzione politica in Francia e dalla rivoluzione economica in Inghilterra. Il problema di fondo dell'idealismo classico tedesco è quello di inserire questo nuovo fondamentale valore in una cornice che ne salvi la verità controllando le potenzialità nichilistiche in esso presenti. Leggi tutto
Una linea rossa collega gli internet café degli slum di Manila, usati spesso come reti autogestite di solidarietà e servizi, con la teoria dei cicli tecnologici dell’economista russo Nikolai Kondratieff, giustiziato dallo stalinismo nel 1938. Nel suo ultimo libro Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro (Milano: Il Saggiatore, 2016) Paul Mason batte sentieri eterodossi della storia dell’ultimo secolo per segnare la via d’uscita da un sistema economico, il capitalismo, che a suo dire “sta morendo”. La storia della sinistra e dei movimenti globali è ricostruita in un viaggio appassionante, che Mason, con la maestria di un giornalista d’inchiesta (già BBC e Channel 4), riconduce sorprendentemente alla questione tecnologica. Pochi autori sono riusciti in una sintesi del presente così robusta: seguendo la storia delle lotte e l’idea dei cicli di innovazione tecnologica di Kondratieff, Mason spiega l’attuale stagnazione come effetto del regime a costo-zero indotto dalle merci digitali e dal lavoro cognitivo.
Come incorniciare lavoro e tecnologia in un unico diagramma? La forma onda è bellissima, scrive Mason all’inizio del secondo capitolo. Il libro è ricchissimo di aneddoti storici, che sulla scorta di Kondratieff vengono appunto raccolti in quattro grandi ‘onde’ o cicli economici. Ciascun ciclo è legato a ben precise innovazioni tecnologiche e si sviluppa come un’onda, raggiunge l’apice ed entra in crisi, generando depressione e conflitti. Mason riconosce esplicitamente il lavoro come sorgente del valore economico, ma la tecnologia è qui la principale catalizzatrice dei cicli economici, che entrano in crisi quando appunto una ‘nuova’ tecnologia raggiunge il punto di massima diffusione e saturazione. Leggi tutto
Alla periferia di Lecce, in via Casavola (una strada sita in un quartiere popolare, nei pressi della strada per Monteroni), c’è una grande struttura pubblica (di proprietà dell’Acquedotto Pugliese) che, fino a tre anni fa, ospitava l’asilo nido “Angeli di Beslan”. La struttura è stata chiusa per effettuare dei lavori di manutenzione straordinaria che non sono mai iniziati con la motivazione che il comune non disponeva dei fondi necessari. Abbandonata a sé stessa, la struttura è divenuta luogo di spaccio e consumo di droghe, tanto che gli abitanti del quartiere, passata una certa ora, evitavano di avvicinarsi. Ora un comitato di cittadini (docenti universitari, medi ed elementari, studenti, lavoratori, associazioni culturali, gente comune del quartiere e di altre zone) ha deciso di occuparlo per restituire questo bene comune alla città.
Nei primi giorni di occupazione di quello che è ora diventato il Centro Sociale Terra Rossa è stato effettuato un gigantesco lavoro di pulizia e risanamento da parte di decine di volontari che non solo hanno riempito un’impressionante quantità di sacchi di spazzatura e detriti vari, ma hanno anche recuperato una serie di arredi che erano stati abbandonati all’interno, fra cui numerose culle in buono stato (per inciso, gli occupanti hanno segnalato all’amministrazione il fatto invitandola e venirsele a riprendere, senza che l’invito abbia sortito alcun effetto). Leggi tutto
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Ad estrema e brutale sintesi dello studio che
svolgemmo sull’islam in diversi momenti e più puntate (qui,
qui),
vorremmo mostrare quattro punti della sua costituzione
teorico – storico – politica, che è utile –a nostro avviso-,
conoscere. A premessa, va detto che l’islam è un
corpo di dottrine che si fonda come credo religioso ma
comporta anche disposizioni giuridiche che poi diventano
sociali e politiche e che si basa non
su una scrittura sacra com’è il caso degli altri sue
monoteismi ma divina, nel senso che le
parole contenute nel Corano
sono parola di Dio, espresse e trasmesse senza interpretazioni
terze, da Dio stesso. Dio, nel Corano, dice di aver parlato
chiaramente e quindi
esclude debba esserci qualcuno che intermedi ovvero interpreti
le sue parole, tant’è che ritiene questa Sua rivelazione,
l’ultima,
quella dopo la quale non ve ne saranno altre. Avvicinandosi
con fede e cuore aperto alla scrittura, chiunque può entrare
in contatto con la
parola di Dio, quindi con Dio stesso. Questo porta ad
escludere in via di principio vi possa essere una Chiesa
islamica che intermedia tra Dio e
fedeli per cui, ciò che è scritto nel Corano, è valido per
l’eternità e non ha declinazione storica. Detto
ciò, ci sentiamo di segnalare quattro punti critici perché
invece, una problema di interpretazione -a nostro avviso-
rimane:
Il significato e gli effetti
della teoria dell’evoluzione di Darwin per il
pensiero e la cultura occidentali sono ancora oggi spesso
poco compresi, se non fraintesi, anche da parte di affermati
filosofi e intellettuali. Il
contributo che segue intende presentare alcune delle
originali e profonde riflessioni che circa un secolo fa John
Dewey, uno dei più grandi
pensatori americani di tutti i tempi, dedicò alla questione.
L’obiettivo di Dewey era quello di mettere a fuoco in modo
ampio e lucido
l’influenza profonda esercitata dalla rivoluzione darwiniana
non solo sul nostro sguardo nei confronti del mondo vivente,
ma anche riguardo al
nostro modo di intendere le questioni etiche e politiche,
mirando a un rinnovamento radicale del pensiero filosofico
che oggi deve ancora largamente
compiersi.
* * *
Le teorie scientifiche, si sa, hanno sempre avuto un ruolo importante per il pensiero filosofico, la cultura, il senso comune. Si pensi alla rivoluzione copernicana, alla relatività einsteiniana, alla fisica quantistica. La teoria dell’evoluzione di Darwin, che attualmente costituisce il nucleo teorico fondamentale del programma scientifico evoluzionistico, ha avuto in particolare un impatto enorme non solo sulla filosofia e sul senso comune, ma anche sul pensiero etico-sociale e politico. Leggi tutto
Tra gli attentati di Parigi e Bruxelles, un atto della guerra asimmetrica tra Europa e Medio Oriente che sta attraversando il continente, la copertura mediatica europea ci rivela politiche della comunicazione tutte da leggere
Soffermiamoci
al caso per noi più diretto, quello italiano, senza omettere
però che i media europei, per
quanto militarizzati, non arrivano al iivello di comunione
mistica con i poteri costituiti come nel nostro paese. Solo in
un paese in preda ad effetto
Orwell, come lo è l'Italia, si poteva presentare l'arresto di
un presunto jihadista, gambizzato dalla polizia, come il
salvataggio di una
bambina. Infatti la bambina altri non è che la figlia del
presunto jihadista. In un mondo dove le foto di bambini sui
media vengono sgranate
per non ledere la sfera emotiva del minore, anche quando non
ce n'è bisogno, sparare a qualcuno che ha accanto a sua figlia
è "salvare
la bambina". Altro che eredi di 1984, qui siamo un piano
inarrivabile, celeste di reinvenzione del reale.
E che dire di Salah, indicato dai media globali come componente del commando degli attentati parigini? Salah è stato dato "secondo fonti ufficali", formula usata dal mainstream italiano, prima pentito del gesto, poi fuggitivo in Belgio, poi in Siria, poi semplicemente fuggitivo. Una volta arrestato in Belgio è stato dato, sempre con la stessa formula giornalistica, come pentito che rifiuta l'estradizione in Francia. Poi è stato dato come pentito che chiede, espressamente, l'estradizione in Francia. Poi come pronto a farsi saltare in aria a Bruxelles se non fosse stato scoperto. Facciamo notare che Salah, secondo fonti ufficiali, sarebbe stato coperto per mesi dall'Isis e poi addirittura inserito in un commando per un nuovo attentato. Leggi tutto
Lo si sente dire spesso, la televisione è il principale veicolo attraverso cui nuovi modelli di comportamento hanno potuto diffondersi. Giornalisti, filosofi, sociologi lo ripetono da sempre. Eppure di rado viene specificato quale sia il contenuto dei messaggi che la televisione diffonde, poco si dice circa il fine che essi realizzano, né ci si sofferma troppo sui contenitori ove tali messaggi si annidano.
Sino a poco tempo fa andava in onda un telefilm, Sex and The City, ambientato a New York e precisamente nella opulenta Manhattan dei primi anni duemila. Qui si svolge la vicenda di quattro donne legate tra loro da una solida amicizia, e il cui sodalizio è scandito da regolari incontri presso un pub della zona. In tali occasioni le amiche si scambiano pareri sugli uomini, confessandosi vicendevolmente le rispettive ed estemporanee avventure sessuali. Carrie, voce narrante del telefilm, cura una rubrica per una rivista femminile in cui vengono affrontati temi delicati come sesso e amore; poi c’è Miranda, raziocinante avvocatessa perennemente coinvolta in un burrascoso rapporto con il proprio compagno Steve, rapporto naturalmente intervallato da numerosissimi flirt; Charlotte è invece la romanticona del gruppo, che nel disilluso clima della metropoli americana ancora sogna di sposare il principe azzurro e di metter su famiglia. Il personaggio più carismatico è però Samantha, aggressiva e sarcastica donna di mezza età, dall’appetito sessuale vorace ed insaziabile tanto da vedere nella città di New York “ un immenso buffet per single ”. Leggi tutto
L'europeismo guerrafondaio spiega ai popoli del continente che per avere sicurezza bisognerà rinunciare a qualche diritto e armarsi
Samuel Johnson alla fine del 1700 affermò: Il patriottismo è l'ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi penso che il peggiore e più pericoloso dei nazionalismi sia il patriottismo europeista. Ne stanno spargendo a piene mani tutti i governi e le élites del potere europeo dopo la strage di Bruxelles. Dopo anni nei quali l'Europa era apparsa solo come il vincolo feroce che faceva sprofondare nella fame la Grecia, dopo le miserie e le infamie sui migranti, dopo i colpi a tutti i diritti sociali e alle costituzioni democratiche sferrati nel nome dell'Euro, quasi non pare vero che si possa di nuovo proclamare la santità dell'Europa.
Le stragi terroriste sono contro l'Unione Europea, proclamano i governanti. La nostra civiltà è minacciata aggiungono tutti i componenti del coro. Guai a votare contro l'Europa minaccia un ministro britannico.
La malafede di tutte queste affermazioni è però mostrata da tutte le proposte che seguono subito dietro ai proclami. Ci vuole una polizia europea, ci vogliono carceri europee, ci vuole un esercito europeo, ci vuole una guerra europea. L'escalation delle proposte europeiste va in una sola direzione, quella del ferro e del fuoco. Non c'è un solo accento autocritico verso tutte le guerre terroristiche che l'Europa ha scatenato nel mondo. Leggi tutto
Se il terrorismo islamico colpisce l’Europa al cuore, occorre rispondere rilanciando il sogno europeo, esprimendo maggiore unità e determinazione nella difesa dei valori che esprime: è questo, in sintesi, e al netto delle solite sparate xenofobe, il motivo dominante nel discorso pubblico degli ultimi giorni. C’è la consapevolezza che ci vorrà molto tempo, ma anche la convinzione che la barbarie sarà sconfitta, come è successo con il nazifascismo. Manca però il senso della realtà: il sogno europeo si è da tempo trasformato in un incubo, incapace di suscitare passioni neppure lontanamente accostabili a quelle che furono alla base della lotta di Liberazione.
Proprio in quegli anni venne scritto il celeberrimo Manifesto di Ventotene, nato dalla convinzione che la democrazia comporta l’affermazione dell’«uguaglianza di fatto», e quindi del principio per cui «le forze economiche non debbono dominare gli uomini»[1]. A questo, secondo Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, si sarebbe dovuta ispirare la costruzione europea, anche e soprattutto per costituire un argine contro le dittature fasciste, che avevano invece affossato la democrazia per salvare il capitalismo.
Se si fosse realizzata, L’Europa sognata a Ventotene avrebbe certamente emozionato per le tensioni ideali che l’avevano generata, e appassionato per il progetto politico cha avrebbe a sua volta alimentato.
Leggi tuttoIn questi giorni molte eccelse menti, non esclusa quella del premier, ci hanno ricordato i giorni in cui il terrorismo in Italia fu sconfitto e ci hanno invitato a ritrovare la stessa tempra di allora. Naturalmente la retorica non si porta appresso ragioni o tensioni reali per cui nessuno dei volonterosi discorsieri da tv si è accorto che proprio quel richiamo al passato può mettere in crisi l’enfatica e semplicistica narrazione del terrorismo di oggi. Perché ciò che abbiamo appreso da quella lunga stagione e dalle immense valanghe di documentazione giudiziaria che si sono accumulate negli anni sono proprio due cose: che attentati e stragi derivano da una lunga e oscura catena di suggeritori, detentori di interesse politico, organizzatori, fornitori, servizi segreti di cui gli esecutori materiali, non sono che un’appendice, anche quella spesso ambigua, sfuggente e difficilmente classificabile. La seconda cosa è che senza una forte opposizione politica e intellettuale i cittadini sono del tutto inermi di fronte alle balle anche più grossolane.
Se non ci fosse stato questo elemento oggi crederemmo che sono stati gli anarchici a mettere la bomba a Piazza Fontana o che nessuno davvero conoscesse il luogo di prigionia di Moro il cui rapimento e uccisione fu senz’altro operato dalle Br, ma i cui frutti furono gustati soprattutto oltre atlantico con la rinnovata esclusione del Pc dall’area di governo. Ma allora c’era in Italia un’opposizione e un’ organizzazione di pensiero che sia pure fra mille contorcimenti e cautele reclamava una verità meno semplice, sbrigativa e banale. Leggi tutto
1.
Ampiamente diffusa oggi è l’opinione che il marxismo sia morto
perché il sistema sovietico di pianificazione centralizzato
è fallito. Ma è vera, invece, l’opinione contraria. «Sono
lontani i tempi – scriveva Bensaïd nel 2009 – in cui una
stampa
sensazionalistica annunciava trionfalmente al mondo la morte
di Marx. […] Oggi il suo temuto ritorno fa scalpore.
L’edizione tedesca del
Capitale ha triplicato le vendite in un anno. In
Giappone la sua versione manga è diventata un bestseller. […]
A Wall Street ci
sono state addirittura delle manifestazioni al grido di:
“aveva ragione Marx!” (cfr., per es., Kellner, 1995, Stone,
1998 e soprattutto
Cohen, 1978 e 2000). Quest’ultimo argomenta che «il fallimento
sovietico può essere considerato un trionfo per il
marxismo».
Oggi, infatti, conosciamo un modo per liberarci del capitalismo senza violenza rivoluzionaria, in base a decisioni parlamentari, perché il lungo dibattito sulla teoria economica delle cooperative di produzione che si è avuto, a seguito di un celebre articolo di Ward del 1958, ha mostrato chiaramente che è possibile creare un sistema d’imprese gestite dai lavoratori, che è un nuovo modo di produzione nel senso di Marx e che, pur non essendo il paradiso in terra, può funzionare assai bene.
Sartre ha scritto che «il marxismo rimane insuperabile perché le circostanze che l’hanno generato non sono state ancora superate» (1960).
Leggi tuttoGli
attentati di Bruxelles hanno lasciato sul terreno i corpi di
31 persone inermi e più di 100 feriti negli ospedali. A reti
unificate, in questi giorni, ne stiamo conoscendo i volti, le
storie. Possiamo rimpiangerne i desideri spezzati,
identificarci con loro.
Altri morti di questa sporca storia non hanno avuto tanti riflettori. Nella migliore delle ipotesi, hanno dovuto accontentarsi di essere rappresentati da un numero. Molto più spesso la loro fine è stata oscurata dal buio dei nostri teleschermi. Il cordoglio e lo sdegno sono ‘privilegi’ riservati solo ai nostri morti, e vanno sapientemente amplificati, per spingerci attorno a una bandiera e motivare nuove avventure militari.
Avventure come queste: “Near Mosul, six strikes struck two separate ISIL tactical units and destroyed an ISIL assembly area, an ISIL supply cache, and three ISIL vehicles and damaged an ISIL-used bridge section and suppressed an ISIL fighting position” (19 marzo 2016).
Dovrebbe rassicurarci questa nota del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che sintetizza la cronaca di uno dei tanti attacchi aerei sull’Iraq. Rincuorarci sulla geometrica potenza, sulla precisione chirurgica della risposta occidentale al terrorismo. Se non fosse che a Mosul, occupata dal Daesh, ci abitano un milione e mezzo di persone, e che il bombardamento in questione ha ucciso, oltre a 40 combattenti jihadisti, decine di civili. Alcune fonti parlano di 25 civili morti, altre ne calcolano più di cento per l’attacco al campus universitario. I nostri media non si sono scomodati a contarli. Leggi tutto
Consideriamo una risposta positiva come un augurio di Buona Pasqua. Per tutti...
John Maynard Keynes, a proposito del governo britannico, in una lettera a Duncan Grant del 15 dicembre 1917
Ricordiamo come – stando con Braudel – le correnti della Storia fluiscano a velocità diverse: ed invece, ci troviamo a constatare come la comune esperienza porti a credere che «geografia, civiltà, razza e struttura sociale» siano un dato di fatto. Oggetti immutabili, come le leggi stesse che li governano.
I motivi sono principalmente due: il primo – come sconsolati dovettero prendere atto Marx ed Engels – è che l'ignoranza della storia è diffusissima[1] anche in gran parte delle classi più istruite; il secondo, invece, lo aveva ben chiaro Adolf Hitler: i dominati con «un cervello illuminato da alcune nozioni di storia, giungerebbe a concepire alcune idee politiche, e questo non andrebbe mai a nostro vantaggio»[2]. Leggi tutto
Il settimanale più venduto in Brasile, Veja, ripreso il 25 marzo dal Corriere della Sera, scrive che Lula avrebbe un piano segreto per non farsi arrestare: chiedere asilo politico a Roma. Pura fantasia, sostiene l’ambasciata italiana di un’ipotesi in effetti alquanto surreale. Quel che è certo, però, è che il caos che sta travolgendo il colosso del Sudamerica, nonché faro delle politiche progressiste latinoamericane, è sistemico, non semplificabile ma esplosivo. Tutti i partiti, quelli al governo come quelli dell’opposizione di destra, sembrano travolti dalla corruzione e dall’abissale crisi di una rappresentanza triviale e arrogante. Il paese è diviso e instabile come non mai. Le proteste di piazza manipolate nelle scorse settimane dalle destre chiedevano esplicitamente l’intervento militare, il partito della presidente risponde avvinghiandosi come può al potere. Eppure, forse, per la società brasiliana ci sarebbe ancora la possibilità di un’uscita dal pantano dolorosa ma diversa. Una speranza per evitare di restare inchiodati a difendere l’indifendibile. Le tendenze e le controtendenze in campo nell’analisi di Raúl Zibechi
* * *
Tra le principali caratteristiche del caos sistemico ci sono l’opacità e l’imprevidibilità degli scenari geopolitici e politici, globali e locali, frutto in gran misura delle transizioni in corso e della sovrapposizione di diversi attori che influenzano/deviano il corso degli eventi. Leggi tutto
Il rapporto del ministero del Lavoro e dell’Inps sull’uso dei voucher pubblicato oggi approfondisce parzialmente alcuni temi e questioni sollevate nel corso dei mesi sulla progressiva, e inarrestabile, diffusione di questo strumento di regolazione delle prestazioni di lavoro occasionali.
Eravamo rimasti al numero di voucher venduti nel 2015: 114.921.574. Oggi sappiamo che i lavoratori che hanno ricevuto almeno un voucher sono 1.392.906, erano 24.437 nel 2008, anno di introduzione dei voucher per alcune attività legate al settore dell’agricoltura. Poco più della metà sono donne, mentre nella distribuzione anagrafica continua l’ascesa degli under 25 interessati dal lavoro accessorio: rappresentavano poco più del 15% nel 2008, mentre a fine 2015 costituiscono il 31% dei percettori di voucher. Inoltre, l’importo medio percepito nell’anno dai più giovani voucheristi è di 554 euro contro i 700 degli over 65, che rappresentano solo il 3,9 percento dei percettori. Da questo primo dettaglio non è tuttavia possibile capire se il minor reddito dei giovani dipenda da un minore ammontare di ore lavorate per prestazioni occasionali oppure perché soggetti più frequentemente a lavoro irregolare.
Un dettaglio necessario, che purtroppo manca e rende difficile non soltanto la comprensione del fenomeno ma in un certo senso indebolisce “l’intenzione e la volontà del Governo e del ministero di combattere ogni forma di illegalità e di precarietà nel mercato del lavoro e di colpire tutti i comportamenti che sfruttano il lavoro ed alterano una corretta concorrenza tra le imprese”. Leggi tutto
È un giorno qualunque,
nell’era dei robot, e il lavoratore tipo esce di casa per
recarsi in ufficio. Le macchine, per strada, si guidano da
sole. Il traffico pure: si
dirige da sé. Lo sguardo può dunque alzarsi sopra la testa,
dove, come ogni giorno, droni consegnano prodotti e generi
alimentari di
ogni tipo – oggi, per esempio, il pranzo suggerito dal
frigorifero “intelligente”. Sul giornale – quel che ne resta –
gli articoli sono firmati da algoritmi. Giunto alla pagina
finanziaria, il nostro si abbandona a un sorriso beffardo: il
pezzo, scritto da un robot,
parla delle transazioni finanziarie compiute, in automatico,
da altri algoritmi.
Entrato in fabbrica, poi, l’ipotetico lavoratore di questo futuro (molto) prossimo si trova ancora circondato dall’automazione; per la produzione, ma anche per l’organizzazione, la manutenzione, perfino l’ideazione del prodotto: a dirci cosa piace ai clienti, del resto, sono ancora algoritmi. Quel che mi resta, pensa ora senza più sorridere, è coordinare robot, o robot che coordinano altri robot. Finché ne avranno bisogno.
Ma per quanto ancora? Per rispondere, basta tornare al presente. Nei giorni scorsi, l’intelligenza artificiale di Google chiamata ‘AlphaGo’ ha umiliato il campione Lee Sedol in uno dei giochi più complessi, astratti, e dunque tipicamente umani – così pensavamo – mai esistiti: il millenario Go.
Leggi tuttoGià dopo gli attentati a
Parigi di novembre avevamo scritto una riflessione
sull’uso strumentale dell’accusa ai jihadisti di essere come
le Brigate rosse: un parallelismo disgustoso quanto frequente,
come
testimonia l’immagine trovata su internet che apre questo
contributo, sulla quale ogni commento sarebbe superfluo. Un
parallelismo bislacco,
privo di senso, senza alcun valore non solo politico, ma anche
storiografico. Insomma, quello che a Roma si chiama «buttare
in caciara»,
un modo da un lato per chiamare alla sacra unione nazionale
contro il nemico e dall’altro per bollare come «nemica» e
«criminale» qualsiasi ipotesi di cambiamento radicale del
sistema in cui viviamo.
Dopo gli attentati di martedì a Bruxelles, politici e giornalisti italiani non hanno perso tempo per riproporre l’assurdo parallelismo. Così prima di tutti Renzi, che nella conferenza stampa ufficiale ha inizialmente elogiato le forze dell’ordine italiane che avrebbero una vasta esperienza nella lotta alle emergenze – «dalla mafia, al terrorismo, al brigatismo», come se fossero la stessa cosa – e poi si è rivolto (in un crescendo che andava dal nazismo sconfitto dai nonni alla sua generazione, a coloro che hanno studiato giurisprudenza dopo gli omicidi di alcuni magistrati per mano mafiosa) alla generazione dei suoi genitori, che «hanno avuto la prova del terrorismo e del brigatismo: durante le loro lezioni all’università si sparava». Leggi tutto
Nell’Ottobre del 2014 si
svolse ai Cantieri Culturali alla Zisa, a Palermo, un
seminario di studi che provava a
mettere a fuoco la connessione sempre più stringente fra
sofferenza psichica, disagio sociale e totalitarismo
dell’universale
capitalistico. Da quell’incontro seminale, col quale anche la
redazione di Palermograd ha provato a confrontarsi (si vedano
gli interventi di
Calogero Lo Piccolo qui e
Salvatore Cavaleri qui), è nato adesso un
volume che raccoglie i contributi, rielaborati, dei relatori
di quell’incontro. L’inutile fatica:
soggettività e
disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo, è
questo il titolo del libro pubblicato da Mimesis Edizioni
(2016) e curato
da Salvatore Cavaleri, Calogero Lo Piccolo e Giuseppe Ruvolo,
un testo che prova a impiantare, riuscendoci brillantemente,
un dialogo
transdisciplinare tra attivisti sociali, psicoterapeuti,
filosofi e psicologi.
Il punto di partenza della riflessione è dato dalla constatazione di quanto sia stata devastante l’incidenza della crisi economica, e dei dispositivi di potere del capitalismo che l’ha generata, sulla precarizzazione esistenziale delle soggettività. La nostra è l’epoca dell’ideologia competitiva e concorrenziale del mercato. Da qui scaturiscono vissuti esistenziali catturati in una rovinosa spirale depressiva imposta dalla pretesa sempre più saturante all’autosufficienza. Nella società della competizione narcisistica il desiderio, trasfigurato in incessante istanza di godimento, viene reificato e oggettivato. Leggi tutto
In questi giorni mi è capitato di partecipare a varie trasmissioni televisive sul tema Isis (ed altre ne ho viste senza parteciparvi) e, pertanto, mi è capitato di sentirne di tutti i colori, da parte di autorevoli esponenti istituzionali e pretesi esperti che hanno dato fondo a tutte le loro risorse intellettuali per fornirci un bestiario di rara ricchezza. Sarebbe un peccato disperdere tali perle di saggezza, per cui ho curato questo primo breve catalogo. I nomi degli autori li lascio perdere per una forma di caritatevole amnesia, metto fra parentesi solo data e rete in cui fu pronunciato il memorabile detto (se poi qualcuno si riconoscesse, mi dia pure querela e non avrò difficoltà a dire a chi mi riferisco in queste righe). Si badi che questo florilegio è stato composto sulla base di sole 3 trasmissioni).
1. L’isis è come le Brigate Rosse e i nostri servizi hanno una grande esperienza in materia (Rai, 23 marzo)
Le Brigate Rosse furono un episodio di terrorismo interno la cui consistenza, non superò mai il migliaio di persone nello stesso tempo quasi esclusivamente di nazionalità italiana, causarono circa un centinaio di morti, non ricorsero mai ad attentati con esplosivo e non fecero mai stragi indiscriminate; non hanno mai fatto attentati suicidi, non ebbero mai un territorio su cui esercitare una sovranità di fatto; ebbero una limitatissima conoscenza dei meccanismi della guerra psicologica; si finanziarono essenzialmente con rapine e sequestri di persona, non fecero mai operazioni finanziarie ed ebbero un bilancio complessivo probabilmente interiore ai 2 miliardi di lire del tempo equivalenti a meno di 20 milioni di dollari attuali; ebbero una caratterizzazione ideologica marxista.
Leggi tuttoEsce oggi in libreria “La battaglia contro l’Europa” di Thomas Fazi (collaboratore di Eunews, per il quale la rubrica Oneuro) e Guido Iodice (coautore di Keynes blog). Il libro è anche acquistabile, scontato, online nei principali store, tra cui: Amazon (anche in formato e-book Kindle), IBS, Feltrinelli (anche come e-book EPUB). Qui di seguito un estratto dal libro
Molti hanno sostenuto che la vicenda greca avrebbe palesato l’“irriformabilità” dell’Unione Europea e/o dell’unione monetaria. Ci pare una semplificazione eccessiva. Pensare che la soluzione sia farla finita con quel sistema per tornare a un sistema di Stati nazionali in competizione tra loro, senza nemmeno la parvenza di un’“unione” o di una “comunità”, vuol dire non aver colto la lezione greca. Detto questo, è evidente che qualunque progetto di riforma dell’UE e/o dell’unione monetaria – anche qualora si determinassero le condizioni politiche, oggi assenti, per avviare un conflitto interno all’eurozona – è destinato inevitabilmente a scontrarsi con l’intransigenza del blocco ordoliberale. Abbiamo visto nelle pagine precedenti come negli ultimi anni sia emerso in seno all’eurozona un “partito transnazionale” a guida tedesca, economicamente , politicamente e culturalmente molto omogeneo (una sorta di “supereuro”). Abbiamo visto anche come la Germania, dallo scoppio della crisi in poi, abbia capitanato una ristrutturazione radicale dell’eurozona all’insegna dell’austerità e del neomercantilismo estremo, ostacolando l’introduzione di qualunque elemento di flessibilità nella politica economica europea. Leggi tutto
Con la condanna per genocidio di Karadzic si chiude, in un certo senso, il ciclo giudiziario che ha interpretato sotto il profilo storico i fatti della guerra in Bosnia. Con una verità che è parziale. La verità è che le forze serbo bosniache entrarono in una città dichiarata zona smilitarizzata e protetta da forze ONU olandesi, separarono dal resto della popolazione tutti gli uomini fra i 14 ed i 78 anni, e li passarono per le armi. Mentre crimini collaterali, in particolare stupri e rapine, furono commessi dai paramilitari di Arkan, non di rado avanzi di galera scarcerati e spediti in Bosnia.
E la verità è che tale orrore, deciso dai vertici politici e militari della Repubblica Srpska, non fu impedito o sanzionato dal Governo di Belgrado, che d’altra parte armava e finanziava le forze serbo-bosniache (anche trasferendovi reparti speciali della Jna) e dalla Chiesa serbo ortodossa, che peraltro aveva premiato Karadzic come “difensore” della causa cristiana. Il resto è discutibile e parziale. E’ discutibile anche l’accusa di genocidio. Se si vuole sterminare una intera popolazione, perché uccidere solo gli uomini in età da combattimento, e non le donne ed i bambini?
Ed è parziale. E’ parziale in primo luogo la ricostruzione storica dell’esplosione della Jugoslavia. I nazionalismi che presero il proscenio della politica jugoslava negli anni Ottanta furono la conseguenza di tanti fattori che crebbero nel declino economico, sociale e ideale del Paese. Fattori cui non furono estranee le cancellerie occidentali, ansiose di scardinare il comunismo iniziando dal ventre molle jugoslavo, e, nel caso franco-tedesco, di impadronirsi di aree di influenza economica nelle Repubbliche e Province autonome “ricche” e con tradizione industriale (Slovenia, Croazia, Vojvodina). Leggi tutto
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"Democratizzazione
o Barbarie” è l’alternativa posta in questo incisivo intervento,
che appare in
inglese su LeftEast. George Souvlis studia
per il PhD in Storia presso l’Istituto Universitario
Europeo di Firenze e scrive
per varie testate di sinistra (Jacobin, ROAR,
Enthemata Avgis); Samuele Mazzolini (MA in Latin
American Studies ad Oxford) ha
lavorato come consulente per il governo dell’Ecuador,
scrive tuttora per il quotidiano di quel paese El
Telégrafo e studia
Ideology and Discourse Analysis presso la University of
Essex.
* * *
Caro Yanis,
abbiamo deciso di scriverti dopo aver seguito attentamente il lancio di DiEM 25 a Roma, il 23 marzo. Questa nostra lettera si propone di discutere una serie di aspetti della tua iniziativa che abbiamo trovato poco convincenti, facendone una critica costruttiva. Chiariamo subito perciò che il nostro obiettivo non è né di bocciare a priori il progetto né di fare i saputelli che sanno meglio di chiunque altro com’è che vanno fatte le cose (atteggiamento non del tutto sconosciuto all'universo della sinistra). Desideriamo piuttosto formulare pubblicamente alcune domande che - sospettiamo – sono già venute in mente a molti e intorno alle quali si è già discusso in modo informale: domande che possano fungere da scintille per una correzione in meglio dell'iniziativa in oggetto. Leggi tutto
«La vittoria del SÌ al referendum del 17 aprile potrebbe dare una spallata ad un castello di bugie e mostrare che la strada verso la democrazia energetica, verso una promozione sostenibile dei talenti sani dei nostri territori è segnata e che non si torna più indietro», Sbilanciamoci.info, newsletter 467, 31 marzo 2016
Pensavo
fosse incompetenza o mancanza di visione. Fresca di laurea,
folgorata sulla via dell’energia come
“madre di tutte le battaglie” da combattere (contro le crisi
internazionali, i ricatti dei potenti detentori delle risorse,
contro le
crisi sociale, ambientale e poi anche economica), ero
ingegneristicamente innamorata dell’idea che sole, vento,
biomassa, maree e calore della
Terra, assieme alle intelligenti evoluzioni della tecnologia,
avrebbero mostrato di lì a poco la via per costruire una nuova
“democrazia
energetica” e, ingenuamente, pensavo il freno fosse causato
“solo” dalla manifesta incapacità strategica di un apparato
politico/burocratico stanco, cinico e clientelare.
E invece sbagliavo di grosso. La strategia esiste. Esiste e appare dettata da un potere apartitico (evidente se si analizza l’assoluta continuità nelle scelte fossili degli ultimi 4 governi, dalla destra di Berlusconi/Romani, ai tecnici Monti/Passera, passando per la “sinistra” di Letta/Zanonato, fino al governo del partito della “nazione” di Renzi/Guidi, il più fossile di tutti) gestito attraverso schiere di azzeccagarbugli che usano la normativa contro i cittadini, contro la partecipazione, contro le migliori idee ed energie del Paese.
L’ascolto è riservato esclusivamente ai soliti noti, per i quali un varco nel ginepraio della burocrazia si riesce sempre ad aprire (le autostrade, gli inceneritori, il cemento, le trivelle dello “sbloccaItalia” ne sono la manifestazione plastica). Leggi tutto
Ormai da un paio d’anni molti osservatori si stanno ponendo una semplice domanda: le politiche monetarie stanno concorrendo all’aumento della disuguaglianza? Poiché tale risposta non è accettabile provenga dal senso comune, che pure lascia immaginare di sì, è interessante leggere un’analisi svolta da alcuni studiosi della Bis e pubblicata nell’ultima quaterly review (“Wealth inequality and monetary policy”) che contribuisce a contornare meglio il problema, pure se con i limiti di una simulazione astratta dalla realtà che, come diceva un celebre matematico, è assai difficile possa essere contenuta nello spazio angusto di una pagina.
Il presupposto dell’osservazione è che il trend all’aumento della disuguaglianza, ossia alla concentrazione della ricchezza in un fascia ristretta della popolazione, prosegue ormai da un trentennio per ragioni che sono state ampiamente discusse e che non rileva riepilogare qui. Assai più utile osservare il grafico proposto dagli economisti della Bis che considera quattro grandi economie in un arco di tempo che parte dal 1810 e arriva al 2010, quindi due secoli. La tendenza comune a queste economie, che sono Francia, Svezia, UK e Usa, è quella di una crescita della diseguaglianza lungo tutto il XIX secolo, anche se con picchi differenti, per poi assistere a un retrocessione che comincia con la prima guerra mondiale e prosegue fino a tutto il trentennio del secondo dopoguerra, quando la diseguaglianza ha ripreso ad aumentare. Leggi tutto
C’era una volta il Fatto quotidiano. Le cronache narrano di un giornale di opposizione che colpiva duro nel gran ballo in maschera del berlusconismo e non aveva paura o timori di sapore political correct nell’appoggiare le opposizioni, nel fiancheggiare la “ribellione” dei Cinque stelle o di schierarsi contro l’informazione paludata. Insomma sembrava un giornale libero fino a che il campo nel quale giocava era delimitato dalla legalità e dal buon senso. Poi Berlusconi è caduto, l’Europa ha fatto cadere la maschera rivelando la sua natura oligarchica, la crisi ha via via devastato lo stato sociale, i problemi posti dall’euro e dalle tesi liberiste hanno spostato la partita dal campetto provinciale dell’antiberlusconismo al discorso di sistema. E qui si sono scoperti i limiti dell’opposizione del giornale che appoggia il sistema globale, ma tuona contro la sua gestione italiota, mormora a mezza bocca contro l’Europa, si fa incerto e umbratile sull’euro e diventa ubbidiente quando si tratta della geopolitica di Washington.
Così accade che i direttori, non potendo esercitare su Giulietto Chiesa la censura vellutata di solito esercitata sull’armata di blogger che lavorano per lo più gratuitamente alla parte più letta e interessante del giornale, hanno deciso di replicare duramente agli interrogativi posti da Chiesa, ma anche da tantissimi altri su questo pianeta, sugli attentati di Bruxelles e di Parigi, accusandolo con toni violenti di fare del volgare complottismo. Insomma hanno ancora una volta usato una di quelle parolette magiche, delle quali fa parte anche “populismo” opportunamente svuotate del significato originario per diventare contenitori adatti a qualunque circostanza. Leggi tutto
Dopo gli ultimi attentati di Bruxelles «La Stampa» sceglie di intervistare due singolari esperti.
Il primo, Alan Dershowitz, è professore di diritto a Harvard, un difensore di crimini di guerra secondo cui i massacri israeliani di civili palestinesi nelle ultime guerre a Gaza sono legittimi perché a Gaza la categoria di “popolazione civile”, uno dei pilastri del diritto internazionale, non è applicabile. Nella sua intervista con La Stampa sui fatti di Bruxelles Dershowitz prima si dichiara contro la tortura, poi sostiene che in casi estremi i governi europei dovrebbero approvare leggi speciali e consentire l’uso della tortura durante gli interrogatori.
Il secondo esperto intervistato dal quotidiano torinese è Mordechai Kedar, ex-membro dei servizi d’intelligence dell’esercito israeliano e professore di letteratura araba alla Bar-Ilan University. Mordechai è anche il fondatore di Israel Academia Monitor, un gruppo reazionario che monitora gli accademici israeliani che esprimono punti di vista dissidenti chiedendone il licenziamento.
Nella sua intervista con La Stampa sugli attacchi di Bruxelles Kedar propone di rispondere con una singolare rivalorizzazione etico-culturale europea: «Qui c’è un problema tutto vostro, un problema di valori e di cultura. Ad esempio, le donne europee dovrebbero tornare a fare le mogli e le mamme, e i governi nazionali e sovranazionali devono aiutare a fare figli, a crescere demograficamente, a rompere questa dipendenza dall’immigrazione». Leggi tutto
Nel suo libro, "Dall'Eternità
a qui" (edizioni Adelphi), Sean M. Carroll discute
sulla peculiare natura
dell'universo così come viene vista secondo la
prospettiva della Scuola
di Copenaghen. Tale peculiare natura, può esere
descritta per mezzo di quattro caratteristiche della materia,
su scala quantica:
1 - La materia
si comporta sia come una particella discreta che come un'onda
meno discreta.
2 - La materia,
ogni volta che si cerca di osservarla, vale a dire quando si
interagisce con essa,
cambia improvvisamente dal comportamento di onda a quello di
particella
3 - Il passaggio
istantaneo dal comportamento di onda a quello di particella è:
a) irriducibilmente
casuale: vale a dire, possiamo prevedere il suo risultato
finale, in
anticipo, solo approssimativamente
b) irreversibile:
vale a dire, non possiamo
conoscere lo stato precedente della particella; la nostra
interazione con una particella distrugge in maniera
irrimediabile le informazioni relative
al suo stato precedente.
4 - Nel momento in cui proviamo a misurare il processo, c'è un livello irriducibile di incertezza
Nella fisica classica, lo sviluppo di un processo può essere spiegato per mezzo di un insieme di regole basate sulle leggi fisiche di Newton; ma nel mondo naturale descritto dalla meccanica quantistica lo sviluppo di un processo appare essere governato da due insiemi di leggi fisiche del tutto differenti, che Carroll spiega così: Leggi tutto
Introduzione a Cultura pubblicitaria e berlusconismo. Le origini dell’egemonia della tv commerciale e il suo declino all’epoca dei social media” di Federico Repetto (prefazione di Roberto Trinchero, edizioni Aracne, 2015)
1.
L’oggetto della ricerca
Il saggio è un tentativo di ricostruire la genesi della neotelevisione (la televisione multicanale a colori che trasmette 24 su 24, pagata in tutto, o in buona parte – nel caso della Rai – dalla pubblicità) e il suo ruolo nella formazione dei bambini e dei ragazzi come futuri cittadini, nella convinzione che, in seguito al suo sviluppo, negli anni ottanta si sia delineata una nuova configurazione relativamente stabile della cultura italiana, distinta da quella precedente degli anni sessanta-settanta. È da qui che sarà possibile alla fine della ricerca porsi degli interrogativi anche sul nostro prossimo futuro, nel momento in cui la nostra cultura conosce nuove importanti trasformazioni.
La ricerca non pretende di essere libera da giudizi di valore: nessuna ricerca storica a mio avviso lo è. Sono i valori che determinano le domande che lo storico pone ai fatti irriducibilmente molteplici e multidimensionali della storia. In questo caso le domande riguardavano il livello di realizzazione, nelle condizioni determinate dallo sviluppo dei nuovi media, di alcuni fondamentali valori contenuti nella prima parte della nostra Costituzione, e in particolare dell’impegno della Repubblica a promuovere eguali possibilità di partecipazione alla vita pubblica per tutti i cittadini. Leggi tutto
Dans la main droite de Dieu. Psychanalyse du fanatisme, di Gérard Haddad, parla di quanto accade da qualche tempo a questa parte – sempre più di frequente – nel mondo moderno: il risorgere del fanatismo. Il libro si divide in due parti.
La prima parte del libro s'intitola “Le leggi del fanatismo” e descrive il fenomeno di massa: il fanatismo come soggetto collettivo. Oggi il turno è stato preso dai fanatici millenaristi, che non sono solo islamici. In altre epoche si è trattato di altre forme: pulizie etniche, purghe staliniste, stragi perpetrate nell'indifferenza e negate – come quella degli Armeni – fascismi – quello italiano è l'avanguardia – fino al nazismo, progetto eugenetico di sterminio di disabili e pazienti psichiatrici. Infine il progetto di produzione dello sterminio di massa degli ebrei, la Shoah.
Il progetto dei fanatici millenaristi contemporanei consiste nello sterminio di chiunque non concepisca la fede come un progetto di sterminio generalizzato, una sorta di circolarità dello sterminio. A prima vista, il fanatismo è una lotta fratricida totale: ebrei, cristiani, laici, islamici. Il suo teorema è la distruzione dell'umanità. In questa lotta contro gli infedeli, ci sarà sempre qualcuno più fedele che ucciderà l'altro, in un processo infinito: il fratricidio appunto.
Per questa ragione, sostiene Haddad: “Il fanatico isolato è un fenomeno psichiatrico, l'appartenenza a un gruppo gli permette di accedere a una dignità superiore, quella di avere un ruolo politico, ovvero di influire sulla storia”. Leggi tutto
«Il nemico oscuro che si nasconde negli angoli bui della terra» (come lo definì nel 2001 il presidente Bush) continua a mietere vittime, le ultime a Bruxelles e a Lahore. È il terrorismo, un «nemico differente da quello finora affrontato», che si rivelò in mondovisione l’11 settembre con l’immagine apocalittica delle Torri che crollavano. Per eliminarlo, è ancora in corso quella che Bush definì «la colossale lotta del Bene contro il Male». Ma ogni volta che si taglia una testa dell’Idra del terrore, se ne formano altre.
Che dobbiamo fare? Anzitutto non credere a ciò che ci hanno raccontato per quasi quindici anni. A partire dalla versione ufficiale dell’11 settembre, crollata sotto il peso delle prove tecnico-scientifiche, che Washington, non riuscendo a confutare, liquida come «complottismo».
I maggiori attacchi terroristici in Occidente hanno tre connotati. Primo, la puntualità. L’attacco dell’11 settembre avviene nel momento in cui gli Usa hanno già deciso (come riportava il New York Times il 31 agosto 2001) di spostare in Asia il centro focale della loro strategia per contrastare il riavvicinamento tra Russia e Cina: nemmeno un mese dopo, il 7 ottobre 2001, con la motivazione di dare la caccia a Osama bin Laden mandante dell’11 settembre, gli Usa iniziano la guerra in Afghanistan, la prima di una nuova escalation bellica. L’attacco terroristico a Bruxelles avviene quando Usa e Nato si preparano a occupare la Libia, con la motivazione di eliminare l’Isis che minaccia l’Europa. Leggi tutto
Nella Costituzione della Repubblica Italiana ci sarebbe un articolo incostituzionale. Si tratta del “nuovo” articolo 81 che, in seguito alla riforma del 2012, ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio, vincolo imposto dagli impegni firmati in sede europea. Vladimiro Giacché, economista formatosi alla Normale di Pisa e in Germania, apre il suo pamphlet Costituzione italiana contro trattati europei: Il conflitto inevitabile (Imprimatur edizioni, 2015) con una dedica al partigiano Fra’ Diavolo, nome di battaglia di Luigi Fiori, venuto a mancare nel maggio del 2015, dal quale l’anno precedente aveva ricevuto in dono una copia della Carta fondamentale della nostra Repubblica. Una copia che però era priva del nuovo articolo 81. “Non c’è, perché quell’articolo non fa parte della nostra Costituzione”, affermava il novantaquattrenne.
Da tale spunto scaturisce una riflessione sull’idea di società che informa la Costituzione italiana e quella che invece soggiace ai trattati europei, da quello di Maastricht a quello di Lisbona. Vladimiro Giacché giunge a concluderne la sostanziale incompatibilità dei principi, come già enuncia il sottotitolo del saggio. Infatti, se la Costituzione Italiana presuppone un modello di “capitalismo interventista“, in cui lo Stato si impegna a garantire ai suoi cittadini il diritto al lavoro e quello ad una remunerazione adeguata e dignitosa – rimuovendo “gli ostacoli di ordine economico e sociale”, come recita il terzo articolo – i trattati europei sono intrisi di un’impostazione liberista che tende a legare le mani agli Stati membri, ma finanche alla Banca Centrale Europea, che avrebbe solamente il compito di tenere bassa l’inflazione. Leggi tutto
Stimolati dai più recenti avvenimenti, che riportano tragicamente al centro dell’attenzione il complesso rapporto fra religione, ideologia, società e politica, ritorniamo sul rapporto fra filosofia marxista e religione cristiana. Dopo aver affrontato in precedenti articoli la questione nel giovane Marx richiamiamo ora l’attenzione sui suoi significativi sviluppi nella riflessione filosofica sul cristianesimo di Ernst Bloch
Che la visione del mondo
mitologico-religiosa continui a segnare, anche in modo
eminentemente tragico, la vita sociale e
politica a livello internazionale, credo sia sotto gli occhi
di tutti. Per quanto possano essere sovradeterminati,
inconsapevolmente, da interessi
più profondi di carattere strutturale, ossia
socio-economico, per quanto possano essere strumentalizzati da
dinamiche geopolitiche,
è indiscutibile che dei giovani che si immolano
“volontariamente”, uccidendo degli altri esseri umani per i
quali non nutrono un
odio specifico, non possono che farlo sul fondamento di
credenze di carattere religioso. Per altro, come è altrettanto
noto, la destra
nei paesi a capitalismo avanzato, tende a giustificare la
guerra imperialista (co-responsabile di questa micidiale
spirale fatta di colonialismo e poi
imperialismo neocolonialista-terrorismo-guerra di civiltà)
proprio richiamandosi ai valori della tradizione cristiana.
Come abbiamo visto la stessa dialettica politica nazionale e la questione decisiva dei diritti civili continuano a essere ostaggio di un pesantissimo retaggio mitologico-religioso, che spesso costituisce uno dei principali argini alla soluzione non solo sul piano universale della ragione di tali problematiche, ma anche sul piano del diritto formale. Leggi tutto
Dopo
l’ennesima «strage di innocenti» perpetrata a Pasqua dai
talebani nel nome del noto Dio Misericordioso, Giuliano
Ferrara ha
sbottato contro il Santo Padre della cristianità, reo di
aver definito «insensata» quella carneficina.
L’insensatezza
attribuita dal Papa Progressista all’eccidio di Pasqua in
Pakistan è la sola cosa che suona insensata alle capaci
orecchie del
giornalista di sicuro spessore e di eccezionale peso. E
non a torto, a mio più che modesto avviso. Scrive Ferrara:
«Se le dichiarazioni
rivolte da Francesco diventano una regola di prudenza
legata allo spirito inter-religioso del dialogo allora
vuol dire che non si vuole ammettere che
la persecuzione dei cristiani nel mondo è opera del
risveglio del fondamentalismo» (Il Foglio). Diventa così
chiaro che è a
partire da una ben diversa prospettiva che chi scrive
giudica l’attacco terroristico a Lahore perfettamente
sensato, ossia inscritto in una
logica comprensibile perché organica alla dimensione del
Dominio che sperimentiamo a qualsiasi latitudine di questo
pessimo (disumano) mondo.
Provo a spiegarlo con il breve scritto che segue.
* * *
1. «Quel giovane di origine magrebina prima era una persona normale: lavorava, beveva, fumava, aveva una ragazza, insomma conduceva una vita in tutto simile alla nostra. Poi, improvvisamente, si è radicalizzato». Leggi tutto
Economista marxiana, mai dogmatica e sempre innovativa. Teorica e militante contro lo sfruttamento e l’oppressione. Un ricordo della studiosa a un anno dalla scomparsa
È passato un anno dalla scomparsa di Suzanne de Brunhoff. Gli ultimi anni di malattia la hanno isolata, ma ha contribuito una personalità rigorosa che rifuggiva le novità e le mode: forse per questo gli unici ricordi pubblici sinora sono stati un bell’ hommage di Catherine Samary sul sito di Attac (https://france.attac.org/actus-et-medias/le-flux/article/hommage-a-suzanne-de-brunhoff), e un mio obituary comparso sulla Newsletter della Royal Economic Society nel gennaio di quest’anno.
Suzanne de Brunhoff è stata quell’esemplare raro di economista marxiano che non è mai dogmatico, sempre innovativo. Si potrebbe applicare a lei ciò che Rosa Luxemburg scrive in conclusione dell’Anticritica: “Il marxismo è una dottrina rivoluzionaria che lotta per sempre nuove conquiste della conoscenza, che da nulla aborre più che dalle formule valide una volta per tutte, che mantiene viva la sua forza nel clangore delle armi incrociate dell’autocritica e nei fulmini e tuoni della storia.” Come la Luxemburg, de Brunhoff è stata per tutta la vita sia una teorica che una combattente contro lo sfruttamento e l’oppressione. Nella sua riflessione ha mantenuto fermi i pilastri portanti della critica dell’economia politica: la teoria del valore-lavoro; la centralità della lotta di classe; la critica incessante del capitalismo. Leggi tutto
Provo un senso di vero fastidio – tanto che spengo la tv dopo venti secondi del discorso con cui il piatto ma volonteroso Massimo Giannini dà inizio a Ballarò – a vedere e a sentire il modo in cui i nostri mezzi di informazione si occupano di fatti di cronaca, che, mentre da un lato vengono ingigantiti fino ad invadere tutta l’informazione, paradossalmente dall’altro hanno significati e rilevanze che vanno ben al di là di quello che si vuol far credere.
La ricerca ossessiva dei media, anche dei giornali a grande tiratura on line, è quella di farci vedere le immagini vere, i filmati delle telecamere di sicurezza, le urla della gente spaventata, i lamenti e i pianti di chi giustamente si lamenta e piange, ma che forse preferirebbe farlo da solo. Interi telegiornali vengono dedicati alla riproduzione il più “realistica” possibile dei fatti di sangue, meglio se visibile, di cui si deve pur dar conto.
Se invece riuscissimo a pensare un po’ più “in grande” agli avvenimenti che in questa fase storica sconvolgono alcune nazioni sì e altre no, magari potremmo cominciare un’analisi realistica, questa sì, delle cause passate e presenti, che sono cominciate tempo fa e che continuano imperterrite a dar luogo a fatti che tutti consideriamo gravi, in quanto comportano la perdita di numerose vite, per lo più innocenti.
L’analisi realistica, di cui naturalmente non sono certo io capace, potrebbe però almeno fare degli elenchi di fatti, sempre passati e presenti, che rendono assolutamente ovvi, quasi necessari, questi sviluppi. Leggi tutto
Il tg di Rainews24 ha per una giornata intera comunicato agli italiani una clamorosa bufala: con lo storico concerto concerto del 25 marzo gli Stones sono “la prima band a rompere il divieto per la musica straniera a Cuba”. La stessa solfa pare sia stata ripetuta anche dal TG1 e non escludo che altri abbiano fatto lo stesso.
C’è da chiedersi come possa accadere che tra i titoli di un tg finisca una corbelleria del genere.
Tutti sanno che a Cuba c’è persino statua dedicata a John Lennon, inaugurata anni fa da Fidel Castro in persona e persino i più distratti dovrebbero aver saputo che a Cuba suona da anni un sacco di gente da tutto il mondo e che il “divieto nei confronti della musica straniera” è una pura invenzione.
Innumerevoli sono i musicisti italiani che hanno suonato nel corso degli anni a Cuba e ne cito solo qualcuno a memoria.
Non pretendo che questi giornalisti ricordino che gli Area di Demetrio Stratos suonarono a Cuba nel 1978 o che il Banco del Mutuo Soccorso nel 1982 fece una tour su invito del governo:
O che Pino Daniele partecipò al Festival di Varadero del 1983: “L’Avana è un posto indimenticabile, mi ricorda insieme Palermo e Napoli”.
Leggi tutto
Hits 1013
Hits 957
Hits 951
Hits 932
Hits 910
Hits 887
Hits 829
Hits 789
Hits 769
Hits 763
Hits 756
Hits 699
Hits 686
Hits 685
Nel 1970 Fredy
Perlman, nel numero 6 della rivista “Telos”
rivalutava le teorie dello storico
ed economista sovietico Isaak Rubin per cui
tutta l’opera di Marx non sarebbe “una serie sconnessa di
episodi, ciascuno
con un problema che sarà abbandonato poi in seguito”1. Dai
Manoscritti del 1844 fino al Capitale, dal giovane Marx
idealista al Marx maturo e realista, vi sarebbe una
fondamentale continuità. Marx ha
cambiato e affinato concetti, modificato terminologia, ma non
ha mai abbandonato la direzione dei suoi studi e il suo stile,
inseguendo un
capovolgimento, un quid pro quo che per Rubin è “La
teoria del feticismo della merce […] la base dell’intero
sistema economico di Marx, e in particolare della sua teoria
del valore”2. Perlman cita
diverse volte un passaggio dei Manoscritti: “L’alienazione
dell’operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo
lavoro
diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma esso
esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e
diventa di fronte a lui
una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha
dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea”3.
Nei Grundrisse troviamo lo stesso modo di incedere del discorso nel capitolo sul processo di circolazione del capitale a proposito del lavoro oggettivato che si presenta come mezzo di sussistenza del lavoratore: “Tutti i momenti che si contrapponevano alla forza-lavoro viva come forze estranee, estrinseche, e che, sotto certe condizioni da essa stessa indipendenti, la consumavano, la utilizzavano, sono ora poste come prodotto della stessa forza-lavoro viva“4 , anche se “il prodotto del lavoro, il lavoro oggettivato a cui proprio il lavoro vivo ha dato una propria anima, si fissi poi di fronte ad esso stesso come un potere altrui”5. Leggi tutto
Plasmando i nostri modelli mentali e le nostre azioni, l’odierna teoria economica dominante si rivela in grado di convertirci, operando come una religione pubblica. Senza tenere in adeguato conto questa sua capacità si capisce poco dell’affermazione planetaria del neoliberismo. Una riflessione a partire dagli ultimi libri di Mauro Gallegati
In
quest’articolo non esaminerò tutte le argomentazioni degli
ultimi due libri di Mauro Gallegati. Mi concentrerò su una sua
tesi
particolarmente incisiva e provocatoria: «nonostante
esteriormente assomigli alla fisica, e nonostante il presunto
equipaggiamento di molte
leggi, l’economia non è una scienza»,[1]
e anzi «assomiglia a una
religione».[2]
L’odierna teoria economica mainstream è caratterizzata, in linea generale, dalle seguenti assunzioni di base: agente rappresentativo (i consumatori o le imprese sono tutti identici, e quindi basta studiare l’agente-tipo), perfetta razionalità degli agenti (chiamata talvolta “olimpica”, poiché esprime requisiti che soltanto un dio potrebbe possedere), aspettative razionali (gli agenti usano le informazioni in modo efficiente, formulando quindi le previsioni più corrette) e scelte fondate sulla massimizzazione di una funzione obiettivo (l’agente individua e seleziona l’alternativa migliore tra quelle disponibili).[3]
La macroeconomia è quella parte della disciplina che (tra l’altro) dovrebbe spiegare le crisi, e quindi oggi la Grande recessione.
I macroeconomisti mainstream sostengono che la loro teoria dev’essere una versione aggregata della teoria dell’equilibrio generale, stabilendo uno sconcertante apriori metodologico per il quale l’equilibrio è il canone per studiare tutto quello che nega l’equilibrio: sentieri dinamici, processi innovativi, instabilità e crisi.
Leggi tuttoNegli ultimi decenni un
governo mondiale invisibile, ma reale e concreto, muove le
fila dei governi nazionali, dei centri di potere
economico e militare, e, con media subalterni, alimenta il
terrorismo. E lo fa per giustificare nuove guerre per un nuovo
ordine planetario contro
Stati detentori di risorse energetiche, per stravolgere le
costituzioni e giustificare interventi militari di grandi
potenze in aree strategiche del
pianeta. Emblematica è stata la guerra all’Iraq del 2003 di
Usa, Gran Bretagna e Francia: non fu guerra contro il
terrorismo di Saddam
Hussein, ma di conquista. Non fu effetto dell’11 settembre
2001 in quanto fu decisa prima dell’attacco alle torri
gemelle. Ed è
stata proprio quella guerra la causa della crisi e del
dilagare del terrorismo nel mondo1.
L’attacco all’Iraq per una lotta al terrorismo fu smentito dopo decenni sia dall’ex presidente George Bush sia da Tony Blair, che hanno ammesso «l’errore». Il 2 dicembre 2008, Bush, in un’intervista alla rete tv ABC, ammise l’errore della guerra all’Iraq, «viziata da informazioni di servizi di intelligence infondate» sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq.
Oggi sappiamo con certezza che sono stati ammazzati in Iraq più di un milione di civili, è stato bruciato più di un trilione di dollari e la crisi economica che sconvolge il mondo intero è la tragica conseguenza di una guerra ingiusta spacciata per lotta al terrorismo. In Iraq non c’erano armi di distruzione di massa. Leggi tutto
Io, professore italiano di Harvard, non ho proprio voglia di partecipare al "reality show" del nostro premier
Questa mattina (31 marzo, ndr) Matteo Renzi parlerà a Harvard. Penso che abbia voluto venirci, oltre che per promuovere se stesso, per promuovere in Italia la sua riforma dell’università. Il premier italiano lo disse chiaramente, alcuni mesi fa: bisogna imitare il modello americano. E ora è venuto per far vedere ai suoi connazionali ed elettori che lui quel modello lo conosce. Harvard è la più prestigiosa università del mondo e questo gli basta: non si domanda con quali criteri e scopi siano stilate le classifiche di eccellenza o quali siano le condizioni e implicazioni di una simile preminenza (per esempio che Harvard sia una corporation con un capitale di più di 36 miliardi di dollari che ammette lo 0,04% degli studenti che ogni anno vanno al college) o tanto meno quale sia il livello delle altre 4139 università americane: no, lui tornerà tutto contento in patria e proclamerà che l’università italiana, la più antica del mondo, deve diventare come quella americana, convinto che se lo diventasse non sarebbe una scopiazzatura fuori contesto e fuori tempo (l’America sta cominciando a guardare all’Europa per rimediare ai disastrosi scompensi del suo sistema educativo) ma una sua grande innovazione. Un po’ come se gli riuscisse di aprire uno Starbucks in Piazza della Signoria a Firenze; o ancor meglio in Piazza della Repubblica a Rignano sull’Arno. Leggi tutto
Obama è andato a Cuba inseguendo un’immagine per la Storia. Cercava il suo particolare “Ich bin ein berliner” , quel io sono un berlinese con cui Kennedy si guadagnò il favore degli abitanti della Berlino Est della Guerra Fredda. O forse voleva emulare il Bill Clinton padrino dell’utopistica stretta di mano tra Isaac Rabin e Yasser Arafat nei giardini della Casa Bianca.
Come ogni presidente degli Stati Uniti, vuol lasciare un’icona fotografica che ricordi il suo mandato.
Una necessità ancor più pressante in quanto la sua gestione estera è stata segnata da sonori fallimenti, dalla politica catastrofica nel Nord Africa, Medio Oriente e Vicino Oriente che ha condotto alla deflagrazione di stati precedentemente stabili come la Libia, la Siria o l’Iraq, fino ai rovesci nell’Est dell’Europa per mano di una Russia che si è mostrata inflessibile nel momento di impedire intromissioni nella sua zona di influenza. E nemmeno in ambito interno le cose non gli sono andate meglio, con una falsa uscita dalla crisi che ha istituzionalizzato l’impoverimento delle classi lavoratrici e la sua sconfitta nelle tre grandi trasformazioni pianificate, quella finanziaria, quella migratoria e quella sanitaria.
A fronte di questo panorama, cosa di meglio che volgere lo sguardo verso il cortile posteriore, verso i Caraibi, verso l’autentico Mare Nostrum statunitense, principio e fine di ogni loro politica estera da due secoli?! Leggi tutto
La pagliacciata del secolo, ovvero lo sbarco di Al Serraj sulla costa libica. Una co-produzione Onu-Nato-Usa-Europa per "insediare" il loro fantoccio. Mai si era vista una cosa così ridicola. Che anche l'imperialismo non sia più quello di una volta?
Se questo è l'imperialismo non siamo messi poi tanto male. Il "governo" Serraj, quello voluto da americani ed europei, benedetto dall'ONU (e dunque anche da Russia e Cina) è arrivato in Libia su dei gommoni. La motovedetta partita da Sfax (Tunisia), scortata dalle flotte militari di USA, Gran Bretagna, Francia ed Italia è infatti andata in panne... A quel punto sono entrati in azione i gommoni, ed i "ministri per caso" che si trovavano a bordo sono così sbarcati a Tripoli come fossero dei profughi, anche se questi ultimi si muovono normalmente in direzione opposta...
Abbiamo detto Tripoli, ma non è esatto. L'allegra brigata, messa insieme non si sa come dalla mega-galattica coalizione di cui sopra, dopo duri mesi trascorsi in hotel a cinque stelle, è in realtà approdata alla base navale di Abu Settah. Sotto la protezione di chi non ci vuol molto ad immaginarlo. Sta di fatto che Serraj e soci, subito accolti a fucilate dai libici, se ne stanno ben chiusi nel loro bunker, che se dovessero provare ad entrare in città sarebbero per loro guai davvero seri.
Come noto, lo schemino degli imperialisti è molto semplice. Probabilmente un po' troppo semplice. Leggi tutto
Sembra che il precario ordine internazionale stia cominciando a stufarsi di Turchia ed Arabia Saudita, due agitatori inconcludenti
Improvvisamente, appaiono numerosi articoli internazionali che ipotizzano cambio di regime in Turchia e crisi ontologica dell'Arabia Saudita. Sembra che il precario ordine internazionale stia cominciando a stufarsi di questi due agitatori inconcludenti. L'insofferenza non è tanto verso gli agitatori, verso i quali se non si è avuta connivenza si è applicato il laissez faire, ma verso la loro inconcludenza. Avessero portato qualche vantaggio, sarebbero stati gli eroi della partita ma visto che la partita ora va diversamente, gli aspiranti eroi ora debbono esser sacrificati.
I turchi non sono un buon cliente per i progetti cinesi di Via della Seta che proprio sulla penisola dovrebbe avere il suo passaggio ferroviario strategico e non lo sono anche per l'utilizzo poco amichevole che fanno dei legami di parentela con gli uiguri ed alcune repubbliche centro asiatiche la cui stabilità è altrettanto strategica per le nuove vie commerciali dei cinesi (qui).
Ancormeno lo sono per i russi, non solo per le ben note contrapposizioni sulla Siria, ma per l'ancora non ben spiegabile voltafaccia strategico che ha mandato a monte contratti miliardari e passaggi di oleodotti già pianificati. Naturalmente non lo sono per gli iraniani con i quali alternano prudenti visite di amicizia e pressioni militari sul confine curdo-iracheno. Leggi tutto
1. Una
lunga convalescenza
Da qualche anno, le Banche centrali delle principali economie mondiali (Stati Uniti, Eurozona e Giappone) stanno attuando politiche fortemente espansive. La base monetaria, sotto forma di liquidità o di riserve detenute dalle banche commerciali, è aumentata enormemente: negli Stati Uniti, all’inizio del 2016, era quattro volte quella del 2008. La BCE ha adottato una serie di misure espansive, finanziando a basso costo il sistema bancario e attuando un programma di acquisto di attività (quantitative easing) di 80 miliardi di euro mensili per una durata prevista di due anni.
Si tratta di un’iniezione di liquidità senza precedenti, che ha fatto scendere i tassi d’interesse a breve e a lungo termine a valori prossimi allo zero (e, in alcuni casi, negativi, come in Giappone o in Europa). Ciò avrebbe dovuto stimolare gli investimenti e, dunque, i consumi e il reddito. I risultati sono, però, largamente inferiori alle attese. Nell’Eurozona, i dati sul Pil e sull’inflazione mostrano, infatti, come la ripresa sia molto debole. Anche negli Stati Uniti, dove la crescita è più elevata di quella europea, il Pil rimane al di sotto del potenziale (Fig. 1). Leggi tutto
1. Quello della crisi
dello Stato-nazione è, ormai da tempo, un motivo ricorrente.
Il suo refrain è diventato
insistente soprattutto dopo il 1989, ma come un rumore di
fondo ha attraversato tutto il Novecento. Ha animato tanto il
discorso delle grande
ideologie internazionaliste quanto quello della
globalizzazione economica, del libero mercato su scala
planetaria. Oggi è proprio
quest’ultimo discorso a ripetere con più vigore il motivo
della crisi dello Stato (salvo poi ricordarsi dello Stato
quando, come in
seguito alla crisi del 2008, si è trattato di pagare i debiti
delle banche e degli istituti di credito). Ne è la controprova
che, in
alcuni casi, un certo pensiero anti-capitalista e
anti-liberista ha addirittura attribuito allo Stato un ruolo
di resistenza, un argine allo
strapotere economico – e pertanto la piccola Grecia, proprio
in quanto Stato, è diventata la scorsa estate la portatrice di
un ritorno
della politica. In realtà, credo che sia l’auspicato ritorno
dello Stato sia il suo de profundis siano entrambi
espressione di
una questione politica – o più schiettamente geopolitica – che
va ben al di là delle sorti dello Stato. Si tratta nondimeno
della configurazione che la politica deve assumere nell’epoca
del dominio della ragione neoliberale.
Posta in questi termini – nei termini appunto del dominio di una razionalità di matrice economica che ha assunto prerogative politiche di governo –, la questione di una alternativa “politica” al neoliberalismo è affrontata dal pensiero filosofico e politico o sul piano del potere o su quello del governo. Leggi tutto
È torbido
il
clima in Brasile, teatro in questi mesi di una violenta
campagna politico-giudiziaria per spodestare Dilma Rousseff,
riconfermata alla presidenza
nemmeno due anni fa: il termine “golpe” è entrato ormai nel
vocabolario comune della politica. L’operazione è un
ibrido tra la nostrana Tangentopoli, dove il gigante
petrolifero Petrobas ricopre il ruolo dell’Enimont ed il
giudice federale Sergio Moro
quello del pm Antonio Di Pietro, e la più recente
Euromaidan, dove le Chiese evangeliche hanno assunto
la direzione delle proteste di
piazza. La posta in gioco per le oligarchie atlantiche è
alta: ristabilire, dopo Argentina e Venezuela, la propria
egemonia in Brasile,
sabotare la Nuova Banca di Sviluppo ideata dai Paese
emergenti e “liberare” il Banco Central do Brasil dalla
supervisione della
politica, per assoggettarlo al controllo alla finanza
internazionale.
* * *
Gli anni ’10 del XXI secolo presentano analogie sempre maggiori con quegli ’70 del secolo precedente: la profonda crisi economica, sociale e politica dell’impero angloamericano (vedi l’addio unilaterale degli USA al sistema di Bretton Woods nel 1971), accompagnata ora come allora da sconfitte militari strategiche (ieri il Vietnam, oggi l’Afghanistan e la fallita balcanizzazione di Siria ed Iraq) è accompagnata dal fiorire del terrorismo, dal moltiplicarsi dei colpi di Stato e da un solco sempre più profondo tra la “retorica democratica” e la concretezza quotidiana, connotata dell’esplosione della violenza politica in tutte le sue forme (omicidi mirati, ghettizzazione degli avversari, eliminazioni per via giudiziaria degli oppositori, etc. etc.).
Leggi tuttoPer il vice presidente Bce Constâncio il QE ha avuto effetti rilevanti: può darsi, ma la crescita non riparte lo stesso. E visto che i tedeschi rifiutano di agire contro gli squilibri la soluzione migliore sarebbe che adottassero essi stessi il suggerimento che il ministro aveva proposto alla Grecia
Leggendo l’intervento del vicepresidente della Bce, Vítor Constâncio, mi è tornato in mente il titolo di un recente e interessante libro di Mohamed El-Erian, “The Only Game in Town: Central Banks, Instability, and Avoiding the Next Collapse”. L’intervento di Constâncio è esplicitamente volto alla difesa della politica monetaria della Bce; non è difficile indovinare a chi è rivolto il discorso.
Le critiche rivolte alle recenti decisioni della BCE riguardano l’inefficacia delle misure o comunque la non sufficienza. Quest’ultima è un’affermazione banale, dice Constâncio, e l’appello del G20 per politiche fiscali e riforme strutturali sarebbe benvenuto. Ma vi sono giustificati dubbi sulla possibilità di implementare queste politiche. “Per cominciare le politiche di stabilizzazione fiscale sono limitate per legge nella Ue, e dalla politica negli Usa. Più in generale, i paesi che potrebbero usare lo spazio fiscale (Constâncio si riferisce alla Germania) non vogliono, e molti altri che vorrebbero, non possono”.
Questo è parlare chiaro, ma le proposizioni che seguono sono ancora più interessanti. Leggi tutto
Dopo l’Italia è il turno della Francia. Ecco in arrivo l’ennesima riforma del mercato del lavoro.
Le Figure A, B e C mostrano quello che di solito ci viene raccontato al proposito: maggiore flessibilità si traduce in maggiore occupazione (perché, data la domanda di lavoro delle imprese LD, la curva di offerta di lavoro LS in Figura C si sposta verso destra). Data la produttività del lavoro (il coefficiente a in Figura B), ciò aumenta l’offerta di beni (x in Figura A) e dunque il PIL reale, calmierando i prezzi (p). In termini formali, la curva di offerta aggregata (AS) si muove verso destra.
In questo schema il nesso causale va dal livello micro (il mercato del lavoro) a quello macro (il mercato dei beni finali). Leggi tutto
La storia: un anziano scrittore, candidato al premio Nobel, in patria pubblicato decine di volte, rappresentato in ogni teatro, onorato con ogni possibile riconoscimento pubblico e privato, si presenta in aeroporto per recarsi a un convegno all’estero. Ma non può partire: viene bloccato dalla polizia, trattenuto per ore, privato del passaporto e rispedito a casa, di fatto agli arresti domiciliari. Se fosse successo in Russia, in Cina, in Iran, qualche anno fa in Siria, che cosa avremmo detto? Che cosa avrebbero detto i nostri politici? Invece è successo in Azerbaigian con lo scrittore Akran Najaf oglu Naibov, noto come Akram Aylisli, e nessuno spende una parola.
Per carità, non stupisce che il cittadino europeo medio non si occupi tutti i giorni di Azerbaigian. Ma i politici lo fanno ed è da loro che ci si aspetterebbe una parola. Perché il silenzio, in casi come questo o come per le frustate ai blogger in Arabia Saudita o per gli operai che muoiono nei cantieri per i mondiali di calcio 2020 in Qatar o per i giornalisti sotto processo in Turchia, fa politica. Tanta politica.
Per capirlo bisogna ricordare brevemente che cos’è l’Azerbaigian. Ricco di petrolio e con meno di 10 milioni di abitanti, il più grande Paese del Caucaso è da quasi 25 anni proprietà personale della famiglia Aliev. Dal 1993 al 2003 con Heidar Aliev, ex capo del Kgb ed ex segretario del Partito comunista dell’Azerbagian; dal 2003 a oggi con il di lui figlio Ilham. I due hanno governato e governano grazie ai brogli elettorali e al pugno di ferro esercitati in patria, e all’appoggio che ricevono da fuori. Leggi tutto
Salah, l’attentatore di Parigi, viene catturato praticamente a casa sua. I sagaci analisti notano la somiglianza con quanto accade con i boss mafiosi, che diventano primule rosse standosene tranquillamente a casa loro. Come i mafiosi, anche i terroristi preferirebbero rimanere in un territorio a loro familiare che li protegge; ed è così che diventerebbero imprendibili per la polizia. L’esempio mafioso forse non era dei più felici, visto lo storico scambio di favori tra mafiosi e inquirenti; ma gli analisti sono fiduciosi che il generale Mori alla fine la farà franca per il peccatuccio di aver “omesso” la cattura del boss Provenzano.
Salah intanto ha deciso di collaborare. Il terrorista sanguinario, il pazzo fanatico, diventa una fonte di informazioni preziose. Ma l’informazione preziosa la dà in realtà la polizia, che ha comunicato immediatamente la cattura di Salah ai suoi complici. Per Salah solo due interrogatori di un’ora ciascuno. Si vede che non sapevano cosa chiedergli. Nasce anche un piccolo caso giornalistico sulle lacrime di Salah. Avrebbe pianto dopo un interrogatorio? Avrebbe pianto durante la fuga? Avrebbe pianto? Boh!
In alcuni commentatori sorgono dubbi sulla professionalità della polizia belga e sulle capacità della sua “intelligence”. Non per giustificare i poliziotti belgi, ma anche loro, probabilmente, come già il generale Mori, hanno solo obbedito ad ordini superiori. Leggi tutto
1. Proviamo a tornare sul
tema dell' "esercito €uropeo"...che garantisce la
democrazia.
Il problema sostanziale al riguardo non è politico-militare o storico-etno-culturale: porre l'attenzione su tali aspetti, che ostacolerebbero l'operatività futura di un tale "€sercito", equivale tutto sommato a soffermarsi su un problema consequenziale e applicativo che, nello scenario effettivo in cui si svolgono le politiche dell'UE, non è considerato, dagli effettivi "decidenti", così rilevante.
Il problema, o meglio l'essenza di queste politiche ha, invece, più a che fare con le implicazioni e le decisive influenze, tornate in queste ultime ore particolarmente attuali, determinate dall'ideologia, propria dei trattati UE, della assoluta prevalenza dei mercati, e quindi della prevalenza di alcune persone fisiche, che siano esponenti dei gruppi industriali e finanziari, sulle istituzioni (ormai teoricamente) democratiche.
Che questo sia il nodo della questione, che è dunque quello di una politica della "difesa" orientato a favorire i "mercati", più che le effettive e praticabili esigenze operative di protezione dei cittadini assoggettati a tali politiche sovranazionali TINA, ce lo aveva ben illustrato la serie dei 4 post "Fortezza Europa" di Riccardo Seremedi. Leggi tutto
Un rapporto da sempre tormentato quello tra il grande pensatore marxista ed il suo Paese natale, tanto che pochi giorni fa le autorità accademiche ungheresi hanno annunciato la revoca dei finanziamenti all’archivio Lukàcs di Budapest, che rischia pertanto la chiusura. Ne parliamo con Janos Kelemen, professore emerito di filosofia e linguistica dell’Università di Budapest, nonché direttore dell’Accademia d’Ungheria a Roma dal 1990 al 1995, e conoscitore del pensiero di Lukàcs
Quello tra Gyorgy
Lukàcs ed il suo paese natale, l’Ungheria, è
sempre stato un rapporto
tormentato, per lui vale sicuramente l’antico detto latino nemo
propheta in patria. Dalla rivoluzione bolscevica del
1919 guidata da
Bela Kun e che lo vide giovane protagonista, all’esilio in
Unione Sovietica negli anni tra le due guerre, durante il
regime autoritario
dell’Ammiraglio Horthy, dal periodo stalinista di Ràkosi al
governo Nagy e alla rivoluzione del 1956, e infine negli
anni successivi fino
alla sua morte, avvenuta nel 1971. Ma anche dopo la morte di
Lukàcs le classi dirigenti ungheresi, politiche ed
accademiche, non hanno mai
visto di buon occhio questo intellettuale che, invece, a
livello internazionale, è riconosciuto come uno dei più
grandi e brillanti
filosofi marxisti del XX secolo. Nell’ultimo ventennio, dopo
la caduta del socialismo reale ed il ritorno dell’Ungheria
nel sistema
capitalistico, si è assistito ad una vera e propria opera di
rimozione sistematica della presenza e del lascito culturale
di Lukàcs,
potremmo definirla “operazione oblio”.
L’ultimo recente episodio è particolarmente significativo: si è avuta notizia che l’Accademia Ungherese delle Scienze sta revocando, per addotti motivi di bilancio, il finanziamento dell’archivio Lukàcs, l’unica piccola struttura rimasta, quasi ai margini, che raccoglie documentazione di fondamentale interesse scientifico per lo studio del pensiero lukacsiano, e che rischia così la definitiva chiusura.
Abbiamo intervistato, nella sua Budapest, a poche centinaia di metri dall’archivio Lukàcs, Janos Kelemen, filosofo e linguista, professore emerito dell’Università di Budapest, già direttore dell’Accademia d’Ungheria a Roma dal 1990 al 1995, nonché studioso del pensiero di Lukàcs, per comprendere cosa stia accadendo in questo momento in Ungheria e cosa rimanga del passaggio di Lukàcs nella memoria culturale del popolo magiaro.
* * *
DOMANDA: Janos, o meglio Jimmy, come ti fai chiamare da compagni e amici, in questi giorni si e' avuta la notizia della possibile chiusura dell'archivio Lukàcs a Budapest. Cosa sta succedendo e qual'e' l'importanza scientifica di questo archivio?
RISPOSTA: Circolavano già da anni notizie sulla possibile soppressione dell’Archivio Lukacs. Leggi tutto
Pubblichiamo un post di Biagio Bossone e Stefano Sylos Labini. Biagio Bossone presiede il Group of Lecce on global governance ed è membro del Comitato di sorveglianza del Centre d’Études pour le Financement du Développement Local. Stefano Sylos Labini, ricercatore ENEA, geologo, esperto di energia, dal 2004 al 2014 ha collaborato con Giorgio Ruffolo, con il quale (2012-2014) è stato editorialista di Repubblica su temi di economia e politica. Dal 2014 ha iniziato a lavorare sul Progetto della Moneta Fiscale
Costi quel che costi…
Fermo sul suo ormai arcinoto pronunciamento di esser disposto a fare qualunque cosa (whatever it takes) pur di riuscire a ravvivare le economie della zona euro, il presidente della BCE Mario Draghi dal 10 marzo scorso ha impegnato il suo istituto ad acquistare obbligazioni emesse da società non bancarie localizzate nella zona euro nell’ambito del programma di acquisto di obbligazioni aziendali (CSPP) (1). In aggiunta agli interventi non convenzionali già in atto, la nuova misura dovrebbe fornire un’ulteriore opzione di politica monetaria espansiva nel tentativo di rafforzare le condizioni di finanziamento dell’economia reale e di riportare l’inflazione dell’area in linea con l’obiettivo ufficiale del 2%.
La novità assoluta del CSPP è quella di attivare un nuovo canale di trasmissione della politica monetaria attraverso cui il denaro appena stampato affluirebbe direttamente all’economia reale piuttosto che essere risucchiato da un sistema bancario inceppato. Il CSPP promette quindi di conseguire un maggiore impatto rispetto alle altre misure tentate dalla BCE finora. Non c’è dubbio che il coraggio e la determinazione del Presidente della BCE meritino riconoscimento.
Eppure, prima di scommettere sull’efficacia del CSPP, occorre dare risposta ad alcuni interrogativi importanti che esso pone, dal quadro applicativo indefinito alla questione fondamentale se la politica monetaria sia sufficiente da sola a trascinare l’Eurozona fuori dalla stagnazione secolare, senza che la BCE debba assumere su di sé responsabilità di natura quasi fiscale, come, ad esempio, quella di mettere denaro direttamente nelle tasche della gente (2). Leggi tutto
L’Argentina è la prova del nove della schizofrenia contemporanea, ossia della separazione tra narrazione di potere e realtà, tra opinione pubblica e informazione, tra conoscenza e mitologia economica, tra logica e politica. Ed è un esempio abbastanza lontano e al contempo abbastanza vicino a noi per esaminarne i sintomi e le piaghe. Il presidente Macrì, discepolo di Washington e del liberismo è in carica da tre mesi e già sono cominciati i licenziamenti nell’amministrazione e l’apparente opera di sistemazione del debito con l’aumento delle tariffe e dei servizi del 300 per cento in media, ma addirittura del 500% per l’acqua. Il tutto esaltato d stampa e televisioni – mentre a Buenos Aires venivano accolti prima Hollande e poi Obama in veste di capo Milonga – come volontà di far apparire l’Argentina come Paese normalizzato, affidabile, aperto alle acquisizioni straniere (con relativi e immancabili tagli di posti di lavoro oltre che di salario, come hanno già annunciato alcune corporation statunitensi intenzionate ad acquistare asset industriali argentini) e pronto a far ripartire il motore economico. Come un toccasana insomma.
Ora però sappiamo che le cose non funzionano affatto così se non sui manuali della scuola di Chicago e sulle loro tabelle manipolate e falsificate, che la natura endemica della crisi va ricercata in meccanismi di intervento studiati apposta per non fare ciò che si dovrebbe fare, ossia stimolare la domanda aggregata. Una cosa che le oligarchie globali dell’occidente respingono in quanto portatrice di risveglio politico e dunque pericolosa per gli assetti egemoni acquisiti dal potere capital finanziario. Leggi tutto
Confesso: questa volta ci ero cascato e ci avevo creduto. Ho pensato che, per un momento, quel che resta della sinistra milanese sapesse comportarsi seriamente e cogliere l’occasione: con un Pd diviso su una candidatura altamente sgradita come quella di Sala, con una Sel spaccata in due, con un M5s che faticava ad aggredire la base elettorale del Pd, con una tendenza, pur timida, al rientro delle astensioni, c’erano le condizioni per un notevole successo della sinistra. Dicevo: “Dovrebbero essere dei perfetti imbecilli per non approfittare di un momento del genere”. Esatto: sono degli imbecilli insuperabili.
Al solito, il difetto dei “sinistrati” è quello di decidere prima che si farà una lista unitaria, per vedere dopo che lista si è fatta. E di solito viene fuori un aborto. D’altra parte, cosa volete: per anni ci si guarda in cagnesco, non si promuove una iniziativa unitaria (salvo un paio di cortei), non ci sono occasioni di dibattito politico trasversale ai vari soggetti e spesso anche al loro interno, non c’è un briciolo di progettualità che non sia qualche straccio di slogan, poi, alla vigilia di una scadenza elettorale, di solito un paio di mesi prima, c’è sempre qualcuno che ha una idea fresca da proporre: “facciamo una lista unitaria di tutta la sinistra!”. E, con queste premesse, cosa pretendete che venga fuori se non una porcheria impresentabile? E, più si va avanti, e peggio è.
Leggi tuttoBruxelles ha vissuto per un giorno la tragica realtà che da anni vivono gli iracheni, i libici, i siriani… Una realtà orrenda, a cui non ci si può rassegnare. Ma per impedire davvero che capiti ancora occorre capirne in profondità le cause. Gli attentati non sono una fatalità, ma il risultato di una politica. Condotta da Washington e poi da Londra, Parigi, dall’Europa…
Ieri, come tanti abitanti di Bruxelles, ho passato delle ore
a verificare dove si trovavano i miei cari. Chi per disgrazia
poteva trovarsi in quel
maledetto metrò che pure io prendo ogni volta che vado alla
sede di Investig’Action? Chi per sventura poteva trovarsi allo
Starbucks
dell’aereoporto, dove anch’io ho l’abitudine di prendere un
thè in attesa del volo? Ricerche tanto più angoscianti, in
quanto la rete era evidentemente intasata.
Insomma, come tanti abitanti di Bruxelles, ho vissuto per un
giorno ciò che vivono da anni gli
iracheni, i libici, i siriani e, prima di loro, gli algerini.
Essendo stato varie volte in siti bombardati dagli
occidentali, so a cosa somigliano
quelle parti di corpi sparsi che mai più nessuno potrà
abbracciare. Io ho visto laggiù il dolore di coloro che sono
privati per
sempre del loro marito, della loro moglie, del loro figlio.
Come tanti di Bruxelles, ho pianto e ho avuto voglia di colpire i criminali che se la sono presa con tanti innocenti. Ma non si nasce criminali, lo si diventa. E la questione più importante è: come sono arrivati a questo? Negare fino a questo punto il valore della vita di tanti innocenti!
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Quando
ho terminato La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie,
2013) di Francesco Pecoraro, ho avuto la netta impressione
di essere di fronte a un romanzo
italiano senza precedenti. Ho deciso di intervistare
l’autore. Ci siamo incontrati alcuni mesi fa a Roma in un
giorno di diluvio universale che
ricordava quello raccontato nel romanzo; ne è nata una
conversazione di tre ore, da cui ho selezionato le seguenti
parti. Francesco Pecoraro
è autore anche di una raccolta di racconti, Dove credi di
andare(Mondadori 2007); le prose inizialmente pubblicate sul
suo blog con lo
pseudonimo di Tashtego sono state raccolte nel volume Questa
e altre preistorie (Le Lettere, 2008). Con La vita in tempo
di pace Pecoraro ha vinto il
premio Mondello, il Premio Volponi e il Premio Viareggio
(cp). C = Camilla Panichi, P = Francesco Pecoraro.
* * *
C: La tua formazione è di architetto. Come sei arrivato alla scrittura e quanto è stata determinante l’esperienza di scrittura sul blog? (link: http://tash-tego.blogspot.it/)
P: Ho iniziato a scrivere negli anni Ottanta, essenzialmente versi. Da un certo momento in poi, all’inizio degli anni Novanta ho cominciato a produrre prosa. Assieme a molto materiale sparso, scrissi un piccolo libro, mai pubblicato, di riflessioni sull’Isola, di cui alcuni spunti mi sono poi serviti per i capitoli Sofrano e Il senso del mare della Vita in tempo di pace. Leggi tutto
1. Oggi più che mai, di fronte allo
"stravagante"
stupore
mostrato dai media mainstream circa l'influenza del settore
privato sulle decisioni politico-economiche, (cioè di livello
legislativo),
adottate dal settore pubblico, conviene rammentare l'analisi
compiuta da Galbraith
e riportata in un recente post.
Ve ne faccio una sintesi per linee essenziali che renda conto della istituzionalizzazione di tale influenza, al di là della questione del complesso militare-industriale (particolarmente influente negli USA per ben note ragioni strategiche internazionali):
"Che il settore privato stia conquistando un ruolo predominante rispetto al settore pubblico è evidente. Meglio sarebbe discuterne in modo comprensibile.
Per la verità, parlare del mito della contrapposizione di pubblico e privato non è molto originale dal momento che la prima assai autorevole testimonianza in questo senso risale niente meno che al presidente Dwight D. Eisenhower, con le sue denunce dello strapotere del complesso militare-industriale.
...
Leggi tuttoUn ficcante articolo di Emmezeta sulla riunione svoltasi ieri della direzione del Partito democratico
Fatte le debite proporzioni —perfino il timorato Cuperlo gli ha detto di non avere la statura del leader, ma solo l'arroganza del capo —il Renzi di questi giorni ricorda per certi aspetti il Mussolini del famoso discorso del 3 gennaio 1925, quello in cui rivendicava apertamente ogni malefatta del fascismo.
«Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!», questa la ben nota affermazione mussoliniana. Ora, per fortuna, i tempi non sono così tragici. Ma evidentemente non era sbagliata la nota osservazione di Karl Marx sul fatto che le vicende della storia si presentano due volte: «la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa».
Ora siamo palesemente alla farsa. Di fronte allo scandalo petrolifero che ha travolto l'ex ministra Federica Guidi —un esempio vivente e colossale di "conflitto d'interesse", non solo e non tanto per l'«aiutino» a colui che dice di considerare «come un marito», ma per le commesse della sua azienda di famiglia, la Ducati Energia, con società a maggioranza pubblica come Enel, Fs e Poste— il presidente del consiglio si è messo a rivendicare tutto il rivendicabile.
L'emendamento incriminato? «L'ho fatto io». C'è un'inchiesta? «Interrogatemi». Dietro a certe opere c'è il malaffare? Leggi tutto
Una vecchia regola vorrebbe che i soldati cercassero riparo dal fuoco nemico acquattandosi nei crateri delle bombe già cadute perché, si dice, è raro che le bombe cadano due volte nello stesso punto. Ignoro se il suggerimento abbia una qualche validità sui campi di battaglia; quel che è certo è che, quando il campo di battaglia (in senso figurato ma neanche tanto) è la Grecia, sarebbe meglio evitare di seguirlo, visto che, in questo caso, le bombe cadono eccome sullo stesso bersaglio, al punto che ultimamente ne sono cadute almeno due in rapida successione.
La prima si riferisce alla mossa che il FMI, secondo una spifferata di Wikileaks, si appresterebbe a fare per ricattare ulteriormente il già esausto popolo ellenico, mettendolo di fronte a un’alternativa secca: o procede immediatamente a ulteriori tagli (quali? Ormai non gli resta che tagliarsi le vene dei polsi…) o gli verranno negati ulteriori proroghe e aiuti abbandonandolo all’inevitabile scelta di dichiarare il default. L’ipotesi è giustificata da una conversazione, captata e pubblicata da Wikileaks, fra Paul Thomson (responsabile del dipartimento europeo dell’FMI), Delia Velculescu (rappresentante dell’FMI al tavolo negoziale) e Iva Petrova (responsabile del gruppo tecnico del Fondo). Il terzetto parla della necessità di mettere immediatamente all’ordine del giorno la riduzione del debito e addirittura di fare pressioni in tal senso sulla Merkel (evidentemente giudicata troppo morbida!) minacciando in caso contrario il disimpegno del Fondo dal gruppo dei creditori. Il tutto dovrebbe avvenire entro pochi mesi e comunque prima del referendum inglese sulla permanenza nella UE. Leggi tutto
Quaderno Nr. 1/2016 a cura del Centro Studi e Iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo. Con questo saggio inizia l’attività di formazione on-line da parte del Centro Studi. Si prevede la pubblicazione a cadenza almeno mensile di documenti che in qualche modo inquadrino in modo semplice il problema della necessità di redistribuire il lavoro
Il
presente saggio, di marzo 2016, Meno lavoro
o più lavoro nell’età microelettronica?, riprende un tema
che è stato recentemente approfondito dal libro di Riccardo
Staglianò Al posto tuo (Einaudi 2016), nel quale è stata
fornita una forte conferma della tesi a suo tempo enunciata
nelle ricerche del
Centro. In un serrato confronto con le tesi di Adam Schaff
e di Paola Manacorda, si cerca di rispondere al quesito
posto dal titolo, dimostrando
che la società incontrerà crescenti difficoltà a riprodurre
il rapporto di lavoro salariato. Le vicende degli ultimi
trent’anni dimostrano la fondatezza di questa ipotesi,
ulteriormente suffragata della moltitudine di esempi
contenuti nel lavoro dello
Staglianò.
Una varietà di teorie, una contraddizione o un malinteso?
Possono due studiosi che fanno riferimento ad un medesimo sistema teorico, giungere a conclusioni addirittura opposte nell'analisi delle conseguenze di lungo periodo del diffondersi della microelettronica? In altre parole, è giusto che esistano molte e diverse teorie dell'età microelettronica o è possibile e necessario giungere ad un'unica teoria, pur con le inevitabili differenze di accento su questo o quell'aspetto del problema, su questa o quella mediazione? E cioè, il giungere a conclusioni analitiche opposte, pur battendo la stessa via, non è forse il segno di una contraddizione nella rappresentazione teorica che le sostiene?
Leggi tuttoAssente da decenni dagli scaffali, torna nelle librerie il libro del filosofo Helmut Reichelt «La struttura logica del concetto di capitale» (manifestolibri). Un saggio ritenuto ormai un classico che ha aperto la strada a una «nuova lettura» di Karl Marx
Tra le diverse forme che
assunse negli
anni Sessanta del Novecento, e in particolare attorno al 1968,
il «ritorno a Marx» in Europa, ve ne sono almeno due che hanno
continuato a
esercitare una grande influenza nei dibattiti critici
internazionali: la rilettura del Capitale promossa da Louis
Althusser e l’operaismo
italiano. Meno nota, quantomeno in Italia, è un’altra linea
interpretativa, che si è venuta formando nella Repubblica
Federale
Tedesca – dall’interno della Scuola di Francoforte ma anche in
polemica con i suoi esiti – e che ha finito per consolidare
una
specifica variante del «marxismo occidentale».
I lavori di Alfred Schmidt, Hans-Georg Backhaus, Helmut Reichelt, che sono all’origine di questa linea interpretativa, sono stati almeno in parte tempestivamente tradotti in Italia, e hanno contribuito ad alimentare la discussione (accademica e non) su Marx negli anni Settanta. Ma nella temperie del decennio successivo, quando la restaurazione imperante nel nostro Paese ha nei fatti bandito Marx e il marxismo dalle Università e dai cataloghi delle grandi case editrici, di questi autori si sono un po’ perse le tracce. E non ha ricevuto particolare attenzione il progressivo emergere, a cui ha dato un contributo fondamentale il lavoro di Michael Heinrich (la sua introduzione ai tre libri del Capitale è stata tradotta nel 2012 in inglese, per la Monthly Review Press), di quella che oggi viene definita Neue Marx-Lektüre, «nuova lettura di Marx». Tanto in Germania quanto nel mondo anglofono (e in particolare negli Stati Uniti) questa particolare interpretazione di Marx è al contrario al centro di vivaci dibattiti, con esiti che possono talvolta apparire sorprendenti. Leggi tutto
Vi racconto la storia come farebbe il classico marziano piovuto dal cielo, una volta tornato a casa sua.
Le perforazioni offshore non solo possono provocare inquinamenti molto gravi per incidenti, come è accaduto più volte in passato. Meno noti, perché non fanno altrettanto notizia, sono ad esempio i fenomeni di subsidenza, provocati dalle trivellazioni, che hanno già causato danni nei territori dell’alto Adriatico e spiegano il blocco a ulteriori buchi in atto da molti anni.
Che non si tratti di business as usual lo sa anche Assomineraria, l’associazione di categoria aderente alla Confindustria, che un paio d’anni fa commissionò uno studio molto dettagliato in cui si analizzavano le condizioni socioeconomiche e ambientali dei territori interessati a possibili estrazioni di idrocarburi offshore e si suggerivano modalità di intervento per sollecitare il consenso delle popolazioni interessate: oltre alle campagne d’informazione, da attuare tenendo conto in particolare del livello di sensibilità ambientale, venivano suggerite anche proposte di interventi compensativi che venissero incontro a esigenze locali.
Il marziano fu favorevolmente impressionato da questo modo di procedere, anche perché lo studio era stato reso pubblico e quindi l’associazione di categoria aveva deciso di giocare apertamente la partita. Essendo un marziano curioso voleva godersela tutta, fino al fischio finale. Leggi tutto
Da Mainly Macro di Simon Wren Louis una spiegazione semplice e concisa sul funzionamento di un’unione monetaria. Al discorso di Wren Lewis, che giustamente dice che già in partenza non sono state istituite regole per impedire gli squilibri di competitività creati dal meccanismo dell’euro, si potrebbe aggiungere che anche se le regole sui surplus commerciali eccessivi sono state successivamente introdotte, esse comunque vengono tranquillamente ignorate dalla Germania, che, aggiungendo al danno la beffa, se ne vanta pure
Dai commenti apparsi sotto a un post precedente, è risultato evidente quante persone non capiscano come funziona un’unione monetaria.
Riflettendoci, mi sono reso conto anche che, benché i concetti macroeconomici che riguardano questo argomento siano assolutamente lineari e per nulla controversi, questo può risultare chiaro solo a chi è abituato a lavorare usando modelli. Dato che non voglio rivolgermi esclusivamente a persone dotate di questa capacità, ho pensato che una breve spiegazione dei concetti base possa essere utile.
Bisogna partire dall’idea che una nazione con tasso di cambio flessibile non migliora la sua competitività internazionale tagliando i salari e i prezzi interni. La spiegazione è che il tasso di cambio si muove in modo da compensare questa variazione. Questa è ciò che gli economisti potrebbero definire una elementare affermazione di neutralità, e ci sono abbondanti prove a suo supporto. Leggi tutto
“Possiamo sempre pagare metà dei poveri per ammazzare l’altra metà” (Gangs of New York)
1. Il pericolo non è l'arrivo della trojka che, come dovremmo ormai aver capito, è, nei fatti, già qui da un bel pezzo, (Monti ipse dixit); e forse non è neppure l'inasprimento inevitabile delle politiche attualmente imposte dall'€uropa ad opera del consueto governo tecno-pop, che farebbe ciò che sarebbe stato comunque fatto, solo con un po' più di brutalità nella comunicazione.
Il problema è che non c'è nessuno, ma proprio nessuno, capace di offrire un'alternativa risolutiva a questo scivolare verso il baratro. Peggio: è che non c'è nessuno, ma proprio nessuno, che sarebbe capace di trovare una linea di resistenza diffusa ed efficace a quella "comunicazione brutale" che sarebbe il perno della propaganda, già dilagante, dell'ennesima "svolta".
Una comunicazione che, come diceva Orwell, assume la forma dell'assedio.
By George Orwell
Leggi tuttoForse era
meglio il fiscalista di Sondrio,
almeno non ci si trastullava con la concezione nuova di
“sinistra”. Ma di certo questo governo, a livello economico,
somiglia molto
all’ultima versione di Berlusconi. Vediamo perché. Il
mentore della politica economica dell’imprenditore di Arcore
è stato
Giulio Tremonti. Socialista, liberista prima e poi
nostalgico dell’intervento pubblico dell’economia. Costui,
dopo la crisi mondiale del
2007, attua una svolta. Cerca di tessere una rete di
capitalismo di stato con l’apporto di fondi sovrani, in
primis cinesi. La sua strategia si
basava sulla mobilitazione del risparmio per farlo passare
dalla finanza speculativa all’economia reale. Strumenti di
questa strategia, volta
agli investimenti e ad una nuova industrializzazione, erano
le grandi imprese semi privatizzate di Stato, fondi sovrani
esteri, la Cassa Depositi e
Prestiti e il risparmio degli italiani. Qualcosa del genere
sembra attuare Renzi, con una differenza. Quest’ultimo dà
più spazio
alle poche multinazionali private italiane e al quarto
capitalismo delle medie imprese internazionalizzate e opera
a tutto campo. Inoltre, Tremonti
aveva come target specifico, anche a livello valoriale, le
micro e piccole imprese del nord, Renzi predilige le medie
grandi aziende.
Come si esplicita questa strategia? Si è iniziato con l’Enel, a cui è stata affidata la realizzazione della digitalizzazione del Paese, un investimento di circa 2,5 miliardi che verrà conseguito con altri operatori privati. Poi c’è la privatizzazione di Ferrovie dello Stato, ancora non attuata per divergenze se la rete ferroviaria debba rimanere pubblica o privatizzata anch’essa.
Leggi tuttoL’ambiente di tassi d’interesse negativi e la mancanza di investimenti profittevoli sta spingendo investitori e banche dei paesi core, e della Germania in particolare, in una gigantesca bolla immobiliare. I prezzi delle case raddoppiano di anno in anno, gli acquirenti comprano immobili alla cieca senza nemmeno metterci piede e le banche fanno prestiti a tasso quasi nullo senza verificare la solvibilità dei mutuatari, in quella che sembra la riedizione mitteleuropea della bolla dei subprime. L’unico modo per fermare la corsa dei prezzi è alzare i tassi di interesse, ma la BCE nel tentativo di “salvare il soldato euro” sta caparbiamente andando in direzione opposta. Che la nemesi dell’euro stia arrivando sotto forma di bolla immobiliare? Da Handelsblatt
Jaguar, Maserati e
Mercedes pulitissime
costeggiano l’acciottolato, riflettendo il sole. Uomini e
donne benestanti attraversano il marciapiede in cappotti e
cappelli pregiati, con
cani di razza al seguito.
Dietro di loro, ci sono irresistibili ville storiche – stucchi classici con grandi ingressi, nicchie e pavimenti di parquet brillanti, torrette maestose e giardini panoramici.
Benvenuti nell’idilliaca Potsdam, l’opulenta ex residenza dei re di Prussia. Al confine sud-occidentale di Berlino, Potsdam è la capitale dello stato orientale del Brandeburgo ed una città molto calda nel surriscaldato boom immobiliare della Germania.
Da un maestoso maniero in riva al lago sulla pittoresca Heiliger See, Anja Farke gestisce l’agenzia di Potsdam del mediatore immobiliare Engel & Völkers. Proprio lungo la strada, la signora Farke sta facendo vedere un’altra spaziosa villa, in una bella tonalità di rosa. La venderà per non meno di 3 milioni di euro, o 3,3 milioni di dollari, assicura.
La signora Farke è abituata a lavorare con successo con i milionari. E’ elegante e cortese, informalmente chic, consapevole di sé ma riservata. Leggi tutto
Questo
mese appena
trascorso è stato contrassegnato da un’infinità di fatti
politici, alcuni gravi e drammatici come l’assassinio del
giovane
Regeni e l’attentato all’aeroporto ed alla metropolitana di
Bruxelles, altri quasi comici come le primarie del PD e le
polemiche che ne
sono seguite grazie anche alla ‘performance’ di due prime
donne come Ignazio Marino a Roma ed Antonio Bassolino a
Napoli.
Per non parlare della donna per antonomasia del PD, la soave Maria Elena Boschi che, dopo aver difeso appassionatamente il papà per lo scandalo della Banca Etruria, “Mio padre è una brava persona”, ora se lo trova indagato per bancarotta fraudolenta. Se la cosa non fosse seria verrebbe da ridere di gusto.
Un mese segnato anche dalla “bomba” dell’intervista di D’Alema al Corriere della Sera dell’11 marzo, da un quadro economico preoccupante con un debito pubblico in crescita ed i prezzi in discesa con una deflazione che non si arresta, con il referendum sulle “trivelle” accompagnato da ulteriori polemiche entro il PD dopo la decisione di Renzi di non schierare il Partito a favore del Si, nonchè la condanna di Verdini a due anni per le vicende della Scuola dei Marescialli a Firenze. Leggi tutto
Non era assolutamente così che gli ideologhi della moderna società dei servizi ci avevano dipinto il futuro: stress sul lavoro senza la sicurezza dell'impiego, quasi-schiavitù nelle microimprese che operano nelle nicchie economiche, lavori temporanei con la mediazione di dubbie agenzie di collocamento, bassi salari per gli impiegati dei servizi, auto-imprenditoria e responsabilità personale come strumento di coercizione per poter controllare e dirigere le masse lavoratrici. La New Economy ha appena finito di collassare ed ecco che già appare chiaro come flessibilità, personalizzazione e delocalizzazione non erano delle promesse ma piuttosto delle minacce, e che non significavano nient'altro per la più parte delle persone se non delle condizioni di lavoro precario e la povertà.
Tuttavia, i lavoratori del mercato dei servizi e della miseria non sono i soli ad essere colpiti dall'abbassamento drastico dei criteri sociali. Come tutti sanno, questa tendenza si estende poco a poco su tutto l'insieme della società nelle metropoli occidentali (Quanto alla periferia, a chi importa più?). D'ora in poi, deregolamentazione, bassi salari e precarizzazione dominano ampiamente determinate categorie di occupazione: servizi di pulizia, ristorazione, impiego domestico o cura delle persone anziane. Ed il fatto che questi settori impieghino spesso dei migranti nelle condizioni più deplorevoli, senza alcuna garanzia legale e a volte anche senza contratto, non ha niente di casuale. Leggi tutto
Giulio de Martino, La mente virtuale, Roma, Iacobelli editore, 2015, pp. 123, ISBN 9788862522670, €.8,00
Uno dei punti di forza del saggio di Giulio de Martino, La mente virtuale, (Iacobelli editore, Roma 2015), è lo stile incalzante, veloce, febbrile che scompone e ricompone le molteplici sequenze argomentative che convergono nella denuncia appassionata dell'ultima rivoluzione dei media elettronici cioè la tecnologia digitale. Da tempo, l'ipertestualità, l'ipermedialità, le elevate velocità, i giochi di identità, il superamento dei vincoli spazio-temporali, l'accesso alle relazioni multiple, le emozioni imprevedibili hanno invaso le nostre vite e modificato radicalmente le strutture della comunicazione, gli stili di comportamento, i ritmi di apprendimento.
L'Autore dichiara esplicitamente nelle prime pagine di "non prendere le distanze dal presente. Al contrario, è quello di entrarvi più a fondo" e lo fa rileggendo in maniera suggestiva e provocatoria una fiaba dei fratelli Grimm, Il pifferaio di Hamelin, che racconta di un personaggio misterioso con un piffero di legno che in Bassa Sassonia liberò un villaggio dai topi che la infestavano e non avendo ricevuto la giusta ricompensa dal borgomastro, attirò dietro di sé tutti i bambini conducendoli in una caverna da cui non sarebbero mai più usciti.
Da tre decenni Hamelin è ovunque, "un paese senza futuro perché i suoi bambini sono spariti, rapiti altrove" (p.15), Hamelin è il monitor che ha occupato i luoghi sorgivi della sfera sociale e della sfera psichica, ossia un'immensa caverna che inghiotte e divora vite, lavoro critico, intelligenze, emozioni. Leggi tutto
L’arrivo del nuovo “premier” Fayez al Serraj a Tripoli: il “governo libico” sul gommone (come da tradizione), con la rassicurante presenza della Marina inglese alla spalle. Tutto come da copione.
Le ultime ore della tragicomica vicenda libica, nonché il racconto che ha trovato posto nei principali media, ci rimanda plasticamente il senso del carattere neocoloniale dell’operazione di “restaurazione nazionale” in corso. Ci hanno detto per mesi pensosi editoriali d’analisi geopolitica che il paese era desideroso di tornare a una sovranità nazionale democratica, coperta e sostenuta dalle nazioni civili, e che dopo mesi di lunghe trattative alla fine era stato partorito il premier adatto e anche il governo giusto, quello che avrebbe messo d’accordo tutte le fazioni “moderate”. Con la copertura dell’Onu, strumento di massima legittimazione democratica, e della cosiddetta “comunità internazionale”, che coincide sempre con l’alleanza occidentale, hanno brigato per mesi per introdurre il governo filo occidentale nel caos libico. Ma, colmo della farsa, non ci sono riusciti! O almeno non come speravano loro…
Hanno incontrato la dura opposizione di tutte le diverse fazioni libiche – gheddafiani, antigheddafiani, islamici, antislamici, moderati, radicali, eccetera – ma gli Usa, la Nato e il governo Renzi non possono proprio aspettare, così come non potevano più aspettare la presenza del dittatore Gheddafi e sono accorsi democraticamente in aiuto del popolo libico. Leggi tutto
Con la rottura fra Lega-FdI e Forza Italia a Roma e Torino, siamo entrati in una fase di entropia della destra che rischia di disintegrarsi. L’asse Salvini-Meloni punta non a vincere le elezioni (non credo che neanche loro si illudano di spuntarla in nessuna delle due città), ma ad un più modesto derby interno alla destra: battere il candidato di Forza Italia per piegare la leadership del vecchio ex Cavaliere in vista delle politiche. Ed allora valutiamo gli scenari che possono derivare da questo doppio test (e sempre che non ci sia una frettolosa ricomposizione dell’ultimo minuto).
Partiamo da una premessa: va da sé che la destra nel suo complesso, data questa divisione, non ha speranza di vincere da nessuna parte, salvo, forse, Milano dove (almeno per ora) è unita. Mentre nella maggior parte dei casi ai ballottaggi ci va il M5s. Quindi, la certificazione di essere passata nel girone cadetto e di essere uscita dalla serie A. Nell’anno e qualcosa che manca alle politiche, sarà molto dura risalire la china, salvo una crisi verticale di uno dei due competitori maggiori (Pd o M5s). E lo scontro per la leadership nella destra rischia di diventare un litigio fra ubriachi per il controllo del relitto galleggiante. Adesso veniamo al merito delle diverse possibilità che si aprono.
Prima ipotesi: Berlusconi batte i due ex alleati sia a Roma che a Torino, magari con buoni risultati sia in quelle due città che a Milano e Napoli. Sarebbe la fine dei sogni di Salvini, costretto a rientrare a testa bassa in coalizione con il vecchio pirata. Leggi tutto
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Se perderà il referendum costituzionale, Renzi si dimetterà oppure no? E con quale legge si andrebbe eventualmente a votare?
Adesso
Renzi è davvero in difficoltà. Anche se non sarà per l'oggi, a
breve il governo dei
"rottamatori" rischia di finire rottamato. Nell'esecutivo
guidato dal più giovane dei presidenti del consiglio della
storia, sono proprio i
ministri (e le ministre) più giovani quelli più invischiati
nelle maglie di una diffusa rete affaristica. E quando inizia
il conflitto
con la magistratura è segno che nel blocco dominante qualcosa
si è rotto. Le vicende di Craxi e Berlusconi qualcosa
dovrebbero
insegnare.
Nel percorso che condurrà alla «madre di tutte le battaglie», cioè il referendum costituzionale previsto per ottobre, avranno la loro importanza diversi passaggi. Tra questi, oltre agli sviluppi delle inchieste in corso, avremo (con un peso oggettivamente limitato) il referendum del 17 aprile sulle trivellazioni in mare e, soprattutto, le elezioni comunali nelle principali città d'Italia. Senza dimenticarci, perché sarà invece elemento fondamentale, l'andamento dell'economia ed i margini di flessibilità di bilancio che Renzi vorrà e, più ancora, riuscirà a strappare all'Europa per il 2017.
Dall'insieme di questi fattori sapremo in quali condizioni di forma il fiorentino arriverà sul ring d'autunno, quando - ne siamo convinti - sarà possibile mandarlo al tappeto con la vittoria del no. Naturalmente, ognuna delle questioni citate meriterebbe un'ampia trattazione. Ma non è questo lo scopo del presente articolo.
Qui vogliamo invece soffermarci su una domanda che circola in diversi ambienti, in particolare tra coloro che sono già mobilitati nei comitati per il NO a difesa della Costituzione. Leggi tutto
1.
Uno squarcio, un evento.
È passato ormai più di un anno da quando scrivemmo che dopo i primi attentati terroristici a Parigi, si stava producendo un evento nei corpi sociali francesi: una finestra che mostrava un collettivo eccedente le sue determinazioni e che era in qualche misura urgente da tradurre in termini politici per evitarne unrecupero identitario e reazionario. Lo dicemmo in quello strano isolamento che accade quando ci si trova in mezzo a 4miloni di persone eppure inascoltati tra i commenti. Proliferavano allora analisi sulla componente bianca, non periferica, eurocentrica – per non dire degli esercizi di semiotica su chi era chi e chi non era Charlie. Insomma da una parte si mostrava uno spazio politico irriducibile alla spirale neoliberismo armato-terrorismo e dall’altra un doppio discorso declinato in storpiati vocabolari post-colonial e nell’oscena rappresentazione dei potenti del mondo. Si annunciarono così, lo Stato d’Emergenza e la stretta securitaria del governo. Eccoci: fino ad oggi quelle voci tacciono, o balbettano. Perché, diciamolo subito, in questa nuova esplosione democratica che attraversa la Francia, la composizione è stata, dall’origine, abbastanza classica. Operai e studenti uniti nella lotta che resistono ad una proposta di ristrutturazione del codice del lavorosalariato. Se non trovassi osceno e stupido il metodo direi: anche i Licei e le Università, sono “bianchi” e senza banlieues. Ma dov’è la whitenessin Francia? Erano forse bianchi i 4 milioni dell’11 gennaio 2015? Leggi tutto
Sul Financial Times compare un commento di Scott Minerd, responsabile investimenti del gestore di fondi Guggenheim Partners, sul rischio di effetti perversi prodotti dalla politica monetaria di tassi negativi. Che, in pratica, finirebbe con l’esacerbare quella stessa deflazione che vorrebbe combattere, ed accentuare il circolo vizioso o più propriamente infernale della trappola della liquidità. Argomento complesso, ma è utile tentare di capirci qualcosa, nel momento in cui il il rendimento del Bund decennale sta tornando verso lo zero.
I tassi negativi agiscono come veleno nei confronti dei bilanci bancari, distruggendo il margine di interesse. Dopo la decisione del Giappone di introdurre un sistema di tassi negativi sulla remunerazione delle riserve libere detenute dalle banche commerciali presso la banca centrale, i mercati globali hanno visto una fase di crolli delle quotazioni bancarie verosimilmente riconducibili alla decisione di alcuni grandi investitori (i soliti, per non fare nomi) di scommettere pesantemente sulla perdita di redditività delle banche, cioè sul fatto che il business creditizio è entrato in una fase di crisi esistenziale.
Vogliamo dirlo? I Panama Papers sono un ottimo esempio di hackeraggio e un pessimo esempio di giornalismo. Fanno impallidire Edward Snowden, che pure nel 2013 rivelò al mondo la rete globale di spionaggio degli Usa, e Julian Assange con i suoi WikiLeaks del 2010. Ma fanno arrossire chiunque provi a fare questo mestiere seriamente. Al di là di aver convinto qualcuno a trafugare i dati (e sarebbe interessante sapere quanto sia costato), di investigativo c’è abbastanza poco.
La ragione per pensarlo sono molte e semplici. Come tutti ormai sanno, i Panama Papers sono 11 milioni e mezzo di file che coprono 38 anni di attività (1977-2015) della Mossack Fonseca, una società con sede a Panama City (660 dipendenti, filiali in 42 Paesi) la cui principale vocazione è mettere al riparo in adeguati paradisi fiscali i risparmi di personaggi danarosi.
Detto questo, ecco alcune di quelle ragioni.
La prima e meno rilevante, ma non ininfluente, è che avere conti off shore non è reato se il titolare è in regola con le leggi fiscali del proprio Paese. Questo viene in effetti detto ma tra le righe, in caratteri minuscoli, come i codicilli delle assicurazioni. Il lettore inesperto è portato a credere che un conto off shore sia un crimine in sé. Leggi tutto
Riportiamo di seguito un intervento del Coordinamento Operaio Ama, gruppo di compagni-operai dell’azienda dei rifiuti municipale del quale facciamo parte. Un intervento dal di dentro della situazione gestionale e lavorativa della vicenda rifiuti, che smonta pezzo per pezzo le retoriche del volontarismo e della privatizzazione come soluzione dei problemi cittadini legati al degrado e al suo contraltare neoliberista, il decoro
Roma e provincia si trovano attualmente in una profonda crisi ambientale: per anni lo smaltimento dei rifiuti si è basato esclusivamente sulla discarica più grande d’Europa – Malagrotta – che ha chiuso e non si ha alcuna alternativa concreta. Attualmente sono in funzione gli impianti Ama del Salario per la trasferenza (carico del rifiuto tal quale su tir che portano il rifiuto fuori regione), Rocca Cencia per trasferenza e il trattamento meccanico biologico (TMB) dei rifiuti solidi urbani (RSU) e l’impianto di compostaggio di Maccarese che tratta una percentuale irrisoria del rifiuto umido raccolto. Gli impianti di Malagrotta e quello a Rocca Cencia di Cerroni vanno in soccorso a quelli Ama. Parliamo di un’impiantistica non in grado di soddisfare le necessità di una città come Roma. Dobbiamo tener conto che delle 4000 Tonnellate di rifiuto indifferenziato raccolto (attenzione, non prodotto!) al giorno, Rocca Cencia riesce a trattarne 750, tutto il resto va fuori regione in impianti privati. Leggi tutto
Tira brutta aria tra l’Algeria e le monarchie del Golfo in questo momento. La causa: il rifiuto del paese nordafricano di entrare a far parte della “Nato-araba” capeggiata dall’Arabia saudita e di prendere parte alla contrapposizione “sunniti contro sciiti”.
Sui media dei paesi del golfo e dei movimenti salafiti lo stato algerino è descritto come alleato dei “rinnegati e degli iraniani”. Mentre sui social algerini girano appelli per boicottare il pellegrinaggio verso la Mecca. Molti osservatori temono attacchi imminenti delle reti del terrore integralista contro l’Algeria. La causa un disaccordo sul Hezbollah libanese.
Il 10 marzo scorso, si é svolta a Tunisi la 145e sessione ordinaria del Consiglio dei ministri degli esteri della Lega Araba, sotto la presidenza del Bahrein. Principale e unico ordine del giorno: l’inscrizione del movimento politico-militare libanese Hezbollah nell’elenco delle organizzazioni terroristiche.
Questa decisione era già stata adottata in precedenza dal Consiglio di Cooperazione dei paesi del Golfo (CCG) che si era riunito nei primi giorni di marzo. Le monarchie del Golfo hanno messo la pressione alta sugli altri stati membri e hanno ottenuto il voto favorevole della maggioranza dei paesi membri della Lega Araba. Alcuni stati membri tuttavia hanno opposto vari livelli di resistenza e hanno fatto saltare così il piano dell’Arabia Saudita & co. che volevano l’unanimità. Leggi tutto
Nel novembre 2014
è uscito per le edizioni Mimesis
il libro Uscire dall’economia – un dialogo fra
decrescita e critica del valore: letture della crisi e
percorsi di liberazione,
tratto da un incontro avvenuto in Francia nel 2011 fra
Serge Latouche e Anselm Jappe.
Il libro ha avuto un buon successo, tanto da meritarsi anche un’edizione francese ampliata, uscita nel 2015 per le edizioni Libre & Solidaire, dal titolo Pour en finir avec l’économie – Décroissance et critique de la valeur.
Qui presentiamo l’introduzione all’edizione italiana, introduzione che ha avuto uno strano destino: elaborata seguendo anche le indicazioni degli autori, non ha incontrato i favori di Anselm Jappe per quanto riguarda l’edizione francese. Non essendoci né i tempi né le basi per modificarla senza aprire un lungo dibattito, l’introduzione che trovate qui sotto è apparsa, tradotta, praticamente in versione integrale, solo grazie ad un “sotterfugio” di Serge Latouche, che ha proposto di pubblicarla facendola anticipare da una avvertenza dove si dice che l’autore si prende interamente la responsabilità di quello che è scritto.
Leggi tuttoPubblichiamo la recensione di Marco Palazzotto del libro di Vincenzo Scalia che sarà presentato a Palermo il prossimo 12 aprile ai Cantieri Culturali della Zisa. Qui maggiori informazioni
Sono
passati quasi 30 anni dalla pubblicazione del famoso
articolo I professionisti dell’antimafia di
Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera del 10 gennaio
1987. Al netto delle polemiche scaturite intorno alla
figura di Paolo Borsellino, la
tesi di fondo dell’articolo era quella che in Sicilia il
modo migliore per fare carriera era dichiararsi antimafioso.
Oggi potremmo parlare di Imprenditori morali, come li chiama Vincenzo Scalia, sociologo e criminologo palermitano prestato all’università britannica, autore della raccolta di saggi: “Le filiere Mafiose – Criminalità organizzata, rapporti di produzione, antimafia” edito da Ediesse e in distribuzione da pochi giorni.
Riprendendo la teorizzazione di Howard Becker che sosteneva che un fenomeno sociale viene classificato come crimine nella misura in cui suscita l’attenzione e la reazione della società, Vincenzo Scalia afferma che “gli imprenditori morali rappresentano una figura-ponte, nella misura in cui orientano l’attenzione dell’opinione pubblica, definiscono il fenomeno, elaborano le strategie di intervento, tracciano i principi che devono guidare l’intervento sul fenomeno sociale oggetto dell’attenzione”. Uno dei pregi del testo Le filiere mafiose è quello di evidenziare la profonda diversità dell’autore rispetto al panorama dei professionisti dell’antimafia e degli imprenditori morali che imperversano sui nostri giornali e le nostre tribune politiche da più di 30 anni. Leggi tutto
In quella Svezia in cui dovevo parlare un linguaggio che mi era straniero, ho compreso che potevo abitare il mio linguaggio – con la sua fisionomia d’improvviso peculiare – come il luogo più segreto e più sicuro della mia residenza in quel luogo senza luogo che rappresenta il paese straniero nel quale ci si trova. […] Credo che sia stato questo a farmi venire voglia di scrivere. Dal momento che la possibilità di parlare mi era negata, ho scoperto il piacere di scrivere. Michel Foucault, Entretien avec Claude Bonnefoy, 1968[1]
Cinquant’anni fa Michel Foucault pubblicava Le parole e le cose
In che modo Michel
Foucault ha concepito e praticato l’articolazione tra ciò
che ha chiamato
“soggettivazione” (il processo di costituzione della
soggettività) e la scrittura, anche dal punto di vista
personale –
ovvero in relazione alla propria pratica di scrittura e alla
costituzione della propria soggettività? È a questa domanda
che mi propongo
di rispondere, senza pretendere di fornire una risposta
univoca o definitiva, ma cercando di mettere in luce la
tensione che appare, in particolare
nei testi degli ultimi anni di vita di Foucault, tra due
grandi “modelli” del rapporto soggettivazione-scrittura: da
una parte, il modello
della scrittura come pratica di de-soggettivazione,
come strumento utilizzato per “svincolarsi” (se
déprendre) da
se stessi e dalla propria “forma-soggetto”; d’altra parte,
il modello della scrittura come esercizio spirituale la cui
funzione
è “ethopoietica”, cioè come strumento di
costruzione “positiva” di sé – di
soggettivazione, dunque, piuttosto che di de-soggettivazione.
La scrittura come esperienza di de-soggettivazione
Per descrivere il primo modello, farò riferimento a una serie di testi e di interviste dal tono fortemente “autobiografico”, nei quali Foucault parla del proprio modo di fare ricerca in ambito storico-filosofico e del proprio rapporto con la scrittura. Leggi tutto
L’articolo di Craig Murray sui PanamaLeaks mette il dito su una piaga che in verità salta agli occhi: lo scandalo puzza da lontano di manipolazione della notizia. Molto strano, infatti, che dal data base del Mossack Fonseca non vengano fuori i nomi dei grossi miliardari e delle grandi multinazionali occidentali, sicuramente i migliori clienti dello studio legale panamense. Strano, ma solo per chi non ha notato i nomi dei finanziatori di questo “giornalismo investigativo” sui generis… (Articolo segnalato da Lo Smemorato in un ottimo post che consigliamo di leggere)
Chiunque abbia fatto trapelare sui giornali la notizia dei documenti del Mossack Fonseca appare motivato da un genuino desiderio di rendere pubblico il sistema che consente agli ultra ricchi di nascondere le loro enormi scorte di denaro, spesso ottenuto con la corruzione e sempre frutto di evasione fiscale. Questi avvocati panamensi nascondono la ricchezza di una parte significativa dell’ 1%, e la pubblicazione dei loro documenti dovrebbe essere una cosa meravigliosa.
Purtroppo chi ha organizzato la fuga di notizie ha fatto il terribile errore di girare i file ai grandi media occidentali per rendere pubblici i risultati. Di conseguenza, la prima grande storia, pubblicata oggi dal Guardian, è tutta su Vladimir Putin. Si dà il caso che io creda a questa storia e non ho dubbi che Putin sia implicato. Leggi tutto
«Stanno collaborando con la Russia come fecero le bande armene». L’accusa, considerata infamante in bocca a un politico turco, è stata lanciata dal primo ministro Ahmet Davutoğlu alla formazione filo-curda dell’Hdp, il Partito democratico dei popoli che l’anno scorso ha riportato una rappresentanza di sinistra nel parlamento di Ankara. Il discorso del membro del governo si è tenuto nella provincia orientale di Bingol a fine febbraio, racconta il sito d’informazione Al-Monitor.
La frase citata in apertura è cruenta. Offende gli armeni, ribadendo il negazionismo turco nei confronti del Metz Yeghern, il genocidio del 1915. È una minaccia rivolta ai curdi, cui si lascia intendere a cosa vanno incontro qualora insistessero nella loro battaglia per una repubblica democratica e federale. L’impatto è tanto più forte perché a dirla è il secondo esponente più importante dell’Akp, il partito di governo, l’uomo che nel decennio scorso deliziava le diplomazie europee con la svolta da lui impressa alla politica estera turca, esemplificata dal motto «zero problemi con i vicini».
Di acqua sotto i ponti ne è passata un po’, oggi Ankara è ai ferri corti pressoché con tutti i suoi vicini e ha avviato una sanguinosa guerra civile nella parte orientale del paese. Il ministro che propagandava un ruolo di pacifica influenza per la Turchia nell’area ora lancia poco velate minacce genocidiarie a parte dei suoi concittadini.
Leggi tuttoUn paio di notizie tratte dal cronicario della nostra attualità dovrebbero servire a farci comprendere chi stia pagando il disperato tentativo dell’economia internazionale di tornare su un percorso sostenibile di crescita. Notizie che, guardacaso, arrivano proprio dai paesi dove questa sedicente ripresa sembra assai meglio indirizzata rispetto a quella anemica dell’eurozona o a quella dei paesi emergenti, che anzi spaventano.
Le due storie sono infatti riferite agli Stati Uniti e al Regno Unito. La prima racconta dell’esplosione dei debiti studenteschi dei giovani americani, che ormai superano abbondantemente il trilione di dollari e si connotano per un tasso di delinquency, ossia di ritardo nei pagamenti, che avrebbe fatto arrossire i vecchi mutuatari subprime. La seconda racconta di come sia aumentato drammaticamente il numero dei giovani inglesi che è tornato a vivere con i genitori, vuoi perché i redditi dei più giovani sono cresciuti assai meno degli altri, vuoi perché i prezzi delle abitazioni sono divenuti semplicemente inaccessibili.
Nel dettaglio, la situazione dei giovani statunitensi mostra un debito per prestiti studenteschi in notevole aumento dal 2008 in poi che ormai pesa circa il 10% del totale dei debiti privati delle famiglie americane, per un ammontare che supera 1,2 trilioni di dollari. L’11,5% di questa montagna di debito era in ritardo di oltre 90 giorni, connotandosi come la categoria di prestiti a delinquency più elevata. Leggi tutto
«Forme di capitale» di Pierre Bourdieu per Armando editore. Una tassonomia costruita per mettere in evidenza la tensione tra dominio e libertà
«Il mondo sociale è storia accumulata», irriducibile a una sequenza lineare di situazioni di equilibrio, «meccaniche e di breve vita», nelle quali gli agenti sociali sarebbero semplici «particelle intercambiabili». Tale riduzione può essere evitata, in particolar modo, se si assume come centrale il concetto di capitale inteso come «lavoro accumulato (nella sua forma materiale o nella sua forma incorporata) che, se appropriato in forma esclusiva o privata da singoli o gruppi, rende possibile anche appropriarsi di energia sociale in forma di lavoro oggettivato o umano».
Pierre Bourdieu apre così Forme di capitale (a cura di Marco Santoro, Armando Editore, pp. 127), saggio apparso prima in lingua tedesca (1983), poi, parzialmente rimaneggiato, in inglese (1986). La categoria di capitale, dispositivo teorico correlato con quelli di campo (in cui s’identifica un principio epistemologico chiave come quello di relazionalità) e habitus – tutti coessenziali nella proposta di Bourdieu di costruzione di una teoria della conoscenza sociologica, non di una teoria della società –, svolge un ruolo preminente nell’elaborazione del sociologo francese e attraversa la sua intera opera a partire dagli studi sulla società berbera algerina, dunque di un contesto pre-capitalistico che già, in quanto tale, segna un differente approccio rispetto alla teoria economica dominante (inclusa quella che Santoro definisce, in modo opinabile, la «variante marxista»). Leggi tutto
Diversi studi hanno concluso che lo stato comatoso dell’economia europea – con tutte le sue ricadute sociali – è una conseguenza diretta delle politiche di austerità
Il fallimento delle
politiche implementate in Europa dal 2010 in poi – un
connubio di austerità fiscale, riforme
strutturali (di impronta marcatamente neoliberista) e
politiche monetarie espansive – è ormai sotto gli occhi di
tutti. Oggi, a inizio
2016 – otto anni dopo lo scoppio della crisi finanziaria –
il PIL reale dell’eurozona è ancora inferiore al picco
pre-crisi
(marzo 2008). Quello della Spagna è inferiore del 4,5 per
cento. Quello del Portogallo del 6,5 per cento. Anche quei
paesi che registrano tassi
di crescita superiori alla media europea non se la cavano
molto bene: il PIL reale della Germania, per esempio, è
aumentato solo del 5,5 per
cento rispetto al livello del 2008; quello della Francia del
2,7 per cento. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno
registrato un incremento superiore
al 10 per cento.
L’eurozona nel complesso registra un tasso di crescita annuale stagnante – inferiore al 2 per cento – dall’inizio del 2012; oggi si aggira intorno all’1,6 per cento. Nel 2017 è prevista una lievissima accelerazione. Nello stesso periodo (2012-16), molti paesi – tra cui la Grecia, l’Italia ed il Portogallo – hanno registrato tassi di crescita vicini o inferiori a zero. Le politiche “non convenzionali” della BCE – quantitative easing, tassi di interesse negativi, ecc. –, per motivi ampiamente trattati su queste pagine, non hanno favorito la ripresa, né lo faranno in futuro. Leggi tutto
Vi
ricordate
l’apeiron? Iniziando le prime pagine di una qualsiasi storia
della filosofia occidentale, dopo Talete e semmai qualche
accenno alla sapienza
arcaica, vi trovate Anassimandro. Di costui c’è arrivato un
solo, piccolo, frammento che dice che l’inizio di tutte le
cose
è l’apeiron. Fiumi di parole sono state scritte su questo
concetto e prima ancora sulla sua traducibilità ma in
sostanza,
sembrerebbe che la questione sia abbastanza semplice. Se la
cosa è ciò di cui possiamo dire, vedere, toccare, pensare i
contorni,
cioè i limiti, prima della cosa c’è l’apeiron, ciò di cui
non si può dire, vedere, toccare, pensare i limiti.
Prima di partire per la tangenziale dell’infinito però,
dovremmo sostare un attimo sul punto stretto. L’apeiron è un
concetto negativo in relazione alla cosa, è la non-cosa,
quello da cui proviene la cosa, lo cosa è un ritaglio di
qualcosa di precedente
più grande. Dire, fare, toccare, pensare la cosa significa
dargli i limiti. Prima c’è l’apeiron, dopo c’è la
cosa, la cosa introduce il concetto di limite. Su questo
pensiero potremmo indugiare a lungo perdendoci in una nuvola
di rimandi del prima (Esiodo, il
Rg Veda) e del dopo (su fino ad Heidegger) ma andremo oltre
perché a noi, qui, non interessa l’apeiron ma il concetto di
limite. Diremo
solo che, in sostanza, Anassimandro fonda una branca del
pensiero filosofico, quella che poi Aristotele
sistematizzatore del pensiero greco,
chiamerà filosofia prima e noi oggi -ontologia-, discorso
(logos) su ciò che è (ontos), discorso sulla cosa.
Wang
Hui è uno dei più importanti intellettuali critici della
Cina. Una figura di spicco della ” nuova sinistra
cinese”.
Il suo lavoro ha cercato di tracciare le condizioni
intellettuali e politiche della Cina contemporanea.
Contro la ristrutturazione neoliberale della
Cina, e dei suoi propagandisti ufficiali, il lavoro di
Wang ha continuato a impegnarsi per un progetto di ala
sinistra il cui scopo è stato
fare un bilancio della storia e delle conseguenze della
modernità cinese.
In questa intervista con la rivista “Foreign Theoretical Trends”, pubblicata originariamente in cinese e inclusa come appendice nel saggio “China ‘s Twentieth Century”, di recente pubblicazione, Wang disserta sulle linee di sviluppo in Cina e in tutto il Sud del mondo, sul patrimonio intellettuale e politico del maoismo, e sulle speranze di un nuovo movimento anti – capitalistica a livello globale.
* * *
Foreign Theoretical Trends (di seguito, “Tendenze”): L’attuale dura crisi del capitalismo globale costituisce un punto di svolta storico per la Cina e il mondo. Quali cambiamenti pensa che ciò porterà nell’ordine internazionale? Per quanto riguarda le opzioni della Cina nel nuovo ordine mondiale, alcuni pensano che, poiché la scala della produzione manifatturiera cinese continua a crescere, proseguendo su questa strada la Cina potrà entrare nel club degli stati capitalisti sviluppati. Leggi tutto
Una parte della società civile, politica e dell’informazione francese sta rifiutando il contratto della paura di Hollande e Valls fondato sullo stato d’eccezione permanente che secondo i loro desiderata avrebbe dovuto essere inserito nella Costituzione. Nonchè, profittando con cinismo dell’oppressione e paura sociale dovuta agli attentati terroristici, con la proposta di una legge sul lavoro modellata secondo i dettami del liberisomo più aggressivo contro i diritti dei lavoratori. Speravano che gli andasse liscia, e invece ecco gli scioperi, le manifestazioni, gli studenti universitari in rivolta, i liceali arrabbiati, mezzo PS dissidente, e tutti si chiedono più o meno a bassa voce se si tratti di un fuoco di paglia oppure d’une lame de fond, un’onda di fondo. Col che, in Francia, capita che in molti pensino al maggio ’68, a quel sommovimento la cui onda lunga arrivò fino alla vittoria di Mitterand e della sinistra, PS e PCF uniti nel programma comune, alle elezioni presidenziali del 1981. Però invece di domandarci se il quartiere latino si riempirà di barricate – a occhio pare improbabile – cercheremo di mettere in fila una serie di fatti.
La prima gamba del progetto neoreazionario di Valls e Hollande è quella che voleva instaurare uno stato d’eccezione costituzionale fino alla possibilità di togliere la cittadinanza francese a chi in qualche modo sia giudicato sovversivo rispetto all’ordine statuale. Leggi tutto
Sono veramente colpito: nessun ricco o straricco americano compare nei Panama Papers, cioè in migliaia di documenti sulle segrete cose dei paradisi fiscali. Sarò banale, ma questa sembra essere la cosa più rilevante fra i segreti di Pulcinella rivelati dall’ International Consortium of Investigative Journalists, che sostanzialmente coinvolge la stampa mainstream a guida americana e che puntualmente ha assecondato in vent’anni i desiderata dell’amministrazione di Washington. Certo le documentazioni si riferiscono solo allo studio Mossack Fonseca, una delle centinaia se non migliaia di imprese legali che si occupano di lavare e sommergere i soldi al largo delle isole felici, ma proprio per questo appare statisticamente molto improbabile che non vi sia nessun nome made in Usa in un elenco che comprende invece gli amici di Putin, familiari del leader cinese Xi Jinping e di Poroshenko, il presidente ucraino di cui gli Usa si vorrebbero sbarazzare per evitare il discredito nel quale sta cadendo il loro regime di Kiev, il presidente siriano Assad, la cerchia di Marine Le Pen e persino parecchi nomi e società del calcio, uno sport che è sempre andato di traverso agli all american boys per aver reso la vita difficile agli sport tipicamente made in Usa, sottraendo così per molto un’area dell’immaginario al fascino del sogno americano. Tanto che adesso è stato dato il via libera a una grande campagna di acquisti per inglobarlo nel “sistema”. Leggi tutto
Il 17 aprile gli italiani saranno chiamati al voto per esprimersi sulle estrazioni di idrocarburi in mare. Grazie ai nove consigli regionali che si sono fatti promotori del referendum, la popolazione potrà decidere se mettere una croce sul “sì” e abolire così la norma che consente alle società petrolifere di fare attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio a meno di 12 miglia marine dalla costa fino all’esaurimento naturale del giacimento. La chiamata alle urne su una legge così specifica si sarebbe potuta evitare se i nostri amministratori di governo avessero usato più buonsenso nel perseguire lo sviluppo di energia da fonti rinnovabili, ma purtroppo ha prevalso un’ostinazione fossile in tutti i sensi.
Delle 66 attuali concessioni italiane per le estrazioni in mare, solo 21 si trovano entro le 12 miglia marine e quindi sono coinvolte dal referendum. Se il “sì” dovesse vincere, queste concessioni non potranno più essere prorogate e i relativi impianti dovranno chiudere tra cinque e vent’anni, a seconda della data di inizio della concessione. Al momento, invece, le compagnie in possesso dei titoli possono chiederne il rinnovo fino all’esaurimento del giacimento.
Della minaccia rappresentata dalle estrazioni di idrocarburi in mare abbiamo già parlato in maniera approfondita su “Lo straniero” n. 170-171 (agosto-settembre 2014). Leggi tutto
La Costituzione europea è il frutto di un percorso che, come diceva un tempo Napolitano, risente sia della volontà egemonica della Germania, sia del predominio del neoliberismo, le cui idee fondamentali sono entrate nei trattati europei
Il 13 dicembre 1978, alla Camera dei deputati, Giorgio Napolitano annuncia il voto contrario del Partito comunista all’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo (SME). Quel sistema, osserva Napolitano, non risolve il conflitto tra le necessità dei paesi più deboli e le garanzie che vuole la Germania, il più forte, tra lo sviluppo del Mezzogiorno italiano e i vincoli monetari che impone. “Si mette il carro davanti ai buoi”, nota Napolitano, quando si costruiscono accordi monetari in sostituzione di accordi “sul ritmo e la qualità dello sviluppo”. Lo SME, primo passo del progetto che approderà all’euro, entra in vigore il 13 marzo 1979; il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, con cui si vieta il finanziamento monetario del debito pubblico (altro cardine della costituzione monetaria europea), è del 1981. Quegli anni furono peraltro segnati dall’assassinio di Aldo Moro, dal fallimento del tentativo d’inserimento dei comunisti tra le forze di governo, dalla sconfitta sindacale alla FIAT, e a livello internazionale dall’affermazione della Thatcher in Inghilterra e di Reagan negli Stati Uniti. Seguono, negli anni novanta, la globalizzazione commerciale e la deregolamentazione finanziaria: con esse i lavoratori dell’occidente sono posti in concorrenza con quelli sottopagati e privi di tutele dei paesi più poveri. Leggi tutto
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Sono
ancora tante le idee confuse che circolano riguardo il
referendum di domenica 17 Aprile, e in molti cadiamo nei
trabocchetti del premier Renzi che ha
esplicitamente invitato a boicottarlo.
Di seguito trovate l’utilissima analisi di una persona che si sporca le mani ogni giorno contribuendo ad organizzare i lavoratori in un sindacato conflittuale, che si è messo a studiare a fondo su cosa andremo a votare domenica, quali e di chi sono realmente gli interessi che il referendum mette in discussione. Si è anche chiesto fino a quale punto lo strumento referendario può essere efficacie in questo momento, quali le sue potenzialità e quali i suoi limiti che richiedono l’intervento di tutti, giorno per giorno.
* * *
Un piccolo contributo da parte di un compagno alla discussione sulle trivelle. Per realizzarlo, si è servito delle fonti avute dal Dott. Giuseppe Miserotti (ex presidente dell’Ordine dei Medici di Piacenza), da tutti i compagni dei movimenti NoTriv (in particolare Erika, i cui documenti interessantissimi vanno ben al di là dell’Italia e che qui non potevano essere inseriti per questioni di lunghezza) e da Nicola Armaroli (ricercatore al CNR di Bologna nonché direttore della rivista Sapere, ovvero la massima autorità in fatto di pubblicazioni scientifiche in Italia).
Leggi tuttoQuesto terzo volume conclude l’imponente trilogia sulle vicende della Romagna tra l’Ottocento e la metà del Novecento (qui e qui le recensioni agli altri due volumi). Un romanzo sui generis nel panorama letterario italiano, una storia collettiva raccontata attraverso l’esperienza di famiglie romagnole che si trovano, loro malgrado, ad attraversare la Storia ufficiale, quella segnata dalle date e dagli avvenimenti simbolici. Il più delle volte, a subire il peso di una Storia che travolge i destini delle popolazioni. Lungi da una rassegnata passività, però, le famiglie contadine raccontate in questa epopea moderna reagiscono e cambiano il corso di questa storia, si infilano negli interstizi del potere, si adattano alle circostanze, le sconvolgono, attuano forme di resistenza esplicita o implicita, insomma formano quella storia di cui sono al tempo stesso protagonisti e vittime, ma mai ignari spettatori. In questo volume i discendenti di Attilio Verardi e Rosa Minguzzi vivono alcuni dei momenti più tragici della storia nazionale: la lenta ascesa del fascismo come reazione agraria alla forza operaia e contadina del biennio rosso, i lunghi anni del regime e infine la lotta di Liberazione vista qui attraverso particolari vicende romagnole, eterodosse ma al tempo stesso capaci di descrivere la complessità del fenomeno resistenziale. La tesi di fondo è però la stessa in tutti e tre i volumi della trilogia: per le classi subalterne la storia si cambia solo attraverso l’uso consapevole della forza. Non è un caso che il secondo volume ha, come sottotitolo, l’affermazione: chi ha del ferro ha del pane, che costituisce il vera messaggio di fondo dell’intera trilogia.
Leggi tuttoUn breve ed efficacissimo articolo di Flassbeck, di ritorno dalla conferenza di Cernobbio sulla situazione economica mondiale ed europea, distrugge svariati luoghi comuni che incredibilmente continuano a circolare tra gli economisti sulla “ripresa” e sulle riforme che starebbero cominciando a funzionare, con particolare riferimento al caso irlandese e al nostro paese
Questo fine settimana sono stato invitato a una conferenza nel Nord Italia sulla situazione economica mondiale ed europea. Hanno partecipato molti scienziati di altissimo livello, così come politici di primo rango, provenienti dall’UE e dalla BCE (è possibile visitare il sito web qui e qui c’è una delle interviste che ho dato (in italiano)).
È stato sconfortante vedere e sentire una volta di più quante idee sbagliate sulla crisi europea ancora sopravvivono e quanto sia difficile – scientificamente e ancor più politicamente – trovare una soluzione o almeno concepire una strategia che vada in quella direzione. Voglio sottolineare ancora una volta i più importanti punti che restano incompresi. Mi soffermerò in particolare sull’Italia con alcuni semplici argomenti che sono difficili da confutare, ma, come le discussioni hanno dimostrato, anche non facili da comunicare.
Alcuni dei paesi in crisi stanno avendo successo!
Questa è una fantasia ossessiva di molti, ma qui il desiderio è il padre del pensiero. Leggi tutto
Tra gli argomenti più usati (e abusati) dalla grande stampa italiana nella sua crociata quotidiana contro la Casta politica, c’è sicuramente quello della mancata spesa dei fondi comunitari, specie nel Meridione. Un generoso dono di Bruxelles agli italiani, che però quest’ultimi, per corruzione e incapacità congenite, non sarebbero in grado di impiegare per promuovere quella “crescita” del PIL continuamente invocata. Peccato che lo storytelling mediatico non regga al rigoroso fact checking che Romina Raponi svolge nel libro “Finanziamenti Comunitari. Condizionalità senza frontiere. La finta solidarietà dell’unione europea” (Imprimatur, 2016). Non solo l’utilizzo dei fondi europei da parte dell’Italia è in linea con gli altri Paesi della Ue; ma nel 2014 l’Italia risultava anche un contribuente netto della Ue per ben 7 miliardi di euro, nonostante fosse al 12° posto nella Ue per Pil pro capite e presentasse fondamentali economici a dir poco disastrosi: Pil pro capite tornato ai livelli del 2000, un milione di occupati in meno rispetto al 2008, caduta degli investimenti fissi del 30% e perdita di capacità produttiva del 25% dall’inizio della crisi, esplosione della povertà e del debito pubblico, e ora deflazione.
Fatta questa necessaria premessa, l’autrice indaga nel dettaglio le modalità di funzionamento dei fondi comunitari. Come sappiamo, essi rappresentano una quota consistente del bilancio dell’Unione – più di un terzo del totale – e sono suddivisi in fondi diretti e indiretti (fondi strutturali e di coesione). Leggi tutto
Niente di nuovo sotto il sole. Il governo ha approvato il DEF (Documento di Economia e Finanza) 2016, confermando la linea degli anni passati. Si aggiustano le previsioni precedenti - sempre al ribasso, come di consueto -, si formulano nuove e poco realistiche previsioni per il futuro, si annunciano ulteriori richieste di "flessibilità" all'Europa, ma provando (con quanto successo non si sa) a non indispettire troppo l'occhiuta Commissione di Bruxelles.
E' il solito mix renziano, molto attento al consenso quanto inefficace nell'affrontare i nodi della crisi. C'è però una differenza rispetto al passato, ed è che gli annunci sulla "fine dell'austerità" e sulla "crescita" non attecchiscono più come prima. Ma da qui alla Legge di stabilità di certo Renzi si inventerà qualcosa, ad esempio l'estensione del bonus di 80 euro alle pensioni minime, come già accennato nei giorni scorsi.
Ma entriamo nel merito del DEF. In primo luogo, esamineremo brevemente i numeri e l'impostazione della manovra autunnale pensata dal governo. In secondo luogo, cercheremo di capire come andrà a finire la partita con l'UE. In terzo luogo, aspetto politico assai importante, faremo un'ipotesi su come Renzi si giocherà il tutto nella campagna referendaria d'ottobre. Leggi tutto
Incontro-dibattito sul libro L’Impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2015) presso La casa in Movimento, Cologno Monzese (MI), 14 febbraio 2016
L’Impero
virtuale,
nonostante il titolo, non è un lavoro su internet;
internet è solo lo sfondo, è un territorio che oggi fa parte
dello spazio in cui viviamo e quindi in qualche modo,
parlando di questo libro, lo attraverseremo. Non è neanche
un sermone contro le
tecnologie, che esistono fin da quando un uomo ha preso in
mano una clava, ossia uno strumento, e che quindi
accompagnano l’intera storia
dell’umanità. Non si tratta dunque di essere né pro né
contro, ma di mantenere vivo un pensiero critico – che in
quest’epoca fa un po’ difetto – anche sugli strumenti,
soprattutto quelli che non sono né secondari né trascurabili
per il fatto che investono la nostra vita, sia lavorativa
che relazionale. Intendo la nostra vita di specie, cioè una
vita che è
trasversale e ci mette sullo stesso piano di un cittadino
cinese, spagnolo, del Sudafrica ecc. È una riflessione
necessaria perché
queste nuove tecnologie, a differenza di quelle precedenti
della società industriale, si implementano a una velocità
straordinaria, per
cui abbiamo di fronte a noi un percorso di trasformazione
sociale che va talmente veloce che la nostra capacità di
coglierne il senso dello
sviluppo, il significato e le implicazioni, come singoli
cittadini e anche ricercatori e soprattutto come lavoratori
che vivono in vario modo questi
territori, è disorientata. Un disorientamento che assume due
facce: quella dell’accettazione, spesso acritica, di queste
tecnologie, come
se fossero ormai una normalità; oppure un’accettazione molto
dolorosa, perché chi deve fare i conti con un bracciale che
monitorizza la sua vita lavorativa per ogni secondo di
spazio e di tempo, ha certamente una relazione diversa con
questi dispositivi rispetto a una
persona che li utilizza in maniera acritica o superficiale.
Quelli che ci trattano da "distruttori
di macchine", dovremmo
trattarli noi, in cambio, da "distruttori di uomini."
- Günther
Anders
[*1]
Per una rilettura della
Rivoluzione Industriale
Recentemente, nello spazio di un anno, senza alcuna concertazione, le case editrici francesi hanno pubblicato quattro opere che riguardano la distruzione delle macchine [*2]. Fino ad allora, gli editori, riflettendo in questo l'attitudine della maggior parte degli storici, avevano dimostrato assai poco interesse alle rivolte contro le macchine avvenute all'alba della Rivoluzione industriale. Ciò era essenzialmente dovuto al fatto che quei movimenti venivano percepiti come la manifestazione di un "oscurantismo tecnologico", una reazione arcaica nei confronti di una dinamica storica che si presume si svolgesse sotto gli auspici del "Progresso". Lo attestano i manuali di storia: così, quando i fatti in questione non vengono puramente e semplicemente ignorati, vengono presentati come un "reazione primitiva" [*3]. Nell'arte della negazione, David S.Landes appare come un virtuoso: su circa 750 pagine di un libro consacrato alla nascita e alla crescita del capitalismo industriale, non dice niente dei disordini sociali che hanno segnato l'inizio dell'industria tessile in Inghilterra nei primi decenni del 19° secolo. Ai suoi occhi, "la Rivoluzione industriale insieme al matrimonio della scienza con la tecnica costituiscono il culmine di millenni di progresso industriale". E tale acme apre una nuova era di espansione illimitata, a partire da un "progresso cumulativo della tecnica e della tecnologia, un progresso autonomo" ancora più sfrenato dal momento che tradizioni e pregiudizi vengono abbandonati [*4].
Leggi tutto«Anime elettriche», un nuovo volume del gruppo di ricerca Ippolita. Proposte di una cura del sé dopo la riduzione della Rete a dispositivo di controllo sociale che colonizza l’immaginario
I social
network non
riflettono la realtà, semmai la manipolano all’interno di una
stringente e profittevole logica del controllo sociale. È uno
dei
punti fermi di Anime elettriche (Jaca Book, pp. 118,
euro 12), un agile, ma denso volume di Ippolita, il gruppo di
mediattivisti milanesi e
non solo che da circa un decennio analizza l’evoluzione della
Rete e della network culture. Un gruppo di informatici,
filosofi, antropologi e
attivisti che ha avuto come «incubatore» gli hack lab fioriti
negli anni Novanta del Novecento nei centri sociali, dove
l’alfabetizzazione informatica si univa creativamente alla
sperimentazione di un uso «alternativo», antagonista delle
tecnologie
digitali e della Rete.
Di quella stagione è rimasta intatta l’irriverente attitudine libertaria e la conseguente insofferenza verso ogni dogmatica attorno alla Rete, compresa quella che tutt’ora caratterizza la network culture. I componenti del gruppo hanno deciso di discutere, elaborare e scrivere collettivamente a partire da una pratica di condivisione «circoscritta» (il numero dei componente varia nel tempo, ma non supera mai le dieci persone). A testimonianza del loro lavoro vanno citati i volumi Open non è free (sul software non vincolato alle norme dominante sulla proprietà intellettuale), Luci e ombre su Google, Nell’acquario di Facebook, La rete è libera e democatica. Falso!.
Il panopticon digitale
Anime elettriche ha però le caratteristiche di un volume di svolta, quasi a ratificare una presa di congedo dal recente passato.
Leggi tuttoLo spirito coloniale che anima in questi giorni gli editoriali dei principali quotidiani italiani, in attesa di un'ipotetica invasione della Libia – 105 anni dopo la prima colonizzazione italiana, e a 65 dalla conquista libica dell'indipendenza – si estende anche ai gridolini isterici di esaltazione per l'incarico alla multinazionale cesenatica Trevi, da parte del governo dell'Iraq, di intervenire con lavori di ripristino sulla diga di Mosul, la più grande diga irachena e la quarta di tutto il medio oriente, costruita negli anni Ottanta. Purtroppo, tanto gli italiani quanto gli iracheni sono al momento tenuti all'oscuro di alcuni fatti riguardanti la vicenda di questa diga e dell'accordo in merito tra Iraq e Italia (che prevede anche l'invio di 450 soldati), aspetti che è bene invece raccontare nel dettaglio.
I lavori potrebbero essere il preludio di ulteriori problemi per Mosul e per l'Iraq; ma per comprendere ciò che sta accadendo è necessario fare un salto indietro, fino alle origini della costruzione della diga, che ebbe radice – per una concatenazione di circostanze – non in eventi riguardanti l'Iraq, ma l'Iran. Nel 1979 infatti, mentre Saddam Hussein assumeva la presidenza dell'Iraq, in Iran trionfava la rivoluzione contro lo Scià di Persia, monarca autoritario sostenuto dagli Usa, che trovò riparo a Washington. Ciò causò la protesta di migliaia di persone a Teheran, che ne chiesero la consegna per processarlo a causa dei crimini commessi contro il popolo iraniano. Un gruppo di studenti occupò l'ambasciata statunitense a Teheran, sequestrandone tutto il personale e inducendo gli Stati Uniti ad articolare una strategia per rovesciare il nuovo governo iraniano. Leggi tutto
L’evasione fiscale costa agli Stati europei un trilione di euro anno, eppure si continua a tagliare la spesa sociale. Il disegno ormai è chiaro: evasione fiscale per gli ultra-ricchi, austerità fiscale per tutti gli altri
In questi giorni si fa un gran parlare dei #PanamaPapers, l’inchiesta-shock di un consorzio internazionale di giornalisti sulle ricchezze nascoste nei paradisi fiscali (in questo caso Panama) di politici, imprenditori e celebrità. Nihil novi sub sole. Quella dell’evasione e dell’elusione fiscale è una delle pratiche più “antiche” – e più diffuse – del capitalismo moderno. Il “presidente dell’Europa”, Jean-Claude Juncker, ne è stato un facilitatore per diversi anni nella veste di primo ministro del Lussemburgo, e quando la notizia è diventata di dominio pubblico un paio di anni fa (qualcuno si ricorda ancora l’hashtag #LuxLeaks?) essa non ha neanche suscitato particolari clamori (soprattutto tra gli addetti ai lavori, ai quali il fatto era stra-noto). Semmai quello che colpisce sono le dimensioni dell’ultima “soffiata”: ben 11,5 milioni di documenti, la stragrande maggioranza dei quali, però, non è stata rilasciata, come ha segnalato anche WikiLeaks, facendo sorgere molti dubbi sulla trasparenza (e sull’intento “politico”) dell’operazione. Non è questo il punto che ci preme sottolineare in questa sede, però. Ci pare più interessante, invece, riflettere su come il fenomeno dell’evasione/elusione fiscale ci riguardi molto più da vicino – anche in senso geografico – di quanto i #PanamaPapers potrebbero far supporre. Leggi tutto
I sondaggi elettorali, ormai concordemente, assegnano valori ad una cifra a Forza Italia, che sarebbe, pertanto, il quarto o quinto partito italiano. Letta (quello intelligente, Gianni) ha avvisato l’ex Cavaliere: se le amministrative confermeranno queste quotazioni, è la fine di Forza Italia, ai tempi del PdL, nel 2009, il partito berlusconiano aveva superao il 40%, poi, in un turbine di scissioni, scandali, sconfitte, nuove scissioni, ha perso quasi 4 elettori su 5. Ora è solo l’ombra di sé stesso. D’altra parte, Fi viveva di riflesso del carisma del suo capo, finito il quale, il partito si rivela per quel che è sempre stato: una congrega di affaristi, politicanti, faccendieri, amici degli amici e via di questo passo che, quando l’ombra del capo non garantiva più le facili vittorie di un tempo, hanno cercato altre nicchie in cui accasarsi: chi con il Pd, via Monti, chi con un qualche partitino personale pronto a confluire di qui o di là, chi con la Lega o Fratelli d’Italia.
Berlusconi è stato logorato dalle troppe vicende giudiziarie (terminate con la declaratoria di ineleggibilità, almeno per ora), dalle figuracce internazionali, dal ridicolo delle vicende d’alcova in cui ha fatto la figura del vecchietto bavoso che corre ancora dietro alle donne, ma non si ricorda più perché. Ma, soprattutto dall’inclemenza del tempo: a fine settembre saranno 80, tondi tondi. Non proprio una età da candidato Presidente del Consiglio (non ricordi precedenti di Capo del Governo ottantenni, il più vecchio è stato Fanfani che ne aveva 79).
Leggi tuttoAl di fuori del mondo strettamente legato alla psicoanalisi, e forse in parte anche all’interno di quello stesso mondo, l’opera di Jacques Lacan è normalmente percepita come un coacervo di enigmi travestiti da sciarade. «Non si capisce niente», «sono solo giochi di parole», «elucubrazioni astruse in salsa surrealista»: di questo tenore sono le dichiarazioni quando si fa riferimento al celebre psicoanalista francese. Con questo secondo volume, intitolato Jacques Lacan e sottotitolato La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Massimo Recalcati sembra voler sfondare il fortilizio dei preconcetti e mostrare che il pensiero lacaniano non soltanto è tramato da un grande rigore concettuale ma che esso è limpido e lineare, progressivo nell’affrontare questioni e metodi; che, addirittura, è un pensiero, se non semplice, certo riassumibile nei suoi sviluppi principali.
Proseguendo quanto realizzato nel primo volume (Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina 2012), questo nuovo libro, anch’esso imponente per dimensioni, rivela una chiara ambizione egemonica, d’interpretazione complessiva e totalizzante del lavoro lacaniano, che viene infatti ripercorso nella sua vasta ricchezza, dalla riflessione sulla psicoanalisi infantile e dalla clinica delle psicosi (ambiti anche cronologicamente «primi» dell’indagine lacaniana, a partire dalla tesi di dottorato del 1932), passando per la paranoia, la schizofrenia, la melanconia, e approfondendo questioni nevralgiche come il «fantasma», il «godimento» e l’agalma (che è quanto caratterizza, per Lacan, il transfert analitico), fino ad affrontare (in un’Appendice solo nominalmente periferica) la questione nevralgica dei quattro discorsi e del discorso «quinto», ovvero quello «del capitalista». Leggi tutto
Quaderno Nr. 2/2016 a cura del Centro Studi e Iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Presentazione
Poco meno di vent’anni fa, nel 1997, aprivamo il nostro Quel pane da spartire. Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro sostenendo che “in quasi tutti i paesi economicamente sviluppati sta finalmente prendendo corpo un orientamento sociale embrionalmente favorevole ad una redistribuzione del lavoro. Ci sono titubanze, continui ripensamenti e aspre resistenze. C'è una grande difficoltà a concepire una riduzione d'orario che, al pari di quasi tutte quelle intervenute in passato, lasci il salario invariato o addirittura lo veda aumentare. Ma il problema sembra ormai essere stato comunque posto sul tappeto in modo irreversibile. L'elevata disoccupazione, che ha quasi ovunque raggiunto i più alti livelli dopo la crisi degli anni trenta, rafforza questa tendenza e sollecita qualche intervento pubblico diretto a favorire prime sporadiche redistribuzioni all'interno di singole aziende in crisi. In qualche raro caso sono le stesse parti sociali a concordare riduzioni del tempo di lavoro, come un espediente per evitare il puro e semplice licenziamento di una quota rilevante della forza-lavoro.”
Ma quella nostra anticipazione delle tendenze in atto era decisamente sbagliata. Faceva affidamento su una ragionevolezza del senso comune che non ha preso corpo nemmeno col precipitare della crisi degli ultimi dieci anni.
Leggi tuttoSergio Bianchi, Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo, Milieu edizioni, Milano, 2016, 336 pagine, € 15,90
«Credo che la ricchezza principale della nostra piccola esperienza militante fatta in quei paesi di provincia sia consistita nell’essere stati protagonisti di una rottura sociale unica dal dopoguerra in poi, dal punto di vista del voler rompere un assetto sociale, culture, forme esistenziali, modi di essere». S. Bianchi (p. 34)
Il libro di Sergio Bianchi, di cui è uscita nel marzo 2016 questa nuova edizione ampliata di un’ottantina di pagine rispetto all’edizione del 2015, racconta un periodo di storia conflittuale collettiva nell’alta Lombardia a cui ha preso parte in prima persona l’autore a partire dai primi anni ’70. In apertura di volume, Bianchi sottolinea come quelle insorgenze sociali che hanno investito anche la provincia alto-lombarda, originatesi sull’onda lunga del biennio ’68-’69, possono dirsi concluse nei primi anni ’90 con la diffusione in quei territori del progetto leghista.
Se il biennio ’68-’69 può essere visto come momento di detonazione di quell’onda lunga che poi investirà le realtà di provincia descritte nel volume, secondo Bianchi vale la pena spendere qualche pagina sul “pre-sessantotto” di quelle zone, periodo già precedentemente affrontato dall’autore sotto forma di romanzo (La gamba del Felice, 2006) [su Carmilla]. Il capitolo d’apertura di Figli di nessuno ricostruisce le trasformazioni subite dalla provincia a nord di Milano tra la metà degli anni ’50 e la fine degli anni ’60; quasi un quindicennio di lento ed inesorabile declino del mondo contadino distrutto dalla meccanizzazione della campagna a totale beneficio dei grandi proprietari terrieri e da una mentalità individualista che non ha saputo dar vita a soluzioni associative cooperativistiche.
Leggi tuttoBasta sfogliare un quotidiano per
rendersi
conto che il capitalismo democratico transatlantico, che è
stato il motore dello sviluppo economico dopo la seconda
guerra mondiale, sta vivendo
un periodo difficile. Fame, povertà, disoccupazione
giovanile, sostanze chimiche nell’acqua potabile, mancanza di
alloggi a prezzi
sostenibili: tutte questi problemi sono tornati d’attualità
anche nei paesi più ricchi.
La cosa non dovrebbe sorprendere: questo declino della qualità della vita, temporaneamente nascosto sotto il velo retorico dell’innovazione, ha radici profonde, e quarant’anni di politiche neoliberiste stanno finalmente presentando il conto.
Ma sommato alle conseguenze delle guerre mediorientali (prima i rifugiati e ora i sempre più frequenti attentati terroristici nel cuore dell’Europa), il disagio politico ed economico dell’occidente appare ancora più terribile. Non sorprende più di tanto che per i movimenti populisti antisistema, sia di destra sia di sinistra, sia così facile mettere in difficoltà le élite. Da Parigi a Flint, in Michigan, i governanti hanno dato tali prove di inettitudine e incompetenza che hanno finito per far sembrare Donald Trump un superuomo in grado di salvare il pianeta.
Sembra che il capitalismo democratico – quella strana creatura istituzionale che ha cercato di coniugare il modello economico capitalista (il governo implicito di pochi) con il sistema politico democratico (il governo esplicito di molti) – stia vivendo un’altra crisi di legittimità.
Leggi tutto“Ghetto Italia” (Fandango, 15 euri) è uno di quei libri che non piacciono ai signori giornalisti. Il motivo è presto detto: si tratta di un reportage d’inchiesta – una buona inchiesta – ma gli autori non sono giornalisti. Dev’essere per questo che il libro è uscito qualche mese fa senza stimolare l’attenzione che merita. Uno dei due autori, Leonardo Palmisano, si definisce “etnografo e scrittore”, nonché docente di Sociologia all’Università di Bari; l’altro, Yvan Sagnet, è un ex studente-lavoratore, ora laureato in Ingegneria e sindacalista della Cgil dopo una pionieristica lotta dei raccoglitori di pomodori in Puglia (a Nardò).
“Ghetto Italia” racconta il caporalato nel Sud ma anche nel Centro e perfino nel Nord Italia. Descrive in presa diretta la non-vita dei braccianti nel Salento e in Calabria; in Basilicata e lungo la costa Domiziana fino alle prestigiose colline dell’Astigiano. E’ un reportage sul neo- schiavismo oggi in Italia. La parola è data agli schiavi, che si fidano di Leo e Yvan e ci confidano, e poi passano indirizzi e nomi e numeri di telefono di altri schiavi, in altri luoghi.
Vivono in case diroccate adattate alla meglio, ma senza i servizi fondamentali; devono pagare per qualsivoglia servizio: il trasporto da “casa” ai campi; la doccia settimanale; il cibo; la ricarica elettrica del cellulare. Pagano, ovviamente, al circuito dei caporali, che è strutturato su più strati: i più vicini a chi lavora sono in genere ex schiavi, quindi stranieri, ma in cima alla gerarchia si trovano in genere italiani. Leggi tutto
Sabato 2 aprile al Centro Studi Sereno Regis di Torino ha avuto luogo una serata per ricordare Renato Solmi.
Sono intervenuti Tommaso Munari, Simone Scala con ampie e approfondite relazioni sul pensiero e il lavoro editoriale di Solmi, a cui hanno fatto seguito testimonianze di Francesco Ciafaloni, Giovanni Ramella, Cesare Pianciola, Enrico Peyretti. Hanno introdotto Enzo Ferrara e Massimo Cappitti, organizzatori della serata; Luca Baranelli ha dato inizio ai lavori con un breve e intenso saluto. Ringraziamo Francesco Ciafaloni, collaboratore del Centro Fortini, per aver fornito all’Ospite ingrato il testo del suo intervento, che ha messo lucidamente a fuoco l’eredità dello straordinario lavoro intellettuale di Renato Solmi.
* * *
Cercherò di seguire l’esempio di Luca Baranelli: non commemorare ma proporre ricerche e attività di informazione e comunicazione.
Non parlerò delle opere del «giovane filosofo» che, in parte, ho scoperto solo leggendo i suoi interventi su «Discussioni» ripubblicati nella Autobiografia documentaria. Di quelle opere si sono occupate molto bene le due relazioni. Renato è morto l’anno scorso, non 60 anni fa. Dopo l’autore assertivo, sicuro di sé, il traduttore e prefatore, è venuto il redattore, il consulente gratuito, il professore di scuola secondaria. Leggi tutto
Il romanzo di Mahi Binebine, scrittore ed artista marocchino, pubblicato in francese nel 2010 ed ora giunto nelle nostre librerie con il titolo “Il grande salto” (Rizzoli 2016), racconta la storia di alcuni giovani di Casablanca che vivono in uno dei quartieri più degradati della metropoli, Sidi Moumen, una bidonville cresciuta intorno ad una grande discarica a cielo aperto.
Le montagne di rifiuti che, giorno dopo giorno si accumulano, sono anche fonte di guadagno per gli emarginati che vi vivono intorno : recupero di metalli, di vetri, di oggetti provenienti dalle case dei quartieri benestanti, costituiscono la ‘mercanzia’ con cui racimolare qualche soldo, poche decine di dirhams.
I personaggi della storia sono ragazzi che amano il calcio e che sognano di diventare i campioni del quartiere, le stelle di Sidi Moumen. Infatti il titolo originale del libro è “Les ètoiles de Sidi Moumen”, titolo che in italiano non avrebbe detto molto agli eventuali lettori. Povertà, miseria, ambiente invivibile e maleodorante, catapecchie come abitazione, lavori miseri e violenza dei padri lasciano poche speranze di un futuro migliore ad Yashin, Hamid, Nabil, Fouad, Khalil e Azzi, figli di una baraccopoli dimenticata da Dio e dagli uomini.
La svolta nella loro vita prende il volto di Abou Zoubeir, carismatica figura fondamentalista, che offre con le sue “parole giuste, parole ghiotte che si fissavano nella memoria”, un senso alle loro miserie, una spiegazione delle stesse ed una prospettiva di riscatto e salvezza.
Leggi tuttoQuello che manca non è la «green economy» (investire dove i ritorni sono immediati e lasciar perdere il resto) ma la democrazia economica. Il referendum sulle trivelle è un momento di riflessione e auto-educazione fondamentale
Al vertice sul clima di Parigi i «capi» di 192 paesi hanno preso degli impegni enormi: mantenere l’aumento della temperatura del pianeta sotto i 2 e possibilmente vicino a 1,5 gradi centigradi. Per questo bisogna evitare di disperdere nell’atmosfera più di mille miliardi di CO2 equivalente di qui al 2100 (ne produciamo 35 miliardi all’anno).
Per raggiungere l’obiettivo i contraenti hanno presentato dei piani nazionali (detti Indc) molto generici, perché non ne viene indicato il «soggetto attuatore» che, per il pensiero unico dominante, non può che essere «il mercato»; non gli stati né i loro governi, né tantomeno il «popolo sovrano» e le sue comunità, ma la finanza.
Il non detto di quei piani è questo: gli interessi dell’industria petrolifera sono talmente grandi che a metterli in forse in tempi rapidi, anche oggi che il prezzo del petrolio è ai minimi, si rischia il tracollo dell’economia mondiale.
Solo a lasciare sottoterra le riserve di idrocarburi che non dovrebbero essere più bruciati per non superare la quantità di emissioni climalteranti che ci separano dai due gradi in più di temperatura si mandano in fumo decine di migliaia di miliardi già quotati in borsa. Leggi tutto
Globalizzazione e
decadenza industriale è il titolo dell’ultimo libro
dell’economista Domenico Moro. In
questo libro Domenico analizza alcuni temi fondamentali
legati allo sviluppo del capitalismo degli ultimi 50 anni.
Il baricentro della sua analisi sta
proprio nelle modificazioni strutturali che hanno prodotto
questa nuova fase chiamata fase transnazionale della
produzione industriale e come tali
modificazioni diventano la leva per il formarsi di nuove
sovrastrutture politiche e accordi internazionali
finalizzati al controllo dei profitti e al
dominio sul mercato in questa “nuova” era sociale. Abbiamo
chiesto all’autore di aiutarci a dipanare alcuni nodi legati
all’attuale conformazione storica del capitalismo
analizzandone per grandi linee gli ultimi sviluppi al fine
di cogliere alcune ricadute
politiche immediate nel contesto europeo.
* * *
D. Domenico, il punto di partenza della tua analisi non poteva che essere lo sviluppo delle forze produttive e le caratteristiche della crisi che hanno prodotto la fase attuale detta del capitalismo transnazionale, ci potesti dire, magari usando delle parole chiavi, quali sono le caratteristiche principali di questa fase?
R. Alla metà degli anni ’70 il centro del capitalismo (Usa, Europa occidentale e Giappone) si è trovato in un grave crisi economica e politica per il riemergere della sovrapproduzione di capitale e della conseguente caduta del saggio di profitto, e per il successo delle lotte delle classi subalterne nel centro e nella periferia del sistema capitalistico mondiale. Leggi tutto
La prematura scomparsa di Gianroberto Casaleggio fornisce una serie di occasioni di analisi sul M5S alla vigilia delle elezioni romane
Casaleggio è stato uno
dei due fondatori, assieme a Beppe Grillo, del movimento ma
anche, tra i due, quello che è
riuscito a collocare il messaggio di Grillo all'interno delle
dinamiche della comunicazione così come sono emerse dalla
seconda metà del
decennio scorso.
Le parole d'ordine di Casaleggio, espresse nel suo lavoro politico (perché di tale si è trattato) sono state due: tecnologia ed organizzazione. Entrambe passavano dall'uso positivo delle tecnologie della comunicazione, dai desktop a tutta l'evoluzione del mondo mobile. E' questa mentalità che ha permesso ad un comico, che negli anni ‘80 faceva spettacoli tv per 20 milioni di persone, ma che negli anni ‘90 era un semiclandestino che vendeva i suoi show in cassette VHS, di far schizzare i propri contenuti direttamente a contatto con la politica e la dimensione elettorale. Lo stesso Grillo, in diverse occasioni ha scherzato ricordando il periodo tecnofobo (malattia invece mai scomparsa a sinistra) quando distruggeva i pc con il martello. Ancora oggi, per quanto le primarie online del movimento 5 stelle siano molto poco frequentate, l'ideologia ufficiale del M5S è quella del primato politico, in quanto opinione pubblica, rete di pc o di smartphone. Visto che, come documentato, ci sono state espulsioni a causa della formazione di catene Whatsapp "non riconosciute" di esponenti M5S, c'è da dire che il passo dalla distruzione dei Pc, alla definizione di ciò che è lecito nell'evoluzione della rete, è enorme. Leggi tutto
Introduzione
Perché scrivere una nuova prefazione di un testo? Con Genette (1987) sappiamo che ogni prefazione ha la funzione di orientare l'interpretazione del lettore. Se è così, le introduzioni al Manifesto del partito comunista costituiscono un documento di eccezionale interesse: dicono molto del modo in cui questo scritto, piccolo ma pericoloso, è stato interpretato nel corso dei suoi quasi 170 anni di vita. Un periodo in cui è stato continuamente ristampato mentre mutavano le sorti del movimento dei lavoratori, della filosofia marxista e delle forme di Stato che ad essa si ispiravano e si ispirano tutt'ora. Wikipedia conta una sessantina di edizioni italiane, ma basta dare un'occhiata al catalogo opac per rendersi conto che il computo è largamente incompleto. Fortunatamente, il numero delle prefazioni e delle introduzioni è minore; nonostante questo non è stato possibile reperirle tutte. Il nostro criterio è stato il seguente: abbiamo effettuato un campionamento di grappoli di testi a distanza di più o meno cinquant'anni. In questo modo si sono evidenziate alcune funzioni interessanti delle prefazioni:
- Bilancio della storia del movimento dei lavoratori dal 1848;
Leggi tuttoNon si può dire che le ultime misure prese dalla BCE abbiano suscitato l’entusiasmo dei mercati e dell’opinione pubblica. Né sembra che esse abbiano avuto un’incidenza reale sull’economia reale
Appare un fenomeno di rilievo il fatto che importanti esponenti del sistema economico e finanziario dominante mettano sempre più in dubbio la bontà delle strategie portate avanti negli ultimi anni dai governi e dalle banche centrali dell’Occidente, mentre gli stessi esperti tendono anche a prevedere un futuro piuttosto oscuro.
In un articolo precedente pubblicato su questo stesso sito avevamo ricordato le opinioni di El-Erian, tra l’altro consigliere economico della Casa Bianca (Comito, 2016), relative alla mancanza di una strategia di lotta alla crisi da parte delle autorità politiche, che hanno lasciato così tutto nelle mani di banche centrali che da sole non sono peraltro in grado di risolvere i problemi che stanno davanti a noi.
Ora è la volta di Mervyn King, già governatore della Banca d’Inghilterra dal 2003 al 2013. Questo importante personaggio dell’establishment anglosassone ha appena pubblicato un volume (King, 2016), nel quale, mentre lancia un grido d’allarme sullo stato dell’economia mondiale – anche in un’intervista recente a Le Monde (Albert, 2016), egli valuta che una nuova crisi finanziaria è ormai probabile entro un arco di tempo piuttosto ravvicinato-, sottolinea anche l’impotenza delle banche centrali.
Leggi tuttoPoiché il mondo ha bisogno di essere salvato da se stesso, chi meglio del Fmi potrebbe riuscire nell’impresa, essendo pure titolato a farlo con tanto di atto costitutivo?
Mi figuro sia stato questo il ragionamento degli estensori mentre leggo un agile documento dedicato alle tante e note fragilità del nostro sistema monetario e finanziario internazionale, che infatti occupano gran parte delle 38 pagine del paper (Strenthening the international monetary system)“, che si concludono con alcune considerazioni che si potrebbero riepilogare così: non solo il Fmi deve prendere un ruolo di primo piano nell’intervento delle emergenze finanziarie, a cominciare da un efficace gestione della liquidità, ma anche la sua moneta, l’SDR, deve essere pronta, visto che il sistema attuale, basato sugli swap della Fed e sulla predominanza del dollaro mostra con chiarezza la corda.
Potremmo discutere a lungo sulla circostanza che il sistema attuale mostri la corda da un bel pezzo. Già dal finire degli anni ’50 era chiaro a tutti quelli che “il peso specifico dell’economia americana e la predominanza del dollaro”, come scrive oggi il Fmi, siano un fattore che incoraggia l’instabilità. Che certo si è aggravata, specie da quando i flussi di capitale hanno cominciato a viaggiare liberi per il mondo compiendo il miracolo di far diminuire la povertà e insieme fare aumentare la diseguaglianza. Sempre perché la famosa pentola del diavolo è orfana di coperchio. Leggi tutto
Chi dovrebbe risolvere il problema libico? L’ONU, che ha fornito la foglia di fico per giustificare l’aggressione del 2011? Gli Stati Uniti, con le lugubri smargiassate pseudocesariane della Clinton e col subdolo interventismo di Obama? Cameron e Sarko –Hollande? L’Italia, che ha gettato nel letamaio il trattato d’amicizia firmato da Berlusconi e ratificato da Napolitano?
I libri di storia ufficiali descrivono il colonialismo come un fenomeno del passato. In realtà, il colonialismo non è mai morto: quando uno stato è occupato, il suo governo sostituito da Quisling e le sue risorse saccheggiate, possiamo pure pudicamente aggiungere il prefisso ‘neo’ al termine ‘colonialismo’, ma il lessico non modifica la realtà. La Libia aveva un grande sviluppo nel settore petrolifero e finanziario. Secondo il Fondo monetario internazionale, le attività nette all’estero della Banca centrale e dei due fondi sovrani ammontavano a 152 miliardi di dollari a fine 2010.
Nel nostro Paese gli investimenti erano diretti soprattutto ai comparti energetico, bancario, impiantistica ed infrastrutture (Banca di Roma, Fiat, Finmeccanica, Juventus, Mediobanca, Olcese, Retelit…). Forti investimenti anche in Russia, Inghilterra e Giordania. La Libia possedeva o controllava tramite la LAP (Libyan African Investment Portfolio) le compagnie telefoniche o le licenze di comunicazione in otto paesi africani. Secondo un dispaccio di Wikileaks, diverse banche americane, tra cui la Goldman Sachs Asset Management, Citigroup e JP Morgan, gestivano 500 milioni di dollari per conto del fondo LIA; possedeva il 24% della società di esplorazione per gas e petrolio Circle Oil. Leggi tutto
Il Primo ministro indiano Modi ha recentemente visitato la Russia per dare un’ulteriore spinta alla partnership bilaterale
1. GLI ACCORDI – Questa visita del Premier indiano Narendra Modi, tenutasi la Vigilia di Natale del dicembre scorso, ha rafforzato gli interessi tra gli Stati mantenendo la loro tradizionale amicizia e rafforzando l’equilibrio mondiale multipolare. Inoltre è la seconda visita in Russia in un anno: la prima è stata presso Ufa, capitale della Repubblica di Baschiria, per partecipare ai summit BRICS (Brasile-Russia-India-Cina-Sudafrica) e SCO (Shanghai Cooperation Organisation).
Le moderne relazioni bilaterali tra India e Russia sono cominciate nel 2000 quando il Presidente Russo Vladimir Putin dichiarò, tramite un articolo pubblicato sul periodico The Indu che «la dichiarazione sulla Partnership Strategica tra India e Russia stipulata in ottobre diventa un passo storico»; sin da allora le relazioni indo-russe si sono diversificate enormemente, e oggi sono in forte espansione nelle aree difesa, energia nucleare, idrocarburi, ricerche spaziali, scienza e tecnologia. Queste recenti visite del premier indiano Modi hanno rinsaldato i legami tra i due Stati. Proprio durante il secondo incontro i due Paesi hanno firmato diversi accordi importanti, incluso quello relativo alla produzione in India di elicotteri Kamov 226. La decisione della produzione degli elicotteri in India anziché in Russia corrisponde alla politica del “made in India” richiesta da Modi. Leggi tutto
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Davvero siamo felicemente usciti dal fordismo del 900? Oppure siamo semplicemente dentro a una nuova fase della Grande Narrazione tecnica e capitalista?
Davvero il lavoro è cambiato, oggi,
in
tempi di terza (o già di quarta, con la digitalizzazione)
rivoluzione industriale, rispetto alla prima di fine
Settecento? Davvero siamo
felicemente (e finalmente!) usciti dal fordismo greve e
pesante del ‘900 per approdare al post-fordismo leggero,
flessibile e virtuoso, alla
produzione snella, all’economia della conoscenza e all’era
dell’accesso, alla new economy degli anni ’90 e ora
alla
sharing economy e agli smart jobs – e qualcuno (Paul Mason)
immagina persino un favoloso post-capitalismo? Oppure siamo
semplicemente (e
drammaticamente) dentro a una nuova fase della Grande
Narrazione tecnica e capitalista?
Se carattere tipico e definitorio del fordismo era la produzione industriale di massa basata sull’impiego di lavoro ripetitivo e generalmente senza particolari qualifiche e specializzazioni («Io» – diceva Henry Ford – «non riuscirei mai a fare la stessa cosa tutti i giorni, ma per altri le operazioni ripetitive non sono un motivo di orrore. L’operaio medio desidera un lavoro nel quale non debba erogare molta energia fisica, ma soprattutto desidera un lavoro nel quale non debba pensare»), il post-fordismo si caratterizzerebbe invece per l’adozione di tecnologie e criteri organizzativi che pongono una particolare enfasi sulla specializzazione e sulla qualificazione del lavoro e delle competenze nonché sulla flessibilità dei lavoratori.
Leggi tuttoAncora un’altra situazione di
stallo ha preso forma tra acqua potabile e profitti minerari
in Colombia, dove due società insistono che il loro diritto di
inquinare viene
prima della salute umana e dell’ambiente. Come succede di
solito in questi casi, la sfavorita è l’acqua pulita.
Due milioni di persone dipendono dalle lagune di elevata altitudine, che sono anche il rifugio di specie minacciate, che una compagnia mineraria canadese, la Eco Oro Minerals Corporation, vuole usare per una miniera d’oro. Le lagune, il Santurbàn Pàramo delle Ande, sono state dichiarate interdette all’accesso dalla più alta corte colombiana a causa della sensibilità ambientale dell’area. La Eco Oro sta citando in giudizio il governo colombiano al riguardo sulla base dell’Accordo di Libero Scambio Canada-Colombia.
La disputa sarà probabilmente esaminata da un tribunale segreto che è un braccio della Banca Mondiale, nonostante che la Banca Mondiale abbia fornito capitali d’investimento alla Eco Oro per sfruttare la miniera.
La Eco Oro non ha detto quale somma intenda chiedere, ma un’altra compagnia mineraria, la statunitense Tobie Mining and Energy Inc., ha separatamente citato la Colombia per 16,5 miliardi di dollari poiché il governo ha rifiutato di consentirle di aprire una miniera d’oro in un parco nazionale. Leggi tutto
Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca de “Il Bombardamento Etico” (luglio 2012)
Il 14 aprile 2016, Costanzo
avrebbe compiuto 73 anni. Ed invece ha dovuto congedarsi
dalla vita nel novembre
2013.Ma ha pensato, lavorato, scritto fin che ha potuto. Nel
luglio del 2012 aveva preparato la prefazione alla edizione
greca del suo «Il
Bombardamento Etico», tre pagine che proponiamo alla
considerazione critica dei lettori.Sono trascorsi 16 anni da
quando pubblicammo questo suo
importante testo, che – come dice l’autore – non solo non è
invecchiato, ma è ancora più attuale. Sedici anni,
eppure vivida è la memoria di quei giorni in cui,ospitando
Costanzo per qualche giorno a casa mia qui nella campagna
intorno a Pistoia,
leggevamo il suo dattiloscritto, discutendone in modo
appassionato, per prepararne la pubblicazione. [C. F.]
* * *
Sono molto contento che il mio saggio Il Bombardamento Etico, scritto negli ultimi mesi del 1999 e pubblicato in lingua italiana nel 2000, sia stato tradotto in greco. Rivedendo la traduzione, precisa, corretta e fedele, mi sono reso conto che purtroppo il saggio non è “invecchiato” in dieci anni, ma in un certo senso è ancora più attuale di dodici anni fa. E’ ancora più attuale, purtroppo. E su questo “purtroppo” intendo svolgere alcune rapide riflessioni. Leggi tutto
Giorgio Griziotti, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 260 pagine, € 20,00
Negli ultimi trent’anni la categoria marxiana della “sussunzione reale” è stata spesso utilizzata come cartina di tornasole per leggere materialisticamente molti passaggi epocali che l’avvio della rivoluzione tecnologica e la globalizzazione ci ponevano davanti. Nel suo ricchissimo Neurocapitalismo Giorgio Griziotti argomenta, con grande efficacia, l’avvenuto inveramento/superamento di quella stessa categoria: la transizione dalla sussunzione reale alla “sussunzione vitale”. L’epoca in cui la valorizzazione capitalistica riesce a mettere in valore non solo le forme del lavoro e della cooperazione sociale, ma la vita stessa, nella sua intelligenza, nelle sue potenzialità relazionali, nel suo portato di desideri e aspettative, finanche nella sua nuda essenza.
Il Neurocapitalismo è la fase bio-cognitiva della valorizzazione: la connessione mente, corpo, dispositivi e reti appare inestricabile e definisce la onnipervadenza della mediazione tecnologica. Il soggetto, i suoi desideri, le sue potenzialità, sono integralmente “messi in valore” dentro la dimensione di iperconnessione globale in cui tutta l’umanità, dalle savane alla metropoli, con gradi differenti, è ormai pienamente immersa. Leggi tutto
Lo scorso anno l’ENI ha scoperto nelle acque territoriali egiziane il maggior giacimento di petrolio e di gas del Mediterraneo. Sicuramente è una pura coincidenza il fatto che l’omicidio Regeni abbia causato una crisi dei rapporti tra Italia ed Egitto che mette a rischio questo affare. Come pure è una mera coincidenza la circostanza che l’omicidio Regeni vada a vantaggio di quelle stesse multinazionali che nel 2011 si erano avvantaggiate a scapito dell’ENI per l’attacco al regime libico di Gheddafi. In particolare ne trae giovamento la britannica BP, che in Egitto è il secondo operatore internazionale, dopo l’ENI che è il primo; così che la BP è spesso costretta ad operare in joint venture con lo stesso ENI. Casualmente Regeni era in Egitto per conto di un’università inglese, Cambridge. Si potrebbe dire che la fortuna aiuta i voraci.
Non è la prima volta che gli omicidi vanno fortunosamente a sostegno degli interessi di alcuni gruppi affaristici. Nel 2002 l’assassinio del giuslavorista Marco Biagi, autore di un “libro bianco” su una possibile riforma del mercato del lavoro, consentì l’anno dopo al governo di allora di varare un provvedimento di precarizzazione del lavoro (la Legge 30/2003), ponendolo sotto l’icona inviolabile del giuslavorista vittima del terrorismo, tanto che i media adottarono la formula di “Legge Biagi”.
In effetti vi sono parecchi e fondati dubbi che Biagi possa essere considerato effettivamente l’autore di quei provvedimenti. Leggi tutto
Pubblichiamo in anteprima, per gentile e gradita concessione della casa editrice Feltrinelli, la prefazione e l'introduzione dell'ultimo libro di Axel Honneth, "L'idea di socialismo". Il libro, tradotto in italiano da Marco Solinas, sarà nelle librerie a partire dal prossimo 5 maggio
Sono trascorsi meno di cento anni da quando il socialismo era un movimento così forte all’interno delle società moderne che pressoché nessuno dei grandi teorici sociali del tempo ritenne di potersi astenere dal dedicargli una trattazione dettagliata, talvolta critica talvolta invece fortemente simpatetica, ma sempre comunque attenta e rispettosa. Iniziò John Stuart Mill, ancora nel XIX secolo, seguito da Émile Durkheim, Max Weber e Joseph Schumpeter, per citare soltanto i più importanti; nonostante questi autori mostrassero grandi differenze quanto a convinzioni personali e programmi teorici, tutti però concordavano nel vedere nel socialismo una sfida intellettuale che avrebbe dovuto accompagnare il capitalismo per lungo tempo. Oggi la situazione è completamente diversa. Posto che nell’ambito dell’attuale discussione di teoria sociale il socialismo venga ancora menzionato, sembra sia ormai una convenzione quella di considerarlo alla stregua di un residuato bellico, di un sopravvissuto; non lo si ritiene infatti più in grado di riaccendere l’entusiasmo delle masse, né tantomeno di indicare delle valide alternative al capitalismo contemporaneo. Quasi in una sola notte – Max Weber si sarebbe stropicciato gli occhi, meravigliato –, due grandi antagonisti del XIX secolo si sono scambiati i ruoli: ora la religione sembra una promettente forza etica lanciata verso il futuro, mentre il socialismo è percepito come una creatura spirituale del passato.
Leggi tutto1. La figura di Gianroberto
Casaleggio
è stata enormemente importante nella vita politica italiana
degli ultimi dieci anni.
Comunque la si voglia valutare, cosa che sarà lasciata a futuri giudizi storici e politologici, non si può non considerare che egli abbia tentato di dare una risposta alla domanda di democrazia che, per vari e diversi motivi (molto più complessi di quanto non consenta di cogliere l'analisi correntemente fattane dal sistema mediatico in ogni sua forma), si è levata da parte di una larga componente del popolo italiano.
E' perciò pienamente comprensibile e legittimo che il ricordo a caldo sia espresso citando queste sue parole, da parte di chi in lui aveva trovato queste risposte.
2. Senza però voler muovere alcuna critica nel merito, il venir meno di una figura così importante e trainante, pone obiettivamente due interrogativi che, comunque, dovranno trovare risposta nei prossimi mesi.
Li formulerò in modo generale e strettamente attinente al ricordo-epitaffio sopra riportato:
a) L'art.49 della Cost. recita:
"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale".
Leggi tuttoWho
watches
the Watchmen?
Quis custodiet ipsos custodes? «Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?»
La formula, resa celebre dal fumetto (poi film) Watchmen, è di Giovenale, ma il concetto, già alla base delle ironiche riflessioni di Platone sull’assurdità che i custodi avessero a loro volta bisogno di custodi, si è recentemente imposto come tema cruciale anche nella cultura pop, tanto da essere affrontato nell’ultimo 007, Spectre, nel terzo episodio della saga di Batman di Cristopher Nolan, The dark knight rises, passando per il romanzo The Circle di Dave Eggers e il capitolo più recente del videogioco Call of duty.
Nei giorni in cui Apple, con il sostegno di Google, Facebook e Microsoft, lotta contro l’FBI per definire in tribunale i rispettivi diritti e doveri dopo lo scandalo sulla sorveglianza di massa delle comunicazioni da parte della NSA (National Security Agency) e la Cina annuncia lo sviluppo di un software per prevenire atti terroristici (e contestazioni governative?), la sorveglianza informatica diventa colonna portante di alcune tra le più riuscite e sofisticate narrazioni contemporanee: dall’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, a serie televisive di grande successo come House of cards, Homeland e Mr.Robot. Leggi tutto
"Infelice Atlante! Un mondo, l'intero mondo del dolore devo portare. Sopporto l'insopportabile, e il cuore mi scoppierà in petto."
Così Schubert, nel suo Schwanengesang, il canto del cigno. Simbolicamente, anche quello che rischia di essere il canto del cigno di un ben altro artista, Pier Carlo Padoan, nasce all'insegna di Atlante. Il fondo Atlante, quello del quale avrete sentito parlare e che mi accingo a commentare a Prima Serata su Mediaset TgCom 24 (alle 21:30, dopo una meritata doccia).
Preferirei farvi l'analisi dell'Atlas di Schubert. Ma mi tocca farvi una rapida analisi del fondo Atlante, frutto di conversazione con membri del comitato scientifico di a/simmetrie (le opinioni espresse sono comunque mie) e con Charlie Brown, che ringrazio particolarmente.
Il Fondo Atlante è una operazione impostata in fretta e furia per puntellare il sistema a fonte del rifiuto dei mercati di sostenere le banche italiane più o meno decotte/deficitarie di capitale. Di fatto sposta perdite in conto capitale da una parte all'altra del sistema finanziario, con l'unico scopo di far sopravvivere il sistema in attesa della "ripresa". Una "ripresa" che non arriverà finché siamo nell'euro, come ci siamo detti mille volte. Ma è anche un intervento marginale e quindi insufficiente. A livello sistemico le perdite inespresse a bilancio sono di qualche decina di miliardi, come ammette Repubblica. Leggi tutto
Nessun sistema fiscale può essere “competitivo” rispetto ad un modello articolato e raffinato di evasione, come quello delineato nei documenti dello studio legale Mossack-Fonseca. "Quando così tanti esponenti delle classi dirigenti di più Paesi decidono di fare ricorso ai paradisi fiscali -commenta Alessandro Volpi-, è evidente che il principio fondativo delle istituzioni politiche liberali, secondo cui il pagamento dei tributi è la condizione della rappresentanza politica, ha subito una tragica sparizione"
“Panama papers” avrebbe potuto essere il titolo di un romanzo di spionaggio finanziario scritto nei ruggenti anni Novanta -per usare la nota espressione di Joseph Stiglitz-, prima che la crisi del 2007 scatenasse la peggiore tempesta nella storia del capitalismo. Gli ingredienti, infatti, per una trama inquietante e assai torbida ci sono tutti, a cominciare da uno studio legale affermato, guidato da due avvocati tanto potenti quanto discussi come Ramon Fonseca, consigliere del presidente panamense Varela, da cui si è allontanato dopo essere rimasto coinvolto nello scandalo brasiliano di Petrobras, e Jurgen Mossack, figlio di un caporale delle SS, accusato di spionaggio per gli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra. Leggi tutto
Sabato 9 aprile, il 40 di marzo secondo il nuovo calendario della protesta, più di 150mila persone hanno manifestato a Parigi e più di 200 manifestazioni hanno avuto luogo in tutta la Francia, mostrando che la mobilitazione contro il progetto «loi travail» è ancora alta. La partecipazione a Parigi è stata davvero potente e ha coinvolto non solo attivisti ma molti settori del lavoro salariato, studenti universitari e superiori e lavoratori dello spettacolo. Dopo più di un mese di continue manifestazioni è accaduto qualcosa di completamente nuovo: le forze di polizia in Place de la Nation hanno provocato e caricato i manifestanti al termine del corteo. Nella stessa serata, Place de la Republique si è riempita di persone, mostrando che la «nuit debout» sta davvero stabilendo una connessione tra studenti, lavoratori pubblici e privati, cittadini comuni, attiviste LGBT e femministe, migranti e pensionati.
In Francia il movimento contro la «loi travail» sta crescendo rapidamente e sta coinvolgendo i lavoratori precari di oggi e quelle di domani. Il governo sta cercando di precarizzare ulteriormente il mercato del lavoro per attrarre investimenti stranieri e accontentare i datori di lavoro. La lotta sta coinvolgendo lavoratori in condizioni diverse – precari, studenti e migranti – e aprendo lo spazio per un’organizzazione politica che va ben al di là del rifiuto di una singola legge. Leggi tutto
Era passata già la mezzanotte di giovedì 31 marzo ma Frédéric Lordon continuava a discutere con un ampio gruppo cittadini che avevano deciso di accamparsi in Place de la République, a Parigi. Quel giorno, dopo la manifestazione di Parigi contro la riforma del lavoro di Hollande e il concerto-proiezione successivo, Lordon fece un discorso che passerà alla storia come l’inizio della “Notte in piedi” (Nuit Debout), il movimento appena nato degli indignati francesi.
“Oggi cambiamo le regole del gioco. Giocavamo con le loro. A partire da adesso, lo facciamo con le nostre”, ha esclamato Lordon davanti a chi lo ascoltava. Tre giorni dopo, domenica 34 marzo, Lordon ha preso di nuovo la parola nella assemblea che si teneva per il terzo giorno consecutivo a République. “Scriviamo la costituzione di una repubblica sociale”, ha detto ai circa 2000 indignati che, quel pomeriggio, si erano concentrati nella piazza della liberté, egalité, fraternité della capitale francese.
Lordon, l’economista e sociologo che dirige le ricerche del prestigioso Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica (CNRS) francese, assicura di essere stanco del fatto che provino ad appiccicargli addosso l’etichetta di leader. Tuttavia, le sue idee alternative e il suo sguardo critico fanno di lui uno degli intellettuali che risvegliano più ammirazione tra le migliaia di francesi che dallo scorso 31 marzo si riuniscono un assemblea – e in molti casi si accampano – a Parigi, Lione, Tolosa, Rennes e altre località francesi ispirate dal 15M spagnolo.
Leggi tuttoIl movimento francese contro il Jobs act di Valls e Hollande dilaga in tutto il paese. La protesta degli studenti e dei precari contro la riforma del lavoro El Khomri coinvolge i ferrovieri e i portuali. In migliaia restano nelle piazze fino a notte fonda. La polizia sgombera, il giorno dopo ricominciano le occupazioni. A due settimane dal gigantesco sciopero contro il governo socialista, gli orologi sono fermi. Oggi in Francia è il 46 marzo
A più di cinque settimane dal primo sciopero di protesta
contro la riforma del lavoro, il 9 marzo, la Loi El
Khomri sembra un effetto goffamente indesiderato. La legge di
troppo, quella che ha fatto
traboccare il vaso dell’insofferenza ed è riuscita a coagulare
la rabbia delle vite precarie di giovani e lavoratori esposti
ai
contraccolpi della crisi economica e sottoposti da oltre
cinque mesi alla cappa asfittica dello stato di emergenza. E
infatti ni chair à
patron, ni chair à matraque (non siamo carne da macello
per le imprese né per i manganelli) è diventato il ritornello
della
protesta.
Se la difesa dello statuto dei lavoratori sotto attacco è il primo punto all’ordine del giorno, la posta in gioco della mobilitazione è ben altra. Al coordinamento nazionale degli studenti medi, che sabato e domenica si è riunito per la prima volta a Nanterre, c’è perfino chi suggerisce di votare la rivoluzione. Nelle assemblee universitarie (miste, non miste, di dipartimento e interfacoltà), che si susseguono e si moltiplicano a scadenze ravvicinate, il lavoro è in questione: si discute delle 32 ore, dei sussidi di disoccupazione, di basic income e organizzazione sindacale.
C’è chi perora la causa dei contratti a tempo indeterminato, chi dice “lavorare tutti/lavorare meno” e chi, come Selim, al quarto anno di filosofia alla Sorbona, di lavoro salariato non vuole sentire parlare perché andrebbe abolito. Leggi tutto
L’economista turco Dani Rodrik
(questo il suo blog)
è sicuramente una delle star del panorama economico
internazionale, docente ad Harvard e autore del
famoso “trilemma” sulla globalizzazione lanciato dal suo libro
“La
globalizzazione
intelligente”, della quale avevamo fatto questa
lettura. In questo libro
tenta una complessa difesa della professione economica, anche
se in una versione in cui sono avanzate più modeste assunzioni
sulla
capacità di conoscere il mondo “vero” attraverso i suoi
strumenti.
La tesi essenziale è piuttosto semplice, in prima lettura: la realtà sociale (e quindi economica) non si può conoscere né prevedere, tuttavia per agire in modo razionale è necessario compiere con il giusto metodo e le corrette aspettative le semplificazioni e modellazioni che la disciplina organizza. La contraddizione si risolve, nella sua proposta, grazie al pluralismo. Precisamente al pluralismo dei modelli.
Questa prospettiva è molto interessante e promettente, ma non riesce a convincermi pienamente. L’economista “eterodosso” in troppi punti mi appare ancora legato da fili resistenti al paradigma neoclassico, ed al suo realismo ingenuo di derivazione neopositivista, e non riesce a trarre complete conclusioni dal suo “allentamento” di aspettative. Rodrik si dice vicino ad una prospettiva pragmatista (più propriamente “neo”) ma alcuni avvertimenti tipici della tradizione sono esercitati in modo credo troppo debole. L’abbandono dell’idea di Verità come corrispondenza ad una Realtà prestrutturata (o auto-strutturata), implicata nel neo-positivismo, in favore dell’inclusione del nostro contributo concettuale (che è sempre sociale e linguisticamente definito) che include sempre i criteri di verificazione e quelli di verità, porterebbe infatti in caso di coerente applicazione agli enunciati tentati dall’economista di Harvard a diversi “non sequitur” nella catena delle argomentazioni. Almeno questa è l’impressione che ho tratto dalla lettura.
Il movimento del libro di Rodrik parte dal discredito reciproco, verso il quale intende lanciare ponti, tra i settori disciplinari ed accademici degli economisti professionali e degli altri scienziati sociali (sociologi, politologi). Una controversia che matura nel diverso utilizzo e concezione del metodo scientifico ed in particolare nell’uso dei modelli matematici.
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Sul sito del Institute for New Economic Thinking, un importante contributo di Heiner Flassbeck e Costas Lapavitas chiarisce in maniera definitiva la questione se la forza esportatrice tedesca provenga dalla concorrenza sleale della compressione salariale o dalla mitica produttività germanica. Porre la questione in questi termini è infatti fuorviante, in quanto significa non voler comprendere che in una unione monetaria l’accordo dovrebbe essere di mantenere i salari nominali in linea con la produttività, tenuto conto del tasso di inflazione concordato
Di recente, la nostra
analisi è stata messa in discussione da Servaas
Storm, che ha affermato che l’accusa a carico della Germania
di avere
spaccato l’eurozona con il suo neomercantilismo è
insostenibile. [1]Qui dimostriamo che la critica
di Storm ha un certo aplomb, ma manca di sostanza.
La maggior parte dei macroeconomisti in Europa ha probabilmente ormai accettato che la persistente moderazione salariale tedesca è la causa centrale degli squilibri fondamentali nell’Unione Monetaria Europea. Gli estensori di questa nota hanno dimostrato che questi squilibri sono responsabili della crisi dell’Eurozona nel senso più ampio, dal momento che hanno provocato lo strapotere tedesco nei flussi commerciali (esportazioni), l’esportazione di disoccupazione dalla Germania, scarsi investimenti e bassi incrementi di produttività all’interno dell’Unione, fino ad arrivare alla deflazione. [2]
Gli squilibri nell’ Unione monetaria europea
La posizione di Storm è chiara e vale la pena citarlo per esteso:
“In secondo luogo, come mostrato in figura 1 [nell’articolo di Storm], non vi è alcun segno evidente di una compressione dei salari nominali dei lavoratori tedeschi se confrontiamo la Germania con la zona euro nel suo insieme (Germania esclusa). Negli anni ’90 i salari nominali tedeschi sono aumentati rispetto alla zona euro e il salario nominale relativo tedesco è rimasto più o meno piatto durante il periodo 1999-2007 (nel corso di questi otto anni c’è stato un calo trascurabile di 0,7 punti percentuali).
Leggi tuttoSe c'è una figura sociale che è particolarmente nociva alla comunità, è il giornalista di propaganda per chi è al potere, ed ancor più il gionalista che incensa l'esercito del proprio stato, in una retorica di potenza, alla pur minima apparenza di una manovra militare. Gianluca Di Feo, su Repubblica, è tutto eccitato. A sentir lui i militari italiani saranno prestissimo “in prima fila contro il Califfato” in Iraq, per “aiutare i curdi”: “Grazie agli italiani i battaglioni curdi potranno contare notte e giorno su quattro elicotteri” (parbleu) che rappresenteranno la nostra “cavalleria dell'aria”; la quale, spiega, cercherà di soccorrere eventuali feriti – bontà sua – “anche sotto fuoco nemico”. Questa precisazione non è ridonandante nel caso delle truppe italiane, note tra le forze armate internazionali (con tanta stima) per lo sprezzo del pericolo dimostrato tra il 2003 e il 2008 in Afghanistan, quando pagarono circa 12 mln di euro l'anno la resistenza afghana per comprarsi un'immunità dai suoi attacchi (wikileaks 2011: mettendo a rischio, in questo modo, anche i soldati di altre forze; resta inteso che la resistenza afghana è legittima).
Sarebbe ingeneroso, tuttavia, sostenere che le truppe italiane non abbiano mai affrontato combattimenti in campo aperto. Si pensi a quelle che esercito e giornalisti hanno chiamato a loro tempo, senza timore del ridicolo, “battaglie dei ponti” a Nassiriya (giugno-luglio 2004): fuoco indiscriminato non soltanto sugli abitanti della città sciita che (ancora una volta: giustamente) avevano impugnato le armi contro un esercito occupante, ma contro passanti e ambulanze (una donna partoriente fu bruciata viva assieme alla madre, al marito e alla sorella grazie al fuoco automatico di Raffaele Allocca e Franco Stival, due dei “nostri ragazzi” in Iraq). Leggi tutto
Una di quelle paroline manipolatrici, care ai politici, è “Nimby“: chi ama e custodisce il luogo in cui vive, anziché accettare che venga usato come discarica da qualcuno più ricco di lui, sarebbe un egoista nemico del Progresso.
Noi la pensiamo in modo diverso.
Il solito micro-esempio sanfredianino.
Da anni, i residenti di Via de’ Serragli – una stradina medievale sconnessa e quasi senza marciapiedi – si oppongono al fatto di venire usati come l’autostrada che porta fuori dal centro.
L’Amministrazione Comunale ha quindi cambiato alcuni percorsi di autobus, spostandoli su Borgo San Frediano, altra stradina medievale sconnessa e quasi senza marciapiedi. E visto che c’era, ha deciso anche di aprire tre piazze verso Borgo San Frediano alla sosta a pagamento di non residenti, perché altrimenti la gente rischierebbe di lasciare l’auto a casa quando viene in Oltrarno.
Ora, la gente di Via de’ Serragli, che di queste cose ha ormai pratica, sta aiutando la gente di Borgo San Frediano a ribellarsi contro un simile modo di spostare il problema.
Leggi tutto(D. Eisenhower sulla lotta al nazionalismo arabo)
Svolgiamo qui alcune considerazioni
sugli
attentati jihadisti di Parigi e Bruxelles e il loro retroterra
medio-orientale, che forse saranno poco popolari data
l'infezione arabofobica e
islamofobica da cui è affetta la sinistra, inclusa buona parte
di quella che si vuole antagonista, comunista, e perfino
internazionalista. Ma
la sola cosa che ci preme è contribuire a inquadrare gli
avvenimenti in corso da un punto di vista di classe,
denunciare e contrastare le nuove
aggressioni in atto ai lavoratori e ai popoli di Libia, Iraq e
Siria da parte del governo Renzi e degli altri governi
europei, e lavorare ad
avvicinare, a unire i proletari autoctoni e i proletari
provenienti dai paesi arabi e islamici (e
i loro
figli) che i potentati dell'imperialismo,
approfittando dei suddetti attentati, vogliono allontanare e
scagliare gli uni contro gli altri.
Tutto il resto, per noi, non conta.
È guerra? Certo, ma da 200 anni (almeno).
E l'ha scatenata l'Europa colonialista e imperialista.
Gli editoriali bellicisti delle scorse settimane e degli scorsi mesi hanno sostenuto pressoché unanimi la tesi: "dobbiamo rispondere con la guerra alla guerra che ci è stata dichiarata dai bastardi islamici" invertendo così il rapporto qualitativo e quantitativo tra cause ed effetti. Noi partiamo, invece, dalle cause, quindi dall'azione dell'imperialismo europeo e occidentale. Leggi tutto
Di “analisi della sconfitta” ne è pieno il senno del poi della sinistra da qualche decennio a questa parte. E’ d’altronde inevitabile fare i conti con un arretramento costante che non lascia spazio a illusioni di rivincita o di tenuta: raccontarci chiacchiere consolanti, magari per risollevarci il morale, continua ad essere la disciplina olimpica dei compagni, che però non cambia la dura realtà dei fatti. Le continue sconfitte elettorali sono lo specchio di questo arretramento. Il referendum di ieri non fa allora storia a sé, si situa piuttosto in un solco decennale.
Da qualche tempo c’è la convinzione, da parte di una certa sinistra, che lo strumento referendario possa essere utilizzato come strumento che attivi partecipazione o addirittura mobilitazione politica. Tale capovolgimento della realtà, che avviene peraltro ad ogni tornata elettorale, si scontra puntualmente con i dati di fatto di una realtà che certifica la marginalità sociale e dunque politica di ogni espressione organizzata nel campo delle sinistre. Il referendum, esattamente come la candidatura elettorale, dovrebbe al contrario certificare un processo politico, una mobilitazione, l’ultimo passaggio attraverso cui attestare un rapporto di forza nella società. Il referendum è un termometro delle diverse spinte sociali; viene al contrario utilizzato come termostato, capace secondo alcuni di regolare la temperatura e non di misurarla. Stravolgendo questo rapporto di causa-effetto, si cerca di rianimare il cadavere a valle e non a monte, attraverso espedienti legali o giuridici, che sono utili quando servono a sedimentare giuridicamente i frutti di una mobilitazione, ma divengono inutili o controproducenti se confermano l’opposto, ossia l’irrilevanza politica. Leggi tutto
Il mondo intero, l’Europa, l’Italia sono malati gravi. A pesare sulla loro salute, su di noi abitanti dell’intero pianeta, una doppia crisi di proporzioni immense, mai registrate prima nella storia: quella del capitalismo – sistema economico condannato ormai ad una stagnazione senza fine, mentre l’1 per cento della popolazione mondiale continua ad arricchirsi – e quella, strettamente legata ad essa, del sistema ecologico, o meglio delle condizioni che permettono la sopravvivenza dell’essere umano sulla Terra. È a partire da queste tesi che il sociologo Luciano Gallino, morto lo scorso novembre, sviluppa il suo ultimo libro (Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi). Si tratta di tesi argomentate, riproposte a più riprese da angolazioni diverse, con lo scopo di sgomberare il campo da diffusi falsi miti (che lo stato sociale e le garanzie dei servizi universalistici siano responsabili dell’indebitamento degli Stati, per esempio, o che la finanza mondiale sia il terreno degli «investitori» e non esclusivamente degli «speculatori») e dal trito e pericoloso luogo comune, secondo Gallino caratteristico dell’ideologia neoliberale, che «non esistono alternative». Non a caso prima dei capitoli sull’austerità europea (3), sulle particolarità della crisi italiana (4) e sulle alternative percorribili (5), le ottanta pagine iniziali del saggio sono dedicate a spiegare i meccanismi della finanza e del credito, con attenzione alle ricadute sociali di essi. Leggi tutto
Le élite europee hanno sfruttato la crisi per imporre scellerate politiche neoliberali e smantellare lo stato sociale. L'alternativa? Nè 'più Europa' né uscita dall’euro, ma l’apertura di un conflitto tra periferia e centro. Anticipiamo un estratto dal libro "La battaglia contro l'Europa" di Thomas Fazi e Guido Iodice, Fazi editore, in questi giorni in libreria
Si narra che
quando il ministro delle Finanze di Luigi XIV di Francia,
Jean-Baptiste Colbert, chiese a un gruppo di mercanti – oggi
diremmo di imprenditori
–– cosa avrebbe potuto fare il governo per aiutare il
commercio, uno di loro, chiamato Legendre, abbia risposto
semplicemente:
«Lasciateci fare». L’espressione laissez faire, che
oggi in Italia traduciamo con ‘liberismo’, divenne da
allora sinonimo di libertà di impresa, libero commercio e
Stato minimo, contrapposta alle idee di Colbert e dei
mercantilisti, che vedevano
invece per lo Stato un ruolo attivo e interventista in campo
economico. La vulgata vuole quindi che i liberisti siano
coloro che si oppongono alle
barriere doganali, alle tasse, alle regolamentazioni eccessive
e, soprattutto, alla spesa pubblica. Generazioni di
economisti, filosofi, politici,
hanno sviluppato una dottrina secondo la quale meno lo Stato
si occupa di economia, più questa sarà capace di prosperare da
sola. Il
ruolo del pubblico, al più, consiste nel garantire i contratti
attraverso l’applicazione del codice civile e nell’occuparsi
della
polizia a difesa della proprietà. Eppure, a ben vedere, vi è
un abisso tra la dottrina e la pratica. Un abisso che è
diventato
talmente evidente tra il 2007 e il 2008 da non poter essere
più nascosto.
Quando la crisi scatenata dallo scoppio delle bolle immobiliari negli Stati Uniti e in Europa ha cominciato a far crollare, una dopo l’altra, banche piccole e grandi, quasi tutti coloro che fino al giorno prima avevano predicato il ritiro dello Stato dalla sfera economica si sono dovuti barcamenare per giustificare i salvataggi bancari di quegli istituti too big to fail, troppo grandi per fallire. Leggi tutto
È difficile avere oggi un’idea della dimensione
di quella che possiamo genericamente chiamare ‘area
antagonista’, inserendo nella definizione ogni realtà
culturale o movimentista
della società civile che si muove in senso critico rispetto al
pensiero dominante neoliberista; da quella più ‘radicale’,
che si oppone al capitalismo, di cui il neoliberismo è solo
l’attuale fase, a quella ‘socialdemocratica’, che non mette in
discussione il sistema economico ma mira semplicemente a
mitigarne le caratteristiche di sfruttamento dell’uomo e delle
risorse ambientali,
attraverso la difesa di uno stato sociale in fase di
smantellamento e dei cosiddetti beni comuni. Difficile perché
le lotte sono frammentate,
ciascuna chiusa nella propria singola identità – per la casa,
per l’acqua pubblica, contro l’Expo, la riforma della scuola,
la Tav... – e non fa eccezione nemmeno la battaglia per il
lavoro, che pur avendo un unico tema si divide in tanti
terreni di scontro quante
sono le aziende che licenziano, delocalizzano, impongono
ricatti ai lavoratori in termini di retribuzione e orario per
non chiudere gli
stabilimenti.
La debolezza delle lotte, intesa come incapacità di incidere sull’esistente, modificandolo, è evidente. Sconta sicuramente la frammentazione, l’incapacità di comprendere che la lotta è una, sebbene articolata su più campi, perché dietro le singole tematiche vi è un ‘nemico’ comune, ossia il sistema capitalistico: privatizzazioni e riduzione del welfare rispondono alla necessità del Capitale di espandersi in nuovi ambiti, il maggior sfruttamento, ossia bassi salari e lavoro precario a uso e consumo delle oscillazioni della domanda del mercato, risponde al bisogno di recuperare maggiori margini di profitto, ed entrambe le operazioni servono al capitalismo per salvarsi dall’attuale crisi – fino alla prossima, ovviamente. Leggi tutto
In questo approfondimento sul blog di Heiner Flassbeck, l’economista greco Costas Lapavitsas fa il punto sul ruolo attuale del Fondo monetario internazionale nel piano per un terzo salvataggio della Grecia. Alla luce dei precedenti fallimenti e della drammatica situazione economica del paese, l’FMI punta a un alleggerimento degli obiettivi di bilancio, ma deve fare i conti con l’intransigenza di Bruxelles e Berlino. In qualsiasi modo vadano a finire le trattative, tutti gli scenari possibili sembrano presagire un ulteriore aggravarsi della crisi
L’agitazione politica scatenatasi recentemente in Grecia dopo la pubblicazione da parte di Wikileaks dei protocolli del FMI (di cui si è data notizia qui, ndt) può essere spiegata da un’unica prospettiva: la Grecia non è in grado di soddisfare le condizioni del terzo accordo di bailout risalente al Luglio 2015.
Il programma di salvataggio è già fallito e tutte le parti ne sono consapevoli, anche se non lo ammettono ancora pubblicamente.
E’ importante ricordare che l’accordo prevede il raggiungimento di un avanzo primario di bilancio per il 2018 pari al 3,5% del PIL. Nell’ultimo trimestre del 2015 l’economia greca è però ripiombata in recessione mentre gli indicatori, che la monitorano dal dicembre dello scorso anno, prevedono che la situazione potrebbe evolversi da “brutta” a “terribile”. Leggi tutto
«Hegel
e Spinoza» è il saggio di Pierre Macherey scritto intorno
all’operazione compiuta da Hegel tesa a
neutralizzare l’anomalia rappresentata dal filosofo olandese.
Un esempio di limpida battaglia politica condotta attraverso
un rigoroso lessico
filosofico
Crea uno strano effetto avere oggi a disposizione in traduzione, grazie alla preziosa cura editoriale di Emilia Marra, un libro importante come l’Hegel ou Spinoza di Pierre Macherey, uscito nel 1979, quasi come ultimo frutto di lotte teoriche le cui coordinate sono oggi decisamente inattuali (Hegel o Spinoza, ombre corte, euro 19). Ma un testo teoricamente densissimo continua evidentemente a porre questioni, anche se probabilmente in direzioni molto diverse da quelle all’interno delle quali era nato.
Nella premessa all’edizione italiana, Macherey indica subito al lettore questo sfasamento temporale, almeno dal punto di vista del clima generale dell’epoca: scritto quando la trasformazione radicale dell’esistente sembrava ancora un ovvio terreno di impegno per la teoria, il libro incontra oggi lettori per cui la rivoluzione non sembra essere all’ordine del giorno, o, almeno, non allo stesso modo. E certo questo cambia il tipo di lettura che il testo riceve. Probabilmente, però, non si tratta solo della temperatura più o meno calda dell’epoca, parametro poi sempre piuttosto discutibile. Quello che davvero fa la differenza, è il fatto che il libro è concepito quasi come una mossa strategica compiuta all’interno di una serie di battaglie filosofiche molto precise.
Leggi tuttoDi L'inutile fatica. Soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo, saggio curato per Mimesis da Salvatore Cavaleri, Calogero Lo Piccolo e Giuseppe Ruvolo, ha già parlato su PalermoGrad Giovanni Di Benedetto qui.
Adesso pubblichiamo un estratto del contributo che Salvatore Cavaleri ha scritto per il libro. Nel testo questo paragrafo è inserito in un discorso di più ampio respiro sulle retoriche attraverso cui le nuove figure del lavoro vengono spogliate della conflittualità di cui sono portatrici.
Riportarlo qui ci serve innanzitutto per parlare di un libro uscito ormai un paio di anni fa, I buoni di Luca Rastello, giornalista e scrittore di rara profondità che ci ha lasciati lo scorso luglio, ma la cui lezione continua a risuonarci nelle orecchie in tutta la sua attualità.
* * *
<<Credo che una condizione decisiva per scrivere qualcosa di interessante, oltre che di moralmente sorvegliato, sia partire sempre dall’analisi impietosa di sé stesso. Così (...) posso dire ad alta voce e a fronte alta: Don Silvano sono io. E credo che Don Silvano lo siamo tutti>>[1].
Questo è il modo in cui Luca Rastello risponde alle condanne piovutegli addosso dopo aver pubblicato I buoni[2], romanzo in cui si mettono a nudo le retoriche del mondo del volontariato, attraverso il racconto del funzionamento interno di una grande struttura operante nel sociale, guidata da Don Silvano, prete-padrone carismatico, sempre in prima fila, il cui coraggio e rigore sono unanimemente apprezzati sulla scena pubblica.
Leggi tuttoSpesso la finanza è
immaginifica. E a volte ricorre alla mitologia. E' nato così
«Atlante», che anziché portare l'intera volta celeste sulle
spalle, come nella leggenda, questa volta dovrà occuparsi di
mantenere in piedi il sistema bancario italiano. Non è detto
che l'impresa
si riveli più facile.
Ma che cos'è Atlante? Questa nuova creatura governativo-bancaria altro non è che un Fia (Fondo di investimenti alternativo), di natura teoricamente privata, dotato di una semplice (si fa per dire) mission: garantire la ricapitalizzazione degli istituti di credito in crisi, ripulire i bilanci degli stessi dal peso insopportabile delle sofferenze. In una parola, evitare il crac di buona parte del sistema bancario nazionale.
Insomma, dopo aver rimandato per anni gli interventi necessari, dopo aver subito la disastrosa regola europea del bail in, dopo aver incassato il nein euro-tedesco alla bad bank, la classe dirigente italiana (governo, Bankitalia, maggiori gruppi bancari, eccetera) ha partorito il gracile Atlante. Riuscirà questo fondo a raggiungere gli obiettivi dichiarati? Crederlo non è difficile, è praticamente impossibile. Leggi tutto
Sabato 9 aprile 200 cortei di protesta hanno invaso le strade francesi, mentre i manifestanti si sono scontrati con la polizia a Parigi; Nantes e Rennes. Come annota il manifesto è stata la sesta mobilitazione nel corso di un mese contro la legge El Khomri (la versione francese del Jobs Act di Renzi). Ove si consideri l’imbelle comportamento delle nostre organizzazioni sindacali (ad eccezione dei sindacati di base), non si può che provare un senso di invidia nei confronti della capacità di resistenza del proletariato francese nei confronti dell’aggressione neoliberista. E l’invidia cresce ulteriormente perché, assieme a queste grandi manifestazioni, è nato e rapidamente cresciuto un altro movimento, che si autodefinisce La Nuit Debout e presenta evidenti analogie con le esperienze di Occupy Wall Street negli Stati Uniti e degli Indignados spagnoli.
Il tutto è iniziato il 31 marzo, come racconta il Guardian, quando un gruppo di qualche centinaio di persone che avevano partecipato alla manifestazione di quel giorno, invece di andarsene a casa, si son dati appuntamento in Place de la République, dove si sono riuniti in assemblea per discutere di lavoro, diritto alla casa, repressione poliziesca, leggi speciali (quelle del dopo Bataclan che Hollande vorrebbe rendere permanenti), diritti dei migranti e molto altro ancora. Da quel giorno l’appuntamento si ripete ogni sera, mentre il numero dei partecipanti aumenta e l’iniziativa si estende ad altre città francesi e si internazionalizza, “contagiando” Belgio e Spagna. Leggi tutto
Jacques Sapir ci offre un aggiornamento sulla mobilitazione francese contro il “jobs act” transalpino (la loro svalutazione del lavoro). Di recente si è imposto un ampio movimento informale chiamato “Nuit Debout”, che coinvolge un numero impressionante di persone da diverse città, e potrebbe avere uno sbocco politico. Il punto, nota Sapir criticamente, è che manca una reale “ideologia” di fondo che crei coesione, se non quella di opporsi in qualche modo alla situazione attuale (la quale, comunque, tutti vedono essere insostenibile)
Il movimento chiamato “Nuit Debout” [forse traducibile con “Notte in piedi”, NdT] ha avuto un impatto politico sorprendente in Francia, a dispetto delle pressioni della polizia e di tutte le altre minacce di cui è oggetto. Da Parigi, dove è nato, il movimento si è diffuso in oltre 50 città nell’intero paese. Dall’iniziale movimento di protesta contro la “legge El Khomri” (o riforma della legge sul lavoro), esso rappresenta una forma di mobilitazione stabile e continua. Ma va anche oltre questo. È evidente che questo movimento esprime un’enorme frustrazione politica, che ha a che fare con il tradimento del Partito “Socialista”, ma rappresenta anche una grande speranza. Al di là del numero delle persone coinvolte, è un segno che le cose stanno cambiando. Questo movimento viene definito “non organizzato”, ed è chiaramente “a-partitico”, sebbene non a-politico, e in esso ci sono dei militanti chiaramente identificabili. Si tratta di un fenomeno politico che potrebbe diventare importante nei prossimi mesi. Leggi tutto
Vanno di moda, sotto campagna elettorale, le promesse di privatizzazione. Attorno alla svendita del patrimonio pubblico, tanto immobiliare quanto produttivo o legato ai servizi, una parte dell’establishment politico punta a guadagnare voti e costruirsi credibilità. Una volta le privatizzazioni si negavano in campagna elettorale per poi attuarle di nascosto una volta al governo. Oggi si sfruttano come slogan elettorale.
Lungi dal far perdere voti, l’assioma perverso oggi identifica la volontà di privatizzare con la lotta alla casta. Questi i frutti scellerati del grillismo e del populismo cripto-liberista montante tanto a destra come a sinistra. Il ragionamento del candidato Pd Roberto Giachetti raggiunge però vertici di irrazionalità e contraddittorietà da elevarlo a caso di studio, prototipo di una nuova mentalità politica aliena alla ragione, anche fosse quella economico-liberista. Secondo Giachetti l’azienda dei trasporti pubblici cittadina, l’Atac, andrebbe si privatizzata, ma solo dopo un processo di risanamento che ne elimini i debiti accumulati. Lo spirito dei tempi è dato in questo caso non tanto dal ragionamento folle, ma dal fatto che un candidato possa dire cose del genere senza essere deriso e rincorso fin sotto casa, da destra a sinistra. Ma come!, la pappa ideologica alla base del processo di privatizzazione dovrebbe essere proprio quella di limitare il debito pubblico, sfrondando quei rami economici che generano debiti, e Giachetti cosa propone? Leggi tutto
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Qualche settimana fa abbiamo
posto
delle domande a Joseph Halevi su crisi, Europa e
“mezzogiorni”. Abbiamo cominciato dal tema più attuale e più
discusso, quello della crisi europea. Oramai, dopo
l’accettazione dei memoranda da parte del governo Tsipras e
dopo la sconfitta dell’ala
sinistra di Syriza, si parla poco della Grecia. Si discute
di un’ulteriore sforbiciata delle pensioni greche, tra le
più basse
d’Europa, su suggerimento delle istituzioni europee.
Considerato che la strategia della “disobbedienza dei
trattati” non è
attuabile, abbiamo chiesto a Halevi come possono reagire le
sinistre europee (quello che ne rimane) evitando la
degenerazione nazionalistica degli
apologeti della svalutazione e della monetizzazione dei
disavanzi. La sua risposta, ricca ed intensa, sarà
pubblicata in due parti. Ne
proponiamo la prima.
Di seguito la risposta di Joseph Halevi.
* * *
Grecia, Europa ecc.
Premessa: penso che per il 90% l’esito e l’iter stesso della vicenda greca siano stati del tutto indipendenti dalla posizione del governo allora in carica. Tuttavia considero Yanis Varoufakis responsabile della catastrofe negoziale. È stato lui ad impostare l’intera strategia dei negoziati con l’Eurogruppo.
Leggi tuttoCome alcuni ogni tanto ricordano, anche Mussolini ebbe il suo “euro”. Nel 1926 il Duce lanciò lo slogan della “Quota 90”, che indicava il tasso di cambio della lira con la sterlina inglese che il regime intendeva perseguire in nome dell’orgoglio italico. Quella rivalutazione massiccia della lira comportò il massacro delle esportazioni italiane e dei consumi interni, ma in compenso rese l’Italia degna di accedere ai prestiti statunitensi.
Non a caso in quel periodo Mussolini era santificato dalla stampa estera, ed anglosassone in particolare, come il più grande italiano dai tempi del Rinascimento. Per riscuotere celebrazioni di questo calibro basta farsi benvolere dalle banche multinazionali. L’Italia arrivò così già stremata da cinque anni di deflazione all’appuntamento della grande crisi degli anni ‘30. Solo allora ci si orientò verso un’altra politica economica, lasciando un po’ da parte gli economisti “liberisti”, per rivolgersi invece a personale formatosi nella cerchia dell’ex Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Uno dei risultati di quella nuova politica economica fu la nascita dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, il più grande colosso industriale italiano fino a quando Romano Prodi non ne avviò lo smantellamento.
La liquidazione delle critiche anti-euro in termini di manifestazioni di nazionalismo o “sovranismo” non corrisponde quindi alla realtà storica, dato che l’ingerenza imperialistica è stata sempre trasversale alle ideologie ed alle forme di governo dei Paesi sudditi. “Democrazia” o dittatura, nazionalismo o sovranazionalismo, per la lobby imperialistica della deflazione sono solo orpelli retorici intercambiabili.
Leggi tuttoLa Casa Bianca è «preoccupata» perché caccia russi hanno sorvolato a distanza ravvicinata una nave Usa nel Baltico, effettuando un «attacco simulato»: così riportano le nostre agenzie di informazione. Non informano però di quale nave si trattasse e perché fosse nel Baltico.
È la USS Donald Cook, una delle quattro unità lanciamissili dislocate dalla U.S. Navy per la «difesa missilistica Nato in Europa».
Tali unità, che saranno aumentate, sono dotate del radar Aegis e di missili intercettori SM-3, ma allo stesso tempo di missili da crociera Tomahawk a duplice capacità convenzionale e nucleare. In altre parole, sono unità da attacco nucleare, dotate di uno «scudo» destinato a neutralizzare la risposta nemica.
La Donald Cook, partendo l’11 aprile dal porto polacco di Gdynia, incrociava per due giorni ad appena 70 km dalla base navale russa di Kaliningrad, ed è stata per questo sorvolata da caccia ed elicotteri russi.
Oltre che le navi lanciamissili, lo «scudo» Usa/Nato in Europa comprende, nella conformazione attuale, un radar «su base avanzata» in Turchia, una batteria missilistica terrestre Usa in Romania, composta da 24 missili SM-3, e una analoga che sarà installata in Polonia.
Leggi tuttoL’economia contemporanea sta ancora affrontando i problemi di oggi con strumenti economici vecchi e logori. È tempo di cambiare paradigma. Un’anticipazione del nuovo libro di Mauro Gallegati
La teoria economica dominante non ha certo provocato la crisi. Ma non ha nemmeno fatto nulla per tirarcene fuori. Avrebbe potuto? E come? Indicandoci la stessa via che ci ha condotto fino a qui?
Ora, e prima, nel 1929.
L’economia che si è imposta sinora è in profonda crisi. Dalle contestazioni degli studenti, alla disaffezione di una parte sempre più consistente dei professionisti, al perdurare di una crisi che la teoria non contempla, si manifestano sempre più numerosi i segnali di un collasso imminente. Dalla fisica alla biologia, dalla neurologia alla chimica, un numero sempre maggiore di scienze accorrono al capezzale del malato, di quella che era sì considerata la «scienza triste», ma anche la regina delle scienze sociali. Vederla ora ridotta così fa male; come fa male, e rabbia, vedere quella disoccupazione di massa che l’economia assiomatica non sa come curare, ostinandosi a prescrivere salassi a un paziente anemico. Continuando di questo passo, bisogna però riconoscerlo, si raggiungerà quell’equilibrio tanto agognato: l’equilibrio che, ci ricordano i biologi, è lo stato tipico di qualunque organismo morto. Leggi tutto
1. Abbiamo
già citato la trilogia di romanzi,
sul tema della guerra dell'oppio (contro la Cina) e
della colonizzazione inglese in India, scritti da
un autore indiano di cultura
anglosassone, Amitav Ghosh.
Dal romanzo centrale della trilogia, traiamo alcune interessanti "conversazioni" che illustrano perfettamente la cultura dei tai-pan, cioè dei mercanti imbevuti della neo-religione del libero mercato seguita alla "rivelazione" di Adam Smith. Per lo meno nel modo in cui fu intesa nei decenni successivi alla sua opera maggiore, "La ricchezza delle nazioni": un modo, a rigore filologico e "scientifico", discutibile e controverso, ma che, non di meno, è divenuto poi una vulgata ampiamente diffusa e appunto circondata da un'adesione acritica e fideistica di tipo essenzialmente religioso (una religione, come evidenzia Galbraith, che si fonda sul supremo "piacere di vincere in un gioco in cui molti perdono").
2. Sull'attendibilità delle conversazioni che vi riporterò, sotto il profilo della loro capacità di riflettere fedelmente questo "credo", aderendo in modo diretto al pensiero ed alle parole dei protagonisti del tempo, Ghosh ci rassicura, fornendo un'appendice poderosa sulle fonti utilizzate (pagg.383-386 de "Il fiume dell'oppio"): le conversazioni, infatti, sono riprese da dichiarazioni e "editoriali", a commento dei fatti storici narrati, pubblicati sui giornali inglesi editi a Canton in quegli stessi anni (nel 1838-39, alla vigilia e durante lo svolgimento stesso del conflitto, cioè la prima guerra dell'oppio, che vide l'Inghilterra attaccare con la sua flotta Canton). Leggi tutto
In
che mondo viviamo? La risposta degli ideologhi è sempre la
stessa: in un mondo fatto di economia di mercato e di
democrazia, dove economia di
mercato e democrazia non sono mai abbastanza. Quanto più, in
quest'ordine mondiale, si accumulano le catastrofi, tanto più
incisive, ad
ogni nuova crisi, si fanno le richieste stereotipate, dettate
dall'ignoranza asinina della coscienza ufficiale, per avere
ancora "più economia
di mercato" e "più democrazia". Questi due concetti sono
diventati una sorta di mantra che, a forza di essere ripetuto,
si è diluito
fino a diventare una cantilena senza senso.
In questo pozzo dei desideri si nasconde una contraddizione elementare. Da un lato, troviamo la pretesa secondo cui la società è in grado di deliberare consapevolmente circa le questioni di interesse comune e di prendere decisioni razionali ("democrazia"). Dall'altro lato, però, si tratta esplicitamente di autoregolamentazione meccanica di un nesso sistemico autonomo, le cui assurde leggi si sono sedimentate come fatti naturali ("economia di mercato", vale a dire il capitalismo).
Nella realtà, la vita sociale non è guidata dalla discussione e dalla consapevole decisione comune dei membri della società. Ciò perché la procedura democratica non si vede anteposta agli effetti galvanizzanti della "fisica sociale" dei mercati anonimi, bensì posposta. Leggi tutto
La brutta notizia per Bernie Sanders era già arrivata una settimana prima del voto alle primarie del partito democratico nello stato di New York. Il più potente e aggressivo Super PAC che sostiene e finanzia con centinaia di milioni di dollari la campagna di Hillary Clinton aveva deciso di iniziare a comprare gli spazi televisivi, radiofonici e dei grandi siti web in una serie di Stati in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Per gli imprenditori, le multinazionali, le società finanziarie e immobiliari che compongono Priorities USA Action – questo il nome – la partita delle primarie era chiusa ancora prima del voto nello Stato di New York. Una mossa che poteva sembrare azzardata viste le decine di migliaia di persone che partecipavano ai comizi di Bernie Sanders nel Bronx, a Brooklyn e a Manhattan, ma il calcolo era ben studiato. Sanders, questo il più che probabile ragionamento messo a fuoco, ha aperto uno spazio politico che certo preoccupa l’establishment politico-finanziario del partito democratico, ma ai suoi happening prevale una socializzazione festosa, il riconoscersi in una vaga «rivoluzione politica» e non la tensione verso il conflitto sociale e la radicalizzazione politica che possono tradursi anche in un’espressione di voto. D’altra parte il meccanismo delle primarie chiuse di New York – votano solo coloro che si sono registrati come elettori democratici fino a 25 giorni prima del voto, quando praticamente la campagna elettorale dei candidati non è ancora iniziata – è stato pensato in modo che il partito abbia il massimo controllo sulle scelte degli elettori. Leggi tutto
Vedo che nelle pagine dei giornali, nei siti e nelle televisioni, l’informazione ha già del tutto digerito e rimosso una notizia che avrebbe dovuto essere una bomba ovvero il fatto che la Merkel abbia aderito ai desideri di Erdogan che chiedeva la testa di Jan Boehmermann, un comico televisivo colpevole di aver scritto una poesia satirica contro di lui. Magari il gran sultano di Ankara vorrebbe la testa vera e propria da far rotolare fra i giannizzeri, ma si sa il mondo moderno ha altri tipi di ghigliottine e così la cancelliera ha autorizzato un processo penale contro Boehmermann e guarda caso il comico si è “auto sospeso” chiudendo la propria trasmissione.
Non si tratta di un ennesimo e veniale cedimento all’alleato turco che alla fine è tra i principali alleati dell’Isis a cui si devono gli attentati e dunque uno dei principali responsabili della disperata ondata migratoria ancorché abbia ottenuto dalla Ue i soldi per fare da carceriere dopo aver fatto il boia. Si tratta in vece del “cedimento” quello per eccellenza, una prova che la solitaria passeggiata dei leader in nome della democrazia e della libertà di espressione dopo la strage del Charlie Hebdo non era che una sceneggiata in favore di telecamere. Cucendo la bocca a un comico, portando in tribunale la satira, (cosa che peraltro si è verificata anche in Francia) si è abdicato apertamente proprio a quei “valori” dichiarati un anno fa speciali e irrinunciabili per l’occidente, gli stessi in nome dei quali per i quali si dichiarano le guerre di civiltà e si sono traditi tutti gli ingenui che hanno inalberato i cartelli “Je suis Charlie”. Leggi tutto
La definizione
standard
In uno dei suoi scritti più celebri, che ha fatto scuola a un’intera generazione, intitolato Il futuro della democrazia, Norberto Bobbio cercò di mettere ordine tra le tante definizioni della democrazia e si azzardò a proporne una, da lui stesso definita minima, se non minimalista. Che mettesse tutti d’accordo. Che in democrazia non è un pregio di poco conto. La democrazia, per Bobbio, è un particolare regime politico che si caratterizza per alcuni requisiti fondamentali, i quali attengono a chi governa e a come governa. Tali requisiti sono il suffragio universale, il principio di maggioranza e la competizione tra forze politiche diverse, e, di conseguenza, la libertà personale, di pensiero, di associazione.
Questa definizione di democrazia, viceversa, nulla dettava sul cosa. La democrazia è compatibile con ogni sorta di misure politiche. Ovvero non impone nessun obbligo al riguardo. Può produrre politiche egualitarie, su cui Bobbio concordava, ma non è obbligata a produrle. Lo Stato sociale è un di più, che arricchisce la democrazia, ma non la qualifica. Se poi si conducessero solo politiche ugualitarie, – Bobbio le chiama democrazia «sostanziale», a scapito della democrazia «procedurale», – la democrazia non sarebbe più democratica.
Bobbio ammetteva che una simile democrazia è poco attraente. Leggi tutto
The Problem with Work, della politologa femminista Kathi Weeks. Chi ha detto che il lavoro debba essere al centro della nostra esistenza?
Erano gli anni ’30 del secolo scorso
quando Keynes predisse che grazie all’incremento della
produttività e all’ingresso della donna nella forza lavoro,
la generazione
dei suoi nipoti avrebbero lavorato non più di 15 ore a
settimana. Sono passate tre generazioni, lavoriamo più di
prima e la sinistra ha
ormai abbandonato quasi del tutto la lotta per la riduzione
della giornata lavorativa, una lotta che la politologa e
femminista Kathi Weeks, ispirata
da testi diversi tra cui Resistance In Practice The
Philosophy of Antonio Negri, rivendica nel suo saggio
The Problem with Work:
Feminism, Marxism, Antiwork Politics, and Postwork
Imaginaries (John Hope Franklin Center Book, 2011,
pp.304). In una recente intervista
rilasciata a CTXT.es-Contexto y Accion, Kathi Weeks espone
il suo pensiero sul potere delle “rivendicazioni utopiche” e
spiega
perché, secondo l’autrice, dovremmo concentrarci sul
lavorare meno ore e sul creare condizioni per immaginare un
mondo fuori dal lavoro.
Popoff vi propone uno stralcio dell’intervista.
* * *
Come definirebbe il concetto di lavoro?
Il lavoro è una attività produttiva basata sul modello del lavoro salariato. Se si chiede ad una qualsiasi persona che lavoro faccia, dedurrebbe che ci si riferisca esclusivamente al lavoro remunerato. Leggi tutto
A cinquant’anni dall’uscita la «Dialettica negativa» di Theodor Adorno può fornire elementi per lo sviluppo di un pensiero critico che eviti le sabbie mobili di un generico decostruttivismo e le insidie del materialismo naturalistico
Ci sono ancora dei buoni motivi per leggere oggi, a cinquant’anni dalla sua pubblicazione nel 1966, la Dialettica Negativa di Theodor W. Adorno? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto capire che tipo di opera filosofica sia quella Dialettica che il filosofo francofortese compose negli ultimi anni della sua vita (nato nel 1903, sarebbe infatti scomparso, per un infarto, nell’estate del 1969). Con la Dialettica negativa Adorno, che comincia a lavorarci all’inizio degli anni Sessanta, si autoimpone una sfida molto difficile: quella di dare finalmente una forma compiuta al suo proprio punto di vista filosofico, che fino ad allora non era mai stato espresso in modo pieno ed esauriente. Sebbene fosse uno scrittore assai prolifico, infatti, Adorno non aveva mai dato alla sua propria teoria «speculativa» una forma compiuta: aveva scritto moltissimo di musica e di critica sociale, aveva pubblicato con Max Horkheimer (nel lontano 1947) quel grande libro del Novecento che è Dialettica dell’illuminismo, ma sul piano squisitamente teoretico non era mai arrivato a un approdo definitivo.
Certo, aveva detto molte cose importanti nel suo libro su Husserl (Metacritica della gnoseologia), che era uscito nel 1956 dopo una elaborazione trentennale, ma non aveva mai svolto la sua filosofia in prima persona. Leggi tutto
Stiamo così andando verso una società
totalitaria
della
penuria che resta anche una società del
consumo,
ma dove non si potrà più consumare.
Serge Latouche, Uscire
dall’economia
Lo scorso 13 marzo si è svolto a Livorno, nell’accogliente sala del teatro del Centro Artistico “Il Grattacielo”, un incontro con Serge Latouche, realizzato in seno ai corsi organizzati dalla Libera Università “Alfredo Bicchierini”, un’associazione culturale molto attiva sul territorio labronico e sempre attenta alle tematiche sociali
Come spiega Massimo Maggini, che introduce Latouche e coordina l’incontro, il seminario del filosofo francese è stato pensato all’interno di un percorso per cercare di capire, da un punto di vista socio-politico, i tratti distintivi della nostra epoca. Maggini – che ha curato quella che, attualmente, è la più recente delle pubblicazioni di Latouche tradotte in italiano, Uscire dall’economia (che vede lo studioso in un faccia a faccia con Anselm Jappe) – spiega che l’attuale crisi è di natura ambientale, economica e sociale e la decrescita, di cui Latouche è il “padre putativo”, sicuramente, può essere un valido aiuto per uscirne.
La ricerca della crescita infinita, infatti, è un meccanismo che porta il mondo verso una «produttività allucinante», la quale crea un contesto critico in cui la stessa produttività, che deve essere continuamente valorizzata attraverso la macina del lavoro, non riesce a trovare sbocchi di mercato, dando così origine ad un ingorgo di merci e capitali superflui che è all’origine della crisi nella quale ci troviamo.
Leggi tutto«Un mondo dove ciò che conta è riuscire a raggiungere un certo livello di popolarità [presuppone che] tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque può anche essere misurato e valutato. […] Ed è ciò che oggi sta avvenendo […] I “like” di apprezzamento o altri indicatori simili sono […] delle unità di misura del successo» (V. Codeluppi).
«devi diventare merce per poter propagandare altra merce» (G. Arduino – L. Lipperini).
Da qualche tempo sembra
sempre
più difficile affrontare la realtà senza ricorrere al filtro
di una registrazione. Non è difficile imbattersi nelle
località turistiche in visitatori che rinunciano a godersi la
visione diretta di ciò che hanno di fronte per riprenderlo col
proprio
telefonino, ossessionati dal dover registrare quanto hanno
davanti agli occhi. Qualcosa di simile accade anche al
pubblico degli eventi sportivi e dei
concerti. Tanti affrontano l’esperienza del concerto
impugnando e puntando verso il palco altrettanti smartphone al
fine di catturare qualche
memoria digitale dell’evento da poter poi condividere sul web.
Probabilmente pochi si riguarderanno veramente le riprese
effettuate, nel
migliore dei casi i più finiranno per caricarne qualche
frammento sul web condividendolo con schiere di conoscenti,
più o meno virtuali,
che, a loro volta, daranno un’occhiata fugace e magari
contribuiranno a far girare, a vuoto, in rete il tutto. Nei
concerti molti smartphone
più che essere puntati verso il palco sono in realtà
indirizzati verso i mega-schermi che, a loro volta, diffondono
le immagini del
palco registrate dall’organizzazione. Sicuramente un primo
motivo di tale comportamento può essere individuato nel fatto
che, soprattutto
negli eventi di grandi dimensioni, il palco è molto lontano e
la folla presente intralcia la visione e la ripresa ma,
probabilmente, tale
pratica è dovuta anche al fatto che il pubblico si è talmente
abituato a fruire immagini che trova più interessante
osservare,
dunque registrare, le riprese elaborate e trasmesse dagli
schermi che non “accontentarsi” della piatta visione del
palcoscenico. Per
quanto la band sia abile nel tenere il palco, non c’è
paragone, per chi è cresciuto a riproduzioni di realtà,
l’elaborazione offerta degli schermi è molto più accattivante.
Leggi tutto
Il testo
che presentiamo di
seguito, in inedita traduzione italiana, è del filosofo
croato Predrag Vranički, scomparso nel 2002. Si tratta di
un breve saggio apparso
nel 1965 su Praxis, che proponiamo come
contributo alla precisazione di alcuni termini chiave
dell'impianto teorico comunista, in particolare
attorno al tema della “coscienza” come “essere cosciente”
e al rapporto teoria-prassi.
Con ciò non suggeriamo un'acquisizione in toto del pensiero di Vranički, per molti, essenziali versi profondamente distante dall'orientamento del nostro lavoro; tuttavia, privi delle preoccupazioni di coloro che surrogano le identità con le etichette, pensiamo possa entrare a pieno titolo in una ampia e diversificata “cassetta degli attrezzi” per comprendere e trasformare il mondo.
L'autore
L'autore di questo articolo, Predrag Vranički, è stato un filosofo di orientamento “marxista umanista”. Dopo aver combattuto sul fronte borghese antifascista dell'Esercito di liberazione nazionale si dedicò agli studi di filosofia, divenendo poi presidente della Società jugoslava per la Filosofia nel 1966, e nel '77 membro dell'Accademia Croata delle Scienze e delle Arti. Dal 1965 fece parte della redazione della rivista dissidente Praxis, critica nei confronti del regime titoista e della sua ideologia. Leggi tutto
Neo-liberismo e postmodernismo sono due espressioni opposte e conflittuali del tardo capitalismo o presentano significative convergenze? Cerchiamo di indicare alcuni punti di contatto
Si
parla assai spesso e a ragione di “pensiero unico”, per
sottolineare come la cultura mass-mediatica, in tutte le sue
forme, comprese le
sue rozze espressioni politiche, sia dominata da un'unica
concezione del mondo, scaturita dalla cosiddetta fine delle
ideologie, improntata ad un
facile pragmatismo che incanta l'uomo pratico e concreto, e
talvolta intrisa di un buonismo ipocrita auspice del rispetto
dell'altro e pronto ad
agitare la “cultura dell'accoglienza”.
Tale concezione del mondo si incarna nel neoliberismo, affermatosi negli ultimi decenni del Novecento a causa di un complesso di fattori, i quali hanno contribuito al consolidarsi di quello che Ernest Mandel definisce “tardo capitalismo” (Der Spätkapitalismus, Francoforte 1972). Naturalmente il richiamo al buonismo e alla “cultura dell'accoglienza” non sono elementi costitutivi del neoliberismo, che si presenta limpido nella sua spietatezza, ma che taluni amano rivestire di tali pietosi veli per non fa sobbalzare i ricettori del suo messaggio.
L'emergere del neoliberalismo coincide con l'attacco condotto allo Stato sociale, e quindi con l'assalto ai diritti sociali dell'individuo che facevano di esso un membro della comunità, nel cui seno avrebbe dovuto trovare tutti quegli strumenti idonei a trasformarlo in un cittadino a tutti gli effetti. Con Margaret Thatcher abbiamo imparato che la società non esiste e che ognuno deve farsi carico individualmente del proprio “successo” sociale [1], anche nel caso in cui ciò significa il raggiungimento stento della mera sopravvivenza.
Leggi tuttoPrendiamo un qualunque Manuale
di economia
politica scritto da un marxista: quello di Antonio
Pesenti (Editori Riuniti, Roma 1972). Sin dalle prime pagine
si capisce che c’è
qualcosa che non va, ovviamente non perché si è contro il
capitalismo, quanto perché non si riesce a valorizzare sino
in fondo il
pregio di un’economia naturale basata su autoconsumo
e baratto. Questo è un limite di fondo di tutti i
manuali di
economia politica, siano essi borghesi o socialisti.
Un manuale marxista di economia politica non dovrebbe porsi anzitutto in antitesi allo sviluppo capitalistico, poiché se si esordisce facendo questo, l’antitesi non sarà mai davvero radicale, ma sempre relativa. Per essere un minimo obiettivi, si dovrebbero anzitutto valorizzare tutte quelle forme di produzione economica in cui non esisteva una forte divisione del lavoro, una propensione accentuata per gli scambi commerciali, l’esigenza di avere tutte le comodità possibili, la necessità imprescindibile di produrre di più in minor tempo e con minor fatica e altre caratteristiche tipiche delle società basate sull’antagonismo sociale.
È vero che è stata la borghesia a inventare la scienza dell’economia, ma quando si parla di economia bisognerebbe anzitutto farne una storia, eventualmente avvalendosi degli studi di etno-antropologia, altrimenti rischiano di apparire falsati i presupposti metodologici della critica materialistica. Non si può fare del “materialismo dialettico” con uno sguardo rivolto solo verso al futuro, senza tener conto che siamo figli di un passato ancestrale, le cui caratteristiche, quando si viveva di caccia, pesca, raccolta di frutti selvatici, erano completamente diverse da quelle che si sono formate con la nascita delle prime civiltà urbanizzate.
Leggi tuttoIl est surprenant qu’au fond de la politique nous trouvions toujours la théologie. Pierre-Joseph Proudhon
Per quanto impenetrabile sia l’incantesimo, è soltanto incantesimo. Theodor W. Adorno
C’è religione ogni volta che c’è trascendenza, Essere verticale, Stato imperiale in cielo o sulla terra, e c’è Filosofia ogni volta che c’è immanenza, anche se serve da arena all’agone e alla rivalità. Gilles Deleuze, Félix Guattari
Eludere l’illusione
Uno spettro si aggira nel mondo laico: la risorgenza della religione tanto come matrice mobilitante una forza sociale in grado di proiettarsi sul palcoscenico della politica istituzionale e planetaria, quanto come movimento di pensiero in grado di conseguire uno spessore normativo per sé e soprattutto per gli altri. Nella nostra piccola porzione di mondo da cui parliamo e agiamo, si fa fatica a manifestare stupore per un simile ritorno di fiamma per la semplice ragione che tale fiamma non si era mai spenta, nemmeno nei momenti più alti di visibilità e rappresentatività delle ragioni laiche e secolari. La presenza capillare e pervasiva della chiesa cattolica chez nous non è mai venuta meno nei decenni, trovando sempre in via diretta e indiretta insieme un imprenditore politico capace di rendere conto degli auspici nonché dei desideri normativi di natura religiosa, declinando al tempo stesso gli opportuni compromessi con i partner agonali del conflitto secolare. Su scala più ampia, un occhio meno provinciale (parrocchiale, verrebbe voglia di dire) non dovrebbe altrettanto mostrare stupore se il peso degli enunciati religiosi sia tanto poderoso in lungo e in largo per il pianeta, né che essi vengano politicamente branditi come armi per fini esclusivamente politici o addirittura teocratici, incarnazione sempiterna della teologia politica per eccellenza. Semplicemente, la storia non è mai arrivata al capolinea…
Leggi tuttoIn che modo la crisi economica può essere legata alla ricerca scientifica? L’economia è davvero una scienza? Nel saggio “Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi” (Laterza, dal 17 marzo in libreria) il fisico Francesco Sylos Labini contrappone alla prospettiva dell’economia neoclassica, che rispecchia limiti e idee della fisica dell’Ottocento, le intuizioni offerte dalla fisica moderna e dai recenti sviluppi sullo studio dei sistemi caotici e complessi. Ne anticipiamo la prefazione di Donald Gillies
Il mondo è nella morsa della più grande crisi economica avvenuta da più di ottant’anni. Quasi tutti i paesi sono colpiti, anche se, naturalmente, alcuni lo sono più di altri. La questione politica fondamentale di oggi è: «Che cosa dovrebbe essere fatto per portare questa crisi alla fine?».
In questo libro il fisico Francesco Sylos Labini ha un approccio originale alla crisi, mettendola in relazione alla situazione nel campo della scienza. In che modo la crisi economica può essere legata alla ricerca scientifica? Una breve riflessione mostra che questo collegamento è in realtà molto stretto. Le politiche economiche neoliberiste, che hanno dominato negli ultimi trenta o più anni, si basano sull’economia neoclassica. Questa sembra essere una scienza come la fisica, poiché si compone di equazioni e modelli matematici. Tuttavia, è davvero scientifica? Dovremmo fidarci delle previsioni dell’economia neoclassica nello stesso modo in cui abbiamo fiducia in quelle della fisica? Leggi tutto
Si allarga il coro di chi invoca l’helicopter money come soluzione ai problemi dell’eurozona. Ma il vero problema è l’indipendenza della banca centrale
Guido Tabellini non può certo essere considerato un economista eterodosso. Nel quadriennio terminato nel 2012 è stato rettore della Bocconi, università considerata la culla del rigorismo. Sono bocconiani Alberto Alesina e Silvia Ardagna, autori di un celeberrimo saggio che sosteneva la teoria dell’“austerità espansiva” e che è stato usato, insieme al lavoro di Carmen Reinhart e Kennet Rogoff, per giustificare le politiche di tagli ai bilanci pubblici. Un ancor più famoso ex rettore della Bocconi è stato Mario Monti, il cui governo tutti ricordano per la politica restrittiva adottata. Tabellini rifiuta – per sé e per la sua università – l’etichetta di rigorista ad oltranza, ma certo non è stato tra chi si è distinto per le critiche alla politica sciagurata adottata dall’Europa.
Tabellini ha scritto un articolo favorevole al cosiddetto helicopter money, cioè la distribuzione di moneta da parte della banca centrale come estremo tentativo di rilanciare la crescita e battere la deflazione, due obiettivi per i quali il quantitative easing non ha avuto effetto (anche prendendo per buona l’affermazione della BCE che avrebbe evitato guai peggiori). L’economista ricorda che la definizione fu coniata da Milton Friedman, il padre del monetarismo, e consiste nel fatto che «la banca centrale stampa moneta e la distribuisce ai cittadini, non in cambio di qualcosa (titoli di Stato o la promessa di una restituzione futura), ma in modo permanente e a fondo perduto».
Leggi tuttoLa rinascita di un socialismo di sinistra anti-liberista?
L’autorevole quotidiano francese Le Monde ha pubblicato, il 21 aprile scorso, un ampio servizio sullo stato della sinistra francese alla luce delle recenti manifestazioni di piazza e degli ultimi sondaggi elettorali ad un anno dalle elezioni presidenziali.
E’ del tutto normale che si indaghi sulle prospettive del futuro politico del Paese ma cio’ che invece ha alquanto stupito, data la notoria austerità del quotidiano d’oltralpe, era il titolo con cui si annunciava il servizio, in prima pagina, per di più a nove colonne quasi : ” Lo spettro di un nuovo 21 aprile per la sinistra di governo”.
Quale spettro si evocava con la data di un altro 21 aprile? Quello di 14 anni prima, del 2002, quando alle Presidenziali il candidato della sinistra, Lionel Jospin, non arrivo’ al ballottaggio ed il popolo di sinistra e centro-sinistra dovette ingoiare il rospo di votare Jacques Chirac per sbarrare la strada a Jean Marie Le Pen, il papà di Marine, allora leader del Front National.
Ironia della sorte o malizia dei media ma, nello stesso giorno, un numero fuori serie del settimanale Marianne era dedicato all’80° anniversario della vittoria del Fronte Popolare nel 1936, intitolando il fascicolo speciale “Quando la sinistra faceva ancora sognare”.
Leggi tutto«Dobbiamo tornare a credere che lo Stato possa entrare effettivamente in opposizione al neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo». Già, ma si tratta di capire quale Stato, espressione di quali forze sociali, con quale democrazia
Sono passati quasi vent’anni da quando scrissi “L’uomo flessibile”, uno studio sui cambiamenti nell’economia e nelle condizioni del lavoro, e la flessibilità a breve termine, che già a quel tempo iniziava a erodere il nostro lavoro, è aumentata e, anzi, è andata peggiorando sempre di più. I cambiamenti a cui stiamo assistendo nella moderna economia del lavoro sono una paralisi per la classe media, soprattutto la classe medio bassa, un vero ristagno. L’esperienza della flessibilità del lavoro a breve termine nelle imprese camaleontiche influisce sulla struttura delle classi sociali. Le persone “nel mezzo” hanno meno opportunità di trarre profitto dalla diversificazione delle tipologie di lavoro. L’offerta di lavoro infatti si è ridotta per loro. Allo stesso tempo le condizioni di lavoro sono diventate più intensamente legate a un regime di flessibilità.
Non ho mai pensato che un posto di lavoro flessibile potesse rappresentare una possibilità di ascesa sociale e non ho mai guardato alla linea sottile e indefinita che passa tra lo spazio di lavoro e quello domestico come a una realtà che potesse creare una nuova dimensione per l’autoimpiego.
Quella che è maturata è una flessibilità simile a una condizione di repressione, un modo per dominare e ridimensionare il lavoratore attraverso la flessibilità. Leggi tutto
Primo di una serie di articoli sulla teoria marxiana del valore. Il compito della scienza è di svelare la differenza fra l'apparenza dei fenomeni e l'essenza delle cose. Anche la legge del valore ha questo fine. Le differenze tra Marx e gli economisti classici per quanto riguarda il metodo e gli scopi dell'economia politica. Alcuni concetti basilari per permettere ai “non addetti” di seguire il successivo svolgimento riguardante alcuni nodi più dibattuti della teoria marxiana. Le categorie economiche, trattate dagli economisti che vanno per la maggiore come oggetti naturali, non sono altro che rapporti sociali camuffati
Nel
libro III del Capitale, confutando l'apparente obiettività
della “formula trinitaria” – secondo la quale il valore
delle
merci sarebbe originato dalla somma della retribuzione dei
cosiddetti fattori produttivi (profitti, salari e rendite),
mentre è vero l'esatto
contrario, cioè che sono queste ultime voci di reddito che
reperiscono la propria fonte nel valore delle merci, in
quanto quest'ultimo viene
tra di esse distribuito successivamente alla propria
realizzazione – Marx ebbe ad affermare che “ogni scienza
sarebbe superflua, se la
forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero
immediatamente [1].
Infatti i fenomeni che percepiamo sono spesso delle manifestazioni di leggi che sfuggono ai sensi e che solo la scienza può svelare, mentre possiamo cadere in errore se confondiamo queste manifestazioni con l'essenza, cioè con i meccanismi che ci stanno dietro. Anche l'osservazione empirica non accompagnata da una robusto impianto teorico, per esempio l'accertamento statisticamente oggettivo della correlazione tra due fenomeni, può trarre in inganno in quanto può condurre a stimare in maniera invertita il rapporto causa-effetto tra le due grandezze.
Forse è utile fare un esempio. Secondo l'esperienza dei nostri sensi, tutti i corpi hanno un peso che si avverte in quanto su di essi agisce una forza, tanto maggiore quanto maggiore è il loro peso, che li attrae verso il suolo. Leggi tutto
La nuova beffa firmata Renzi: volete la pensione? Pagatevela. E pure con gli interessi...
Si torna
a parlare di
pensioni. Stavolta per annunciare "flessibilità", nome in
codice che significa fregatura. L'ennesima.
Lorsignori hanno scoperto l'acqua calda: aumentare a dismisura l'età pensionabile porta ad un aumento della disoccupazione giovanile. Strano, avremmo detto tutti il contrario...
Quattro notizie in tre giorni hanno riportato il tema previdenziale alla ribalta. La prima: secondo il presidente dell'Inps Boeri i nati nel 1980 rischiano di andare in pensione a 75 (settantacinque) anni. La seconda: a causa dei nuovi scalini scattati per le donne (legge Fornero) e dei calcoli Istat sulla "speranza di vita" (legge Dini), nel primo trimestre 2016 i pensionamenti sono diminuiti (rispetto allo stesso periodo del 2015) del 34,5%. La terza: nello stesso trimestre il valore medio mensile delle pensioni dei lavoratori dipendenti è sceso di ben 72 euro, passando dai 1.236 euro (ovviamente lordi) del 2015 agli attuali 1.164. La quarta, di cui ci occuperemo in questo articolo, è che il governo sta studiando la cosiddetta "flessibilità" in materia pensionistica.
Insomma, si va in pensione sempre più tardi e con un assegni previdenziali sempre più poveri. Dov'è la notizia? Non sapevamo tutti che è esattamente questo il futuro disegnato per gli anziani da un ventennio di controriforme, diciamo da Amato a Monti? Leggi tutto
Anche ad aver seguito gli
avvenimenti solo da
lontano, il 2015, nello spazio pubblico borghese francofono
e in una parte della Triade, risulta essere stato l'anno di
una grande offensiva della
tesi della "stagnazione secolare" . Col passare degli anni,
tutte le teorie della crisi ciclica e tutte le diverse sette
economiche che per due secoli
hanno predetto l'eterno ritorno del capitalismo hanno reso
l'anima, lasciando il posto alla tesi della "stagnazione
secolare" come nuova
ristrutturazione e attuazione del pensiero borghese sempre
prigioniero dei suoi stessi presupposti. Se quindi adesso la
"stagnazione secolare" ha il
vento in poppa, ciò avviene perché spiega quel che rimane
inspiegabile per un economista. Alcuni segmenti del pensiero
economico
borghese cercano adesso di spiegare, sempre a partire dalle
loro forme di coscienza feticizzata, ciò che rimane come
l'impensato di tutto il
pensiero economico: la nuova qualità di una crisi della
valorizzazione che sembra loro non assomigliare a
nessun'altra crisi.
Quasi dieci anni dopo l'inizio di un nuovo crollo di un'economia mondiale che ha visto il collasso della dinamica della produzione di capitale fittizio quanto meno nel settore privato, niente di quello che era stato "previsto" si è verificato: la ripresa a "V" e a "W", poi a "WW", "l'inversione della curva" oppure la "purga" di una crisi ciclica ed il ritorno al "business as usual", tutto questo non si è ancora visto.
Leggi tuttoQualche giorno fa la Corte d’Assise di Varese ha assolto “perché il fatto non sussiste” due carabinieri e sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale, abuso di autorità su arrestato, abbandono di incapace e arresto illegale in relazione alla morte di Giuseppe Uva, deceduto la mattina del 14 giugno 2008 all’ospedale Circolo di Varese dopo aver trascorso parte della notte in caserma. Il procuratore di Varese Daniela Borgonovo, nelle scorse udienze aveva chiesto l’assoluzione, richiesta che è stata accolta.
Giuseppe Uva aveva trascorso la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008 in alcuni bar di Varese insieme all’amico Alberto Biggiogero Ubriachi, stavano spostando delle transenne per chiudere al traffico una strada quando furono fermati dai carabinieri e portati in caserma. Nel corso della notte, Uva fu trasportato con trattamento sanitario obbligatorio all’ospedale di Circolo di Varese, dove morì la mattina del 14 giugno. Come Stefano Cucchi, Giuseppe Uva era nelle mani dello Stato e come loro due era nelle mani dello Stato la ragazza che, nella caserma del Quadraro a Roma, arrestata per aver tentato di rubare una maglietta all’Oviesse, fu stuprata da tre carabinieri e un vigile urbano.
Tra gennaio e febbraio di quest’anno, al Cairo è stato ucciso Giulio Regeni, una storia che tutti conoscono e ancora aperta.
Salta agli occhi la solerzia, la precisione e l’acume con cui la stampa italiana ha “smascherato” le varie versioni delle fonti egiziane, le comunicazioni dello Stato egiziano, le informazioni che sono state fornite dalla polizia locale. Leggi tutto
In cambio di che cosa torniamo in Iraq dopo le tristi memorie di Nassiriya? Per la sicurezza italiana la diga di Mosul è davvero secondaria e non è giustificato un intervento militare
Leggendo i giornali sembra che dopo gli ingegneri alla diga di Mosul arriveranno anche i soldati italiani: 500, il più forte concentramento di truppe occidentali in Iraq.
Domanda ovvia: perché, visto che era così urgente, non ci sono andati gli americani che con l’occupazione del 2003 hanno disgregato l’Iraq?
Risposta: gli americani hanno bisogno di complici per giustificare i loro disastri non di alleati e hanno chiesto al più vulnerabile, non a francesi o inglesi e tanto meno ai tedeschi. Obama ha ritirato i soldati Usa dall’Iraq e non vuole tornare indietro su questa decisione. Un conto è usare i corpi speciali per azioni mirate contro l’Isis, presentate al Congresso e al pubblico Usa come azioni anti-terrorismo, un altro è mettersi a fare il bersaglio fisso della guerriglia. Tralasciamo per un momento l’inefficacia di questa “lotta all’Isis” che nel 2014 ha occupato Mosul senza che gli Usa facessero una piega e dopo tre anni è ancora lì: anche questo dovrebbe essere motivo di riflessione.
Quindi si ricorre ai soldati italiani, disponibili soprattutto perché i vertici della Difesa hanno bisogno di “fare bilancio” con un’azione esterna. Leggi tutto
Nel capitalismo il lavoro è sfruttato. Questa è la base dell'analisi marxiana e negarla è negare Marx. Una polemica con i critici della teoria del valore
La tesi che nell'economia capitalistica il lavoro salariato sia "sfruttato" costituisce il nodo centrale della teoria marxiana: talmente essenziale che abbandonarlo implica approdare alla costruzione di un marxismo senza Marx.
Chi propone un'affermazione del genere ha però l'obbligo di affrontare la sfida degli attacchi a quella teoria. Attacchi sempre più efficaci, tanto che difficilmente qualcuno osa richiamarvisi al giorno d'oggi. Le ragioni delle critiche più diffuse sono presto dette. Sul terreno dei principi, non terrebbe il fondamento su cui Marx costruisce la teoria del valore, ovvero la riconduzione di quest'ultimo a nient'altro che lavoro. Sul terreno dei fatti, si sarebbero esaurite le basi materiali del discorso marxiano.
Per un verso, assisteremmo ad una tendenziale "fine del lavoro", e non ad una sua sempre più pervasiva centralità. Per l'altro, sarebbe ormai scomparsa quella figura del lavoratore omogeneo perché dequalificato in cui si tradurrebbe empiricamente la nozione marxiana di "lavoro astratto".
Vale la pena di partire da una rilettura delle basi categoriali della critica dell'economia politica. Il ragionamento di Marx è il seguente. Nel processo capitalistico i lavoratori salariati riproducono il valore dei mezzi di produzione impiegati (trasferendo in avanti il lavoro morto storicamente ereditato dal passato) e aggiungono un neovalore. Leggi tutto
“La disunione della
plebe e del
senato romano fece libera e potente quella Repubblica”. Il
Machiavelli dei Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio attacca il culto
della concordia civica ritenendo che uno dei punti di forza
di Roma siano stati proprio i tumulti – all’oggi, le lotte
sociali
– piuttosto che cause di debolezza. Anzi, Machiavelli
ritiene che le sollevazioni popolari avrebbero avuto il
grande merito di impedire che i
“grandi” attentassero alla libertà. In fondo una città che
punta a estendere la propria egemonia o a non cadere vittima
di
altri Stati, secondo Machiavelli, ha bisogno anzitutto di un
esercito numeroso, ossia che l’intera popolazione si senta
chiamata a combattere e
che la medesima popolazione – chi vive l’urbe –
possa esercitare il diritto di cittadinanza: vale a dire che
le classi
subalterne siano messe nella condizione di far valere con
più forza le proprie rivendicazioni.
Come recita il primo capitolo del terzo libro dei Discorsi: “a volere che una setta o una Repubblica viva lungamente, è necessario riportarla spesso verso il suo principio”: il tumulto, le lotte sociali sono precisamente uno dei modi attraverso cui il filo prezioso con l’origine – con i principi preziosi - non viene mai a interrompersi del tutto. All’oggi, invece, la dittatura di centro in cui è inchiodata la politica europea vuole proprio che la qualità del politico aumenti in modo inversamente proporzionale al numero di conflitti che crea, individui e cerca di risolvere. Leggi tutto
TINA (There is no alternative).
Con
questo slogan, Margaret Thatcher tentò di instillare,
nell’immaginario collettivo, la convinzione che non ci fosse
reale alternativa alla
globalizzazione neoliberista. Una valutazione storica sul come
e sul quanto questa convinzione abbia fatto breccia, non
potrebbe che partire dalla
forza con la quale, il termine globalizzazione, si sia imposto
nel senso comune. La modernizzazione neoliberista delle
strutture statali
(rigorosamente) è stata caldeggiata da una panglossiana
epopea, la quale prefigurava un mondo perfetto nell’avvenire,
in cui il mercato
avrebbe dispiegato la sua hybris sostenendo la
crescita di ogni Paese che avrebbe investito.
Molti studiosi criticarono questa prospettiva, con chiavi di lettura differenti. I pionieri dell’analisi dei sistemi-mondo sottolineavano, ad esempio, che nonostante l’enfasi posta sugli Stati-nazionali come attori primi e principali del processo di globalizzazione, essi sono sempre inseriti in un contesto specifico, al cui interno esistono: altri Stati, istituzioni, regole e strutture ben precise. Un tale sistema storico va sotto il nome di sistema-mondo.
Questo approccio si innesta nel solco del costruzionismo sociale anche se in maniera del tutto originale, poiché promuove una visione olistica della società, portando in dote una concezione monista che rifiuta la frammentazione tra le diverse discipline che caratterizza il sapere moderno. Leggi tutto
Putinfobia di Giulietto
Chiesa (edito da Piemme) è un libro che analizza
la paura che
l'Occidente ha sempre provato nei confronti della seconda
potenza mondiale: l'Unione Sovietica, ora diventata Russia.
Come sua consuetudine, Chiesa presenta dati e fatti secondo un criterio spazio-temporale che fin da subito lascia intendere al lettore che ben altro si chiarirà con la lettura del libro.
Si può essere d’accordo con le posizioni di Giulietto Chiesa o non condividerle, ma non si può negare che seguire il suo ragionamento conduce, inevitabilmente, ad allargare il proprio orizzonte, a porsi delle domande, a cercare delle risposte... come se all’improvviso, dopo aver sempre osservato il mondo dalla stessa postazione, si venisse catapultati nello spazio e lo si potesse osservare da lì, il nostro pianeta. Ogni cosa acquista una prospettiva nuova, differente.
Per Chiesa, la Russia potrebbe essere uno straordinario ponte di collegamento dell'Occidente con l'Asia e il resto del mondo ma ciò non accade perché gli occidentali non vogliono questo.
Leggi tuttoUn reddito di base incondizionato non è solo uno strumento con cui rifiutare condizioni di lavoro “capestro” – contro le quali in queste settimane in Francia è nato il movimento Nuit debout – e mettere in discussione il dominio del lavoro sulla vita, prima di tutto è un fattore di liberazione comune. Del resto, la recente previsione dell’Inps sulla generazione anni Ottanta, costretta a lavorare fino almeno a settantacinque anni, annuncia milioni di esclusi. Che faranno di tutto per riprendersi in mano la propria vita
Introduzione: il reddito minimo
Il dibattito sul reddito di base (basic income) dura oramai da quasi venti anni. È infatti dell’agosto del 1997 la pubblicazione in rete (sul sito ecn.org) di un pamphlet intitolato “Dieci tesi sul reddito di cittadinanza” a cura di chi scrive. In tale testo, che ha avuto subito una fortunata circolazione, soprattutto underground, per essere poi editato nel volume “Tute Bianche”1, si faceva il punto della prima fase del dibattitto sulla proposta di introdurre in Italia un’ipotesi di reddito sganciato dal lavoro, ipotesi che aveva cominciato a circolare negli ambienti neo-operaisti nei due anni precedenti2.
A venti anni di distanza, occorre riconoscere che la definizione “reddito di cittadinanza” ha creato più danni che vantaggi, dal momento che all’epoca, pur essendo agli albori, il fenomeno migratorio non aveva ancora assunto le proporzioni di oggi. Così, colpevolmente, si è usato il termine “cittadinanza” senza pensare che il concetto di “cittadinanza” è tremendamente ambiguo. Esso infatti può essere utilizzato in un contesto etico-filosofico per designare che ogni essere umano nasce già di per sé “cittadino del mondo”, a prescindere dalla nazionalità di appartenenza. Leggi tutto
Se c’è un percorso prevedibile fin nei dettagli più grossolani è quello dei “governi Quisling”, ossia dei governi imposti ad un paese da una o più potenze occupanti. Il nome è dato dal “premier” che i nazisti trovarono per la Norvegia e fu applicato spesso a “governi” dello stesso taglio.
Ma ora siamo in democrazia, no? E quindi il governo quisling si fa prima di invadere, poi lo si porta nel paese che si vuol prendere, poi gli si fa chiedere “aiuto” a chi lo ha messo lì e infine l’”aiuto fraterno” arriva a cavalo dei B52 o similari, per far nascere la “democrazia” (che presuppone una società di individui liberi) in una società tribale (dove, per capirsi, regna una struttura sociale fatta di tribù, in cui dunque i singoli esistono solo in quanto parte di questa o quella “famiglia allargata”).
In Libia siamo ora alla “richiesta di aiuto” da parte di Fayez al Serraj, il “premier” che inizialmente si era dovuto insediare su un gommone al largo della costa patria, poi blindato dentro una base navale controllata dalle forze occidentali già presenti lì per “supporto” al governo locale – quello di Tripoli – che però non accettava di essere esautorato dal quisling scelto a Londra, Parigi e Washington.
Con straordinario e non casuale tempismo, la domanda di essere invaso è stata inoltrata mentre “i cinque” (Usa, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia) erano riuniti in un vertice ad Hannover. Naturalmente hanno risposto “non c’è problema, stiamo per arrivare”, senza neanche lo sforzo di mostrare sorpresa. Leggi tutto
Non si vorrebbe passare per tipi schizzinosi o ignari delle cose del mondo. Ma la visita di Angela Merkel e Donald Tusk al campo profughi di Nizip 2, nei pressi di Gazantiep, ha avuto qualcosa di osceno. Soprattutto se paragonato alla di poco precedente visita di papa Francesco all’isola greca di Lesbo, l’isola che è stata il primo approdo in Europa per migliaia e migliaia di profughi e migranti.
Perché proprio questo è successo: il premier del più potente Paese dell’Unione Europea, la Germania, e l’uomo che più rappresenta l’Unione stessa, quel Tusk che presiede il Consiglio europeo, non sono andati a vedere i luoghi dove l’Europa soffre e dove più si mostra incapace di essere, appunto, Europa. Lì c’è andato il Papa. Loro sono andati a celebrare un alleato, la Turchia, e a siglare un patto politico. Tra ragazze in costume e mazzi di fiori, come se fosse stata l’inaugurazione di un traforo.
L’oscenità, dunque, è doppia. Da un lato, la totale incapacità degli europei. Ci si racconta, per mettere a posto la coscienza, che questa ondata migratoria è un’emergenza mai vista, uno tsunami inaffrontabile. Ma non è vero. Da almeno trent’anni il 3% circa della popolazione mondiale è migrante. Aumenta la popolazione, aumentano i migranti e nei decenni la percentuale resta più o meno inalterata. Nulla di nuovo, dunque. Finché riguardava gli altri, il problema per noi non esisteva. La novità, semmai, sta nel fatto che per la prima volta ci tocca in prima persona. Ma l’Unione Europea non sarebbe lì proprio per quello? Leggi tutto
Di Cuore si è detto nel corso degli ultimi decenni tutto il male possibile. Rimane un libro inequivocabilmente di destra. Trapassata la fase dell’emozione collettiva, superata quella della demolizione necessaria, possiamo invece oggi, in questo centotrentesimo anno dalla pubblicazione, tentarne una sua rivalutazione critica. Probabilmente Cuore non ha più alcuna centralità pedagogica nella formazione delle giovani generazioni. Venti e passa anni fa era però ancora uno dei testi privilegiati delle scuole elementari. Persiste dunque una sua specificità, nonostante il significato del libro – quello di contribuire alla formazione civica della prima generazione di “italiani” – sia andato disattivandosi nel tempo. Della necessaria demolizione di questa pastoia di moralismo positivistico, di perbenismo borghese, di interclassismo compassionevole, ha già detto tutto Umberto Eco nel suo Elogio di Franti. Non serve aggiungere altro nel 2016, a cinquantaquattro anni di distanza da una definitiva presa di coscienza che si è andata imponendo come unica lettura possibile nel secolo della lotta di classe. Franti continua a rimanere l’unica via di fuga accettabile, violenta, dissacratrice. Oggi però che il post-moderno ha sostituito i rapporti di produzione di brechtiana memoria, persino un libro come Cuore riesce a recuperare un senso. Si profana il sacro, ma in assenza di quest’ultimo, che significato ricopre oggi la critica al libro di De Amicis?
Abbiamo detto che Cuore si presenta inconfondibilmente come un testo pedagogico di destra. Leggi tutto
L’insegnamento di Luciano Gallino sulla moneta: «Lo Stato si decida a fare in piccolo quello che le banche private fanno in grande: creare denaro dal nulla»
Una delle radici più profonde e nascoste della crisi è la moneta/debito, come insegna Luciano Gallino (“Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti“, Einaudi, 2015). Il senso del suo insegnamento radicale e controcorrente si può sintetizzare così: la grande maggioranza della moneta che utilizziamo viene creata ex nihilo dalle banche private sotto forma di prestiti, cioè di moneta/debito. Questa è la vera causa dell’esplosione globale dei debiti privati e pubblici che soffocano l’economia.
La moneta bancaria aumenta i debiti e sottrae ricchezza all’economia reale. La moneta dovrebbe invece diventare un bene pubblico, una risorsa messa a disposizione dallo Stato per produrre ricchezza e benessere grazie alla piena occupazione e alla svolta ecologica dell’economia. E’ l’unica via d’uscita dalla crisi.
In continuità con gli studi e le lezioni sulla “moneta endogena” di economisti insigni, come John M. Keynes e Hyman Minsky e, in Italia, Augusto Graziani, Gallino spiega il malefico ingranaggio: «Una banca moderna crea denaro quando concede un credito. La credenza popolare per cui la banca presterebbe ad altri il denaro già depositato da un altro correntista è infondata». Leggi tutto
Vi presentiamo un intervento che offre uno
sguardo critico sulle principali chiavi di lettura con cui
viene tematizzato il nesso tra
spazi urbani, forme di accumulazione e lavoro, all’incrocio
tra sfruttamento ed estrazione di valore. Compare come
contributo nel volume appena
pubblicato a cura di E. Armano e
A. Murgia, Le reti
del lavoro gratuito. Spazi urbani e nuove
soggettività, ombre corte, 2016
È
indubbio che la crisi globale, tutt’altro che chiusa a otto
anni dal suo scoppio iniziale, si pone sempre più come prisma
attraverso cui
scomporre il variegato assemblaggio neoliberista2, ricostruire la sua genealogia
troppo spesso data per scontata,
ragionare sulla sua tenuta o dissoluzione (in quale
direzione?). A maggior ragione ciò dovrebbe valere, in sede
analitica e teorica, per
l’intreccio tra spazi urbani, finanziarizzazione e forme
emergenti di lavoro, che di quell’assemblaggio sono se non il
cuore, certo un
tassello cruciale. Tutto un programma di ricerca che dovrebbe
innanzitutto mettere a verifica le letture esistenti, anche
facendole cortocircuitare,
per mettere a tema il gioco complesso e aperto tra l’irrompere
di nuove dinamiche e il trascinamento o la cronicizzazione di
vecchi meccanismi:
se e cosa sta cambiando nella “città neoliberale” quanto ai
meccanismi di estrazione del valore, alle composizioni del
lavoro, alle
forme di governance e al loro rescaling3, nonché alle dinamiche della
soggettività, quella
piegata e rassegnata se non disperata, quella guardinga e
opportunista ma inquieta, quella smarrita ma potenzialmente
contro.
In attesa di nuove ipotesi, che però difficilmente emergeranno senza l’impulso di pratiche collettive forti e ampie che ad oggi latitano, voliamo basso e proviamo a buttare giù una tipologia (critica) delle letture critiche più diffuse e in qualche modo rappresentative rispetto al rapporto tra spazio urbano “globalizzato”, forme di accumulazione, lavoro. Senza pretesa di esaustività, va da sé, e provando a fare virtù di una competenza solo cursoria nel campo. Se una tipologia, oltre a lavorare sui concetti di un campo, riesce a cogliere qualche nodo di fondo, parte della sua funzione è assolta.
Leggi tutto1. Ho conosciuto Carlo Clericetti
all'ultimo Goofynomics-4 e mi ha fatto un'ottima impressione,
riferendosi al panorama "tipico" dei giornalisti italiani di
economia e finanza.
Clericetti, in un articolo su Repubblica.it, (il che è tutto dire), commenta l'uscita di Tabellini relativa all'adozione, da parte della BCE, della "estrema misura" (reflattiva, ma non si deve dire "troppo") contemplata dalla teoria monetarista: lo "Helicopter Money", secondo la celebre metafora usata dallo stesso Milton Friedman (e endorsed by Ben Bernanke", tanto da farlo definire "Helicopter Ben").
L'articolo ci ragguaglia sulla portata concreta della proposta appoggiata da Tabellini e si attesta su una visione pragmatica, confortata dalla citazione di questo post di Alberto Bagnai, circa il fatto che la monetizzazione non è causa di inflazione incontrollata (l'ennesima mitologia tecno-pop che ha fornito la corda cui si sono volentieri impiccati i governi dell'eurozona).
2. Intendiamoci, Draghi ha negato di aver "alluso" a tale soluzione, limitandosi, a quanto pare, a non affermarne l'assurdità logico-economica. Leggi tutto
Il Primo Maggio e la comunicazione. Non siamo un blog sindacale o schierato con partiti, tanto meno su posizioni radicali. Al limite vi abbiamo proposto considerazioni sulla comunicazione e l'informazione. Perchè pubblichiamo questo intervento di Giorgio Cremaschi per anni dirigente sindacale della FIOM - CGIL ?
Lo pubblichiamo perchè in qualche modo ne siamo partecipi ma questo lo scoprirete nel prossimo post dove vi raccontiamo l'antefatto, il prologo oppure il prequel come usano dire gli esperti di cinema
Due anime
percorrono questo Primo Maggio. Una è quella di regime. Essa è
ben simboleggiata dalla orribile pubblicità di Cortina [qui
accanto], che usa Pelizza da Volpedo per chiamare alle ultime
discese sui suoi costosi impianti di sci. È l'assorbimento
consumistico della
festa dei lavoratori, come purtroppo è già in gran parte
avvenuto per l'8 marzo. Contribuiscono sicuramente a questa
distruzione
del senso della giornata appuntamenti come il Concertone di
Roma. Questo spettacolo promosso da CGIL CISL UIL e concordato
censura per censura con le
autorità della Rai, ha il compito rappresentare un momento di
svago che non confligge con nessuno, men che meno con chi il
lavoro lo
sfrutta.
E che la parola sfruttamento sia invece quella più necessaria oggi ce lo dicono da ultimi i dati dell'INAIL, che proprio alla vigilia della festa dei lavoratori ci informano che coloro che sono rimasti uccisi sono il 16% in più rispetto all'anno scorso. 1200 sono le vittime degli omicidi per il mercato, la competitività, la precarietà, lo sfruttamento.
Chi lavora, chi riesce ad uscire dalle sabbie mobili della disoccupazione di massa dove affondano tutti i principi della democrazia, è sottomesso allo sfruttamento perché subisce il più brutale dei ricatti. O mangi sta minestra o salti dalla finestra, questa è la antichissima e brutale filosofia che regola oggi i rapporti di lavoro. E che tiene vincolati alla stessa catena i braccianti impiegati nei campi a tre euro all'ora, gli operai della Fiat costretti a turni massacranti, i dipendenti delle banche che devono vendere obbligazioni a rischio, i lavoratori dei servizi pubblici sui quali si scaricano addosso i tagli allo stato sociale.
Ricatto è la parola che oggi accompagna e sostiene sempre l'altra, sfruttamento. Assieme queste due parole sono i pilastri sui quali si regge l'attuale rapporto di lavoro, spinto sempre di più alla regressione verso il Medio Evo.
Leggi tutto«Volete galleggiare ancora un po'? Bene, è giunta l'ora dell'austerità preventiva». Queste le condizioni poste dalla troika al governo greco. Ecco il risultato della capitolazione del luglio scorso
Non è un secolo fa. Nel gennaio 2015 Syriza era andata al governo promettendo la fine dell'austerità. Pochi mesi di incertezza ed è arrivata la clamorosa capitolazione di luglio. Allora Tsipras e gli tsiprioti d'ogni dove dissero che in fondo si era evitato il peggio: l'austerità sarebbe stata limitata e resa più "equa", mentre il debito sarebbe stato finalmente ristrutturato. E' con queste balle che la logica del meno peggio ha consentito a Syriza di vincere le nuove elezioni di settembre. Arriviamo così all'oggi, al nuovo ultimatum della troika: «Volete galleggiare ancora un po'? Bene, è giunta l'ora dell'austerità preventiva». In quanto al debito, niente riduzione del suo valore nominale, dato che Berlino non vuole.
La trattativa è in corso e l'accordo pare vicino. L'ultimatum lanciato dall'Eurogruppo e dal Fmi scade mercoledì, in vista di una firma che molti danno per certa giovedì 28 aprile. Se un rinvio di qualche giorno è ovviamente possibile, dubbi non sembrano esserci sui contenuti della nuova intesa tra il governo greco ed i suoi creditori: una nuova stangata antipopolare su pensioni, tagli di spesa, aumento delle tasse.
L'importo complessivo della manovra è pazzesco: 3 punti di Pil, un punto ciascuno sulle voci di cui sopra. Leggi tutto
Una settimana fa, il neo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Piercamillo Davigo non si era ancora seduto sulla sua nuova sedia, che già dava fuoco alle polveri attaccando frontalmente la classe politica per il diffuso malcostume e, come era prevedibili, Renzi, che, chissà perché, si è sentito chiamare in causa, ha subito risposto per le rime (solito “spirito buzzurro” fiorentino). Siamo ad un nuovo tempo dell’ormai eterna saga “Politica contro Magistrati”? Ragioniamoci su.
Davigo, lo si sa, fu nel pool di Mani Pulite e, per giunta, ne fu la vera mente fine, anche più del mondano Borrelli. Il fatto stesso che sia stato eletto presidente dell’Anm, e con larghissima confluenza, dice quale sia lo stato d’animo della magistratura nei confronti della politica in generale e del Pd in particolare. Quello fra Magistratura da un lato e Pci-Pds-Ds-Pd dall’altro non è mai stato vero amore ma strumentalizzazione reciproca, prima contro Craxi e dopo contro Berlusconi. Il cavaliere, che in queste cose è sempre stato un po’ grossier, mise le cose in termini di “toghe rosse”, favoleggiando di una Magistratura Democratica, padrona assoluta dell’ordine giudiziario ed esecutrice fedelissima degli ordini delle Botteghe Oscure (poi Palazzo del Nazareno, dove lui andrà a concludere il ben noto patto).
Ma in realtà le cose sono molto diverse e complesse ed hanno a che fare con le dinamiche della globalizzazione.
Leggi tuttoIl presidente del consiglio Renzi è in questo periodo è solito dire: “È finito il tempo in cui...” e poi prosegue con l'obiettivo del momento, siano i diritti del lavoro, la salvaguardia dell'ambiente, il ruolo della magistratura, quello del parlamento e quanto altro.
Ora potrebbe ben affermare: “È finito il tempo in cui si continuava a maturare una aspettativa di vita sempre più alta”.
Infatti, secondo il meticoloso rapporto 2015 di Osservasalute, quest'anno per la prima volta dal dopoguerra la popolazione italiana subirà un calo nell'aspettativa di vita. Nel 2014 essa era di 80,3 mesi, l'anno dopo è scesa a 80,1 mesi. Due mesi in meno a persona, che moltiplicati per i sessanta milioni di italiani fanno 120 milioni. 10 milioni di anni rubati a tutta la popolazione del nostro paese. Il più grande furto di vita dalla fine della guerra. La notizia dovrebbe avere i titoli a cinque colonne su tutti giornali, dominare telegiornali e talkshow, essere al centro di ogni confronto politico ed economico. Ma sappiamo già che non sarà così, perché parlare sul serio di questo dato terrificante costringerebbe a discutere sul serio della sue cause.
Il calo dell'aspettativa di vita è il più semplice e brutale segno del fallimento di un sistema. Se questo sistema ci fa morire prima vuol dire che sta andando contro gli interessi naturali di fondo della specie umana.
Leggi tutto«Grazie, presidente Obama. L’Italia proseguirà con grande determinazione l’impegno per la sicurezza nucleare»: lo scrive su twitter il premier Renzi, dopo aver partecipato al summit di Washington su questo tema in aprile.
«La proliferazione e l’uso potenziale di armi nucleari – scrive il presidente Obama nella presentazione del summit – costituiscono la maggiore minaccia alla sicurezza globale. Per questo, sette anni fa a Praga, ho preso l’impegno che gli Stati uniti cessino di diffondere armi nucleari».
Proprio mentre dichiara questo, la Federazione degli scienziati americani (Fas) fornisce altre informazioni sulle B61-12, le nuove bombe nucleari statunitensi in fase di sviluppo, destinate a sostituire le attuali B61 installate dagli Usa in Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia. Sono in corso test per dotare la B61-12 di capacità anti-bunker, ossia quella di penetrare nel sottosuolo, esplodendo in profondità per distruggere i centri di comando e altre strutture sotterranee in un «first strike» nucleare.
Per l’uso di queste nuove bombe nucleari a guida di precisione e potenza variabile, l’Italia fornisce non solo le basi di Aviano e Ghedi-Torre, ma anche piloti che vengono addestrati all’attacco nucleare sotto comando Usa.
Lo dimostra, scrive la Fas, la presenza a Ghedi del «704th Munitions Support Squadron», una delle quattro unità della U.S. Air Force dislocate nelle quattro basi europee «dove le armi nucleari Usa sono destinate al lancio da parte di aerei del paese ospite». Leggi tutto
A quindici anni dai tragici attentati terroristici, vero e proprio casus belli per la guerra di civiltà contro il radicalismo islamico, è indispensabile fare un bilancio storico, per risalire alle cause profonde di questo conflitto. Sin dai tempi antichi, lo spettro del nemico esterno e la conseguente guerra contro di esso, è stato funzionale al potere, che si è cementificato imponendo la pace sociale all’interno, indispensabile alla salvaguardia di privilegi sempre meno funzionali allo sviluppo economico e sociale
Con
la dissoluzione del “blocco sovietico”, il fantasma del
comunismo non appariva più in grado, da solo, di tenere
insieme le
classi dominanti e dirigenti occidentali. Ciò ha favorito il
riesplodere della conflittualità interimperialista,
solo
in parte attenuata dalla forma tendenzialmente
transnazionale che è venuto assumendo il capitale
finanziario. Con il dileguare
del “fantasma del comunismo”, tendeva a dileguare anche il
fantasma del totalitarismo, l’ombra
inquietante della quale – sfruttando le contraddizioni reali
nei processi di transizione al socialismo –
l’ideologia dominante aveva abilmente proiettato sul
comunismo, presentandolo come una distopia. In tal modo
diveniva decisamente più arduo per la grande borghesia
mantenere l’egemonia, ossia il
proprio dominio di classe con il consenso dei
subalterni e cementificare l’adesione in funzione subordinata
di ceti medi e piccola borghesia al blocco sociale dominante.
Vi era dunque l’urgenza di favorire la costruzione di un nuovo nemico globale in grado di ricompattare il fronte imperialista, il mondo occidentale in primis, all’interno del quale il processo di unificazione economica europea e, in seguito, la moneta unica mettevano in discussione il signoraggio del dollaro, indispensabile a coprire le crescenti voragini nella bilancia commerciale statunitense, acuendo i conflitti interimperialistici. La costituzione di un nuovo nemico globale era altresì indispensabile per giustificare il mantenimento di enormi spese militari, che rischiavano altrimenti di apparire superflue, soprattutto in una fase di crisi in cui si assiste a un costante ridimensionamento delle spese sociali. Leggi tutto
1) Come decidere quale mezzo di
comunicazione è affidabile? C'è qualche regola dettata dal
buon senso per farlo?
Religione e politica si appoggiano entrambe sulla credulità delle persone, e la credulità si basa sull'ignoranza. Si rende pertanto necessario costruire l'ignoranza della gente, per poter poi costruire sulla credulità. Poi, con la credulità si può far tutto. Allo stesso modo in cui avveniva con il sermone del prete, la stampa ufficiale, e con essa la TV, partecipano con successo alla fabbricazione dell'ignoranza informata. Ma, nell'epoca dell'informazione, paradossalmente, la gente non sa niente: esiste soltanto quello di cui si parla; ciò di cui non si parla, non esiste, scompare. La gente non sa neppure ciò che mangia né ciò che beve, né quanto sia il tasso di erbicida glisofato (Roundup) cancerogeno della Monsanto presente nel loro corpo, dal momento che non viene loro comunicato con esattezza [*1]. Allo stesso modo in cui ci si nutre di veleni, senza saperlo, ci si nutre della stampa avvelenata.
Il filosofo Seneca, il quale, in quanto consigliere dell'imperatore Nerone, aveva imparato a conoscere i popoli, diceva "Unusquisque mavult credere quam iudicare": "Ciascuno preferisce credere che giudicare". E' su questa debolezza umana che si costruisce la credulità. Leggi tutto
Intervistato lo scorso marzo dal
giornalista
di Al Monitor Wilson Fache, che si era recato nell’area
della diga per un reportage, un abitante della parte di
hinterland di Mosul
sotto il controllo dei peshmerga curdi (come la diga),
ha usato le parole del condottiero berbero Tariq Ibn Ziyad per
descrive la situazione degli
abitanti dell’area: “Ora ci troviamo con il nemico davanti a
noi e il mare profondo dietro di noi”.
La geologia
La diga di Mosul, originalmente conosciuta come Saddam Dam, sul fiume Tigri, nel governatorato occidentale iracheno di Ninawa, si trova circa 50 chilometri a nord della città di Mosul, controllata dall’Isis, meglio detto, capitale del Califfato. La sua costruzione, cominciata nel 1980, fu decisa da Saddam Hussein, nel quadro di un piano di “arabizzazione” del nord curdo dell’Iraq. Fu costruita da un consorzio italo-tedesco Hochtier Aktiengesellschaft-Impregilo, che la completò nel 1984. Lo sbarramento è lungo 3,2 chilometri per un’altezza di 131 metri. Ė la quarta diga più grande del Medio Oriente e la più grande dell’Iraq. Componente chiave dell’energia elettrica nazionale: 4200 megawatt di turbine generano 320 MW di elettricità al giorno. Leggi tutto
Com'è noto uno degli argomenti che certa sinistra europeista — in perfetta sintonia con le destre liberiste — usò nel passaggio all'Unione europea, fu che per poter "competere" e vincere la sfida della globalizzazione dei mercati, occorreva lasciarsi alle spalle l'Italietta e procedere a tappe forzate (tra cui la moneta unica) verso un'entità sovranazionale. Così non solo saremmo stati tutti meglio ma, come disse Prodi nel 1999: «Con l'euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più».
Siccome è sotto gli occhi di tutti quali siano stati i risultati reali, non c'è più bisogno di smascherare quanto ingannevole fosse questa narrazione ideologica.
Per ipnotizzare e turlupinare l'opinione pubblica venne poi utilizzato un secondo argomento. Quello per cui l'Unione avrebbe liberato gli europei dalla relazione di sudditanza politica, strategica ed economica rispetto agli Stati Uniti d'America.
Eravamo in pochi, in quegli anni, a sostenere che quella fosse una fandonia, un pretesto per addomesticare anzitutto il "popolo di sinistra" con profondi sentimenti antiamericani, da una parte, e quei settori oramai molto minoritari della destra nazionalista.
Erano gli anni in cui anche nella "sinistra radicale" c'era chi, pur condannando come "imperialistico" il disegno europeista, riteneva in effetti che esso si stesse conformando, nella sfida per il predominio mondiale, come "polo antagonista" a quello americano. Leggi tutto
Dopo solo un paio d’anni il giovane rinnovatore è
già allo stadio “È tutta colpa del
giustizialismo”. Quanto manca per lo stadio “Erano solo cene
eleganti”?
Come se l’essere arrogante,
ipocrita e cazzaro ancora non bastasse, Renzi è anche
terribilmente noioso.
È noioso come la
replica estiva di un vecchio film stravisto un milione di
volte, noioso come un imitatore scarso da villaggio turistico
che in repertorio ha solo
Celentano, Benigni, l’Abatantuono de Il Ras del Quartiere,
e Berlusconi.
“l’Italia ha conosciuto figure di giudici
eroi, ma ha conosciuto negli ultimi 25 anni pagine di
autentica barbarie legata al giustizialismo”.
Anche per Renzi
come per Berlusconi l’unico giudice buono è quello morto.
I vivi che si permettono d’indagare sui petrolieri sono
barbari.
Anzi babbari, come direbbe un imitatore di
Abatantuono.
E quando Matteo ras del quartiere vede la babbarie
giustizialista, gli scatta la viulenza.
L’Italia non è mai veramente uscita dagli anni ’80 e forse non
ne
uscirà mai.
È il nostro inferno privato, costruito dall’immaginario
berlusconiano, televisivo ben prima che politico. Leggi tutto
L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952).
Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo.
Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Leggi tutto
Le crisi hanno sempre un valore costituente. Krisis (κρίσις) è scelta, decisione. Krino (κρίνω), il verbo da cui deriva il sostantivo krisis, è separare, distinguere, ordinare. Rottura, scelta, nuovo ordine. Mai le crisi hanno avuto un esito scontato, univoco. Nelle crisi giocano fattori dialettici, che, per definizione, implicano una possibilità, o un'altra, o un'altra ancora. "Contraddizioni reali" che muovono la storia, potremmo dire.
La Grande Recessione in Europa ha provocato un vistoso impoverimento delle popolazioni, una caduta dei redditi da lavoro paragonabile soltanto con quella registratasi nell'immediato Dopoguerra. Sono cresciute enormemente le disuguaglianze, per effetto di una gigantesca redistribuzione verso l'alto della ricchezza, e oltre 25 milioni di persone (19 nella sola zona euro) sono escluse dal mondo del lavoro. Le élites economiche ed istituzionali hanno scaricato sui cittadini il costo del risanamento finanziario, prendendo, parimenti, la crisi a pretesto per infliggere il colpo finale al modello sociale europeo ed alla sua civiltà del lavoro. Austerità coniugata con controriforme del mercato del lavoro per riorganizzare la società europea in funzione degli interessi del capitale, surrogazione della democrazia con una governamentalità di tipo funzionalista. Un assetto postmoderno del potere, in cui la sovranità cede il passo alla regola, alla sua "razionalità matematica", al primato della procedura sulla decisione democratica, sul consenso. Leggi tutto
Pubblichiamo la seconda parte del ricco intervento di Halevi, la cui prima parte è stata pubblicata la scorsa settimana qui
Non capisco cosa sia la
mezzogiornificazione dell’Europa. Sono formulazioni
immaginifiche ad effetto che non hanno alcun valore
esplicativo. Il Mezzogiorno
italiano è molto specifico. Lo zone sottosviluppate
dell’Europa sono sempre state tali da quando si innescò la
rivoluzione agraria
e industriale senza inglobarle – per ragioni varie
principalmente connesse al rapporto tra
industria-finanza-imperialismo e mercati.
L’UE e, prima ancora, la CEE non hanno il compito di
equilibrare le varie regioni, le dichiarazioni in tal senso
hanno unicamente un valore
propagandistico. La funzione delle istituzioni europee è di
operare come comitati d’affari dei diversi rami del capitale
monopolistico
localizzato in Europa. Nello specifico, se guardiamo ai
problemi della Grecia di quaranta anni fa ci accorgiamo che
sono quelli di un paese molto
periferico altamente destrutturato. Con l’entrata della Grecia
nella CEE nel 1981 cominciò a formarsi una bolla borghese e
del ceto medio
bramoso di Parigi e Londra che raggiunse livelli parossistici
dopo l’entrata del paese nella zona dell’euro nel 2002. In
Spagna quaranta
anni fa era finita, per le stesse ragioni della crisi europea
di allora, la crescita modernizzatrice fondata
sull’integrazione di fatto nel MEC,
che l’Opus Dei era riuscita ad imporre alla fine degli anni ’50
al riluttante regime agrar-finanziario franchista. Verso la
metà degli ’80 la Spagna entrò nella CEE assieme al
Portogallo. Nei primi anni ’90 aveva già oltrepassato il 20%
di
disoccupazione e – assieme alla Grecia ed al Portogallo –
andava accumulando un deficit estero in rapporto al PIL più
elevato
del surplus globale tedesco. Leggi tutto
In questa nota discuto l’ultimo
libro di Paolo Flores d’Arcais1.
Non mi propongo di affrontare tutte le articolazioni del
volume. In particolare, desidero
trascurare le numerose e condivisibili pagine in cui l’autore
svolge un’acuta schermaglia polemica contro i democratici
dell’autocensura, gli illiberali neorazzisti e i religiosi
oscurantisti di ogni risma. Voglio invece concentrami
sull’idea teorica che il
volume comunica ed elabora: una sinistra all’altezza dei tempi
deve essere laica, egualitaria e libertaria; in una formula,
deve propugnare
l’isocrazia quale eguale sovranità dei cittadini. La
sinistra abdica quando si rassegna allo svuotamento
(anzitutto,
mercatistico-finanziario) delle democrazie. Il suo fallimento
favorisce, assieme alla delusione di molti, l’egemonia d’idee
premoderne,
tra le quali spiccano la presenza di autorità tradizionali e
religiose nella sfera pubblica, la soggezione della vita
collettiva a un ordine
sacro trascendente che occorre rispettare e preservare, la
rigida e intrinsecamente violenta opposizione tra Bene e Male.
Secondo Flores, ciò
che nell’informazione ufficiale è presentato come scontro tra
Occidente e Islam, civiltà pacifica e terrorismo, residenti e
migranti, libertà individuale e fanatismo, Noi e Loro, è in
effetti lo scontro tra chi (in ogni parte del pianeta)
desidera vivere in
una comunità politica che riprenda e approfondisca i valori
illuministi dell’autonomia, e coloro che di quella forma di
società
sono nemici irriducibili. Sul terreno politico-culturale, oggi
la distinzione tra regresso e progresso, tra destra e
sinistra, passa principalmente
lungo questa linea. Leggi tutto
Bill Ayers, Fugitive Days. Memorie dai Weather Underground, DeriveApprodi 2016, pp. 336, € 22,00
Bill Ayers racconta la vicende di un pugno di
ragazzi e di ragazze che volevano fare la rivoluzione.
Ci mette sotto gli occhi il diario del tentativo, messo in atto da un gruppo di giovani incoscienti e coraggiosi, di portare la guerra fin nel cuore dell’Impero, quando negli Stati Uniti d’America, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, alcuni militanti della sinistra radicale dichiararono ufficialmente guerra al mostro imperialista. Mentre, allo stesso tempo, ci narra la storia della ricerca collettiva di un altro mondo, di un’altra vita e di altre esperienze, sulle orme di Huckleberry Finn e di Ishmael, l’io narrante di “Moby Dick”.
L’autore oggi settantunenne, militante e fondatore dell’organizzazione clandestina dei Weather Underground, ci regala una delle più belle autobiografie scritte da un rivoluzionario. Epica, commovente, a tratti divertente ed ironica, ma mai, assolutamente mai, segnata da qualsiasi forma di autocompiacimento o, al contrario, dalla resa incondizionata alle ragioni del nemico. Anzi, il testo brilla proprio per la capacità del narratore di sollevare più di una critica nei confronti della pratica, militare ed ideologica, dei Weathermen, senza per questo slittare nel rifiuto della militanza rivoluzionaria o dell’azione diretta. Leggi tutto
La sinistra italiana non può nascere senza un bilancio sul Pci, un morto che divora il vivo. Il Pci non finisce affatto nel 1989 ma persiste fino a oggi nei gruppi dirigenti, portando al logoramento del socialismo europeo e trascinando nei suoi miasmi tutta la politica italiana
Leggo sul manifesto del 22 aprile che i deputati Michele Piras e Carlo Galli di Sinistra Italiana vedono nella promozione renziana della casa di Ghilarza a monumento nazionale «un atto dall’importante significato simbolico che riconosce la grande valenza storica del pensiero e dell’azione politica» di Antonio Gramsci.
Per l’amico Guido Liguori, che scrive nella stessa pagina sullo stesso tema, si tratta più modestamente di una «medaglia» – ma «anche le medaglie servono», aggiunge, confortato in questo parere da tutta la rete della International Gramsci Society, di cui è presidente.
Ma siamo veramente sicuri che tutto fa brodo? Che a caval donato non si guarda in bocca?
In primo luogo, questo parlamento dichiarato illegale dalla Consulta per il modo in cui è stato eletto, che quotidianamente viola la più elementare legge liberaldemocratica della distinzione tra maggioranza e opposizione, sottoscrivendo a cascata patti sempre più oscuri e inquietanti, non ha veramente nessun titolo per togliere e tanto meno aggiungere qualcosa alla presenza e alla reputazione di Gramsci in Italia e nel mondo.
Leggi tuttoIl sistema pensionistico da anni non ha problemi di sostenibilità finanziaria. Eppure le riforme continuano a volerlo usare come un bancomat a favore del bilancio pubblico
Sono stati sufficienti, nello stesso giorno, un cenno molto vago del ministro del Tesoro sulla possibilità di rendere flessibile l’età di pensionamento e il richiamo del presidente dell’Inps che per ricevere la pensione si possano superare nettamente i 70 anni, per richiamare l’attenzione sul sistema previdenziale. Il fatto è che la combinazione tra l’assetto attuale del sistema pensionistico e le difficoltà del sistema economico di creare posti di lavoro stabili e sufficientemente retribuiti sta creando una bomba sociale ad orologeria, la cui gravità viene percepita in misura crescente con l’avvicinarsi del periodo in cui esploderà se nulla verrà fatto per impedirlo. Finora i giovani sembravano aver trascurato il problema, ma non tanto per “miopia giovanile” quanto perché esso veniva molto dopo la più immediata necessità di trovare un lavoro. Ma diventando progressivamente degli “ex-giovani”, percepiscono che la protratta difficoltà di trovare un’occupazione con reddito stabile pregiudica non solo la loro condizione presente, ma anche quella futura di pensionati che diventa meno lontana. Leggi tutto
Aiutiamoli a casa loro. Oggi vi devo parlare, per ragioni di umanità, di un Paese disastrato, in un continente lontano dove un pugno di ricchi fa il bello e cattivo tempo e per di più pretende di comandare a bacchetta i Paesi vicini o li “terrorizza” nel senso più ampio della parola se per caso oppongono resistenza. Insomma è una situazione difficile nella quale è arduo anche portare quell’aiuto sanitario di cui la popolazione ha bisogno. Più della metà di essa, secondo gli stessi criteri stabiliti dai governi, è in stato di povertà o molto vicino ad esso (vedi nota 1) e questa metà anche quando ha un lavoro non può permettersi alcuna cura, nemmeno al pronto soccorso. Non è che manchino i farmaci o le strutture sanitarie, ma la maggior parte delle persone non ha i soldi per accedervi, non ha le risorse per pagarsi un’assicurazione sanitaria e spesso deve vendersi qualcosa per farsi una visita medica.
La cosa più straordinaria è che tutto questo non è segreto, anzi le stesse autorità si premurano di farlo sapere quasi che fosse un merito invece che un dramma (vedi qui). Il fatto è che il gruppo di potere non ha paura, non ha bisogno di nascondere sotto il tappeto la polvere del diavolo: la caratteristica peculiare di questo Paese è che dalla decolonizzazione in poi si è considerato talmente superiore che qualunque cosa viene accettata come se fosse giusta, voluta da dio, migliore che altrove, un modello da imporre. Leggi tutto
John Maynard Keynes ci lasciava il 21 aprile di 70 anni fa con un messaggio che avrebbe accompagnato lo sviluppo delle economie occidentali nel secondo dopoguerra, ma che negli anni ’80 avrebbe lasciato il passo agli idolatri del “libero mercato” e ai fautori dello “Stato minimo”. La drammatica crisi che sta attraversando l’Europa traduce ormai da tempo il fallimento del paradigma neoliberista e sollecita il recupero di politiche keynesiane per il rilancio economico. “La battaglia contro l’Europa-Come una èlite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo” di Thomas Fazi e Guido Iodice uscito nel marzo 2016 ci richiama all’urgenza di questa riflessione.
Non è facile rintracciare nella pur ampia pubblicistica relativa alle complesse vicende che si sono dipanate nel corso degli anni della crisi internazionale, tuttora in atto, una rilettura in forme chiare e insieme non cronachistiche di tutta quella storia.
Il tutto con una scelta che occorre subito evidenziare come un pregio rilevante: una esplicita scelta di campo. Non a caso il volume di Fazi e Iodice si intitola “La battaglia contro l’Europa”[1] ma con un sottotitolo che ne evita da subito la confusione con posizioni di stampo nazional-reazionario Recita infatti questo sottotitolo: “Come una èlite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo”. Leggi tutto
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Legalità.
La parola viene scandita più volte da Virginia Raggi. “I
partiti hanno creato questo disastro, noi metteremo in
atto una rivoluzione legalitaria”. Nella città di Mafia
Capitale e della corruzione endemica della governance, la
candidata sindaco del
M5S – 37 anni, già consigliera comunale – si mostra sicura
di sé e guarda al ballottaggio: “Giachetti, Marchini,
Meloni… non importa contro chi, rappresentano tutti il
vecchio. È il turno del M5S”.
* * *
La deputata grillina Paola Taverna ha ipotizzato un complotto per far vincere il Movimento Cinque Stelle a Roma. Al di là della polemica che ne è scaturita, chiunque andrà a governare la città non rischierà di “bruciarsi” in poco tempo viste le enormi difficoltà?
Il punto è provarci, senza false promesse ed illusioni. Ci vuole pragmatismo. E noi siamo gli unici ad avere un progetto credibile perché sono stati i vecchi partiti gli artefici di tale dissesto. Il debito chi l’ha creato? E il disastro nelle municipalizzate? E i rifiuti per strada? E la corruzione? Roma è una città molto difficile ma riteniamo che non ci sia altra soluzione se non quella di rimboccarsi le maniche. Leggi tutto
1. Una smaterializzazione della
vita
Com’è noto, uno dei testi più arcaici e fondativi della nostra modernità – nel senso di ciò che concerne l’αρχή, il principio – descrive la nostra società come una «immane raccolta di merci».
Ebbene io credo che oggi la merce più rara, e di conseguenza più preziosa, sia divenuta, non una merce materiale, come il petrolio o come l’oro depositato nei caveaux delle banche centrali, bensì una merce immateriale e psichica, qual è la capacità di approfondimento interiore e di autoriflessione. E’ la capacità cioè di sentirsi - e di ritrovare nel proprio sentire emozionale il senso-guida della propria vita e il luogo ultimo, non confutabile da altri, della verità - che è venuta, a mio avviso, fondamentalmente meno, lasciando generalizzarsi e farsi coscienza comune un’attitudine alla superficie, al frammento, al percuotimento e alla seduzione dell’esteriore, che impedisce e vieta il darsi di eco e sonorità interiori, fino alla profondità corporea del nostro sentire.
Come a dire che nell’ultimo trentennio della nostra epoca s’è vissuto, in particolare nei paesi del ricco Occidente, un enorme processo di smaterializzazione e di decorporeizzazione emozionale del nostro vivere, che altri hanno voluto chiamare anche, con termini ritengo meno adeguati, di «umanità liquida». Giacché il farsi liquidi e senza centro non coglie bene quanto e come l’esperienza dello svuotamento emozionale, ch’è divenuta configurazione psichica di massa, si sia accompagnata e dissimulata, nello stesso tempo, con l’investimento isterico e compensatorio della superficie, con la sopravalutazione eterodiretta delle paillettes e dei lustrini che spesso incorniciano il frammento, con la seduzione di una silhouette visiva, che nel contorno di una bellezza senza contenuto, cattura e mortifica lo sguardo di chi la subisce.
Leggi tuttoIl saggio
di Robert
Kurz, "La crisi del
valore di scambio", che di
fatto fonda la Critica del
Valore, viene scritto e pubblicato per la prima
volta nel 1986, quasi trent'anni fa. In
quel saggio, Kurz sosteneva che il
sistema produttore di merci si trovava in quella che era la
sua crisi finale in quanto, con l'avvento della terza
rivoluzione industriale - quella
della microelettronica avvenuta a partire dagli anni 1960
- la produzione globale di plusvalore da crescente diventava
decrescente.
Secondo Kurz, la rivoluzione dell'informatica e della comunicazione portava con sé un aumento straordinario della produttività del lavoro, dalla quale conseguiva non solo una riduzione significativa del valore globale prodotto, ma anche una riduzione ancora più significativa di plusvalore per unità di ricchezza materiale. Riduzione che non poteva più essere compensata dall'aumento della produzione di merci, ossia dalla crescita della ricchezza materiale.
La tesi era esplosiva: dal momento che il sistema capitalista è mosso dall'accumulazione di capitale, e dal momento che il capitale accumulato non può più essere aumentato in maniera persistente attraverso l'acquisizione di un volume crescente di plusvalore, ecco che allora il sistema, nella sua totalità, entra necessariamente in agonia, pur continuando, tuttavia, a sopravvivere, con conseguenze devastanti per tutti gli esseri viventi.
Leggi tuttoGünther Anders, L'ultima vittima di Hiroshima, Mimesis Edizioni, Milano 2016, pp. 231, ISBN 978 88 5753 264 6, €.20,00
Non c'è forse riflessione più estrema, più lucida e più provocatoria sull'era atomica delle analisi e dei testi di Günther Anders, il pensatore tedesco di origine ebraica che ha prefigurato inascoltato un radicale mutamento d'epoca a partire dall'agosto del 1945, sotto il segno della catastrofe. Le immagini della distruzione di Hiroshima e Nagasaki furono uno shock senza precedenti per l'opinione pubblica mondiale e per gli stessi scienziati che quelle bombe avevano fabbricato.
Verso la fine degli anni Cinquanta, Anders, che aveva già pubblicato la prima parte di Die Antiquiertheit des Menschen, avviò un inedito carteggio con Claude Eatherly, uno dei piloti di Hiroshima, che non si riprese più dopo quell'esperienza, precipitando nella spirale della depressione e dell'alcolismo fine alla sua morte nell'assoluta indifferenza avvenuta nel 1978. Questo scambio epistolare pubblicato per prima volta nel 1961 in lingua inglese e in italiano nella edizione einaudiana del 1962 con il titolo La coscienza del bando, ritorna meritoriamente in libreria con il titolo L'ultima vittima di Hiroshima.
Il caso Eatherly colpisce l'attenzione di Anders perché rappresenta, come sottolinea nella sua lucida e vibrante introduzione Micaela Latini, l'«antitesi» di Adolf Eichmann, il burocrate deresponsabilizzato dello sterminio e l'incarnazione della banalità del male. Leggi tutto
Togli il paradosso da un pensatore e avrai un professore. Questo aforisma di Kierkegaard è la stella polare di Evgeny Mozorov: non contento di fare largo uso di paradossi, forse per timore di perdere l’orientamento, nei suoi scritti ne inserisce talvolta qualcuno che, paradossalmente, lo porta fuori strada. Gli è accaduto in un recente articolo sul «Guardian» (Tech titans are busy privatising our data), che ruota intorno a un fatto ben noto: Google, Facebook e compagnia («the leading tech firms») continuano a offrirci servizi sottocosto, perché in tal modo si appropriano di altri dati su di noi; una merce preziosa, pagata a caro prezzo da chi deve venderci qualcosa ed è interessato a conoscere i nostri gusti e le nostre preferenze.
Per non fermarsi a un’affermazione così banale da essere alla portata di qualsiasi professore, Morozov si rifà ad alcune analisi contenute in Alphaville, un blog del «Financial Times», secondo cui il modello di business delle «leading tech firms», basato sullo sfruttamento intensivo dei dati in proprio possesso, distorce il funzionamento del mercato, privandolo delle informazioni necessarie per un’efficiente allocazione delle risorse.
Non contento di riportare senza spiegazioni una conclusione così osé, Morozov ne fornisce un’interpretazione tanto paradossale quanto priva di prove: il modus operandi di Google, Facebook e compagnia cantando «sta mangiando il mondo e questo mondo include certamente industrie automobilistiche, banche, hotel, giornali». Leggi tutto
Nello schieramento ostile alla riforma costituzionale Renzi-Boschi, si sta facendo strada la proposta di “spacchettare” il referendum in cinque o sei quesiti “omogenei”, dato che la riforma tocca vari punti della Costituzione. Si tratta di una proposta stupida, incostituzionale, e di un errore politico grossolano. Dell’incostituzionalità diremo a parte, in altro articolo, qui ci occupiamo degli aspetti politici.
In primo luogo, occorre capire che qui non si tratta di fare un esame di diritto costituzionale, ma di un referendum, dove la gente (non tutti sono fini giuristi) si orienta per grandi linee, sulla base del cuore politico della questione e non di sottili argomentazioni tecniche. Pertanto, spacchettare i referendum fa perdere di vista il “focus” politico del problema, disperdendo la discussione su cento aspetti singoli: la gente ci manderebbe a far benedire prima di iniziare a discutere. E farebbe bene.
Il centro del problema è il progetto di democrazia autoritaria che Renzi ha in mente e di cui questa “riforma” non è il punto di arrivo ma solo il primo passo. Ve l’immaginate una campagna a base di “qui si vota Si”, “qui si vota No”, “qui fate voi”? Quando lo hanno fatto i radicali con i loro referendum a mazzi, il risultato è stato una catastrofe: possibile che non abbiamo ancora imparato? E se poi è tutto No, perché non dirlo una sola volta per tutto? Leggi tutto
L’archeologo e storico dell’arte contesta l’indirizzo della scuola e dell’università di oggi. E difende gli insegnanti, l’ozio creativo, e la storia come riserva di possibilità per il futuro. Pubblicato da Likiesta.it
Studi sempre più specializzati. L’acquisizione di “competenze” sempre più precise che seguano le esigenze del mercato del lavoro. Studenti che escono dall’università (o anche dalle superiori) in possesso di una professionalità spendibile subito. Sono questi i desideri proibiti di chi frequenta le scuole, oltre che il totem retorico degli addetti alla cultura, dai ministeri ai dirigenti scolastici (con quali risultati poi è un’altra storia, di cui abbiamo cercato di parlare nello speciale di questa settimana su Linkiesta).
Ma c’è un ma: siamo sicuri che sia la strada giusta? Sicuri di essere consegnati alle varie specializzazioni e alle tecnicità sia l’unico modello culturale sensato? «Bisognerebbe ricordarsi più spesso di un aforisma di Goethe, che dice più o meno così: “Le discipline di autodistruggono in due modi, o per l’estensione che assumono, o per l’eccessiva profondità in cui scendono”» racconta a Linkiesta.it Salvatore Settis. Archeologo e storico dell’arte, già direttore della Normale di Pisa, dimessosi qualche anno fa dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali in polemica coi tagli alla Cultura del governo Berlusconi, Settis è ora in prima linea nella difesa di paesaggio e monumenti italiani. Leggi tutto
Abbiamo tradotto
questo articolo di Jonah Birch apparso il 28 aprile sulla
rivista statunitense Jacobin. È
un bel pezzo che si inserisce nel dibattito, riguardante
il movimento francese, in atto nel mondo anglosassone.
L’articolo a noi è piaciuto perché rimette le cose al loro posto: contrariamente a quanto scritto dall’antropologo anarchico David Graeber in un suo intervento apparso su Le Monde del 12 aprile, Jonah Birch contestualizza l’occupazione di Place de la République all’interno del movimento contro la Loi-EL Khomri, ossia il Jobs Act dei francesi.
Dentro c’è (quasi) tutto. C’è la debolezza del sindacato, dovuta alla ristrettezza della sua base sociale. C’è il ruolo di controllo politico affidato ai sindacati “riformisti” (termine che in Italia potremmo tranquillamente tradurre con “concertativi”). C’è una certa inconsistenza della sinistra francese.
Ma c’è anche una possibilità: la possibilità che il movimento sappia incunearsi all’interno delle contraddizioni della maggioranza e del governo socialisti, facendo implodere un esecutivo quanto mai privo di consenso; la possibilità dunque di una vittoria, per quanto parziale, e dunque la possibilità che quei germi di critica del capitalismo e di auto-organizzazione popolare – emersi in Place de la République e rimasti sul piano della critica simbolica e morale – possano estendersi nei posti di lavoro e nelle periferie metropolitane di Francia, aggiungendovi ben altra consistenza.
Oggi, 3 maggio, il testo della Loi El-Khomri verrà ufficialmente presentato in Parlamento, e ci resterà per buona parte del mese. Sembra che alla maggioranza socialista manchino ben 40 voti, e che il Governo sia disposto a porre la fiducia.
Leggi tuttoDanno
erariale
da 3,8 €mld, violazione delle norme di contabilità
generale dello Stato e subalternità alle banche d’affari:
sono queste le
accuse sollevate contro il Ministero del Tesoro dalla
Procura regionale della Corte dei Conti del Lazio,
nell’indagine sulla ristrutturazione
dei derivati finanziari concordata nel 2012 tra Via XX
Settembre e Morgan Stanley. Il caso è un edificante
esempio della gestione dei
derivati: il premier Mario Monti, ex-consulente di Goldman
Sachs, ed il ministro dell’Economia Vittorio Grilli,
futuro presidente di JP Morgan
per i mercati europei, esborsano, senza consultare
l’avvocatura generale di Stato, una cifra miliardaria a
Morgan Stanley, la cui filiale
italiana è presieduta dall’ex-ministro dell’Economia,
Domenico Siniscalco. Sui derivati vige il massimo riserbo,
perché
parlarne significa indagare sui contratti capestro con cui
l’Italia fu introdotta all’euro e sulle responsabilità di
intoccabili
come Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi.
* * *
Stipula il derivato e troverai il pozzo di San Patrizio…
C’è uno scabroso segreto sussurrato nei Palazzi romani: di tanto in tanto, come un fiume carsico, esce dalle ovattate stanze del Ministero del Tesoro e della Presidenza del Consiglio, affiora sulla stampa e poi si inabissa di nuovo nel silenzio più omertoso. Leggi tutto
Il Capitale è un rapporto sociale camuffato da cosa, da denaro in costante frenesia di autoespandersi. In realtà si tratta di lavoro non pagato che si accresce grazie al lavoro non pagato. Date la sua potenza sociale e la sua smania di accumulazione, straripa, sussumendo sotto di sé ambiti sempre nuovi e distruggendo progressivamente ogni forma di socialità non mediata dal mercato
Nella
circolazione della merce (M-D-M), il denaro funziona solo da
medium dello scambio fra merci. Il primo e l'ultimo termine
del ciclo sono due merci di
uguale valore. Il movente dello scambio è l'appropriazione di
un diverso valore d'uso. Anche nella produzione capitalistica
questo è un
aspetto inevitabile del processo di scambio. Però non spiega
il fondamento dell'accumulazione e con essa dei principali
fenomeni tipici de modo
di produzione capitalistico.
Con il capitale si sviluppa ulteriormente la contraddizione della merce. Il denaro, come rappresentante generale della ricchezza astratta, diventa denaro in perenne smania di accrescersi. Questo è il fine ultimo del movimento, mentre lo scambio fra merci diviene il mezzo.
La circolazione del capitale si presenta nella seguente forma
Denaro – Merce – Denaro (D-M-D').
Col denaro si acquistano delle merci (D-M), costituite dai mezzi di produzione e dalla forza-lavoro, e dopo la produzione si rivende il prodotto (M-D').
All'inizio e alla fine del ciclo c'è quindi la stessa merce, il denaro, e lo scopo non può essere la trasformazione qualitativa, il cambio fra due valori d'uso, ma solo l'incremento quantitativo del denaro. D', quindi ha il significato di D più un delta, un suo incremento. Questa forma espone correttamente l'anima della produzione capitalistica, quale accrescimento ricchezza astratta fine a sé stessa.
Leggi tuttoHanno violentano una donna, provocato gravi ustioni a un bambino, spezzato le dita a un’altra donna. Atti di vandalismo da parte di gang di strada? No, sono solo alcuni esempi delle sempre più diffuse e frequenti pratiche di intimidazione cui ricorrono le agenzie per il recupero crediti in Russia. A causa della crisi che sta colpendo il Paese, dovuta anche al crollo del prezzo del greggio e alle sanzioni occidentali successive al conflitto con l’Ucraina, molti cittadini fanno fatica ad arrivare alla fine del mese e sono quindi costretti a indebitarsi, accettando tassi di interesse astronomici cui spesso non riescono a far fronte. Secondo lo United Credit Bureau, un’organizzazione privata che monitora il mercato dei prestiti, l’ammontare dei debiti non pagati sarebbe aumentato del 50% nel 2015, raggiungendo la cifra totale di 15 miliardi di dollari, e il numero dei debitori russi insolventi ammonterebbe a 7,5 milioni.
A gestire questa marea di debiti provvede – più delle banche, le quali tendono a stringere i cordoni della borsa – la cosiddetta industria microfinanziaria, vere e proprie agenzie di strozzinaggio che, quando si trovano nell’impossibilità di recuperare le somme prestate, invece di ricorrere a una giustizia civile lenta e inefficiente, preferiscono assoldare dei gorilla per terrorizzare i debitori. Tutto ciò avviene nella quasi totale impunità perché, come spiega un articolo del New York Times, la polizia e la magistratura intervengono raramente per reprimere tali comportamenti criminali, ma anche perché i cittadini esitano a chiederne l’intervento nutrendo un’atavica sfiducia nei loro confronti. Leggi tutto
Mancò il credito all’economia dalle banche europee, ma non il dividendo per gli azionisti, si potrebbe dire al termine dell’istruttiva lettura di uno speech di Hyun Song Shin, capo della ricerca della Bis che ha parlato alcuni giorni fa a Francoforte discorrendo del ruolo del settore bancario nella trasmissione della politica monetaria della banca centrale.
Il tema è rilevante, malgrado richieda qualche approfondimento tecnico per essere ben compreso. Perciò è utile cominciare da una premessa che il nostro economista chiarisce sin dall’inizio:
“La macroeconomia ha ancora una relazione difficile con il settore bancario. Sono stati fatti alcuni progressi nell’incorporazione delle banche nei modelli teorici, ma quelli standard tengono ancora in poca considerazione le banche. I testi introduttivi della macroeconomia non dicono molto delle banche e per questa ragione i sofisticati modelli macroeconomici usati dalle banche centrali raramente menzionano le banche”.
Questa sorprendente affermazione ci dice una cosa molto semplice. Il Golem che alimenta la nostra rappresentazione della realtà non è soltanto stupido, ma anche mezzo cieco. In sostanza le banche centrali guardano alla realtà che pensano di modificare con il loro comportamento sapendo, o per lo meno avendone il sospetto, che quello che stanno guardando è gravemente incompleto. Leggi tutto
In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta Presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”:
“Resterò nella NATO. Resterò nella NATO, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la NATO era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La NATO è accorsa in nostra difesa dopo l’11 settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la NATO è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre”.
Tracciando un abile collegamento tra l’11 settembre e “l’aggressione russa”, che presumibilmente sta cambiando la faccia dell’Europa, qui c’è tutto, incluse due delle cinque principali minacce all’esistenza degli Usa secondo il Pentagono: la prima (la Russia) e l’ultima (il terrorismo); le altre sono la Cina, la Corea del Nord e l’Iran (si noti che Hillary ha sempre accusato Teheran di “terrorismo”). Leggi tutto
Due volumi su una condizione sociale analizzata tra passato e presente. Dalla presa di parola alle pratiche di mutuo soccorso. Alla difficoltà di sperimentare innovative, efficaci e permanenti forme di agire politico
La semplicità difficile a farsi. A usare questa espressione è stato Bertolt Brecht. Il drammaturgo e poeta tedesco aveva in testa niente poco di meno il percorso che doveva portare alla società dei liberi e degli eguali. Ma andrebbe ricordata per segnalare la difficoltà nel tradurre politicamente la «scoperta» della precarietà come modalità dominante nelle relazioni di lavoro e della diffidenza, ostilità dei precari, uomini e donne, a organizzarsi per contrastare la loro condizione lavorativa e esistenziale. In altri termini, più prosaici e mondani, i precari non sempre vogliono rappresentarsi come classe sociale.
D’altronde chi propone questo cortocircuito privilegia, spesso, una lettura generazionale – precari sono i giovani, mentre garantiti sono i vecchi -, oppure indugia in una lettura di settore, assegnando, di volta in volta, ai lavoratori della conoscenza, al cosiddetto lavoro cognitivo o ai freelance la palmarès della condizione precaria. Rimuovendo così il fatto che ormai «siamo tutti precari». La semplicità difficile a farsi dovrebbe prevedere un iniziale movimento teorico. Leggi tutto
Riprendiamo questa intervista dei giorni scorsi a Jacques Rancière per Mediapart, che ci sembra molto importante, anche in vista degli appuntamenti europei in preparazione. Ringraziamo per la traduzione italiana Augusto Illuminati e Dinamopress. Insieme riportiamo l’originale francese (EN)
D: Che sguardo avete
sul
momento/movimento della Nuit debout?
Rancière: Diciamo innanzi tutto che il mio punto di vista è strettamente limitato: è quello di un osservatore esterno che reagisce semplicemente a quanto evocano per lui i temi e le forme di tale movimento. A prima vista, si può cogliere in questo movimento una sorta di versione francese in miniatura del “movimento delle piazze” che ha avuto luogo a Madrid, New York, Atene o Istanbul. Esso è tollerato sullo spazio che occupa, più che invadere. Ma condivide con queste occupazioni l’idea di restituire alla politica il suo aspetto di sovversione materiale effettiva di un ordine dato degli spazi e dei tempi. Questa pratica ha avuto difficoltà nell’installarsi in Francia, dove il tutto della “politica” è oggi ricondotto alla lotta dei concorrenti per la presidenza della Repubblica. La Nuit debout non riesce a credere a se stessa e a volte assomiglia a una “mezza occupazione”. Tuttavia fa ben parte di quei movimenti che hanno operato una conversione dalla forma-manifestazione alla forma-occupazione. All’occorrenza, ciò ha significato passare dalla lotta contro certe disposizioni della legge sul lavoro a un’opposizione frontale a quella che alcuni chiamano “uberizzazione” del mondo del lavoro, una resistenza contro la tendenza che vorrebbe sopprimere ogni controllo collettivo sulle forme di vita collettive. Al di là delle misure particolari della legge El Khomry, questa in effetti è la posta in gioco. La Loi Travail è apparsa come il culmine di tutto un processo di privatizzazione dello spazio pubblico, della politica, della vita…
Leggi tuttoFabbriche che chiudono, precarietà
che avanza, lavoro stabile inesistente, giovani attempati
senza lavoro, disoccupazione galoppante, povertà crescente.
Che scenario orribile,
che disastro, che angoscia! La realtà di questo inizio di
Ventunesimo secolo, e soprattutto il racconto che se ne fa, è
nera ed
angosciante. È difficile, in questo contesto, non solo pensare
a delle alternative positive, ma anche vedere e valorizzare
quelle alternative
che già esistono e che sono, a volte, molto più importanti di
quanto non riusciamo ad ammettere. Insomma, non riusciamo a
produrre
un’altra narrazione del mondo attuale, a raccontarlo
ribaltando davvero le griglie di lettura della realtà.
Merci patron! (che possiamo tradurre alla lettera “Grazie, padrone!”, e non con un più moderato «principale», come proposto da Luca Acquarelli in un bell’articolo sul Lavoro culturale) è un film che permette di reinventare non tanto il futuro, ma il mondo presente, e non tanto attraverso una riflessione sullo stato delle cose, bensì con l’azione. Questa forza la ottiene anche grazie al fatto che è un film difficilmente classificabile: un documentario che non documenta quasi su niente, un film d’azione o meglio di spionaggio industriale in cui però niente è finto e la sceneggiatura non è decisa in anticipo, inchiesta con videocamera nascosta priva di intento pedagogico, film sociale in cui non c’è nessuna entità collettiva, commedia dei servi che si prendono gioco dei padroni (come notato anche da Acquarelli), film comico, satirico, in cui uno dei più grandi padroni di Francia e del mondo è sbeffeggiato, umiliato.
Quando si guarda Merci patron! si ha l’impressione di guardare una bomba a ritardamento lanciata nella società francese, nel momento in cui si sviluppa una grande mobilitazione contro la riforma del lavoro promossa dal primo ministro Manuel Valls. Leggi tutto
Barcellona, Baudrillard, Camatte, Collu, Debord, Fusaro, Preve, Tronti (e altri)
Nota introduttiva.
Questa
raccolta di brani nasce sulla scia di alcuni articoli
pubblicati sul Covile
che si sono occupati di autori di
area marxista critica, non conformi alla lettura scolastica
di Marx. Proprio a partire dai testi marxiani si sono in
effetti sviluppate molteplici
linee di pensiero accomunate da una visione critica della
modernità e, in maniera meno omogenea, anche della tecnica;
posizioni certamente
opposte a quelle consuete e progressiste, ma non meno
legittime.
Parliamo di aree e movimenti formatisi negli anni sessanta del secolo scorso intorno alla lettura dei Grundrisse1 , quando da un lato l’espandersi del capitalismo — che andava trasformando non solo le strutture economiche ma anche quelle antropologiche delle società— dall’altro le contraddizioni dell’esperienza sovietica posero la necessità di risalire alle origini del marxismo, non tanto per darne una lettura piú autentica quanto per elaborare originali linee interpretative e proposte attinenti alla nuova realtà.
Ci riferiamo in particolare a quattro centri di pensiero e iniziativa: i situazionisti {Henry Lefebvre, Guy Debord, Jaime Semprun, Raoul Vaneigem, Jean Baudrillard}, il gruppo intorno alla rivista Invariance { Jacques Camatte, Gianni Collu, Giorgio Cesarano}, gli operaisti {Raniero Panzieri, Mario Tronti, Toni Negri}, la scuola di Louis Althusser {Gianfranco La Grassa, Costanzo Preve (da cui Diego Fusaro)}. Non trattandosi di aree completamente separate, ma di una specie di grande laboratorio, è una storia ancora da ricostruire quella del loro interscambio — idee, letture, persone — che fu forte e continuo e in qualche modo si è protratto fino ai nostri giorni (vedi la ripresa da parte di Preve 2 e Fusaro di alcuni temi di Invariance, segnatamente su dominio reale e comunità).
L’ambasciatore Usa presso la Ue, Anthony Gardner, insiste che «vi sono essenziali ragioni geostrategiche per concludere l’accordo»
Cittadini, enti locali, parlamenti, governi, interi Stati esautorati dalle scelte economiche, messe nelle mani di organismi controllati da multinazionali e gruppi finanziari, violando i diritti dei lavoratori, la tutela dell’ambiente e la sicurezza alimentare, demolendo servizi pubblici e beni comuni: per tali ragioni, espresse dalla Campagna Stop Ttip promotrice della manifestazione del 7 maggio a Roma, va respinto il «Partenariato transatlantico su commercio e investimenti» (Ttip), negoziato segretamente tra Usa e Ue.
A tali ragioni se ne aggiungono altre, di cui poco o niente si parla: quelle di carattere geopolitico e geostrategico, che rivelano un progetto molto più ampio e minaccioso. L’ambasciatore Usa presso la Ue, Anthony Gardner, insiste che «vi sono essenziali ragioni geostrategiche per concludere l’accordo». Quali siano lo dice lo U.S. National Intelligence Council: esso prevede che «in seguito al declino dell’Occidente e l’ascesa dell’Asia, entro il 2030 gli Stati in via di sviluppo sorpasseranno quelli sviluppati». Per questo Hillary Clinton definisce il partenariato Usa-Ue «maggiore scopo strategico della nostra alleanza transatlantica», prospettando una «Nato economica» che integri quella politica e militare. Il progetto di Washington è chiaro: portare la Nato a un livello superiore, Leggi tutto
La settimana scorsa, alcuni italiani hanno ricevuto una busta
arancione con la previsione del loro eventuale futuro reddito
pensionistico.
La
settimana prossima, tutti gli altri riceveranno una busta nera
che conterrà questa comunicazione da parte dell’INPS.
“Abbiamo
calcolato l’importo della tua futura pensione, e il risultato
è stato un numero negativo. Questo vuol dire che non riceverai
un mensile, dovrai versarlo tu allo Stato.
Lo Stato è in realtà molto più anziano di quanto tu potrai mai
essere. Ed
è anche invalido. Quindi è giusto che sia tu a versargli un
assegno di mantenimento.
Comincia a mettere da parte i soldi,
perché se non potrai adempiere regolarmente ai pagamenti
dovuti, ti saranno pignorati beni mobili e immobili, organi
interni ed esterni, e
sarai affittato come incubatrice per gravidanze surrogate in
serie, anche se sei un uomo.
Questo paese ha bisogno di bambini che comincino
presto a lavorare e pagare i contributi per mantenere i
vitalizi della nostra preziosa classe dirigente, e i figli
degli immigrati non sono
affidabili. Leggi tutto
Mai come questa volta, devo essere sincero, ho trovato difficoltà nel riflettere sul senso di questa ricorrenza. Difficoltà che deriva non solo dall’aver contratto il morbo di una stanca rassegnazione, ma anche dall’amarezza di osservare il radicale mutamento genetico di quello che, un tempo, era un valore fondante della società democratica.
Viene alla mente un tragico parallelismo, in questi giorni di rievocazione della tragedia di Chernobyl: l’espansione della nube radioattiva i cui effetti, anno dopo anno, stanno alterando i corpi dei viventi è analoga alla diffusione del neoliberismo le cui tossine, negli ultimi decenni, hanno radicalmente trasformato il corpo sociale.
Chi guardasse al lavoro oggi, a distanza di trent’anni, non ne riconoscerebbe più l’aspetto, ormai totalmente deformato. L’“esplosione legislativa” prodotta dal pensiero unico dominante negli ultimi decenni, infatti, ne ha indelebilmente segnato i tratti.
Non più diritto “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.) ma lavoro povero, insufficiente a garantire la fine del mese e sempre più spesso sinonimo di debito: costante compagna della retribuzione è la “cessione del quinto”, nuova forma di corvee ai signori delle finanziarie.
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L'articolo è stato pubblicato nel numero di maggio 2016 della rivista on line “Gramsci oggi”
Sono in molti coloro che hanno pronosticato un
2016 molto
critico per l’economia italiana. La crisi di alcune banche,
con il suo strascico doloroso e le prospettive fosche che ne
derivano, è un
ulteriore passo dell’eurocrisi in cui il nostro paese è ormai
avviluppato. Il processo di integrazione europeo (e il
processo di
integrazione monetaria che ne rappresenta la punta apicale)
sono funzionali al tentativo di ridisegnare i nuovi rapporti
di forza tra le classi in
questa parte del mondo dopo la fine della guerra fredda, cioè
dopo la sconfitta del movimento operaio (e non solo dei paesi
dell’Est,
come qualcuno aveva innocentemente creduto). Il fine è
consentire che il vertice della piramide sociale dreni
ricchezza dalla base
riprendendosi progressivamente quanto concesso nei tre decenni
precedenti. Il prefisso “post”, con il quale siamo soliti
designare tanti
fenomeni che caratterizzano la nostra realtà, a volte, visto
da vicino, sembra quasi una foglia di fico sulla macchina del
tempo grazie alla
quale la reazione ci ha messo in viaggio per quello che, con
qualche forzatura, può essere definito un ritorno
all’Ottocento.
La ristrutturazione dello spazio socio-economico a uso e profitto delle élites del grande capitale deve necessariamente far pendant con la ridefinizione di uno spazio politico che possa garantirne gli interessi. Leggi tutto
Sono ormai molti anni che
l'asin/istra
(extra o ex parlamentare) passa agilmente di sconfitta in
sconfitta. Niente di male: in fondo - come si dice? - chi non
lotta ha già perso.
Quello che però non si era ancora visto - o che almeno non si
era ancora visto con la chiarezza con cui lo si è visto
domenica 17 aprile
- è che l'asin/istra è ormai in grado di perdere, oltre le
sue, anche le battaglie non sue.
Che con le trivelle, il referendum “contro le trivelle”, non avesse in realtà molto a che fare ad un certo punto era diventato chiaro anche ai sassi i quali avevano ben capito che il referendum aveva a che fare con altro: sul piano tecnico, con la durata delle concessioni e, sul piano politico, con lo scontro all'interno del PD e con quello dell'opposizione con il Governo.
Per fare un esempio del “corto circuito” propagandistico che si è presentato agli italiani basti fare un solo esempio. Renzi ha impostato buona parte della campagna per il no (e il suo stesso discorso auto-celebrativo nella “conferenza stampa della vittoria”) sul fatto che se avesse vinto il sì migliaia di lavoratori avrebbero perso il loro posto di lavoro. Si trattava evidentemente di una colossale menzogna, di quelle menzogne che, se mentire fosse un reato, costerebbero la sedia elettrica a chi le dice. E come menzogna è stata giustamente denunciata da tutti i sostenitori del si. Ma la verità del fatto che, se avesse vinto il sì, nessuno avrebbe perso il lavoro ha anche una lettura rovesciata: se avesse vinto il sì nessuno avrebbe perso il lavoro perché tutto sarebbe proseguito come prima. Leggi tutto
Con “politica” s’intendono le
attività svolte da individui e gruppi per risolvere i
problemi del vivere associato. Per “attività”, s’intendono sia
gli aspetti teorici, le idee, i sistemi di idee, che orientano
i giudizi e progettano l’azione politica; sia le pratiche
interne alle istituzioni giuridiche e sociali che danno forma
al vivere politico
associato. Le prime danno il pensare politico, le seconde
danno l’agire politico ma data la loro inestricabile
correlazione le nominiamo
“attività” entrambe.
Con “tempo” intendiamo sia il tempo investito singolarmente e collettivamente in politica, sia il tempo che si prevede necessario per conseguire gli obiettivi dell’azione politica che è sempre una attività trasformativa, sia il rapporto che s’instaura nel mondo del pensiero tra descrizione (ciò che è) e normazione (ciò che dovrebbe essere) il quale può esser traguardato tanto a breve quanto a lunghissima scadenza. Quest’ultimo senso attiene quindi al pensare politico, i primi due, all’agire politico.
La riflessione (articolata in tre puntate) verte sulla finalità di traguardare i vari sensi del tema “tempo e politica”, in funzione di un potenziamento della democrazia come metodo per trovare le soluzioni ai problemi del vivere associato. Con “democrazia” non s’intende il sistema misto oggi in vigore in occidente[1] ma l’autogoverno del sistema sociale e politico, quanto più in-intermediato, partecipato e diretto possibile.
= 0 =
Pensiero politico tra breve e lungo termine
La diade iniziale del pensiero politico occidentale è quella nota: Platone ed Aristotele. Leggi tutto
Fabio Scacciavillani ha lanciato dalle colonne di questo giornale un dibattito sul tema della “stagnazione secolare”: la tesi, proposta da Alvin Hansen negli anni Trenta e ripresa recentemente da Larry Sanders, secondo cui le fonti della crescita economica sarebbero inaridite per cause di natura strutturale, epocale, e in quanto tali sostanzialmente indipendenti dalle scelte di governo dell’economia.
Già il fatto che questa tesi si ripresenti ciclicamente fa intuire che forse non è del tutto fondata. Personalmente la ritengo un capro espiatorio per governi tanto incapaci di fare gli interessi della maggioranza, quanto capacissimi di fare quelli di minoranze conniventi. Tuttavia l’articolo di Scacciavillani pone domande stimolanti, alle quali può essere utile dare una risposta.
In particolare, vorrei “mettere a sistema” la seconda e la settima domanda: “l’abnorme crescita del debito è stato un modo per perpetuare il miraggio della crescita reale?”, e: “le disuguaglianze di reddito e di ricchezza costituiscono un freno alla crescita?” Alla seconda domanda possiamo rispondere senz’altro di sì, e la spiegazione passa per la prima domanda. La disuguaglianza, in particolare quella di reddito, nel lungo periodo danneggia la crescita, perché costringe a un numero sempre più ampio di agenti economici a finanziare le proprie spese con debito (visto che i redditi percepiti sono insufficienti), aprendo la strada a crisi finanziarie dagli effetti depressivi, come quella attuale. Leggi tutto
Porte aperte, in Italia, ai rappresentanti della Mud. Senza contraddittorio
Che la propaganda resti un forte motore della politica a ogni latitudine, è un fatto: per nobili o meno nobili cause. Stupirsene, non aiuta. Vedere la grande stampa a rimorchio di una sola campana, fino al punto di capovolgere i termini della questione, fa però ancora effetto. Possibile – ci si chiede – che a nessuno venga in mente di verificare le informazioni che si veicolano, i curriculum dei personaggi e la pertinenza delle loro affermazioni? E invece no. La visita in Italia di alcuni rappresentanti dell’opposizione venezuelana è stata sponsorizzata a scatola chiusa e senza un minimo di contraddittorio, sia a livello mediatico che politico.
Protagonisti di una kermesse che durerà alcuni giorni, Leopoldo Lopez Gill, Vanessa Ledezma e il sociologo Tomas Paez. Sostenuto da una cordata di imprenditori e da forti lobby internazionali, il gruppo ha organizzato anche un incontro in un grand hotel romano, a cui ha partecipato oltre un centinaio di persone.
In un’atmosfera “coppoliana”, tra un premio al “buon papà” e invocazioni alla Vergine di Coromoto, tra una lacrimuccia e una battuta razzista, dal tavolo una sequela di affermazioni false o strampalate, degne dei tempi in cui i comunisti “mangiavano i bambini”. Difficile sottrarsi a un effetto straniante, di fronte a un Lopez Gill trasformato in sofferente cherubino, perseguitato da una feroce dittatura.
Leggi tuttoRipercorrere queste Lezioni DI Michel Foucault (La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), Feltrinelli, pp. 371, euro 35) significa immergersi nelle temperie parigine del dopo ‘68. Sono Robert Castel e Felix Guattari (oltre naturalmente a Gilles Deleuze) che salgono immediatamente sul proscenio quando si parli di istituzioni repressive ed è in relazione all’insieme di temi da loro sollevati, divenuti centrali nella discussione politica, che Foucault apre la sua ricerca. Gli aspetti anti autoritari del ‘68 avevano drammatizzato la figura repressiva dello Stato: su questo tema occorreva far chiarezza. In più c’è l’esperienza del Gip, il «Gruppo di intervento sulle prigioni», di matrice «maoista», al quale Foucault partecipa da protagonista: è un’esperienza dura nei confronti della «giustizia», delle autorità carcerarie e drammatica nel rapporto con i detenuti. Parlare di carcere, parlare col carcere significa infatti scontrarsi direttamente con la struttura del comando sociale e confrontarsi con una funzione specialista ed essenziale dello Stato.
È per Foucault un’apertura alla militanza, alla soggettivazione della lotta. Ma un’apertura interrotta dalla violenza dello scontro, consumata nella sproporzione dell’iniziativa di resistenza contro la risposta del potere. Ribellarsi è giusto ma… Compito immediato dell’intellettuale critico, situato in questa lotta, sarà allora quello di approfondire l’analisi. Leggi tutto
L’agente orange, vale a dire l’invio delle buste arancioni da parte dell’INPS, comincia a diffondersi sul territorio. La questione pensioni torna a surriscaldarsi, mentre il dilagare dei voucher – quasi 20 milioni venduti nei primi 2 mesi del 2016 –, contestuale al regresso delle assunzioni dall’inizio del 2016 una volta ridotto il bonus fiscale, infiamma l’attesa dell’imminente decreto legislativo che dovrebbe porre ordine nella selva dei contratti atipici.
Nel frattempo, le pensioni di vecchiaia liquidate diminuiscono, in particolare a causa dell’innalzamento di 1 anno e 10 mesi dei requisiti anagrafici richiesti alle donne del settore privato da gennaio di quest’anno, con importi in flessione a causa delle sempre più travagliate conclusioni delle carriere lavorative delle centinaia di migliaia di persone imbrigliate tra cassa integrazione ordinaria e straordinaria, mobilità ordinaria e in deroga, sospensioni e contratti di solidarietà. Quasi tutte le nuove pensioni, comunque, superano il minimo mensile e non vengono quindi integrate a carico della fiscalità generale, ma sono interamente coperte dai contributi versati dai lavoratori in attività, mentre le pensioni minime già in essere vengono integrate per oltre 15 miliardi di euro annui grazie alle tasse versate per l’80% da lavoratori e pensionati. Leggi tutto
Danilo Montaldi, “Saggio sulla politica comunista in Italia 1919-1970”, Cooperativa Colibrì 2016. [Via Coti Zelati, 49 – 20037 Paderno Dugnano (Mi), email: colib...@libero.it]
Il Centro Luca Rossi ha curato la
ripubblicazione del “Saggio sulla politica comunista in Italia
1919-1970” di
Danilo Montaldi edita da Quaderni Piacentini nel 1976 che
venne stampata in circa quattrocento copie. Ricordo di averne
comprata una, ormai relegata
in soffitta, proprio quell’anno, quando frequentavo, come
tutti i giovani scapigliati di Milano, la libreria Calusca di
Primo Moroni in Corso di
Porta Ticinese. Primo, che conosceva benissimo le tendenze dei
frequentatori, mi indicò il volumetto dalla copertina rossa
dicendomi che
leggendolo ne sarei stato entusiasta. Aveva ragione. Avevo
scoperto l’esistenza di Danilo Montaldi attraverso il
necrologio scritto da Sergio
Bologna su Primo Maggio nel 1975 in occasione della sua morte
piuttosto strana.
Quando finì la bagarre giovanile degli anni 70 decisi di raccogliere gli articoli più interessanti di Danilo Montaldi per farne una raccolta dal titolo Bisogna Sognare (da un suo vecchio articolo apparso su Azione Comunista) e chiesi a Primo Moroni di pubblicarla. Ne fu entusiasta e mi spronò ad andare avanti. Ho passato intere giornate all’Istituto Feltrinelli di Milano come un topo a spulciare giornali e riviste ingiallite per recuperare gli interventi più significativi del vecchio cremonese. Ho accumulato una montagna di fotocopie e mi preparavo ad organizzare il volume quando presi contatto con Arturo Peregalli che mi spronò ulteriormente dandomi un supporto indispensabile al lavoro, che nel frattempo si era arricchito di altri articoli grazie al contributo dell’archivio monumentale di Arturo. Purtroppo Primo Moroni mi informò che l’opera non poteva essere pubblicata dalla Calusca a causa dei soliti problemi di denaro. Leggi tutto
1. L'ennesima, ma sempre più
giustificata dall'attualità, spiegazione del pantano in cui ci
ha ficcato la schiera delirante dei sostenitori della
stabilità monetaria
e quindi della stabilità deflazionistica dei prezzi, come
garanzia della "crescita sostenibile", idea
di Hayek e Einaudi, intrecciati tra loro nella costruzione
€uropea fin dagli anni '40 del secolo scorso, - ce la
fornisce il
post odierno di Alberto Bagnai. Di cui riporto il
passaggio che ci interessa per approfondire il discorso sul
piano storico-economico e, naturalmente, istituzionale:
"Ovviamente Draghi così scarica la responsabilità del suo fallimento (da noi annunciato) sui governi che non fanno le "riforme strutturali" (parola per tutte le stagioni). Ma l'unico che governa nell'Eurozona è lui, perché lui tiene i cordoni della borsa. E così, dopo aver per anni fatto il poliziotto cattivo a beneficio del sistema finanziario (sappiamo dove sono finiti i soldi del "salvataggio" della Grecia), ecco che improvvisamente la sua gang si accorge che, ops, purtroppissimo le riforme che lei aveva chiesto abbassano i salari, e quindi riveste i panni del poliziotto buono: fate la deflazione, ma non abbassate i salari!
Ma che bella questa Banca centrale che improvvisamente, ora che la mia spiegazione della crisi dell'Eurozona è diventata mainstream, e ora che mi fanno dire sui media chi è il nemico politico della nostra prosperità e della nostra pace, scopre questa vocazione da Robin Hood: vuole lanciare soldi dagli elicotteri, si preoccupa del calo dei salari...". Leggi tutto
«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata». Carmine Castoro
«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo». Gilles Deleuze
L’interminabile rappresentazione
della
politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per
certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e
la seconda stagione di una
messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della
ficiton, del docudrama e del mockumentary. Tangentopoli chiude
la prima stagione ed
inaugura la seconda. Quest’ultima ha portato come novità
principale la virtualizzazione del dissenso della piazza nei
confronti del
palazzo. I talk show televisivi, l’infotainment in tutte le
sue nauseabonde forme, hanno messo in scena un conflitto tra
piazza e palazzo che si
risolve, alla fine di ogni puntata, nel rassicurante
riassorbimento del dissenso all’interno del sistema e ciò
avviene, principalmente,
grazie ad un nuovo saltimbanco di turno che, di volta in vota,
veste il ruolo di “novità antisistemica”. Tale attore cambia
nel
giro di alcune puntate perché, inevitabilmente, è destinato a
dover essere sostituito palesandosi, nel frattempo, e sempre
più
velocemente, come anch’egli sia espressione del palazzo.
In alcune puntate, tale personaggio, capace di fagocitare l’ostilità nei confronti dell’establishment, può assumere l’immagine dell’uomo che si è fatto da solo mettendo a profitto le potenzialità del tubo catodico, oppure può indossare le vesti di un patetico sempliciotto logorroico ed iperattivo rottamatore capace di alternare il serioso completo d’ordinanza a citazioni giovanilistiche con pantaloni che svelano quattro dita di calze e smartphone sempre col clic in canna.
Leggi tuttoIncapaci di prevedere la crisi del 2008, gli economisti neoclassici, che da trent’anni dettano legge, sbagliano metodo. Lo sostiene il fisico teorico Francesco Sylos Labini
Quando la regina Elisabetta, nel novembre 2008, chiese ad alcuni professori della London School of Economics come mai non avevano previsto la crisi appena scoppiata, l’economia aveva appena ricevuto la migliore valutazione accademica tra tutte le discipline del Regno Unito. Quanto al dibattito che ne è seguito, Robert Lucas, premio Nobel e fondatore della moderna macroeconomia, che solo qualche anno prima aveva affermato che “il problema della prevenzione della depressione, per tutti gli scopi pratici è ormai stato risolto”, sviluppò un contorto ragionamento secondo il quale la crisi non era stata prevista perché secondo la teoria economica certi eventi non possono essere previsti. Come può sussistere un contrasto così stridente tra l’effettiva capacità di una disciplina di interpretare la realtà e il prestigio di quella stessa disciplina nell’accademia e nell’opinione pubblica? Come mai, a distanza di otto anni, si ricorre ancora a quella teoria per superare questa perdurante fase di crisi?
È attorno a queste domande che scorre uno dei percorsi di ricerca del volume di Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza, appena pubblicato per i tipi della Laterza. Le discipline economiche, ci ricorda Sylos Labini, si sono sempre caratterizzate per la presenza di diverse scuole di pensiero, ciascuna delle quali si associava a differenti concezioni della storia, della società e della politica. Leggi tutto
«Beni comuni 2.0» a cura di Michele Spanò e Alessandra Quarta per Mimesis
Non è sbagliato presentare Beni comuni 2.0 come un «libro generazionale» come fa Ugo Mattei nella postfazione a un denso volume collettaneo, curato da Michele Spanò e Alessandra Quarta per Mimesis (pp.220, euro 20). Il libro contiene quindici saggi della generazione «under 35» di giuristi e costituzionalisti che conosce la precarietà lavorativa, non solo quella accademica.
Cosmopoliti e nomadi, giovani donne e uomini hanno coniugato un attivismo politico-culturale con la pratica di un diritto non statuale all’insegna della teoria dei beni comuni. Una teoria che, dalla omonima commissione parlamentare diretta da Stefano Rodotà nel 2007 a oggi, ha esteso un dibattito giuridico internazionale già fiorente sui commons alle esperienze politiche significative come il referendum sull’acqua pubblica del 13 giugno 2011 o l’occupazione del teatro Valle a Roma, avvenuta il giorno dopo.
La splendida fotografia di Valeria Tomasulo messa in copertina del volume rappresenta uno dei momenti più intensi sia per la generazione degli autori che per i movimenti italiani degli ultimi anni.
«Com’è triste la prudenza» recitava lo striscione simbolo di un’occupazione oggi rimossa.
Leggi tuttoLa rivelazione totale globale definitiva di questa settimana è che Assad e le sue truppe sono in torta con l’Isis. Palmira non è stata persa o conquistata ma passata di mano in mano. E da anni le due parti commerciano allegramente: petrolio per fertilizzante, pare. Chi lo dice? Sky News dalla Gran Bretagna. E chi lo dice a Sky News? Qui le cose si fanno un po’ meno chiare.
Eh sì. C’è sempre un momento in cui queste notizione si afflosciano come un soufflè venuto male. Diamo un’occhiata. La stringa internet che porta all’articolo firmato dal chief correspondant Stuart Ramsey dice: i file rivelano che Assad è d’accordo con i militanti (che starebbe per Isis). I file, cioè i 22 mila documenti digitali dell’Isis di cui circa un mese fa Sky era venuta in possesso, grazie alla chiavetta trafugata da un disertore.
Nei primi articoli sui file si diceva che erano “una miniera di informazioni” e che avrebbero permesso di risalire all’identità di molti foreign fighters, anche di quelli partiti dalla Gran Bretagna. In quell’occasione Afzal Ashraf, esperto di anti-terrorismo del prestigioso think tank inglese Royal United Services Institute (RUSI), disse che quei documenti avrebbero potuto indicare “non solo chi sono (i foreign fighters, nd.r.) e da dove vengono, ma anche condurre agli individui che li hanno radicalizzati e hanno facilitato la loro partenza (verso la Siria, n.d.r)”.
Niente accordi tra Assad e l’Isis, all’inizio delle rivelazioni. Ma è comprensibile, 22 mila file sono tanta roba, per leggerli ci vuole un po’ di tempo. Poi però è passato un mese e quei file di strada ne hanno fatta. Leggi tutto
Ci sarebbe da fare una riflessione sulla radicalizzazione della posizione tedesca sulla destrutturazione dell’euro (vedi proposta-Schaeuble/Weidmann sul tetto alla detenzione di titoli pubblici delle banche, che condurrebbe i Paesi indebitati euromediterranei ad un default immediato, o l’irrazionale e pazzesca chiusura persino ad una cosa necessaria tecnicamente, come la ristrutturazione del debito greco, ma anche la posizione di Angela Merkel, a quanto pare favorevole al muro del Brennero, che ovviamente, frenando i movimenti del fattore lavoro, ha effetti negativi anche sulla tenuta dell’area valutaria comune; mentre la proposta olandese di sostituire il target del disavanzo strutturale con quello della spesa pubblica rischia di aggravare il rigore e le spinte di distruzione del sistema pubblico, al contempo evitando di affrontare la proposta italiana di ricalcolo dell’output gap, parametro legato al calcolo del disavanzo strutturale. Un ricalcolo che consentirebbe al nostro Paese di ridurre gli sforzi di taglio della spesa. C’è da considerare l’ipotesi che tale irrigidimento tedesco sia soltanto elettoralistico, in vista delle elezioni del 2017 in quel Paese, per coprirsi da destra rispetto all’avanzata del partito euroscettico Afd. E sia quindi momentaneo. Ma verrebbe da pensare alla frase “quanto vale un momento?” Perché se la destra di governo del Paese egemone pensa di assumere posizioni chiaramente dirette al disfacimento dell’area euro da qui a settembre 2017, è probabile che, alla fine, i mercati inizino a scontare tale ipotesi e inizino a scommettere proprio contro l’euro, in un classico esempio di previsione autorealizzante. Leggi tutto
L’intellettuale potrà realmente contribuire all’emancipazione della società da ogni forma di dominio e sfruttamento soltanto se opererà in funzione del superamento di se stesso. In altri termini, unicamente se rinuncerà ai relativi privilegi dovuti alla propria separazione dal lavoro manuale e dalla propria conseguente subalternità alla classe dominante potrà essere realmente autonomo, critico, e svolgere una funzione progressiva.
La
primigenia divisione del lavoro fra lavoratori
manuali e lavoratori della mente è in qualche modo
fondativa della stessa
storia della società umana per come la abbiamo sino a ora
conosciuta. Tale originaria lacerazione del corpo sociale è
alla base della
scissione della società in gruppi sociali, caste e poi classi
con interessi divergenti e potenzialmente conflittuali.
Tale divisione del lavoro, da cui è sorto l’intellettuale, ha così caratterizzato in profondità la società umana tanto quanto quella altrettanto primigenia fra i sessi. Essa è certamente alla base dell’eccezionale progresso storico del genere umano, genialmente sintetizzato da Stanley Kubrik in una celebre scena di 2001 Odissea nello spazio, in cui il bastone, usato per la prima volta come strumento da un uomo primitivo, in un arco di tempo relativamente limitato si trasforma nell’astronave proiettata alla “conquista” dello spazio. Allo stesso tempo però – e questo costituisce certamente il lato oscuro del progresso, troppo spesso colpevolmente occultato – esso è stato il prodotto di un incessante conflitto sociale. Quest’ultimo – sviluppatosi in seguito a livello internazionale e che ha strumentalizzato la stessa differenza fra i sessi – si è articolato ora in modo aperto, ora in forma latente, nel caso in cui è stato portato avanti in modo sostanzialmente unilaterale dal gruppo sociale dominante, da sempre interessato al mantenimento della “pace sociale” in funzione di una più agevole salvaguardia dei propri privilegi.
Leggi tuttoConsiderazioni sulla sovranità economica e il conflitto sociale in un contesto di economia aperta
Finalmente
da qualche settimana si parla anche in Italia in modo più
cosciente, limitatamente, sia chiaro, ai canali informativi
più di nicchia, del TTIP: il Transatlantic Trade and
Investment Partnership, trattato di libero commercio in via di
sottoscrizione tra Unione
europea e Stati Uniti.
A grandi linee e al netto delle valutazioni quantitative specifiche, lo spirito, le intenzioni e gli obiettivi che muovono il trattato, nonché i suoi effetti distributivi sono evidenti, prevedibili e di grave portata.
Il trattato è un tassello molto rilevante di quel vasto processo di apertura indiscriminata delle economie nazionali agli scambi con l’estero avvenuto negli ultimi 30-40 anni. Per capirne la portata e le conseguenze vale dunque la pena ripercorrere brevemente la storia e la logica di tale processo.
A partire dagli anni ’70 e ’80 del ‘900 in gran parte delle aree del mondo si è realizzata una progressiva liberalizzazione dei movimenti di merci e capitali che ha privato gli Stati della sovranità sostanziale, ovvero della capacità di incidere in modo effettivo sui processi economici fondamentali interni ad un paese: la distribuzione del reddito, il sentiero di sviluppo economico e industriale prescelto, la tutela dei diritti del lavoro, dell’ambiente e del paesaggio, la scelta di un sistema tributario ritenuto equo, la difesa di principi etici considerati inviolabili. In sostanza, l’apertura indiscriminata agli scambi con l’estero mette a repentaglio, in nome della libertà economica, la libertà di uno Stato, ovvero di una collettività, di stabilire quali debbano essere i limiti alla libertà economica individuale al fine di tutelare valori ritenuti superiori: la giustizia sociale, l’uguaglianza sostanziale, la deontologia professionale, la dignità della persona, l’etica pubblica. Leggi tutto
Note in merito al libro di Thomas Fazi e Guido Iodice, “La battaglia contro l’Europa. Come un’élite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo”, Fazi Editore, Roma, 2016
Numerose sono oggi
le pubblicazioni
che hanno ricostruito le cause della grande recessione
economica degli anni ’00 che ha portato alla più grave
crisi finanziaria dalla
grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso.
Sono disponibili diverse versioni, a seconda del punto di
vista degli autori:
dall’eccessiva ingordigia delle banche (il primo Paul
Mason), al mancato funzionamento dei mercati perché troppo
stretti dalle
rigidità imposte dalle concentrazioni di mercato,
all’eccessiva polarizzazione dei redditi, sino alla
denuncia della strutturale
instabilità dei mercati finanziari e alla loro violenza
(Marazzi).
Thomas Fazi e Guido Iodice nel saggio La battaglia contro l’Europa. Come un élite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo (Fazi Editore, Roma, 2016, p. 316, Euro 18,00), descrivono in modo semplice e convincente la natura dell’odierna crisi e il passaggio dalla crisi finanziaria dei subprime alla crisi del debito in Europa. In particolare, i due autori analizzano in dettaglio le scelte di politiche economica effettuate dalle autorità economiche europee, sorrette da alcuni governi (in primis la Germania ordoliberista): le politiche di austerità, prima e, ora, le politiche di riforme strutturale.
Una versione ridotta di questa recensione è stata pubblica il 3 maggio 2016 su Il Manifesto. Leggi tutto
Fra comitati di valutazione per il bonus premiale e l’annuale tornata dei test INVALSI, insegnanti e studenti sono di nuovo alle prese con l’eterno ritorno della valutazione: un oggetto dal discutibile valore epistemologico, la cui necessità viene affermata a prescindere, benché non si riesca a definire cosa e come debba essere valutato in modo credibile. Emblematici, a titolo d’esempio, le perplessità che la stessa Fondazione Agnelli ammette (nel suo Rapporto 2014 “La valutazione della scuola”) sulla valutazione individuale dei docenti, che presenta problemi di ardua soluzione dal punto di vista del metodo (come isolare il contributo del singolo all’interno di un’attività collegiale) e dell’etica (isolando e differenziando le singolarità, la valutazione nuoce alla collegialità e favorisce il disincanto del singolo), per non parlare dei dubbi più tecnici sulla valutazione da parte degli studenti e su quella ispettiva (che richiederebbe un numero di ispettori talmente alto – e costoso – da riproporre il paradosso borgesiano della mappa e del territorio). Ancora lo stesso rapporto riconosce che della valutazione si potrebbe fare a meno (come accade in Finlandia): in presenza di un efficiente sistema di reclutamento dei docenti “possono bastare qualità professionale, deontologia e il controllo dei colleghi a fare funzionare bene le scuole”. Leggi tutto
Alimentazione, lavoro, commercio nel trattato in corso di discussione tra Usa e Ue
La recente pubblicazione di alcuni documenti sui negoziati in corso sul Ttip effettuata da Greenpeace ha riportato sui media il trattato di libero commercio tra Usa ed Europa. Tranne in alcuni momenti – in Italia solo quando sembra poter diventare una discussione che riporta al cortile di casa – tutto quanto sta accadendo intorno al Ttip non trova granché spazio nella discussione pubblica e politica.
L’argomento, in effetti, non è dei più semplici perché la volontà dei negoziatori (in primo luogo gli statunitensi) è quella di regolare il commercio del mondo occidentale all’interno di standard che da quel momento in poi saranno da considerarsi universali. O almeno in grado di regolare i rapporti tra quasi tutti gli Stati tranne, dicono i maligni, Cina e Russia, escluse, guarda il caso, da tutto questo movimento internazionale desideroso di «liberalizzazioni». Ci sono molti aspetti, inoltre, da cui discendono dei «no» talmente forti al trattato da aver coinvolto centinaia di associazioni e organizzazioni in mobilitazioni che trovano sfogo nelle piazze di molti paesi.
In Italia sabato 7 maggio ci sarà una manifestazione nazionale e per capire tutte le ragioni dei «no» e i motivi delle campagna di «Stop Ttip» sabato, in occasione delle proteste, sul manifesto ci sarà un inserto ad hoc di otto pagine. Leggi tutto
Diana Johnstone, Hillary Clinton Regina del Caos, Zambon Editore, Francoforte sul Meno 2016, pp.250, € 15,00
Augusto Cantaluppi – Marco Puppini, “Non avendo mai preso un fucile tra le mani” Antifasciste italiane alla guerra civile spagnola 1936-1939, Www.Aicvas.org, Milano, 2014. pp. 160, Sip.
Sono due libri molto diversi quelli che vengono qui proposti, sia per contenuto che per finalità.
Il primo è destinato a smontare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, l’immagine della candidata “democratica” Hillary Rodham Clinton alla Casa Bianca sia come rappresentante di una politica anche solo vagamente progressista, sia come portavoce delle istanze femminili nella società e nel mondo della politica .
Il secondo ricostruisce, attraverso 67 schede biografiche, le vicende fino ad ora in gran parte sconosciute delle donne italiane che parteciparono in qualche modo alla guerra di Spagna schierandosi orgogliosamente e coscientemente dalla parte della Repubblica e, soprattutto nel caso delle anarchiche (che risultarono essere anche le più numerose), della Rivoluzione. Leggi tutto
Che cosa succede quando la principale preoccupazione di un genitore è il “successo” del figlio, quando è la madre a portare un adolescente dal dermatologo per ritoccare labbra troppo sottili, quando un autorevole Istituto Internazionale di Statistica modella l’identikit del futuro manager -simpatia, grinta, fascino-, sulle infantili gratificazioni di un “capoclasse”? Strani “figli della libertà”, della “cultura del rischio”, delle “biografie fai-da-te”, del “tutto decidibile”, sono questi tredicenni che un’indagine della Società Italiana di Pediatria ha descritto come “i nuovi conformisti”, avviati su percorsi di “azioni preordinate” e quindi incapaci di fantasia, immaginazione, senso critico. Liberi, sì, ma di somigliare a tutti i costi ai modelli vincenti che li vogliono magri, belli, efficienti, avventurosi.
Il darwinismo sociale, l’eugenetica, la selezione che premia un prototipo di umanità “superiore”, non sono più soltanto i “mostri” delle ideologie totalitarie che si vorrebbero sepolte per sempre, o i fantasmi che aleggiano sui traguardi più inquietanti delle attuali sperimentazioni scientifiche applicate alla vita.
Impercettibilmente, dietro la spinta di immagini, linguaggi, slogan che si propongono nella pubblicità e nei media con la cadenza di un battito cardiaco, il “trionfo” di pochi diventa “norma”, l’individualizzazione che dovrebbe portare ogni singolo a diventare “padrone di se stesso”, diventa paradossalmente l’espropriazione più plateale di qualità proprie a beneficio di volti noti, idoli temporanei ed evanescenti come gli scenari mediatici da cui emergono.
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Prof. Longo, quali
limiti intravede
nell'utilizzo massivo delle metafore provenienti
dall'informatica per spiegare il vivente e la complessità
della natura umana?
Ho scritto molto su questo, in particolare in collaborazioni con biologi del cancro cui devo molto nei tentativi di esplorazione del vivente - questa tremenda malattia si può capire forse solo analizzando il rapporto triangolare tessuto-organismo-ecosistema, quindi con una buona teoria dell'organismo, in primis. Vediamo di sintetizzare una critica sviluppata altrove (mi permetterò di inserire riferimenti ad alcuni miei testi, talvolta in italiano, dove si può trovare la bibliografia, inevitabilmente molto ampia).
La nozione di informazione si è specificata in almeno due teorie scientifiche rigorose ed importanti: l'elaborazione dell'informazione, a partire da Turing, diciamo, e la trasmissione dell'informazione (Shannon). Entrambe hanno individuano fondamentali invarianti matematici, ovvero nozioni e strutture che possono esser trasformate da un contesto ad un altro, conservando quel che conta. Le caratteristiche dell'informazione, in entrambi i casi, non dipendono dalla codifica (se non per piccoli costi di trascrizione: 0 ed 1, o 0-9 od altri segni qualsiasi) e, soprattutto, non dipende dal supporto materiale: si possono elaborare segni in valvole, chips, silicio... o trasmettere segnali su cavi, tamburi, fumate... Questa grande ed antica invenzione, formalizzata da Turing nel 1936, ma poi essenziale anche a Shannon, ha permesso di distinguere il software dallo hardware e di proporre quindi una autonoma teoria della programmazione o della trasmissione indipendente dal supporto materiale (grande ricchezza della pratica informatica). Leggi tutto
Quali saranno le conseguenze del nuovo corso delle relazioni tra USA e Cuba sottolineato con grande risonanza mediatica in occasione della recente visita di Obama? Molti problemi e interrogativi restano aperti e su di essi discutono anche le massime autorità cubane
In
numerose fonti di informazioni latinoamericane e cubane (anche
ufficiali) si discute molto sulle conseguenze della visita a
Cuba del presidente Barack
Obama, insignito per il solo fatto di essere quasi nero e
statunitense del premio Nobel per la pace; conseguenze che
ovviamente non si faranno sentire
solo nell'isola caraibica, ma che si riverberanno su tutta la
società latinoamericana, scossa da una serie di tensioni e
conflitti, il cui
obiettivo è la destabilizzazione dei governi progressisti ivi
operanti. In questo senso Cuba resta un simbolo ancora vitale,
la cui stessa
esistenza rimanda a possibili alternative per gli Stati Uniti
indigeribili. Naturalmente in questo breve intervento
rifuggirò da tutte quelle
interpretazioni che, solo allo scopo di generare
sensazionalismo, fanno di questo evento qualcosa di epocale,
da cui dovrebbe scaturire una nuova fase
nella storia del mondo (come, d'altra parte, ho fatto in un
altro intervento pubblicato sempre su LCF).
Comincio con il soffermarmi su quanto si ricava dal canale televisivo interstatale Telesur, cacciato recentemente dall'Argentina, in cui è andato al potere un personaggio legato alla passata dittatura e al capitale transnazionale. Nel noticiero e nei vari programmi di Telesur emergono sostanzialmente due aspetti della questione: da un lato, si sottolineano i possibili vantaggi che deriverebbero alla più grande delle Antille dall'apertura delle relazioni commerciali e finanziarie con gli Stati Uniti, la quale provocherebbe il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e, di conseguenza, il consolidamento del socialismo cubano, che dovrà essere prospero e sostenibile. Leggi tutto
Chi, tra venti o trenta anni, cercherà di descrivere la fase storica che noi, individui del mondo sviluppato, stiamo attraversando oggi si troverà di fronte un fenomeno apparentemente inspiegabile. La grande industria ha da lungo tempo raggiunto e superato il culmine della sua fioritura, e viene sempre più sostituita dai servizi come pilastro dello sviluppo1. Dunque un fenomeno preconizzato da Marx agli albori dell’industrializzazione - quando aveva sostenuto che l’espansione dell’industria sarebbe inevitabilmente sfociata in una situazione nella quale “la creazione della ricchezza reale sarebbe venuta a dipendere sempre meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato e sempre di più dalla potenza degli agenti messi in moto nel lavoro”, e cioè dalla qualità di quest’ultimo - si è concretamente avverato. Il fattore determinante della produzione, come tutti ormai riconoscono, è infatti diventato “lo sviluppo della scienza ed il progresso della tecnica”. Ma tutto ciò non si è accompagnato ad un mutamento sociale che, sempre ad avviso di Marx, avrebbe dovuto intrecciarsi con quello tecnico, e avrebbe dovuto riguardare il modo in cui viene sperimentato l’arricchimento e viene reso possibile l’ulteriore sviluppo. Se la ricchezza aggiuntiva viene a dipendere sempre meno dalla quantità di lavoro, è infatti evidente che “il tempo di lavoro erogato non può più essere ciò che la misura”.
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Il giorno stesso (4 maggio) in cui si è insediato alla Nato il nuovo Comandante Supremo Alleato in Europa – il generale Usa Curtis Scaparrotti, nominato come i suoi 17 predecessori dal Presidente degli Stati Uniti – il Consiglio Nord Atlantico ha annunciato che al quartier generale della Nato a Bruxelles verrà istituita una Missione ufficiale israeliana, capeggiata dall’ambasciatore di Israele presso la Ue. Israele viene così integrato ancora di più nella Nato, alla quale è già strettamente collegato tramite il «Programma di cooperazione individuale».
Ratificato dalla Nato il 2 dicembre 2008, tre settimane prima dell’operazione israeliana «Piombo fuso» a Gaza, esso comprende tra l’altro la collaborazione tra i servizi di intelligence e la connessione delle forze israeliane, comprese quelle nucleari, al sistema elettronico Nato.
Alla Missione ufficiale israeliana presso la Nato si affiancheranno quelle del regno di Giordania e degli emirati del Qatar e del Kuwait, «partner molto attivi» che verranno integrati ancor più nella Nato per meriti acquisiti. La Giordania ospita basi segrete della Cia nelle quali – documentano il New York Times e Der Spiegel – sono stati addestrati militanti islamici di Al Qaeda e dell’Isis per la guerra coperta in Siria e Iraq.
Il Qatar ha partecipato alla guerra Nato contro la Libia, infiltrando nel 2011 circa 5mila commandos sul suo territorio (come dichiarato a The Guardian dallo stesso capo di stato maggiore qatariano), quindi a quella contro la Siria: lo ammette in una intervista al Financial Times l’ex primo ministro qatariano, Hamad bin Jassim Al Thani, che parla di operazioni qatariane e saudite di «interferenza» in Siria, con il consenso degli Stati uniti. Leggi tutto
La nostra è una generazione sfortunata, deve ammetterlo anche Mario Draghi, e sta diventando superfluo ripeterlo. Così sfortunata che, oltre alla disoccupazione, al working poor, gli tocca in sorte la psicoanalisi di Stato, Massimo Recalcati e molto altro. Non bastavano il primato delle neuroscienze, il trionfo della psicologia al servizio della «mediazione», pure la riscoperta dei tabù, della Legge e del Nome del Padre: non c’è che dire, un vero e proprio accanimento.
Un volume da poco in libreria, edito da DeriveApprodi, ci ricorda che la psicoanalisi italiana ha vissuto momenti decisamente migliori: si tratta degli scritti politici di Elvio Fachinelli, dal titolo, bello quanto i testi raccolti, Al cuore delle cose (DeriveApprodi, 2016). Una penna affilata, quella di Fachinelli, che ha trasformato, tra gli anni Sessanta e Settanta, la psicoanalisi in un campo di battaglia; di più, l’ha resa arma utile per farla finita con la famiglia e il Leviatano. Psicoanalista, giornalista, militante politico: una grandissima figura del Novecento italiano ed europeo, di cui, neanche a dirlo, è stata in buona parte smarrita la memoria.
Di certo è ricordato da una parte delle istituzioni psicoanalitiche, di certo non sanno chi sia, o quasi, i giovani militanti del nostro tempo, e la filosofia accademica continua a non leggere i suoi testi fondamentali sul tempo, la ripetizione, l’estasi. Leggi tutto
La politica estera USA è oggi spesso contraddittoria, come si vede in Siria, dove le truppe addestrate dal Pentagono si battono contro quelle addestrate dalla CIA. Eppure è perfettamente coerente su due punti: dividere l'Europa con da un lato l'Unione europea e dall'altro la Russia; dividere l'Estremo Oriente con da un lato l'ASEAN e dall'altro la Cina. Perché, e la si può prevedere in anticipo?
Per spiegare, e, quindi prevedere, la politica estera degli Stati Uniti sono stati contrapposti per oltre un secolo gli isolazionisti agli interventisti.
I primi si collocavano sulla linea dei "Padri Pellegrini" fuggiti dalla vecchia Europa prima di costruire un nuovo mondo basato sui loro valori religiosi e dunque lontano dal cinismo europeo. I secondi, nella tradizione di alcuni dei "Padri fondatori", intendevano non solo conquistare la loro indipendenza, ma continuare in proprio il progetto dell'Impero Britannico.
Oggi, questa distinzione ha poco senso perché è diventato impossibile vivere in autarchia, perfino per un paese vasto come gli Stati Uniti. Benché sia cosa comune accusare i propri avversari politici di isolazionismo, non vi è più alcun politico statunitense - tranne Ron Paul - che difenda questa idea.
Il dibattito si è spostato tra i sostenitori della guerra perpetua e i fautori di un uso più misurato della forza. Leggi tutto
Non c’è stato l’oceano di persone di Berlino di qualche settimana fa, ma la voce di migliaia di persone contro il TTIP si è sentita anche a Roma, nella bella manifestazione del 7 maggio 2016. La consapevolezza del pericolo rappresentato da questo trattato è cresciuta nel corso del tempo, anche grazie ai tanti articoli che sono stati pubblicati in proposito. Raccomando ad esempio la lettura di un articolo del 2014 di Pierluigi Fagan: Geopolitica dei trattati di libero asservimento, che descriveva in modo esatto la fine della “prima globalizzazione” e l’apertura di una fase del tutto nuova, che nessuno ancora sapeva raccontare.
Ora, dopo la manifestazione, Fagan ci ricorda che il TTIP non è un trattato di libero scambio bensì “un contratto di accoppiamento strutturale per formattare un sistema che abbia gli Usa come centro di gravità: è propriamente un trattato geopolitico”.
All’Europa questo trattato semplicemente non conviene e infatti potrebbe non esser firmato prima della fine della presidenza Obama e con ciò, rimandato sine die.
Nel frattempo, certo, bisogna non abbassare la guardia, visto il livello paranoico di segreto che è stato imposto alla discussione del trattato, come è stato spiegato in dettaglio anche a La Gabbia. Mentre in altri paesi i governi stanno opponendo resistenza, in Italia la propensione di Matteo Renzi è quella di cedere su tutta la linea. Leggi tutto
Corrado Basile, L’«OTTOBRE TEDESCO» DEL 1923 E IL SUO FALLIMENTO. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Edizioni Colibrì 2016, pp.170, € 15,00
Corrado Basile da anni si dedica a ricostruire
criticamente la storia dell’esperienza della Sinistra
Comunista italiana ed
internazionale nel corso del XX secolo e, in particolare,
della sua parabola nei primi decenni dello stesso. La sua
ultima fatica editoriale pertanto
si colloca in tale continuità di studi, ma, allo stesso tempo,
si propone come un’importante riflessione su temi e problemi
ancora di
cocente attualità. Primo tra tutti quello della centralità , o
meno, della classe operaia e del suo ruolo all’interno di un
radicale sovvertimento del modo di produzione attuale e della
politica di alleanze che, attraverso le sue organizzazioni e
partiti, dovrebbe saper
mettere in piedi in una tale prospettiva. Ben al di là,
naturalmente, della “egemonia”, principalmente culturale,
teorizzata da
Gramsci.
Tema delicato in cui una sorta di idealizzazione della stessa, ricollegabile alle trasformazioni avvenute forse più a partire più dall’inizio del ‘900 che ai fondatori del socialismo, ha forse raggiunto nell’operaismo degli anni settanta, e nei suoi attuali epigoni, il suo limite e il suo massimo rilievo teorico.1
Fin dalla premessa l’autore si chiede, a proposito della mancata rivoluzione tedesca del 1923, Leggi tutto
Partiamo da
un assunto generale. Essere lavoratori produttivi non è una
fortuna, ma una sfiga (kein Gluck, sondern ein Pech)
affermava Marx e questo vale sia nel lavoro fordista che in
quello postfordista, sia per l’operaio di fabbrica
tradizionale che della
sharing economy, sia per partite Iva che per altre figure. Si
tratta infatti di produttività non in senso materiale, di
oggetti fisici, ma di
plusvalore comunque estratto.
Quindi, come ieri eravamo contro l’ideologia e l’etica del lavorismo fordista, oggi dobbiamo stare in guardia contro l’etica dei nuovi lavori postfordisti. Se ieri (ma in certi ambienti ancora oggi) si cercava di nobilitare lo sfruttamento industriale socialista o capitalista con la partecipazione morale degli sfruttati, oggi è in corso un tentativo insidioso di sua legittimazione ideologica in forma di auto-inganno, quel lavoro precario e intermittente che sta diventando la regola in tutti i campi. Ciò avviene proprio in quei settori che funzionano da battistrada e parametri della precarietà generalizzata: in primo luogo l’industria culturale e l’Università, modelli di autoimprenditorialità e autosfruttamento in nome dell’eccellenza, del merito e del riconoscimento. Gli altri settori seguiranno, quale che sia il loro grado di durezza materiale. Leggi tutto
Incontro con Wienke, sorella di Ulrike Meinhof
Ulrike
Meinhof moriva in carcere 40 anni fa, a 41 anni. Per le
autorità, un suicidio. Per i militanti e i movimenti,
un’omicidio di
Stato su cui ancora si discute. Ulrike faceva parte della
Rote Armee Fraktion. Quando morì, sua sorella Wienke aveva
44 anni. Le due donne
avevano ciascuna la propria storia politica, e la
condividevano. Dopo l’arresto di Ulrike nel 1972, Wienke
portò avanti per decenni
l’impegno a favore dei detenuti della Raf, contro
l’isolamento carcerario e per la loro liberazione. In questa
intervista con Ron
Augustin, parla dell’evoluzione politica, della prigionia e
della morte di sua sorella.
* * *
Un documentario su Patrice Lumumba, «Death Colonial Style», diretto da Thomas Giefer, mostra che ci vollero quattro decenni per rivelare le circostanze precise della sua morte. Quando hai visto l’opera di Giefer, compagno di studi di Holger Meins, hai detto che avrebbero potuto essere necessari 40 anni anche per sapere che cosa era accaduto a Stammhein. Ci sono fatti nuovi?
No. Le conclusioni della Commissione internazionale d’inchiesta, presentate in una conferenza stampa a Parigi nel 1979, avevano rivelato tali contraddizioni all’interno dei rapporti ufficiali per cui ogni sforzo risultava orientato a occultare la vicenda. Leggi tutto
La gara presidenziale americana assume contorni sempre più definiti: da un lato Trump, che ha sbaragliato i contendenti, malgrado l’apparato Repubblicano abbia speso fino all’ultima goccia di energia (e di milioni, inutilmente bruciati in tambureggianti campagne negative contro il magnate populista) per sbarrargli la strada, dall’altro lato la Clinton che prevarrà quasi certamente su un Bernie Sanders assai più amato dalla base Democratica e dagli indipendenti, ma impossibilitato a sfuggire alla trappola di dispositivi e regole elettorali appositamente studiati per imporre la volontà dei vertici del partito (e delle lobby che lo foraggiano).
Questa contesa si prospetta come uno scontro fra un outsider sempre più isolato e una grande coalizione fra Democratici “istituzionali”, Repubblicani decisi a espellere il corpo estraneo che si è insinuato nelle loro fila, Democratici di sinistra e indipendenti rassegnati a votare la Clinton come il minore dei mali (scelta che lo stesso Sanders, salvo sorprese, finirà per appoggiare). Ma gli eventi imboccheranno davvero una via così semplice e lineare? E soprattutto: siamo sicuri che l’ascesa al potere di un nuovo membro della dinastia Clinton sarebbe il minore dei mali?
Per tentare una risposta, partiamo dagli argomenti con cui la stampa americana (ma anche quasi tutta la stampa occidentale, schierata contro il pericolo populista) spiega ai lettori che una vittoria di Trump “sarebbe un disastro sia per i Repubblicani che per l’America”. Leggi tutto
Dai rifugiati al terrorismo. «La nuova lotta di classe», una raccolta di scritti a firma del filosofo sloveno per Ponte alle Grazie
Il nuovo volume di Slavoj Zizek La nuova lotte di classe (Ponte alla Grazie, pp. 141, euro 13) raccoglie testi che il filosofo di origine slovena ha scritto da quando l’«emergenza migranti» ha scosso le già fragili fondamenta dell’Unione europea. Nel comporre questo libro, Zizek ha rielaborato testi già noti, aggiornandoli per precisare il suo punto di vista. Due saggi, in particolare modo il primo e il penultimo, hanno avuto infatti una accoglienza polemica in Rete, perché esprimono uno scetticismo radicale verso la parola d’ordine dell’apertura delle frontiere, invitando nel contempo a dialogare con chi, nel vecchio continente, propone una regolamentazione dei flussi migratori perché chi arriva in Europa esprime modi d’essere incompatibile con lo stile di vita europeo. L’accusa più dura contro di Zizek non lasciava spazio a dubbi: le sue posizione erano niente altro che un mimetico appoggio alle tossiche parole d’ordine xenofobe in forte diffusione in Austria, Germania, Svezia, Inghilterra e Ungheria.
I letali diritti umani
Eppure questo libro concede ben poco al populismo e al razzismo. Semmai la tesi che esprime – i migranti sono il case study dove la tematica delle guerre culturali serve a occultare il conflitto di classe presente in Europa – ha il tono e lo stile apodittico dell’invettiva, che più che rafforzare, depotenzia la critica del filosofo sloveno allo stile «politicamente corretto» della sinistra continentale, il vero bersaglio polemico del libro. Leggi tutto
La mattina del 6 maggio 2016, le agenzie di stampa hanno reso noto che la procura di Trani ha aperto un’indagine per manipolazione di mercato contro Deutsche Bank e il suo ex management. L’inchiesta, ha preso le mosse da una denuncia dell’Adusbef e riguarda l’attività di speculazione avviata dal colosso finanziario tedesco nel I° semestre del 2011 a danno dei titoli di stato italiani.
Gli indagati sono cinque: l’ex presidente di Deutsche Bank Josef Ackermann, gli ex co-amministratori delegati Anshuman Jain e Jurgen Fitschen (attualmente co-amministratore delegato uscente della Banca), l’ex capo dell’ufficio rischi Hugo Banziger, l’ex direttore finanziario ed ex membro del board di Deutsche Bank, Stefan Krause.
La notizia è stata riportata in evidenza sui siti dei principali quotidiani taliani, ma solo sino a mezzogiorno. Il giorno dopo, se ne sono già perse le tracce. Inoltre alcuni tasselli della vicenda, quelli più “compromettenti”, sono stati volutamente dimenticati. Considerando lo stato dell’informazione libera in Italia, non c’è di che stupirsi.
* * *
Un’ordinaria storia di speculazione finanziaria
Ricordiamo come funziona il meccanismo della speculazione. Alcune grandi società finanziarie iniziano a vendere i titoli di Stato dei paesi che, a loro giudizio (d’accordo con le società di rating) corrono il rischio di avere difficoltà di finanziamento. Leggi tutto
Un tema che va molto fra i sostenitori del no, in questa fase è: “non dobbiamo cadere nella trappola di Renzi e fare uno scontro sul governo. Dobbiamo parlare solo di Costituzione e non di governo”. Questo perché ci si illude, in questo modo, di conquistare voti al No fra i sostenitori del governo. Spesso accade che i meno realisti di tutti siano proprio i più moderati e questo è uno di quei casi.
In primo luogo, vorrei far notare che questa deriva istituzionale ha preso le mosse proprio dall’iniziativa del governo di proporre la “riforma” secondo la formula, del tutto incostituzionale, del “governo costituente”, che è una cosa che non esiste in termini di correttezza costituzionale. Ed è poi proseguita con una gestione scandalosa del dibattito in aula, con continue forzature del regolamento (emendamenti rigettati in blocco con il metodo del “canguro”, spacchettamento degli articoli sino a mettere in votazione frasi prive di senso, pur di evitare il voto segreto eccetera eccetera). Ve ne ricordate? Come facciamo a non dirlo ora in campagna referendaria? Che questo sia un governo a forte coloritura golpista mi sembra difficile da negare o su cui far finta di nulla. Questa è una riforma che incarta un colpo di stato costituzionale.
In secondo luogo è Renzi che ha impostato le cose come un voto su di sé e sul suo governo. Si dice che è una trappola, forse, ma, se l’avversario ti impone un terreno di scontro, non te la puoi cavare scantonando.
Leggi tuttoNella "Storia del marxismo" (Carocci, Roma 2015, 3 voll.) recentemente uscita a cura di Stefano Petrucciani si ripresenta la possibilità di riesaminare la storia del marxismo alla luce del sistema di relazioni che sorregge le sue diverse forme. Entro questo contesto sono almeno due i problemi che vanno posti: quello del rapporto fra riforme e rivoluzione e quello del nesso fra filosofia e marxismo
1) I
tre agili volumetti che compongono questa Storia del
marxismo, pur inserendosi in una tradizione consolidata
e di lungo periodo concernente i
modi di fare storia dell’«oggetto» in questione, presentano
interessanti spunti di originalità nel panorama complessivo
della
produzione storica frutto del clima della Marx
Renaissance. Ho usato l’espressione produzione
storica, ma, come vedremo
proseguendo nel discorso, il termine storia, proprio
nell’ambito della tradizione cui ho fatto sopra riferimento,
necessita di essere meglio
precisato. Qual è, però, il peso della dimensione storica nel
contesto di quella riflessione generale su Marx ed il marxismo
che
è stata chiamata Marx Renaissance?
La Marx Renaissance è, indubbiamente, un fenomeno di estrema importanza che oggi ha travalicato anche l’ambito degli studi per diventare, ad esempio, elemento centrale di una delle più importanti manifestazioni artistiche mondiali: la Biennale di Venezia del 2015. Il «cardine» del programma è stato «l'imponente lettura dal vivo dei tre volumi di Das Kapital di Karl Marx. «Porto Marx alla Biennale perché parla di noi oggi», ha detto il curatore della mostra veneziana[1]. La sfera degli studi, la sfera dell’arte, la sfera dell’alta cultura in genere, però, appare separata dai processi di mutamento che interessano lo stato di cose presente.
Il fenomeno della Marx Renaissance comincia a delinearsi pochissimo tempo dopo la proclamata morte del pensatore di Treviri, non casualmente in concomitanza con i primi sinistri scricchiolii delle crisi finanziar-recessive degli anni Novanta.
Leggi tuttoUn bellissimo e attualissimo pezzo del prestigioso opinionista USA Craig Roberts commenta impietosamente le rivelazioni sul TTIP. Questo accordo, propagandato come moderno e benigno, non è che uno strumento nelle mani delle multinazionali senza scrupoli per sovvertire le leggi degli stati democratici, in modo da massimizzare il proprio profitto. Gli europei sono quelli che hanno più da perdere, avendo alti standard per la protezione dell’ambiente e della salute che sarebbero subito messi a rischio a vantaggio dei profitti delle grandi corporazioni. Chi difende questi trattati, che solo nel segreto e dietro le spalle possono essere approvati sopra la testa delle loro vittime, non può essere che un traditore del suo popolo, disposto a sacrificare la propria gente in nome del profitto e della propria carriera
Greenpeace
ha fatto un grosso favore a quelle Nazioni i cui
rappresentanti sono così corrotti o così stupidi da voler
firmare gli
“accordi commerciali” Trans-Pacifico e Trans-Atlantico.
Greenpeace si è impadronita e ha pubblicato documenti segreti
che
Washington e le multinazionali stanno imponendo all’Europa. I
documenti ufficiali sono la prova che la descrizione che ho
dato di questi
“accordi commerciali” fin dalla prima volta che sono saliti
alla ribalta era assolutamente corretta.
I cosiddetti “accordi di libero scambio commerciale” non sono accordi di scambio commerciale. Lo scopo di questi “accordi”, scritti dalle multinazionali, è di rendere le stesse multinazionali immuni alle leggi degli stati sovrani nei quali fanno affari. Qualsivoglia legge, che riguardi la sfera sociale, ambientale, la salute, la tutela del lavoro – qualsiasi legge o regolamento – che ha impatto sui profitti delle multinazionali viene definita un “ostacolo al commercio”. Questi “accordi” consentono alle multinazionali di fare causa al fine di sovvertire la legge o regolamento e di ottenere un indennizzo pagato dai contribuenti dei paesi che provano a proteggere il proprio ambiente o la salute del proprio cibo e dei propri lavoratori.
Leggi tuttoTornare in Italia dopo un paio di
settimane in giro per
l’Eritrea è come sprofondare da una passeggiata a pieni
polmoni nel bosco all’alba, tra canti di uccelli e rigogli di
fioriture,
nell’apnea dentro a uno stagno putrescente. Tutto, da limpido
e trasparente, diventa torbido e opaco, nelle parole e nelle
immagini.
Rientriamo a Mordor, il tetro impero della menzogna e del
sopruso. Ancora le gigaballe su Regeni e Al Sisi, ancora i
turpi inganni su Aleppo, ancora
l’Isis che o accettiamo un regime cripto nazi, o ci fa saltare
per aria tutti, ancora i ciarlatani nei palazzi del potere….
Con i guerriglieri lotta armata per la liberazione
C’ero già stato, in Eritrea, diverse volte. Come sempre da non-nonviolento. La prima, appena scelto di fare il corrispondente di guerra da freelance, dopo aver coperto la Guerra dei Sei Giorni in Palestina per Paese Sera. I miei territori d’elezione erano quelli dove ancora non era finita la lotta di liberazione dal colonialismo, non-nonviolenta e perciò vittoriosa: Palestina, Irlanda del Nord e, appunto, Eritrea. Eritrea che avrebbe dato vita alla più lunga lotta di liberazione di tutta la decolonizzazione: 1961-1991. Leggi tutto
È della settimana scorsa la notizia che la giustizia inglese ha finalmente riconosciuto che nel maggio 1989, allo stadio Hillsborough di Sheffield, la morte di 96 persone nell’attesa dell’incontro di Coppa di Inghilterra tra Nottingham e Liverpool non fu causata dal teppismo dei tifosi Reds, bensì dall’operato della polizia, che, a partire dalla reputazione di hooligans che i tifosi della Merseyside avevano guadagnato nel corso della tragedia dell’Heysel, attuò una strategia di contenimento rivelatasi fatale. Furono infatti le forze dell’ordine a spingere i tifosi all’interno di un tunnel in disuso, ad impedirne l’uscita, e causare la strage. Minori responsabilità sono state attribuite nella sentenza finale anche alla società calcistica dello Sheffield Wednesday, proprietaria dell’impianto sportivo, e alla Lega Inglese, che scelse Hillsborough come luogo adatto a far disputare una manifestazione sportiva a vasto richiamo.
Dopo 27 anni, la verità è stata accertata, e si scopre, come dice Suzanne Moore sul Guardian, che Hillsborough altro non era che uno degli episodi della guerra di classe che in Inghilterra si combatteva in quegli anni e si combatte tuttora, anche se con minore intensità, dato lo sbandamento delle classi subalterne inglesi. Gli anni ottanta hanno rappresentato un decennio cruciale per la società inglese, che si è posta suo malgrado come laboratorio del neo-liberismo europeo. Leggi tutto
Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità. - György Lukacs
Ecco, la totalità, come direbbe Lukacs. Ci avviciniamo alle elezioni romane del 5 giugno rischiando di perdere per strada il senso profondo di elezioni che mai come quest’anno assumono una valenza politica generale. Ecco perché sono elezioni diverse da quelle degli ultimi anni, e di conseguenza anche l’approccio dovrebbe essere diverso. Una semplice astensione oggi avrebbe un carattere politicamente meno efficace rispetto all’obiettivo principale che caratterizza questa fase politica e che si concluderà, almeno nel breve periodo, con il referendum costituzionale di ottobre: la sconfitta del Pd. A Roma come nel resto d’Italia è questo il problema oggi: scardinare l’egemonia politica di un soggetto neodemocristiano attorno a cui si sono saldati gli interessi economici principali della borghesia transnazionale, europeista, detta all’antica: imperialista. Un voto romano che assume una chiara valenza nazionale, dunque, ma non solo. Anche concentrandoci nelle vicende cittadine, la sconfitta del Pd (e del “pidismo”, insieme di interessi economici, soggetti sociali e riferimenti culturali a cui si sta adeguando anche una certa destra, quella berlusconiana rappresentata in città da Marchini o a Milano da Parisi) ci sembra l’obiettivo da raggiungere, a prescindere da chi fosse chiamato a sostituirlo. Leggi tutto
SIAMO SICURI CHE HILLARY CLINTON SAREBBE UN PRESIDENTE MIGLIORE DI TRUMP? Michele Marsonet, un po’ a provocare, un po’ a ragionare fuori dagli schemi, ci pone il quesito chiave in questa lotteria presidenziale americana dove il ‘cattivo’ è talmente cattivo da far dimenticare i molti peccati della sua avversaria. «A parte le sparate sul muro ai confini con il Messico, Trump ha invocato il ridimensionamento della Nato, il riavvicinamento alla Russia di Putin e l’allentamento dei legami con alleati quali Arabia Saudita e Qatar». Interessante.
Ora che i giochi alle primarie Usa sembrano essere conclusi con la vittoria piuttosto scontata di Hillary Clinton nel campo democratico, e con quella assai meno attesa di Donald Trump per i repubblicani, è giunto il momento di porre un quesito fondamentale.
Naturalmente si presuppone che, da qui alle vere elezioni di fine anno con la Presidenza in palio, non accadano fatti traumatici e tali da rimettere in discussione tutto. Per esempio che la ex Segretario di Stato non sia colpita da altri scandali veri o presunti. O che i vertici del Grand Old Party non decidano all’improvviso di bloccare la corsa del tycoon inventandosi un candidato alternativo (il quale, però, dovrebbe essere davvero appetibile per nutrire speranze).
E il quesito cui prima accennavo si basa, in sostanza, sugli articoli che si trovano quotidianamente nei mass media tanto italiani quanto internazionali. Leggi tutto
Un agghiacciante documento del Comando Sud degli Stati Uniti rivela il micidiale piano golpista del Pentagono per destabilizzare e rovesciare la Rivoluzione Bolivariana
Recentemente è venuto alla luce un documento del Comando Sud degli Stati Uniti intitolato “Venezuela Libertà 2 – Operazione” che propone 12 misure per destabilizzare e provocare una brutta fine al governo del presidente Nicolás Maduro.
Il rapporto, che è stato ripreso in vari mezzi di comunicazione, è firmato dall'ammiraglio e attuale capo del Comando Sud, Kurt Tidd. Nel testo si propone di provocare, mediante azioni violente, le condizioni che permettano di ottenere la sostituzione del governo Maduro con un governo di transizione, una coalizione composta da dirigenti dell'opposizione, leaders sindacali e le onnipresenti ONG.
Il testo, che è stato reso pubblico dall'organizzazione venezuelana “Missione Verità”, propone 12 misure che le forze speciali attuerebbero, insieme all'opposizione riunita nel “Tavolo di Unità Democratica”, per rovesciare Maduro.
Occorre ricordare che il programma strategico del Pentagono divide il planisfero in 10 parti, e in ciascuna di esse gli Stati Uniti hanno un comando militare per controllare l'area. All'interno di questa strategia, al Comando Sud è assegnato il controllo dell'America Latina e dei Caraibi. Leggi tutto
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Prof. Demichelis, in un suo
recente lavoro ha parlato espressamente di religione per
definire l'impianto tecno-capitalista che governa le nostre
società. Quale valenza
strategica e politica riconosce a un'analisi del dominio
contemporaneo centrata sulla categoria del "religioso"?
In tempi di Isis e di integralismo politico-religioso potrebbe sembrare fuori luogo parlare e scrivere di capitalismo, di tecnica e di rete come di fenomeni religiosi. Io sostengo invece che proprio il capitalismo e la tecnica intesa come apparato hanno assunto ormai forme tipicamente religiose. Utilizzando le categorie e le modalità del religioso per evangelizzare il mondo, ma nella forma tecnica e capitalista.
Se andiamo alle analisi di Michel Foucault sulla nascita del potere moderno come evoluzione del potere pastorale delle prime comunità cristiane; se (ancora Foucault) analizziamo i meccanismi psicologici e pedagogici insiti nelle discipline e poi nelle forme biopolitiche di potere e di governo (la governamentalità) degli uomini; se, ancora, guardiamo alle società di massa del '900, alle forme totalitarie di potere, al concetto di ideologia - ebbene, abbiamo la conferma di quanto le forme religiose siano ben presenti anche oggi, in tempi di apparente secolarizzazione ma soprattutto di mercato globale e di rete.
La religione classica era un sistema di rappresentazioni collettive e di pratiche ripetute che uniscono e connettono e integrano ciascuno in una comunità/gregge, legandolo al pastore che guida il gregge e sciogliendolo all'interno del gruppo; è poi un insieme di riti, miti, cerimonie, simboli che rimandano e rinviano a Dio ma soprattutto alla chiesa che lo incarna e lo interpreta.
Leggi tuttoDomenico Mario Nuti nella prima parte ripercorre l’evoluzione, i vantaggi e i costi dell’eliminazione dei confini interni all’area di Schengen (1985), che considera meritoria ma prematura e incompleta, con svantaggi aggravati dalla divergenza dei paesi membri e dalle politiche di austerità. Documenta poi le crescenti pressioni migratorie che nel 2015 hanno indotto diversi paesi a ristabilire controlli, muri e barriere. Nella seconda parte illustra i vantaggi e i costi dell’eliminazione dei confini interni all’area di Schengen, sostiene che tale eliminazione è stata meritoria ma prematura e incompleta, considera le cause delle accresciute pressioni migratorie e traccia una netta distinzione tra rifugiati e migranti economici, mostrando le sue perplessità su una politica di migrazioni senza frontiere. Nelle conclusioni elenca 7 condizioni che ritiene necessarie per il mantenimento di Schengen
L’Area di Schengen
Il 14 giugno 1985 Francia, Germania e Benelux firmavano il Trattato di Schengen, abolendo controlli di frontiera e trattando l’intera Area come un singolo paese. Inizialmente il Trattato non era parte delle strutture della Comunità, mancando il consenso degli altri cinque membri, ma veniva incorporato nelle leggi dell’Unione col Trattato di Amsterdam (1997). Gradualmente vi aderivano altri 21 paesi, compresi 4 membri dell’EFTA che non appartengono all’UE: oggi l’Area Schengen ha una popolazione di oltre 400 milioni di persone.
In linea di principio si trattava di un’ottima iniziativa, visto il risparmio di tempo e di costo dei trasporti per passeggeri e merci. Uno studio recente della Bertelsmann Stiftung stima il costo che seguirebbe la disintegrazione dell’Area Schengen da €470md a €1400md nel prossimo decennio (circa il 10% del PIL annuale dei 28 paesi dell’UE) dovuto all’aumento dei prezzi di importazione da 1% a 3%. Queste stime potrebbero essere esagerate ma senza dubbio il collasso di Schengen nelle condizioni attuali di ristagno economico avrebbe un impatto recessivo sullo sviluppo dell’Unione, con ripercussioni globali. Leggi tutto
Come solo obiettivo ha la creazione di atomi. Senza diritto, educazione né pensiero. E la Giannini non fa che confermarlo
L’Italia ha firmato un nuovo accordo con la Germania. Il ministro dell'Istruzione Stefania Giannini ha siglato, insieme con l'omologo tedesco Johanna Wanka, un'intesa che pone in essere la cooperazione tra l’Italia e la Germania per quel che concerne la formazione professionale.
L’obiettivo – dice la Giannini, come precisato da Il
Giornale – sta nell’avvicinare il nostro Paese al
paradigma sociale ed economico tedesco.
In cosa consisterebbe tale
modello? Facile: nell’introdurre i giovani al mondo del
lavoro.
VERSO LA DISTRUZIONE DELLA SCUOLA. Sicché, dice ancora la Giannini, «l’Italia deve prendere spunto dalla Germania e colmare la discrepanza che ci divide dai tedeschi. L’accordo odierno è solo l’ultimo passo dopo il Jobs Act e la Buona Scuola per riformare radicalmente il nostro sistema».
Capito? Prepariamoci. La distruzione definitiva della scuola italiana è dietro l’angolo. La scuola non ha più il compito di formare esseri umani consapevoli della loro storia e del loro futuro: deve invece produrre puri atomi pronti a essere inseriti nel mercato del lavoro flessibile e precario.
Parole della Giannini: «Dobbiamo tendere sempre più verso un modello americano, in cui la flessibilità, che è sinonimo di precariato, è la base di tutto il sistema economico. Leggi tutto
Francia, la loi El Khomri passa senza votazione. Proteste in tutto il pease e scontri con le forze di sicurezza nella capitale. Ma i sindacati, gli studenti e la sinistra anticapitalista continueranno la lotta
In assoluta continuità con la logica dello stato di emergenza il governo del premier socialista Manuel Valls ha deciso di far passare la loi El Khomri, la terribile riforma del diritto del lavoro in senso neoliberista, utilizzando la forza. Appellandosi all’articolo 49.3 della Costituzione francese, lo stesso che nel 2006 François Hollande aveva definito “un diniego di democrazia”, l’esecutivo ha di fatto optato per un colpo di stato degno della peggior creditocrazia, mettendo così in luce tutta la sua fragilità e il suo disgusto per la democrazia. Nel frattempo, prima e durante la bagarre all’Assemblée nationale, il Senato prolungava l’état d’urgence fino a luglio, lasciando campo libero alla più brutale repressione poliziesca.
Ma la violenza utilizzata e strumentalizzata dal governo, oggi come nei mesi scorsi, non ha certo spento il fuoco della mobilitazione. Rompendo per l’ennesima volta lo stato di emergenza i sindacati (CGT, FO, FSU, Solidaires), i movimenti studenteschi (UNEF, Fidl, UNL) e la sinistra anticapitalista e radicale (NPA, PCF, PG) hanno invaso le piazze delle principali cittadine francesi andando incontro alla violenza, fisica e psicologica, della Compagnies Républicaines de Sécurité (CRS) e della Brigade anti-criminalité (BAC).
Leggi tuttoLa Commune. Jour et Nuit Debout. Da qualche giorno, questa scritta ha preso il posto di République su tutti i tracciati della metropolitana di Parigi, con l’effetto di disorientare chi, da ogni parte d’Europa, si muove verso la piazza per partecipare alla due giorni lanciata dalla Commission internationale con lo slogan #GlobalDebout. Anche più del calendario del movimento parigino – che, ispirandosi alla Rivoluzione francese, continua a scandire i giorni del lungo mese di marzo, quando la mobilitazione ha avuto inizio – il richiamo alla Comune dovrebbe dare il segno dell’intreccio tra la lotta contro la loi el Khomri e la pretesa democratica che si esprime nella piazza, tra gli scioperi che si sono susseguiti negli ultimi mesi e l’esigenza di conquistare e istituzionalizzare le rivendicazioni delle centinaia di migliaia di precarie, operai e migranti che hanno attraversato le strade della capitale francese. Interrompere la produzione, sollevarsi, vincere: di questo parla Parigi.
E di questo si è discusso nel laboratorio organizzato dalla Commission Convergences des luttes attorno alla domanda «quali nuove forme di sciopero per sconfiggere la loi travail?», a cui abbiamo preso parte venerdì sera, al nostro arrivo nella capitale francese. Oltre cento uomini e donne riuniti in circolo hanno discusso dello sciopero generale come posta in gioco niente affatto scontata di un processo che vede i grandi sindacati ancora incerti nel combinare politicamente l’organizzazione di lotte legate alla contrattazione delle singole categorie – come i lavoratori dei trasporti – e una mobilitazione politica contro il Jobs Act francese. Leggi tutto
A proposito del poco onorevole peregrinare del deputato napoletano e dell'idea che i poteri forti puntino sulla carta M5S
Di Maio ci crede, quelli che lo ricevono assai meno. Il suo lungo peregrinare - prima nelle capitali europee, poi a Tel Aviv, ed infine negli Usa - non è solo penoso, è anche inutile.
Come ci informa La Stampa, l'autorevole membro del direttorio pentastellato sarà questa settimana a Parigi e Berlino, dove incontrerà alcuni rappresentanti dei rispettivi governi. A far fede della sua scelta eurista ci ha già pensato con il viaggio a Londra per dire no alla Brexit. Ma l'Europa non basta. Per accreditarsi come candidato premier ci vuole la capitale dell'impero. Dunque, via negli Usa a settembre, preceduto dalla benedizione sionista da ricevere a fine giugno dal governo israeliano.
In questo girovagare, Di Maio non ha trascurato i nostrani potentati (leggi QUI e QUI), incontrando a pranzo i membri italiani della Trilateral, i vertici di alcune delle maggiori aziende nazionali, il direttore del Corsera Fontana, nonché il dottor Mario Monti, il più amato dagli italiani...
Da questo tourbillon di incontri molti hanno dedotto che i poteri forti puntino ormai su M5S. Con la conseguenza di vedere proiettato il precisino deputato napoletano verso Palazzo Chigi. A mio giudizio si tratta di due errori. Leggi tutto
Recensione di: Fred Moseley, 'Money and totality', Brill, 2016, pp. 436, £102
Negli ultimi due anni, una delle
tendenze
principali dell'economia mondiale è stata il crollo del prezzo
del petrolio sul mercato globale. Da un picco che superava i
$100 al barile, il
prezzo è crollato fino al di sotto dei $30 e si trova ancora
intorno ai $40. La spiegazione di questa caduta del prezzo,
come era stato
previsto dall'economia ufficiale, è semplice. C'è stato un
mutamento nella domanda e nell'offerta di petrolio. Perciò gli
economisti ora discutono su quale sia il fattore principale:
l'incremento dell'offerta o la diminuzione della domanda.
Ma quest'analisi del prezzo di una merce e di quanto valga a livello della domanda e dell'offerta - come viene insegnato da tutti i libri di testo di economia all'università - nel migliore dei casi è superficiale. C'è una battuta che gira negli ambienti degli investitori finanziari, quando si discute sul perché il prezzo delle azioni di una qualche società sia improvvisamente crollato: "Be', c'erano più venditori che acquirenti" - talmente vero fino ad essere tautologico.
Cos'è che spiega perché un barile di petrolio costa $40 e non $1? Perché 100 graffette costano $1 ed un'automobile costa $20.000? In altre parole, dobbiamo capire cos'è che fa sì che qualcosa sul mercato venga valutato al di là della semplice domanda ed offerta; ci serve una teoria del valore. A partire da questo, possiamo cominciare a spiegare il funzionamento di un'economia capitalista, dove ogni cosa viene prodotta per essere venduta. Leggi tutto
La prima
metà del 2016 è un lunga e sanguinosa mattanza borsistica
per le banche
italiane: Intesa SanPaolo -30%, Unicredit -40%, Banco
Popolare -40%, Banca MPS -50%. E poi gli strascichi delle
quattro banche “salvate”
nel dicembre 2015, il clamoroso fallimento della
ricapitalizzazione della Banca popolare di Vicenza, il
timore del ripetersi di un flop
simile per Veneto Banca e, soprattutto, l’incubo che
qualche istituto “sistemico” imbarchi ancora un po’
d’acqua e
coli a picco. Tutta colpa del “bail in”? Più che la causa,
il “bail in” è la conseguenza della debolezza del
sistema creditizio italiano: arrivati a questo punto
dell’eurocrisi, l’infezione si è propagata dall’economia
reale alle
finanze pubbliche, sino ad infettare i bilanci delle
banche. Berlino non ha nessuna intenzione di sobbarcarsi
il costo di un salvataggio
bancario e mette l’Italia di fronte alla scelta: scaricare
le perdite su correntisti ed obbligazionisti o uscire
dall’euro. Scenario,
quest’ultimo, sempre più concreto.
* * *
Mercoledì 11 maggior, mentre il Parlamento vota la fiducia al governo sul ddl che riconosce le coppie omosessuali (“una pagina storica” secondo Matteo Renzi), si consuma a Piazza Affari una giornata di passione: alla chiusura della borsa la tavolozza di colori è ricca di sfumature di rosso, dal vermiglio di Intesa San Paolo (-1,6%), al rosso porpora del Banco Popolare (-9%), passando per il rosso pompeiano di Unicredit (-3,7%).
Leggi tuttoIl libro di Franco Berardi (Bifo),
L’anima al lavoro. Alienazione,
estraneità, autonomia
(DeriveApprodi, 2016), ha il ritmo e
l’appeal di una danza orientale. Non solo perché seduce e
accompagna il lettore passo
a passo, in virtù della sua cadenza sinuosa, ma soprattutto
perché, in modo cristallino, disvela e mette a nudo, la
pervasività
della metamacchina capitalistica e la sua azione tossica
sull’anima.
Il libro chiarisce fin da subito che per reagire alla catastrofe psichica e sociale del capitalismo contemporaneo è necessario avere ben presenti le ragioni del salto di paradigma che ha caratterizzato e quindi trasfigurato, a partire dalla prima metà dei Settanta, l’economia e la società occidentale.
«Lo sfruttamento industriale concerne i corpi, i muscoli, le braccia. (…) Ma se dalla sfera della produzione industriale ci spostiamo alla sfera della produzione digitale, scopriamo che lo sfruttamento si esercita essenzialmente sul flusso semiotico che il tempo di lavoro umano è in grado di emanare» (p. 8).
Ecco allora il sedimentarsi di un capitalismo del cognitivo e dell’immateriale, ma anche del seduttivo e degli affetti. Un capitalismo in cui produzione e riproduzione sociale si riflettono vicendevolmente e incessantemente allo specchio, creando uno spazio di coincidenza che non presenta soluzioni di continuità. Occorre quindi aver chiaro che il paradigma dialettico (e quindi anche il Marx troppo fedele a quest’ultimo) è oggi divenuto insufficiente a dare conto e quindi a sviluppare una critica efficace del nuovo discorso capitalista:
Leggi tuttoLe politiche di moderazione salariale dovrebbero generare crescita sia perché migliorano la competitività di prezzo delle nostre imprese esportatrici, sia perché, contenendo l’inflazione, accrescono i consumi e la domanda interna. L’evidenza empirica smentisce entrambi gli effetti, mostrando come la compressione dei salari abbia il solo esito di accentuare la recessione
La ripresa della crescita economica in Italia viene fatta dipendere, nella visione dominante[1], dal combinato della liberalizzazione del mercato dei beni e dei servizi e da misure di deregolamentazione del mercato del lavoro, secondo gli effetti descritti nella seguente tabella.
Si tratta di uno schema che presenta non pochi punti di criticità, sia sul piano teorico, sia sul piano fattuale. Ciò che qui interessa rilevare è se la moderazione salariale può essere una strategia efficace ai fini della crescita delle esportazioni e se lo sia ai fini dell’aumento della domanda interna (per effetto del presunto aumento dei salari reali conseguente alla riduzione del tasso di inflazione). Tecnicamente, la risposta alla prima domanda rinvia alla stima dell’elasticità delle nostre esportazioni al prezzo, ovvero della possibilità, per i consumatori esteri, di sostituire facilmente i prodotti italiani con prodotti di altri Paesi. A riguardo non vi è uno studio che possa considerarsi conclusivo, soprattutto in considerazione del fatto che l’elasticità delle esportazioni al prezzo varia significativamente fra settori produttivi. Leggi tutto
La visibilità. La visibilità. Il mio regno per la visibilità. (Richie III Cunningham)
Il convento passa minestra con le fave, non gli si può chiedere quello che non ha. Ci si può solo sbizzarrire nella infinite varianti della preparazione di fave con cipolla, fave con patate, fave con pomodoro. E coì via favando.
Tali gastronomiche considerazioni vengono alla mente guardando uno dei tanti (uno qualunque) talk show serali, de La7 o della RAI (di quelli proposti da Mediaset meglio tacere...). Il volo basso, decisamente basso, cui è costretto il dibattito è disarmante: mai una volta i temi vengono offerti ad un approccio profondo, ad uno sguardo che vada oltre il dato dell'attualità, della curiosità sondaggistica, della trepidazione elettoralistica. I pochi sparuti casi (dei quali va dato atto alla Gruber e a Paragone) di "ospitate" intelligenti sono come divorati dal contenitore ospitante, a riprova, più di 60 anni dopo, che Marshall McLuhan aveva ragione nel ritenere che il medium fosse il messaggio.
Un caso emblematico è quello che riguarda Cacciari, frequentemente chiamato in causa a Otto e mezzo. La curiosità è quella che l'ex sindaco di Venezia viene presentato come filosofo, e certamente Cacciari lo è (o lo è stato), ma niente di quello che dice è riconducibile alle sue competenze professionali, alla specifica prospettiva disciplinare di cui dovrebbe essere portavoce, riducendosi quasi sempre in un nervoso, livoroso, impaziente chiacchiericcio segnato dall'orizzonte angusto dei tecnicismi della politica. Leggi tutto
Siate gentili e premurosi col vostro prossimo. Lascereste il vostro posto in coda ad un collega e amico se pensaste che sia corretto farlo? Penso proprio di no se vi chiamate Marconi e il vostro collega Tesla e la coda è quella dell’ufficio brevetti.
Anche l’economia è piena di casi del genere, pure il modello di Ramsey-Cass-Koopmans visto la volta scorsa. E stesso destino non poteva non capitare ai modelli di crescita. Chi se lo fila oggi, e ieri, l’economista australiano Swan che contemporaneamente a Solow descrisse un modello analogo?
E la Storia diventa ancor più cinica con quei teorici come Tobin che non solo descrisse il modello di Solow in un articolo pubblicato prima del suo, ma lo arricchiva con l’introduzione della moneta. Oltretutto, ignorare la moneta nella crescita economica appare ai nostri occhi drogati da anni di ZIRP un comportamento psichiatrico.
Perchè a Tobin non fu riconosciuto un merito uguale o maggiore? Questa è la sua storia.
Il suo contributo iniziò con un articolo del 1955 (una più semplice trattazione la si trova in un altro articolo del 1965.
Tobin parte considerando una economia caratterizzata da incertezza, avversione al rischio e preferenza per la liquidità.
Leggi tuttoPubblico la mia prefazione al volume della Rete Noi Saremo Tutto Non un passo indietro. Cronache dalla Repubblica popolare di Lugansk e dalla guerra in Ucraina (Red Star Press, Roma, 2016, pp. 130 + DVD allegato, € 15,00). Avverto che non tutta la redazione di Carmilla condivide la mia lettura. Segue il video Odessa: 2 maggio 2014, della Banda POPolare dell’Emilia Rossa. Il brano è compreso nel CD Viva la lotta partigiana, da noi già recensito qui
Di norma, chi si trova a sostenere i ribelli del Donbass viene accusato di essere a favore di Putin, o addirittura di filofascismo. Questo perché un’ala molto minoritaria del fascismo europeo, proprio per simpatia verso il nazionalismo conservatore di Putin e la sua sottomissione ai dettami della Chiesa ortodossa, ha scelto di schierarsi con le repubbliche popolari indipendentiste nate dopo il cambio di regime in Ucraina.
In realtà, da che parte stia il fascismo è dimostrato dai fatti. Fin dalla “rivolta” di piazza Maidan, accolta con entusiasmo non solo dall’Occidente, ma anche da settori della flebile estrema sinistra europea, post-moderna e ultramovimentista, col nuovo governo di Kiev si sono schierati partiti e movimenti ucraini dichiaratamente sciovinisti, razzisti e addirittura nazisti. E il potere scaturito dalla cosiddetta insurrezione di piazza (in realtà un colpo di Stato in linea con quelli chiamati “arancioni”) non si è vergognato di servirsi di questa marmaglia paramilitare, autrice di violenze, assassinii e stragi, tipo il tragico rogo di Odessa. Anzi, le ha offerto incarichi di responsabilità ai più alti livelli. Leggi tutto
[Bertolt Brecht, Scritti teatrali, Einaudi, Torino (1957)]
L’enorme differenza specifica
marxiana rispetto al feticismo economico che l’ha
preceduto – anche quello che si è fondato sull’eccedenza della
produzione agricola <materiale nella natura> – sta
precisamente, come si preciserà meglio fra poco, nel fatto che
gli umani
mutano insieme alla natura. Epperò – come dice Bertolt
Brecht, qui da assumere in via generale [cfr. Scritti
teatrali,
Einaudi, Torino 1962 (vol. unico), giacché fu da lui formulato
nei suoi riferimenti <particolari> al teatro epico
di contro al
tradizionale teatro drammatico convenzionale borghese] (per
ulteriori considerazioni cfr. il §.5. la dialettica
dell’intelligenza
generale) – il marxismo della maniera materialistica fu
da lui appreso direttamente da Marx e Engels, e si attaglia
perfettamente a tutto
il mondo reale, ossia al vero e proprio, ma
malamente detto, <ambiente> in quanto “condizioni circostanti
naturali” nel quale vivevano gli umani. “Questo mondo era
senza dubbio già apparso in precedenza, ma non come
elemento
a sé stante, bensì soltanto nella prospettiva
del personaggio centrale”. E codesto personaggio,
perciò,
assume il carattere dell’individuo – di qui ecco
l’<individualismo metodologico> – attorno al quale deve
ruotare, in sua escludente funzione, tutto il sistema
rappresentato — un <ambiente> illusorio non si può
modificare, è
statico, morto, giacché l’unica azione vivificante
è dell’umano, che opera al posto ma entro il mondo
reale. Per l’individuo-che-conta (si pensi al capitalista che
decide ogni cosa alle spalle dei produttori) non importa
affatto
l’oggettività reale ma soltanto ciò che lui soggettivamente
percepisce [in una accezione di
“percezione”, come si dirà, che non è quella etimologica
latina derivata da per e capĕre, ossia
“prendere conoscenza”, capire (ma anche materialmente prendere
un oggetto, denaro in pagamento, salario o pensione, ecc.)]. Leggi tutto
Intervento per la prima assemblea regionale di Sinistra Italiana Emilia-Romagna
Per quello che è
stato chiamato il “modello emiliano” rinvio a questo
articolo.
Schematicamente, se dovessi ricordare alcuni momenti simbolici dalla Liberazione e dagli anni duri che l’hanno seguita alla pienezza del modello emiliano, citerei l’eccidio del 9 gennaio ’50 a Modena, la lotta delle Reggiane, i primi villaggi artigiani, le scuole dell’infanzia di Malaguzzi a Reggio, il centro storico di Cervellati a Bologna, la nascita della Regione nel 1970.
Il modello emiliano è sintetizzabile in una società relativamente stabile e coesa (nella narrazione classe operaia + ceti medi + politiche keynesiane e buona amministrazione degli enti locali). Il tutto garantito in via principale da quel fenomeno peculiare che fu il PCI emiliano-romagnolo, nutrito insieme da una organizzazione potente e disciplinata, da un sano pragmatismo, dalla eredità del municipalismo e del riformismo socialista e, non da ultimo, dalla fiducia nell’Unione Sovietica. Senza con ciò sottovalutare l’apporto socialista soprattutto nella fase unitaria socialcomunista e lo stimolo, anche dall’opposizione, del cattolicesimo sociale che ha in Emilia una antica tradizione.
Il modello emiliano si è dissolto progressivamente nel tempo sotto l’effetto di due fattori: da una parte le grandi trasformazioni economiche e sociali dell’epoca postfordista ,della globalizzazione e della piena libertà di movimento dei capitali; dall’altra il cedimento della sinistra, incapace di reggere alla offensiva neoliberista, la cui egemonia si è sviluppata in tutta la sua potenza dopo la fine del socialismo reale.
Leggi tuttoLe conseguenze dirette del TTIP, il ruolo di Ada Colau e dei nuovi movimenti. Parla Susan George, filosofa e analista politica, presidente del Comitato di Pianificazione del Transnational Institute di Amsterdam
Durante
la sua visita a Barcellona per partecipare al 4° Seminario
de Convivencia Planetaria, Construimos Biocivilización,
abbiamo avuto
l’opportunità di incontrare Susan George, filosofa e
analista politica, presidente del Comitato di Pianificazione
del Transnational
Institute di Amsterdam ed ex vicepresidente di ATTAC Francia
(Associazione per la Tassazione delle Transazioni
Finanziarie e per l’Azione
Cittadina).. In questa breve intervista ci ha parlato del
TTIP e delle sue possibili conseguenze se questo venisse
firmato, come pure del suo punto di
vista sui nuovi partiti politici e sui movimenti sorti in
Europa, nonchè dell’importanza della partecipazione
cittadina.
* * *
Le conseguenze dirette del Trattato
La conseguenza diretta per le persone è che molto probabilmente il cibo che importiamo sarebbe trattato chimicamente, sarebbe geneticamente modificato e non sarebbe etichettato. Non sapresti veramente cosa c’è nel tuo cibo. Potresti comprare pollo che è stato lavato con cloro, manzo cresciuto con ormoni, potresti avere cibo biosintetico prodotto con un gene di una pianta e un altro di un animale, e tutto questo non sarebbe etichettato.
Gli americani senza dubbio vogliono sbarazzarsi delle indicazioni geografiche protette (IGP). Leggi tutto
L’incapacità di assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi sono i mali più evidenti della nostra società
Che cosa pensare di questo nostro povero paese, in cui soltanto pochi stanno bene? Eccone i tratti somatici: tre milioni di disoccupati; più di dieci di inattivi, di cui quasi due milioni perché “scoraggiati”; due milioni e mezzo di precari; quasi due milioni di lavoratori in nero; una evasione fiscale complessiva tra il 20 e il 30% del Pil; una distribuzione del reddito tale che l’1% della popolazione possiede oltre il 10% della ricchezza complessiva – mentre in sette milioni vivono in povertà.
L’Italia non rispetta dunque due dei “Principȋ fondamentali” della sua Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» e «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; né della Costituzione si rispetta l’articolo 53: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Oltre i 75.000 euro di reddito, che è oggi il quinto e ultimo scaglione di reddito, l’aliquota IRPEF è invece ferma al 43%. Leggi tutto
Se l’affare della filosofia è la trasformazione incessante del proemio in epilogo, l’inizio e la fine di Che cos’è la filosofia? di Giorgio Agamben (Quodlibet, 2016) indicano il compito che all’autore è stato assegnato: dire come nell’epoca della barbarie la capacità di espressione si sia logorata, e mostrare come una politica della filosofia abbia da arrestare l’insensato flusso della vacua comunicazione, restituendo parola al linguaggio.
Il gesto di Giorgio Agamben, che ha elaborato nel corso degli anni un cristallino metodo archeologico, è qui l’indicazione proemiale al possibile del linguaggio. L’archeologia filosofica infatti, esposta in Signatura rerum, ci impegna, da Michel Foucault a Enzo Melandri nella ricerca infinita del nesso di teoria e pratica, risalendo alla soglia di separazione di logica e ontologia, linguaggio ed essere, al di qua della scissione a partire dalla quale si è costituita la storia della metafisica.
In amicizia dunque cerchiamo di sottrarci all’imposizione del logos, all’ordine della prescrizione, volgendoci in direzione del luogo di indistinzione di cosa e parola, ove il compimento replica l’inizio. È la matrice dell’amicizia senza amici, perspicua nel detto attribuito ad Aristotele Amici, non ci sono amici! che evoca la dismissione delle false amicizie e ricorda la situazione di felice e rischioso isolamento del dire il vero. Leggi tutto
La politica ha sempre qualcosa di terribile, di estrema durezza e mancanza di pietà. Si vice o si perde e, nel mezzo, non c'è quasi nulla.
La figura di Pedro Sanchez [Il segretario del PSOE che ha avuto il mandato di formare il governo, Ndr] è per molti versi tipica di un'Europa che vive una fase già avanzata di americanizzazione della vita pubblica e privata. Piuttosto: nord-americanizzazione nei paesi centrali e latino-americanizzazione di quelli del sud. Il candidato e segretario generale del PSOE è il classico politico del giorno, poco o niente ideologico, valori e proposte deboli che si collocano in una sorta di via di mezzo tra la destra e sinistra o meglio, alla destra della sinistra. Sembrano, certi personaggi, prodotti in serie e sono qui per incantarci, disturbarci il meno possibile e avere il sostegno di quelli che governano e che non si presentano alle elezioni.
Negli ultimi due mesi, Pedro Sanchez ha avuto un sostegno quasi unanime dei media, si è atteggiato da statista e ha cercato di riconquistare il centro perduto di un paese che cambia e cerca di essere ascoltato. Dobbiamo riconoscergli una certa audacia, alcune idee chiare e la capacità di resistere in un contesto per nulla facile. La linea di fondo: decostruire Podemos, togliergli sostegno sociale ed elettorale, dividerlo, spezzarlo, quindi demolire l'immagine pubblica di Pablo Iglesias. Leggi tutto
L'italiano di Matteo Renzi usato durante una conferenza stampa con Angela Merkel, ci fa capire che la gente oggi si beve paralogismi e sofismi ma non ha idea di cosa siano. La banalizzazione del linguaggio e lo svuotamento della logica promossi dal renzismo servono ad abbassare le capacità di pensiero razionale
Ma qualcuno di quelli che sostengono Renzi, o anche di quelli che se lo terranno perché tanto sono tutti uguali, lo hai mai sentito parlare? Non solo dice cazzate (nel senso tecnico dato alla parola dal filosofo Harry Frankfurt, a definire affermazioni vuote, irresponsabili): per di più le dice male.
Ecco un esempio, mica tratto da una sua casuale chiacchierata con gli amici al Bar Sport ma dalla conferenza stampa insieme a Angela Merkel dopo il vertice a Palazzo Chigi del 5 maggio:
“Angela [a far capire che lui i potenti li chiama per nome] è una grande tifosa del Bayern Monaco [falso, vedi sotto] e il prossim’anno il Bayern Monaco avrà un allenatore italiano che si chiama Carlo Ancelotti [i giornali non parlavano d’altro da giorni: a chi stava dando la notizia?]. Bene, non c’è dimostrazione [dimostrazione??? ma lo sa cosa significa “dimostrare”] migliore del fatto che i destini italiani e tedeschi [tanti destini] stanno insieme [in che senso dei destini possono “stare insieme”?] e devono provare a vincere insieme [mai sentito di destini che provino a vincere, insieme o da soli] al di là di falsi stereotipi e di luoghi comuni che troppo spesso vengono utilizzati”.
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Esiste una certa lettura dell’opera di
Gilles Deleuze che consente un aggancio tra la sfera
ontologica e quella etica a partire dal non-concetto di
immanenza e dal “canone
eretico” della storia della filosofia, cui egli si rifà:
Spinoza, Bergson, Nietzsche, gli stoici, per citare i più
noti. Forse il
più grande merito di una simile lettura sta nel fatto che essa
rifiuta alla morte il privilegio di donare compiutezza e senso
all’esistenza, per soffermarsi invece sull’incompiutezza senza
mancanza che fa tutta la potenza di una vita.
L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita di Paolo Virno (Quodlibet, Macerata 2015, pp. 187) non condivide con Deleuze alcuna premessa operativa esplicita, eppure sembra ruotare attorno allo stesso intento problematico. Il libro di Virno è composto da tre saggi, due dei quali già pubblicati nel 1994, che afferiscono a “generi” differenti. Il primo è un saggio filosofico stricto sensu; il secondo un trattato politico; e il terzo un programma di lavoro per una filosofia «da fare». Nonostante questo i tre saggi sono inestricabilmente avvinghiati l’uno all’altro, non solo perché ognuno prende l’abbrivio esattamente dal punto in cui quello precedente si interrompe, ma proprio in virtù del fatto che, pur nella loro differenza di genere e d’intenzione, sembrano essere tutti protesi a illuminare con luci diverse la stessa tematica di fondo. Leggi tutto
C'è
un intenso odore di muffa. Le culture giovanili ripiegano sul
vecchio, sul passato.
Tra vestiti dismessi da decadi e eroi pop di generazioni del secolo scorso risulta difficile provare a comprendere cosa sta accadendo. Magalli, Piero Angela, Gianni Morandi, Jerry Calà e la loro riscoperta se da un lato scatenano una facile risata dall'altro ci pongono delle domande sui fenomeni che innervano i tratti soggettivi dei giovani d'oggi e il modo con cui stanno al mondo.
Liquidare questi fenomeni come spazzatura è una facile scorciatoia. Non basta steccare "l'hypsterismo" o prodursi in facili polpettoni di sociologia. Il recupero del vecchio ci parla immediatamente del mondo in cui viviamo, e anche di alcune specifiche del nostro paese.
Bisogna iniziare chiarendo che quello che viene recuperato è un "vecchio" senza Storia.
Degli anni ottanta e novanta, degli anni venti e cinquanta, non si interrogano gli eventi, le culture, le aspirazioni, ma si assume la superficie di un periodo considerato come felice, senza sconvolgimenti sostanziali. Statico, nonostante chi l'abbia vissuto potrebbe darne un quadro diverso. Nonostante allora come adesso qualcosa si muoveva magmatico sotto le placche della vita quotidiana.
Leggi tuttoLe politiche monetarie “non convenzionali” non stanno dando i risultati sperati. Il quantitative easing, così come le manovre tese a portare i tassi d’interesse nominali verso lo zero o addirittura a livelli negativi, non appaiono in grado di sospingere l’inflazione e la crescita del PIL verso il loro sentiero “normale”, né sembrano capaci di allontanare le principali economie avanzate dal precipizio della deflazione. L’Unione monetaria europea è in questo senso un caso esemplare. La BCE ha abbattuto il costo del denaro e ha accresciuto la liquidità in circolazione in una misura impensabile prima dell’inizio della crisi. Ciò nonostante, l’inflazione dell’eurozona è addirittura tornata in territorio negativo e non vi è certezza sulla possibilità che arrivi almeno ad azzerarsi alla fine dell’anno.
In questo scenario, da più parti hanno iniziato a diffondersi dubbi sul modo convenzionale in cui viene interpretato il ruolo dei banchieri centrali. Alcuni commentatori sostengono che dopo la “grande recessione” iniziata nel 2008 le autorità monetarie dovrebbero ampliare ulteriormente gli strumenti d’intervento e soprattutto dovrebbero smetterla di perseguire di obiettivi rigidi d’inflazione per puntare invece verso target più flessibili, come ad esempio una data crescita del reddito nominale.
Fuori e dentro le istituzioni, i segnali di interesse verso tali proposte non mancano. A ben guardare, tuttavia, questo modo di affrontare il problema della inefficacia delle politiche monetarie presenta un grave limite. Leggi tutto
Che l’università debba preparare al lavoro è un luogo comune. Anzi un tormentone, un mantra, una sentenza, ripetuta dalle fonti che in questo paese hanno in assoluto più ascolto, e cioè le Aziende. Le sacre aziende, che siccome la ricchezza la generano loro, hanno sempre ragione. E se non vogliamo diventare poveri, bisogna fare tutti come dicono le aziende.
Già, ma ultimamente le aziende di ricchezza ne generano meno dell’auspicabile. Ebbene, l’università, che deve generare sapere e saper fare, ne genera anche lei così poco? Perché le aziende, per non prendersi la colpa del fatto che non riescono più a produrre ricchezza, hanno inaugurato il sistema ben noto dello scaricabarile: la colpa non è nostra, dicono, ma – fra gli altri cattivi – della scuola e dell’università, che non preparano i giovani per il lavoro.
A che lavoro dovrebbe preparare l’università? Basta bazzicare il mondo aziendale molto meno di quanto lo bazzico io, che ci tengo corsi da vent’anni, per sapere che non solo in ogni azienda si fa un lavoro diverso, ma che in ogni comparto di una stessa azienda si fa un lavoro diverso; e anzi, in ogni stanza dello stesso comparto della stessa azienda si fa un lavoro diverso. Il risultato è che anche se uno proviene da un’altra azienda dello stesso settore, e perfino se viene da un’altra stanza della stessa azienda, ovviamente dispone delle basi di conoscenza generali e di buona parte di quelle specifiche, compresa una notevole esperienza pratica, ma per qualche mese deve imparare la specifica cosa che farà nella nuova posizione. Leggi tutto
J.B. Schor, Nati per comprare, Apogeo 2005
J. Balkan, Assalto all’infanzia, Feltrinelli 2012
Ci siamo chiesti tempo fa “perché la gente non si ribella?”, e abbiamo esaminato alcune possibili risposte. Avevamo detto che forse, per trovare risposte convincenti, occorre indagare temi di psicologia e antropologia. Qualche indizio (non una risposta compiuta, s’intende) mi sembra di averlo trovato in questi due libri, che descrivono, in modi diversi ma convergenti, come l’attuale sistema economico stia invadendo la sfera dell’infanzia per trasformare, ad un’età sempre minore, i bambini in consumatori compulsivi.
Si tratta di un esempio perfetto di ciò che, assieme al compianto Massimo Bontempelli, avevamo chiamato “capitalismo assoluto”: il fenomeno per il quale la logica del profitto e dell’accumulazione capitalistica si estende a tutti gli ambiti della vita, anche a quelli che tradizionalmente ne erano immuni, o solo marginalmente sfiorati.
Dal mio punto di vista, è particolarmente notevole il modo, descritto in questi libri, in cui le corporations sono riuscite a penetrare nella scuola: prima come sponsor, favorite dalla cronica mancanza di fondi delle scuola pubbliche, poi addirittura donando alle scuole stesse “pacchetti educativi” completi di programmi e materiale didattico. Leggi tutto
Un'intelligente analisi dell'intellettuale dell'età renziana. «L’accodamento supino, e dichiarato, agli umori sociali come fonte e misura dell’azione di governo. E a quanto pare, anche dell’azione di riforma della Costituzione. Che dovrebbe essere precisamente la norma fondamentale che prescinde dall’aria che tira. Invece no, spiegano, la deve seguire». CRS - Centro per la riforma dello Stato online, 30 aprile 2016
“Abbiamo fatto due conti sulla vostra età, che in media è di 69 anni. Quattordici di voi sono stati giudici costituzionali. Ben dieci hanno goduto delle vorticose rotazioni alla presidenza della Consulta basate sull’anzianità e sono dunque “emeriti”, con le annesse prerogative. In questo sottogruppo di super saggi, l’età media supera gli 81 anni”. E’ questo il principale argomento che Elisabetta Gualmini – classe 1968, docente di Scienza politica all’università di Bologna, ex presidente dell’Istituto Cattaneo, vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, editorialista della Stampa nonché star prediletta dei talk show mattutini e serali – e Salvatore Vassallo – classe 1965, docente di Scienza politica a Bologna, vicedirettore del Cattaneo, ex prodian-parisian-veltroniano – sfoderano, in un articolo a doppia firma sull’Unità del 27 aprile, contro il documento per il no al referendum sulla riforma costituzionale stilato, firmato e diffuso nei giorni scorsi da 56 autorevoli costituzionalisti (da Zagrebelsky a Onida, Casavola, Cheli, Carlassare, Manzella, Zaccaria, De Siervo e via dicendo). Leggi tutto
Tra Mosca, Ankara e Atene, si gioca una partita importante per i futuri flussi di oro blu nel vecchio continente, sempre che si metta mano alle nuove vie di collegamento e si definiscano meglio i termini della discesa in campo di Teheran
I
fortissimi contrasti fra la Turchia e la Federazione Russa in
merito al conflitto siriano e al futuro del Medio Oriente
hanno portato al congelamento
della costruzione del Turkish Stream, il gasdotto progettato
dalla Gazprom sotto il Mar Nero, con approdo in Turchia, ai
confini con la Grecia, per il
trasporto del gas naturale all’Europa centro meridionale e nei
Balcani.
Il 2 dicembre 2015, in conseguenza dell’abbattimento del jet militare russo ad opera della Turchia, la Russia, per bocca del Ministro dell’Energia, Alexander Novak, "ha sospeso le negoziazioni in merito al Turkish Stream", e ha bloccato la costruzione dell’impianto nucleare da 22 miliardi di dollari di Akkuyu in Mersin (Turchia) appaltato alla Rosatom. Dopodiché, ha accelerato le operazioni relative al raddoppio della capacità di trasporto della pipeline Nord Stream I, il progetto Nord Stream II. In precedenza, il 1° dicembre 2014, Vladimir Putin aveva ufficialmente cancellato la costruzione del gasdotto South Stream prendendo atto, in primo luogo, degli effetti delle pressioni americane sulla Bulgaria - con conseguente ritiro del permesso di costruzione - e degli ostacoli posti dalla Commissione Europea - "approccio non costruttivo", le parole utilizzate dal Presidente russo - in merito all’uso della pipeline. In tale contesto politico, come potrebbe evolvere lo scenario della realizzazione delle infrastrutture energetiche (pipeline) per l’approvvigionamento del gas naturale russo verso il Mediterraneo nord-orientale? Quali sono gli effetti che un mutato contesto geopolitico dell’energia potrebbe avere sulla Turchia e sulla Grecia? Leggi tutto
L’appuntamento è per domani,
domenica 15 maggio. La «Nuit Debout» si diffonde nelle piazze
di Roma, Milano, Napoli, e in
tante città francesi e di tutta Europa per immaginare e
costruire insieme altre forme di vita. E non è un caso che la
dimensione
notturna e onirica dell’appuntamento sia legata a una lotta
che riguarda il lavoro, ovvero la vita di ognuno di noi.
Infatti nelle piazze
parigine, impegnate nella lotta contro la «Loi Travail», ha
fatto la sua comparsa uno striscione che invitava, dopo lo
sciopero generale,
al «Rêve Générale», al sogno collettivo da fare in piazza
trasformata per la notte in una vera e propria «Dream
Machine». Parigi si sa, inaugura spesso i tempi nuovi a
venire, chissà allora che da Place de la République non si
diffonda in
tutta Europa un nuovo ciclo di lotte. Chissà che non riparta
quella «Comune» accesa a Parigi dal jolie mai e dal
suo
slogan più famoso, e forse abusato, l’«immaginazione al
potere». Uno slogan che sembra tornare oggi con il «Rêve
Générale», anche se con uno passo indietro strategico e
significativo, giacché lo scarto quarantennale che ci separa
da
quel decennio «comunardo» non è stato privo di conseguenze.
Per capire perché il sogno sia oggi immediatamente legato al
lavoro e al reddito e per cogliere la profondità di questo
scarto e quindi la differenza del passo indietro, occorre
partire da quel primo
slogan e chiedersi che cosa significasse. Leggi tutto
La crescita di debito e asset finanziari sono passati secondo una ricerca Mckinsey dal 119% del pil mondiale nel 1980 al 356% del 2007.
«Sei anni sono passati dallo scoppio della Crisi globale e la ripresa non è ancora soddisfacente. I livelli di prodotto interno lordo sono stati superati, ma poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero.
Inoltre, cosa preoccupante, la crescita recente ha un sentore di nuove bolle finanziarie.
La lunga durata della Grande Recessione, e le misure straordinarie necessarie per combatterla, hanno originato una diffusa sensazione che qualcosa sia cambiato. A questa sensazione ha dato un nome a fine 2013 Lawrence Summers, reintroducendo il concetto di stagnazione secolare”.
Così scrivevano Teulings e Baldwin nel 2014. Gli anni sono diventati otto, ma il resto non è cambiato.
Se l’Eurozona è l’area in cui l’ipotesi della stagnazione secolare riceve maggiori conferme, il problema è chiaramente di portata più generale: “La crescita economica media negli Stati Uniti – ricorda Summers – è stata appena del 2 per cento negli ultimi 5 anni, a dispetto del fatto di partire da una situazione estremamente depressa” e nonostante l’enorme incremento della massa monetaria. Leggi tutto
1) Un progetto di sovranità nazionale implica il concetto e l'implementazione di un insieme coerente di politiche nazionali miranti a “camminare su due gambe”, cioè i) costruire un sistema produttivo industriale integrato e autocentrato ii) avviarsi verso politiche di rivitalizzazione e modernizzazione dell'agricoltura contadina; e iii) articolare i due obiettivi in un piano di azione coerente e complessivo.
a) Costruire un sistema produttivo industriale complessivo e integrato implica che ciascuna industria sia concepita in modo da diventare il principale fornitore e/o il maggiore sbocco per le altre industrie. Questo concetto entra in conflitto con il dogma neo liberale che è basato sul criterio esaustivo di profittabilità per ciascun singolo comparto industriale considerato separatamente dagli altri. Questo concetto porta allo smantellamento del sistema industriale costruito precedentemente (nell'ex Unione Sovietica, nell'Europa dell'Est e in alcuni stati del Sud) e a subordinare ciò che rimane allo stato di subfornitori sottoposti all'ulteriore espansione dei principali imprese giganti transnazionali (gestite dal capitale finanziario degli Usa, alcune dall'Europa Occidentale e dal Giappone).
Il nostro concetto alternativo implica l'intervento statale, cioè la pianificazione statale, con la gestione di un sistema finanziario nazionale indipendente con l'obiettivo di finanziare prioritariamente la costruzione di industrie, nello schema di vincoli di bilancio che impediscano l'inflazione e un largo e crescente debito estero. Il sistema di tassazione dovrebbe essere concepito in modo da supportare lo sviluppo di questo progetto. Leggi tutto
Il nuovo capitalismo rompe la dinamica «evoluzione, sviluppo, progresso» a favore dello scippo privato delle risorse, della terra e dei servizi sociali. Le conseguenze sono la crescita della povertà e la cacciata delle popolazioni dai territori espropriati
Nel corso del Novecento gran parte dell’attenzione degli studiosi era rivolta alla tendenziale distruzione delle economie precapitaliste, incorporandole nelle relazioni capitaliste della produzione. Il periodo post-1980 rende visibile un’altra variante di questa appropriazione attraverso l’incorporazione. È la distruzione non delle modalità pre-capitaliste, bensì di varie strutture capitaliste keynesiane con lo scopo di favorire l’affermarmazione di una nuova specie di capitalismo avanzato, che possiamo definire «estrattivo».
La crescente importanza dell’estrazione nel XXI secolo ha sostituito il consumo di massa come logica dominante di gran parte del XX secolo. Il consumo di massa mantiene la sua importanza, ma non è più un fenomeno capace di creare nuovi ordini sistemici, come è successo in gran parte del XX secolo, come testimonia la costruzione di vasti insediamenti residenziali suburbani, dove ogni famiglia acquistava di tutto e di più anche se, ad esempio, si poteva tosare l’erba solo una volta alla settimana. Leggi tutto
Due settimane fa sembrava arrivato il momento della tanto attesa nomina di Marco Carrai a responsabile della sicurezza cyber, nonostante le resistenze del Presidente della Repubblica e dei servizi, di cui si era fatto interprete presso il Copasir il prefetto Massolo. Poi, la nomina di Carrai venne rinviata di una settimana per imprecisati motivi tecnici, anche se non sfuggì agli osservatori il siluramento di Massolo che sembrava sicuramente destinato alla riconferma sino a poche ore prima del Consiglio dei Ministri.
Poi la settimana successiva è trascorsa inutilmente, almeno dal punto di vista della nomina, ma già nei primi giorni della successiva, il Fatto dava una notizia secca: la Cia avrebbe fatto presente ai servizi italiani l’inopportunità della nomina, in un posto tanto delicato, di Carrai indicato esplicitamente come agente di Israele. Tradotto dall’inglese: veto secco degli americani, che i servizi si sono affrettati a riportare al Palazzo Chigi. La notizia è stata ripresa dall’Hp che non è dir poco.
Se fossimo maligni ricorderemmo quella frase che, distrattamente, D’Alema disse in una cena, un paio di mesi fa, non accorgendosi che c’era una giornalista: “Renzi è un uomo di Israele. Bisogna toglierlo di lì”. Ma noi non siamo maligni e non la citiamo, così come non ci sembra significativa la ben nota vicinanza di Massolo e della direttrice del Hp (Lucia Annunziata) a baffino. Cose che non c’entrano con quel che stiamo dicendo. Leggi tutto
Restaurazione completata in
Brasile.
Dilma Rousseff, che aveva vinto le elezioni con oltre 54
milioni di voti, viene sostituita da un governo che non si
limita a metterla in stato
d’accusa per presunte violazioni, ma ribalta completamente il
segno politico del paese. Quello presieduto da Michel Temer,
un dinosauro della
peggior politica, inquisito per corruzione e con
un’aspettativa di voto che i più benevoli collocano al 2%, è
un governo non
eletto da nessuno, sessista e razzista, composto
esclusivamente di maschi bianchi, sette ministri del quale già
inquisiti per corruzione. Dopo
aver coperto di letame, complici i media monopolisti, uno dei
più autorevoli dirigenti politici mondiali, Lula da Silva, le
destre hanno dunque
fatto un passo avanti e preso il potere con un colpo di stato
parlamentare destituendo una presidente, Dilma Rousseff,
accusata di nulla. Quello
di Temer è un governo di agroindustriali, fondamentalisti
neoclassici ed evangelici (due facce della stessa medaglia),
corrotti, violatori di
diritti umani e narcos, che ha come ministro di giustizia un
avvocato vicino al principale cartello criminale del paese.
Addirittura duecento degli uomini che hanno votato l’impeachment contro Dilma sono già inquisiti per corruzione, con l’infamia massima di uno di loro che ha votato in onore al boia che torturò la presidente durante la dittatura.
Leggi tutto«Come
sulla fronte del popolo eletto stava scritto ch’esso era proprietà di
Geova», così
l’espansione totale e capillare del rapporto sociale capitalistico imprime
all’individuo
«un marchio che lo bolla a
fuoco come proprietà
del capitale» (Marx).
Introduzione
La lettura del libro di Paul Mason Postcapitalismo. Una guida per il nostro futuro ha generato in me una serie di riflessioni e di suggestioni che proverò a mettere in ordine per poterle condividere con i lettori, ai quali chiedo preventivamente scusa per le ripetizioni di frasi e concetti che probabilmente troveranno nel testo che avranno la bontà di leggere, e che non sono riuscito a eliminare nella fase di correzione degli appunti.
Lo scritto che segue non vuole essere, e difatti non è, una recensione del libro di Mason ma, appunto, una “libera” – e spero non troppo confusa – riflessione sui temi affrontati o anche solo evocati dal suo autore. I frequentatori più assidui del Blog non avranno difficoltà a capire subito che si tratta di “problematiche” che non smetto di prendere di mira, cercando di approcciarle da prospettive sempre diverse. Non sempre, o meglio: solo raramente la cosa mi riesce, non ho motivo di negarlo, ma l’impegno c’è, e credo che, tutto sommato, esso vada nella giusta (radicale/umana) direzione. Certamente sbaglio, inciampo e cado di continuo, ma sempre su un terreno a me caro: l’anticapitalismo “senza se e senza ma”, in vista di «una più elevata situazione umana» (Goethe).
Uno studio recente dimostra che l’impatto della svalutazione interna sui paesi della periferia è stato – ed è – ben più grave di quanto rivelino i dati ufficiali
La politica economica europea –
quel combinato disposto di austerità fiscale, compressione
salariale e liberalizzazioni (soprattutto del mercato del
lavoro) – ha un
nome: mercantilismo. Il mercantilismo, secondo la definizione
di Adam Smith, è una dottrina economica che “incoraggia le
esportazioni e
disincentiva le importazioni” al fine di ottenere un attivo
della bilancia commerciale. Al tempo di Smith (XVIII secolo),
tale obiettivo veniva
perseguito soprattutto limitando le importazioni per mezzo di
tariffe, dazi, tasse e sussidi. Oggi l’ideologia del libero
mercato – che
disdegna qualunque forma di protezionismo “ufficiale” – impone
agli Stati di perseguire quell’obiettivo con altri mezzi: la
svalutazione interna (austerità fiscale e compressione dei
salari), l’esportazione di capitali all’estero (stimolando la
domanda di
beni/servizi importati in paesi terzi) e – laddove possibile –
la manipolazione del tasso di cambio
(svalutazione/deprezzamento della
valuta). Ça va sans dire che le suddette strategie,
per funzionare, presuppongono che uno abbia dei prodotti
appetibili da
vendere; un dettaglio tutt’altro che irrilevante di cui spesso
ci si dimentica quando si parla di “competitività”.
I paesi dell’eurozona, come è noto, non possono più ricorrere alla variabile del tasso di cambio per recuperare competitività nei confronti dei propri competitor europei – variabile che oggi, in un contesto di domanda globale stagnante, non avrebbe probabilmente un grande effetto sulle bilance commerciali dei paesi che dovessero farne uso, in un ipotetico scenario post-euro, ma che invece, nel bene o nel male, negli anni pre-SME (sistema di cambi fissi che spianò la strada alla moneta unica) Leggi tutto
“Qualora il finanziamento sia già garantito da ipoteca, il trasferimento successivamente condizionato all’inadempimento, una volta trascritto, prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite successivamente all’iscrizione ipotecaria”. Comma 4 articolo 2 Decreto Legge n° 59 del 3 maggio 2016
Si lamentano, i banchieri, perché manca la retroattività del decreto. Ma come, dicono, per la risoluzione di Popolare Etruria e il relativo bail in si è attuata la retroattività e sulle norme riguardanti il recupero crediti no?
Basta leggere il comma di cui sopra, per capire che si è trovata la quadra. E’ il patto marciano, vale a dire il trasferimento al creditore di beni del debitore qualora quest’ultimo sia inadempiente dopo tre rate. Ti tolgono tutto, capannoni, macchinari, scorte di magazzino, seconde case, ecc. Ti lasciano solo la casa di residenza. Il patto marciano può essere infilato in un nuovo contratto tra debitore e creditore.
Il gioco è semplice: la banca chiama l’imprenditore a cui ha dato un fido e gli dice di ricontrattare tutto altrimenti glielo toglie. L’imprenditore è costretto ad accettare e a firmare le nuove condizioni. Se dopo sei mesi non paga le rate gli sequestrano tutto, senza lo strumento dell’ipoteca, per la qual cosa si dovrebbe passare da un procedimento giudiziario. Sarebbe automatico.
Leggi tuttoAncora una volta dalle pagine culturali del Corriere viene l’occasione per riflettere sulla natura ideologica che molti esponenti di quel mondo hanno della democrazia liberale, dei suoi pregi, delle sue mirabili sorti e progressive. Lo spunto è l’articolo “La crisi dei populismi. Ma solo in Sud America” uscito sul numero 231 de La Lettura, l’inserto culturale del giornale. Quando parlano della democrazia e della società occidentale liberale, molti commentatori raccontano con notevole fantasia un mondo che non esiste, una raffigurazione ideologica di una società che non è mai esistita anche nel periodo di ascesa e di maggiore sviluppo della democrazia liberale. Diciamo questo perché leggendo questo articolo è illuminante come si tratti di una mitologia politica, oggi più che mai messa in discussione dalla crisi generale del modello capitalistico internazionale. Ma il nostro valente studioso non è consapevole della sua astrazione, in realtà pensa e vive come non ci possa essere nulla al di fuori della propria visione e pratica nel mondo.
Oggetto di questo articolo sono i “populismi latino americani”, quindi i governi popolari che hanno cambiato positivamente la storia di una parte significativa dell’America latina negli ultimi 15 anni: il Venezuela, l’Uruguay la Bolivia, l’Ecuador, il Nicaragua, senza parlare di Cuba. Per il nostro scrittore questi sono dei biechi populismi, totalitari, che si rifanno ad una cultura arretrata, prodotto del retaggio coloniale, nati dalla matrice ispanica e cattolica. Leggi tutto
Una nuova ondata di innovazioni nel settore della robotica e dell’intelligenza artificiale. Con quali conseguenze sull’occupazione?
Nell’ultimo periodo si va assistendo nel mondo ad una nuova ondata di innovazioni nel settore della robotica e dell’intelligenza artificiale. Tale processo deve essere inserito poi in un più vasto e più generale fenomeno in atto, quello di un forte sviluppo delle tecnologie digitali, sviluppo che prende ogni giorno nuove forme e tende a diventare sempre più pervasivo.
Il processo di crescita della robotica era stato in qualche modo rallentato in passato dalla scarsa elasticità degli apparati, nonché dal loro costo rilevante. Ma ora si affaccia sul mercato una nuova generazione di macchine, molto più flessibili di prima, di più ridotte dimensioni, imbottite di programmi di intelligenza artificiale, meno costose (Cosnard, 2015; Tett, 2015) e così, da qualche tempo, i tassi di crescita del settore si vanno facendo molto più sostenuti.
Secondo un’analisi del Boston Consulting Group, il prezzo medio dei robot, dopo la riduzione degli ultimi anni, tenderà a diminuire ancora grosso modo del 20% nei prossimi dieci, mentre le loro prestazioni potranno crescere del 5% all’anno ancora per molto tempo (Bland, 2016).
Così, ora si prevede che il settore aumenterà il suo fatturato nel 2016 e negli anni successivi del 17% all’anno, per raggiungere in valore i 135 miliardi di dollari nel 2019 (Waters, Bradshaw, 2016). Leggi tutto
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Prosegue il lavoro di inchiesta e reportage dei nostri corrispondenti in Medio Oriente: i compagn* si trovano ora in Iraq nella zona del Kurdistan Basur, ovvero nei territori che rientrano sotto il Governo Regionale del Kurdistan nel nord dell'Iraq (il Krg).
Di seguito proponiamo una raccolta (in continuo aggiornamento) di tutti i contributi, gli aggiornamenti, le interviste e gli approfondimenti realizzati dai nostri corrispondenti
In un'intervista rilasciata ai corrispondenti
di Infoaut e
Radio Onda d'Urto in Iraq (che nei prossimi giorni
pubblicheremo in versione integrale), il comandante
delle forze armate del Pkk
nell'area di Mosul, Cemal Andok, ha commentato così l'attacco
esplosivo che ha causato decine di vittime nell'esercito turco
ad Ankara
(capitale della Turchia): “Il Pkk è estraneo a questo attacco,
ma esso è il risultato della crudeltà del governo di Ankara
nei confronti dei civili e delle città curde del Bakur
[regione curda della Turchia sud-orientale, Ndr]”.
A poche ore di distanza dall'attacco di Ankara c'è stata un'altra azione di sabotaggio nei pressi di Lice. Sull'autostrada tra Bingöl e Diyarbakir, principale città del Bakur, un veicolo delle forze turche è stato fatto saltare in aria facendo sei morti tra i soldati.
“I curdi non possono stare a guardare mentre Erdogan uccide impunemente centinaia di civili e ne brucia i cadaveri, incendiando case e palazzi e soffocando o bambardando le persone nelle cantine”, ha continuato Andok. “I curdi, con questi due attacchi all'esercito, hanno provato a rispondere all'attacco della Turchia. Esiste un diritto curdo di rispondere agli atti di guerra e a proteggersi, combattendo tanto lo stato islamico quanto gli altri nemici”.
Nella giornata di ieri una rivendicazione dell'attacco di Ankara è arrivata dal gruppo Tak, “Falchi del Kurdistan per la Libertà”. Il comandante del Pkk ha fatto presente che “esistono molte organizzazioni che si battono per la causa curda e per la libertà curda, ad esempio Tak. Non c'è relazione militare tra Pkk e Tak, ciò che ci unisce è l'essere curdi”. I Tak, che avevano già rivendicato un'esplosione su un aereo della Turkish Airways all'areoporto Sabiha Gokcen di Istanbul alcune settimane fa, hanno dichiarato nel loro comunicato che l'azione di Ankara “è una risposta al massacro perpetrato dall'esercito a Cizre. Il silenzio su ciò che sta accadendo a Cizre è complicità”.
Il comunicato dei Tak prosegue identificando l'attentatore morto nell'azione di Ankara con Abdulbaki Sonmez, nato nel 1989 nella provincia di Van (Turchia orientale), combattente curdo dal 2005 e dal 2011 membro della loro organizzazione, e annunciando che la lotta proseguirà fino alla conquista della libertà per tutto il Kurdistan. In un primo tempo il governo turco aveva tentato di attribuire l'azione a un profugo curdo siriano presunto appartenente alle Ypg del Rojava, nel chiaro intento di giustificare atti di guerra contro i combattenti curdi in quella regione.
L'attacco di Lice è stato invece rivendicato dall'HPG (formazione armata del PKK) come risposta ai massacri che le forze speciali hanno perpetrato in queste settimane a Cizre, Sur e İdil.
Cemal Andok ha concluso l'intervista rilasciata ai nostri corrispondenti ricordando che “i curdi stanno colpendo obiettivi militari, non civili” e che “tutte le organizzazioni curde – dai Tak al Pkk, passando per il Pdk e l'Upk, hanno diritto di proteggere il popolo curdo”.
◊◊◊◊◊◊◊◊
Incontriamo
il responsabile del
Pyd in Iraq, Garip Huso, e il suo collaboratore Alan Slivi,
nell'ufficio che il partito ha aperto a Suleimaniya, nella
cosiddetta “zona
verde” del Kurdistan iracheno; quella a sud di Erbil,
controllata dai Peshmerga dell'Unione Patriottica del
Kurdistan. Il Pyd è il
partito curdo siriano, ispirato alle idee di Abdullah
Ocalan, che ha contribuito maggiormente alla costruzione
dell'autonomia di fatto che oggi vive
il Rojava, la striscia di terra a maggioranza curda nella
Siria settentrionale. Le sue forze armate, le Ypg/Ypj (unità
di protezione popolare
maschili e femminili) hanno impressionato il mondo per la
loro tenacia nella guerra contro lo stato islamico, che
controlla la striscia siriana lungo
l'Eufrate, subito a sud del Rojava contro cui è in guerra.
Il Pyd è l'anima politico-teorica da cui si sono originate le Ypg/Ypj, l'organizzazione che tenta, oggi, di sviluppare relazioni politiche sul piano internazionale per contribuire al riconoscimento generale della rivoluzione in corso in Rojava, che appoggia e difende. Nel Rojava non esiste soltanto il Pyd: esistono molti altri partiti, tra cui un partito nazionalista vicino al Pdk iracheno di Massud Barzani, magnate curdo del petrolio protetto da Usa e Turchia. Tra i due partiti ci furono attriti nel 2012, all'atto del ritiro dell'esercito siriano dal Rojava, che furono superati grazie alla mediazione di Pdk e Pkk. Le Ypg, in quanto braccio armato del Pyd, inoltre, detengono la leadership militare dell'alleanza di guerra che ha condotto, in Siria, alla formazione delle Forze Democratiche Siriane (Fds), al momento supportate dal cielo tanto dagli Stati Uniti quanto dalla Russia. Limitatamente agli sforzi contro lo stato islamico, e per alcune questioni logistiche (ad es. gli areoporti) esiste anche un teso coordinamento di massima con il governo Assad.
* * *
Il Pyd è oggi uno dei principali e più influenti partiti del Kurdistan. A quali principi si ispira la sua prassi politica?
Il primo principio è la lotta. L'obiettivo della lotta è il confederalismo democratico in Siria, dal momento che questa è l'unica soluzione possibile per la convivenza di curdi, assiri, turcomanni e arabi. Questo è il futuro che vuole il nostro partito. Il secondo principio è l'uguaglianza. Nel nostro partito gli uomini e le donne hanno lo stesso ruolo. Non soltanto ogni carica prevede un rappresentante maschile e uno femminile che condividano le responsabilità, ma in ogni settore dell'organizzazione le donne sono libere di assumere funzioni direttive e di impegnarsi ad ogni livello, sia esso il piano militare, quello diplomatico, sociale, economico e così via. Lo stesso vale per i giovani. L'uguaglianza delle donne e dei giovani all'interno del partito è sintomo del nostro sguardo rivolto al futuro.
Il terzo principio è la pluralità interna. Il Pyd non è un partito per i curdi: chiunque, anche chi fa parte di una minoranza del Rojava (arabi, siriaci, armeni, ecc.) può farne parte. Il Pyd è diverso sotto ogni punto di vista da tutti gli altri partiti del Rojava, e in particolare si distingue per la sua ideologia e per la sua democrazia interna. La costruzione di un sistema nazionale e democratico in Rojava, dove tutte le popolazioni e comunità del Rojava siano coinvolte, è il nostro obiettivo; e nonostante la nostra differenza profonda con gli altri partiti, la nostra strategia e di relazionarci con tutti.
Quanti sono, attualmente, i partiti politici del Rojava?
Sono sedici. Se posso fare una battuta, da quando in Siria c'è la guerra, i partiti nascono come funghi. Ognuno vuole fondare il suo partito!
In questi giorni la Turchia sta bombardando ad Azaz e in altre località del Rojava. Come commenta questo genere di iniziativa?
La Turchia ha da tempo reso nota quale, secondo lei, è la linea rossa per i curdi nella guerra civile siriana. I curdi, secondo l'opinione della Turchia, non possono oltrepassare l'Eufrate verso ovest. Ora che le Ypg hanno oltrepassato il fiume, la Turchia ha preso a bombardare il cantone occidentale di Afrin, che è territorialmente isolato dal resto del Rojava autonomo e confina su due lati con la Turchia. Anche i villaggi intorno ad Afrin vengono bombardati, ciò che sta causando la morte di moltissimi civili.
Questa azione da parte della Turchia è la più palese dimostrazione del suo supporto alle forze terroristiche in Siria. Quando le Ypg hanno liberato migliaia di altre città e villaggi, la Turchia non ha bombardato. Ora, però, hanno liberato Azaz, oltre l'Eufrate, e cominciano i bombardamenti. Perché? Forse perché tra l'Eufrate e Afrin esiste un corridoio attraverso cui lo stato islamico può rifornirsi di armi e uomini dalla Turchia?
Prendete Mosul, in Iraq. Ora tutti vogliono liberare Mosul dall'Is. È forte l'Is a Mosul? Basta che le Ypg chiudano il canale che la Turchia sta bombardando per tenere aperto, tra l'Eufrate e Afrin, e l'Is a Mosul perde ogni forza. La Turchia è un problema per tutta la regione: lo è per l'Iraq come per la Siria.
Anche l'Arabia Saudita dice di voler intervenire in questa guerra.
Da quando la Turchia ha cominciato a bombardare Azaz, ha chiesto aiuto all'Arabia Saudita, ma i sauditi non sono abbastanza forti per intervenire. Finanziano i terroristi, ma sarebbe stupido da parte loro mettere piede in Siria. Persino l'Università Araba del Cairo ha sconsigliato all'Arabia Saudita di fare questa mossa. Sarebbe stupido non ascoltare.
Crede che l'atteggiamento aggressivo della Turchia porterà a un impegno turco ancora superiore?
Ora la Turchia bombarda, ma l'opposizione al parlamento di Ankara dice: “Non entriamo in Rojava”. Un esercito può anche essere forte, ma è debole se all'interno il suo paese è diviso. La Turchia non bombarda soltanto Azad, ma anche Al-Bab e Jarablus. Questo perché se perde il controllo indiretto di tutto il lato meridionale del confine con il Kurdistan siriano, per il governo turco è un problema. Non soltanto non avrebbe più un canale d'ingresso per le milizie che appoggia e per il suo stesso esercito, ma anche i contraccolpi sull'opinione pubblica interna non sarebbero indifferenti.
Occorre capire che le città oggi ancora sotto il controllo dei terroristi in Rojava, tra il cantone di Kobane e il cantone di Afrin (Jarablus, al-Bab, Safira, Azaz, Mumbic) – la regione detta di al-Shahba – ha un suo congresso e una sua discussione politica. Lo so perché io stesso ho lavorato nel congresso di al-Shahba. Questa regione ha anche le sue forze armate, l'Esercito della Libertà o Freedom Forces. La popolazione della regione di al-Shaba è tutta sunnita, composta da curdi, arabi e turcomanni. Il Pyd appoggia questo congresso e gli offre aiuto: è un processo democratco che unisce le persone, un'esperienza positiva, dove uomini e donne sono protagonisti. Questa gente non vuole l'ingresso della Turchia.
Che cosa pensa il vostro partito del ruolo degli Stati Uniti, della Russia, dell'Unione Europea?
Tutti vengono qui e ci chiedono se appoggiamo gli Stati Uniti o la Russia. Nessuno ci chiede se Stati Uniti e Russia appoggiano noi. La Russia combatte l'Is, così gli Stati Uniti, così il Pyd. Sul campo, però, c'è soltanto il Pyd. La Russia o gli Stati Uniti non hanno uomini sul terreno. Russia e Stati Uniti non appoggiano il Pyd, combattono l'Is. Si rapportano con noi perché siamo forti sul campo; se fossimo deboli non ci sosterrebbero mai.
Pochi giorni fa alcuni media italiani hanno dato la notizia dell'apertura di un ufficio del Pyd a Mosca.
Non è un ufficio del Pyd, ma del governo autonomo del Rojava. Tutti dicono che è del Pyd, ma non è vero. È una cosa assolutamente positiva: la Russia è il primo paese europeo ad ospitare un ufficio del Rojava. È un evento storico importante, ed è anche un messaggio al resto dell'Europa. Sarebbe bello che anche altri paesi europei facessero proprie simili iniziative.
In questi giorni hanno luogo duri attacchi dell'esercito israeliano in Palestina, dove la popolazione porta avanti una diffusa resistenza. Quale messaggio si sente di mandare ai palestinesi?
I palestinesi sono persone che apprezziamo, e sono persone forti. Hanno il diritto all'autodereminazione come tutti i popoli. Un tempo, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, i giovani militanti curdi andavano in Palestina, lavoravano negli uffici palestinesi. Yasser Arafat è stata una figura democratica importante. Il Pyd ama la libertà dei popoli, non importa se arabi, curdi o altro.
Alcune figure di al-Fatah, in passato, hanno detto cose poco gradevoli sui curdi, come ad esempio che tutti i paesi arabi dovrebbero sterminarli (mi riferisco, in particolare, al leader di Fatah Saeb Erekat). Questo è spiacevole. Noi amiamo anche gli israeliani, perché amiamo tutti i popoli, benchè non amiamo i loro governi. La gente potrebbe vivere insieme, sono i governi che sbagliano.
Oggi uno dei principali problemi di comunicazione tra lotta palestinese e curda sembra essere proprio la situazione in Siria. La sinistra palestinese sostiene il governo di Assad, ad esempio, ciò che in qualoche modo la pone in contrasto con il vostro movimento.
Il padre di Bassar al-Assad, Afez al-Assad, creò un sistema di supporto per i palestinesi, tanto del Fronte Popolare quanto di Fatah. Tuttavia, Assad ha usato la questione palestinese per i suoi obiettivi politici e militari. Analogamente all'Iraq, la Siria ha usato la questione palestinese per attaccare politicamente Israele, ma per i propri fini. Assad parla sempre dei palestinesi, ma stranamente si dimentica della provincia di Antakia (Antiochia), dove vivono gli arabi alawiti [confessione religiosa cui lui stesso appartiene, Ndr] che gli accordi di Sykes-Picot hanno inopportunamente assegnato alla Turchia. Perché?
Analogamente, l'Iraq insiste sulla questione palestinese, ma si dimentica dell'Arabstan iraniano e di tante altre cose. Perché? La verità è che né la Siria, né altri regimi arabi possono liberare la Palestina. I paesi arabi sono ventidue: perché non fanno nulla di concreto? Usano la questione palestinese, nient'altro; e sono gli stessi regimi che dicono che i curdi sono come Israele…
Pochi giorni fa abbiamo intervistato il politico palestinese Mustafa Barghouti. Quando gli abbiamo chiesto quale messaggio volesse mandare alla sinistra curda, ha detto: “Di essere molto prudenti con Israele”…
Posso rispondere con uno scherzo: dite a Mr. Barghouti di essere molto prudente con la Siria!
C'è un messaggio che vuole rivolgere all'Italia?
I curdi vedono gli italiani come amici. Gli italiani hanno aiutato i curdi, anche quando Ocalan era in Italia c'è stata una mobilitazione per lui. Il popolo italiano è nel mio cuore.
◊◊◊◊◊◊◊◊
“Perché
l'America
è venuta a distruggere il nostro paese? Perché non ci lasciano
in pace? È per il petrolio. Allora, che si prendano pure tutto
il
nostro petrolio, ma basta armi! Basta armi!”. Un signore di
Baghdad sforza tutta la sua competenza nell'inglese per
lanciare il messaggio
accusatorio che, in Iraq, tutti rivolgono agli occidentali.
Dicono “l'America” per gentilezza e per semplificazione,
perché a
nessuno sfugge, qui, chi ha fatto cosa; e l'Italia c'è stata e
c'è dentro fino al collo. Dopo l'appoggio di Berlusconi (con
l'avallo del
Pd) alla terribile invasione di terra (e ai criminali
bombardamenti) del 2003, dopo la partecipazione dell'Italia
all'occupazione (do you remember
Nassiriya?), e dopo il ruolo ambiguo nella situazione attuale,
qualsiasi europeo o nordamericano che si trovi in questo paese
deve rendere conto non
tanto di quel che pensa, ma di chi è e da dove viene.
“Baghdad no good for you” ci avvisa un compagno siriano; e aggiunge: “Also no good for Kurdish”. Nessuno ci porterà a Baghdad, dice, se non vuole farci del male. Tredici anni di guerra, disperazione e sangue portati dall'occupazione e dalle sue conseguenze fanno di Baghdad un luogo dove gli occidentali non sono accettati in quanto tali, pena il rapimento o il linciaggio. Hassan si presenta, viene da Bassora, nel sud sciita controllato dal governo centrale, a pochi chilometri dal Kuweit. Appartiene alla minoranza sunnita nella città, per questo ha acquistato una casa a Erbil, per rigugiarvisi quando in città le milizie sciite (“gente ignorante”, dice) “creano problemi”. Ora è a Erbil per chiedere il visto per gli Stati Uniti: sua figlia è dottoranda all'Università di San Diego, e vuole andare a trovarla; degli altri due figli, uno è soldato e l'altro ingegnere. Lui ha scritto quattro di libri di racconti, e ritiene che Saddam Hussein fosse un buon presidente, “perché aveva aperto l'Iraq a tutto il mondo”. Poi però ha commesso degli errori, aggiunge: “La guerra all'Iran, l'opposizione all'Arabia Saudita, l'invasione del Kuweit”.
Ci invita a raggiungerlo a Bassora quando vogliamo: “A Bassora i miei occhi saranno aperti per voi”. Nur, anche lei araba, lavora a Erbil come receptionist. Alle 12.00 si nasconde interamente sotto il velo per seguire la preghiera che giunge ad alto volume dalla moschea di fronte al suo luogo di lavoro. Anche lei si è trasferita con la sorella Ofran da Baghdad tre mesi fa: “La situazione, a Baghdad, non è buona”. Tiene in braccio il suo bambino: è sciita, anche se lei è sunnita, perché è sunnita il padre. Le diciamo che la loro coppia appare inconsueta a chi sente da lontano le notizie che arrivano dalla sua città, dove sembra infuriare un conflitto terribile, da anni, proprio tra sunniti e sciiti. “No, non è tra sunniti e sciiti: è soltanto tra alcune persone, non tra tutti”. “Tutti i nostri problemi derivano dall'America – si intromette Mahmud, anche lui di passaggio a Erbil, anche lui di Baghdad – Prendi l'Isis: all'inizio pensavo fosse prodotto dalla religione, poi ho capito che è prodotto dall'America”.
Quando gli chiediamo da dove viene, si fa quasi aggressivo. “Sono stato in Finlandia. Non mi è piaciuta, e sai perché? Perché amo il mio paese. Io sono di Baghdad, sono di qui, sono iracheno. Tutte queste persone che vedi attorno a me sono iracheni, siamo tutti iracheni”. Si crea un certo imbarazzo. Uno dei ragazzi nella stanza è di Baghdad ed è arabo, ma gli altri due sono curdi e vengono dal Rojava. Nessuno risponde a Mohamed, che esce fuori a fumare una sigaretta, un po' nervoso. Shiar, come il collega che gli passa il té, sta a Erbil da due anni. Sono rifugiati provenienti da Qamishlo, subito dopo il confine con la Siria. “Non è facile, la nostra vita. Siamo andati all'ufficio delle Nazioni Unite a Erbil, e abbiamo ottenuto lo status di rifugiati, per cui possiamo restare; ma il governo curdo iracheno non ci fornisce carta d'identità, forse ce la darebbe tra cinque o sei anni. Possiamo lavorare ma non studiare, né sposarci”.
Shiar dice di voler “cambiare mondo”, di non voler più stare “in questo mondo”. “Vorrei andare in Europa, ma l'unica via è la Turchia, poi via mare verso la Grecia. È pericoloso. Tanta gente sta morendo in mare”. Chiede informazioni su come avere il visto, ma rimane deluso quando apprende che, una volta scaduto quest'ultimo, se mai riuscisse ottenerlo (ed è praticamente impossibile), potrebbe facilmente ritrovarsi clandestino. L'idea di nascondersi tutta la vita dalla polizia, o di restare disoccupato perché nessuno lo assume, non lo alletta più di tanto. “Ora che la Siria è in guerra, tutti nel mondo dicono che non vogliono i siriani; ma quando in Siria c'era la pace, e si stava bene, dicevamo a tutti quelli che arrivavano, anche dall'Europa: welcome, welcome, you're welcome”. Più che rabbia, il suo tono espime tristezza. La prima cosa evidente, qui, è quanto poco le persone abbiano interesse ad intavolare conversazioni politiche, a dire o sentire belle frasi come “i governi sbagliano” o “i popoli sono diversi dai governi”. Qui tutti sembrano troppo presi dall'urgenza di mettersi in salvo in un modo o nell'altro; e per iracheni o siriani, la reazione spontanea a termini come “politica” o “governo” sembra essere di pura paura.
Essere in un paese che il nostro stato ha contribuito a distruggere, oltre ad essere comprensibilmente pericoloso, è imbarazzante. Oggi di Iraq si parla soltanto in ragione dell'esistenza dell'Isis, perché l'Isis ha ucciso dei giornalisti statunitensi e ha massacrato centinaia di persone a Parigi. Tra il 2006 e il 2014, però, di Iraq non si è più parlato: cosa avvenisse in questo paese è rimasto un mistero, e non ha interessato l'opinione pubblica che intanto godeva dei proventi degli ottimi “accordi” petroliferi (se si può parlare d'accordo durante un'occupazione militare) che i paesi occupanti concludevano con le autorità posticce che avevano collocato nelle istituzioni locali (l'Eni italiana, in particolare... a Nassiriya). La resistenza araba all'occupazione condusse gli Stati Uniti, nel 2006, a concludere che il paese era ingovernabile. I think tank che avevano previsto, con la rimozione di Saddam, la stessa accoglienza all'American Way of Life che avevano apprezzato nell'est Europa nel 1989-91, avevano sbagliato.
Da allora, e soprattutto dopo l'arrivo di Obama alla presidenza (2009) è iniziata l'exit strategy americana da un pantano tanto più grave perché difficilmente comprensibile alla mentalità occidentale, laica o cristiana che fosse. Gli Stati Uniti, l'Inghilterra, l'Italia non hanno avuto, nel corso degli anni, in questo paese, che gli occhi del colonizzatore. Quando, nel caos della guerra all'occupazione, la guerriglia sciita di Moqtada al-Sadr (protagonista, nel 2004, dell'incredibile difesa della moschea di Najaf contro gli americani) produsse forme di autodifesa autonoma nelle città sciite, il leader al-Sistani si fece mediatore delle istanze sciite tanto con gli Stati Uniti quanto con l'Iran. La guerriglia sunnita basata a Falluja, Ramadi e Tikrit, oltre che a Baghdad, rivolse allora le proprie armi contro gli sciiti stessi, accusati di voler costruire un nuovo stato sotto l'ombrello statunitense. A capo della resistenza sunnita c'era il leader di al-Qaeda in Iraq Abu Musab al-Zarqawi, che aveva marginalizzato la guerriglia maggiormente laica legata al deposto governo di Saddam Hussein.
Gli Stati Uniti e l'Inghilterra tentarono di cavalcare lo scontro confessionale pensando che lo slogan “divide et impera” fosse sempre facile da applicare; ma la guerra tra resistenze diventò guerra civile con migliaia di morti, e la presenza statunitense continuò a patire le sue vitime e ad essere vista dalla popolazione come l'origine di tutte i mali, mentre i media occidentali distoglievano i riflettori dal paese. Nel 2011 gli Stati Uniti ritirarono le truppe, lasciando soltanto alcune migliaia di uomini per “addestramento” dei soldati iracheni e curdi e qualche squadra speciale. L'Italia lasciò 200 militari accanto all'areoporto di Erbil (forse perché potessero scappare più in fretta in caso di mala parata).
Il giorno stesso della partenza statunitense, il presidente sciita al-Maliki fece arrestare il presidente sunnita del parlamento. Fu l'inizio del saccheggio di stato dell'economia e della società di tutte le città a maggioranza sunnita, che nel frattempo avevano combattuto armi in pugno contro i militanti di al-Qaeda, riuscendo quasi ovunque a cacciarli. Tre anni dopo, quando le milizie dello stato islamico fecero ingresso in quelle stesse città, sterminando i soldati sciiti e crocifiggendo (oltre a chiunque infranga i dettami del corano) i funzionari corrotti del governo di Baghdad (dove, nel frattempo, quasi tutta la popolazione sunnita era stata espulsa in campi profughi della provincia di al-Anbar) molti le accolsero come un'armata di liberazione. Da allora il vessillo dell'Is sventola su Ramadi e Falluja, come su Mosul, dove il potere è amministrato dai consigli cittadini della Sharia. L'esercito ormai completamente sciita del governo centrale combatte a Ramadi, ottenendo un fragile controllo della città (nessuno può realmente sapere, al momento, a prezzo di quali soprusi sulla popolazione).
Questo paese sprofondato nell'odio, suddiviso in mille micro-stati di fatto indipendenti, spartito tra milizie, ideologie confessionali e spartizioni di denaro e potere, era un tempo un paese certo pieno di problemi, ma che la popolazione avrebbe probabilmente voluto e potuto, con il tempo, affrontare da sola. “Governato”, a tredici anni dall'invasione a stelle e strisce, dalla fazione irachena più vicina all'Iran (gli sciiti) è esempio lampante del carattere politico proprio del mondo contemporaneo, dove il controllo sociale è impossibile se non a prezzo della parcellizzazione gangsteristica della società. La condiscendenza sostanziale, benchè velata, degli Usa verso lo stato islamico in Iraq è l'ultima testimonianza del fallimento delle forme classiche del loro dominio, forse la prima delle forme angoscianti che essa ha avuto e dovrà assumere. Daesh – come qui tutti lo chiamano – è l'ultimo argine e l'impresentabile elemento di dissuasione per l'influenza irachena di Teheran, e l'ennesimo regalo dei nostri governi a una popolazione che avrebbe potuto esserci amica.
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Le condizioni delle
centinaia di persone intrappolate nel quartiere storico di
Sur, a Diyarbakir, dove edifici antichissimi, protetti anche
dall'Unesco, sono stati
distrutti dai carri armati turchi, sono disperate. “Non
riusciamo più a respirare” sono gli ultimi dispacci inviati
via twitter o
wapp. A Cizre l'esercito spara anche agli sfollati che tentano
di tornare nelle loro case, in una città ormai completamente
rasa al suolo. I
profughi non trovano pace neanche a Hakkari, dove le forze
speciali sparano loro addosso. Non è la Siria, ma la Turchia:
qui la guerra
può andare avanti nel silenzio complice dell'Unione Europea,
che ha troppi interessi nel difendere l'alleato turco membro
della Nato, che la
ricatta con i milioni di profughi pronti a sbarcare dalle sue
coste sulle spiagge greche. Qui i curdi non sono “gli eroi” di
Kobane, che
hanno difeso le città siriane dall'espansione dello stato
islamico, ma i “terroristi” del Pkk.
Peccato, però, che i combattenti di Kobane e quelli di Sur e Cizre siano proprio gli stessi: nel 2014 migliaia di giovani curdi delle città turche si riversarono a Kobane per combattere ed oggi, tornati nelle loro città, si trovano costretti a difendere famiglie e quartieri dalle brutalità del presidente Erdogan. Là coraggiosi partigiani e utili interlocutori sul terreno, per Europa e Usa, qui banditi che la Turchia può sopprimere con qualsiasi mezzo. Là protagonisti della “guerra al terrorismo”, qui “terroristi” a loro volta. L'ipocrisia di Europa e Stati Uniti non ha mai fine. Eppure, esiste un luogo dove i partiti curdi sono considerati senz'altro alleati, senza ambiguità e distinguo: è il Governo Regionale del Kurdistan nel nord dell'Iraq (Krg), il cui centro amministrativo e politico è Erbil.
Di prima mattina, a Erbil, ragazzi discretamente zarri rifiutano di considerare le sim card che stiamo comprando prodotti “iracheni”: “No Iraq, Kurdistan!”. Le loro esclamazioni non sono diverse dai giovani che ci hanno ospitato a Diyarbakir, che si rifiutavano di esprimersi in turco: “Fuck turkish, speak kurdish!”. La differenza è che, qui, i movimenti curdi di resistenza sono andati al potere. Un ministro del Krg non esita a dichiarare: “L'Iraq esiste soltanto sulle mappe. Non prendiamoci in giro. Come il finto esercito iracheno del partito al-Dawa [principale partito sciita basato nel sud, da anni al potere in Iraq, Ndr] non ha avuto interesse a difendere Mosul dall'Isil, perché è una città sunnita, così io non mi considero iracheno, sebbene purtroppo abbia ancora questa cittadinanza”. L'esercito di Baghdad e e i Peshmerga curdi continuano a scontarsi, seppur sporadicamente, nella contesa provincia petrolifera di Kirkuk, dove metà della popolazione è araba, metà curda.
Negli anni Sessanta e Settanta i curdi iracheni, guidati dal leggendario condottiero musulmano Molla Mustafa Barzani, ingaggiarono una terribile guerra contro l'Iraq, che condusse a migliaia di morti, profughi e deportati, ma il peggio doveva ancora venire: durante la guerra Iran-Iraq, negli anni Ottanta, e a margine dell'aggressione statunitense all'Iraq del 1991 (dopo la quale tanto i curdi quanto gli arabi sciiti insorsero contro Saddam), il governo di Baghdad compì un vero e proprio massacro contro la popolazione curda a nord, usando anche armi chimiche. Da tempo il partito Baath al potere aveva tentato di “arabizzare” le province curde, espellendo forzatamente migliaia di persone e insediando nel nord centinaia di migliaia di arabi; una politica non molto diversa da quella che lo stesso partito portava avanti, negli stessi decenni, in Siria, sotto la presidenza di Afez al-Assad.
Nel 1991, dopo i bombardamenti contro l'Iraq, gli Stati Uniti imposero una “no-fly zone” sulle regioni curde, che furono così liberate militarmente dal potere di Saddam Hussein. I due principali partiti curdi, il Pdk (partito democratico del Kurdistan) ereditato da uno dei figli di Mustafa Barzani, Massud, e l'Upk (unione patriottica del Kurdistan) sotto la guida del suo antagonista Jalal Talabani, si affrontarono alle elezioni del 1992 e, decretando i risultati un pareggio al 48%, si scontrarono per le montagne a colpi di kalashnikov. I Peshmerga (“coloro che guardano la morte negli occhi”, in curdo) da armata secessionista diventarono milizie di partito in conflitto tra loro. Nel 1998 Bill Clinton propiziò la stretta di mano di Massud Barzani e Talabani a Washington, e la spartizione del Kurdistan iracheno in zona gialla (Erbil e Duhok, sotto il controllo del Pdk) e zona verde (Suleimaniya, sotto il controllo dell'Upk).
Dopo l'invasione del 2003, durante la quale gli Usa delegarono all'Upk l'espulsione dei salafiti curdi di Ansar al-Islam verso l'Iran (da cui, ciononostante, sarebbero tornati), la costituzione irachena pilotata dagli Usa, nel 2005, sancì l'indipendenza delle tre province a maggioranza curda (lasciando contese molte altre aree a lingua “mista” nella vicina provincia di Niniveh). Da allora i leader dei due partiti sono diventati tra gli uomini più ricchi al mondo, gestendo in modo clanico e clientelare i pozzi petroliferi del Kurdistan, tra i più grandi del pianeta. Nelle compagnie petrolifere o del gas da loro fondate un gran numero di funzionari Usa occupano oggi posti di prestigio, assicurandosi rendite miliardarie. Non stupirà che anche l'Italia sia interessata ad appoggiare, se non i guerriglieri del Pkk che vivono a base di riso e kebab, e tengono testa all'alleato turco, questa oligarchia curdo-irachena che ha trasformato la guerra per la liberazione in un'occasione per il proprio arricchimento personale.
“Da una ragione, il Kurdistan iracheno, la cui popolazione non raggiunge i cinque milioni, si esportano 650.000 barili di petrolio al giorno. Un quinto di questa esportazione è nelle mani dello stato, eppure da mesi il governo dice di non avere i soldi per pagare dipendenti pubblici e insegnanti. Com'è possibile?” si chiede Rabun Maroof, portavoce dei parlamentari di Goran, partito d'opposizione attestato sul 25%. “Da quest'autunno continuano le proteste di ingeneri, medici, poliziotti e insegnanti senza stipendio a Erbil, Rania, Suleimaniya, Kirkuk” racconta il giornalista televisivo e attivista politico Ali Mahmoud, arrestato qualche settimana fa e liberato dopo una campagna pubblica che ha mobilitato anche il Kurdistan turco e iraniano. “Il problema è che nel Krg non esistono sindacati indipendenti, tutti i sindacati sono legati ai due partiti al potere. Formalmente c'è il diritto di manifestare, ma nella realtà i concentramenti vengono attaccati dalla polizia, e i lavoratori che parlano apertamente contro il presidente vengono immediatamente arrestati”.
Dopo il crollo del prezzo del petrolio e il dissesto finanziario dovuto ad una politica forsennata di “grandi opere” da parte del governo, in pochi anni il Krg è diventato un paese dove la gente non sa dove trovare i soldi per la cena, nonostante i prezzi bassi e l'enorme ricchezza naturale del territorio. Il governo Renzi, ciononostante, ha deciso di rafforzare l'intesa con Barzani e aumentare da 200 a 800 i soldati italiani di stanza a Erbil. Intende inoltre rafforzare la collaborazione con la costruzione di una diga a Kirkuk (lucrosa “grande opera” in terra straniera affidata ad un'impresa emiliana) a “protezione” della quale verrebbero stanziati altri 800 soldati. Avere militari sul terreno in un paese ricco ma travagliato come l'Iraq fa sempre comodo, e mantenere amicizie con autoritari petrolieri anche, poco importa se a spese di una popolazione oppressa.
Il mandato presidenziale di Barzani è scaduto nel 2013, anno in cui una risicata maggioranza parlamentare gli ha garantito due anni di estensione, «sebbene ciò fosse illegale, perché la scelta del presidente è demandata ai cittadini secondo la costituzione”, spiega Maroof. Il 20 agosto 2015 questa estensione è scaduta, e il nuovo parlamento non ne ha votata un'altra (peraltro esclusa dal secondo mandato). Allora? “Nulla, Barzani è sempre lì. Non è più legalmente, ma per lui e per il mondo è sempre presidente”. Il suo potere, non supportato né dal voto popolare né dal parlamento, si basa eslusivamente sulla forza bruta delle milizie Peshmerga a lui fedeli e sull'appoggio incondizionato che Usa, Inghilterra e Italia forniscono a una personalità che altro non è, nei fatti, che un dittatore militare.
Intanto le Ypg continuano a cercare una strada percorribile per la soluzione della guerra civile in Siria, conquistando sempre maggior territorio allo stato islamico, ma le Nazioni Unite non le invitano al tavolo dei negoziati, presieduto dal diplomatico italiano Staffan de Mistura (le cui «brillanti» capacità – per fortuna, peraltro – sono già state evidenti con la vicenda marò in India). A porre il veto è l'alleato turco, per cui le Ypg hanno la colpa di essere alleate del Pkk; dal quale, a differenza del Pdk, Unione Europea e Stati Uniti non hanno da trarre alcun interesse economico, così che può restare nella black list delle più pericolose organizzazioni terroristiche mondiali. La diversità all'interno del Kurdistan è tra chi lotta per la libertà in una società giusta e chi ha venduto la libertà al denaro e al potere; e sono questi ultimi i curdi che piacciono al governo Renzi. Per questo, e soltanto per questo, non sentirete mai parlare in Italia di queste cose, e molte vittorie di Pkk e Ypg contro l'Isis saranno attribuite a non meglio precisati «Peshmerga». Una fonte istituzionale curda che chiede di restare anonima confida: “Per tanti anni ci siamo chiesti perché tutti i giornalisti parlassero bene del Pdk; poi abbiamo scoperto che li pagavano. A Barzani i soldi non mancano, e ad ogni giornalista piace tornarsene a casa con qualche migliaio di dollari in più”.
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La
statale da Erbil scende verso il confine siriano, ad ovest;
all'ultimo check point dei Peshmerga del Pdk, fedeli al
presidente Barzani, i militari si
dilungano al telefono con i nostri passaporti. Siamo al
confine tra il Kurdistan e la terra di nessuno che lo separa
dallo stato islamico, e
oltrepassato il checkpoint i Peshmerga non assicurano
protezione. Un segnale indica sulla destra il breve tragitto
per Mosul, la più grande
città controllata dall'Is. Una strada vuota, dove nessuno si
immette: così appare, in Iraq, il «confine» del califfato.
Poche ore prima, in quella città, un ragazzino di quindici
anni è stato decapitato perché ascoltava “musica pop
occidentale”; e se i Peshmerga di Barzani non si avventurano
più in questa zona, nella desertica area di Makhmur, a
difendere la
popolazione è rimasto il Pkk: come altrove, in prima linea.
Makhmur città è come un fantasma: edifici spogli o in
costruzione,
case disabitate, pochi bambini che giocano a calcio su una
distesa di terra e detriti; ma oltrepassato il centro urbano,
un check point del partito
dei lavoratori del Kurdistan definisce il limite tra la città
e il vibrante campo profughi che vi confina.
In una modesta abitazione una famiglia ci offre il té tra ritratti di Ocalan e dei martiti della guerriglia. Non appena il cortile si popola di abitanti del campo, siamo accolti con un misto di benvenuto e di accuse. “Non capisco perché l'Italia non fa qualcosa per aiutarci” dice un signore anziano, con l'aria di chi non si capacita di qualcosa che non riesce a comprendere. “In Europa c'è la democrazia: perché, allora, non aiutate i curdi, che lottano per la democrazia a loro volta?”. Non è soddisfatto delle nostre risposte circa il carattere poco disinteressato della politica estera italiana, e sembra convinto che attraverso noi un messaggio possa essere inviato da qui «all'Europa» - entità mitica, di cui si ha una percezione rarefatta - e magari possa eliminare un semplice fraintendimento tra persone lontane, che non sono ancora riuscite a capirsi.
Nel quartier generale del campo, dove il Pkk ha dislocato gli effettivi delle Hpg (unità di difesa popolare maschili) e Yja-Star (unità femminili), un combattente dice: “Vorremmo che le nostre relazioni con l'Italia fossero maggiormente continuative. Dev'essere un rapporto umano, per la vita delle persone; non come nel 1999, quando l'Italia ha tradito i curdi, consegnando alla Turchia Ocalan”. I militanti che gli stanno intorno arrivano da tutto il Kurdistan (Iraq, Iran, Turchia, Siria) e da tutto il mondo, dalla diaspora che ha portato i curdi in Europa, in Australia, in America. Una ragazza delle Yja-Star è interessata a comprendere la situazione politica italiana: “Non capisco perché in Italia, contrariamente a Spagna e Grecia, non ci sono state rivolte in questi anni; credo che il popolo italiano dovrebbe insorgere”. Quando chiediamo se questo panorama spoglio le faccia rimpiangere le montagne di altre parti del Kurdistan, risponde: “Anche il deserto è bello, quando c'è la guerriglia”.
Se questi scambi possono introdurre alla differenza tra Makhmur e gli altri campi profughi dell'Iraq e del mondo, la percezione di questa diversità è ancora ben lontana dalla realtà di una storia unica, quasi incredibile, così rara nella sua intersezione tra lotta, migrazione e persecuzione, e per il suo conflitto, in condizioni estreme, tra autonomia popolare e potere costituito. “La nostra migrazione dalla Turchia all'Iraq risale al 1993 – racconta un insegnante nella sede della municipalità del campo – quando la Turchia mise in campo la sua guerra contro il Pkk in Bakur [Kurdistan settentrionale, Ndr]”. L'esercito invase i villaggi delle province sud-orientali prossime all'Iran e all'Iraq e mise gli abitanti di fronte a una scelta: collaborare con i militari nella repressione del partito, essere uccisi o andarsene. “I villaggi furono incendiati, la gente perseguitata. In decine di migliaia scegliemmo l'esilio: tutti noi onoravamo il Pkk, i combattenti nascosti nelle montagne erano i nostri figli, i nostri padri, le nostre sorelle e i nostri fratelli. Tradire era impensabile”.
Oltrepassato il confine della provincia di Sirnak, i profughi giunsero nel Basur [Kurdistan meridionale in Iraq, Ndr], controllato a nord dalle milizie del Pdk di Massud Barzani, alleato di Stati Uniti e Inghilterra. L'esercito turco attraversò il confine e attaccò i profughi a Zakho, che chiesero allora all'Onu di riconoscere lo status di campo profughi al loro insediamento. La Turchia si oppose e l'Onu fece orecchie da mercante. «Fu necessario un mese intero di rivolta, anche nella forma di scioperi della fame, perché le Nazioni Unite ci promettessero di riconoscerci lo status di rifugiati». Ciononostante, dopo un trasferimento a Duhok, il riconoscimento delle Nazioni Unite non arrivò: stavolta a mettersi di mezzo furono i Peshmerga del Pdk, che nel 1992 avevano stretto un accordo a Dublino con la Turchia. I migranti si rimisero allora in marcia, fino a raggiungere la città di Bersine, dove ancora il Pdk impedì l'accesso all'Onu. Furono ancora scontri e rivolta, anche per l'assenza di acqua e cibo causati dell'isolamento imposto dai Peshmerga.
«L'Unhcr [Agenzia Onu per i rifugiati, Ndr] concesse nei mesi successivi un supporto davvero minimo, ma riuscimmo a costruire una scuola. Fu la prima volta, nella nostra vita, in cui potemmo organizzare delle lezioni in curdo”. Nel 1995 la Turchia invase nuovamente l'Iraq settentrionale (allora “no-fly zone” sotto l'ombrello Nato, dopo la guerra all'Iraq del 1991) per combattere il Pkk, e migliaia di nuovi profughi raggiunsero il campo di Bersine. Poche settimane dopo il Pdk circondò il campo e lo attaccò, facendo morti anche tra i civili. Le pressioni di Pdk e Turchia indussero l'Onu a sgomberare il campo e a programmare, nel 1996, la dispersione di tutti i suoi abitanti in zone separate e distanti tra loro. “Eravamo 15.000. In 9.000 rifiutammo. Ci stabilimmo senza copertura legale né protezione umanitaria nella piana di Niniveh, vicino Mosul. La zona era minata, molti morirono lungo il cammino. La Turchia ci bombardava dall'aria, i Peshmerga ci attaccavano da terra. Patimmo molti morti, ma eravamo tanti. È stato un momento difficile”.
Il Pdk tentò di spingere i profughi fuori dai confini del Kurdistan, verso le aree controllate dal governo iracheno, ma le truppe di Saddam Hussein li bloccarono, impedendo lo sconfinamento; finalmente, l'Onu convinse il governo a concedere un insediamento nel 1998, la cui gradevole collocazione fu individuata nel pericoloso e inospitale deserto a sud di Mosul: la zona di Makhmur. Il clima è freddo d'inverno e caldissimo d'estate, e la forte presenza di insetti velenosi e scorpioni causò diffuse malattie, soprattutto infantili, e numerosi casi di cecità tra gli adulti. Il campo, da allora, è in perenne rivolta contro tutto e tutti: profughi ribelli e maledetti, sfuggiti alle persecuzioni turche, arabe e della destra curda, hanno edificato in autonomia, in questi vent'anni, una piccola fortezza rivoluzionaria. “Abbiamo costruito queste case, queste scuole e questo municipio con le nostre stesse mani: nessuno ci ha aiutato. Non siamo supportati né dall'Iraq, né dal Krg né dalle Nazioni Unite. Le nostre nove comuni eleggono il parlamento cittadino e il consiglio comunale che abbiamo creato, nonostante non fosse previsto che ne avessimo uno”.
Dall'agosto 2014 lo stato islamico ha attaccato il campo decine di volte con bombardamenti e incursioni di terra, ma non l'ha mai espugnato. «Siamo il target ideale per tutti i nemici dei curdi» dicono con rabbia e orgoglio. Sui muri si vedono le scritte in arabo del califfato, vergate con lo spray: «Potrebbero tornare in qualsiasi momento». «Abbiamo il Pkk a proteggerci - aggiunge un signore - ma quando Daesh attacca, tutti impugnamo i Kalashnikov e ci difendiamo”. Nessuno, nel mondo, sa di quest'isola ribelle in pieno deserto: “La produzione, il lavoro, la partecipazione politica sono regolate secondo il pensiero di Ocalan. Insorgiamo e ci rivoltiamo ad ogni necessità, per tutto il Kurdistan, siamo pronti ad insorgere in ogni momento, per Kobane come per Cizre, o per i nostri compagni in Iran”. Le donne del campo (la maggioranza) si sono organizzate nella Woman Academy e nella Scuola delle madri, dove apprendono l'un l'altra a scrivere, leggere, crescere i figli e far fronte ad ogni necessità. Sono parte dell'Ishtar, parlamento unito delle donne del Kurdistan. “Noi donne possiamo organizzarci, possiamo divenire autonome e potenti” dice una di loro. “C'è molto più rispetto per le donne qui a Makhmur che da voi in Europa. In Europa c'è solo lo spettacolo delle donne. Qui c'è uguaglianza - e rispetto”.
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“Qui
gestiamo le cose secondo il 'Gangman Style': voi italiani
dovreste saperne qualcosa”. Ilyas, una quarantina d'anni e un
completo in
giacca e cravatta celeste, ci tiene a pavoneggiare la sua
pistola e si atteggia a piccolo boss di periferia per le
strade disperate di Ankawa, antica
città mesopotamica oggi declassata a banlieue di Erbil,
capitale del governo regionale curdo (Krg) e meta di quasi
tutti i cristiani fuggiti
dalle città conquistate dallo stato islamico, tra giugno e
agosto 2014. Ilyas ha ottenuto un posto invidiabile nelle
istituzioni corrotte del
Krg (“Non mi mancano i soldi, nè le armi”) e gestisce anche,
ad Ankawa, una piccola attività commerciale. Bassam ha 25 anni
ed è uno dei suoi tuttofare. È originario di un ricco
quartiere residenziale alla periferia di Falluja, a ovest di
Baghdad, dove si
trovava nel 2003, quando in quella città scoppiò la prima
rivolta contro l'occupazione anglo-americana dell'Iraq; un
episodio che lui
ricorda in modo diverso da tanti suoi coetanei musulmani.
“Da allora per noi cristiani sono iniziati i problemi. I salafiti [Corrente religiosa che chiede il ritorno al purismo islamico dei primi califfi, Ndr] hanno cominciato a introdurre per tutti il criterio Halal”. «Halal», aggiunge sprezzante Ilyas, non è semplicemente un modo di macellare la carne («Questo è ciò che dicono a voi, nel fottuto occidente»), ma ciò che è consentito e ciò che non lo è, in generale, secondo la legge coranica. Anche i cristiani di Falluja, secondo Al-Qaeda – racconta Bassem – dovevano conformarsi ai dettami del profeta, e le loro donne dovevano coprire i capelli fuori dalla propria abitazione. Bassem e la sua famiglia hanno lasciato per questo Falluja nel 2007, rifugiandosi prima a Baghdad, poi a Mosul: “I conflitti tra sunniti, sciiti e cristiani erano diventati troppo gravi, andarsene era l'unica soluzione”. Da Mosul, dove negli ultimi anni Al-Qaeda aveva, analogamente, commesso omicidi di cristiani, la sua famiglia si è poi trasferita a Karakosh, nella piana di Niniveh (tra Mosul e Erbil), dove i cristiani erano, fino al 2014, la quasi totalità della popolazione.
Nel giugno 2014 decine di migliaia di persone di fede cristiana lasciarono Mosul a causa dell'arrivo dell'Isis e trovarono rifugio per le strade di Karakosh. “Non avevano nulla, non avevano lasciato loro neanche i vestiti. Lo stato islamico li aveva spogliati di tutto prima di lasciarli partire”. Poi, il 6 agosto, sette razzi si abbatterono su Karakosh da Mosul, facendo qualche morto e alcuni danni materiali. “Io ero arruolato nei Peshmerga – dice Bassam – ma i miei superiori diedero l'ordine di evacuare subito la città”. I Peshmerga erano male equipaggiati, o troppo pochi? “Le armi c'erano – risponde – gli uomini pure. Ci doveva essere qualche gioco sporco di mezzo”. Il governo di Erbil decise che non era strategico difendere i cristiani di Karakosh, così come aveva deciso per gli ezidi di Singal appena sei giorni prima? Bassam, come tutti i profughi che abbiamo finora intervistato, si dice incline a pensarlo, ma Ilyas nega. Per sua stessa ammissione, vuole mantenere una posizione più sfumata verso le istituzioni barzaniane, da cui percepisce un lauto stipendio: “Non combatterono perché l'area è desertica, priva di alture, inadatta a uno scontro con un avversario ben armato”.
A lui, più che criticare il governo di Erbil, interessa attaccare la religione musulmana. Una signora velata e la sua bambina si affacciano al suo negozio chiedendo elemosina, ma lui le ignora con disprezzo: “Non vogliamo questa gente ad Ankawa. Che cosa hanno fatto, loro, ai miei fratelli di Mosul? Li hanno spogliati delle loro case e dei loro averi”. Andreus aveva 15 anni quando l'Is ha attaccato Karakosh: “C'è stata l'esplosione di un razzo e siamo andati a vedere. Abbiamo trovato due bambini morti” racconta sorridendo imbarazzato, come avesse visto un film che i genitori gli avrebbero proibito. L'anziano Bashar Yohanna ha una baracchetta sul lato opposto del marciapiede, in cui vende tè ai passanti; ci implora di fotografarla, pensando che ciò possa fargli pubblicità. “Ho capito che sarebbe successo qualcosa quando ho visto la gente che faceva scorte al Bazar. Poi i sacerdoti ci hanno detto che se la chiesa avesse suonato le campane a stormo, tutti avremmo dovuto lasciare la città”. Così accadde il 6 agosto, dopo i primi colpi di mortaio, mentre i miliziani dell'Is raggiungevano Karakosh incolonnati sui loro Toyota.
Bashar non trattiene le lacrime mentre ricorda le migliaia di persone incolonnate a piedi verso Erbil, gli ingorghi di auto, l'arrivo ad Ankawa e le persone accampate «come animali» attorno alla chiesa. Ricorda l'alternativa datagli al check point dai miliziani dell'Isis: avrebbe consegnato loro tutto, “oppure si sarebbero presi le mie quattro figlie”. I profughi sarebbero stati sistemati alcune settimane dopo in dieci campi allestiti ad Ankawa dal Krg, tra cui Ankawa2, dove vivono 5.500 persone, circa 1.200 famiglie stipate in 1.040 prefabbricati. Ibrahim, originario di Bartella, un altro villaggio della piana di Niniveh ora in mano al califfato, si occupa della gestione del campo con solo altre nove persone, per conto di «Pérè Emmanuel», grazie a cui ha studiato dai padri domenicani a Mosul. Ci accompagna in mezzo alla distesa immensa di container identici tra loro ammassati l'uno affianco all'altro, composti ciascuno da due stanze per dormire e un stanzino per i servizi igenici.
La chiesa del campo è stata costruita dagli abitanti addizionando diversi prefabbricati e ponendo sopra essi un tetto a spiovente. La messa viene celebrata in aramaico e tradotta in arabo, e il rito scelto, poiché nel campo maggioritario, è quello siriaco ortodosso; tuttavia, vi partecipano anche cristiani caldei e della chiesa orientale assira. “Nonostante tra noi vi siano persone di confessione orientale, siriaca, caldea e ortodossa, apparteniamo tutti al popolo assiro, e la nostra lingua è l'aramaico, la lingua di Gesù. Parliamo arabo per la strada, con gli arabi e i curdi, ma in famiglia usiamo sempre l'aramaico”. Gli assiri dominavano la Mesopotamia settentrionale nel XXV secolo a.c., con capitale Niniveh. Furono conquistati quasi duemila anni dopo, e divennero gli abitanti sottomessi dell'Assiristan persiano. Dopo la conquista alessandrina subirono l'influenza culturale greca, per divenire popolazione contesa ai confini tra impero romano e persiano, fino alla conquista musulmana, a cui arrivarono già convertiti in massa al cristianesimo.
Mantennero in maggioranza questa religione, ma dovettero pagare una tassa ai califfi, come previsto nel Corano, a causa della loro mancata conversione. Dopo la caduta dell'Impero Ottomano questa discriminazione venne meno in Iraq, ma le conquiste dello stato islamico hanno tentato di riportare la situazione allo stato precedente. In qualità di “emiro”, poco prima di autoproclamarsi califfo, Al-Baghdadi arrivò a Mosul il 6 giugno 2014. “Una settimana dopo, dopo la preghiera del venerdì, dai minareti fu detto che, in ottemperanza al dettato coranico, i cristiani avrebbero dovuto convertirsi, pagare una tassa o affrontare la morte”. Al-Baghdadi chiese una riunione con i vescovi di Mosul per affrontare la questione, ma questi rifiutarono di incontrarlo. Tutti i cristiani partirono il giorno stesso per le città della piana.
Nowel, vecchio dirigente scolastico, era uno di loro. Ci fa sedere sullo spazio davanti al suo container, dove l'intera famiglia si sforza di allestire uno spazio accogliente, offrendoci dell'acqua e del tè. «Le milizie di Daesh, una volta entrate a Mosul, hanno vergato su tutte le case cristiane, in alfabeto arabo, la «N» di «Nazareni» (termine utilizzato dai musulmani, spiega il sindaco di Ankawa, per denotare i cristiani)». Questo segno, dice Nowel, era preludio alla confisca delle abitazioni. «Come potevamo fidarci? Al-Baghdadi aveva annunciato che i cristiani sarebbero stati rispettati, ma appena i suoi miliziani hanno preso il controllo della città i funzionari cristiani hanno smesso di percepire tanto lo stipendio quanto i regolari razionamenti di cibo. Quando se ne sono usciti con la storia della tassa, ce ne siamo andati». Sulla strada per Karakosh la sua famiglia incontrò il check point dello stato islamico dove venne derubata di soldi, oro e fedi matrimoniali; a cento metri di distanza si trovava il check point dei Peshmerga, che li fecero entrare a Karakosh e, dopo che anch'essa fu attaccata, nel Kurdistan.
Bassam dice che non c'erano problemi con i musulmani prima dell'arrivo dell'Isis, ma Ilyas cerca palesemente di storpiare la traduzione, capovolgendo il senso della sua risposta. Nowel afferma che non c'erano mai stati attriti tra comunità cristiana e musulmani, sebbene alcuni gruppi organizzati attaccassero i cristiani di tanto in tanto, ma Ibrahim interviene a correggerlo: «Non è così. In ogni musulmano c'è un grande Daesh: il dettato coranico impone all'umanità intera di riconoscere Mohamed come ultimo profeta». Appare chiaro che i leader della comunità cercano di dare alla contrapposizione che si è creata in Iraq una curvatura religiosa e identitaria, ma la popolazione non sembra percepire spontaneamente questo bisogno. Nowel protesta alle parole di Ibrahim, si mette a urlare: non accetta, benché profugo, di affermare che tutti i musulmani sono uguali, come vorrebbe Ibrahim. La moglie tenta di intervenire, ma nessuno la ascolta; il figlio, Silwan, interviene contro il padre: «Se un musulmano crede davvero, deve agire come Daesh. Soltanto i musulmani meno rigorosi ci rispettano».
«Non è un problema di arabi o curdi, nè di sunniti o sciiti: i musulmani sono così. Quando sono deboli stanno tranquilli, ma appena si sentono forti vogliono imporre a tutti la loro fede» dice Ibrahim mentre ci accompagna all'uscita del campo: «Quelli come Nowel, a Mosul, avevano la grana, lavoravano per lo stato: per questo vogliono far pensare che Daesh sia un fenomeno isolato nella società islamica». Anche lui, come Nowel, concorda nel dire che il presidente del Krg Barzani ama i cristiani e il Kurdistan è oggi ospitale verso di loro. «Le cose, però, possono velocemente cambiare. Ti faccio un esempio: un amico curdo si è rifiutato di stamparmi dei santini l'altro giorno, nonostante fare stampe sia ciò che gli dà da mangiare. Il rifiuto per gli altri ce l'hanno dentro». Dal 2003 a oggi, i cristiani in Iraq sono passati da 1.600.000 a 300.000, di cui l'85% vive ormai nel Kurdistan, spiega Surut Al-Makdici, unico parlamentare Krg dei «Discendenti della Mesopotamia», una delle liste assire in Iraq. «Vogliamo protezione militare internazionale per i cristiani. Non possiamo andare avanti così. L'Europa ci deve aiutare, deve mandare più soldati, più armi».
Papa Francesco doveva visitare Ankawa a ottobre, ma ha rinunciato per motivi di sicurezza: «Ha fatto male» dice Al-Makdici «Dovrebbe sapere che la sua sicurezza non deriva dagli eserciti, ma da Dio». William, giovane attivista vicino al partito, non ha dubbi su chi potrebbe attivare una protezione efficace per i cristiani: «La Russia». Spiega come per lui la questione sia nazionale prima che religiosa: occorre difendere la minoranza assira, tanto in Siria quanto in Iraq. In Siria, spiega, le milizie assire Sotoro sono al momento divise in due fazioni: una, quella originaria, combatte con il Pyd e le Ypg; un'altra, che si è staccata, è fedele al governo siriano. Queste divisioni si ripercuotono qui, alcune centinaia di chilometri più a est, sulle complesse affiliazioni politiche che dividono la comunità di Ankawa, già frammentata, sul piano religioso, da tante diverse tradizioni e riti cristiani. «Gli americani sono venuti qui per prendersi i soldi, e così faranno tutti» dice dal canto suo Ilyas, ostentando cinismo. «Siamo noi, fin dall'antichità, i padroni di questa terra: non i russi, nè gli americani, non i curdi, nè gli arabi» aggiunge in un volo pindarico. «Chiunque manderà dei soldati qui, in ogni caso, non lo farà certo per i miei occhi azzurri».
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Raggiungiamo
la città di Makhmur attraverso la strada statale che collega
Erbil, nel Kurdistan iracheno, con la provincia di Niniveh,
formalmente sotto il controllo del governo di Baghdad. La
strada è piena di check-point dell'autorità regionale curda,
dove i Peshmerga
del Pdk, partito al potere in quest'area, ci fermano svariate
volte e ci fanno scendere dall'auto per dei controlli. Giunti
a trenta chilometri da
Erbil, i Peshmerga non ci sono più. Sulla nostra destra una
strada deserta conduce a Mosul, città sotto il controllo dello
stato
islamico. Laggiù, nel giugno 2014, il leader dell'Isil
Al-Baghdadi ha dichiarato il califfato, instaurando sul
territorio che da qui si spinge
fino a Raqqa, in Siria, lo stato islamico.
Poco oltre, sulla nostra sinistra, la città di Makhmur appare come un'isoletta fantasma in mezzo al deserto, caratterizzata da abitazioni spoglie e prive di vita, abbandonata da molti dei suoi abitanti. Oltre il centro abitato si trova il check-point del Pkk, che ha preso il controllo dell'area da quando – come già avvenuto nella non distante città di Singal – i Peshmerga del Pdk hanno mostrato di non prendere le difese della popolazione civile, quando hanno avuto luogo incursioni e bombardamenti dello stato islamico. Subito oltre il centro abitato si trova il campo profughi di Makhmur, dove vivono migliaia di curdi. È la prima linea tra stato islamico e resto del mondo, dove a fronteggiare direttamente l'Isis sono le donne (Yja-Star) e gli uomini (Hpg) del Pkk.
Dopo un tè di benvenuto con la popolazione del campo, i pick-up delle Hpg vengono a prenderci e ci portano al quartier generale per la protezione del campo profughi, a pochi chilometri dal monte Karacho, a sud, sotto il controllo del Pkk. Il comandante Heval Jamal Andok (in foto più in basso - che si assicura che scriviamo anche “Heval”, in curdo “compagno”) si siede con noi sotto il sole per un'intervista.
Quali sono i principi che ispirano il vostro partito?
Abbiamo un'eredità socialista, che parte da Marx per arrivare a Lenin. Combattiamo per una società socialista. Il socialismo è il nostro primo interesse. L'Unione Sovietica, quale principale esperienza storica socialista, ha tuttavia a suo tempo commesso degli errori. In quell'esperienza l'ideologia è stata controllata dallo stato; non è stata usata per la gente, ma per lo stato. Per questo stiamo cercando di rafforzare questa ideologia cambiandola, perché se vogliamo costruire una società libera dobbiamo progettare un vero socialismo, un socialismo umano, che non sia per lo stato.
Il Pkk è nato per essere il partito dei curdi, ma in realtà altro non è che un movimento umano per una società democratica. Questo è quello che vediamo oggi in Rojava: autonomia e autogoverno, presa in carico dei problemi collettivi, gestione autonoma della società. Il Kurdistan, d'altra parte, è un luogo in cui vivono molte nazionalità diverse; per questo il nostro partito si batte per un sistema in cui le diverse nazionalità possano convivere in modo democratico e rifiuta ogni sistema basato sulla prevalenza o sul dominio di una nazione sulle altre (è il caso, ad esempio, dell'attuale sistema politico turco). Siamo contro l'idea di una nazione che rappresenti una sola identità e una sola storia.
Crediamo sia necessario un movimento mondiale per il socialismo. È necessaria una rivoluzione mondiale. La radice dei problemi non è nazionale né umanitaria, è economica. Dobbiamo vivere bene, una vita bella e felice. La logica dello stato è che esso è necessario, imprescindibile per la convivenza umana, ma questo è falso. Lo stato non può vivere senza la gente, mentre la gente può vivere benissimo senza lo stato. Noi combattenti delle Hpg e delle Yja-Star non siamo soltanto soldati, siamo in primo luogo militanti politici. Il nostro interesse non è uccidere, il nostro desiderio è vivere con gli altri e condurre una vita serena e felice, come afferma il nostro comandante Abdullah Ocalan.
Sappiamo che le Hpg e le Yja-Star stanno affrontando dei combattimenti in Iraq, in primo luogo contro lo stato islamico. Può dirci qualcosa in merito?
Combattiamo Daesh in Rojava, a Singal e a Makhmur. Daesh è un gruppo barbaro e selvaggio, nemico dell'umanità. Decapitano la gente e sono ostili alle donne. Nella nostra ideologia la donna è al primo posto perché è la fonte della vita. Obiettivo reale di Daesh è impadronirsi del petrolio e venderlo ai molti stati – perché sono tanti – che fanno affari con questa organizzazione. Hanno attaccato il campo profughi di Makhmur perché sanno che i profughi di Makhmur sostengono il Pkk. In generale Daesh ha tentato di invadere il Basur [Kurdistan meridionale nel nord dell'Iraq, Ndr] per fare una guerra ai curdi.
Va detto anche che Daesh ha rapporti con la Turchia, per questo attacca Makhmur, che da sempre è stato attaccato dalla Turchia perché i rifugiati che ci vivono provengono dal Bakur [Kurdistan settentrionale nella Turchia sud-orientale, Ndr] e hanno dovuto oltrepassare il confine iracheno perché attaccati dall'esercito turco. Il comportamento della Turchia è questo, in generale. Quando Daesh ha attaccato Kobane, la Turchia lo ha appoggiato. Le Ypg-Ypj, che hanno difeso Kobane, non hanno mai attaccato la Turchia, eppure la Turchia oggi le attacca.
La Turchia non vuole che le Ypg controllino il suo confine con la Siria perché vuole che Daesh continui a controllarne almeno una porzione, in modo che possa ottenere il suo canale di passaggio con il mondo esterno. Anche il governo Assad vuole controllare alcune postazioni. Lice, Cizre, Sur, Nusaybin [città del Bakur sotto attacco da parte del governo turco, Ndr] dimostrano che la Turchia si comporta come Daesh, hanno lo stesso comportamento e la stessa ideologia.
Avete avuto degli scontri con lo stato islamico, qui a Makhmur?
Ne abbiamo avuti diversi. Ad esempio l'8 agosto scorso Daesh ha attaccato il campo. L'area a sud di Mosul, dove si trova Makhmur, è controllata dal Pdk [il partito del presidente del Governo regionale curdo, Massud Barzani, Ndr], ma si sono ritirati e hanno lasciato campo libero a Daesh, non hanno difeso i civili di Makhmur. Lo stato non protegge le persone, e il Pdk fa propria la logica dello stato. Abbiamo evacuato la città e il campo profughi, quindi i nostri distaccamenti sono scesi dal monte Karacho, che potete vedere qui poco più a sud, e abbiamo combattuto Daesh per tre giorni con la collaborazione dell'Upk [Unione Patriottica del Kurdistan, Ndr]. Durante questa battaglia abbiamo avuto tre caduti. Inoltre un giornalista curdo, Denis Firat, è stato ucciso da Daesh sulla montagna.
A causa di queste incursioni da Mosul adesso abbiamo questo presidio fisso delle Hpg e delle Yja-Star qui, nel campo di Makhmur. Daesh può tornare ad attaccare qui in ogni momento, anche adesso potrebbe arrivare; per questo c'è bisogno della nostra presenza. È lo stesso ruolo che svolgiamo a Singal e a Kirkuk. È una decisione del nostro partito quella di dispiegare distaccamenti del Pkk in queste città irachene, altrimenti manterremmo le nostre postazioni soltanto in montagna. Il Pdk ha ampiamente dimostrato di non voler o non essere in grado di difendere i civili, quindi la nostra presenza in alcune città del Kurdistan iracheno è necessaria.
Il Pkk ha combattuto e si trova in prima linea a Kirkuk. Forse presto ci sarà un'operazione per prendere Mosul e il Pkk è pronto a contribuirvi. Mosul è una città molto importante per la storia dell'umanità. Daesh ha distrutto la cultura a Mosul, le sue rovine antichissime. Siamo pronti a combattere Daesh a Mosul. Voglio dirvi una cosa molto importante: noi siamo pronti a combattere Daesh in ogni parte del mondo, non soltanto in Kurdistan.
L'Iraq è stato invaso, nel 2003, dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, e successivamente occupato da questi stati (cui se ne aggiunsero altri, tra cui Italia, Polonia, ecc.). Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia hanno ancora dei soldati di stanza a Erbil. Qual è la posizione del Pkk nei confronti degli eserciti stranieri che operano in Iraq?
La nostra linea politica è di non prendere le parti di nessuno stato, mai. Soltanto se uno stato ci attacca siamo costretti a difenderci, e allora ci troviamo in guerra con quello stato. Quando questi stati invaderanno il nostro Kurdistan, li combatteremo. Sono stati capitalisti. Nel 2003 [quando il Pkk già aveva in Iraq il suo quartier generale, sul monte Qandil, Ndr] non avevamo alcun rapporto o contatto con gli Stati Uniti e il Regno Unito. Tra noi e loro esistono differenze ideologiche: sono stati capitalisti. Quando, però, c'è un problema di vite umane da salvare, come oggi contro Daesh, possiamo mettere in piedi con queste forze una forma di coordinamento tattico.
Quale pensate che sia il ruolo delle potenze occidentali in medio oriente?
Il sistema capitalista è in crisi, per questo cercano di risolvere i loro problemi qui in medio oriente, cercando di cambiare i governi e i confini secondo i loro interessi, dividendo le persone. Queste potenze ragionano secondo l'ideologia dello stato-nazione, questa è la ragione della loro presenza qui. Usa, Francia, Gran Bretagna e altri sono oggi in medio oriente perché vogliono il petrolio. Questa è la terza guerra mondiale.
Anche molte organizzazioni o Ong vengono qui, come gli stati, dicendo che devono salvare l'umanità, ma in realtà sono qui per portare avanti i loro interessi nazionali. Lo stesso vale per le Nazioni Unite: dicono di proteggere le persone, ma cosa stanno facendo a Sur, a Cizre, per proteggere i curdi che vengono in queste ore massacrati dal governo turco? Nulla. È tutto un fatto di interessi economici, è per questo che hanno arrestato la nostra leadership. Solo interessi economici, nessuna umanità. È per i propri interessi che la Germania e l'Italia hanno contribuito all'arresto di Abdullah Ocalan diciassette anni fa.
Di recente, decine di soldati turchi sono morti in Turchia, molti dei quali in due separati attacchi esplosivi, uno nei pressi di Lice [rivendicato dal Pkk, Ndr], nella provincia di Diyarbakir e uno ad Ankara, nella capitale della Turchia. Sappiamo che il Pkk non è coinvolto nell'attacco di Ankara del 17 febbraio, che è stato rivendicato dai Tak (Falchi Curdi per la Libertà). Qual è la vostra posizione rispetto a queste azioni?
Questi attacchi sono il risultato della crudeltà del governo turco, che ha ucciso centinaia di persone e distrutto i quartieri di intere città. I curdi non possono stare a guardare, hanno provato a rispondere a questo attacco, in cui addirittura i corpi dei civili morti vengono bruciati dalle forze speciali turche, che incendiano anche le loro case. Esiste il diritto del popolo curdo a rispondere a tutto questo. I curdi devono proteggersi combattendo Daesh come tutti gli altri loro nemici.
Esistono molte organizzazioni per la liberazione del Kurdistan, ad esempio esistono anche i Tak. Non esiste relazione militare tra il Pkk e i Tak. Ciò che ci accomuna è semplicemente il fatto di essere curdi. Ci sono anche molti altri gruppi che agiscono per il Kurdistan. Tanto i Tak quanto il Pkk attaccano soltanto obiettivi militari in Turchia, non i civili (come invece sta facendo il governo turco). I Tak hanno diritto di proteggere i curdi. Il Pkk ha diritto di proteggere i curdi. Il Pdk, l'Upk, Goran [partito d'opposizione nel Kurdistan iracheno, Ndr] hanno diritto di difendere i curdi.
In questo momento, in Palestina, una nuova Intifadah deve far fronte a svariate forme di attacco da parte dell'esercito israeliano. Qual è il messaggio del Pkk ai palestinesi, in questo momento difficile?
Il Pkk non è soltanto un partito curdo, si concepisce come universale, non vuole combattere soltanto per i curdi, ma per chiunque. La rivoluzione palestinese è nel nostro cuore, l'abbiamo sempre appoggiata e sempre lo faremo. La nostra lotta è la stessa, il nostro nemico è lo stesso. Sono nel nostro cuore.
Quale messaggio volete mandare al mondo dal deserto dell'Iraq?
L'ammirazione per il Pkk è in tutto il mondo e non ha confini, perché la nostra pratica è la stessa che troviamo ovunque in questo pianeta: cercare un vita e una società migliori. Non è facile essere guerriglieri nelle Hpg e nelle Yja-Star: bisogna cambiare vita. Imbracciamo i fucili perchè dobbiamo proteggerci. In tanti ci dicono: “Abbandonate la lotta armata, riponete le armi”. Non possiamo: abbiamo bisogno delle armi; perché questa è la realtà del Pkk: quel che diciamo, facciamo.
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Singal
era una città di 500.000 abitanti nel nord dell'Iraq, abitata
prevalentemente dalla comunità ezida, una popolazione di
lingua curda che professa una religione diversa da ebraismo,
cristianesimo e islam e affonda le sue radici nell'antica
cultura zoroastriana. Oggi
è disabitata e almeno per metà un cumulo di macerie, ed è
attarversata soltanto dalle diverse foze armate che ne
contendono il
controllo: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) da un
lato, assieme alle Ybs (unità autonome ezide), e i Peshmerga
del Partito
democratico del Kurdistan (Pdk), forza di destra e
conservatrice, dall'altro. I due movimenti politici, da sempre
avversi politicamente nella storia
del Kurdistan (l'uno votato alla trasformazione comunistica
dei rapporti sociali, l'altro alla protezione della società
tradizionale clanica in
un orizzonte capitalista), trovano in questa città il loro
punto più teso di confronto politico.
Singal è stata invasa dallo stato islamico il 3 agosto 2014. I Peshmerga del Pdk hanno abbandonato la cittadinanza al suo destino senza combattere, ritirandosi prima ancora che miliziani raggiungessero il centro abitato. Gran parte della popolazione è stata ammassata in fosse comuni e trucidata, o assassinata per le strade mentre cercava di fuggire. Migliaia di donne e minori sono stati ridotti in schiavitù e/o deportati, e sottoposti ai peggiori abusi fisici e psicologici. Migliaia sono state le persone che hanno preso la via dei monti a nord della città, ostacolati dai Peshmerga (per ragioni tuttora non chiare) e protetti da poche decine di guerriglieri del Pkk scesi dalle montagne, dove non pochi sfollati hanno trovato la morte per la fame e gli stenti. Anche le Ypg siriane hanno dato il loro contributo, aprendo un corridoio verso il confine con il Rojava. Oggi decine di migliaia di ezidi vivono in campi profughi allestiti in Turchia e nel Kurdistan iracheno. Ancora attendono inutilmente di tornare nelle loro case, e in molti hanno scelto la via dell'emigrazione clandestina verso l'Europa, attraverso il mare che separa la Turchia dalla Grecia.
A partire dall'autunno 2014 il Pkk ha cominciato ad inquadrare e addestrare migliaia di profughi ezidi nelle unità per la difesa di Singal, le Ybs (da non confondere con le Yps, unità curde che difendono le città del Kurdistan in Turchia, e con le Ypg, che difendono il Rojava). Il Pkk e le Ybs hanno quindi iniziato una lunga guerra riconquistando i villaggi sulle montagne e spigendosi verso il centro abitato, dove hanno preso possesso prima di alcuni edifici, poi di alcuni quartieri. Nel frattempo in città le prigioniere e i prigionieri ezidi spesso riuscivano a sottrarsi al controllo dell'Is fuggendo a piccoli gruppi verso la montagna. A fine ottobre 2015 è stato lanciato l'attacco finale per liberare Singal, ma Pkk e Ybs sono state bloccate lungo la strada che scende dalle montagne dai Peshmerga del Pdk, le cui forze erano state nel frattempo ricostituite con volontari ezidi, sempre dipendenti dal governo di Erbil. La ragione di questo atto fu che il Pdk, alleato del presidente turco Erdogan, non voleva che Singal fosse liberata prima delle elezioni turche del 2 novembre, ciò che avrebbe potuto provocare un maggior successo dell'Hdp, importante partito turco vicino al Pkk.
Dopo il 2 novembre, gli Stati Uniti (grande burattinaio del presidente del Krg e del Pdk Barzani) hanno dato l'ok per l'offensiva dei Peshmerga da nord, che sono giunti nella città già controllata in parte da Pkk e Ybs (contrariamente ad alcune ricostruzioni, le Ypg del Rojava non hanno mai partecipato ai combattimenti per la riconquista di Singal, ma hanno svolto soltanto un ruolo di protezione umanitaria per i profughi nell'agosto 2014). Gli Stati Uniti hanno bombardato la città contribuendo a provocare la ritirata verso Tel Afar dei miliziani superstiti dello stato islamico. Il 13 novembre 2015 le bandiere del Pkk e delle Ybs hanno cominciato a sventolare su alcuni edifici prima controllati dall'Is, quelle del Pdk su altri. Il presidente Barzani ha dichiarato, dopo pochi giorni, che il Pkk e le Ybs erano “forze di occupazione” a Singal, pretendendone un ritiro che non è avvenuto. Da allora tra guerriglia e Peshmerga c'è una tesa convivenza a pochi metri di distanza, con il Pkk/Ybs che controlla il nord della città distrutta e disabitata, il Pdk che controlla il sud. Permane la presenza simbolica di alcune decine di poliziotti e soldati del governo di Baghdad, in parte ezidi. Il territorio montuoso a nord di Singal è in gran parte controllato da Pkk e Ybs, mentre le principali comunicazioni stradali con il nord del Kurdistan iracheno sono controllate da check-point dei Peshmerga.
Il parlamento del gopverno regionale del Kurdistan iracheno (Krg) ha chiesto la formazione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti di Singal nell'agosto 2014, che è stata negata dalla presidenza del Kurdistan e dal governo. I media mainstream internazionali hanno mentito fin dal primo giorno, e continuano a mentire oggi, sulla situazione a Singal, per proteggere l'immagine internazionale del presidente Barzani, grande petroliere alleato di Europa e Stati Uniti. Radio Onda d'Urto e Infoaut intendono con questo e altri reportage contribuire a un'informazione autonoma su uno degli eventi più tragici della storia recente.
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Nel campo profughi di
Duhok vivono
4250 persone, 700 famiglie stipate in 900 container. Qualcuno
del posto la definisce “una piccola Iraq”: all'interno del
campo, infatti,
vivono musulmani, cristiani, turcomanni e ezidi.
(la foto, del campo profughi di Duhok, è tratta dal web)
Dopo aver visitato il campo incontriamo diverse famiglie di ezidi che vivevano a Singal, ad oggi non più sotto il controllo dello stato islamico.
La stanza in cui sedevamo per terra, sopra grandi cuscini colorati, lentamente si svuota e nella saletta rimaniamo in pochi: io, tre donne, il medico che traduceva e una bambina.
Queste tre donne sono state per sei mesi torturate e violentata dall'Isis. Iniziamo chiedendo di raccontare la loro storia, così dopo un po' di silenzio una delle signore, la più anziana, prende parola: “Una volta catturate ci hanno diviso uomini e donne, degli uomini non abbiamo più saputo nulla. Arrivate in questa prigione ci hanno nuovamente divise in tre gruppi: giovani, nubili e anziane”. Una volta divise, spiega, venivano smistate nelle varie stanze e lì iniziavano le prime torture psicologiche, intente a terrorizzarle ed umiliarle. Le bambine sopra i dieci anni venivano separate dalle madri e messe in stanze singole dove venivano violentate ripetutamente. La donna che siede accanto alla signora più adulta ci guarda e con un mezzo sorriso ci dice che in questi sei mesi gli uomini dello stato islamico hanno fatto di tutto, nessuna umiliazione o violenza è stata risparmiata. Durante la detenzione spesso gli uomini di daesh arrivavano nelle stanze, puntavano le loro pistole nelle teste delle donne e le minacciavano di morte “Ora ti ammazziamo!” gridavano con la pistola piantata nella testa delle prigioniere e poi iniziavano a ridere. Quasi nessuna donna è mai stata uccisa, i loro corpi servivano vivi. L'intervista assume una forma molto narrativa in cui le donne raccontano quello che hanno vissuto in sprazzi di ricordi.
La signora più adulta racconta che nella stanza a fianco la sua c'era una bambina di dodici anni, ogni mattina per sei mesi gli uomini di daesh sono entrati e l'hanno violentata fino alla sfinimento, fino a farle perdere la forza anche di urlare.
Prende parola poi la signora che in braccio ha sua figlia e ci dice “Ogni giorno speravamo di morire pur di non stare lì, speravamo nell'arrivo della morte per smettere quest'atroce sofferenza”. Lei ha provato a fuggire due volte, la prima volta è scappata una notte quando gli uomini di daesh erano occupati fuori dalla città, racconta d'aver sbagliato strada e di aver camminato per ore a vuoto. Dopo giorni di cammino, racconta di aver attraversato villaggi vuoti, di essere entrata nelle case per procurarsi del cibo ed infine di aver incontrato degli uomini che dicevano di essere musulmani. Questi uomini l'hanno ospitata in casa, le hanno offerto del cibo e delle bevande mentre le facevano raccontare quello che aveva subito. Questi hanno poi avvertito gli uomini di daesh che arrivati in quella casa l'hanno presa e riportata in prigione. La seconda volta invece è riuscita a scappare e dopo ore di cammino ha incontrato degli ezidi che l'hanno soccorsa e sono tornati indietro a prendere le altre donne.
Raccontano come spesso alle madri veniva proposta la libertà, dicevano loro "Puoi scegliere: ti liberiamo subito ma tua figlia resta qui”. Come se questa possa essere considerata una scelta.
Gli uomini dello stato islamico avevano una lista con tutte le donne tenute prigioniere, questa lista conteneva il nome, il cognome, l'età e il credo religioso della detenuta. Una di loro mi dice “Non volevamo più lavarci né guardarci allo specchio. Non volevamo essere belle perché le più belle erano le più torturate”.
Ancora oggi non dormono bene, raccontano infatti come quello che è successo in quei mesi non potrà mai essere dimenticato.
Il fenomeno dell'Isis, fatto da fanatici fondamentalisti che le potenze occidentali supportano e utilizzano per giustificare la loro presenza in Medio Oriente, ha lasciato in queste terre segni che difficilmente potranno essere cancellati.
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“Se non
ci fosse consenso per Daesh, Daesh non esisterebbe” dice un
compagno curdo nel nord dell'Iraq. “Perchè la gente di Mosul
non si
ribella, non insorge? Perchè a molti di loro va più che bene”.
Facciamo notare che in Siria molti combattenti di Daesh
provengono
dall'estero: Uzbekistan, Kazachstan, Cecenia. “Ci sono, ma non
sono la maggioranza; la maggioranza sono siriani”. Difficile
immaginare,
d'altra parte, una forza composta da alcune migliaia di
militanti, per quanto violenti e bene armati, che possa
controllare una città come
Mosul in Iraq, con oltre un milione di persone, se fosse da
tutti, indistintamente, malvoluta. La verità è che otto anni
di terribile
occupazione angloamericana (e italiana), succeduta dal potere
dispotico di un governo corrotto e predatorio installato a
Baghdad, hanno prodotto uno
stato di disperazione tale, nelle province sunnite
settentrionali di Al-Anbar e Niniveh, da far apparire, a gran
parte della popolazione, le milizie
di Al-Baghdadi il male minore.
I racconti dei sopravvissuti all'arrivo dell'Is, ormai profughi in altre città dell'Iraq, delineano un quadro ambiguo, dove il califfato appare anche un “mostro provvidenziale” per le potenze regionali e internazionali. Fallito il brutale tentativo americano di addomesticamento degli iracheni, il paese è finito nelle mani di un partito, Al-Dawa (sciita), vicino all'Iran. La secessione sostanziale del Kurdistan del presidente Barzani, che dal 2014 ha cacciato (anche a costo di scontri armati) l'esercito di Baghdad dai suoi territori, ha rappresentato un contrappeso favorevole agli interessi opposti all'Iran: Turchia e Arabia Saudita a livello regionale, Stati Uniti ed Europa a livello globale; e che le province arabe di Anbar e Niniveh diventassero sostanziale terra di nessuno, e guadagnassero autonomia di fatto dal governo centrale, non è stato stato visto come un fatto di per sé negativo. Di questa sorta di non belligeranza politica tra Is e Occidente, secondo una strana logica di “drole de guerre”, quasi tutti i profughi fuggiti dal califfato sembrano convinti.
“Avevamo le armi per combattere e i Peshmerga curdi erano presenti in forze nel nostro villaggio; ma si sono ritirati, e ci hanno detto di fare altrettanto” racconta Hussein, un medico ezida nel campo profughi di Dawodya, provincia di Duhok (Kurdistan iracheno settentrionale). Con i suoi 4.205 profughi, tutti provenienti dall'Iraq, i suoi 99 prefabbricati e le sue 621 famiglie ezide, arabe, curde e torcomanne, il campo è, di fatto, un Iraq in miniatura. Diviso in “quartieri” secondo affinità linguistiche o religiose, che travalicano ampiamente nel sociale e nel personale, è comunque – dicono i suoi amministratori, che esibiscono dietro ogni scrivania il ritratto del presidente Barzani – “una piccola isola di pacifica convivenza e rispetto reciproco”. “Ho cercato di fuggire a nord, ma i Peshmerga mi hanno fermato a un posto di blocco” continua Hussein. “Eravamo migliaia. Solo dopo alcune ore, mentre i miliziani di Daesh sparavano sulla folla e ci inseguivano per tutta la zona, i Peshmerga sono fuggiti e siamo potuti fuggire anche noi”.
Le scene raccontate dai fuggiaschi a Dawodya o a Erbil sono le stesse che riferiscono quelli di Batman, nel Kurdistan turco, o i cristiani fuggiti da Karakosh e Mosul, oggi riparati ad Ainkawa: né l'esercito iracheno, né i Peshmerga del Pdk hanno affrontato Daesh. Un profugo di Makhmur scoppia a ridere quando gli rivolgiamo questa domanda: “Daesh non combatte mai quando entra nelle città: entra in centri ormai disertati dalle forze rivali, e combatte solo quando viene attaccato”. Popolazioni stremate, strati proletari pronti a sottomettersi a qualunque gang pur di sopravvivere, gente oppressa da decenni, che non aspetta altro che l'amministrazione della vita torni ai consigli della sharia che da secoli gestiscono le controversie nelle loro città: è lo sfondo sociale su cui si è inserito in questi due anni lo stato islamico con i suoi convogli di pick up incolonnati sulle autostrade, contro cui molti arabi sunniti, al di là delle opinioni politiche, hanno ritenuto di non aver voglia, motivo o possibilità di combattere.
Majid è arabo sunnita, ma viene da Singal, città a maggioranza ezida. Non ha ritenuto di dover restare e appoggiare i nuovi invasori. “Avevamo visto in TV quel che avevano fatto nelle altre città: uccidevano i soldati e i poliziotti, e mio fratello è poliziotto. Inoltre avevamo parenti a Qamishlo [in Siria, Ndr] che ci avevano detto per telefono: arriveranno e diranno di non voler fare del male a nessuno, poi inzieranno a uccidere poliziotti e soldati”. Sahid è torcomanno, di Mosul. Quando gli chiediamo la sua confessione religiosa, si spaventa: siamo tutti uguali, dice preso da una specie di panico: sunniti o sciiti, non fa alcuna differenza. Come quasi tutti i turcomanni di Mosul, è sciita: una fede che verrebbe rispettata da Baghdad in giù, ma che nel nord dell'Iraq può creare solo problemi. “Quando i quartieri ovest di Mosul sono stati occupati da Daesh abbiamo deciso di andarcene. Ci avrebbero ucciso tutti per la nostra religione” confessa.
Giura che il governo di Mosul, prima dell'arrivo di Daesh, era ottimo, che non c'era alcun problema. Nei quartieri ovest in cui viveva, spiega un altro uomo – padre di famiglia arabo ma cristiano – stava anche la gente più facoltosa, tra cui molti cristiani e curdi. Il lato est, oltre il Tigri, è la parte della città dove vivono le masse diseredate arabe musulmane, ci dice: lì, nei primi giorni, l'Isis ha imposto il suo potere, per poi giungere sull'altro lato, dove la gente è fuggita all'impazzata. Nonostante la rapidità della conquista della città, sarebbe sbagliato pensare che il potere salafita sia giunto dal nulla: “Io non andavo più a Mosul dal 2004, nonostante a volte ne avessi bisogno per ottenere dei documenti” racconta Hussein; “Ben prima di Daesh i salafiti erano pronti ad aggredirci o ucciderci se solo ci vedevano per strada. Perchè avrei dovuto andare in un posto così?”; e i cristiani di Ainkawa, per la maggior parte assiri, raccontano delle tasse che i salafiti pretendavano dalle famiglie non musulmane ben prima dell'invasione dell'Isis.
“Non c'era Daesh, ma c'era Al-Qaeda [che già aveva preso il nome “Stato islamico in Iraq”, Ndr]. Hanno sempre assassinato cristiani a Mosul, ma non credere che con gli sciiti vada meglio: alcuni di loro hanno ucciso un cristiano a Baghdad, l'altro giorno, perché vendeva delle birre”. Jabal è ezida, ha una buona istruzione e insegna nel campo dal mattino alla sera tutti i giorni, per 140 dollari al mese; implora una raccomandazione per lavorare come traduttore presso i giornalisti occidentali. Tutti gli danno ragione quando dice che le minoranze, in Iraq, avrebbero bisogno di protezione internazionale: “Basterebbero dieci soldati dall'Europa per proteggere Singal” dice un uomo turcomanno dall'altro lato del prefabbricato in cui siamo seduti, evidenziando il carattere mitico che qui, nel bene o nel male, assume l'immagine della forza militare straniera.
La richiesta di forze straniere va di pari passo con la protesta ingenua per il loro comportamento: “Ho visto con i miei occhi un aereo Usa sorvolare un convoglio di Daesh e aspettare che tutti i miliziani fossero in salvo prima di colpire il furgone vuoto” afferma il Mukhtar ezida del campo. Hussein gli fa eco: “Per sette giorni Daesh ha massacrato, stuprato e terrorizzato a Singal e dintorni. Soltanto dopo gli americani hanno iniziato a bombardare”. Racconta la fuga sulle montagne, la morte di un suo anziano conoscente per fame: era rimasto nascosto nella sua casa, in un villaggio abbandonato, e nessuno l'aveva visto, ma tutto attorno c'erano soltanto miliziani. “L'occidente è potente, può controllare il mondo: perché non può sconfiggere Daesh?” chiede furente un signore torcomanno, concludendo con la tipica frase: “Fanno tutto per il petrolio”. Un ragazzo sui vent'anni interviene: “Non dovete chiederci queste cose, i rapporti tra Daesh e l'America. Siamo gente senza educazione, non possiamo comprendere la politica. Io ho dovuto lasciare Mosul, è due anni che non vado a scuola”.
Chi ricostruirà la verità, le responsabilità personali e politiche, gli eventi e il contesto? I testimoni appaiono traumatizzati e impauriti, regolarmente preoccupati che le loro risposte possano innescare processi o conseguenze che non riescono a controllare. Da un lato, hanno timore a raccontare le loro storie; dall'altro, vorrebbero che esse provocassero come per magia benefici evidenti e immediati, e per questo non di rado sembrano soltanto in parte sinceri, come fossero impegnati ad aggiungere o sottrarre particolari che ritengono rilevanti, al fine di produrre a loro volta una narrazione senza chiaroscuri, dove tutto dev'essere semplice e coerente su dove sta il bene e dove sta il male. Testimonianze già raccolte dalle Ong occidentali, dal governo curdo, dalle Nazioni Unite e che ciononostante, in questa forma schietta, non hanno mai raggiunto le pagine dei nostri quotidiani: le popolazioni dell'Occidente devono a loro volta restare all'oscuro, percepire l'Iraq come un mondo incomprensibile da cui emerge soltanto una barbarie incontrollata, che può giustificare imperscrutabili tempistiche di guerra.
Le testimonianze di questi profughi raccolte dai poteri locali e internazionali, con mezzi ben più potenti e capillari di qualsiasi organo d'informazione indipendente, saranno filtrate da molteplici interessi e dalle coscienze sporche di centinaia di istituzioni, prima di finire sul tavolo di qualche ricercatore isolato e lontano, magari a sua volta preoccupato – come spesso accade – di non urtare questa fazione o quel governo. Con il tempo, l'inquinamento dei fatti e la loro organizzazione storico-concettuale, funzionale a questa o a quella narrazione della storia, prevarrà. La verità sulle conquiste dello stato islamico rimarrà per lo più sepolta nei giorni caotici dell'estate 2014, in cui tanto i politici di Baghdad quanto quelli di Erbil decisero di lasciare migliaia di città e villaggi al loro destino – con gli Stati Uniti a sorvolare dall'alto, senza intervenire. Fu geopolitica, calcolo cinico e assestamento di interessi regionali, o autentica insurrezione islamista, secessione di un pezzo di terra secondo la legge del corano e di Dio?
Appare chiaro – né sussiste contraddizione – che fu entrambe le cose; e a farne le spese furono queste persone, obbligate a vivere in tende o baracche con cinquanta o con meno dieci gradi, vittime dei razionamenti alimentari, delle paludi di fango e del vuoto di giornate vissute negli spazi aperti di cieli e montagne che paiono loro, tuttavia, prigioni. Sono tutti, senza quasi eccezione, impazienti di prendere una qualsiasi barca per l'Europa, una qualsiasi via lontano da qui; e non ritengono rilevante che forse moriranno nell'Egeo, saranno picchiati sotto il filo spinato macedone o stipati in gabbie dai poliziotti francesi a Calais. Questa storia se la vogliono lasciare alle spalle a tutti i costi, e a loro poco cambierà che cosa, un giorno, scriveranno gli storici. “Soltanto il Pkk ci ha aiutati, quando scappammo da Singal” dice Hussein. Jamal parla sottovoce, mentre passiamo in una via stretta tra due caravan: “Vorrei che a Singal governassero le Ypg”. Lo dice con aria circospetta, temendo che qualcuno del personale del campo lo possa sentire: “Sono gli unici che aiutano le persone per il solo fatto che sono persone”.
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Turchia
e Unione Europea hanno appena siglato l'accordo sul blocco
dell'emigrazione clandestina verso l'Europa, che darà il
via anche
a migliaia di rimpatrii forzati. Nelle settimane scorse
migliaia di migranti hanno continuato a raggiungere le
coste europee dal medio oriente. Non di
rado si tratta di migranti siriani, per lo più musulmani
(anche se non solo). Il ritratto di queste persone varia
dalla rappresentazione
pietistica del “profugo” che scampa al massacro e perciò
potrebbe essere accolto, a quella cinica che vede in esso
un lavoratore in
cerca di salario, che quindi deve essere respinto, fino a
quella che vede i migranti musulmani come barbari che
distruggeranno la “nostra”
civiltà. Come sempre accade, però, la realtà è più
complessa di tutte queste semplificazioni.
Abbiamo intervistato uno di loro, uno che, come molti, ha lasciato la Siria a causa della guerra, e si trova in uno dei paesi “di transito”: nel suo caso è il Kurdistan iracheno, come altri sono inizialmente in Turchia, o in Libano. Come tanti migranti che sono ancora in medio oriente ha un titolo di studio, problemi di lavoro e di permesso di soggiorno. Rivendica la sua partecipazione ai processi politici che hanno innescato l'attuale crisi regionale, ed è consapevole dei rischi che corre chi decide di partire per l'altra sponda del mediterraneo, ma è pronto a correrli. Una vicenda come migliaia di altre, diversa da ciascuna delle altre, ma che può contribuire a restituire uno spicchio di concretezza all'umanità che si mette in viaggio da oriente a occidente, all'altezza del 2016.
* * *
Tu sei siriano, ma vivi a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Puoi raccontarci la tua storia?
Sono nato e cresciuto a Damasco in una famiglia di origine palestinese, anche se della vicenda palestinese non so molto, è un legame che la mia famiglia ha perso con il tempo. Sono arrivato a Erbil due anni fa per giocare in una squadra di calcio locale. Il calcio è la mia passione e la mia professione, anche in Siria ero calciatore. Francesco Totti è uno dei miei idoli. Ho cercato di farmi comprare da una squadra irachena per evitare il servizio militare in Siria, a causa della guerra. Se sei studente universitario, in Siria puoi chiedere il rinvio. Io ero studente in ingegneria alimentare e atleta universitario, quindi ho potuto chiedere il rinvio, ma quando ho finito l'Università non era più possibile.
Come ti sei trovato in Iraq?
Insomma… La squadra di calcio per cui giocavo mi pagava pochissimo, ben sapendo che avevo bisogno del contratto per rinnovare il permesso di soggiorno, e che per me l'obbligo di ritornare in patria avrebbe significato combattere. Dopo un anno e mezzo, il mio contratto non è stato rinnovato e mi sono ritrovato disoccupato. Per me è stato un duro colpo, in primo luogo perché per me lo sport è tutto, mi basta stare una settimana senza giocare e vado fuori di testa; in secondo luogo perché entro pochi giorni mi vedevo già a combattere in una guerra in cui non credo.
Perché non ci credi?
Non ha più niente a che fare con il modo in cui era iniziato. Un evento così grande, in cui ora sono coinvolte molte fazioni siriane e stati mondiali, era iniziato da un evento molto piccolo. Cinque anni fa, in Siria, era tutto tranquillo. Unica cosa: accadevano tumulti in Tunisia e in Egitto, e da noi si sapeva. Era il 2011. Un giorno, tre ragazzini di una scuola di Dera, una scuola media superiore, hanno scritto sulla lavagna a mo' di sfregio, durante un cambio d'ora: “Non ci piace il presidente”. I professori sono andati su tutte le furie per questo episodio, che come vedete era davvero ridicolo, una cazzata.
Hanno chiamato la polizia, che ha portato i tre ragazzi in prigione e li ha torturati: hanno strappato loro le unghie dalle mani! I genitori di questi ragazzi erano sconvolti e si sono recati sia a scuola, sia alla polizia per chiedere scusa, per dire che non sarebbe successo mai più, ma che li lasciassero liberi. Sapete qual è stata la risposta? Andate a fare altri figli, perché questi non li rivedrete più.
Queste persone, le famiglie dei ragazzi, erano persone molto chiuse, molto tradizionali. Hanno fatto un gesto che per loro era estremamente difficile: si sono tolti le kefiah dal capo e le hanno posate sulla scrivania dell'ufficiale di polizia. Per loro, nella loro mentalità, era il segno massimo di prostrazione verso l'autorità, un'umiliazione completa, la sottomissione senza compromessi alla polizia. Hanno ripetuto, dopo questo gesto: “Vi preghiamo, rilasciate i nostri figli. Vi chiediamo perdono per ciò che hanno fatto, e vi giuriamo che non succederà più”. La risposta è stata nuovamente: fate nuovi figli, perché questi non li rivedrete.
La storia è girata su facebook e duecento persone vicine alle famiglie si sono radunate sotto la stazione di polizia, per chiedere la liberazioni dei ragazzi. Un manifestante è stato ucciso dalla polizia. Per questo fatto, il giorno dopo erano mille e la protesta si era estesa a Homs, dove ne hanno uccisi due. La situazione era ancora recuperabile per il governo. Sarebbe bastato destituire il capo della polizia di Dera, come chiedeva la gente, ma non lo fecero perché aveva un grado di parentela molto stretto con il presidente Assad. Così si giunse a 500.000 persone in piazza. A quel punto Assad, che è un uomo davvero furbo, ha creato Daesh, in modo da poter dire: ecco, vedete, l'opposizione in Siria è Daesh. Ma non era vero, le cose erano andate come vi ho detto.
Tu hai partecipato alle manifestazioni?
Sono sceso in piazza anch'io quando la polizia ha ucciso un mio amico. Non esiste che un giorno c'è un tuo amico e il giorno dopo non c'è più, senza alcun motivo. C'erano manifestazioni enormi, cose di massa. Poi ho visto che cominciavano a spuntare gruppi armati… Me ne sono subito allontanato, non era una cosa che faceva per me.
Pensi che ci siano state anche cause più profonde dell'episodio dei tre ragazzi?
Forse c'era qualcosa più grande di noi, e noi non lo sappiamo; ma per come lo abbiamo vissuto noi, è stato molto semplice, il governo aveva esagerato. La Siria, per me, era veramente un paese felice. Stavamo bene, avevamo gratis le migliori università del medio oriente, assistenza sanitaria efficiente e gratuita, prezzi molto bassi, qualità ottima del cibo. Non era come qui in Iraq, dove ogni momento salta la corrente e dai rubinetti non arriva acqua potabile. Dai nostri rubinetti arrivava acqua fresca di qualità ancora superiore a quella imbottigliata.
Avevamo una buona produzione industriale, in tutto il medio oriente si compravano i vestiti prodotti ad Aleppo. L'unica cosa, e lo sapevano tutti, era che nessuno doveva toccare il presidente. Era come un patto prestabilito tra Assad e il popolo: i siriani stavano bene e non erano toccati né dai problemi del Libano o della Palestina, né dalle guerre che hanno devastato l'Iraq; in compenso, però, dovevano sapere che la poltrona di presidente era sua e basta. I fatti di Dera hanno rotto questo equilibrio, perché le famiglie dei ragazzi avevano chiesto scusa, si erano umiliate di fronte alla polizia, eppure erano state trattate con disprezzo.
Tutte queste fazioni che sono sorte? Il coinvolgimento internazionale?
Questo è venuto dopo. Come dicevo, noi non possiamo sapere, né possiamo escludere, che gli americani abbiano iniziato a dare armi, che si siano introdotti interessi stranieri nella nostra rivolta. Ma è stato un passaggio successivo alla nostra mobilitazione, almeno per come lo vedo io. Oggi ciò che è rimasto è una guerra che spero finisca il prima possibile, perché sta soltanto distruggendo la Siria. Appena finirà, tornerò nel mio paese, perché è un paese bellissimo.
Ora, però, sei qui in Iraq, e sei mesi fa hai perso il lavoro.
Sì, e questo ha provocato in me una dura crisi esistenziale. Avevo deciso che, piuttosto che combattere in Siria, sarei andato in Europa clandestinamente, attraverso la Turchia e la Grecia. Mi sono trovato senza punti di riferimento, in una situazione oscura, ho cominciato a farmi molte domande sul senso della vita. Ho comprato dei libri di filosofia pensando questo mi potesse aiutare, ma è stato ancora peggio.
In che senso?
E' stata un'esperienza così brutta che ho difficoltà persino a parlarne, ne ho ancora paura adesso. Per tre mesi ho letto Aristotele e altri filosofi e ho cominciato a prendere in considerazione l'idea che Dio non esistesse: per me la vita stava perdendo completamente di senso. Se Dio non esiste, non c'è una spiegazione al mondo. Ho letto di varie teorie filosofiche ma non offrono mai delle prove, ad esempio si limitano a dire “il mondo è iniziato con il big bang”, ma non spiegano che cosa ha causato il big bang. Al tempo stesso provocano dei dubbi circa la religione che mi hanno fatto stare veramente male. Immagina che significa crescere dando per scontato che il senso del mondo è nella parola di Dio, che esistono il bene e il male, che c'è un'altra vita dopo questa e che la morte non è la fine di tutto – e improvvisamente dubitare di tutto questo.
Come è andata a finire?
Sono caduto in un enorme sconforto. Il peggiore dei filosofi che ho incontrato, quello che mi ha fatto stare più male, è stato Karl Marx. Quel tizio dice delle cose… Non voglio neanche pensarci. Per fortuna ho avuto il conforto di mio fratello minore, che è una persona veramente forte. Mi ha aiutato a uscire da quei tre mesi in cui avevo anche cominciato a bere e a passare le notti con delle ragazze. Mio fratello si era appena laureato in fisioterapia in Siria e mi aveva raggiunto, mi ha riportato sulla via della fede. Da allora sto bene, ma mi sento ancora un po' frastornato.
Grazie all'aiuto e alla compagnia di mio fratello ho anche trovato un lavoro in un centro commerciale. Ho un incarico direttivo in un supermercato, dove posso sfruttare le mie competenze universitarie, anche se, essendo sempre stato un atleta, mi manca l'esperienza. Mi hanno anche offerto un posto pagato meglio a Bassora, nel sud dell'Iraq, ma rifiuterò: non voglio trovarmi nella stessa situazione da cui sono fuggito.
A Bassora non c'è la guerra.
In teoria. Io sono sunnita, e laggiù i sunniti non sono ben visti; magari mi ucciderebbero dopo neanche un mese, come faccio a saperlo? Nel supermercato di Bassora della mia catena qualche mese fa un lavoratore ha un ucciso un collega.
Era sunnita?
No, entrambi sciiti.
Per questione religiose?
No, politiche. Gli sciiti hanno le loro fazioni e i loro partiti, e c'è sempre violenza. La nostra azienda ha spiegato che saremmo inseriti in un compound residenziale proprio di fronte al supermercato dove lavoreremmo, ma questo non annullerebbe i rischi. L'omicidio di cui parlavo prima è avvenuto sul luogo di lavoro. Inoltre non capisco che vita sarebbe stare sempre chiuso in casa per paura della gente: io voglio guadagnare, ma voglio anche vivere, altrimenti non ha senso. Qui ho anche ricominciato a giocare regolarmente a calcio, organizzo pure partite di basket con i curdi più simpatici che ho trovato qui. Insomma, sto meglio, e spero che la guerra in Siria finisca presto, per poter tornare.
Che cosa pensi dell'Iraq?
È un paese incredibile. Per l'aria che si respira, per questa atmosfera strong. Questa gente non ha mai avuto pace.
Prima del 2003, forse.
Neanche: prima del 2003 c'era l'embargo, e qui in Kurdistan c'era la guerra tra i curdi [Guerra civile del 1992-1998 tra Pdk e Upk, Ndr]. Prima ancora la guerra del 1991, le rivolte curde e sciite, e prima la guerra con l'Iran. Questo paese non ha mai avuto pace ai tempi di Saddam Hussein, né dopo. Per questo qui c'è questa tensione, la gente ha sempre avuto problemi, c'è sempre stata violenza. Guarda come tutti qui si comprano macchine grandi, Ford, Toyota o Nissan, perché hanno bisogno di qualcosa di strong per sentirsi forti e proteggersi dall'ambiente che li circonda.
Cosa pensi del Kurdistan iracheno?
Questa è gente che veniva sterminata sulle montagne e conosceva soltanto povertà e guerra, e la cui leadership nel 2003, improvvisamente, si è trovata ad essere ricca. Si sono trovati ad usare l'immensa quantità di petrolio del Kurdistan, ad essere multimiliardari. Il paese che hanno costruito adesso ha molti problemi economici, la gente sta male. L'economia è legata esclusivamente al petrolio, e appena si abbassa il prezzo del petrolio, le finanze del paese crollano.
Questo è anche dovuto alla scarsa lungimiranza dei leader curdi. Non hanno costruito un'economia, una produzione, delle fabbriche; hanno basato tutto solo sul petrolio, hanno costruito grandi hotel e centri commerciali. Questo sarebbe dovuto venire dopo, dopo lo sviluppo di un'economia vera; invece il Kurdistan importa i prodotti dalla Turchia, dalla Giordania, dal Libano, dal Qatar, e quintali di serie televisive idiote dall'India. Non esporta nulla se non petrolio. A chi governa il Kurdistan fa comodo avere un popolo di soli consumatori, ingannati dalle pubblicità dei centri commerciali, ma non è un buon investimento per il futuro.
Questo paese, come il tuo, è lacerato da conflitti che mettono al centro l'identità religiosa. Cosa ne pensi?
È molto negativo. Ci dovrebbe essere rispetto reciproco. I cristiani sono diversi da noi perché credono che Gesù sia risorto, e perché aggiungono a Dio anche il Figlio e lo Spirito Santo; tutto qui. Se ci pensi, è nulla. In Siria abbiamo sempre vissuto mescolati, io stesso sono stato sul punto di sposare una cristiana, mio zio lo ha fatto a sua volta. Qui in Iraq è diverso, purtroppo. Tutti i cristiani sono confinati ad Ainkawa, e ci sono conflitti tra sciiti e sunniti. Io sono sunnita, so come il conflitto con gli sciiti duri da quattordici secoli, e per me molti aspetti del credo sciita (in particolare la tendenza all'autoflagellazione) sono assurdi; ma gli scontri tra musulmani dovrebbero finire, come sono finiti quelli tra cristiani.
In materia religiosa ci dovrebbe essere totale libertà, almeno fino a che non si danneggiano gli altri. Se esco per strada nudo, creo un problema; ma se esco con i pantaloni più o meno attillati, non faccio male a nessuno. Personalmente non apprezzo le donne che vanno al lavoro vestite come se andassero a una festa, ma è una loro scelta, così come quella di portare il velo; semmai credo che chi porta il velo debba coprirsi davvero, non usarlo come un articolo alla moda; ma se non lo vuole usare, non lo deve usare. Per questo credo anche che la Francia sbagli a vietare il velo nelle scuole, così come sbaglia la Siria a impedire ai cristiani di portare collane con il crocifisso durante il servizio militare. Sono tutte limitazioni sbagliate della libertà.
Hai toccato un argomento molto delicato: le donne e la loro libertà. Quando ti sposerai, permetterai a tua moglie di lavorare?
Sì, lo permetterò. Solo, non in posti come il mio supermercato: là gli uomini sono pazzi, non hanno rispetto; sono pronti a rivolgere la parola a una collega, senza curarsi se è sposata o no. In Siria non ci sarebbe questo problema, ma purtroppo qui in Iraq c'è troppa gente che non sa come comportarsi. Però ci sono «respect companies», aziende che si dotano di una propria etica aziendale e fanno più attenzione al rispetto che alle donne è dovuto sul luogo di lavoro. Dal momento che io rispetterò mia moglie, vorrò che lavori in una di queste aziende; ma è una sua scelta se lavorare o no.
Un'ultima domanda: cosa pensi di ciò che viene chiamato “Occidente”?
Penso che gli Stati Uniti, e soprattutto il Canada, l'Australia e la Nuova Zelanda, siano i posti dove sarebbe meglio emigrare, dove l'economia è migliore e c'è più reddito, più lavoro. L'Europa non è agli stessi livelli, sebbene magari sia più bella da vedere e abbia più storia. L'Italia e la Grecia, ad esempio, sono paesi dove non si vive bene, dove c'è crisi economica; questo è risaputo. Per questo tutti, se vanno in Europa, vogliono raggiungere la Danimarca, l'Olanda, la Svezia, l'Inghilterra.
Il problema è che c'è tanta ignoranza; così come da voi molti pensano che noi siamo tutti come Daesh (anche se ammetto che abbiamo delle responsabilità per questo), così qui la gente pensa che l'Europa sia il paradiso, ma non è vero. Bisognerebbe viaggiare, vedere di persona, non fidarsi delle televisioni. Questo è difficile. So che un giorno, forse, dovrò decidere di emigrare in Europa. Allora avrò grandi difficoltà.
Non hai paura di finire annegato in mare, come tanti migranti in questi mesi?
No, non ho paura. Se avrò scelta, eviterò di correre questo rischio; ma come sappiamo, a volte la scelta non c'è.
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Quando
eravamo a Istanbul, i compagni della rivista Demokratik
Modernité ci avevano
avvertito: presto sentirete parlare delle compagne e dei
compagni curdi iraniani tanto quanto oggi si parla del
Rojava. Payman Viyan e Rozerin
Kemanger sono i portavoce del Kjar (Congresso della società
delle donne libere del Kurdistan orientale), e ci rechiamo a
Suleimaniya per
intervistarle. Qui, nel Kurdistan iracheno meridionale
controllato dall'Upk, i movimenti della sinistra curda hanno
una limitata agibilità. Il
Kjar è un tentativo di riunire, in Iran e nel Kurdistan
iraniano, tutte le donne decise a lottare contro “il
razzismo, le discriminazioni
di genere nelle diverse strutture sociali, il governo, il
patriottismo e il nazionalismo, la religione, la scienza e
la concezione patriarcale”.
[Rojhelat.info]
Il Kjar agisce in tutto l'Iran, sebbene il suo centro di irradiazione sia il Rojhelat, “l'Oriente”, ossia quello che i curdi considerano l'est del Kurdistan, oggi compreso entro i confini iraniani (nel nord-ovest del paese). I curdi che vivono in Iran sono tra i cinque e i sei milioni; storicamente, sono gli unici ad aver proclamato (anche se per pochi mesi, prima di essere duramente repressi) uno stato indipendente, la Repubblica di Mahabad (1944). Le donne curde che animano questo congresso agiscono in sintonia con il Kodar (Congresso della libera società democratica del Rojhelat) e con il Pjak. Il Pjak è il Partito della vita libera in Kurdistan, creato nel Rohjelat nel 2004, di cui tanto Peyman quanto Rozerin fanno parte.
Dalla sua fondazione, come Kodar e Pjak, il Kjar fa parte dell'Unione delle comunità del Kurdistan (Kck) assieme al Pkk del Bakur-Basur e al Pyd del Rojava, e ai rispettivi congressi popolari Dtk e Tev-Dem, che hanno un corrispettivo curdo-iraniano nel Kodar. Il Kjar, come il Pjak, è dotato delle proprie forze armate e non partecipa al processo elettorale, considerando illegittimo il Consiglio dei guardiani della rivoluzione della Repubblica Islamica dell'Iran, che filtra l'ammissibilità delle liste elettorali. Assieme al Pjak, il Kjar è considerato organizzazione terroristica dall'Iran e da altri stati del medio oriente e del mondo. Ci sediamo con Peyman e Rozerin in un caffé e rivolgiamo loro alcune domande.
* * *
Potete dirci qualcosa su come è nato il vostro movimento, sul vostro progetto politico e le vostre idee?
Rozerin: Siamo due militanti del Kjar. Il primo congresso del Kjar si è tenuto nel 2014. Prima esisteva il Yjrk (Donne unite del Kurdistan orientale). La differenza è che, se il Kjar mantiene un particolare radicamento tra le donne curde, si rivolge a tutte le donne dell'Iran. In Iran vivono molte comunità linguistiche: azeri, curdi, arabi, persiani, turcomanni; dal momento che all'interno di tutte queste comunità le donne fanno fronte a gravi problemi, il Kjar intende dare voce alle donne di tutte queste comunità, a tutte le donne che vivono in Iran.
La politica del governo iraniano non è accettabile. Il personale politico delle attuali istituzioni è composto da esponenti di tutte le comunità, ma impone un potere oppressivo alla società iraniana. Le donne del Kjar hanno un diverso orientamento politico e sono una grande opportunità per il Kurdistan. In passato le donne curde iraniane erano focalizzate sostanzialmente sul Rojehlat, ma oggi sono attive in tutto il Kurdistan. Come donne curde abbiamo un grande potenziale in Iran, ma il regime non ci permette di avere accesso alla vita pubblica. Il coordinamento del Kjar è composto da nove donne. Non sono soltanto le donne del Pjak che animano il Kjar, anche altre; anche quelle vicine a movimenti curdi come il Pdk-Iran e Komal possono partecipare se lo desiderano. La nostra base è Qandil [area montuosa dell'Iraq orientale, al confine con l'Iran, Ndr], ma la nostra azione si dispiega su tutto il Rojhelat e su tutto l'Iran.
Come vivete lo scontro con il regime iraniano?
R: La maggior parte delle donne iraniane accettano la politica del regime, ma è perché non hanno alternative. Per questo molte donne giungono al suicidio, anche pubblico, dandosi fuoco. Il Kjar intende offrire un'alternativa alle donne iraniane. Siamo dotate delle nostre forze armate, le Hpj, che contano migliaia di combattenti sulle montagne; esistono diverse commissioni del congresso, ad esempio per le giovani, per gli aspetti medici, per quelli diplomatici e per le relazioni esterne. Abbiamo anche il settore sociale, che si chiama “Salva te stessa”. Il Kjar si rapporta con il Kodar (Congresso della libera società democratica del Rohjelat), anche se il Kodar è composto da donne e uomini, il Kjar soltanto femminile. Ciò che ci avvicina al Kodar è la comune ideologia, ossia il pensiero di Abdullah Ocalan.
Le combattenti del Kjar sono un esempio per tutto il mondo. Ciononostante, subiamo una dura repressione da parte del governo iraniano. Diversi compagni e compagne del Pjak e del Kjar hanno subito la pena capitale, di recente, in Iran: ad esempio Shirin Alamhvli, Ferzad Kaman, Ferhad Vakili, Ali Heyder. Sono stati uccisi nonostante non facessero parte della nostra ala armata, ma fossero semplicemente militanti politici. Le loro esecuzioni sono avvenute nel 2010.
La compagna Zeyneb Celaliyan è in prigione dal 2008 e ha gravi problemi di salute, ma il governo non accetta di permettere che possa avere le cure di cui ha bisogno. Zeybeb è accusata di essere parte del Pjak, ma noi non lo accettiamo, Zeybeb è una donna impegnata nella politica, non una guerrigliera. Esiste una campagna estesa a tutto il mondo, portata avanti anche in Europa e negli Stati Uniti per la sua liberazione, anche con raccolte di migliaia di firme, ma il governo ha al contrario inasprito le sue condizioni di detenzione. Zeyneb è un grande esempio per tutte le donne, per la libertà. La capacità di resistenza che sta dimostrando è enorme. Inutili sono stati i tentativi del governo di ottenere da lei una dissociazione dal nostro movimento.
I nostri combattimenti con l'esercito iraniano sono frequenti. Zilan Pepula è stata la prima martire del nostro movimento femminile quando, nel 2006, si chiamava ancora Yjrk. L'idea che ci anima è continuare sempre, tutti i giorni, non fermarsi mai; ma dobbiamo dire che il governo ha la stessa tenacia.
Quali sono i principali problemi delle donne iraniane?
R: Il governo non vuole che le donne siano attive; le vuole a casa, lontane da ogni attività sociale o politica: è un'ideologia pensata per gli uomini; l'identità islamica viene usata per gli uomini contro le donne. Nelle famiglie iraniane, attualmente, le donne possono lavorare soltanto con il permesso del marito.
Ci sono diversi casi di cronaca che mostrano quale sia la situazione che viviamo. Una donna, Rihani Jabari, è stata condannata a morte e uccisa per essersi difesa dall'aggressione di un uomo, che è culminata con la morte dell'aggressore. E' successo a Mahabad. Farinaz Kosteiani è stata aggredita da un albergatore che ha tentato di stuprarla, e per sfuggirgli si è gettata dal quarto piano, uccidendosi. L'aggressore non è mai stato processato e il governo ha detto che il problema era della donna.
Su un piano diverso e meno cruento, sono note anche limitazioni per quanto riguarda l'abbigliamento.
R: In Iran non potremmo mai vestirci normalmente, come facciamo qui, nel Kurdistan iracheno. Dobbiamo uscire sempre velate, soltanto il volto può restare scoperto.
Mettete in piedi anche dei progetti per l'indipendenza economica delle donne?
R: C'è un progetto importante su questo, ed è legato al settore sociale del Kjar, cui abbiamo accennato.
Quali altre attività organizzate?
R: Alle donne è proibito cantare in Iran; questo non è accettabile, quindi organizziamo anche attività culturali. Le donne curde non possono parlare la loro lingua, quindi organizziamo attività linguistiche. Le donne hanno un diritto naturale a esercitare un ruolo importante nella vita sociale, ma il governo reprime ed elimina questo diritto.
Un altro nostro importante sforzo riguarda la lotta nel resto del Kurdistan. Le donne di Kobane e del Rojava sono un grande esempio per noi, per questo molte donne curde d'Iran, ed anche molte persone, davvero tante, da tutto l'Iran sono andate a combattere in Rojava. La ragione è che crediamo nelle istituzioni che il Rojava sta costruendo e ci riconosciamo, come detto, nel pensiero di Apo [Abdullah Ocalan, Ndr].
Abbiamo avuto molte martiri in Rojava: Amir Karimi, Ilam Kehor, Dicle Selmas, Rojan Urumije, Uiyar Maku solo per citarne alcune. Uiyar Maku era anche una cantante molto nota in Iran, potete cercare le sue canzoni su youtube.
Quando avete avuto gli ultimi combattimenti significativi con l'esercito iraniano?
R: Nel 2011 l'Iran ha bombardato il monte Qandil in Iraq, tentando di indebolirci, e ci sono state anche incursioni di terra, ma la battaglia è stata a noi favorevole. Ci sono stati scontri armati e bombardamenti anche entro i confini iraniani. Da quella volta l'Iran ha valutato diversamente la forza della nostra organizzazione e non ci sono stati più attacchi, ma siamo pronte a difenderci se sarà necessario.
Un articolo su Wikipedia dice che un rappresentante del Pjak è volato a Washington, alcuni anni fa, per carcare l'appoggio degli Stati Uniti. E' vero?
E' un'assoluta falsità. Noi siamo indipendenti e non abbiamo relazioni con nessun governo, compreso quello degli Stati Uniti. Combattiamo contro il governo iraniano, ecco tutto. Nessuno del Pjak è mai andato a Washington. Wiki dice che il Pjak è un piccolo gruppo, ma come può un piccolo gruppo combattere l'Iran? La pagina è palesemente stata creata dal governo. L'Iran ha paura di noi, per questo usa questa propaganda; è tipico delle dittature mentire per screditare il proprio avversario.
In questo momento il medio oriente vede la presenza più o meno massiccia di truppe europee, statunitensi, russe. Qual è il vostro giudizio su questo tipo di presenza?
Peyman: I curdi esercitano un ruolo importante nel medio oriente, quindi tante potenze straniere vengono qui, ma soltanto per i loro interessi. L'esempio più evidente del genere di ruolo che queste forze hanno in questa regione sono stati gli accordi di Sykes-Pikot dopo la prima guerra mondiale, che hanno ridisegnato stati e confini secondo l'agenda europea. Nulla di buono può venire dalla presenza o dall'azione di queste forze.
Adesso gli Stati Uniti sono spaventati dall'evoluzione del fenomeno Daesh, soltanto per questo svolgono un'azione aerea, ma sono i curdi che combattono sul terreno. Se davvero avessero a cuore il destino dei popoli, oggi dovrebbero intervenire per fermare il massacro in Bakur, cosa che non avviene; eppure, se c'è un attentato ad Ankara, tutti si preoccupano e tirano fuori il problema del «terrorismo».
Noi chiediamo: che cos'è ciò che sta facendo il governo turco in Bakur, se non terrorismo? Per le forze speciali anche il feto nel grembo di una donna incinta è terrorista, perché curdo. Se esiste una forza reale, oggi, in medio oriente, ed è la gente che combatte e lotta nelle quattro parti in cui il Kurdistan è diviso. Questa è forza.
Ora, improvvisamente, Stati Uniti e Iran sono diventati amici, ma tutto questo non riguarda le popolazioni dei due paesi: i rispettivi governi se ne fregano delle popolazioni. Ciò che esprime forza reale in questo momento sono le donne e gli uomini che combattono Daesh in Kurdistan. Nessun reale aiuto può venire dalle forze straniere. La gente in Iran soffre. Nel frattempo, in Bakur e Rojava c'è la guerra. Il governo iraniano ha molta paura che ciò possa accadere anche nel Rojhelat.
Che cosa pensate dell'idea proposta da Ocalan, di istituire una forma di convivenza basata sul «confederalismo democratico»?
P: E' ciò che stiamo facendo in Rojehlat, è ciò per cui esistiamo politicamente. Stiamo costruendo il confederalismo democratico e l'autonomia democratica nel Kurdistan iraniano, attraverso il congresso generale e quello delle donne. Progettiamo scuole in lingua curda o nelle lingue native di altre popolazioni iraniane, esattamente come accade in Bakur e Rojava. E' un inizio, un progetto, e la repressione è forte: ma noi cominciamo questo processo.
Credete che ci sarà una rivoluzione in Iran?
Rozerin: Certo! Questo è sicuro. Bisogna solo vedere quando. Il governo ha molta paura di ciò che può accadere in Rojhelat. Stiamo solo aspettando... ma voi aspettatevi la nostra rivoluzione.
Siete molto determinate. Non credete che lo stato iraniano sia troppo forte per permettere una cosa del genere?
R: Non potete neanche immaginare che cosa il Rojava ha messo in moto nel Rojhelat...
Nel corso di questo viaggio abbiamo incontrato anche donne palestinesi, a loro volta impegnate in una dura lotta di liberazione. Volete mandare loro un messaggio da donne curde iraniane che combattono per la libertà?
Peyman: Lottiamo per la libertà di tutte le donne e di tutti i popoli, le donne palestinesi lottano per la loro libertà, sono combattenti e sono martiri. Combattono per aumentare il proprio potenziale, la propria libertà e il proprio potere. La loro è una lotta vittoriosa. Hanno diritto a vivere una vita libera, e in ogni caso noi crediamo nel potere popolare, e la lotta che hanno costruito negli anni Cinquanta e Sessanta in Palestina è un'eredità importante per tutti da questo punto di vista.
Quando diciamo questo non intendiamo rigettare Israele, ma Israele deve dare al popolo palestinese il potere che gli spetta. Non sentiamo ostilità nè per la popolazione palestinese, nè per quella israeliana. Tutte le persone e tutte le idee possono trovare un luogo dove vivere. Sono i governi che sbagliano, non i popoli. Ci auguriamo che queste persone possano trovare la pace.
Per concludere, potete dirci come siete arrivate a questa scelta rivoluzionaria, che cosa vi ha spinto ad abbracciare un sentiero così bello ma pericoloso?
Peyman: Da adolescente vivevo in Rojhelat e vedevo ogni giorno qual era la violenza che il governo iraniano imponeva alle donne. Quando ho letto i libri di Apo e ho conosciuto le idee della guerriglia, ho deciso di andare a combattere in montagna anch'io. Avevo 17 anni. Adesso sono undici anni che svolgo la mia attività politica per quest'organizzazione in Iraq.
Rozerin: Per me un fattore scatenante sono state le notizie riguardanti le esecuzioni capitali. Ogni volta che vengo a sapere che qualcuno è condannato a morte, ne soffro. Quando sono venuta a conoscenza delle idee di Abdullah Ocalan, all'università, ovviamente per vie nascoste, ho pensato di avere un grande potenziale, di avere in me una grande forza per combattere le dittature, e che per me sarebbe stata una grande opportunità iniziare a combattere, e adesso non smetterò mai: combatterò per sempre.
◊◊◊◊◊◊◊◊
Nota:
Questo reportage è stato realizzato alcuni giorni prima
dell'operazione per la liberazione di Mosul, che coinvolge
anche la città di Tel
Afar, da parte delle forze autonome di Pkk e Ybs e di quelle
statali dei peshmerga e dell'esercito di Baghdad. Tutti i
nomi, ad eccezione di quello di
Massud Barzani e quello di Kasim Shesho, sono nomi di
fantasia]
A un'ora di viaggio da Duhok, nell'Iraq settentrionale, il tassista si ferma e parcheggia la macchina ai limiti del deserto. “Devo pregare – dice – perché andiamo a Singal”. Conquistata dallo stato islamico nel 2014, liberata dal Pkk e dalle unità di liberazione ezide (Ybs) nel 2015 e occupata dai peshmerga del Pdk (partito al potere nel Kurdistan iracheno) nello stesso periodo, la città è linea del fronte con i miliziani di Daesh, punto più intenso del conflitto politico in Kurdistan e scenario allucinante dell'orrore prodotto dalle politiche delle superpotenze. Costeggiando il confine con la Siria, avvicinandoci ai monti da cui la città prende il nome, i segni delle violenze dei miliziani salafiti si presentano ai nostri occhi: villaggi distrutti, case bombardate, insediamenti abbandonati. I check-point dei peshmerga si fanno sempre più frequenti, producendo un'atmosfera di guerra, la cui intensità aumenta procedendo verso sud.
Sono calate le tenebre e saliamo da nord sulla montagna dove i villaggi ezidi (nome di una rara confessione religiosa sincretica, diversa tanto dal cristianesimo quanto dall'islam, e per questo da sempre perseguitata) sono trasformati da quasi due anni in grandi baraccopoli. Pareti di compensato, tetti di lamiera, fuochi, lampade ad olio: così vivono le persone che hanno dovuto fuggire dalle loro case, inseguite da fanatici che intendevano sterminarle o ridurle in schiavitù con la scusante della loro diversa religione; un destino che, a molti loro concittadini, è stato in effetti (ed è tuttora) riservato. Queste sono le famiglie tradite dal generale dei peshmerga Kasim Shesho (anch'egli ezida, ma fedele al Pdk di Massud Barzani) che, per ragioni tutt'altro che chiare, ordinò alle proprie truppe di ritirarsi prima dell'arrivo dell'Is, dopo aver per giorni rassicurato la popolazione e averla (secondo diverse testimonianze) disarmata quasi totalmente.
È freddo, sebbene sia marzo inoltrato: in queste zone semi-desertiche, calde di giorno e fredde di notte, enormi slums seguono la forma dei rilievi, con la gente che si stringe in piccoli ripari debolmente illuminati e bambini che scorrazzano per strade buie assieme ai cani. Due distese di luci si notano a valle: Singal a ovest e Tel Afar a est, città ancora in mano allo stato islamico. In mezzo, la linea del fronte; ancora più a est, Mosul, capitale irachena dell'Is, ormai circondata da forze avversarie. La catena montuosa su cui viaggiamo, ribattezzata “Sinjar” dopo la lunga e inesorabile colonizzazione araba del Kurdistan meridionale, scende per tornanti ripidi che conducono alla città.
È la strada da cui scesero incolonnati i mezzi del partito dei lavoratori del Kurdistan nell'agosto 2014, quando accorsero a difendere la popolazione rimasta intrapolata tra la città e la montagna, dove non pochi furono i morti per la fame e gli stenti.
Ai limiti della città compaiono i colori delle Hpg (unità militari del Pkk) e i guerriglieri in caratteristici abiti curdi. Qualche isolato più avanti gli Asaysh – polizia del Pdk – ci accompagnano nel loro ufficio per l'identificazione di rito. Il Kurdistan iracheno è l'unico “stato” presente qui, e controlla la burocrazia degli accessi. Tutto è sottoposto a rigide procedure militari: la città è disabitata, soltanto le diverse forze armate che se ne spartiscono il controllo possono, ad oggi, attarversarla o farla attraversare: dal Rojava, sono le Ybs ezide alleate del Pkk ad avere un sostanziale controllo delle strade; dal Kurdistan iracheno, i peshmerga. A sentire i media internazionali, soltanto questi ultimi (alleati di Stati Uniti ed Europa) sono presenti qui, dopo aver “liberato” da soli la città. Il ruolo e la presenza di Pkk e Ybs è censurato e misconosciuto: reali combattenti della prima e dell'ultima ora contro lo stato islamico, ma indipendenti da qualsiasi governo e animati da idee rivoluzionarie, secondo la narrazione embedded imposta al mondo (che ogni giornalista sa di dover seguire a puntino) non dovrebbero, in effetti, neanche esistere. [La stessa censura incontra in queste ore il ruolo di Pkk e Ybs nella battaglia di Mosul, Ndr].
Gli Asaysh di Barzani non la pensano diversamente. Indagano sulle ragioni del viaggio, si accigliano alle domande sulla guerriglia, vorrebbero rendersi “ospitali” imponendoci la loro asfissiante presenza. Prendiamo posto, invece, in una delle tante case semidistrutte e abbandonate (ma non da topi e zanzare) che sarà difesa nella notte da Heder, ragazzo ezida di ventitré anni, che pure ha avuto il tempo di sposarsi e fare quattro figli. Di pochissime parole, l'aria perennemente triste e spiritata, vive con la famiglia in uno dei tanti campi profughi costruiti dal Pdk a Duhok e, disoccupato, veste qui la divisa dei peshmerga. “Neanche mi pagano. Siamo tutti volontari. Faccio dieci giorni qui e dieci al campo, alternativamente”. Due grosse esplosioni squarciano il silenzio, facendo tremare i vetri di tutta la città: lo stato islamico ha fatto esplodere due autobomba in un villaggio vicino. Seguono colpi di mortaio. La casa di Heder si trova in uno di quei villaggi, ancora in mano all'Is; non sa chi ci sia dentro, né se sia ancora in piedi.
Gli chiediamo se aveva dei rapporti con le persone che gli hanno fatto questo, con le popolazioni arabe dei villaggi circostanti. Sì, è la stringata risposta. Non hai più visto nessuno di loro, da allora? “No”. Difficile descrivere il suo sguardo perso nel vuoto, sprofondato forse in cose che non vuole o non può spiegare. Il 3 agosto 2014 centinaia di arabi della zona accompagnarono i miliziani dell'Is nella loro incursione, compiendo in prima persona ogni genere di crimine sui propri vicini di casa. Gli ezidi rifugiati nella provincia di Duhok ci hanno detto che i rapporti, prima di quel giorno, erano “normali”. Difficile comprendere cosa significhi. “Era gente cui dicevamo 'Buongiorno' ogni mattina” ci hanno spiegato, palesemente abituati all'incredulità degli interlocutori. Per chi, come Heder, è stato arruolato nelle strutture gestite da Barzani, non ci deve esser stata molta scelta su quale divisa indossare; ma ha combattuto anche a contatto con Pkk e Ybs, perché faceva parte delle unità che hanno attaccato dalle montagne. Sono brave persone, gli chiediamo? “Sì, sono brave persone”.
Il mattino seguente, durante la colazione al quartier generale, un alto ufficiale si abbandona a qualche confidenza: “Mi sono diplomato all'accademia militare di Saddam a inizio 2003. Pochi mesi dopo ho iniziato a lavorare per l'intelligence americana. Il generale che mi diede il diploma è in prigione ancora oggi”, ridacchia. Anche lui è ezida; tutti i peshmerga di Singal sono ezidi ormai: è l'unico modo per mantenere in vita questo corpo militare nella zona, dopo il tradimento del 2014. “Non ci possiamo fidare dei curdi” dice Khalis, un commilitone di Heder. Il presidente Barzani ha sostituito i curdi musulmani con volontarii ezidi prelevati dai campi, e li ha mandati a combattere sotto la stessa bandiera che li aveva fatti massacrare due anni fa; oltre che, incredibilmente, sotto lo stesso comandante, Kasim Shesho. Nessun mezzo d'informazione ha mai raccontato, né racconterà, tutto questo. Il perché lo spiega l'alto ufficiale: “Questo è un film. L'America è il regista”.
Non è una teoria della cospirazione. La direzione delle operazioni è prerogativa degli Usa. “Non vi chiedete perchè non attacchiamo Tel Afar? Basterebbero due ore per chiudere questa vicenda”. La politica globale odierna si progetta in termini di governance: ha tempi dilatati. L'Is è un fenomeno pericoloso, ma provvidenziale per porre un freno all'influenza iraniana sull'Iraq, dopo che gli sciiti del sud hanno occupato le istituzioni del nuovo stato. Gli Stati Uniti non lo rimpiazzeranno fino a che non sarà pronto un ceto politico in grado di guidare nuove, fedeli istituzioni sull'area che esso controlla. Questo è il work in progress statunitense alla fine del mandato Obama; e questo giustifica ogni attesa. Il terrore instillato dall'Is, d'altra parte, non può che indurre le popolazioni ad essere più collaborative (leggi: sottomesse). Sono equilibri militari ed energetici mondiali: e che milioni di persone restino intrappolate tra folli sevizie e decapitazioni dispiace, penseranno a Washington, ma il governo del pianeta – il suo dominio – è una scienza complessa.
Ecco allora Heder riempire con Khalis le ore vuote della vita da caserma, scambiare messaggi con la moglie e aspettare un ordine dall'altro capo del mondo per provare a riprendersi casa sua; poi, spera, il suo servizio nei peshmerga gli frutterà un lavoro, se non la morte. Perchè Barzani non ha difeso Singal, gli chiediamo? “Non lo so”: sente il termometro della domanda, ma sembra anche trovarla ridondante. Ci accompagna in mezzo alle rovine, alle case squartate, ai palazzi crollati; ha l'aria di camminare come se fosse in un limbo. Entriamo nei quartieri controllati dal Pkk. Le ragazze dell'Yja-Star (unità femminili del partito) si precipitano fuori dalla loro base, per capire chi è il soldato che ha deciso di avventurarsi fin lì da solo, a piedi, nonostante l'uniforme che indossa. Lui le saluta senza scomporsi, lo sguardo sempre perso nel vuoto. Loro rientrano, ridendo un po' stupite. Non è che un ragazzo di Singal, avranno pensato, la cui vita è stata stritolata da strategie incomprensibili e lontane, finita in mezzo a scontri a cui avrebbe preferito non partecipare, e protagonista suo malgrado di un “film” che non avrebbe mai voluto vedere.
◊◊◊◊◊◊◊◊
(Vedi
anche qui sopra: "Singal: quel che i perhmerga (non) dicono")
[Nota: Pochi giorni dopo la realizzazione di questo reportage, le unità ezide Ybs, assieme al Pkk, hanno preso parte ai combattimenti per la liberazione di Tel Afar e Mosul, nei pressi di Singal, cui partecipano anche peshmerga ed esercito di Baghdad. I nomi degli intervistati ezidi sono nomi di fantasia].
Rani fa irruzione nella stanza e chiede se qualcuno lo vuole accompagnare alla linea del fronte: lo stato islamico ha appena colpito le trincee con venti razzi, tra cui alcune armi chimiche, e otto di essi hanno raggiunto diversi quartieri della città. È farmacista, uno dei pochi civili autorizzati a stare a Singal, a supporto delle unità peshmerga che contendono il controllo dei quartieri al Pkk (partito dei lavoratori del Kurdistan) e alle Ybs (unità ezide per la liberazione di Singal, ad esso alleate). Lungo la strada si aggiunge Johnatan, operaio statunitense originario della Pennsylvania, arrivato a dicembre, dice, per ristrutturare le vetrate di alcuni edifici. “L'Is bombarda la città soprattutto in giornate novolose come questa, o di notte: con la scarsa visibilità i jet statunitensi hanno bisogno di circa mezz'ora per individuare e colpire le postazioni di lancio”. Un lasso di tempo relativamente breve, che spiega il carattere poco accurato, perché affrettato, dei lanci dello stato islamico, che in tutta la giornata non hanno causato neanche un ferito.
Le carcasse dei razzi hanno lasciato strane macchie sul suolo, che secondo Rani sono prova dell'arricchimento chimico del loro contenuto. Un infermiere, nel vicino ospedale, mostra una scheggia che gli è entrata in camera poche ore prima. La strada per il fronte dura cinque minuti in auto. Rani ci presenta ai peshmerga dietro una trincea fatta di sacchi sabbia, che sa di prima guerra mondiale; dall'altro lato le linee dell'Is, distanti circa quattro chilometri; in mezzo, la larga distesa della terra di nessuno. L'armamento dei peshmerga è leggero – bombe a mano, kalashnikov – ma lungo la strada abbiamo incrociato due o tre enormi mortai nuovi di zecca (alcune parti ancora incelofanate) che gli ufficiali non sanno o non vogliono dirci chi abbia fornito al governo regionale del Kurdistan. Saranno spostati a breve sulle montagne e colpiranno le linee nemiche per circa due ore, durante la notte.
“Sono stato insignito del comando di questa truppa perché sono a capo di uno dei più potenti clan ezidi della città”, dice un uomo anziano con il capo coperto da una lunga kefiah. “Non chiedetemi se muoveremo verso Tel Afar, o quando sarà sferrato l'attacco a Mosul: queste sono cose che decidono gli americani”. Più che in strategia militare, è ferrato in chiaroveggenza: “Per noi ezidi i sensi sono fonte di verità, come per i cristiani la bibbia, per i musulmani il corano. Il genocidio di due anni fa era stato profetizzato dai nostri uomini di religione”. Previsto o no, quello del 2014 è stato il settantacinquesimo genocidio subito dalla popolazione ezida nella sua storia. Antico culto di origine zoroastriana, basato originariamente sul culto del sole, lo ezidismo è divenuto nel tempo una religione monoteista in cui la divinità è attorniata da figure angeliche, una delle quali talvolta in dissenso, talvolta in obbedienza con il messaggio divino. Cristiani e musulmani, nel corso dei secoli, hanno per questo talvolta accusato gli ezidi di politeismo, talaltra di satanismo (l'angelo ribelle sarebbe analogo al demonio biblico).
Dopo la presa di Mosul, nel giugno 2014, lo stato islamico occupò Singal, seminando il panico tra la popolazione. Massacri, stupri di massa, fosse comuni, riduzione in schiavitù e deportazione (e conversione forzata) di migliaia di donne e bambini seguirono lo shock dell'invasione del 3 agosto, in seguito alla quale in migliaia si rifugiarono sulle montagne fuggendo in auto o a piedi. I più fortunati incrociarono i militanti del Pkk e delle Ypg, che li trassero in salvo; molti altri trovarono la morte per fame e per sete, sotto il caldo torrido, dopo giorni di isolamento sulle catene montuose. Benché, per ragioni prettamente politiche, si sia evitato di parlarne sui grandi mezzi d'informazione, gli ezidi incolpano di questo evento non soltanto gli arabi (molti abitanti dei villaggi vicini supportarono l'Is nel massacro) ma anche i curdi: il presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, Massud Barzani (alleato di Stati Uniti ed Europa, e perciò intoccabile dai media), ordinò infatti ai peshmerga di stanza a Singal di ritirarsi senza combattere, lasciando improvvisamente indifesa la popolazione.
Il comandante, a sorpresa, non si sottrae alla domanda sulle responsabilità del Pdk di Barzani nell'eccidio. La risposta è in parte sibillina: “Quando un partito vuole diventare grande, cosa sono per esso migliaia di morti?”. Gli ezidi – come gli armeni, o gli assiri – hanno vissuto molte volte, nella loro storia, non soltanto l'indifferenza, ma la violenza delle tribù musulmane curde. “La nostra lingua è il curdo – spiega Rani – ma non possiamo dirci curdi. I curdi sono musulmani: non c'è differenza tra loro e gli arabi, quando si tratta di attaccare gli ezidi, o di farli massacrare”. Chiediamo al comandante cosa pensa del Pkk, che intervenne ad aiutare la popolazione durante il massacro di due anni fa. La risposta non potrebbe essere più diretta: “Il Pkk è un grande pericolo per il nostro popolo. Insegnano ai nostri ragazzi che Dio non esiste. Sono come Daesh: Daesh veste le prigioniere ezide come se fossero arabe, il Pkk veste le combattenti curde come fossero ezide”.
Il riferimento è alle Ybs, unità partigiane promosse dal Pkk subito dopo il massacro del 3 agosto. Migliaia di sfollati furono inquadrati e addestrati sulle montagne per riconquistare la città e salvare i prigionieri nel centro abitato. Per un anno le Ybs, assieme al Pkk, hanno combattuto nella periferia nord della città, e infine l'hanno liberata il 13 novembre del 2015 (poche ore prima gli attacchi dell'Is a Parigi) mentre anche le nuove unità peshmerga di Barzani (riqualificate con soldati provenienti dalle famiglie ezide dei campi profughi della provincia di Duhok, amministrati dal Pdk) entravano in città e prendevano possesso del suo costone sud-occidentale. Come spesso accade in questi casi, i detrattori accusano le Ybs di non essere unità autenticamente “ezide”, ma un mero “prestanome” del Pkk; e che un partito laico e d'impostazione socialista come il Pkk possa essere malvisto da alcuni, nella comunità ezida (ad esempio da un capoclan come il comandante peshmerga) non è una sorpresa: la cultura dei perseguitati fa proprie, qui, concezioni reazionarie dell'organizzazione sociale, incluse poligamia, endogamia e una rigida divisione della società non solo in classi, ma addirittura in caste.
Se le illazioni che abbiamo raccolto sulla lapidazione delle donne che intendevano abbandonare la comunità ezida, o sull'ostracismo verso quelle violentate (anche dall'Is) non hanno trovato conferma evidente, tutti gli ezidi da noi intervistati – nel Bakur come nel nel Basur – hanno confermato che è rigorosamente vietato, tanto per l'uomo quanto per la donna, sposare qualcuno che appartenga a un'altra religione, e addirittura ad un'altra casta in seno alla comunità. Sembra che il primo divieto affondi le sue “ragioni” tanto in preoccupazioni sociali (il progressivo regresso demografico ezida: la popolazione conta oggi poco più di un milione di appartenenti, la metà dei quali a Singal) quanto cultuali (la religione possiede tratti esoterici, conosciuti soltanto dai membri della comunità). “Qualcuno dice che esistono ezidi che hanno sposato persone di un'altra religione, o senza Dio – racconta Rani – ma io non lo credo. Forse quelli che sono emigrati in Europa possono averlo fatto, ma non quelli che sono qui. Avrebbero i loro problemi...”.
Gli ezidi, ci hanno spiegato i profughi provenienti da Singal a Dawodiya, sono una popolazione tradizionalmente interessata alla scienza: non è difficile trovare tra loro medici, scienziati, poliglotti. È un'altra ragione dell'odio delle altre comunità, convinte che gli ezidi si ritengano superiori (un po' come si dice degli ebrei). Ciononostante anche medici, scienziati e comandanti sul fronte non esitano a fare proprie credenze a dir poco surreali: “I miei sensi – continua, consapevole di essere intervistato, l'inconsueto militare – mi dicono che presto una catastrofe naturale si abbatterà sul genere umano, e questo sarà un segno; dopo questo segno, tutti i musulmani del mondo si coalizzeranno contro gli ebrei, e li stermineranno; allora tutti i cristiani si coalizzeranno contro i musulmani, e li stermineranno, così che il mondo resterà popolato soltanto da cristiani ed ezidi”. Bell'immagine (si fa per dire); ma appare comprensibile che, se è vero che degli atei non c'è traccia né prima né dopo, in queste apocalittiche preveggenze, secondo alcuni il Pkk farebbe meglio a stare lontano da Singal. “Non andate a intervistarli – si premura di ammonirci il comandante – vi uccideranno”.
Quando Singal, da città liberata, è divenuta contesa, il Pkk ha condannato l'annessione di essa (formalmente appartenente all'Iraq) al Kurdistan di Barzani, sostenendo che la popolazione ezida avrebbe dovuto poter praticare forme di autogoverno e divenire una realtà federale, lo “Ezidistan”, piccolo tassello del nuovo medio oriente che i guerriglieri curdi immaginano secondo linee sussidiarie e confederali. Quando chiediamo a Rani, una volta abbandonato il fronte, perchè sostenga i peshmerga nonostante il tradimento di Barzani nel 2014, sfiora la crisi di pianto: maledice il presidente dicendo che adesso, dopo aver messo in prima linea gli ezidi, rifiuta di inserirli a tutti gli effetti nella catena di comando del governo, in perseverante segno di disprezzo. “E' un musulmano: i musulmani non cambieranno mai. Ho studiato all'Università di Duhok, in Kurdistan, ed è stato terribile: gli studenti curdi non hanno mai smesso di emarginarmi, perché ero ezida”. Perchè non sostieni il Pkk, le Ypg, che sembrano diversi? “Sono curdi pure loro. Non possiamo fidarci. Ma non scrivete il mio vero nome sul reportage [precauzione che abbiamo preso, Ndr]: se i peshmerga scoprono che dico che gli ezidi non sono curdi, ci mettono un attimo ad arrestarmi”.
La sorte non poteva essere più ironica, terminata la conversazione: a fermarci per un controllo mentre Rani ci accompagna a casa è un furgone delle Ybs ezide: il farmacista, noto per essere collaboratore dei peshmerga, ha sconfinato nel settore avverso. Si scusa visibilmente impaurito, con deferenza e imbarazzo, prima di essere lasciato andare con un sorriso. “Vedete? È la mia città, ma sono meno di un turista”. Ezidi arruolati o allineati con forze politiche opposte si fronteggiano nella loro Singal, lungo le faglie di una contrapposizione curda (Pkk contro Pdk). Tuttavia, nello sradicamento e nella contaminazione non sempre troviamo i germi della sofferenza. L'ateismo che i clan ezidi temono dal Pkk è curdo ma non musulmano, come il socialismo che ispirò i primi militanti attorno a Ocalan fu turco ma non kemalista, e il marxismo che ne ispirò i tratti ebbe origini russe e antenati tedeschi, sebbene nessuno in questa catena avesse pensato, o agito, libero dal tradimento verso la propria identità o tradizione. In ogni oppresso si annida anche la figura dell'oppressore. Non esistono popoli uniti perché non esistono popoli buoni. L'uguaglianza delle donne, l'amore libero da imposizioni, la società libera dai clan sono idee che oggi si aggirano a Singal – grazie al fantasma del Pkk.
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Il sole è
appena sorto su
Singal quando attraversiamo la distesa di rovine dei quartieri
settentrionali. Una forma si staglia sul tetto di un edificio
a quattro piani, talmente
immobile da non sembrare umana: invece è una compagna seduta
per il turno di guardia, con il mitra a tracolla. Appena sente
il nostro richiamo,
si alza in piedi e scende ad aprirci la porta sul cortile. Nel
giro di cinque minuti, siamo circondati da un folto gruppo di
ragazze delle Yja-Star,
le unità armate femminili del Pkk. Nessuna di loro parla altra
lingua se non il curdo e il turco, ma sono felici di offrirci
un té.
L'atmosfera che emanano queste donne è difficile da spiegare:
è come se l'aria stessa fosse donna, nei luoghi che hanno
impregnato della
loro presenza. Poco dopo, due furgoni si fermano lungo la
strada: scende Aged, comandante delle Ybs, le unità ezide
formate nel 2014 per
liberare e proteggere Singal.
Due ragazzi delle Hpg (unità maschili del Pkk) vogliono a tutti i costi caricarsi i nostri zaini sulle spalle, mentre percorriamo all'inverso la stessa strada della città. Ci conducono al quartier generale del partito dei lavoratori del Kurdistan, dove prendiamo posto in una luminosa sala, gradevolmente ornata di divani e tappeti – sebbene a Singal, devastata da anni di guerra, non esista edificio dove non scorrazzi anche qualche topolino. Offrono patatine fritte appena cucinate, morbide e calde, e una bibita. (Chi scrive può testimoniare che le patatine del Pkk di Singal non hanno davvero eguali, al netto di qualsiasi simpatia politica o pregiudizio: neanche quelle celeberrime di Shake Shek, su Madison Square a Manhattan – luogo peraltro infestato non da topi, ma dai ratti – reggono il confronto). Tra i giovani che passano attraverso la stanza c'è chi rivendica i propri successi nei combattimenti con l'esercito turco, mentre molti sono i nomi dei loro coetanei caduti di cui tengono le foto appese ai muri o nei portafogli, a fianco di quelle del comandante prigioniero, Abdullah Ocalan, o dei primi “martiri” del partito (così i caduti vengono chiamati in medio oriente, senza necessario riguardo per la religione).
Le zone controllate dal Pkk sono separate da quelle del Pdk, il partito curdo di destra guidato da Massud Barzani, da lunghe barricate realizzate con detriti, automobili, grosse lamiere. Sugli edifici sventolano le bandiere rosse e gialle del Pkk e delle Hpg, altre con il volto di Ocalan. Poco lontano, nel quartiere delle Ybs, sventola la bandiera delle unità ezide. Tra le strade distrutte spuntano gli ingressi dei tunnel costruiti dai miliziani dell'Is per muoversi nella città e salvarsi dai bombardamenti quando, fino allo scorso autunno, abitavano questi edifici. Nelle stanze giacciono ancora i loro materassi, i loro letti, le loro bustine di neskafé usate e le loro stoviglie, ormai arrugginite. Hanno anche dovuto lasciare delle armi, durante la ritirata. Visto il potenziale considerevole dell'equipaggiamento militare dello stato islamico (che è derivato in parte dagli appoggi forniti da Turchia, Stati Uniti e paesi del Golfo alle “opposizioni” siriane, di cui l'Is era parte, in parte dalla conquista di Mosul in Iraq), la sottrazione di parte di esso da parte del Pkk preoccupa il suo naturale nemico, la Turchia. C'è chi sostiene, non a caso, che la presenza fluttuante e vagamente misteriosa di un migliaio (si dice) di soldati turchi nel nord dell'Iraq, formalmente per “addestrare” i peshmerga del Pdk, serva in realtà a scongiurare la possibilità che il Pkk sposti le armi sequestrate all'Is da Singal verso il suo quartier generale sui monti Qandil, al confine con l'Iran, utilizzando le strade tra Mosul e Zakho, dove non a caso i soldati turchi sono posizionati.
Di tanto in tanto, incrociamo peshmerga a piedi che si aggirano a gruppetti due due o tre. Fingono di fare semplici passeggiate, ma la loro presenza nel settore del Pkk è una provocazione: con queste incursioni, vogliono dimostrare che il settore del Pkk non esiste e che il loro partito ha il controllo completo della città. I peshmerga possono contare dell'appoggio politico degli Stati Uniti, che non hanno alcun interesse a permettere un radicamento ulteriore del Pkk in Iraq (già presente sui monti delle province di Duhok e Suleimaniya, oltre che nella provincia di Niniveh a Singal e Makhmur, e infine nell'importante città petrolifera di Kirkuk, a nord di Baghdad, dove si coordina con l'Upk di Jalal Talabani, partito curdo-iracheno antagonista del Pdk). Gli Stati Uniti furono registi della dilatazione temporale dell'avanzata del Pkk e delle Ybs a Singal contro l'Is (i peshmerga bloccarono questa avanzata a ottobre), per permettere che, una volta superata la delicata boa delle elezioni turche (2 novembre), fossero anche i peshmerga a occupare Singal, grazie al loro supporto aereo e ai loro bombardamenti.
Nuovi veicoli giungono a prenderci per ulteriori spostamenti. A un'ora di auto dalla città, procedendo sulle mulattiere della montagna a nord, giungiamo, accompagnati dalle Ybs, in un loro presidio militare: i distaccamenti di uomini e donne, come sempre nella guerriglia curda, sono separati e indipendenti. I combattenti ezidi (parte dell'antichissima comunità religiosa sincretica che popola Singal) sono qui mescolati a compagni turchi, curdi, arabi, turcomanni. Lungo i monti dell'Iraq e della Turchia sud-orientale, fino alla catena montuosa Zagros in Iran, i rilievi della Mesopotamia sono attraversati da questo incredibile esercito libero, multilingue e socialista, dove l'idea di solidarietà internazionale si trasfigura, in latitudini dove le nazioni furono create dall'Europa, nella convivenza di religioni e lingue, storie e antichissime culture cui i confini disegnati dall'Europa imposero e impongono un'artificiale disciplina, ostile alla contaminazione e al viaggio, e il potere degli uni sulla vita degli altri.
I curdi, per eccellenza vittima sacrificale della configurazione di quei confini, si sono fatti polo attrattore per tutti coloro che non intendono rifiutarli in nome dell'islam, ma della “democrazia” (che per ora qui significa: potere popolare). Hanno come preso su di sé, in qualche modo, il compito storico di negare i confini invidibili che attraversano le loro monragne e attraversarli contro i divieti di tutti i governi, rendendo possibile ai rivoluzionari d'oriente di entrare in formazioni autonome, in cui la vita e la politica sono radicalmente opposte a quelle organizzate dai diversi regimi. Non a caso, tutti gli stati della regione hanno maturato accordi, per tutto il Novecento e negli ultimi quindici anni, che permettono continui sconfinamenti militari degli uni sul territorio degli altri, tolleranili nella misura in cui sono volti a combattere il comune nemico: il Pkk, o “terrorismo”. La Turchia bombarda continuamente le postazioni del Pkk in Iraq, l'Iran lo ha fatto a più riprese; e il Pdk, in passato (fino agli anni Ottanta) vittima delle stesse persecuzioni, collabora talvolta, dagli anni Novanta alla repressione (soprattutto turca) del partito dei lavoratori.
Ciononostante, l'umore nelle file delle Ybs è a dir poco eccellente. Il comandante, un uomo con gli occhiali e la kefiah sul capo, non smette di scherzare sulle diverse origini nazionali dei suoi compagni: come sempre – ma in una forma mai offensiva – a farne le spese maggiori sono i militanti arabi, bersagli dei più frequenti scherzi (ridere bonariamente dei compagni arabi, provenienti da una popolazione “cattiva” e numerosa, tradizionalmente coinvolta in fenomeni di oppressione verso minoranze mediorientali, sembra avere nelle file della guerriglia una funzione politica importante: da un lato di ammonizione permanente, sebbene nascosta, della cultura nazionalista araba e dei suoi lati più oscuri; dall'altro di sfogo catartico, nello scherzo, della tensione che opprime la psicologia degli arabi, come dei loro vicini, in questi anni pesanti).
Della brigata fa parte anche Serhildan, giovane azero: la sua popolazione è turcofona, ma vive fuori dai confini della Turchia, nell'Azerbaigian, tra la Georgia e l'Armenia, a nord dell'Iran. “Il mio paese faceva parte dell'Urss, ma se ne è staccato dopo gli eventi del 1991. Io sono sempre stato socialista, ho sempre letto e apprezzato Marx e Lenin, ma quando ho letto Ocalan, per me è stata un'illuminazione: otto mesi fa mi sono unito al Pkk, poi sono stato inquadrato nelle Ybs”. La pluralità culturale delle unità di guerriglia, dove accanto ai militanti curdi (del Pkk) e ezidi (nelle Ybs) combattono giovani di tutte le provenienze, è uno degli antidoti che il movimento armato usa contro il nazionalismo particolaristico o la degenrazione identitaria, che potrebbero altrimenti dilagare sotto la pressione delle situazioni di guerra. Serhildan dice di aver trovato, nel pensiero del comandante curdo, una critica del sistema sovietico priva di cedimenti alle ideologia capitaliste, oltre che un programma credibile per una nuova formula di convivenza in medio oriente. Saluta dicendo che, quando ci sarà il comunismo e potrà uscire dalla clandestinità, aggiungerà i compagni di Infoaut e Radio Onda d'Urto su facebook.
Mahmud, cecchino momentaneamente prestato al ruolo di autista, ci carica su un altro mezzo e ci conduce ancora oltre, ormai nel cuore della notte, in aree montuose di cui ci sfugge completamente la collocazione e la geografia. Non tiene a far mistero delle sue doti di soldato. Originario del Bakur, ha partecipato alla resistenza del quartiere Sur, a Diyarbakir, in Turchia, nelle file delle Yps (unità di protezione civile) e alla conquista di Singal, dove dice di aver ucciso dieci miliziani dello stato islamico, nelle file delle Ybs. La sua visione politica è quella del militante tutto d'un pezzo, abituato alla pratica della guerra e alla purezza della vita semplice della guerriglia: da una parte ci sono Turchia, il Pdk e Daesh; dall'altra Pkk, Ybs e Ypg. Fine della storia. Non esita ad affermare che, in generale, tende a fidarsi solo dei curdi, e neanche di tutti. Per lui i peshmerga sono un tutt'uno con l'Is, li accusa di avere venduto Singal e di essere amici di Erdogan (“il nuovo Hitler”); ne parla con totale disprezzo. Ne ha anche per i suoi compagni ezidi: “Quella gente mi sembra un po' tonta a volte: ancora con queste favole sull'esistenza di Dio, ancora con questa barbarie delle differenze tra l'uomo e la donna...”.
Ferma il mezzo all'improvviso, nel buio più fitto, e ci mostra una distesa luminosa poco distante. “Foto” continua a dire; ci fa scendere e la raggiungiamo a piedi: si rivela essere un cimitero e mausoleo per tutti i caduti della guerriglia, uno dei luoghi più importanti di tutto il Kurdistan. Ragazzi delle Ybs e del Pkk spuntano come fantasmi dalla notte, ansiosi di accompagnarci lungo le scalinate illuminate da alti lampioni, ai cui lati giaccioni le tombe dei martiri delle diverse organizzazioni: Hpg e Yja-Star (Bakur e Basur), Ybs-Ybj (Ezidistan), Ypg-Ypj (Rojava). I graffiti delle bandiere di ciascuno di questi movimenti di liberazione sono dipinti su pavimentazioni di pietra, che declinano verso il basso seguendo l'andamento piramidale della grande costruzione, decorata da sculture, iscrizioni, simbologie. Al vertice un enorme schermo luminoso si staglia nel buio della montagna, mostrando il volto di Ocalan, sorridente, e quelli di decine di caduti della guerriglia dai suoi inizi ad oggi. Quando ci svegliamo in un altro luogo, il mattino dopo, l'atmosfera luminosa all'orizzonte, attorno ai giovani ezidi che scaldano le uova e prendono il tè, circondati da distese erbose su cui si aggirano galline e pascolano le caprette, fa contrasto con la memoria recente di quel luogo misterioso, dove l'onore è tributato, tra le montagne, ai combattenti di queste organizzazioni controverse o illegali, perseguitate o represse, ancora inafferrabili, per ora vincenti.
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Kamal
Eliah
Suleyman e Fatim Jounis Majid sono una coppia cristiana di
Mosul (lui cattolico, lei ortodossa, i figli prendono la
confessione religiosa dal padre),
che oggi vive a Ainkawa, periferia nord di Erbil, con le
figlie Diana e Malak, dove praticamente l'intera comunità
cristiana irachena si
è rifugiata dopo gli eventi degli ultimi due anni. La loro
famiglia ha radici profonde a Mosul, che affondano in un
lontano passato
retrocedendo di generazione in generazione. La condizione
economica benestante da cui provengono ha loro permesso di
evitare i campi profughi della
cittadina cristiana, e affittare un appartamento. Lo zio
di Kamal è stato ucciso nel 1979 dal partito Baath nel
villaggio di Soria, mentre il
fratello è stato ucciso a Mosul, nel 2007, da Al-Qaeda in
Iraq.
La loro testimonianza, personale e soggettiva come tutte quelle che stiamo raccogliendo, offre uno sguardo sui conflitti socio-religiosi di questi anni in una delle città più grandi, antiche e importanti del medio oriente, prima e dopo l'invasione Usa, lo sprofondamento settario dell'Iraq, l'instaurazione dello stato islamico.
* * *
Siete una famiglia araba, irachena e cristiana, che ha abitato a Mosul da generazioni. Come ricordate i tempi di Saddam Hussein?
Bei tempi. Era un buon governo, non c'erano problemi con i musulmani, la vita si svolgeva regolarmente. C'erano problemi economici dovuti all'embargo, ma era normale, ed erano problemi uguali per tutti. Guadagnavamo solamente uno o due dollari al mese, questo era il reddito medio, ma con i prezzi dell'epoca ci si viveva bene. Mosul era anche una città molto economica, i prezzi erano bassi, ciononostante le merci e il cibo erano di buona qualità e c'era la piena occupazione. Una delle città migliori in Iraq.
Come avete vissuto l'invasione statunitense del 2003?
Fu uno schock per tutti, anzitutto perché non si aveva alcuna idea di cosa sarebbe accaduto a quel punto. Ciononostante, dopo un anno di invasione le cose stavano meglio che sotto Saddam, voglio dire, nel primo anno di occupazione le cose andavano discretamente, è dopo che sono iniziati i problemi, ed è iniziato a comparire lo stato islamico [Ndr: L'intervistato non si riferisce a un gruppo politico specifico, come si comprenderà anche dal seguito, ma ad organizzazioni che, pur non detenendo il potere politico, iniziavano a detenere un potere sociale.] Non c'erano più regole allora, non c'era tranquillità: la nostra opinionje è che cellule islamiche si muovessero nell'ombra.
Le cose sono degenerate nel 2005, quando ci sono state le prime elezioni politiche e si sono presentati diversi partiti di ispirazione islamica e per di più diversa (sciiti, sunniti). A quel punto sono iniziate le divisioni settarie e si è cominciato a percepire qualcosa che prima non c'era, ossia l'identità islamica, che prima era meno importante in Iraq, anche perché l'intelligence di Saddam Hussein era molto precisa e non lasciava spazio allo sviluppo di queste tendenze.
Come si esprimevano queste “tendenze”?
Al-Qaeda e Ansar Al-Sunna [Organizzazioni politiche salafite che furono i prodromi dello stato islamico negli anni Duemila. Non è chiaro se l'intervistato abbia una nozione precisa dell'identità e differenza politica di questi gruppi, Ndr] hanno cominciato a taglieggiare i commercianti, a estorcere soldi nel quartiere cristiano, Al-Sukan: tutti i commerci pagavano. È a quel punto che mio fratello è stato ucciso da questa gente, perché sirifiutava di pagare; era il 2007. Un anno dopo, nel 2008, sono esplose delle bombe nelle case di cristiani.
Secondo voi, qual era il supporto che questi gruppi avevano nella città?
È difficile dirlo. Potrei dirti che erano appoggiati dal 20%, o dal 25%, ma il problema è che non è facile quantificare in questi termini il loro ascendente sociale. Nella comunità musulmana, quando qualcuno prende l'iniziativa e dice di agire in nome dell'Islam, chi gli è attorno è come se sentisse un richiamo, il richiamo dell'Islam.
Come è evoluta la situazione?
Nel 2008 ci sono state nuove elezioni e per questo nuove tensioni, e già allora i primi cristiani hanno cominciato ad andarsene, anche perché iniziavano ad avvenire rapimenti ai nostri danni, spesso a scopo economico. Sono iniziati anche gli omicidi degli uomini di chiesa, come il vescovo della città, che è stato decapitato, poi il prete Rashid o Farah, ucciso da Al-Qaeda.
Poco dopo, nel 2011, è arrivato il momento critico, ossia il ritiro delle forze d'occupazione statunitensi e britanniche e lo strapotere del governo Al-Maliki.
Al-Maliki ha distrutto l'Iraq. Da quando lui ha esercitato il potere, ciascuno si è sentito soltanto più parte del proprio gruppo confessionale. La seconda divisione dell'esercito iracheno, quella che era di stanza a Mosul (e che si sarebbe ritirata senza combattere nel 2014) era completamente sciita.
Cosa è accaduto quando l'Isil è entrato a Mosul?
Quando lo stato islamico è entrato a Mosul era il 5 giugno 2014, soltanto la polizia lo ha affrontato per due o tre giorni, sul lato destro del fiume. Il lato destro del fiume Tigri delimita la parte orientale della città, dove è situata la città vecchia. La popolazione curda e cristiana di Mosul era principalmente stanziata nella parte occidentale, sul lato sinistro del fiume; la parte nuova e anche più ricca. Nessuno ha aiutato la polizia mentre fronteggiatava Daesh, l'esercito non è intervenuto e, quando la polizia ha finito le munizioni, è scappata sul lato sinistro, e con lei molta altra gente che ci viveva. A questo punto, però, il governo diceva di non uscire dalla città.
Per quel che ne sapete, i poliziotti che hanno cercato di opporsi erano sunniti o sciiti?
Anche la polizia era in maggioranza sciita.
Ritenete che il governo non abbia difeso Mosul?
Certo che no, ma non era la prima volta. Voglio dire: dal 2007, fino a oggi, a Mosul esplodevano autobombe nel mezzo di tre check-point. Come avevano fatto a passare tra tre check-point?
Intendete dire che il governo di Baghdad era coinvolto?
Certo che era coinvolto. Le autobombe esplodevano persino nelle chiese.
Cosa è accaduto dopo che l'Isil ha messo in fuga la polizia nella città vecchia?
I miliziani passsati sul lato sinistro, allora siamo tutti andati via dalla città. Era il 9 giugno. È stato un ingorgo enorme, abbiamo impiegato 17-19 ore in auto per fare la strada fino a Erbil, per la quantità di automobilisti e pedoni che c'erano in marcia lungo la strada. Inoltre, la nostra auto si è rotta e abbiamo dovuto lasciarla a lato della strada e continuare a piedi fino al check-point di Erbil. È stato un giorno difficile...
Quindi non avete visto quel che è accaduto nei giorni successivi?
No, non eravamo più a Mosul. Sappiamo che lo stato islamico ha sequestrato degli uomini di chiesa e li ha rilasciati in cambio di un riscatto. Però da due giorni dopo, tra l'11 e il 14 giugno, sentendoci al telefono con i nostri conoscenti queste erano le notizie dalla città: potete tornare, lo stato islamico ha tolto i suoi check-point, non ci sarà problema, potrete vivere come prima, è soltanto un nuovo governo.
Che cosa avete fatto allora?
Confortati da queste notizie, siamo allora tornati in città, tutta la famiglia. Effettivamente non c'era nessun problema o controllo, anzi i miliziani di Daesh all'ingresso in città ci hanno detto prego, tornate pure nella vostra città. C'era anche un cartello: “Lo stato islamico vi dà il benvenuto”. Siamo stati in città quattro giorni circa, il tempo di riparare l'auto che si era rotta.
Il problema è che la città era diversa, la gente era diversa. In tanti avevano le barbe lunghe, e tutti portavano i pantaloni tirati su fino al ginocchio [Regola imposta dallo stato islamico per supposte ragioni di igiene, Ndr]. Decidiamo di tornare a Erbil.
Dopo circa venti giorni, un vicino di casa di Mosul (musulmano sunnita) mi chiama per avvisarmi che i miliziani hanno sfondato la porta di casa mia. Dice che lui ha loro chiesto che stesse accadendo, e loro hanno detto che stavano facendo un controllo per verificare che la casa fosse disabitata, ma lui sapeva che le cose non stavano così.
Allora sono ripartito per andare a vedere cosa accadeva, anche stavolta non c'erano check-point di Daesh lungo la strada; era il 3-4 luglio. I vicini e la gente di zona mi hanno confermato che i miliziani erano entrati in casa mia. Allora sono andato a una “sede” ufficiale di Daesh, che era a cento metri, e ho parlato con un miliziano, tale Abu Shaam, che parlava con accento di Mosul. Di fronte alla mia richiesta di spiegazioni, ha risposto: “Mi dispiace, siamo entrati per un controllo. Tu sei cristiano, sei mio fratello. Ti ripareremo la porta”.
Poi cos'è successo?
Dopo un'ora altri miliziani arrivano nella mia casa e dicono che l'emiro Abu Salaam mi vuole vedere nell'ufficio di Daesh. Per prima cosa mi chiede quale sia la mia religione e commenta: “Ah, sei nazareno. [“Nazrani” è il termine spregiativo con cui taluni musulmani denotano i cristiani, Ndr] Che cosa vuoi?”. Ho detto loro che ero stato fuori città per trovare dei parenti e che, tornato, avevo trovato la porta danneggiata. Lui allora mi ha chiesto: “Perchè sei tornato? Non hai paura? Non sai che questo è lo stato islamico, e tu sei nazareno?”.
Io ho detto che nel corano è scritto di non fare del male ai cristiani, ma lui mi ha interrotto dicendo: “Taci, nazareno. O ti converti all'Islam, o paghi la tassa prevista per chi non lo fa, o lasci tutte le tue cose qui e te ne vai. Altrimenti ti uccidiamo”. Ha aggiunto di lasciargli il mio numero di cellulare, perché se mi fosse stato concesso di tornare, mi avrebbe chiamato. Ho detto che ormai era sera ed era un problema partire. Ha detto che il mattino dopo non voleva più vedermi in giro. Ho lasciato tutto nella casa e sono partito alle quattro del mattino con un taxi. Pochi giorni dopo, il 18 luglio, il califfo ha reso noto che tutti i cristiani avrebbero dovuto convertirsi, pagare una tassa speciale o morire, e tutti i cristiani rimasti hanno lasciato la città.
Da allora vivete qui, ad Ainkawa. Volete mandare un messaggio all'Europa?
È l'ultimo messaggio: salvate i cristiani del medio oriente, qui non c'è più nulla per noi. A Mosul abitano milioni di persone e, nella situazione che ormai si è creata, come faccio a sapere di tutte queste persone chi è con Daesh, chi è con me? Che speranza c'è per i miei figli qui, a Erbil? L'Europa deve lasciarci entrare, Daesh non ci ha lasciato nulla. Turchia e Libano non danno visti. L'Italia, la Francia non sanno cosa sta accadendo qui? Non abbiamo soldi, ci hanno preso tutto, cosa asspettano a farci intrare in Europa? Qui non c'è futuro per noi.
Abbiamo visto troppi massacri: noi, i nostri padri, i nostri nonni. Non vogliamo più stare qui. È iniziato millequattrocento anni fa, quando a Najaf [Città dell'Iraq meridionale, oggi santa per l'Islam, Ndr] c'erano 1.500 chiese [sic], e continuano a spingerci sempre più a nord. Amiamo tantissimo Mosul, ma o ci mandano dei soldati a proteggerci, oppure non abbiamo scelta: dobbiamo andarcene. Perchè ci fate stare come degli idioti in Giordania, in Libano, in Turchia? Se andiamo in Giordania per due o tre anni i figli non potranno studiare, saremmo considerati diversi, come un problema per quel paese, non troveremo lavoro. È ovvio che dobbiamo venire in Europa.
Trentasei anni fa, il 18 maggio 1980, moriva Ian Curtis, cantante dei Joy Division. Il secondo album della band, Closer, è una delle chiavi di un libro pubblicato di recente che muove da un lutto musicale per soffermarsi su un lutto politico. Di seguito un’intervista all’autore di questo libro
Pochi libri mi hanno colpito
negli
ultimi anni come Happy Diaz (Arcana) di Massimo
Palma, un racconto lucido e non convenzionale della pagina
più tragicamente oscena
nella storia italiana recente, ovvero le violenze perpetrate
dalla polizia su manifestanti inermi durante il G8 di Genova
2001.
Un libro che si fonda su una catena apparentemente arbitraria di connessioni e riferimenti, ma che al termine svela una visione complessa e ragionata, senza dubbio originale, dei nodi politico-culturali collegati a quell’epocale manifestazione di violenza di Stato.
Uno dei pregi della narrazione è quello di non raccontare solo le ultime, infernali 48 ore di mattanza poliziesca, ma di recuperare nel dettaglio l’intero programma di rivendicazioni, incontri, proposte e proteste del movimento sbrigativamente etichettato “no global”, analizzato per ciascun giorno della settimana.
Questa chiave narrativa consente al libro di non incancrenirsi nel livore dei toni di denuncia (comunque forte e circostanziata), ma di aprire a due peculiari percorsi sotterranei: la settimana è raccontata da un lato attraverso le canzoni dei gruppi dei gruppi rock di Manchester dedicati ai diversi giorni della settimana (a completare il quadro, tredici illustrazioni di Tuono Pettinato che ritraggono i protagonisti di quella straordinaria stagione musicale); dall’altro attraverso i personaggi del romanzo L’Uomo che fu Giovedi di G.K. Chesterton, amato dal grande studioso hegeliano Kojève. Leggi tutto
Come era prevedibile, l’avviso
di garanzia a
Nogarin ha innescato un terremoto soprattutto nel mondo dei
social, che è la bussola con cui il M5s si confronta. Si
trattava di quello che io
chiamo “effetto Savonarola”.
Se un noto gangster svaligia una banca, la cosa fa notizia ma, non si scandalizza nessuno (in fondo, i gangster fanno proprio quello), ma se ad appropriarsi indebitamente di un decino, anche solo per fare l’elemosina, è Gerolamo Savonarola che dal pulpito tuona ogni domenica contro il malcostume e le rapine, la cosa fa molto più rumore e tutti sono sbalorditi.
Temo che il vertice del M5s (chissà se mi perdoneranno di aver usato la parola “vertice” ma non sapevo come altro dire) si sia fatto prendere la mano dal panico, sopravvalutando grandemente l’effetto Savonarola, che può essere anche molto vistoso, ma in genere ha breve durata. Poi c’è stata la solidarietà di Grillo a Nogarin che ha fatto gridare ancora di più allo scandalo gli uomini della rete (“Ma allora siamo proprio come tutti gli altri!”); e su questo hanno soffiato quelle verginelle del Pd. Magari qui sarei stato più cauto, assumendo la posizione ufficiale “Attendiamo di vedere cosa c’è nelle carte”, il che non avrebbe escluso una solidarietà privata comprensibilissima.
Nemmeno 24 ore dopo è arrivata la notizia di Pizzarotti (ero in trasmissione ad Agorà proprio quando è arrivato e mi è toccato commentarla a caldo, con un battibecco con una parlamentare del Pd). E qui le cose sono cambiate, perché Fico ne ha chiesto subito il passo indietro.
Leggi tuttoSmontare le menzogne di Renzi è facilissimo sul piano tecnico e contenutistico, ma nel sistema dei media conta la potenza di fuoco, non chi ha ragione.
Prendiamo il caso della “flessibilità” sui conti pubblici concessa dalla Commissione Europea al governo italiano, su cui Renzi ha speso lodi per il suo ministro (Pier Carlo Padoan) e intestandosi il “successo” (“anche se la dimensione della flessibilità ottenuta è “meno di quello che avrei voluto”.
Effettivamente la Commissione Ue concederà all’Italia una flessibilità “senza precedenti, mai richiesta né ricevuta da nessun altro”, si legge nella lettera che i due Commissari agli affari econonomici – Dombrovski e Moscovici – hanno spedito al governo italiano per “promuovere” la bozza di legge di stabilità per l’anno in corso. L’iter completo si concluderà solo a dicembre, ma in base ai trattati europei ogni singolo passo deve essere contrattato con la Commissione (e la Troika), ricevando il via libera solo dopo le eventuali correzioni richieste.
Ha vinto Renzi, insomma? Niente affatto. La flessibilità ottenuta – lo 0,85% nel rapporto tra deficit e Pil – vale solo per quest’anno; e in ogni caso, rispetto al disegno presentato da Padoan, la Ue pretende una correzione di 3 miliardi (quasi lo 0,2%) per evitare che la “deviazione” rispetto al percorso stabilito verso il “consolidamento” dei conti si trascini sull’anno successivo, aggravando lo sbilancio del prossimo anno.
Leggi tuttoDal 2011 una parte della Siria, già tormentata dalla guerra civile, è stata colpita anche dalle economiche decise dall’Unione Europea: blocco del commercio, embargo sul petrolio siriano, congelamento dei beni siriani all’estero, blocco dei visti per una lunga serie di persone e personalità (179, in questo caso), il tutto sotto la dizione generica di “sanzioni a personaggi del regime”. È la parte del “regime”, appunto, la parte di Bashar al-Assad. La parte in cui, quest’inverno, con il salario di un mese ti compravi a stento una tanica di cherosene per far andare la stufa. Curiosamente, nel 2012, tali sanzioni venivano abrogate per la parte di Siria già conquistata dalle “opposizioni”, dai “ribelli”. Che si presupponevano “moderati”, qualunque cosa questo aggettivo dovesse o volesse dire nel pieno di una guerra.
Da allora nulla è cambiato. Anche di fronte al fatto che i “moderati” hanno una presenza marginale sul campo. Anche di fronte alla triste realtà che, se non fosse per i russi e per l’esercito regolare siriano da un lato, e per le milizie sciite addestrate dagli iraniani dall’altro, oggi l’Isis avrebbe il controllo di Damasco e Baghdad. Nessuna sanzione, peraltro, è stata inflitta dalla nobile Europa ai Paesi che, in un modo o nell’altro, hanno buttato benzina sul fuoco della guerra civile, i grandi finanziatori dei jihadisti come le petromonarchie del Golfo Persico o la Turchia che ha fatto passare per i suoi confini almeno 35 mila foreign fighters. Cosa non faremmo, noi europei, per la democrazia!
A giugno il Consiglio dell’Unione Europea dovrà decidere se proseguire con questa follia. Leggi tutto
Pannella è morto e, ammonisce un vecchio adagio, dei defunti non si deve dir nulla se non bene, forse nel timore che i medesimi, offesi, vengano a tirarci i piedi di notte. Per cui la morte è il momento in cui ricordare solo i meriti (ed anche al di là della loro effettiva portata) dimenticando magnanimamente colpe ed errori. Personalmente non ho mai creduto in questa ipocrisia funeraria, per la quale sono stati tutti uomini grandi ed incompresi dai loro contemporanei: la liturgia del “coccodrillo” mi ha sempre fatto un po’ schifo. Dico subito che, sul piano politico –e quindi storico- dò un giudizio prevalentemente negativo della sua opera e dell’eredità che lascia.
Il personaggio ha meriti e non piccoli, come le battaglia per il divorzio, per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, e più in generale per i diritti civili, per la legalizzazione della cannabis, la denuncia della degenerazione partitocratica ecc. di cui gli va dato atto lealmente. Ma ha avuto anche colpe somme come il sostegno all’ondata neo liberista, la banalizzazione della politica ridotta a celebrazione del leader (di cui fu il primo assertore) ed a virtuosismo comunicativo privo di reali contenuti, l’allineamento servile agli Usa, le disgustose giravolte fra centro sinistra e centro destra, sempre alla ricerca di spazi istituzionali, le ambiguità sul terreno della lotta alla mafia, dove spesso il garantismo sfociava in una sorta di para fiancheggiamento. Altra battaglia ambigua fu quella ecologista, che, se da un lato apriva la strada ad una più matura riflessione sul rapporto fra uomo ed ambiente naturale, dall’altro ebbe una infelice connotazione antindustrialista.
Leggi tuttoCome ci si rialza, come ci si riprende dalla
atonìa seguita alla vicenda greca, come innescare un
sovvertimento che
risponda a un diffuso e inespresso desiderio di rivalsa e
alla spinta che viene dall’affettività comune, reazione di
forza superiore e
contraria alla frammentazione imposta attraverso gli stati
d’eccezione e le logiche individualiste neoliberali? Per
questo è importante
capire che cos’è successo in Francia, quale è stato il
processo che ha portato il paese, nel giro di pochi mesi, a
rovesciare
completamente la cappa dello stato d’emergenza introducendo
l’effervescenza del movimento #nuitdebout che resiste da due
mesi a questa
parte a partire dalla piazza simbolo della repressione
emergenziale di Valls e Hollande, Place de la République.
Pubblichiamo dunque
l’ottimo intervento che Davide Gallo Lassere ha fatto al
Piano Terra di Milano, giovedì scorso, portando una
testimonianza diretta da
Parigi. La discussione si è articolata guardando
all’appuntamento del 15 maggio, che, ricordiamo, a Milano è
fissato in Piazza
XXIV maggio, #nuitdebout Milano, dalle 19.30. A Roma dalle
ore 17 al Phanteon, a Torino dalle ore 23 .00 in Piazza
Vittorio Veneto, a Genova dalle ore
18.00 in P.za Rostagno, a Padova dalle ore 17.00 in via VIII
Febbraio, a Napoli Piazza San Domenico dalle ore 19.00, a
Messina, invece, il 14 maggio,
in Via Peculio Frumentario dalle ore 22.00 (per non
sovrapporrsi alla manifestazione No Muos di domenica 15
maggio). Leggi tutto
“Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti” ha dichiarato recentemente il Papa prospettando il rischio di un nuovo conflitto planetario. Ma, nonostante il forte ritorno ai nazionalismi, l’allarme del pontefice pare infondato perché non sussistono le condizioni politico-economiche per tale evenienza e la globalizzazione – per quanto multilaterale e asimettrica – rimane il fulcro centrale
Il Papa ha sostenuto
ripetutamente che la terza guerra mondiale sarebbe iniziata.
Su “Repubblica” ha affermato che «Siamo entrati nella terza
guerra
mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli»[1]
e
successivamente sul “Corriere della sera” ha ribadito in
maniera ancor più perentoria «Io ho parlato di terza guerra
mondiale
a pezzi. In realtà non è a pezzi: è proprio una guerra»[2].
Le affermazioni
del Papa vengono interpretate come una provocazione, una
metafora per denunciare un contesto fatto di crescenti
conflitti militari, ma al contempo
contribuiscono a confondere le idee su ciò che sta accadendo.
Dico subito che questo modo di leggere le vicende del mondo
contemporaneo non mi
convince e proverò a spiegare perché.
Va registrato che le affermazioni del Papa hanno rafforzato, per certi versi si potrebbe dire sdoganato, un esteso sentire a sinistra che legge i conflitti militari in corso dentro un più generale contesto di guerra finendo, in alcuni casi, per dare la stura a un nuovo «campismo», cioè a una nuova divisione del mondo in blocchi politico-economici già militarmente in conflitto tra loro. Ovviamente questa visione viene sviluppata con modulazioni differenti, ma in tutti i casi è indice di una certa propensione a leggere gli attuali conflitti regionali dentro un processo più ampio e ben più drammatico.
Una versione sofisticata e problematizzata è proposta anche dalla rivista «Limes» che vi ha dedicato un numero intero dall'emblematico titolo «La terza guerra mondiale?»[3] e con il medesimo titolo ha organizzato un Festival, a Palazzo Ducale di Genova, che ha visto la partecipazione di 8.000 persone. Numeri che parlano dell'attenzione al tema.
Leggi tuttoLa città di Las Vegas sembra essere una di quelle in cui gli effetti dello scoppio della bolla immobiliare che ha scatenato la crisi del 2008 appaiono più evidenti: interi quartieri si sono svuotati e chi ne percorre le vie può riconoscere le case abbandonate dai giardini incolti e dalle finestre rotte. Secondo il New York Times queste abitazioni sono diventate una riserva di caccia per le tribù degli squatter che arrivano qui dalle zone più povere della Las Vegas Valley, o anche da luoghi assai più lontani, per prenderne possesso.
L’autore dell’articolo avrebbe potuto interrogarsi su chi è questa gente (spesso si tratta di intere famiglie, come quelle che attraversavano gli Stati Uniti per sfuggire ai morsi della crisi del 1929, un’epopea descritta da John Steinbeck nel romanzo “Furore”), avrebbe potuto intervistarli, raccontarci le loro storie, farci capire come si sono ridotti in queste condizioni. Ma si sa: l’etica americana (o meglio, l’etica delle classi dirigenti americane e quindi anche quella dei media mainstream) dà per scontato che se qualcuno cade in miseria la colpa è solo sua.
Quindi il servizio in questione si occupa di tutt’altro: racconta le paure degli onesti e bravi cittadini che si lamentano dell’insicurezza causata da questi ingombranti vicini che si allacciano all’elettricità dei loro box e rubano l’acqua dei loro impianti di irrigazione, che compiono piccoli furti, che si aggirano malvestiti e maleodoranti per le strade (così si abbassa il valore degli immobili della zona!); Leggi tutto
Pubblicato un Levy Institute working paper con una proposta per la crisi dell’Eurozona
In sintesi, riteniamo che l’introduzione di una moneta fiscale in tutti i Paesi dell’Eurozona che vogliano adottarla dovrebbe trovare i consensi sia della periferia, che ha urgenza di far ripartire l’occupazione, sia delle forze politiche che, nei Paesi core, rappresentano gli interessi dei creditori, purché vengano rispettati alcuni vincoli. Per l’Italia, chiamiamo per comodità questo strumento EL o Euro-lira.
Per “moneta fiscale” intendiamo uno strumento di pagamento, che può essere sia cartaceo che elettronico, accettato per il pagamento di tutte le imposte e i contributi entro soglie prefissate, che (1) non sia moneta legale, e quindi non sia in contrasto con i Trattati dell’Eurozona, e sia fuori dalla competenza della BCE, e (2) non sia convertibile in Euro, nel senso che l’emittente non promette una conversione in Euro, anche se il governo accetta che le tasse vengano pagate in Euro o in EL in un rapporto di scambio 1 a 1 (entro soglie prefissate). Da molti punti di vista, la nostra proposta non è lontana da quella dei Certificati di Credito Fiscale promossi da Marco Cattaneo, Giovanni Zibordi ed altri, anche se ne differisce su molti importanti punti tecnici: abbiamo valutato entrambe le proposte per la Grecia in un precedente rapporto del Levy Institute.
L’introduzione di EL ripristina la liquidità per il governo per il finanziamento di investimenti e la creazione di posti di lavoro, con una manovra espansiva che deve essere tarata in modo da non creare un aumento delle importazioni tale da generare deficit delle partite correnti.
Leggi tuttoL’origine e la gestione della crisi finanziaria sono state il capolavoro delle istituzioni e delle politiche dell’Unione monetaria europea al servizio non delle teorie, ma degli interessi
Dalle recenti dichiarazioni di Juncker al Parlamento europeo, con le quali si rende più flessibile l’applicazione dei limiti esistenti ai deficit pubblici per i paesi impegnati nell’accoglienza ai migranti, sembrano trasparire una certa consapevolezza delle nuove sfide all’impalcatura europea e l’esigenza di cambiarne alcune regole. Quanto questo possa esprimere un convincimento profondo, quali sono le ragioni teoriche sottostanti e quali possono essere le forze contrarie è un discorso più complesso.
Le attuali istituzioni dell’Unione Monetaria Europea (UME) risalgono alle linee tracciate all’inizio degli anni Novanta. Esse sono largamente basate sul libero funzionamento dei mercati e su poche istituzioni comuni, essenzialmente la moneta unica, e su poche altre come una parziale unione bancaria, sostenute da uno striminzito bilancio comunitario.
Alla loro base vi era l’idea che mercati e moneta unica avrebbero assicurato un’integrazione armoniosa, capace di eliminare i molti squilibri esistenti e, in particolare, le inefficienze esistenti nei settori pubblici e privati di alcuni paesi. Leggi tutto
(...scritto a 30000 piedi, da dove si
vede
più lontano...)
Come forse starete vedendo, sui media di regime è tutta una scoperta dell’acqua calda. Il Sole 24 Ore, il Corriere, la Stampa, scoprono quello che qui da sempre ci siamo detti: che il surplus tedesco più che dimostrazione di virtù è causa di problemi; che il debito privato, non quello pubblico, è origine della crisi; che curare il debito pubblico con l’austerity trasforma una situazione fisiologica in una patologica. Insomma: tutto quello da cui siamo partiti, parola per parola, viene oggi dato come assodato, come “mainstream”, da persone che spesse volte ci hanno denigrato, singolarmente o collettivamente, per averlo detto quando c’era ancora qualcosa da salvare.
Naturalmente nessuno è disposto a fare per primo l’ultimo passo, vale a dire che siccome solo la crescita potrebbe risolvere i nostri problemi, e siccome l’euro è nemico della crescita, perché la svalutazione interna (taglio dei salari) imposta dalla rigidità del cambio condanna alla deflazione, condizione necessaria per uscire dall’impasse è superare il sogno di una moneta imperiale ed evolvere verso un sistema monetario più flessibile.
Faranno questo ultimo passo quando sarà loro chiesto di farlo.
Noi, intanto, possiamo guardare avanti.
Per rendervi più agevole questo compito, e aiutarvi a perdonare chi con le sue menzogne ha distrutto un paese, vorrei oggi con voi allargare le prospettive, facendovi leggere qui quello che fra un anno leggerete sul Financial Times. Leggi tutto
Abbiamo già parlato qui del neoliberismo fascista, cioè dei caratteri nazisti e fascisti che informano questa società. Ma questa stessa società ha anche caratteristiche medioevali.
L’agire sociale tollerato è quello che si esprime per corporazioni, associazioni categoriali spoliticizzate, a tutela di interessi specifici di gruppo. Ne sono un esempio le associazioni dei consumatori, ma anche quelle che raggruppano le minoranze sessuali, o i comitati, le organizzazioni che dovrebbero “salvaguardare” le donne come genere oppresso.
Tutto viene ricondotto ad una generica matrice culturale che dimentica la struttura della società e la divisione in classi.
Ognuno così finisce per chiedere tutele e visibilità, riconoscibilità e legalizzazione organizzandosi in un gruppo di interesse. I “centurioni” che accompagnano i turisti al Colosseo, i venditori ambulanti, le sex workers, tutti chiedono albi professionali in cui essere inseriti e riconoscibilità in un gruppo. Vengono così criminalizzate e perseguite tutte le economie marginali e tutti e tutte coloro che non possono essere inquadrate in una categoria o che non vogliono legare la propria vita ad un ambito specifico.
Leggi tuttoGli ultimi due libri pubblicati in italiano da Alain Badiou – Metafisica della felicità reale e Alla ricerca del reale perduto, entrambi usciti in Francia nel 2015 – rappresentano, come ci ha abituati perlomeno a partire dal 2006, quando uscì il suo Logiche dei mondi, il suo tentativo di percorrere ed esemplificare le tappe concettuali della grande cattedrale filosofica iniziata negli anni Ottanta con Teoria del soggetto, Manifesto per la filosofia e L’essere e l’evento, proseguita appunto con Logiche dei mondi e tuttora in attesa di essere compiuta con un’ultima grande trattazione dedicata al tema dell’immanenza delle verità, in lavorazione e di futura uscita.
Se negli anni Badiou ha spesso lavorato su problemi teorici posti dal suo pensiero in relazione al presente (Sarkozy: di che cosa è il nome?, Il risveglio della storia, ecc.), o tentando di scioglierne alcune contraddizioni interne (Condizioni, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, ecc.), le questioni poste in gioco qui sono due, come indicano chiaramente i rispettivi titoli dei volumi: che cos’è la felicità umana e in che modo ogni autentica filosofia deve poter rappresentare una metafisica della felicità reale? E poi: in cosa consiste questo «reale» nella nostra contemporaneità globale ma frammentata, ipermediatizzata e interconnessa ma lontana – fallite le utopie novecentesche – dall’aver realizzato tanto un qualsiasi universalismo illuminista (persino nei suoi rovesciamenti dialettici cari a Adorno e Horkheimer) quanto alcuna palingenesi storica? Leggi tutto
Anteprima. La prefazione di Francesco Coniglione all'ultimo libro di Sandro Vero, "Il mito infinito" (Il Prato, 2016)
Un libro difficile, questo di Sandro Vero, e non si illuda il lettore che ne possa cogliere il nucleo più autentico e forte ad una lettura superficiale e cursoria. È necessario leggere, fermarsi, riassaporare e rimeditare quanto letto e quindi cercare di intendere quel che sta al di sotto del testo che in prima istanza viene enunciato. Tuttavia non è difficile solo per questo, ma anche per l'assunto che sta racchiuso all'interno del titolo che gli si è voluto dare; ed infatti l'idea di un "mito infinito" sembra essere di per sé paradossale, anti-intuitiva e contraria alla funzione che storicamente il mito ha avuto e si è data: racchiudere all'interno di una narrazione limitata, finita, con protagonisti certi e riconoscibili un significato ricorrente e permanente, che avesse la funzione di rassicurare, riconfermare, consolidare la comunità e l'individuo. È proprio nella sua capacità di "confinare" il significato all'interno di una narrazione facilmente accessibile e intendibile anche da parte di chi non possiede istruzione e non ha strumenti intellettuali eccessivamente sofisticati, che il mito ha esercitato la sua funzione civilizzatrice in ogni periodo storico e in ogni parte del mondo. È proprio grazie alla sua finitezza che esso si è reso disponibile all'intellezione di ogni uomo: la narrazione, che ha un inizio e una fine, conclude un discorso, la cui riapertura è resa possibile solo dalla sua iteratività, dalla sua invariante ripetitività. Leggi tutto
Il primo e forse più importante merito del dibattito attorno al reddito di cittadinanza, o reddito di base incondizionato, è che costringe a riflettere sul futuro dello Stato sociale così come esso è stato costruito nel corso del Novecento. Uno Stato sociale concepito e realizzato sulla base di una figura professionale centrale, il lavoratore a tempo indeterminato, un lavoratore che, grazie alla stabilità e alla durata del suo impiego, ha permesso il finanziamento delle grandi assicurazioni sociali.
Da una ventina d’anni a questa parte, questa figura professionale è in via d’estinzione, sostituita come è da una miriade di nuove forme contrattuali o extra-contrattuali, il lavoro atipico, che va dal lavoro a tempo determinato, a quello interinale e su chiamata, al lavoro parziale, ai freelance, il tutto attraversato dalla realtà del lavoro sottopagato e, in ogni caso, intermittente.
Con conseguenze già visibili per le assicurazioni sociali a causa delle lacune contributive di un numero crescente di cittadini, che lo Stato sarà chiamato a colmare con le PC nel momento del pensionamento. I risultati d’esercizio dell’AVS dello scorso anno, con il duplice disavanzo della ripartizione e degli investimenti delle riserve sui mercati finanziari, dimostrano con tutta probabilità che il sistema della sicurezza sociale è giunto a un punto di svolta. Leggi tutto
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Premessa
Vorrei cominciare con
una cosa che col titolo (già di per sé criptico per molti)
apparentemente non c'entra nulla. Un grande classico, questo:
"Our export industries are suffering because they are the first to be asked to accept the 10 per cent reduction. If every one was accepting a similar reduction at the same time, the cost of living would fall, so that the lower money wage would represent nearly the same real wage as before. But, in fact, there is no machinery for effecting a simultaneous reduction. Deliberately to raise the value of sterling money in England means, therefore, engaging in a struggle with each separate group in turn, with no prospect that the final result will be fair, and no guarantee that the stronger groups will not gain at the expense of the weaker."
Che a beneficio dei diversamente familiari con la lingua dell'Impero potrei tradurre così:
"Le nostre imprese esportatrici stanno soffrendo perché sono le prime alle quali si chiede di accettare una riduzione del 10% [dei salari, NdC]. Se ognuno accettasse una simile riduzione allo stesso tempo, il costo della vita diminuirebbe [perché i prezzi diminuirebbero di altrettanto, NdC], e quindi un salario inferiore in termini monetari equivarrebbe più o meno allo stesso salario reale [potere d'acquisto, NdC] di prima. Ma, in effetti, non c'è alcun meccanismo che possa mettere in pratica una simile riduzione simultanea. In Inghilterra, innalzare deliberatamente il valore della sterlina significa, quindi, impegnarsi a lottare separatamente con ciascun gruppo di interessi, senza alcuna prospettiva che il risultato finale sia equo, né alcuna garanzia che il gruppo più forte non prevarrà a spese del più debole".
Inutile dire (a voi) che la stessa cosa si otterrebbe, in Italia, innalzando deliberatamente il valore della lira.
Leggi tuttoI cieli
dell’Egitto, di questi
tempi, sono più pericolosi del triangolo delle Bermude,
soprattutto per gli aerei che transitano da uno scalo di
un Paese alleato del
presidente Abd Al-Sisi: il disastro del volo Egyptair
MS804 presenta forti analogie con l’attentato al volo
russo Metrojet 9268, perpetrato
ufficialmente “dall’ISIS”. Il mezzo di trasporto, la
tratta percorsa ed il momento della quasi certa esplosione
sono vocaboli di un
preciso lessico terroristico, con cui gli ambienti
atlantici esprimono il loro disappunto per
l’intraprendenza francese in Egitto ed Libia, in
contrasto con gli interessi angloamericani. L’attentato
denota un salto di qualità nel contesto internazionale,
spostando la lotta
per gli assetti mediorientali dentro al ristretto “patto
di sindacato” della NATO.
* * *
Appartiene agli anni ’50-’60, l’epoca dei primi voli commerciali transoceanici col puntuale scalo alle isole Azzorre, il mito del triangolo delle Bermude: era il tratto di oceano “maledetto” tra l’arcipelago delle Bermude, l’isola di Puerto Rico e la penisola della Florida, dove si narrava che aeroplani e navi scomparissero sovente nel nulla. Leggi tutto
«La differenza fra le persone comuni ed i professori universitari consiste nel fatto che questi ultimi sono arrivati all'ignoranza dopo lunghi e difficili studi.» (Oscar Wilde - Aforismi).
C'è
qualcosa di
profondamente corrotto nel regno del pensiero radicale alla
francese. Non utilizzo il termine "corrotto" in senso morale,
ma nel senso delle merci
"andate a male" dal momento della loro produzione. Ovviamente,
il fenomeno non attiene all'oggi e lo spettacolo
politico-culturale che offre la place
de la République ne è solo la manifestazione più recente. Nel
supermercato delle ideologie che in quella piazza ha montato i
suoi
stand, il postmodernismo occupa il posto principale. In
particolare il "deleuzismo", il quale, in maniera del tutto
evidente, costituisce uno dei
denominatori comuni al cittadinismo mille volte riciclato e
aggiornato che regna ai piedi della statua della dea tutelare
dello Stato esagonale, e che
punteggia i discorsi dei politici alla moda, a cominciare da
Lordon. Vista la mitologia favorevole che ha permesso di
nobilitare il deleuzismo, di
attribuirgli il titolo di pensiero sovversivo, e visto il
ruolo che gioca attualmente, vale la pena di tornare
brevemente sul percorso di Deleuze e
dei suoi accoliti, senza pretendere esaustività ma mostrando
quali sono state le sue prese di posizione durante i periodi
chiave della storia
con cui si sono confrontati. Deleuze fa parte di quei
personaggi che, all'indomani del maggio 68, avevano la pretesa
di essere dei filosofi impegnati
in attività originali e di aprire dei percorsi di riflessione
e di azione che andavano oltre i confini tracciati e bloccati
dal militantismo
tradizionale. Benché le sue prese di posizione non esauriscano
la questione dell'analisi critica della sua "cassetta degli
attrezzi"
concettuale, le prime dipendono dalla seconda e in molti casi
ne rivelano il senso. Cosa che i riciclatori di oggi
preferiscono occultare. Leggi tutto
Sandro Vero recensisce l'ultimo libro di Paolo Ercolani, Contro le donne (Marsilio 2016)
C'è stato un tempo - diciamo durante tutti gli anni '70 e i primi della decade successiva - in cui questo libro avrebbe scatenato le ire di un certo agguerrito femminismo, il cui fondamentalismo avrebbe peraltro contribuito a polverizzare la galassia dei pensieri che mulinavano a sinistra della sinistra. La ragione sarebbe probabilmente stata la seguente: un uomo che si cimenta nell'impresa di raccontare la "storia del più antico pregiudizio", quello contro le donne, non può che essere sospettato di imporre, per l'ennesima volta e per di più con intenzioni di apparente lealtà nei loro confronti, il punto di vista maschile, al maschile. Roba totalmente inaccettabile, in quegli anni tesi, cupi, spruzzati di un funereo mood che poteva perfino far dubitare della sincerità rivoluzionaria di un borghese come Marx!
Oggi - vivaddio - ci siamo lasciati alle spalle un poco di quell'ubbia e possiamo ragionare con la mente più sgombra su un lavoro come questo di Paolo Ercolani, che si concede solo il gusto provocatorio di usare come titolo proprio ciò che intende attaccare, smontare, favorendo l'equivoco che si tratti del solito libro misogino ma svelando invece già dal sottotitolo il reale proposito di raccontare la più ampia, trasversale, pervasiva narrazione che l'umanità abbia costruito: quella, appunto, contro le donne. Leggi tutto
Riceviamo e pubblichiamo una lettera relativa al tanto sbandierato concorsone MiBACT, di 500 posti addirittura! Peccato che dal decreto – il bando non è ancora uscito – risultino criteri di selezione quantomeno opinabili...ma non solo: come giustamente ci scrivono, un concorso fatto così è lo specchio del nostro paese: poche assunzioni, per pochi intimi, laddove servirebbero ben altri numeri, in un settore che, invece di puntare ad una vera riqualificazione – artistica, culturale, geologica – è diventata nei disegni governativi il biglietto da visita del paese...per cui va bene che le case crollino, l'importante è che a Ferragosto al Colosseo non ci sia – orrore! - un'assemblea sindacale!
* * *
Cari,
vi scrivo per condividere alcune riflessioni a seguito della pubblicazione del recente decreto ministeriale relativo alla procedura di selezione pubblica per l'assunzione di 500 funzionari al MIBACT. All'articolo 2 (Requisiti per l'ammissione) si dice testualmente che per accedere al concorso servono, oltre alla laurea, un diploma di specializzazione, o dottorato di ricerca, o master universitario di secondo livello di durata biennale.
Stupisce la richiesta dei titoli altri rispetto all'abilitazione, considerato che sia i master che le scuole di specializzazione non sono gentilmente offerti dalle università ma si pagano, e anche profumatamente.
Leggi tuttoIl New York Times ha pubblicato qualche giorno fa una notizia piuttosto inquietante. E’ stato organizzato un summit segreto in USA, alla Harvard Medical School di Boston, per valutare la creazione di un genoma umano sintetico. La riunione a porte chiuse fra gli scienziati coinvolti si è occupata della possibilità di usare componenti chimici per produrre tutto il DNA contenuto nei cromosomi umani. Il genoma sintetico potrebbe essere usato per creare esseri umani senza genitori.
L’incontro aveva caratteristiche estremamente riservate e i 150 partecipanti avevano l’obbligo di non parlarne e di non divulgare la notizia.
Abbiamo detto e ridetto tante volte che la scienza non è neutra, ma che è funzionale alle richieste e agli scopi che si vogliono ottenere e che chi ha il potere economico e politico chiaramente ne fa l’uso che più gli è confacente. Ed è altrettanto chiaro che è impossibile impedire ricerca e sperimentazione perché oltre tutto non sono il male in sé, ma dipende da chi e come vengono usate.
Ora, scienza e tecnologia sono capaci di indurre la produzione di ovuli, di congelarli, di conservare il seme in appositi luoghi, di catalogare tutto per caratteristiche, di metterli insieme in provetta, di far nascere qualcun* con malattie o senza malattie, con tre gambe o una gamba sola, a seconda dei desideri.. Possono clonare un essere vivente da un pezzetto di DNA e noi non siamo neanche in grado di distinguerlo da uno vero. Leggi tutto
In un cinese maccheronico, anzi vermicellaio, il titolo di questo post significa Fabbrica Italiana Automobili Torino e la traduzione scherzosa di una sigla antica, per qualche verso gloriosa, è ormai d’obbligo visto che la maggioranza azionaria della Fica di Marchionne, pardon della Fca, potrebbe essere comprata dalla Guangzhou Automobile Group che del resto già produce le Jeep che vengono vendute agli ammerregani di casa nostra, convinti nella loro assurda ottusità di appoggiare le terga su un prodotto tutto made in Usa. Ora non c’è nulla né di scandaloso, né di oscuro nel fatto che la Fiat finisca in mani cinesi, anzi molto meglio che in quelle americane abituate a succhiare tecnologie a a sputare la buccia, come Chrysler ha fatto prima con la Peugeot e poi con la Mercedes, lasciando enormi buchi nei loro bilanci e impadronendosi dei brevetti necessari a costruire veicoli un po’ più evoluti rispetto agli anni ’50. E del resto sono stati proprio i cinesi a salvare l’industria automobilistica svedese comprando la Volvo e salvandone fabbriche e know how, al contrario di General Motors che ha affondato la Saab non prima di averne acquisito le tecnologie.
Il problema non è davvero questo, anzi sarebbe un sollievo se non fosse che la Guangzhou vuole fare l’operazione al solo scopo di aggredire il mercato americano, mentre ciò che rimane della Fiat non è che un’appendice ormai senza importanza strategica e soprattutto senza una vera autonomia progettuale ( vedi nota). Leggi tutto
Quando la politica viene prima dell'economia... Le "pagelle" dei commissari europei e il futuro della "flessibilità" di Renzi
Alla fine sono arrivate le
Raccomandazioni-Paese. Non ridete, si chiamano
proprio così nel burocratese ufficiale della Commissione
che ha il compito di
emetterle annualmente. La stampa, che ama volgarizzare, le
definisce invece "pagelle". Già questa terminologia la dice
lunga sia sulla natura
che sullo stato della (dis)Unione Europea.
Come previsto (almeno da chi scrive) i commissari sono stati quest'anno di manica larga. La barca fa acqua da tutte le parti e non è il caso di fare gli schizzinosi. I "poveri" (non per lo stipendio) tecnocrati sono sinceramente affezionati ai loro dogmi, ma qualche volta la politica comanda perfino a Bruxelles.
Mentre Cipro, Slovenia ed Irlanda hanno incassato l'abrogazione della "procedura di infrazione" (il burocratese eurista colpisce ancora); Spagna e Portogallo hanno per ora schivato le sanzioni previste dalle regole sul deficit dei conti pubblici. Se ne riparlerà a luglio. Strano mese, direte. Ma il fatto è che luglio viene dopo giugno, ed il 26 di quel mese gli spagnoli andranno alle urne. E l'amico Rajoy - amico della Merkel s'intende - val bene una deroga. Pare che anche Schaeuble questa volta abbia chiuso volentieri un occhio. Leggi tutto
Nella tattica del terrorismo aereo
di Stato,
scatenato contro i paesi islamici a partire dai missili
travestiti da aerei dell’11 settembre, rilanciato contro la
Russia dal MH17 malese
abbattuto sul Donbass nel luglio 2014, l’Egitto è al momento
il target privilegiato. E possiamo con tranquilla sicurezza
dire,
parafrasando Pasolini, che noi sappiamo, pur non avendo altre
prove che l’identità, la pratica storica e gli interessi del
colpevole.
Chi, l’ottobre scorso, ha fatto esplodere sul Sinai il
Metrojet russo in volo da Sharm el Sheik con 224 persone a
bordo ha colpito la
Russia, antagonista globale e particolarmente vincente in
Siria, insieme all’Egitto, dove un’insurrezione di 30 milioni
di cittadini aveva
eliminato dalla scena il Fratello Musulmano Mohamed Morsi e
aveva sancito nel successivo voto la vittoria del generale
Abdel Fatah Al Sisi. E qui
colui che aveva collocato la bomba sull’aereo è stato
catturato: un jihadista dell’Isis, vale a dire un miliziano
del ramo
terrorista della Fratellanza.
Questi aeroporti supersicuri con le voragini
Visto che Francia e Belgio appaino terreni di scorribande di terroristi con appiccicata l’etichetta Isis e vista la dimostrata apatia (inefficienza? complicità?) dimostrata dalle autorità di sorveglianza franco-belghe in occasione delle mega-operazioni di questi terroristi, viene naturale pensare che anche all’aeroporto Charles De Gaulle non si sia stati esasperatamente impegnati a impedire che qualche manina depositasse nell’Egypt Air in partenza per il Cairo l’ordigno che è stato visto bruciare nel cielo sopra il Mar Egeo. Leggi tutto
Un carteggio sull'Effetto di sdoppiamento. In calce a questo scritto le domande rivolte agli autori
Caro Fabio,
nel
rispondere al tuo scritto – fin troppo generoso nei nostri
confronti – vogliamo per il momento concentrarci solo su due
distinte
tematiche, e cioè:
Il rapporto tra marxismo e teoria dell’effetto di sdoppiamento, con il derivato primato della sfera politica (Lenin, “Che fare?”, 1902 e sulla successiva polemica contro Trotsky e Bucharin, nel 1920/21);
Quale sia l’utilità politica, a cosa serve concretamente la tesi dell’effetto di sdoppiamento, con la sua analisi dell’epoca “sdoppiata” del surplus dal 900 a.C. fino a i nostri giorni.
Sulla prima questione, sottolineiamo subito che il primo e finora ignorato precursore della teoria dell’effetto di sdoppiamento è stato Karl Marx, in un suo geniale lavoro del 1881 che semi-marxisti russi quali Plechanov, Axelrod e Vera Zasulich occultarono e nascosero vergognosamente per quasi quattro decenni e che venne invece pubblicato in Unione Sovietica nel 1924.
Infatti all’interno della bozza e stesura provvisoria della sua lettera del marzo 1881 indirizzata a Vera Zasulich, il geniale rivoluzionario tedesco analizzò anche la dinamica generale di sviluppo delle millenarie comuni rurali (la “comune agricola”, nella terminologia usata da Marx), notando tra le altre cose che «come… fase ultima della formazione primitiva della società, la comune agricola… è nello stesso tempo fase di trapasso alla formazione secondaria e, quindi, di trapasso dalla società basata sulla proprietà comune alla società basata sulla proprietà privata.
Leggi tuttoIl quotidiano inglese “The Telegraph” ha lanciato una sorta di appello al Presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ad uscire dall’euro prima che la moneta unica affossi definitivamente l’Italia. La sortita del quotidiano britannico si inserisce nella campagna referendaria sulla eventuale scelta della “Brexit”, cioè l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. L’opinione anti-europeista nel Regno Unito sa di muoversi in margini ristretti e compressi dall’ingerenza della NATO, perciò cerca sponde internazionali e sembra pronta ad aggrapparsi persino ad uno come Renzi.
In realtà l’appello non andava rivolto a Renzi ma alle forze in grado di compiere quel colpo di Stato necessario a dare corpo ad una scelta come l’uscita dall’euro. Si tratterebbe in effetti di un contro-golpe, poiché anche l’euro, ed in generale il regime UE insediatosi nell’ultimo quarto di secolo, sono stati messi in atto con procedure golpiste. Il problema è che in Italia anche queste forze mancano, in quanto la sconfitta bellica ha condotto ad una dissoluzione delle forze armate ed a una loro ricostruzione sotto il controllo della NATO, e porre la questione dell’uscita dall’euro senza affrontare anche quella dell’uscita dalla NATO è pura astrazione. Il Regno Unito ha basi NATO e americane sul proprio territorio, ma le forze armate britanniche vantano ancora una loro continuità con quelle precedenti alla ferrea alleanza con gli USA, cosa che non si può dire dell’Italia, Paese militarmente occupato tout-court.
Leggi tuttoPubblichiamo un estratto da “Anime elettriche. Riti e miti sociali” di Ippolita, edito da Jaca Book (marzo 2016), un testo che riflette sulle contraddizioni prodotte dalla digitalizzazione delle nostre esistenze in rete
I social sono un campo da gioco sterminato, una straordinaria palestra di pornografia emotiva per la scienza della comunicazione e il marketing, soprattutto perché amplificano le caratteristiche virali dei messaggi, la loro carica contagiosa. La velocità è tutto: se non agganci l’utente in una manciata di secondi, non sei efficace. In prima istanza, esistono due grandi agglomerati di corpi. Da una parte, la grande massa degli utenti, con i loro corpi organici; dall’altra, il corpus tecnologico sul quale gli organismi proiettano il loro alter ego digitale: il retroterra inorganico, di silicio e codici. Le macchine in rete organizzano l’espressione dei corpi organici, ovvero letteralmente si nutrono di essi, della loro biodiversità. Il corpus di conoscenze necessarie all’interazione fra organico e inorganico costituisce un terzo polo, che però può essere riassorbito negli altri due[1]. Ci interessa qui distinguere fra le diverse forme di oscenità interiore degli utenti e l’oscenità delle macchine, il loro essere cose gettate nel mondo, ossatura esposta, sistema nervoso estroflesso, struttura tecnico-culturale.
Esaminiamo da vicino l’opposizione corpi analogici – corpi digitali. Proviamo a seguire gli attori coinvolti. Osserviamo cosa accade quando mandiamo una mail, inviamo un messaggio, postiamo un contenuto. Leggi tutto
Soffia da tempo un vento reazionario sul continente latinoamericano. Lo si è intravisto nelle radicali opposizioni di destra e nella perdita di fiducia dei cittadini ai governi progressisti in Bolivia, in Argentina, e soprattutto in Venezuela e Brasile; in quest'ultimo caso si è manifestato apertamente con le tornate elettorali degli ultimi mesi e con l'impeachment a Dilma Rousseff. La Presidente brasiliana è stata incastrata da un "golpe suave": la pratica "democratica", sempre più in voga, con cui i poteri forti neoliberisti rovesciano governi scomodi, come era giá successo con Manuel Zelaya in Honduras nel 2009 e Fernando Lugo in Paraguay nel 2012.
In Argentina ha vinto le elezioni dello scorso dicembre Macri. Il nuovo Presidente è un neoliberista convinto, che mette in atto provvedimenti con la formula del decreto, vale a dire senza passare attraverso l'approvazione del Parlamento, dimostrando così cosa sia questa nuova destra, demagogica, populista e pronta a tutto pur di favorire i grandi capitali a scapito delle persone. Va da sè che le sue politiche producano così licenziamenti di massa, precarizzazione del lavoro e misure repressive straordinarie nei confronti di chi protesta. Macri non ha fatto mistero di voler tagliare ogni ponte con il kirchnerismo e in questo senso vanno visti gli attacchi a sempre più diffusi oppositori al governo, tra cui le Madres de Plaza de Mayo, che dalle elezioni hanno iniziato a subire minacce ed intimidazioni. Leggi tutto
Negli anni ’70 e ’80 il “Plan Condor” fu il coordinamento delle dittature civico-militari dell’America Latina, con la supervisione di Washington e della CIA, per eliminare gli oppositori politici, tramite il sequestro, la tortura e l’omicidio di migliaia di dirigenti e militanti delle organizzazioni popolari.
Con la contro-offensiva statunitense nel suo “cortile di casa”, all’inizio del XXI° secolo assistiamo ad una riedizione “moderna” del Plan Condor attraverso la nuova modalità dei golpe istituzionali. Dopo i tentativi golpisti in Venezuela (2002), Bolivia (2008), Honduras (2009), Ecuador (2010), Paraguay (2012), oggi è la volta del gigante Brasile, tra i più ghiotti bocconi dell’ultimo attacco.
Con il pretesto della lotta alla corruzione, lo scorso 12 maggio in Brasile è andata in scena la farsa grottesca del giudizio politico contro la Presidente della Repubblica Dilma Roussef, sotto accusa per aver cambiato destinazione ad alcune voci del bilancio federale. Si è trattato di una farsa giuridica, con l’obiettivo di criminalizzare decisioni amministrative e non certo di colpire reati di corruzione. L’opposizione non è stata in grado di presentare uno straccio di prova, né alla Camera, né al Senato, ma ciò non è bastato a fermare l’impeachment. In mancanza di prove di reato, siamo testimoni di un vero e proprio colpo di Stato parlamentare, realizzato grazie a decine di parlamentari corrotti, contro la volontà di più di 54 milioni di brasiliani che hanno eletto Dilma. Ed è così che, nonostante la sconfitta alle urne, la destra torna al governo con un golpe. Leggi tutto
Adesso Renzi non vuol "personalizzare" il referendum. Strano: ci era parso il contrario. Ma nonostante i consigli dei sondaggisti non potrà evitare che il voto sia politico, dunque su se stesso e sul suo governo
Il Bomba non si smentisce mai. Con la stessa arroganza con la quale ha annunciato per mesi che il referendum di ottobre sarà innanzitutto il decisivo giudizio sulla sua augusta persona, adesso viene a dirci che la personalizzazione non l'ha voluta lui, bensì il "fronte del NO".
Che il fiorentino consideri gli italiani come dei gonzi ai quali si può raccontare tutto ed il contrario di tutto è cosa nota. Che il popolo sia davvero così fesso è una tesi che consideriamo invece piuttosto ardita. In ogni caso i conti si faranno a ottobre.
E il problema sono proprio i conti, che a Renzi cominciano a non tornare più. Qualche mese fa i sondaggi non avevano dubbi: il SI' avrebbe prevalso con un'ampia maggioranza. Intimiditi da quei numeri, anche molti sostenitori del NO paventavano la trasformazione del referendum in un plebiscito a favore di Renzi. Adesso i numeri sono cambiati: alcuni sondaggi danno il NO in vantaggio, ed anche quelli che continuano a stimare la prevalenza del SI' vedono però il NO in recupero rispetto alle precedenti rilevazioni.
Su questo sito non abbiamo mai creduto alla facile vittoria renziana. Leggi tutto
Il techblog Gizmodo denuncia pratiche occulte e scorrette di selezione dei contenuti: Zuckerberg e l'algoritmo decidono per noi
Un articolo uscito ieri sul popolare blog di tecnologia “Gizmodo” denuncia pratiche occulte e scorrette di selezione dei contenuti da parte del colosso di Menlo Park.
A poche ore dalla sua pubblicazione, i commenti all’articolo “Former Facebook Workers: We Routinely Suppressed Conservative News” su Gizmodo sono più di 1600, le condivisioni su Facebook oltre 12mila, migliaia i Tweet. In continua e costante crescita.
Facebook cancella le notizie “conservatrici”
L’autorevole sito di informazione e tecnologia racconta che alcuni ex collaboratori di Facebook hanno rivelato che, durante il loro lavoro redazionale e su mandato del Social Network, avrebbero rimosso dalla sezione delle “trending news” notizie di interesse per l’ala politica conservatrice americana o relative allo stesso Facebook ed “iniettato” contenuti di vario tipo. (Le Trending News formano una colonna alla destra della Home non ancora disponibile in tutti i paesi – ndr).
Leggi tuttoCome era prevedibile il governo socialista francese si è piegato alle direttive della cabina di comando politico finanziario europeo, mettendo in atto un piccolo colpo di stato per imporre la riforma del lavoro contro la piazza. Lo strumento utilizzato (per la prima volta al fine di cancellare i diritti acquisiti dei lavoratori e per giunta ad opera di un esecutivo socialista) è stato quello dell’art. 49-3. Torna in mente il saggio satirico che il giovane Marx pubblicò nel 1845, La sacra famiglia. Questa volta la trinità che pretende di imporre una nuova etica della flessibilità e della produttività (ovviamente per il nostro bene, come già avevano spiegato a noi in occasione del Jobs Act) si chiamano San Francoise Hollande, San Manuel Valls e Santa Myriam El Khomri (in Marocco fu martirizzato nel 1220 San Berardo, pare fosse un avo del nostro Franco Berardi detto Bifo). Marx aveva colto (in quegli anni apparentemente calmi che precedevano l’inatteso 1848: è successo un quarantotto si dice ancora oggi!) i punti fragili dell’ideologia idealistica, l’incapacità di ricondurre il rivolgimento economico dentro le (vecchie e nuove) costruzioni filosofiche ottocentesche. Torniamo ai giorni nostri. L’operazione di attacco al reddito delle classi subalterne era riuscita perfettamente in Italia; si trattava di riprodurla, rimuovendo le conquiste dei lavoratori francesi. Questo l’ordine della troika. In sostanza (quasi non vale la pena di analizzare in dettaglio la lois del ministro El Khomri) si trattava di facilitare i licenziamenti e di abbassarne il costo, così da poter istituzionalizzare e legalizzare il rapporto precario a chiamata. Leggi tutto
Nonostante il compagno F. abbia provato in tutti i modi ad autoescludere l’a-sinistra residuale dal novero delle scelte compatibili, quelle che puntualmente richiamano all’ordine schiere animate di maleminoristi dei quartieri bene della Roma rosé, grazie al Consiglio di Stato non vivremo l’emozione di vedere compagni sperduti nell’unico momento di visibilità che conta: quello di farsi contare. Sarebbe stata di gran lunga l’azione più radicale prodotta nel campo della sinistra riformista da anni a questa parte. Peccato. Come però detto in precedenza, queste elezioni assumono un valore tutto particolare, perché avvengono nel cuore della lotta renziana per l’affermazione stabile del suo soggetto politico, lotta che vedrà il suo momento culminante nel referendum costituzionale di ottobre. Un’affermazione che può e deve essere combattuta con ogni mezzo necessario, perché causa primaria della contorsione ordoliberista in corso oggi in Italia, che impedisce in nuce ogni possibile resistenza, che normalizza un paese adeguandolo agli standard di sviluppo anglosassoni.
Questo significa che esiste una concreta differenza politica tra i soggetti in campo? Ci mancherebbe altro. Giachetti, Marchini, Meloni e Raggi condividono, con accenti diversi, una visione del mondo e dei rapporti sociali in buona sostanza speculare. E la condividono non in base a valutazioni ideali, che pure avrebbero un loro peso, ma valutando concretamente il governo dei territori messo in campo laddove queste forze governano effettivamente. Leggi tutto
Le democrazie che conosciamo non sono più né necessarie né utili per il tipo di sistemi politici funzionali all’attuale accumulazione, anzi sono un ostacolo. Meglio una crescente militarizzazione delle zone povere, come le periferie urbane, e degli spazi che le grandi multinazionali colonizzano cacciando intere popolazioni. Ogni movimento di resistenza va neutralizzato e, quando arrivano al governo forze che potrebbero uscire dal copione estrattivista, vanno rese inoffensive mettendole al proprio servizio o destituendole. In questi giorni, in Brasile, vediamo una combinazione di entrambe le strategie. Le strategie dei movimenti antisistemici dovrebbero pensare nel lungo termine, poi evitare di illudersi di poter gestire le difficoltà del sistema ma l’urgenza strategica maggiore è comprendere il modello estrattivo per spoliazione. Abbiamo commesso grossi errori: se siamo davvero di fronte a una guerra delle classi dominanti contro i popoli, perché il mondo concepito per il dominio dell’uno per cento dei suoi abitanti tollera a malapena la metà dell’attuale popolazione del pianeta – il resto è di troppo, non serve più neanche per produrre plusvalore, perché il sistema accumula rubando – , allora gestire alcuni aspetti del campo di concentramento non è la strada migliore.
* * *
Le classi dominanti del mondo hanno deciso, in tempi relativamente recenti, di sferrare una guerra contro i popoli, al fine di rimanere al potere in un periodo di acuti cambiamenti.
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Se si legge Marx con le lenti di Ricardo, la sua teoria appare contraddittoria. Occorre invece avere chiara la sua netta rottura con l'economia classica
La
difficoltà o l'impossibilità di misurare gli oggetti non
implica che essi non esistano o che non siano regolati da
determinate leggi.
Nella meccanica quantistica, per esempio, secondo il principio
di indeterminazione di Heisenberg, è impossibile misurare con
precisione, nello
stesso istante, sia la posizione che la velocità di una
particella. Però la teoria di Marx è stata criticata per via
della
difficoltà di misurare il lavoro sociale necessario a produrre
una merce oppure di stabilire a quanto tempo di lavoro
semplice corrisponde
un'ora di un lavoro complesso, maggiormente specializzato. È
agevole rispondere che per Marx è il mercato a stabilire il
tempo lavoro
necessario a produrre una merce. Se la misura immanente del
valore è il tempo di lavoro, quella “fenomenica esterna” è il
denaro, quale rappresentante di ricchezza astratta e quindi di
un certo tempo di lavoro. È il mercato che verifica se e in
che misura il lavoro
prestato è lavoro socialmente necessario. Così pure, Marx non
si è mai sognato di cercare di risolvere il “puzzle”
[1] della riduzione del lavoro complesso a lavoro semplice,
limitandosi casomai a indicare come ciò sia possibile in via
teorica. Anche nei
suoi esempi numerici, ha quasi sempre utilizzato il denaro
come misura del valore. La sua teoria non serve a determinare
in vitro il valore
delle merci, ma a scoprire le leggi di movimento del modo di
produzione capitalistico e metterne a nudo le contraddizioni.
Essa deve essere valutata
sulla base della sua capacità o meno di raggiungere questo
obiettivo e naturalmente sulla base della sua coerenza
interna.
Quali sono le ragioni della nostra
critica
alla Costituzione quale è stata riscritta dal governo, voluta
da Renzi e propagandata dalla Boschi?
Innanzi tutto il metodo. La Costituzione non e’ un regolamento di condominio, non è una legge ordinaria, è qualcosa che si pone al confine tra la storia e il diritto; nella Costituzione entra il senso delle vicende storiche del Paese. La Costituzione del ’48 è l’espressione di una vicenda storica particolarmente dura per il nostro Paese. La Costituzione rappresenta cio’ che unisce gli italiani e li trasforma in una comunita’ in cui tutti si possano riconoscere e in cui tutti possano riconoscere di avere un destino comune. Quindi la Costituzione non è frutto di un indirizzo politico di maggioranza, non puo’ essere scritta da una fazione. In effetti la Costituzione fu approvata da un’Assemblea costituente eletta col metodo proporzionale, che rappresentava tutte le opzioni politico-culturali presenti nella societa’ italiana; il lavoro di questo corpo costituzionale fu portato a termine con un’approvazione quasi all’unanimita’; ci furono 453 voti su 515, quindi la stragrande maggioranza del popolo italiano approvo’ la Costituzione che adesso viene messa in questione.
L’attuale riforma è la piu’ vasta, la piu’ organica che sia stata mai proposta dal ’48 ad oggi, se si fa eccezione della riforma di Berlusconi che non è mai diventata legge perche’ fu bocciata nel referendum del 2006; quindi giustamente il nostro documento dice che questo disegno di legge sostituisce la Costituzione italiana con un’altra. Leggi tutto
Premessa
In queste pagine vogliamo condividere la nostra lettura della fase economica e politica, esprimere il nostro punto di vista sulla prossima tornata amministrativa a Napoli, e sui compiti che ci attendono se vogliamo provare a contrastare la crisi e le politiche che da ormai otto anni ci stanno massacrando. Speriamo soprattutto che questo documento possa diventare la base di futuri confronti.
Prima di iniziare ci teniamo però a socializzare questa riflessione, una preoccupazione e una speranza che non ci fa dormire la notte.
I tempi che stiamo vivendo sono davvero eccezionali. Dal 2008 gran parte del mondo è in preda a una crisi economica epocale, la più grave di sempre. Le classi dominanti non hanno la minima idea di come uscire da questa crisi, perché per uscirne bisognerebbe toccare i loro profitti e le loro ricchezze, e non vogliono che questo accada. Non vogliono concederci nulla, anche perché sanno che la fame vien mangiando... Quindi restringono gli spazi di espressione, manganellano ogni protesta, ci fanno fare ulteriori sacrifici, tagliano servizi sociali, aumentano tasse, tolgono diritti.
Leggi tuttoL’era Thatcher comincia a declinare? Il consenso di cui godeva l’ideologia neoliberista negli anni Ottanta e Novanta entrò in crisi a Seattle nel 1999. Negli anni successivi al 2008 la fede nel Mercato è rapidamente crollata: oggi solo i lupi della classe finanziaria esaltano l’autoregolazione perfetta del capitalismo assoluto e solo gli imbecilli ci credono. Dopo il gigantesco intervento con cui i governi di tutto il mondo dopo il 2008 hanno gettato nella disperazione e nella miseria milioni di persone per salvare il sistema bancario, la maggioranza della popolazione sa che l’assolutismo finanziario è una trappola mortale anche se non sa come se ne possa uscire.
Poiché talvolta la disperazione sconvolge la ragione, ecco che forse inizia l’epoca Trump. Cerchiamo di descriverne le linee generali: il cervello sociale è stato sequestrato dall’astrazione tecno-finanziaria, e il corpo della società scollegato dal cervello si dibatte come un gigante idiota che mena colpi devastanti contro se stesso. Per analizzare il viluppo di ignoranza cinismo e irragionevolezza che sta emergendo, siamo costretti a usare una parola che fa orrore. Il concetto di «razza» è destituito di ogni fondamento scientifico, ciononostante nell’inconscio contemporaneo esplode con forza mitologica. Negli Stati Uniti d’America l’elezione di un presidente nero ha messo in moto da tempo nell’inconscio collettivo una reazione che oggi prende forma intorno alla figura di Donald Trump. Leggi tutto
1. Uno degli strumenti fondamentali della narrazione ideologica del capitalismo è la nozione dell’autonomia delle passioni, ovvero il concetto della loro natura di processi sostanzialmente non pianificabili, non controllabili. Dunque, estranei al suo sistema di organizzazione del mondo.
Necessario corollario di questo “luogo” incontrovertibile della ragione del capitale è il seguente: se le passioni sono autonome rispetto all’ingegneria sociale dell’economia e perfino della politica, se il momento “passionale” è irriducibile alla costruzione quotidiana di una soggettività votata al rispecchiamento dei meccanismi oggettivi della produzione e del consumo, se cioè le passioni introducono nel “discorso” del capitale un elemento perturbante, spurio, caotico, allora — indubbiamente — la loro materia è costituzionalmente refrattaria rispetto alla forma che prendono, nel mondo del profitto, i rapporti sociali, i rapporti gerarchicamente disposti a comporre la macchina sociale.
Come a dire che esperienza, vissuto, matericità delle passioni e ingegneria sociale non possono comporre un linguaggio, nella misura in cui le prime non sono disponibili a fornire la loro materia alla forma del tracciato progettuale del capitale, venendo così a mancare quella solidarietà fra la forma e la sostanza che tiene insieme, ognuno per proprio conto e nell’incontro strutturale del sistema semiotico, i piani dell’espressione e del contenuto.
2. Ora, l’apparenza apodittica di tale narrazione consente operazioni di occultamento particolarmente efficaci. Leggi tutto
Lungo la nuova cortina di ferro si moltiplicano gli arresti di personalità anti-NATO. Da ultimo il politico polacco Piskorski: è la nuova Europa pre-guerra
Quante volte avete letto sul giornale che il "dittatore Putin" mette in galera chi la pensa diversamente da lui, che in Russia l'opposizione politica viene perseguitata? E magari - nessuno è perfetto - ci avete anche creduto!
D'altra parte, come diceva Goebbels, ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità. La semplice verità è che chi gode di un consenso popolare superiore all'80 per cento - ed è proprio questo il caso di Putin in Russia - non ha proprio alcun bisogno di incarcerare i pochi che la pensano diversamente da lui. Sarebbe fatica sprecata - e nel contempo una pessima pubblicità.
Infatti, contrariamente alla propaganda nostrana, in Russia non accade nulla del genere - e se intendete obiettare per favore fate i nomi degli incarcerati. Al contrario, questa è l'ultima spiaggia dei regimi dove il consenso popolare è in caduta libera - come guarda caso quelli dell'Occidente sedicente democratico, dove sempre meno gente va a votare, avendo ormai perduto ogni speranza di venire rappresentata.
Non deve quindi stupire più di tanto l'osservatore smaliziato il fatto che in Polonia il 18 maggio 2016 i politici con marcate simpatie filorusse e anti-NATO siano stati oggetto di una retata delle forze speciali, con l'accusa di «spionaggio per un paese straniero». Leggi tutto
Sono convinto che in un futuro,
speriamo più vicino possibile, ci si chiederà con
compassione ed incredulità
come sia stato possibile che le decisioni fondamentali del
nostro paese, e di molti altri, siano state sottoposte al
vaglio ed al giudizio meticoloso
di controllori esterni. Come sia stato possibile che un
parlamento eletto, seppure con un sistema truffaldino, abbia
accettato di rinunciare alla sua
sovranità per delegarla ad autorità esterne non elette da
nessuno. E soprattutto ci si chiederà come sia stato possibile
che le
decisioni sul lavoro, sulle pensioni, sulla sanità, sulla
scuola, sul sistema produttivo, sulle stesse regole
democratiche, siano state prese
in funzione del giudizio su di esse da parte di sconosciuti
burocrati installati e Bruxelles dalla finanza, dalle banche,
dal potere economico
multinazionale. Ci si chiederà come sia stato possibile che le generazioni
precedenti abbiano rinunciato a decidere sugli aspetti
fondamentali della propria vita sociale,
economica e politica, accettando il potere quasi assoluto di una
entità astratta chiamata
Europa. Entità astratta dietro la quale si sono nascosti gli
interessi concreti delle élites economiche, delle classi più
ricche
e delle caste politiche e burocratiche di tutti paesi del
continente. Tutte
queste élites non
avrebbero mai avuto la forza di imporre paese per paese,
ognuna direttamente
contro il proprio popolo, quella drammatica distruzione delle
conquiste sociali e democratiche che oggi stiamo vivendo. Leggi tutto
Abbiamo deciso di ripubblicare
l’articolo Saggio
medio del profitto e prezzo di
produzione perché in esso, al di là delle più
recenti modificazioni capitalistiche e degli avvenimenti,
spesso dolenti,
della storia mondiale, l’analisi ivi espressa sulla
«formazione del saggio medio di profitto in relazione al
processo di formazione dei
prezzi» resta più che valida, anzi, diremmo, operante: in
primis tale articolo, edito sul numero 5 della IV
serie della rivista
«Prometeo» (settembre 1981), riproponendo la posizione di
Marx con estrema esattezza e puntualità, funge da lettura
propedeutica
per chiunque volesse tentare una comprensione storica dei
fenomeni della «concentrazione dei mezzi di produzione»,
«del fenomeno
della caduta tendenziale del saggio di profitto», e di
quella che, circa trenta anni fa, era già la «crescente
espansione del
dominio parassitario del capitale finanziario».
In contrasto con le tesi degli economisti liberali e dei corifei del capitale, i quali volevano utilizzare il terzo libro del Capitale per sminuire la teoria del valore-lavoro, i «rilievi critici» di Marx a Ricardo vengono riproposti in Saggio medio del profitto e prezzo di produzione per ribadire con chiarezza come la «formazione di un saggio del profitto implica che i prezzi delle merci differiscano dai loro valori». Un assunto di primaria importanza se si vuole concepire, con Marx, la realtà economica odierna, in cui la «forza imperialistica», esercitata da ognuno dei vari centri di potere della borghesia mondiale, viene utilizzata al fine di incidere sulla «ripartizione» del «plusvalore complessivo», cioè mondiale. Leggi tutto
Presentazione
Come abbiamo scritto nel nostro primo editoriale, questo blog ospiterà e produrrà sia interventi sulla congiuntura politica, sia più ampie riflessioni sulla fase storica attuale, sia testi teorici di diversa lunghezza ma di apprezzabile densità. A quest’ultima categoria appartiene lo scritto che, estrapolandolo da un suo lavoro in progress, Edoardo De Marchi ha voluto predisporre proprio per Socialismo 2017. Si tratta di una interessante sintesi dell’intera esperienza economica sovietica, ispirata alle letture di Charles Bettelheim e Gianfranco la Grassa ma avente una propria autonoma direzione. Al di là degli accordi e dei dissensi, Socialismo 2017 sceglie o chiede testi che rimettano all’ordine del giorno la discussione sul socialismo e lo facciano con serietà teorica e culturale: si vedrà facilmente che il bel contributo di De Marchi corrisponde in pieno a questi requisiti.
EDOARDO DE MARCHI – Ha insegnato Storia nella secondaria superiore e discipline economiche presso l’Università di Venezia. Si è dedicato a studi relativi all’intreccio fra evoluzione dei paradigmi economici e trasformazioni del capitalismo, pubblicando vari testi su questi temi. Tra gli ultimi ricordiamo Verso un nuovo capitalismo , Unicopli 2007 (con G. La Grassa) e L’economia politica del capitalismo industriale, Unicopli 2011. Leggi tutto
Rapporto annuale 2016: l'Italia è il paese dove le diseguaglianze di classe sono cresciute di più al mondo dopo il Regno Unito. I giovani e i minori, schiacciati dal sistema della precarietà, sono senza giustizia. Le famiglie sostituiscono il welfare e sostengono i figli senza lavoro fisso e pensione, ma iper-precari. Invece di disinnescare questa bomba sociale che sta facendo esplodere il Welfare (familiare), si preferisce insultarli: «bamboccioni»
Il paese dove le differenze di classe crescono e si rafforzano. È il ritratto che emerge dal rapporto annuale 2016 presentato ieri dal presidente dell’Istat Giorgio Alleva alla Camera, alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella e in coincidenza del 90° anniversario dell’istituto nazionale di statistica. Tra il 1990 e il 2010 le diseguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate da 0,40 a 0,51 nell’indice Gini sui redditi individuali lordi da lavoro. È l’incremento più alto tra tutti i paesi per i quali sono disponibili i dati.
Chi proviene da una famiglia con uno statsu alto – ha una casa di proprietà e almeno un genitore con istruzione universitario – ha visto accrescere la distanza economica e sociale rispetto a chi proviene da famiglie di status basso: l’Italia è al 63%, percentuale quasi doppia della Francia (37%) e Danimarca (39%). Primo in classifica è il Regno Unito con il 79%, il paese della rivoluzione thatcheriana che ha rafforzato a dismisura dagli anni Ottanta in poi le differenze di classe, come ha ricordato da ultimo Anthony Atkinson nel suo libro Diseguaglianza.
Leggi tuttoMiguel Angel Núñez dirige l’Istituto universitario latinoamericano di agroecologia Paulo Freire, creato a Barinas in Venezuela nel 2008. E’ autore dei saggi Venezuela Ecosocialista e Vivir despierto entre los cambios sociales oltre a moltissimi articoli in tema di agroecologia, modelli di sviluppo, giustizia ecologica. Gli abbiamo rivolto alcune domande, di fronte a un contesto preoccupante, con il Venezuela nel mirino. Continua la guerra economica promossa dalle oligarchie nazionali e internazionali. Continuano gli attacchi da parte della dittatura mediatica. La destra fascista venezuelana organizza il referendum revocatorio contro il presidente Nicolas Maduro. Un documento del Comando Sud degli Stati Uniti rivela il micidiale piano golpista del Pentagono per destabilizzare e rovesciare la Rivoluzione bolivariana. E l’ex presidente colombiano Uribe praticamente invoca un golpe…
* * *
Miguel Angel, il tuo più recente
articolo è sull’Utopia
venezuelana che può e deve resistere all’intervento
golpista
dall’esterno e al sabotaggio dall’interno…
L’utopia che stiamo costruendo fra grandi difficoltà non è rinviabile ed è inarrestabile. Leggi tutto
Riflessioni sull'attentato aereo al largo dell'Egitto. L'inarrestabile imbarbarimento nei regolamenti di conti tra Stati, alleati compresi
Che l'Egitto sia candidato ad essere il prossimo paese a finire nell'occhio del ciclone che ha investito e devastato l'intero mondo arabo, è sempre più certo. E sono molti ormai gli indizi. Così come è chiaro che, più ancora della destabilizzazione interna, la preoccupazione degli autori di questo disegno è ora quella di tagliare i ponti tra il paese dei faraoni e i suoi partner occidentali.
Occorre ragionare a fondo sul tragico attentato che ha tolto la vita ai 60 passeggeri del volo Parigi-Cairo. Chi può averlo voluto? In che momento arriva? Vuol colpire soltanto l'Egitto o anche la Francia?
È credibile che il colpevole sia il solito ISIS, utile villain che si fa concavo e convesso come copertura di mille e più nefandezze? Difficile crederci.
Ragionare freddamente di geopolitica significa contestualizzare, mettere pazientemente insieme i tasselli del puzzle. Se seguiamo questa traccia, anziché quella irrazionale che ci verrà sicuramente suggerita dai media, scopriamo che qualcosa di più complesso è in atto.
Che sia in progetto un'operazione di regime-change oppure qualcosa di più grande, è troppo presto per dirlo. Ma nel frattempo il messaggio nell'aria è chiaro: i paesi occidentali devono interrompere le proprie relazioni con il Cairo, volenti o nolenti. Leggi tutto
Molto, troppo, ha fatto discutere
la
nostra posizione pubblica riguardo alle prossime elezioni
romane, svelando il solito nervo scoperto della sinistra
residuale rispetto alle elezioni:
da passaggio prettamente tattico vengono sempre
affrontate con l’ansia da prestazione data dall’evento, a cui
dare la massima
rilevanza strategica sia nel caso dei votanti a prescindere
sia nel campo dell’astensionismo purista. Niente di nuovo.
L’ovvia marea di
commenti ha però fatto emergere una questione a suo modo
interessante, questa sì imprevista. Nel criticare giustamente
le
caratteristiche politiche del Movimento 5 Stelle, abbiamo
scoperto che il Movimento di Grillo viene concepito nientemeno
che partito
“fascista” o addirittura “neofascista”.
La questione è di estremo interesse, perché la critica serrata ad un soggetto politico ha un suo valore se viene centrata, se cioè si hanno le capacità interpretative per comprendere i suoi limiti, il suo ruolo sociale, il paesaggio politico nel quale è inserito, le ragioni sociali della sua nascita e della sua forza. Una critica sconclusionata non interessa tanto l’aspetto teorico della vicenda, in questo caso marginale, ma inficia gli strumenti da predisporre per l’agire politico della sinistra nella società. Leggi tutto
Come sarebbe una guerra fra
Russia e
Stati Uniti?
Questa è la domanda che mi sento fare più di frequente. Questa è anche la domanda a cui sento dare le risposte più bizzarre e sbagliate. Mi sono già occupato della questione in passato e chi fosse interessato all’argomento può fare riferimento ai seguenti articoli:
Marco Pannella se n’è andato a 86 anni. Se la solidarietà umana di fronte a una morte si deve comprendere, ben più difficile è capire chi da sinistra si spertica nell’elogio politico del leader del Partito Radicale italiano venuto a mancare.
In effetti Pannella di sinistra non era affatto: certo, alcuni elementi di laicità e di garantismo potevano essere comuni al fronte progressista, ma Pannella era liberista in economia e imperialista in politica estera, oltre che un anti-comunista viscerale e lacrimevole. Impegnato nell’ambito del diritto all’aborto, non fu però – come invece si sente affermare – il promotore del diritto al divorzio, che fu invece avanzato dal Partito Socialista Italiano con Loris Fortuna e che, dopo un primissimo momento di titubanza, fu ampiamente sostenuto dal Partito Comunista Italiano con Giancarlo Pajetta e dal Partito Radicale di Pannella appunto.
Pannella era anti-militarista e non-violento, era colui che parlava a favore dell’obiezione di coscienza, ma poi – ogni volta che gli Stati Uniti entravano in scena contro le nazioni che osavano non sottomettersi ai diktat di Washington – che fossero Cuba, l’ex-Jugoslavia, l’Iraq, l’Afganistan, la Libia o oggi la Siria, Pannella c’era: sì, ma per difendere la NATO, sostenendo tutte le guerre neo-coloniali e tutti colpi di stato che si sono susseguiti negli ultimi decenni. E la foto in cui indossa la divisa fascista degli Squadroni della Morte degli Ustascia Croati ce le siamo scordata? Leggi tutto
Un gruppetto di banditi ha preso, assaltandola, la presidenza del Brasile.
Ne fanno parte tre attori principali: da un lato, un elevato numero di parlamentari (da ricordare che su un terzo di essi pesano gravissime accuse di corruzione), la maggioranza dei quali è arrivata al Congresso quale prodotto di un’assurda legislazione elettorale che permette ad un candidato che ottenga appena qualche centinaio di voti di accedere ad uno scranno grazie alla perversa magia del “quoziente elettorale”. Queste eminenti nullità hanno potuto destituire provvisoriamente chi è arrivato al Palazzo del Planalto con l’avallo di 54 milioni di voti.
Secondo, un potere giudiziario sospettato nella stessa misura di connivenza con la corruzione generalizzata del sistema politica e rifiutato da una gran parte della popolazione del Brasile. Ma è un potere dello Stato ermeticamente chiuso a qualsiasi forma di controllo democratico o popolare, profondamente oligarchico nella sua cosmovisione e visceralmente contrario a qualsiasi alternativa politica che si proponga di costruire un paese più giusto ed egualitario. Inoltre, come i legislatori, quei giudici e quei procuratori sono stati per quasi due decenni addestrati dai loro pari statunitensi con corsi presumibilmente tecnici ma che, come ben si sa, hanno un fondo politico che non ha bisogno di tanti sforzi per immaginare il suo contorno ideologico. Leggi tutto
Campeggia nei corridoi della sezione lavoro del Tribunale di Milano, da alcuni giorni, un singolare manifesto di promozione di un corso dal titolo “Licenziamento collettivo e diritto dell’unione europea”, che attira l’attenzione per il contenuto del testo di presentazione dell’incontro.
Per l’ignota mano che ha vergato la locandina
“le riforme del lavoro varate negli ultimi tre anni incidono profondamente sulla regolamentazione del mercato del lavoro italiano. Alla base delle riforme sembra di intravedere un vero e proprio cambio di paradigma. La cultura del novecento concepiva il diritto del lavoro come un ordinamento giuridico volto a soddisfare il bisogno di tutela del lavoratore ed a riequilibrare i rapporti di forza tra “capitale e lavoro”.
A questa considerazione preliminare, fa seguito un giudizio tranciante:
“Quest’impianto ha mostrato, nel tempo, di non essere in grado di rappresentare la complessità del mondo del lavoro ed offrire strumenti di inclusione per quelle fasce, sempre piu’ ampie, di lavoratori privi di diritti.
In particolare, l’esigenza di attrarre investimenti stranieri e, al contempo, convincere le aziende a non delocalizzare verso mercati del lavoro piu’ convenienti richiede, certamente, forti dosi di flessibilità.
Ecco dunque la soluzione del problema: Leggi tutto
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In un'interessante lezione Federico Martino ha ricostruito la storia dei diritti umani, mostrando la stretta relazione che essi intrattengono con l'individualismo occidentale e con il costituirsi della borghesia. Tale legame di classe ostacola però la loro efficace applicazione
Il
passato 6 maggio Federico Martino, storico
del diritto e professore emerito dell'Università di Messina,
ha tenuto
un'interessante lezione sui diritti umani,
il cui titolo coincide con quello del presente articolo. La
lezione è stata tenuta
nell'ambito del corso di Antropologia culturale, disciplina il
cui oggetto precipuo è rappresentato dallo studio delle
differenze tra le forme
di vita sociale che si sono succedute nella storia e che
coesistono nella società contemporanea, sia pure ormai
inserite in un unico sistema
politico-economico profondamente conflittuale. In ambito
antropologico l'indagine sulle differenze è sempre
accompagnata dalla riflessione
sulla possibilità di individuare un denominatore comune che
possa fungere da elemento di raccordo tra le diversità che, in
seguito ai
processi migratori degli ultimi decenni, costellano la nostra
vita quotidiana.
Federico Martino ha esordito indicando quali erano i presupposti metodologici a cui si richiamava per illustrare sia pure rapidamente la storia di tali principi fondativi della nostra forma di organizzazione sociale, rimarcando al contempo le criticità che sono strettamente connesse alla loro applicazione, assai spesso ispirata alla volontà di ingerenza ed espansione.
Leggi tuttoI richiami
alla teoria economica al tempo delle crisi paiono talora
imprevedibili e fantasiosi; oggi, tanto per fare un esempio,
il superamento di una recessione
internazionale che si approssima al decennio di vita viene
ipotizzato tramite il varo di misure del tutto radicali, così
tanto da superare il
pensiero keynesiano e approdare, come per incanto, al suo più
tenace oppositore, Milton Friedman.
Paradosso di certo: si scava nel pensiero del più ostinato critico delle politiche keynesiane, anche quando il monetarismo sembra caduto in disgrazia, e si arriva, nel massimo del radicalismo corrente, a resuscitare l’immagine dell’elicottero che, volando sopra di noi, elargisce, per conto della banca centrale, moneta legale ai cittadini di un’economia depressa e afflitta da disoccupazione involontaria.
Supponiamo adesso che un giorno un elicottero sorvoli questa comunità e lanci 1000 dollari dal cielo, che, ovviamente, verrebbero frettolosamente raccolti dai membri della comunità. (Friedman, 1969).
L’intento della provocazione di Friedman in questo passo oggigiorno frequentemente ripreso dalla pubblicistica, specializzata e non, era molteplice:
Leggi tuttoIl 26 maggio Jaca Book manda in libreria Un outsider alla Casa Bianca, l’autobiografia politica di Bernie Sanders, scritta con Huck Gutman (282 pp., euro 18). L’edizione italiana è accompagnata da un testo di Marco D’Eramo e dalla postfazione di Carlo Formenti, che proponiamo qui per gentile concessione dell’editore
Bernie Sanders è un populista?
Sicuramente si autodefinisce tale (in più occasioni ha
dichiarato «sono socialista e populista»). Rivendicazione che
suona
male alle orecchie di una sinistra europea che, pur se
simpatizza per lui, è abituata ad associare il populismo ai
movimenti nazionalisti
e xenofobi di casa propria (nemmeno l’esordio sullo scenario
europeo di movimenti come Podemos è riuscito a scalzare del
tutto tale
pregiudizio). E ancor più suona male sulle pagine dei big
media americani, i quali, unanimemente schierati con i
candidati
«ufficiali» dei due grandi partiti tradizionali, Democratici
e Repubblicani, associano Sanders a Donald Trump –
l’uomo che sfida l’ establishment repubblicano come
Sanders sfida quello democratico – considerando entrambi
espressione di un fenomeno politico che, soprattutto se uno di
loro dovesse vincere la corsa presidenziale, minaccia di
sovvertire gli equilibri
della società, dell’economia e del sistema politico americani.
Ma Sanders e Trump si somigliano davvero (politicamente
parlando, visto
che, in quanto individui, non potrebbero essere più diversi)?
E ancora: il populismo rappresenta davvero una minaccia per la
democrazia?
Proviamo ad abbozzare qualche risposta a partire dal secondo
interrogativo. Leggi tutto
Nelle letture più attendibili sulla crisi in Europa, il rapporto squilibrato tra centro e periferia ha avuto sempre un peso rilevante. E’ ormai assodato, d’altronde, che alla radice dei problemi di alcuni paesi periferici, a cominciare dalla Grecia, ci sia stata una dinamica fatale tra indebitamento e consumi. Capitali che dal centro sono defluiti verso la periferia per sostenerne la domanda interna, alimentando una gigantesca macchina del debito, soprattutto privato. Una storia di surplus da un lato, di deficit dall’altro. Basta ricordare che paesi come la Spagna, la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda sono arrivati ad accumulare un debito con l’estero superiore anche al 90% del proprio Prodotto interno lordo. Poi, quando la bolla è scoppiata, il rubinetto del credito è stato chiuso, ma i debiti sono rimasti. E una parte di questi, da privati sono diventati pubblici, debito pubblico.
Nel frattempo, la crisi e l’austerità continuano a fare il loro corso, producendo, tra le altre cose, anche un maggiore equilibrio delle bilance dei pagamenti in ambito europeo. Perfino la Grecia, nel 2013 ha fatto registrare un surplus nella bilancia delle partite correnti, il primo dal 1948, da quando cioè la Banca di Grecia ha iniziato ad annotare questi dati. Cos’è successo? Forse che tutti i paesi della zona euro sono diventati d’un tratto locomotive dell’export? Nient’affatto. Al netto di qualche discreta performance che ha riguardato recentemente alcuni paesi, tra cui l’Italia e la Spagna, le locomotive sono rimaste locomotive, mentre tutti gli altri hanno semplicemente stretto la cinghia. Leggi tutto
L’assassinio mirato del leader Talebano Akhtar Muhammad Mansour da parte di un drone delle forze armate degli Stati Uniti, avvenuto la settimana scorsa in territorio pakistano, ha riproposto in maniera clamorosa tutte le divisioni che stanno segnando i rapporti tra i due paesi teoricamente alleati. L’incursione americana non rappresenta infatti un caso isolato, ma si collega a una serie di altre questioni che negli ultimi mesi hanno agitato gli equilibri diplomatici in Asia centrale, nonché ai riflessi strategici degli sforzi di Washington nel districarsi dall’ultradecennale conflitto sul doppio fronte di Pakistan e Afghanistan.
Le versioni proposte dalla stampa USA del raid che ha liquidato il successore del Mullah Omar hanno lasciato poco spazio ai dubbi sullo stato delle relazioni bilaterali. Il Wall Street Journal, citando fonti interne all’amministrazione Obama, ha scritto che il governo e i militari americani non avevano notificato anticipatamente al Pakistan l’attacco contro Mansour di sabato scorso. Non solo, l’operazione è avvenuta nella provincia sudoccidentale del Belucistan, considerata dagli Stati Uniti off-limits per i propri droni.
La reazione ufficiale di Islamabad confermerebbe questa versione, visto che il ministro degli Esteri pakistano ha fatto sapere lunedì di avere convocato l’ambasciatore americano per presentare una protesta formale in seguito alla violazione della sovranità territoriale del suo paese da parte degli USA. Leggi tutto
L’evoluzione della situazione politica in Brasile si fa sempre più complessa. Dopo la dichiarazione di impeachment di Dilma Rousseff, il rigurgito neoliberista sembra aver preso il sopravvento. In realtà, lo scontro in atto è tra due modelli, parimenti fallimentari: quello del mercato e quello neo-sviluppista statale. Entrambi, tuttavia, incapaci di fornire risposte adeguate alla domanda di cambiamento sociale e di rinnovamento politico che i movimenti brasiliani sono stati in grado di mettere in campo negli anni scorsi, il cui culmine ha coinciso con le manifestazioni del giugno 2013, duramente represse dal governo. Moyses Pinto Neto, insegnante di diritto e filosofia a Porto Alegre, blogger e collaboratore di vari siti su politica e calcio, analizza in questo articolo l’impasse della situazione brasiliana, cogliendo gli aspetti strutturali dello scontro in atto. Traduzione di Marcella Martinelli
* * * * *
Tra tutte le difficoltà che incontriamo per analizzare la crisi politica brasiliana, forse la principale è dovuta al fatto che buona parte delle analisi – specialmente quelle legate al wishful thinking dell “ufficialismo” [1] del PT – non riesce a rappresentarla se non sotto il manto del golpismo o di qualche tipo di macchinazione cospiratoria contro un qualcosa che comunque sarebbe positivo.
Leggi tuttoL'economia mondiale può essere vista come un gigantesco motore di calore. Consuma energia, principalmente sotto forma di combustibili fossili, e la usa per produrre beni e servizi. A prescindere da quanto sia messo a punto ed efficiente il motore, ha comunque bisogno di energia per funzionare. Così, se vogliamo fare il grande cambiamento che chiamiamo “transizione energetica” dai combustibili fossili alle rinnovabili, non possiamo basarci solo su efficienza e risparmio energetico. Dobbiamo alimentare la grande bestia con qualcosa che la faccia funzionare, l'energia prodotta dalle fonti rinnovabili come il fotovoltaico (FV) ed eolico sotto forma di energia elettrica.
Ecco qualche nota sul tipo di sforzo di cui abbiamo bisogno per passare ad una infrastruttura completamente rinnovabile prima che sia troppo tardi per evitare la doppia minaccia della distruzione climatica e dell'esaurimento delle risorse. Si tratta di un compito arduo: dobbiamo farlo, fondamentalmente, in circa 50 anni da adesso, probabilmente meno, altrimenti sarà troppo tardi per evitare un disastro climatico. Cerchiamo quindi un calcolo “sul retro di una busta” che possa fornire una stima di ordine di grandezza. Per una trattazione completa, vedete questo articolo di Sgouridis et al.
Cominciamo: per prima cosa, la potenza media a livello mondiale è stimata in circa 18TW in termini di energia primaria.
Leggi tuttoÈ il caso di rammentare sùbito
– onde evitare tanti equivoci nati da una lettura troppo
affezionatamente ammiratrice di Marx – che lui quando coniò il
titolo del
futuro iv libro storico del Capitale <“Teorie sul
plusvalore”> lo pensò unicamente in quanto
rivolto alla ricerca, del tutto tralasciata o ignorata dagli
economisti borghesi (classici e volgari), dell’“origine
sociale del
profitto” —— ovvero del guadagno dell’imprenditore
[proprietario privato] capitalista in sèguito allo scambio
contro denaro di merci ottenute entro quello specifico modo di
produzione. Ma devono essere chiare due questioni, sia che: 1)
questa
particolare analisi è circoscritta soltanto al modo
di produzione e circolazione della merce capitalistica
(dove
c’è valore e plusvalore); 2) un qualsiasi
proprietario privato, in altri modi di produzione
(per ora solo
precedenti, i <futuri> per la loro significazione sono
ineffabili), può trasformare il mero denaro che possiede, in
qualsiasi altro
oggetto che desideri o trarne eventualmente un vantaggio
monetario. Tuttavia unicamente la rappresentazione del
capitale in denaro diviene
tale solo e soltanto se esso denaro\capitale è
funzionalmente legato a comprare come merce la
forza-lavoro altrui per
valorizzarsi: ma un vantaggioso guadagno monetario
[che gli agenti e i contabili del capitale denotano come
“profitto” – e
per Marx il tasso del profitto ha cause empiriche e forme
diverse dal tasso di plusvalore che pure lo determina
concettualmente] si può
ottenere in tanti modi diversi dall’uso funzionale della
forza-lavoro altrui non pagata, cioè dall’aver trasformato
quel
<denaro in quanto tale> in capitale per far
produrre plusvalore mediante pluslavoro.
Le
pratiche adottate dalla polizia francese negli ultimi mesi, e
in particolare fra la fine d’aprile e il 18 maggio, hanno
scioccato la
maggioranza dei manifestanti pacifici e provocato danni e
ferite a molti di loro. Il 17 maggio la polizia ha inscenato
manifestazioni di protesta
contro le violenze anti-flics e il 18 i servizi
d’ordine dei sindacati hanno picchiato duramente alcuni
cosiddetti casseurs.
Le testimonianze e i dibattiti su questi fatti sono numerosi
(si vedano i reportage di Médiapart, qualche tv e
anche di «Le
Monde» e «Libération»)1
. Manca però una riflessione più approfondita e anche
una prospettiva comparativa con fatti
simili riscontrati, su un periodo più lungo, in altri paesi
sedicenti democratici2
.
Indurimento, deriva e deregolamentazione incontrollati, involuzione violenta: definizioni come queste, adottate da diversi commentatori delle recenti pratiche poliziesche, indicano che si sarebbe di fronte a un cambiamento inatteso. Tali fatti sono avvenuti nella congiuntura della scelta del governo d’imporre la legge El Khomri di riforma delle norme che regolano i rapporti di lavoro (una sorta di job act), manifestamente ispirata alla logica liberista. I capi dello Stato e del Governo, François Hollande e Manuel Valls, hanno affermato con fermezza di voler escludere qualsiasi negoziazione con i parlamentari «dissidenti» e con sindacati e scioperanti.
Leggi tuttoDa ormai oltre un trentennio, quanto meno dalla famigerata intervista su “La Repubblica” ad Enrico Berlinguer nel 1981 (tema all’ordine del giorno “la questione morale”), il debito pubblico italiano è elemento centrale del nostro dibattito politico. Ma se al tempo del Berlinguer “moralizzatore” e del pentapartito “spendaccione” (visione ovviamente partigiana e non rispondente pienamente al vero, come vedremo), i termini della questione si ponevano rispetto all’esigenza di una maggiore sobrietà dei costumi e di legalità degli atti/fatti dell’azione amministrativa, dall’inizio degli anni ’90, con l’introduzione dei parametri di Maastricht, il dibattito è gioco forza sceso dall’ambito teorico, per arrivare a porsi come “problema all’ordine del giorno”.
Diciamo che l’eccesso di debito pubblico ha condizionato, attraverso la teoria del “vincolo esterno”, molte (se non la maggior parte) delle nostre scelte di politica economica nazionale. E obiettivamente i parametri di contabilità nazionale hanno sempre fatto apparire il nostro paese come la “pecora nera” all’interno dell’Unione Europea, con un debito pubblico estremamente elevato (ben oltre il 100% del Pil dal 1992, con picchi odierni sino al 132%) nonché poco sostenibile (il disavanzo si è mantenuto oltre il 7% del Pil sino al 1997, per poi attestarsi, in media, nell’intorno del 3%).
Leggi tuttoClintoniani d'Europa. In una stagione avara di speranze la crisi storica del socialismo continentale metafora di una politica senza ideali
L’implosione della sinistra perbene emerge inconfutabile da recenti accadimenti in paesi dell’Unione Europea a guida socialista. Implosione in senso lato: in Austria, per la crisi politica innescata dall’«emergenza» immigrazione; altrove – da noi e in Francia – per le scelte conseguenti alla mutazione genetica che l’ha trasformatai in una forza organica di restaurazione.
La reazione austriaca all’ondata migratoria replica in forme estreme un fenomeno classico. Le tensioni e i conflitti provocati dalla mancata integrazione si concentrano nelle periferie e in quelli che sino a poco tempo prima erano i quartieri rossi delle grandi città, col risultato di trasformarli nelle roccaforti della destra ultranazionalista. Per mesi a Vienna le squadre neonaziste si sono sentite spalleggiate e hanno moltiplicano le aggressioni. D’altra parte il governo ha rincorso la deriva xenofoba, come si è visto al Brennero e col varo di una legge più restrittiva sul diritto d’asilo. Com’è finita, per il momento, lo sappiamo. Al ballottaggio l’erede di Jörg Haider ha perso, per il rotto della cuffia. Ma il vero fallimento è quello del Partito socialdemocratico che, dopo una decina di anni di governo, lascia un paese spaccato, più che mai restio a fare i conti con il proprio passato nero, e una destra razzista votata da un elettore su due. Leggi tutto
Nell’ultimo anno della presidenza Obama, Zero Hedge elenca una serie di “record” negativi raggiunti durante i suoi due mandati. Il presidente nero, che solo perché nero aveva suscitato ferventi entusiasmi e improbabili aspettative di cambiamento, si è dimostrato per molti versi uno spietato conservatore e guerrafondaio. (I post originali a cui si fa riferimento sono ovviamente in inglese, ma qui trovate una sintesi.)
Bush è stato orribile come presidente. A quel tempo pensavo che fosse il peggiore presidente della storia americana.
Ma poi è arrivato Obama e ha stabilito un sacco di record…
Per esempio, l’amministrazione Obama:
– Ha fatto perseguire legalmente più informatori [“whistleblower”: persone che trasfugano e trasmettono notizie tenute segrete dalle autorità, come Edward Snowden, NdT] di tutti gli altri presidenti messi assieme.
– Ha fatto condannare questi informatori a un numero di anni di galera 31 volte superiore a quello di tutti gli altri presidenti messi assieme.
– Ha perseguito meno reati finanziari di quanto abbiano fatto Reagan, Clinton, ed entrambi i presidenti Bush. (Per quanto pessima fosse l’amministrazione Bush, almeno ha fatto processare i vertici di Enron, Worldcom, e un po’ di altri truffatori tra i colletti bianchi. Leggi tutto
Un bell’articolo su The Guardian a proposito di Harmony of the Seas, la più grande nave crociera del mondo: ricordiamo che il settore delle crociere cresce dell‘8,5% l’anno da oltre vent’anni, e impiega a tempo pieno quasi un milione di persone. Insomma unisce tutto ciò che il Luogo Comune vuole: divertimento, giro di soldi e posti di lavoro.
Harmony of the Seas si autodescrive in questa maniera:
“Un vortice di emozioni
sarà in assoluto la nave più grande al mondo. Con […] l’introduzione di sensazionali elementi di classe Quantum:
Il Bionic Bar, il primo bar gestito da barman-robot,
Le camere con balcone virtuale,
La connessione wi fi più veloce mai esistita su una nave da crocieraTre scivoli multipiano, con curve e avvitamenti mozzafiato a tutta velocità;
Leggi tutto
Ultimate Abyss;lo scivolo più alto che esista su una nave da crociera, coi suoi 45 metri di altezza dal livello del mare, che vi farà vivere un adrenalinico avvitamento alto 10 ponti.
La fine del 2015 ha confermato la tendenza, già emersa con chiarezza a inizio d’anno, di un pronunciato rallentamento del credito internazionale. La Bis ha rilasciato pochi giorni fa le ultime statistiche sull’attività bancaria nell’ultimo quarto dell’anno appena terminato e ciò che se ne trae è la conferma che il credito, per le ragioni più diverse, ha iniziato una retromarcia che può contribuire a spiegare lo slowdown del mercati finanziari che ha inaugurato il 2016.
I dati sono inequivocabili. I prestiti transfrontalieri, che avevano iniziato a declinare a inizio 2015, e in particolare verso le economie emergenti, hanno confermato il loro trend che, nell’ultimo trimestre, ha interessato anche le economie avanzate. Ma certo, i paesi emergenti sono quelli che hanno pagato il prezzo più elevato in termini di deflussi di prestiti bancari. La Bis ha calcolato che il 2015 ha segnato un calo dell’8% dei prestiti bancari verso questi paesi, il calo più pronunciato dal 2009, ossia l’anno orribile dei mercati. Grande protagonista di questa retromarcia è stata la Cina, dove solo nell’ultimo quarto 2015 i prestiti sono diminuiti di 114 miliardi di dollari.
Se guardiamo al dato globale, si rileva che fra settembre e dicembre dell’anno scorso i prestiti transfrontalieri delle banche sono diminuiti di 650 miliardi nell’ultimo quarto. Il che ha riportato lo stock di crediti a 26,4 trilioni di dollari, più basso del 3% rispetto a inizio anno. Leggi tutto
L'analisi di quanto accaduto a partire
dall'introduzione dell'euro e soprattutto dallo scoppio della
crisi nel 2007-2008 dimostra la
necessità di mettere a tema la disgregazione dell'area euro.
Su questo bisogna fare due precisazioni. La prima è che
l'obiettivo
primario deve essere la Uem (Unione economica e monetaria) e
non la Ue nel suo complesso. Nonostante la Ue sia una
istituzione tutt'altro che neutrale
dal punto di vista di classe e funzionale alle istanze del
capitale, è l'euro lo strumento attraverso cui passa la
ristrutturazione
capitalistica a livello continentale. Senza di esso il
capitale perderebbe gran parte della sua capacità di imporre
politiche antipopolari e
alla Ue mancherebbe il braccio operativo. La seconda è che il
nostro primo compito consiste nel chiarire la necessità della
disgregazione dell'area euro. Il come questo debba avvenire è
importante, ma è successivo. La disgregazione dall'euro può
avvenire in modi diversi: per mutua decisione di tutti i Paesi
partecipanti, oppure per decisione unilaterale di uno o di più
Paesi. La mia
opinione è che l'uscita dall'euro anche unilaterale di uno o
più Paesi non debba più essere considerata un tabù,
bensì come una opzione praticabile e soprattutto necessaria.
Tuttavia, il quando e il come ciò possa avvenire non è
indifferente,
ed è legato alle condizioni del contesto generale e della
lotta di classe, sebbene già oggi, come accennerò più avanti,
sia necessario inserire l'uscita dall'euro in una elaborazione
programmatica più complessiva. Leggi tutto
«Non ti riconosco», un viaggio nella crisi del «made in Italy» a firma di Marco Revelli per Einaudi. Un libro sulla fine della grande fabbrica e dei distretti industriali, orfani di qualsiasi progetto di liberazione sociale
Un lungo viaggio per l’Italia,
facendo
tappa nelle città, le regioni, i luoghi che ne hanno scandito
la storia nel lungo Novecento. È quanto fa Marco Revelli nel
volume
Non ti riconosco (Einaudi, pp. 250, euro 20). Il punto
di partenza non poteva che essere Torino, la città operaia per
eccellenza che
Revelli conosce benissimo. Lì è cresciuto come intellettuale,
lì è cresciuto politicamente. A questa company town ha
dedicato altri libri e innumerevoli di articoli e saggi.
Torino era il luogo di un modello di società da cambiare per
costruire una
«città futura». Non è andata così, come è noto.
Torino è diventata il ground zero del Novecento italiano. Di quella classe operaia che ha incendiato le menti di molti militanti ci sono solo flebili tracce, il resto sono aree dismesse, terreni inquinati, rottami, ruggine e una immensa sequenza di templi del consumo che ne hanno ridisegnato la geografia, anche sociale. Il centro storico è stato però ripulito, rimesso a nuovo; i sindaci che si sono succeduti negli ultimi dieci, venti anni hanno solo accompagnato l’approfondirsi della sua morte come città simbolo dell’Italia industriale. Alcuni con pragmatismo, altri con complice subalternità ai piani della Fiat di abbandonare la città per proiettarsi sul palcoscenico impalpabile della finanza. Come in tanti altri luoghi, gli operai cacciati dalla fabbrica non hanno avuto altra alternativa che sopravvivere alla lenta, ma progressiva desertificazione sociale; l’élite invece si è «deterritorializzata», recidendo i suoi legami con il territorio, altra parola magica che tutto dice per non affermare nulla.
Leggi tuttoQuali
sono le ripercussioni della rivoluzione digitale del XXI
secolo incombenti sull’ assetto sociale e politico europeo?
Il digitale rappresenta più che una rivoluzione, rappresenta un passaggio di paradigma. Per alcuni versi è molto più profondo di qualsiasi cambiamento sociale, culturale ed economico concepibile da un’idea politica. Dall’altro sembra che possa riproporre una dialettica tra le classi. Ma di nuova generazione. Oggi se il digitale resta confinato, egemonizzato dal capitalismo globale e a dimensione planetaria, rischia di produrre una società suddivisa tra pochissimi ricchi e tantissimi poveri, tra una piccola parte di sfruttatori e una massa sterminata di sfruttati. La metafora creata da Occupy Wall Street è la più efficace: l’1% contro il 99% del mondo.
Quali cambiamenti ha apportato sulla nostra società e sullo scenario politico?
È cambiata la forma della socializzazione. Quando cambia la natura e la modalità con le quali gli umani si scambiano le relazioni, cambia tutto. E la politica non può restare al palo, pena la propria decadenza, la propria marginalità, la messa in fuori gioco. Ma non è solo un problema dei partiti. Anche le istituzioni, le forme codificate tra l’Ottocento e il Novecento delle nostre democrazie sono investite da nuove domande, da nuove richieste di partecipazione e di decisione. Leggi tutto
L’ultimo libro di Domenico Moro “La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico” (2016, Imprimatur Ed.), saggio di geopolitica e di analisi economica e politica del mondo attuale, potremmo anche leggerlo come un ulteriore “capitolo” dello studio che l’Autore va conducendo da almeno dieci anni a questa parte, da quando apparve il suo “Nuovo compendio del Capitale” (2006, Ed. dell’Orso), proseguito con lo studio del “Club Bilderberg” (2013, Aliberti) e poi con il volume sulla “Globalizzazione e decadenza industriale” (2015, Imprimatur ed.).
In questo ultimo libro l’Autore fa chiarezza definitiva sull’ ideologia, nel senso di falsa coscienza, dello scontro di civiltà, delle generalizzazioni semplificatorie sull’Islam, sul ruolo della religione, mettendo in primo piano la preponderante importanza dei meccanismi economici soggiacenti alle vicende storiche. Come si è arrivati al punto in cui siamo? Corriamo veramente il rischio di una deflagrazione mondiale?
Una prima spiegazione chiama in causa le responsabilità dell’Occidente nell’ aver contribuito a distruggere gli stati laici arabi come l’Irak, la Libia, la Siria in parte, o averne condizionato l’evoluzione progressista (a questo proposito Moro ci ricorda che anche l’Italia contribui’ alla caduta del leader tunisino Bourguiba). Molti governi occidentali, a cominciare dagli USA, hanno intrattenuto relazioni con raggruppamenti islamici per utilizzarli in modo spregiudicato contro regimi o governi scomodi (vedi l’Afghanistan durante l’occupazione sovietica) e non certo per amore della democrazia ma per la difesa di interessi economici e geopolitici. Leggi tutto
Il presidente del consiglio dice che è disposto a usare anche argomenti demagogici.Con l’aggravante di un cialtronismo che sbaglia tutte le citazioni
Il Presidente del Consiglio l’11 aprile scorso ha aperto la campagna elettorale sul referendum costituzionale annunciando che, per vincere, è disposto ad «usare anche argomenti demagogici». Un annuncio senza novità, la «demagogia», largamente coniugata alla forma «cialtronismo», è stata la cifra della sua comunicazione politica (propaganda) fin dai tempi della Leopolda.
Il «cialtronismo» è elemento fluidificante della «demagogia». In un contesto frutto di una coltivazione quasi trentennale di plebeismo, il «cialtronismo» può passare come aspetto disinvolto, popolare della comunicazione politica. Renzi può citare male e fuori contesto Chesterston, attribuire a Borges versi non suoi, attribuirsi una compartecipazione al traforo del Gottardo ignorandone persino la localizzazione (le televisioni svizzere si sono indignate e/o divertite; quelle italiane hanno sorvolato), ecc,.
E’ la continuità con Berlusconi, completa: ambedue demagoghi ed ignoranti, e di un’ignoranza di cui non hanno né coscienza né consapevolezza, hanno trasformato tale loro condizione in punto di forza. D’altra parte la «demagogia» si manifesta in maniera più persuasiva se può scaturire da una base «naturale». Sottovalutare le possibilità d’incidenza del connubio cialtronismo-demagogia nello scontro sul referendum costituzionale sarebbe un grave errore. Leggi tutto
Siamo forse arrivati ad un punto di svolta nel rapporto fra progresso tecnologico ed occupazione? È quanto sostiene in “Al posto tuo – Così Web e Robot ci stanno rubando il lavoro” il giornalista Riccardo Staglianò. Se infatti fino a qualche anno fa il delta fra i lavori creati e quelli distrutti dalle nuove tecnologie era positivo, il rapporto pare destinato ad invertirsi negli anni futuri. Vi è poi un ulteriore elemento di novità: c’è una serie di innovazioni in arrivo che potrebbero mettere a repentaglio non solo i tipici lavori da “colletti blu”, finora ritenuti più facili da automatizzare, ma anche professioni “insostettabili” come la medicina o il giornalismo.
Staglianò (che potremmo definire un tecno-entusiasta pentito) costruisce un libro che non ha un approccio scientifico al tema, ma costituisce piuttosto una utile carrellata su alcune delle principali innovazioni tecnologiche che già sono in campo o che lo saranno a breve, e sul loro potenziale distruttivo in termini di posti di lavoro in vari settori. Non si parla solo dei più noti (perché già pienamente operativi) Uber, Amazon ed Air B&B, ma anche di algoritmi in grado di scrivere articoli di giornale di senso compiuti (se ne trova un esempio in questo video del Financial Times), di robot in grado di rendere la catena di montaggio quasi totalmente automatizzata, di università digitali in grado di raggiungere un numero enorme di potenziali studenti. Leggi tutto
Bandiere a mezz’asta nei paesi Nato per «l’11 Settembre della Francia», mentre il presidente Obama annunciata ai media: «Vi forniremo accurate informazioni su chi è responsabile». Non c’è bisogno di aspettare, è già chiaro. L’ennesima strage di innocenti è stata provocata dalla serie di bombe a frammentazione geopolitica, fatte esplodere secondo una precisa strategia. Quella attuata da quando gli Usa, vinto il confronto con l’Urss, si sono autonominati «il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali», proponendosi di «impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione – l’Europa occidentale, l’Asia orientale, il territorio dell’ex Unione sovietica e l’Asia sud-occidentale – le cui risorse sarebbero sufficienti a generare una potenza globale».
A tal fine gli Usa hanno riorientato dal 1991 la propria strategia e, accordandosi con le potenze europee, quella della Nato. Da allora sono stati frammentati o demoliti con la guerra (aperta e coperta), uno dopo l’altro, gli stati ritenuti di ostacolo al piano di dominio globale – Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina e altri – mentre altri ancora (tra cui l’Iran) sono nel mirino.
Queste guerre, che hanno mietuto milioni di vittime, hanno disgregato intere società, creando una enorme massa di disperati, la cui frustrazione e ribellione sfociano da un lato in reale resistenza, ma dall’altro vengono sfruttate dalla Cia e altri servizi segreti (compresi quelli francesi) per irretire combattenti in una «jihad» di fatto funzionale alla strategia Usa/Nato. Leggi tutto
La scoperta di un giovane ricercatore distrugge un tabù sul debito pubblico basato su uno studio farlocco. Ma non sarà certo la ragione a fermare i mandarini del capitale. Un forte conflitto sociale in Europa è sempre più urgente
Ha fatto clamore la notizia che un giovane ricercatore, allievo dell'economista Robert Pollin, ha scoperto degli errori di calcolo nel lavoro, pubblicato nel 2010 sulla prestigiosissima American Economic Review, di Ken Rogoff, capo economista del Fondo monetario internazionale dal 1971 al 1973 e Carmen Reinhart [1]. Tale studio ha utilizzato i dati statistici sulla crescita economica, l'inflazione, la spesa pubblica e il debito pubblico di 44 paesi in un arco temporale di circa 200 anni, per un totale di 3.700 osservazioni, da ritenere statisticamente significative. I risultati, assai citati nella letteratura economica e dai sostenitori delle politiche europee di austerità, erano che un debito pubblico superiore al 90 per cento del Pil fa diminuire di almeno un punto percentuale la crescita del Pil. Altri risultati riguardavano l'inflazione e il debito estero, di cui sembrerebbero fortemente risentire in maniera negativa le economie dei paesi emergenti.
L'eccesso di austerità di Merkel e compagnia, è stato più volte giustificato dai tecnocrati proprio da queste elaborazioni. Per esempio il commissario UE per l’Economia, Olli Rehn, ha affermato che “È ampiamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca scientifica, che quando i livelli del debito pubblico salgono oltre il 90% tendono a presentare una dinamica economica negativa, la quale si trasforma in bassa crescita per molti anni”. Leggi tutto
Chiamiamo gatto un gatto. Quello che è accaduto in Brasile, con la destituzione della Presidente eletta, Dilma Rousseff, è un colpo di Stato. Colpo di Stato pseudo-legale, “costituzionale”, “istituzionale”, parlamentare, tutto ciò che si vorrà, ma pur sempre colpo di Stato.
Alcuni parlamentari – deputati e senatori – massicciamente compromessi in affari di corruzione (si parla del 60%) hanno istituito una procedura di impeachement contro la Presidente, con il pretesto di irregolarità contabili, di fiscalità creativa per colmare i deficit nei conti pubblici: una pratica di routine per tutti i governi brasiliani precedenti! Certo, molti quadri del PT (Partido dos Trabalhadores) sono implicati nello scandalo della corruzione di Petrobras, la Compagnia Nazionale del Petrolio, ma non Dilma… D’altro canto, i deputati di destra che hanno condotto la campagna contro la Presidente sono tra quelli maggiormente coinvolti in questo affare, a cominciare dal presidente del Parlamento Eduardo Cunha (recentemente sospeso), accusato di corruzione, riciclaggio, evasione fiscale a Panama, etc.
La pratica del colpo di Stato legale sembra essere la nuova strategia delle oligarchie latino-americane. Sperimentata in Honduras e in Paraguay – paesi che la stampa tratta spesso come “Repubbliche delle banane” – questa strategia si è rivelata efficace e in grado di eliminare Presidenti (molto moderatamente) di sinistra. Ora essa è stata applicata a un paese-continente…
Si possono muovere critiche a Dilma: non ha mantenuto le sue promesse elettorali e ha fatto grandissime concessioni ai banchieri, agli industriali, ai latifondisti. Leggi tutto
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L’«entusiasmo» per
il presunto aumento dell’occupazione e della stabilità dei
rapporti di lavoro prodotto dal Jobs Act è durato ben poco. Nel
primo
trimestre del 2016 i dati rivelano un netto calo di
assunzioni in coincidenza della riduzione degli sgravi
fiscali. L’aumento
delle assunzioni è infatti meno del 33,4% rispetto al primo
trimestre del 2015. Dati alla mano è evidente che la crescita
occupazionale
è stata solo un temporaneo abbaglio. Se lo scorso anno
l’esonero contributivo era pari al 100% per i primi tre anni,
da gennaio 2015
è del 40% per soli due anni. Insomma, le assunzioni o le
trasformazioni contrattuali sono strettamente legate alla
consistenza
dell’incentivo ma, laddove non c’è più risparmio totale, il
contratto a tutele crescenti chiaramente non è
più appetibile. Del resto, un’alta percentuale
dell’aumento rilevato consiste nella conversione di contratti
a tempo
determinato in contratti a tutele crescenti, dovuti agli
sgravi fiscali previsti per il primo periodo della loro
introduzione. Gli sgravi sono infatti
riservati alle cosiddette «nuove assunzioni», di nome ma non
di fatto. I cosiddetti «furbetti del Jobs Act» sono stati
smascherati qualche mese fa, quando l’INPS si è accorto che molti
lavoratori erano stati licenziati per poi essere riassunti
in
un secondo momento, affinché le aziende potessero godere
della decontribuzione. In alcuni casi, il giochetto
messo in pratica
consisteva nell’indurre i lavoratori a licenziarsi, per
assumerli poi con un’altra azienda o cooperativa creata ad
hoc e
operativa nello stesso luogo di lavoro.
Il passaggio da contratti a tempo determinato al contratto a tutele crescenti viene venduto come un successo ma, oltre a non costituire un aumento reale dell’occupazione, non garantisce nessuna crescita della stabilità del lavoro. Leggi tutto
1. L’obiettivo di questo
lavoro è analizzare le politiche di intervento del governo
Renzi, con un ampio approfondimento intorno alle questioni
legate al diritto alla
casa e ai nuovi scenari possibili di trasformazione
dell’urbano. Prenderemo in esame in modo particolare le
disposizioni del «Decreto
Lupi» (detto anche «Piano Casa»), ovvero ci concentreremo
esclusivamente su quei dispositivi giuridici che guardano –
nella
congiuntura della crisi economica – all’urbano, cercando di
comprendere come i fattori strutturali del modello
neoliberista siano
rafforzati verso un modello di società sempre più polarizzato.
A partire da un’analisi del testo giuridico e dalle ricadute
sociali che hanno avuto negli ultimi due anni, decostruiremo
le possibili conseguenze di tali politiche sulla dimensione
territoriale e urbana in
Italia. Le politiche del governo Renzi hanno inasprito o hanno
risolto i problemi della crisi economica? Quali le ricadute
sui diritti delle persone?
Quale ruolo hanno avuto queste scelte politiche nel facilitare
operazioni finanziarie volte a trasformare gli assetti
urbanistici del territorio?
2. Il «Decreto Lupi», ovvero il decreto legge 47/2014 intitolato «Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015», ha intrecciato nel medesimo dispositivo giuridico le problematiche sociali attinenti all’emergenza abitativa con l’organizzazione di Expo 2015 a Milano.
Leggi tuttoLe primarie statunitensi sono
ormai entrate nella loro fase finale verso le rispettive
Convention dei Democratici a Philadelphia e Repubblicani a
Cleveland nelle quali saranno
nominati i due candidati alla Presidenza degli USA nelle
elezioni del prossimo 8 novembre. Nonostante l’ostracismo di
parte del Partito
Repubblicano verso Trump e i “successi” ottenuti dal sedicente
“socialista democratico” Bernie Sanders nel Partito
Democratico, i superfavoriti rimangono il miliardario Trump
rimasto ormai unico candidato per i Repubblicani e Hillary
Clinton per i Democratici.
Anche se per quest’ultima la corsa alla candidatura si sta
dimostrando molto più complicata delle attese iniziali come
dimostra anche
l’ultimo voto in Kentucky e Oregon che ha visto di nuovo un
testa a testa che ha praticamente diviso in due l’elettorato
democratico con
55 delegati andati a Sanders e 51 alla Clinton che comunque
conserva un ampio vantaggio1
anche grazie a diversi casi di brogli.
Il teatrino delle elezioni americane
Le elezioni americane suscitano nell’opinione pubblica europea grande interesse fino alla suggestione e alla mitologia di alcuni bislacchi personaggi che animano lo “spettacolo elettorale”.
Leggi tuttoNon avendo visto il film con cui Ken Loach ha appena vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes non sono in grado – né lo sarei anche se lo avessi visto, dal momento che non sono un critico cinematografico – di darne una valutazione estetica. Tuttavia ho avuto modo di vedere molti dei suoi film precedenti e di apprezzarne sia il valore formale – dal modesto punto di vista di uno spettatore – sia l’impegno politico e sociale che nel corso della sua lunga carriera non è mai venuto meno (la foto che lo ritrae sul palco di Cannes con la Palma d’Oro nella mano sinistra e il pugno destro alzato in un gesto dall’inequivocabile significato ideologico ne fa testimonianza). È dunque evidente che, date che le mie risapute idee “veteromarxiste”, e la mia simpatia per le sinistre “antagoniste”, il mio giudizio su quest’ultimo film (dopo che lo avrò visto) sarà apriori indiziato di tendenziosità.
Ciò detto, dubito che la valutazione del Corriere della Sera, affidata alla penna del critico “patentato” della testata, Paolo Mereghetti, sia altrettanto sospetta, ancorché per ragioni opposte. Il pollice verso è già implicito nel titolo sul verdetto della giuria di Cannes, definito “superficiale” e accusato di incoronare “un comizio scontato”. Poi arriva la stroncatura: “I, Daniel Blake è più un comizio politico che un film (lo ha confermato anche il regista col suo discorso di ringraziamento), un’intemerata ideologica che trasforma un carpentiere in un agnello sacrificale lasciato solo di fronte all’insensibilità sociale dello Stato. Leggi tutto
Al momento in cui scriviamo quest'articolo, la Francia è bloccata: le manifestazioni e gli scioperi settoriali e generali contro il progetto di riforma del diritto del lavoro si contano a decine e non accennano a finire.
Lo
sciopero delle raffinerie ha lasciato a secco la maggior
parte dei distributori di
carburante, e quello delle centrali nucleari rischia di
lasciare senza corrente il paese. Nel frattempo il governo
ricorre ad una sorta di fiducia per
blindare il provvedimento, mostrando contemporaneamente
deboli segni di apertura al solo scopo di smontare una
protesta enorme, la cui grandezza
però non riesce ad attraversare le Alpi: sui nostri
giornali, infatti, nessuna traccia. Sui social, intanto,
decine e decine di lavoratori si
disperano: perché loro sì e noi no? Per evitare di cadere
in spiegazioni di ordine antropologico su una presunta
“incapacità” degli italiani a mobilitarsi, proviamo a
condividere alcune riflessioni, allo scopo di capire tutti
insieme una cosa
semplice: solo chi non lotta perde, e solo chi si arrende
in partenza è sconfitto.
* * *
1. i sindacati francesi e quelli italiani. L'OCSE riporta, per il 2013, una percentuale di lavoratori iscritti al sindacato pari al 7,7% in Francia, a oltre il 37% in Italia. Leggi tutto
Dopo averne fatte di cotte e di crude (Jobs Act, controriforma della scuola, tagli alla sanità e ai servizi sociali) il governo Renzi è entrato in un periodo difficile. La realtà dei fatti è lontana dalla propaganda e dalle bugie del Presidente del consiglio: l’economia italiana continua ad arrancare e la previsione della limitatissima crescita dell1,2% per il 2016 è già stata limata all’1,1% dalla Commissione Europea; particolarmente allarmanti appaiono i dati di maggio sulla produzione industriale che conosce la maggior frenata dal 2013 (-3,6%) con un vero e proprio crollo (-6,5%) del settore dell’automotive; si contraggono anche gli ordinativi (-3,3%). Nello stesso tempo la disoccupazione resta a livelli elevatissimi e le assunzioni con il contratto a tutele crescenti, drogate dalla decontribuzione delle imprese per ogni assunto (8.060 euro all’anno per tre anni) si sono drasticamente ridotte sia per effetto delle difficile congiuntura economica, sia per la riduzione dal 2016 del valore della decontribuzioni (3.250 euro per due anni). Inoltre, se pure in sordina, sta venendo fuori che molti imprenditori hanno truffato lo stato utilizzando le decontribuzioni senza averne diritto. I posti di lavoro proposti restano per la maggior parte precari e mal pagati a cui si aggiunge l’enorme sviluppo delle prestazioni regolate con i voucher (115 milioni di buoni nel 2015, + 147% in due anni), una vergognosa svalorizzazione del lavoro che molte volte copre direttamente il lavoro nero. Leggi tutto
Discutiamo nel merito - parliamo della proposta Renzi-Boschi e cerchiamo, per fare opera esplicativa e non propagandistica, di spiegare quel che i sostenitori del sì non dicono o dicono male.
La più sonora manipolazione riguarda il Senato, ovvero la sua presunta abolizione e poi la ricerca delle radici di questa proposta nel PCI e in particolare nei suoi massimi dirigenti, Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao.
Dicono i difensori del sì che il Senato verrà eliminato e finalmente si istituirà il monocameralismo, come voleva la sinistra. Ma ciò è falso o non vero.
Prima di tutto: il Senato non verrà eliminato ma cambiato nella composizione, nella legittimazione e nella funzione -sarà formato da Senatori nominati con elezione indiretta e tra le sue funzioni avrà anche quella di intervenire sulle norme costituzionali. Senza legittimità democratica diretta (senza essere eletto dai cittadini) potrà intervenire direttamente sulla Norma più importante, mentre potrà intervenire solo indirettamente sulle leggi ordinarie. Avrà molto potere su decisioni costituzionali pur non avendo investitura diretta; e avrà poco o meno potere su decisioni ordinarie -a dimostrazione del fatto che il valore prioritario non è la Costituzione ma il governo.
E veniamo alla "storia". Dicono i sostenitori del sì che la Renzi-Boschi realizza il sogno dei comunisti e di altri Padri costituenti: un Parlamento monocamerale. Leggi tutto
Rileggendo il saggio di Pietro Secchia, “L’arte dell’organizzazione” (1945) e il libro “Ricostruire il partito comunista” (2011), alla luce del dibattito presente
Riceviamo
dal
compagno Fausto Sorini e volentieri pubblichiamo come utile
contributo all'analisi della storia dei comunisti in Italia
e alla discussione sulle loro
prospettive.
Ci auguriamo che a questo articolo ne seguano altri, contenenti analisi che, sebbene non coincidenti fra loro ma nell'ambito di un confronto costruttivo e di rispetto reciproco, consentano di approfondire aspetti relativi alla fase complessa e di difficoltà che sta attraversando il movimento comunista nel nostro paese.
* * *
Credo sia utile - nel presente dibattito sulla esigenza di ricostruzione in Italia di un PC all’altezza dei tempi - una rilettura critica e attualizzata del famoso saggio di Pietro Secchia, “L’arte dell’organizzazione”, che Rinascita pubblicò nel dicembre del 1945. Esso rappresentò negli anni e nei decenni successivi, e ancora rappresenta, una pietra miliare nella formazione di intere generazioni di quadri comunisti, cioè leninisti. E ciò resta vero, nonostante le numerose e variamente motivabili rimozioni subite negli ultimi 62 anni dalla figura e dall’opera del fondatore dell’organizzazione della Resistenza italiana, della lotta politica e militare della Liberazione e della nascita del “partito nuovo” dopo gli anni della clandestinità. Leggi tutto
Infamoni curdi, Regeni e Fratelli Musulmani, Marò, Albertazzi, Berlinguer-Ingrao-Iotti, varie ed eventuali...
Tutti noi ce la prendiamo con la Storia
ma io
dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando
parla di sinistra o
destra. (Giorgio Gaber “E pensare che c’era il pensiero”,
1991)
Una nazione di fucilatori ed eroi
Tutti a festeggiare il rientro dei marò dall’India. Eroi baciati a destra e sinistra. Noi festeggeremo quando constateremo, dopo cinquant’anni, che hanno smesso di fucilare poveretti inermi per conto di padroni privati a cui lo Stato li aveva affittati. E, soprattutto, quando a mogli, madri, padri e figli di due pescatori, nei quali solo energumeni certi di immunità potevano fingere di aver visto dei pirati, avranno avuto giustizia. E non da una magistratura dell’Aja di cui si sa chi serve, come la Corte Internazionale di Giustizia, che processa solo gente con la pelle scura, o come Il Tribunale dell’Aja per la Jugoslavia, che ammazza gli imputati di cui non riesce a provare la colpa. Intanto alla Pinotti, nel bacio a Girone, gli rimanga in bocca il sapore di un morto ammazzato.
Su Albertazzi i vermi prima ancora di essere sepolto
Con Giorgio Albertazzi è morto un grandissimo attore, a 92 anni, sul palcoscenico, da Adriano imperatore. Un uomo che ha cosparso la Terra di conoscenza, cultura, poesia, verità. Leggi tutto
Una lettura del libro di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale (Ombre Corte, pag. 126, 12 euro)
L’algoritmo definitivo del
futuro,
ovvero la produzione di predizioni che ci riguardano
distillate da informazioni sulla nostra esistenza raccolte
attraverso la rete, sta
lì, acquattato nelle varie infomacchine digitali che usiamo.
“Saprà tutto quello che siamo riusciti a insegnargli sulla
vita
umana” rappresentando “uno strumento di introspezione
fantastico: uno specchio, uno specchio digitale, uno specchio
capace di prendere
vita”[1]. Secondo alcuni frontiera del
biopotere foucoltiano, si configura come un lavoro
invisibile che, utilizzando le determinazioni che
vengono dai nostri dati e percorsi
online, si propone prossimamente di afferrare i pensieri che
abitano gli arcipelaghi preconsci, non ancora affiorati alla
consapevolezza in forma di
desiderio compiuto o immaginazione: “l’accelerazione
infosferica porta, per così dire, l’inconscio alla superficie
della
relazione sociale contemporanea”[2],
seguendo le parole di Franco Berardi. Futuro della macchina
che evoca e genera un processo di inveramento delle idee,
prova a materializzarle e a
indirizzarle commercialmente per trarne profitti e ottenere
“individui liberi ma condizionati” (l’accento sta
sull’avversativo). Nel frattempo, Kenneth Griffin di
Citadel e James Simons di Renaissance Technologies hanno
raggiunto l’apice
della classifica 2015 dei gestori hedge found
proprio utilizzando strategie algoritmiche elaborate dai
computer, con guadagni di 1,7 miliardi
di dollari ciascuno e rendimenti intorno al 15 per cento.
Così, insomma, scopriamo vivendo che le previsioni sulla redditività e il potere di controllarle sono il vero valore nell’economia finanziarizzata contemporanea: “il valore del capitale immateriale è essenzialmente una finzione borsistica”[3], aveva sottolineato André Gorz. Leggi tutto
Il successo di candidati outsider rispetto ai partiti tradizionali, come Trump e Sanders, esprime la richiesta di cambiare la politica dominante fin dagli anni ’80 che ha esasperato le disuguaglianze
Secondo gli ultimi sondaggi Donald Trump avrebbe superato Hillary Clinton nelle intenzioni di voto. Non di molto, ma fino a poco tempo fa il distacco era di 10-13 punti a vantaggio della seconda, e quindi il clamoroso recupero mostra una tendenza molto preoccupante per il Partito democratico.
Sorprendente? Veramente no. Ciò che sta accadendo negli Usa non è poi molto diverso da quello che si vede in Europa. Il Vecchio continente si è messo ad imitare l’America nell’evoluzione dell’organizzazione sociale: più competizione, meno protezioni ai lavoratori, meno welfare e quello che c’è sempre più affidato ai privati, come i servizi pubblici; aumento della disuguaglianza. Difficile stupirsi se poi gli esiti politici si assomiglino.
Le classi dirigenti al di qua e al di là dell’Atlantico perseguono politiche uguali, quelle dettate dal neoliberismo. In America sono iniziate con Ronald Reagan negli anni ’80, e quello che è successo si può vedere in questi grafici tratti dalla Strategic Analysis di marzo del Levy Institute.
Il primo mostra gli indici dei redditi delle famiglie in termini reali dal 1945 al 2014 per il 10% più ricco e il restante 90%. Come si vede, fino agli anni ’80 i due indici praticamente si sovrappongono, ma da quel periodo in poi i più ricchi diventano più ricchi, mentre gli altri nove decimi vedono i loro redditi fermarsi, e oggi sono al livello dei primi anni ’70: per loro, cioè per la stragrande maggioranza della popolazione, quasi mezzo secolo perduto. Leggi tutto
Paul Craig Roberts, ex assistente segretario del tesoro USA e Associate Editor del Wall Street Journal, scrive un articolo di denuncia sul trattamento riservato alla Grecia dalla Germania e dalle istituzioni europee. Con la complicità del governo-fantoccio di Syriza, la Grecia viene saccheggiata e la sua popolazione depredata dei propri diritti e conquiste sociali per poter garantire i profitti dei “creditori”. L’UE e il FMI sono ormai diventati dei semplici strumenti di saccheggio nelle mani dei ricchissimi del pianeta, mentre la loro azione viene Orwellianamente propagandata come “salvataggio”
Essendo riusciti ad usare l’UE per conquistare il popolo Greco, trasformando il governo “di sinistra” di Syriza in un fantoccio delle banche tedesche, la Germania si ritrova ora il FMI a intralciare il suo piano per saccheggiare la Grecia fino alla sua scomparsa.
Le regole del FMI impediscono a questa organizzazione di prestare soldi a paesi che non siano in grado di restituirli. IL FMI ha quindi concluso, sulla base di dati e analisi, che la Grecia non è in grado di restituire i soldi presi in prestito. Quindi, il FMI non è disposto a prestare alla Grecia i soldi che le servono per ripagare le banche private creditrici.
Il FMI sostiene che i creditori della Grecia, molti dei quali non sono nemmeno i creditori originali ma semplicemente avvoltoi che hanno acquistato il debito greco a prezzo di saldo nella speranza di specularci, devono tagliare parte del debito in modo da riportarlo a un ammontare che sia sostenibile da parte dell’economia greca. Leggi tutto
Il punto di vista di fondo di un ampio schieramento politico sostanzialmente di destra, che governa i Paesi dell’area-euro, e che va dai socialisti europei ai vari partiti che, in Europa, fanno riferimento ai popolari, è ben noto: siamo dentro una crisi di trasformazione del capitalismo, analoga a quella degli anni Trenta, e che schumpeterianamente è condizionata, nel suo sviluppo, dall’imminenza di una ondata di grande trasformazione scientifica e tecnologica, i cui assi fondamentali sono già visibili oggi: biotecnologie, robotica, trasmissione di dati a velocità e potenze crescenti, economia verde (energia alternativa, efficienza energetica, nuovi materiali a minor impatto ambientale, nuovi processi produttivi a minore emissione, ecc.).
Questa ondata di innovazione tecnologica, ci dice l’establishment di potere, comporterà, nel medio termine, disoccupazione tecnologica (si pensi all’impatto previsionale che la robotica avrà sulla cancellazione di centinaia di figure professionali, dal soldato fino all’operatore di sportello o di call center), e maggiore pressione competitiva sulle nostre economie da parte di nuovi soggetti emergenti, in grado di collocarsi sui settori produttivi più tradizionali, sottraendoli alle economie sviluppate, e producendo quindi ulteriore disoccupazione. Leggi tutto
Già da qualche settimana è possibile trovare sugli scaffali Roma disfatta, un libro scritto a quattro mani da Vezio De Lucia e Francesco Erbani per i tipi della Castelvecchi, e di cui consigliamo caldamente la lettura. Il testo, sviluppato sotto forma di dialogo tra l’urbanista ed il giornalista, ci restituisce infatti una fotografia della città che è impossibile ignorare, soprattutto per chi ha l’ambizione di provare a ricostruire un insediamento sociale nelle periferie. Ma procediamo con ordine. Uno dei punti cardine su cui molto insistono gli autori è quello della forma, o meglio, della perdita di forma, che ha caratterizzato la crescita della città in questi ultimi decenni. E delle conseguenze sociali e politiche che questo ha avuto sull’intero organismo urbano. Se infatti diventa difficile e perfino inutile provare a ragionare di Roma per pezzi separati, è altrettanto improponibile provare a farlo senza riferirsi alla sua realtà fisica. Come ci ricordano gli autori, dal dopoguerra in poi la città si è distesa sul suo vasto territorio (129mila ettari) distribuendo i nuovi insediamenti in tutte le direzioni intorno alla città consolidata e oggi appare orientata a concentrarsi in corone sempre più esterne rispetto al centro storico. Alla Roma ufficiale, piccola cosa in termini di estensione e popolazione, si oppone dunque la Roma delle tante e tra loro diverse periferie. Un centro storico sempre meno abitato (120mila residenti, la metà di quanti erano nel 1961) che continua a rappresentare il vero e caotico centro direzionale della città, ma che ignora, ricambiato, cosa ci sia al di fuori del Grande Raccordo Anulare. Leggi tutto
Come è noto, il calendario cinese intitola gli anni a degli animali: l’Anno del Topo, l’Anno del Bue, l’Anno del Serpente, l’Anno del Drago, ecc. Il 2011 potrebbe essere intitolato come “Anno del Pollo”, anzi del pollo da spennare, in questo caso l’Italia. All’inizio del 2011 una cordata di affari costituita dalla britannica BP, dalla francese Total e dalla americana Goldman Sachs, con il supporto mediatico di Al Jazeera, emittente del Qatar, lanciò una campagna per strappare la Libia all’ENI, riuscendo ad assicurarsi il supporto dell’ONU e della NATO. Goldman Sachs si era unita a quell’operazione per prevenire gli effetti giudiziari di una sua frode miliardaria perpetrata ai danni del governo libico. Nell’ottobre di quell’anno l’operazione venne condotta a termine, culminando nell’assassinio di Gheddafi; un assassinio spacciato come un linciaggio spontaneo attraverso un falso video. L’Italia venne così privata di una delle sue principali sponde affaristiche ed energetiche.
Alla fine dello stesso anno scoppiò la cosiddetta “emergenza spread”, l’attacco al debito pubblico italiano, che si risolse in un aumento vertiginoso dei tassi di interesse da corrispondere agli investitori in titoli di Stato italiani. L’emergenza comportò l’anno dopo l’istituzione del Meccanismo Europeo di Stabilità, al quale l’Italia ha dovuto versare centoventicinque miliardi di euro, in gran parte destinati al salvataggio di banche tedesche. Tutto ciò perché l’Italia sarebbe stata in “difficoltà finanziaria”. In effetti è proprio l’entità spropositata del versamento italiano al MES a far comprendere il carattere puramente ricattatorio ed estorsivo di quella finta emergenza. Leggi tutto
La
sopravvivenza del più adatto, questa è la sintesi che
condensò l’intuizione e la successiva teoria su essa
basata di Charles Darwin. Non è, nello specifico, una frase di
Darwin ovvero non fu Darwin a dare questa sintesi, essa quindi
è una
ricezione, come venne recepito il discorso del naturalista.
Queste ricezioni, dovendo sussumere tanto in poco (l’Origine
delle specie è
abbastanza voluminoso e l’argomento di cui tratta è complesso
ed originariamente poco determinato nello specifico), fanno
scelte
linguistiche che vengono operate da mentalità orientate
epistemicamente, a loro volta orientate a comunicare qualcosa
ad altre menti
epistemicamente orientate secondo i codici vigenti in una data
epoca.
Cosa succede se pluralizziamo la frase se cioè il condensato del pensiero darwiniano diventasse “la sopravvivenza dei più adatti”? Apparentemente poco ma in realtà, invece, si crea subito una scena diversa. In questa scena non c’è più l’Uno contro Tutti ma i Molti. Questi Molti poi potrebbero ben essere in competizione tra loro e con Altri per sopravvivere ma anche in competizione con Altro. Questo “altro” sarebbe l’impersonale fronte naturale, l’ambiente, il contesto in cui ogni situazione biologica è di sua natura posta. In effetti, il registro naturale che è ciò che affascinava Darwin, è spesso il venirsi a creare di progressivi affinamenti di organi o di prestazioni di organismi, relativamente al loro ambiente. La gran parte di queste caratteristiche fenotipiche, non sono volte alla competizione inter-individuale ma alla fitness con l’ambiente. Del resto, Darwin titolò la sua opera al plurale, parlò delle” specie” e terminò il volume con la famosa dichiarazione di meraviglia per questo bellissimo e complesso spettacolo delle diversità biologiche, un vero inno all’autocreazione del Molteplice[1] che è la “vita”. L’essenza dell’intuizione di Darwin sembra proprio essere il come la relazione con l’ambiente modelli le varie specie. Leggi tutto
Nozioni elementari,
un tempo note e
oggi del tutto dimenticate (nell'insegnamento scolastico e
specialmente nelle Università):
1. C'è un articolo di Keynes assurto ormai a rinnovata fama, almeno nel recente, e non casuale, dibattito attuale legato a globalizzazione e federalismo liberoscambista imperniato sull'euro: "National Self-Sufficiency", originato da una conferenza tenutasi all'Università di Dublino il 19 aprile 1933, e pubblicato in varie riviste economiche anglosassoni e anche italiane (in Italia, nel 1933 e nel 1936, con il titolo "aggiustato" di "Autarchia economica", non si sa se dovuto al traduttore o alla "diplomazia" dello stesso Keynes; cfr; la ripubblicazione dell'articolo stesso nel libro J.M.Keynes "Come uscire dalla crisi", raccolta di scritti a cura di Pierluigi Sabbatini, pagg.93 e seguenti; sul punto del titolo italianizzato, v.nota * alla stessa pag.93).
L'articolo non risulta disponibile in rete nella sua versione integrale e per la citazione di vari ulteriori brani rinviamo, ex multis, a questa fonte.
Leggi tuttoAttivo dal 2005, il collettivo di mediattivisti e ricercatori Ippolita è tra le voci più acute e critiche della rete. Hacker libertari, hanno da poco pubblicato un lavoro, "Anime elettriche", in cui ci mostrano il "dietro le quinte" della società del controllo. Li abbiamo incontrati
«A cosa stai pensando?», recita il celebre form
di inserimento di Facebook. La confessione è uno dei più
potenti
dispositivi di manipolazione e colonizzazione dell'immaginario
messi in campo dal web
2.0. Nell'illusione di divertirci, incontrarci,
conoscersi o di promuovere i nostri progetti, lavoriamo per
l'espansione di un mercato relazionale
che mescola pratiche narcisistiche e pornografia emotiva. È la
servitù volontaria che ci consegna a quella
che il
collettivo haker Ippolita, che abbiamo
incontrato, chiama l'algocrazia, un un
esperimento socio-economico e
culturale incardinato su algoritmi. Perché i "social"
commerciali sono macchine. Macchine per
formare
soggetti oltre che strumenti per disegnare e
profilare caratteri. In ogni caso, spiega Ippolita, «si tratta
di sistemi di
apprendimento basati sull’addestramento tramite risposte
indotte, per creare automatismi performativi».
Poco imposta se la si chiama economia delle identità o comportamentale, economia della condivisione o del dono, osserva Ippolita in Anime elettriche, da pochi giorni il libreria per i tipi di Jaca Book. Al centro della questione - ed è una questione capitale - c'è sempre e comunque un problema: il tentativo di «estrarre valore economico dalla capacità umana di incontrarsi, comunicare, mostrarsi, generare senso e articolare la complessità dei legami sociali». Leggi tutto
Nella civilissima Parma, un delitto particolarmente efferato che non sembra attirare i riflettori come altri casi simili. Forse perché la vittima è un ragazzo tunisino, torturato e ucciso per futili motivi da un commando che ha agito sotto la guida di due "insospettabili" cittadini italiani
Nella notte fra il 9 e il 10 maggio scorsi, una sorta di squadrone della morte, capeggiato da due individui di mezz’età, fa irruzione nel modesto appartamento di un uomo sui trent’anni. I sei, a volto scoperto, indossano guanti di lattice e sono armati di una mazza da baseball, una spranga di ferro, un martello, un tirapugni, una pinza a pappagallo, perfino un guanto in maglia d’acciaio. Non v’è dubbio alcuno, dunque, che intendano dare una lezione assai dura alla loro vittima.
Colto di sorpresa e abbandonato dall’amico ch’era in casa – forse fuggito in preda al panico alla vista dello squadrone – lo sventurato dapprima tenta di difendersi, poi soccombe alla violenza dei suoi carnefici. Così che questi, in specie i due capibanda, potranno svolgere con tutta calma l’opera di sevizie, torture, mutilazioni.
Nonostante siano imbottiti, si dice, di una miscela di cocaina e alcool, eseguiranno il lavoro con meticolosità quasi scientifica: gli recidono un orecchio, gli strappano parte del naso e con la pinza gli tranciano di netto un mignolo e un alluce, che poi gettano nel lavandino. Leggi tutto
Da qualche anno, in prossimità delle elezioni, rinfocola la polemica attorno alla questione del “male minore”. Complice il discredito assoluto delle politiche centrosinistre, sembra essere stato bandito dalla politica il concetto stesso di “male minore”, o “meno peggio”, a seconda delle definizioni. Visto che negli anni abbiamo contribuito alla demolizione del tic elettoralistico fondato sull’ideologia “maleminorista”, occorre a questo punto fare delle precisazioni.
Il ventennio berlusconiano ci ha lasciato in dote una pericolosa deriva ideologica, per fortuna in questi ultimi tempi in via di superamento, che vedeva in ogni opzione politica avversa al blocco di potere forzaleghista un vero e proprio male minore rispetto al degrado morale, etico, economico, culturale che Berlusconi aveva impresso alle vicende del paese. Questa dinamica perversa aveva portato ad abbandonare ogni prospettiva legata all’emancipazione – anche parziale – delle classi subalterne, abbracciando il liberismo riformista centrosinistro in nome della sacra unità anti-berlusconiana. Riproponendo in sedicesimi fantasiosi “fronti popolari” contro forme aggiornate di “fascismo”, la sinistra di classe aveva completamente abdicato al suo ruolo storico e alla sua funzione sociale, quella di rappresentare le ragioni e i bisogni del mondo del lavoro.
Il problema era e rimane, in questo senso, interpretativo. Si andava assumendo pigramente (e comodamente) la lettura legalitario-giustizialista, dopo tangentopoli divenuta culturalmente egemone, come prospettiva attraverso cui svelare le contraddizioni della società. Leggi tutto
Una riflessione sulle nuove percezioni dei luoghi e dei soggetti che li attraversano quando baraonde e rivoluzioni non cambiano il mondo, ma risvegliano un tarlo nell’impalcatura dell’ordine dominante. A partire dal «Tumulto» di Hans Magnus Enzensberger
«Tumulto», a dire il vero il titolo scelto dall’autore per il singolare montaggio di scritti che compongono il volume di Hans Magnus Enzensberger datato 2014 e oggi tradotto da Daniela Idra per Einaudi (pp. 236, euro 19,50, già recensito su Alias della domenica da Roberto Gilodi il 1 maggio scorso) è piuttosto fuorviante. Il tumulto nasce, si approfondisce e si esaurisce in uno spazio e in un tempo suoi propri, intensi, circoscritti, perfettamente identificabili. Nell’arco temporale che gli è concesso e nello spazio che racchiude il suo svolgersi muterà la natura e il senso dei luoghi, la percezione e l’autopercezione dei soggetti che li attraversano. Seppure non rappresenta, come vorrebbe la dottrina rivoluzionaria, la tappa di un percorso verso il mondo nuovo, lascerà comunque il segno di una possibilità, un principio di correzione o un tarlo nell’impalcatura dell’ordine dominante.
Per queste sue caratteristiche, dunque, il tumulto poco si attaglia a quella sorta di Grand Tour attraverso il mondo in subbuglio degli anni Sessanta e Settanta che Enzensberger ricostruisce tramite frammenti di memoria, appunti di viaggio e la finzione del vecchio autore (classe 1929) che intervista il sé stesso di cinquant’anni prima. Leggi tutto
Stig Dagerman, La politica dell’impossibile, Iperborea 2016, pp. 135, € 15
Leggere Stig Dagerman è un ritornare a pensare a ciò che siamo stati, prima di diventare ciò che ora ci hanno imposto di essere e di pensare. Lo si percepisce immediatamente non tanto perché – fin dalle prime righe di questa raccolta di articoli pubblicati dal 1943 al 1952 su varie testate scandinave – immerge il lettore in un’atmosfera passata, segnata dal clima bellico dove qualsiasi riforma sociale e qualsiasi utopia risultano fragili «in un sistema mondiale in cui la catastrofe è l’unica previsione certa»; piuttosto perché lo spinge a riflettere su di un passato che non è mai passato, visto che «il principio divide et impera non è stato abbandonato, ma l’angoscia creata dalla fame, dalla sete, dall’inquisizione sociale è stata, almeno in linea di principio, sostituita come strumento di dominio nello stato del benessere dall’angoscia dovuta all’incertezza, all’impossibilità dell’individuo di decidere il proprio destino nelle questioni essenziali».
Un simile ritorno al passato proiettato su una realtà presente assai prossima all’angoscia esistenziale descritta da Stig Dagerman in una Svezia neutrale e democratica, ci conduce a riflettere in maniera speculare, ancora oggi, sul ruolo dello scrittore impegnato nel mostrare con le sue opere il significato della libertà «nel modo più giocoso possibile contro ogni genere di chiesa, non da ultimo, com’è naturale, contro le chiese letterarie». Leggi tutto
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Proseguendo la nostra introduzione alle opere filosofiche giovanili di Marx, analizziamo in particolare la critica al materialismo naturalistico di Feuerbach, che pure aveva profondamente influenzato la sua presa di distanza critica dall’idealismo della sinistra hegeliana. Il superamento dialettico della filosofia di Feuerbach è alla base dell’elaborazione della filosofia della prassi e del materialismo storico, due aspetti decisivi del marxismo
Nel
1845 Marx pubblica con Engels La sacra famiglia,
inaugurando un sodalizio intellettuale che durerà 40 anni fino
alla
sua morte. Contro l’idealismo speculativo o lo spiritualismo
della sinistra hegeliana, Marx ed Engels si battono per un
umanesimo reale. Mentre
Hegel, pur muovendo idealisticamente dal pensiero astratto, in
molti luoghi della sua filosofia aveva descritto in modo
realistico i rapporti fra gli
uomini, i giovani hegeliani hanno, secondo Marx ed Engels,
finito con il radicalizzare proprio gli aspetti idealistici
della filosofia hegeliana.
Sempre nel 1845, costretto a trovare rifugio a Bruxelles, Marx scrive le 11 Tesi su Feuerbach pubblicate postume, in cui prende le distanze dalle conclusioni della riflessione filosofica di quest’ultimo, sostenendo che non è sufficiente individuare nella vita terrena l’origine dell’alienazione religiosa. In effetti, a parere di Marx, se si vuole veramente eliminare quest’ultima occorre trasformare radicalmente quella vita terrena, quella realtà socio-economica che rende necessaria l’evasione degli oppressi in un paradiso artificiale in cui non ci sarà posto per miseria e sfruttamento.
Inoltre Marx sviluppa una critica a Feuerbach dal punto di vista gnoseologico, in quanto quest’ultimo aveva posto come centrale per la conoscenza l’intuizione sensibile di contro al razionalismo della tradizione idealistica, ma non aveva colto l’aspetto realmente essenziale, ovvero l’importanza dell’attività pratica per l’attività teoretica, cosa che invece, sebbene in modo astratto, aveva compreso Hegel. Leggi tutto
[Il comitato scientifico del think tank
Progressive Economy, che include Joseph E.
Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi e László Andor, il 31 maggio
2016 ha premiato a Bruxelles il paper Why further
integration is the wrong
answer to the EMU’s problems: the case for a
decentralised fiscal stimulus di Thomas Fazi e Guido
Iodice (keynesblog.com),
quale vincitore della Call for Papers 2016 nella categoria
“Reforming the
Economic and Monetary Union”. L’articolo nella sua versione
definitiva verrà pubblicato nel prossimo numero del Journal
for
a Progressive Economy. Pubblichiamo qui un articolo
che espone in sintesi il contenuto del paper premiato.
Fazi e Iodice sono gli autori del volume La battaglia contro l’Europa di recente pubblicazione.]
* * *
All’Europa non servono ulteriori cessioni di sovranità verso l’alto. Serve una ricetta opposta: una cessione di sovranità verso il basso, dall’Unione verso gli Stati
In un precedente articolo abbiamo evidenziato la necessità di un doppio canale per rilanciare gli investimenti e la domanda in Europa e, lasciandoci alle spalle la crisi, garantire la stabilità dell’eurozona. Il canale “federale”, dicevamo, consiste in una “unione degli investimenti” guidata dalla Banca europea per gli investimenti e dalla BCE.
Leggi tuttoPartiamo con una
domanda secca: pensa che la
psicoanalisi possa ancora ricoprire, sul versante della
critica della cultura, un ruolo emancipativo per noi
occidentali? O il suo destino è
quello di sostenere, suo malgrado, l'individualismo e
l'egotismo funzionali al sistema dello spettacolo e delle
merci?
Quando penso alla psicoanalisi, mi vengono in mente tante esperienze diverse. In primo luogo, la psicoanalisi "freudiana" istituzionalizzata fino ad alcuni anni fa, quattro volte a settimana per 20 anni. Quella che Michel Foucault definiva: "per coloro che se lo possono permettere, per gli altri ci sono i servizi sociali" (La volontà di sapere), quella di Woody Allen, tanto per intenderci. Nata da una infame storia che vide l'espulsione di Wilhelm Reich perché marxista negli stessi anni in cui si accettò di includere la psicoanalisi "ariana" nel Terzo Reich.
Ma la psicoanalisi è anche e soprattutto altro. Oggi il dialogo tra le psicoanalisi si va aprendo: junghiani, freudiani, bioniani, kleiniani, lacaniani, sistemici (come me), etnopsichiatri, analisti transazionali, gestaltisti, gruppoanalisti, ecc. si confrontano.
Si tratta di affrontare le emergenze: migrazioni, guerre, violenze extra e monofamiliari, questioni di genere e nuovi modelli di famiglia, nuovi sintomi, trattamenti delle psicosi in terapia e nuove sperimentazioni del setting. Leggi tutto
di Aldo Giannuli
Ora possiamo tentare una riflessione più meditata e
complessiva sul voto
di
domenica, con una premessa. In primo luogo, è
bene chiarire che queste sono state elezioni
amministrative ma solo
di nome: è stato un voto altamente politico. Certamente,
le elezioni amministrative hanno un valore politico ridotto
dall’incidenza dei fattori locali, dalle singole candidature
eccetera, ma questo non è sempre vero, non sempre si vota
per il sindaco e
basta.
Ci sono tornate che possono avere effetti politici complessivi: le comunali spagnole del 1931 fecero cadere la monarchia e proclamare la Repubblica, le regionali italiane del 1975 preannunciarono l’avanzata comunista di un anno dopo, le elezioni provinciali francesi del 1956-7 aprirono la strada a De Gaulle ed al crollo della Quarta repubblica.
La politica non è solo matematica ma anche chimica: gli effetti dipendono da come si combinano gli elementi e se chiami la gente a votare per le comunali avendo già in prospettiva la riforma costituzionale del paese, non puoi pensare che il voto prescinda da questo.
* * *
di Fabrizio Casari
Il dato
emerso dalle urne è che nonostante una partecipazione
superiore alle attese, il PD ha
subito una severa sconfitta, certificazione di un indubbio
ridimensionamento politico. A Roma è passato dal 26% del
2013 al 17 di oggi. A
Torino ha perso 32.000 voti, a Bologna ne ha persi 60.000 e
a Napoli 27.000. Salerno, Rimini e Cagliari sono i soli tre
comuni dove il centrosinistra
ha vinto al primo turno, ma nel caso di Cagliari va
specificato che Zedda è espressione di ciò che resta di SEL
ed è stato eletto
da una lista arcobaleno, con la sinistra unita e senza
verdiniani di contorno. Il risultato del Movimento 5 Stelle
e la crisi del berlusconismo sono
invece le due buone notizie di questa tornata.
Renzi sostiene che il voto era amministrativo e che non riguardava il suo governo, ma mente sapendo di mentire. L’elezione di 1342 sindaci è politica “senza se e senza ma”, perché nonostante l’abbondanza di maquillage rappresentato dalle Liste Civiche, sono i partiti che candidano consiglieri e sindaci e i leader o capetti dei partiti s’impegnano pancia a terra per i rispettivi candidati. Inoltre, sono 13 milioni gli elettori coinvolti, più del 30% del totale degli elettori italiani. Alla scienza statistica basta meno per determinare in maniera pressocché scientifica trand e proiezioni a dimensione generale e alla politica serve ancora meno per indicare aspettative e ripercussioni di un voto così ampio.
Il dato
emerso dalle urne è che nonostante una partecipazione
superiore alle attese, il PD ha subito una severa sconfitta,
certificazione di un
indubbio ridimensionamento politico. A Roma è passato dal 26%
del 2013 al 17 di oggi. A Torino ha perso 32.000 voti, a
Bologna ne ha persi
60.000 e a Napoli 27.000. Salerno, Rimini e Cagliari sono i
soli tre comuni dove il centrosinistra ha vinto al primo
turno, ma nel caso di Cagliari va
specificato che Zedda è espressione di ciò che resta di SEL ed
è stato eletto da una lista arcobaleno, con la sinistra unita
e
senza verdiniani di contorno. Il risultato del Movimento 5
Stelle e la crisi del berlusconismo sono invece le due buone
notizie di questa tornata.
Renzi sostiene che il voto era amministrativo e che non riguardava il suo governo, ma mente sapendo di mentire. L’elezione di 1342 sindaci è politica “senza se e senza ma”, perché nonostante l’abbondanza di maquillage rappresentato dalle Liste Civiche, sono i partiti che candidano consiglieri e sindaci e i leader o capetti dei partiti s’impegnano pancia a terra per i rispettivi candidati. Inoltre, sono 13 milioni gli elettori coinvolti, più del 30% del totale degli elettori italiani. Alla scienza statistica basta meno per determinare in maniera pressocché scientifica trand e proiezioni a dimensione generale e alla politica serve ancora meno per indicare aspettative e ripercussioni di un voto così ampio.
Leggi tuttoOra possiamo tentare una
riflessione più
meditata e complessiva sul voto di domenica, con una premessa.
In primo luogo, è bene chiarire che queste sono state
elezioni
amministrative ma solo di nome: è stato un voto altamente
politico. Certamente, le elezioni amministrative
hanno un valore politico
ridotto dall’incidenza dei fattori locali, dalle singole
candidature eccetera, ma questo non è sempre vero, non sempre
si vota per il
sindaco e basta.
Ci sono tornate che possono avere effetti politici complessivi: le comunali spagnole del 1931 fecero cadere la monarchia e proclamare la Repubblica, le regionali italiane del 1975 preannunciarono l’avanzata comunista di un anno dopo, le elezioni provinciali francesi del 1956-7 aprirono la strada a De Gaulle ed al crollo della Quarta repubblica.
La politica non è solo matematica ma anche chimica: gli effetti dipendono da come si combinano gli elementi e se chiami la gente a votare per le comunali avendo già in prospettiva la riforma costituzionale del paese, non puoi pensare che il voto prescinda da questo. Leggi tutto
«La rivoluzione scientifica che ha portato alla scissione dell’atomo richiede anche una rivoluzione morale»: con questa storica frase (coniata dagli speech-writer presidenziali) è culminata la visita di Obama in Asia, dove da Hiroshima ha proclamato la volontà di «tracciare una via che conduca alla distruzione degli arsenali nucleari».
Lo sconfessa la Federazione degli scienziati americani, dimostrando che l’amministrazione Obama ha ridotto meno delle precedenti il numero di testate nucleari.
Gli Usa hanno oggi 4.500 testate strategiche, di cui 1.750 pronte al lancio, più 180 «tattiche» pronte al lancio in Europa, più 2.500 ritirate ma non smantellate.
Comprese quelle francesi e britanniche, la Nato dispone di 5.015 testate nucleari, di cui 2.330 pronte al lancio. Più della Russia (4.490, di cui 1.790 pronte al lancio) e della Cina (300, nessuna pronta al lancio).
L’amministrazione Obama – documenta il New York Times (21 settembre 2014) – ha varato un piano da 1.000 miliardi di dollari che prevede la costruzione di altri 400 missili balistici intercontinentali, 12 sottomarini e 100 bombardieri strategici da attacco nucleare. Leggi tutto
Il Primo Ministro, il governo e la stampa subalterna si scatenano contro la CGT e qualificano gli scioperi che coinvolgono le raffinerie di “terrorismo sociale”. Il discorso tenuto da Manuel Valls è in totale contraddizione con quello che egli tenne nel 2010. Verità nell’opposizione, errore nella maggioranza…
Ma ciò che preoccupa è che, con la sua pratica, come una gestione esclusivamente poliziesca del movimento o per l’uso eccessivo dell’articolo 49.3 per far passare la legge “El Khomri”, (Un Consiglio dei ministri del 10 maggio 2016, ha autorizzato il Primo ministro ad impegnare la responsabilità del governo di fronte all’Assemblea Nazionale per il voto in prima lettura del progetto di legge che mira ad istituire nuove libertà e tutele per le imprese e gli attivi societari - “legge Lavoro” o “legge El Khomri” - . L’art. 49.3 della Costituzione francese del 1958 dà la possibilità al capo dell’esecutivo di adottare immediatamente un progetto di legge senza essere sottoposto al voto del Parlamento. N.d.T.),o per il suo linguaggio, egli instaura un clima di guerra civile in Francia.
Egli lo attua mentre viviamo, almeno in teoria, in uno stato di emergenza. Questo comportamento completamente irresponsabile costituisce oggi una minaccia per la pace civile. Leggi tutto
Abbiamo il primo verdetto nella corsa alla presidenza statunitense: Donald Trump sarà lo sfidante ufficiale del campo democratico, uno schieramento che sarà rappresentato – a meno di eventuali cataclismi – da Hillary Clinton. Per tutti, uno scontro tra l’America presentabile e quella impresentabile. In realtà, al di là delle diverse e più che convergenti qualità dei due sfidanti, sarebbe più utile comprendere le ragioni sociali di uno scontro a detta di molti fuori dal comune. A questo riguardo, sul Corriere di qualche giorno fa Alan Friedman invitava ad un’analisi più in profondità della questione. Ora, Friedman è notoriamente un personaggio improbabile, ma la visuale da cui legge lo scontro che appresta a mettersi in scena permette l’individuazione di alcune caratteristiche di questa elezione, che altrimenti rimarrebbero schiacciate dall’afflato ultra-soggettivista e politicista che trova spazio nei media mainstream. Trump e Clinton sono due liberisti miliardari, pienamente dentro i centri di comando degli Stati uniti. Se osservassimo lo scontro solo dal punto di vista soggettivo dei due sfidanti, non potremmo cogliere altro che la scontata omogeneità del potere statunitense, capace di accalorarsi per sfide che in realtà celano una totale continuità tra i vari possibili presidenti. Questa parte di verità esiste ed è sotto gli occhi di tutti. E’ anche la parte di verità “principale”, nel senso che svela sinteticamente la politica americana meglio di molte altre parole. Potremmo fermarci qui eppure, mai come oggi, serve uno sforzo di comprensione. Leggi tutto
Piero Cipriano, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2015, 256 pagine, € 15,00
«Il problema in questo nuovo secolo moderno non è più il manicomio tout-court, il manicomio come lo conoscevamo, il manicomio concreto fatto di lacci, fasce, muri, sbarre, chiavistelli, porte, ma il vero manicomio si è fatto astratto, invisibile, inafferrabile, il vero manicomio, ora, si è trasferito direttamente nella testa, si è trasferito nei pensieri e in quelle vie neurotrasmettitoriali che li regolano, il vero manicomio, in questo nuovo secolo appena iniziato, sono i farmaci, il vero, pericoloso, subdolo manicomio è quello chimico (e ciò che lo precede, e lo giustifica, ovvero la diagnosi» Piero Cipriano (p. 35)
Il saggio Il manicomio chimico di Piero Cipriano, per certi versi la continuazione del precedente La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), rappresenta un grido d’allarme contro la diffusione sconsiderata di psicofarmaci. Il paziente, anziché essere internato tra mura e sbarre, si trova ad assumere il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco. Il manicomio si è trasferito nella testa del paziente attraverso un moderno Cavallo di Troia che ha la forma simpatica e colorata di una pillola che, spesso, sin dal nome, promette un immediato e duraturo sollievo.
In questo libro Cipriano pubblica frammenti di “cronaca in diretta” desunti delle sue esperienze di “psichiatra riluttante” in quelle che definisce le “fabbriche della cura mentale” (SPDC – Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura). Leggi tutto
Appunti a voce alta dopo la lettura di "24/7. Il capitalismo all'assalto del sonno", di Jonathan Crary
Generalmente la mattina faccio colazione
davanti al computer. Controllo se la puntata che avevo messo a
scaricare si è
completata, apro Facebook, guardo la mailing list con cui
facciamo i passaggi di consegne tra colleghi di lavoro,
accendo Radio 3e altre banali
attività che ormai vanno in automatico. Poi, dopo la
sigaretta, vado in bagno, faccio una partita ad un videogioco
online e mentre faccio la
doccia attivo la riproduzione casuale di Spotify. La seconda
colazione la faccio al bar con Giro e gli altri genitori
vicino la scuola dei nostri
figli. Ogni mattina escono fuori due o tre idee che ci faranno
svoltare definitivamente - tipo brevettare il passeggino per
adulti o mettere su una
band rocksteady – poi ci si saluta e si va a lavorare.
Il lavoro che faccio comprende alcune attività che atterrebbero generalmente alla normale vita quotidiana, tipo passare del tempo a parlare con dei ragazzi, pranzare insieme, giocare alla Play Station e anche dormire durante i turni di notte. Per i contatti con i vari servizi con cui ho a che fare, poi, vado in giro, mando qualche mail, ricevo un po' di messaggi via fax e passo diverse ore al telefono con i colleghi.
La sera, prima di andare a casa, passo dal negozietto bangla che per fortuna fa orario continuato e compro quelle due cose che sono terminate all'ultimo momento. Leggi tutto
Il saggio "False Flag - Sotto Falsa Bandiera" di Enrica Perucchietti (Arianna Editrice, 2016) fa una rassegna dei casi di "terrorismo sintetico" storicamente accertati e di quelli che sollevano dubbi sulle reali dinamiche degli eventi. Di seguito la Prefazione che apre il libro, a cura di Pino Cabras. Buona lettura.
Da sempre il
potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima,
ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si
rafforza. È una
questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò
Machiavelli affermava nel Principe che «è
molto
più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare
dell'uno de' dua». Parlava di un potere che all'occorrenza non
esitava a
mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai
vinti.
Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l'intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le "false flag", aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l'isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli.
Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni. Leggi tutto
1. Parliamo
di un libro di
storia, scritto “alla macchia”, durante l’occupazione tedesca
della Francia, da un professore ebreo mentre le donne della
sua
famiglia venivano annientate ad Auschwitz. Parliamo di un
libro che parla di Atene ma intende parlare della caduta della
Francia, di un libro che
apparentemente non fa che raccontare con passione di parte
quello che soprattutto Tucidide e Senofonte ci hanno lasciato
scritto intorno
all’oligarchia ateniese al potere.
Prima diremo molto brevemente della forza di Tucidide come ispiratore – nel turbine novecentesco – di storici che hanno parlato del loro presente. È la “grande guerra” innanzi tutto che sospinge i grandi studiosi, e non solo loro, verso Tucidide. Per Wilamowitz, che perde l’unico figlio subito all’inizio della guerra, sul fronte russo, è dapprima l’Iliade, il libro di guerra per eccellenza, l’oggetto di una rinnovata riflessione; ma poi daccapo Tucidide. Curiosa combinazione: egli studia i capitoli complicati e in parte oscuri sulla tregua annuale intervenuta tra Sparta e Atene (423), proprio nell’anno in cui, rettore a Berlino, sarà incaricato di una missione segreta per una pace di compromesso, che fallirà. Eduard Schwartz, che perde entrambi i figli l’uno all’inizio, l’altro alla fine della guerra, scrive in quegli anni, e pubblica nel ’19 uno dei libri capitali su Tucidide (Das Geschichtswerk des Thukydides). Leggi tutto
Una delle letture generalizzate della struttura sociale del capitalismo avanzato è che l’1% della popolazione che possiede maggiore proprietà di capitale e maggiori rendite è la nuova classe dominante, tanto a livello mondiale quanto in ciascun paese. Tale 1% si considera costituito dai proprietari e gestori delle compagnie multinazionali appartenenti all’economia produttiva (in cui si realizza la produzione e distribuzione di beni e servizi) e/o l’economia finanziaria (come le grandi banche e le compagnie di assicurazione), che attraverso la loro enorme influenza sulle istituzioni politiche di tipo rappresentativo e i mass media esercitano un potere che si suppone onnipotente sul resto della popolazione, vale a dire sul restante 99%.
Appaiono così slogan, nei movimenti sociali di sensibilità progressista, sulla necessità di mobilitare il 99% della popolazione contro l’1%. Negli USA, per esempio, il Movimento Occupy Wall Street ha fatto suo lo slogan che il conflitto principale negli USA era quello tra il 99% della popolazione e l’1%. E in Spagna (inclusa la Catalogna) sono comparsi movimenti che utilizzano lo stesso slogan o lo stesso principio, assumendo che il conflitto è tra la grande maggioranza della popolazione, spesso citata come il popolo, contro questo 1%.
Leggi tuttoSocialismo2017 nasce dall’esigenza impellente di riproporre con forza la questione del socialismo e della rivoluzione. Senza questo obiettivo si brancola nel buio. Non abbiamo criteri per valutare cosa sia giusto e cosa sbagliato. Non c’è egemonia possibile. A rigor di teoria non potremmo nemmeno dirci comunisti.
Proprio a causa di questa esigenza ho incontrato il libro: “Il tramonto della rivoluzione” dello storico cattolico Paolo Prodi (sì, fratello di Romano).
Paolo Prodi non si riferisce alla rivoluzione proletaria. Pone il problema ad un livello più generale: la rivoluzione in quanto tale. Ed ancora: la rivoluzione come tratto originario dell’Europa.
Già dall’inizio viene chiarito che si intende la rivoluzione come progetto di società a prescindere da come questa si realizzi. La rivoluzione, dunque, non rivolta, colpo di stato, movimenti, visioni, transizioni. Ah potesse fare qualche lezioni ai tanti movimentisti e “conflittisti” che si pensano di sinistra o rivoluzionari!
Prodi afferma che l’origine della rivoluzione così intesa nasce da molto lontano: dalla profezia: la profezia come voce di Dio, storia della salvezza dell’umanità. Essa veniva evocata dagli outsider, dagli esclusi dal tempio. Era contrapposta al potere che dominava il mondo. Leggi tutto
Com’era purtroppo prevedibile, l’Unione Europea ha perso l’ennesima occasione per darsi una fisionomia e una dignità e ha rinnovato le sanzioni contro la Siria decise nel 2011 e rilanciate nel 2014. Esse comprendono l’embargo sul petrolio siriano (che l’Isis invece esporta da anni verso la Turchia), il blocco degli investimenti, lo stop alle attività della Banca centrale di Siria, forti limiti all’esportazione verso la Siria di tecnologie, oltre al congelamento dei beni siriani all’estero e al blocco dei visti per 200 personaggi e 70 società.
È stato un rinnovo “automatico”, varato senza un vero dibattito, senza un attimo di ascolto per le numerose voci, tra le altre quelle di prestigiosi esponenti delle Chiese della Terra Santa, che in queste settimane si sono levate per chiedere un minimo di ragionevolezza. Tutto questo non per caso, perché non v’è un solo argomento logico a favore di queste sanzioni. Come tutti gli embarghi, anche questo manca tragicamente il bersaglio. Bashar al-Assad e i suoi non soffrono per le sanzioni, così come a suo tempo non ne soffrirono i Castro a Cuba, Saddam Hussein in Iraq, gli ayatollah in Iran, Muhammar Gheddafi in Libia, Slobodan Milosevic in Serbia e così via. Ne soffre, al contrario, la popolazione, quella di cui il consiglio Ue dice di preoccuparsi. Leggi tutto
Il testo che
presentiamo è stato
scritto poco dopo la piccola odissea della edizione
italiana del “Manifesto
contro
il lavoro“, apparso nel 2003 per i tipi di
DeriveApprodi. La pubblicazione di quel libro nel nostro
paese non fu così
semplice, nonostante l’argomento “accattivante” e gli
autori decisamente interessanti, la cui elaborazione
trovava già allora
ascolto in molte parti del mondo. L’originale era apparso
in Germania nel 1999, e la traduzione italiana venne
pronta poco dopo, soprattutto
grazie a Giancarlo Rossi, ottimo traduttore del testo
tedesco. Il mio ruolo in tutta la vicenda fu di impegnarmi
a fondo nel reperire l’editore
disponibile ad “accollarsene” la pubblicazione italiana:
dopo aver bussato per almeno due anni a molte case
editrici, grandi o piccole che
fossero, la spuntai al secondo giro con DeriveApprodi
(perché al primo approccio neanche con loro ero riuscito a
cavare un ragno dal buco).
Questa casa editrice si mostrò molto interessata a
pubblicare il libro, tanto provocatorio quanto denso e
prezioso, che così apparve in
Italia nel 2003. In questa edizione vennero aggiunti, in
più rispetto a quella tedesca, due ottimi articoli, uno di
Robert Kurz (La
dittatura del tempo astratto) e uno di Norbert
Trenkle e
ancora Robert Kurz (Il
superamento del lavoro), entrambi magnificamente
tradotti
da Samuele Cerea, ed infine una bella post-fazione di
Anselm Jappe (Il
gruppo
Krisis, la critica del lavoro e il ‘primato civile degli
italiani).
L’opera di
Karl Marx (1818-1873) ha avuto un’eccezionale
influenza sulla formazione del mondo contemporaneo, tanto che
durante il
secolo breve l’accettazione o meno delle sue teorie
ha costituito un vero e proprio discrimine in ambito non solo
politico, ma
più in generale culturale. È stato certamente fra i pensatori
più influenti della storia della filosofia, dell’economia,
della sociologia, della storiografia e delle scienze
politiche. In alcuni Paesi le sue opere sono state
pubblicamente bruciate e sono tutt’ora
vietate, in altri sono divenute un’ideologia di Stato, al
punto d’assurgere al ruolo svolto precedentemente dalla
religione.
Il successo dell’opera marxiana è indissolubilmente legato ai rapporti di forza fra le classi sociali, a dimostrazione di una tesi fondamentali della sua Weltanschauung in cui la teoria è indissolubilmente legata alla prassi: i prodotti del pensiero non possono essere considerati come se fossero a sé stanti, dotati di una storia autonoma, ma sono parte integrante dei rapporti sociali che si sono stabiliti nel corso storico fra gli uomini, profondamente condizionati dagli interessi materiali ed economici. Il sorgere e la fortuna del pensiero di Marx sono legati, dunque, indissolubilmente all’emergere e all’acquisire coscienza di sé come classe del proletariato moderno, ovvero dei lavoratori salariati che per riprodursi sono costretti a vendere come merce la propria capacità di lavoro.
Marx è nato a Treviri (Trier) nella Germania occidentale nel 1818, assegnata dopo il Congresso di Vienna alla Prussia, in una famiglia borghese. Siamo in piena Restaurazione anche se forti sono in questa città universitaria al confine con la Francia le influenze della Rivoluzione francese. Leggi tutto
Quaderno Nr. 4/2016 - Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Proponiamo qui la seconda parte del testo “E se il lavoro fosse … senza futuro? Perché la crisi del capitalismo e dello Stato sociale trascina con sé il lavoro salariato” (qui la prima parte). Per ragionare su questo interrogativo bisogna, ovviamente, non avvicinarsi al lavoro in modo ingenuo. Mentre nella sezione precedente abbiamo collocato il lavoro salariato in un prospettiva storica, e cioè abbiamo ricostruito l’evoluzione della sua recente affermazione nella storia dell’umanità, qui cerchiamo di individuare le trappole nelle quali il senso comune normalmente cade, nel ragionare sulle prospettive delle possibilità di sviluppo di questo rapporto sociale.
Parte Terza. Il lavoro salariato al di là del senso comune
Capitolo Sesto
Uno dei maggiori contributi di Gramsci alla comprensione di come le forme del pensiero non siano mai univoche e non abbiano lo stesso valore riguarda, com’è noto, la sua critica del cosiddetto “senso comune”, cioè della rappresentazione di sé come organismo sociale che di volta in volta finisce col prevalere nella società. Normalmente, questa rappresentazione soffre, a suo avviso, di gravi limiti. Innanzi tutto si fonda quasi sempre su un pensiero disgregato, privo di unità, con convinzioni sconnesse, che spesso non hanno alcuna coerenza e rigore logico.
Leggi tuttoPresunti innocenti o possibili rei, la voragine di manomissioni, la valanga di menzogne, la cortina di fumo rendono impossibile il giudizio sull’operato di due militari della Marina italiana, mandati a fare da scorta in qualità di vigilantes, proprio come i mercenari della filmografia hollywoodiana, a un cargo che trasportava merci di altrettanto difficile identificazione verso lidi lontani, senza che la loro missione – come altre analoghe – sia stata oggetto di alcuna autorizzazione del Parlamento.
Ma sulle colpe dei governi che si sono avvicendati nel passarsi la patata bollente non ci sono dubbi.
E se per caso qualcuno, inebriato dal rosolio nauseante della retorica patriottarda offerta dagli stessi che lavorano per consolidare status e nomea di una nazione ridotta a meno di espressione geografica, si fosse fatto ingannare dall’operoso prodigarsi di diplomatici da operetta onusti di tripli cognomi, dall’affaccendarsi alacre di ministre in veste di generali con tanto di pennacchi e galloni, di una stampa poco erudita in geografia, ancor meno in diritto internazionale, ma bene addestrata a sciorinare tutti gli stereotipi e i pregiudizi necessari a riaffermare la supremazia occidentale, si tratti di valore “commerciale” delle persone (non vorrete mica paragonare un marò italiano con un pescatore indiano, o peggio, con un pirata bengalese), di autorevolezza di investigatori e tribunali (volete mettere la nostra agile, veloce e attrezzata amministrazione della giustizia rispetto a quella di quei selvaggi), Leggi tutto
Ieri Massimo Cacciari ha rilasciato una lunga intervista all’ex direttore-a-vita de la Repubblica, Ezio Mauro. Con tono autocritico ha dichiarato che voterà Sì al referendum di ottobre (già si sapeva) inanellando però un paio di frasi notevoli, fra cui questa:
“La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente".
Una considerazione non scontata, venendo da uno dei protagonisti dello spostamento al centro del mondo socialcomunista italiano. Peccato che appena tre domande prima avesse detto questo:
“Voterò sì, per uno spirito di
responsabilità nei confronti del sistema”.
Le due frasi sono talmente in contraddizione da lasciare spiazzati. Eppure sono significative, soprattutto per quei tanti intellettuali con alle spalle una gioventù radicale mutata in un presente al servizio dell’esistente. Leggi tutto
Riforme: Tutto parte dal Piano di rinascita democratica di Licio Gelli. Tutto parte da un report JP Morgan. Tutto parte da un altro report della banca UBS. Tutto parte dalla necessità di “espropriare” gli Enti Locali dei servizi locali (acqua, luce, gas e trasporti)
Ordinamento del Parlamento
I. Nuove leggi elettorali, per la Camera, di
tipo misto (uninominale e proporzionale secondo il modello
tedesco) […] e, per il
Senato, di rappresentanza di 2° grado, regionale, degli
interessi economici, sociali e culturali, […]
II. Modifica
della Costituzione per dare alla Camera preminenza politica
(nomina del Primo Ministro) ed al
Senato preponderanza economica (esame del bilancio)
La citazione qui sopra non è tratta dalla relazione programmatica di Renzi, ma dal “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli.
Napolitano, Renzi, Boschi e Verdini non hanno quindi inventato niente che non fosse già nel programma P2.
Il “Piano” è ormai del tutto realizzato ma la riforma costituzionale, quella virata effettiva e definitiva verso l’autoritarismo ancora non decollava e le banche hanno lanciato l’ultimatum:
Documento J.P. Morgan del 28 Maggio 2013 (pagg 12-13): Leggi tutto
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I. Con i
risultati dei primi turni elettorali delle amministrative è
possibile individuare alcuni elementi che ci restituiscano il
quadro della
situazione politica italiana. In primo luogo si consolida
l’astensionismo come segno di distacco di larghi strati
popolari dal sistema politico.
Circa il 40% di potenziali elettori tende a non partecipare
evidenziando la completa sfiducia nel sistema politico
dominante: il Movimento cinque
stelle non risulta un freno a tale tendenza, se non in maniera
limitata. In secondo luogo, non esistono posizioni
consolidate. La mobilità del
voto riflette l’espressione di una difficoltà di tenuta del
sistema politico dominante che, all’interno della crisi del
capitale
ormai strutturale, deve fare i conti con una crisi di egemonia
latente. Ne è testimonianza il PD, che subisce in diverse
città perdite
rilevanti. Tuttavia, il Pd sul piano elettorale
complessivamente tiene, anche se a fatica, andando al
ballottaggio in 83 comuni sui 111 dove si
dovrà ricorrere al secondo turno. La tenuta elettorale del Pd
dipende, oltre che dal forte astensionismo e dal sistema
elettorale fortemente
maggioritario, anche dal declino di Forza Italia e dalle
divisioni del centro-destra come si è riscontrato a Roma. In
questa città, se
il centro-destra fosse stato unito, sarebbe certamente andato
al ballottaggio.
Il risultato del Movimento cinque stelle è ambivalente. Raggiunge un ottimo risultato a Torino e Roma, ma non ottiene comparabili affermazioni nelle altre grandi città come Milano, Bologna e Napoli dove va sottolineata l’affermazione della giunta De Magistris che ha espresso una netta alternatività al PD ed una forte radicalità nelle scelte amministrative. I risultati del Movimento cinque stelle stanno dentro la dinamica di grande mobilità dei consensi.
Con la relazione di
Domenico Losurdo –
filosofo, presidente dell’Associazione Marx XXI, membro
del Comitato scientifico di “Marxismo Oggi” – avviamo la
pubblicazione
dei materiali relativi al convegno Palmiro Togliatti, la
via italiana: passato e futuro del comunismo, promosso
dalla Scuola di formazione politica
“Gramsci-Togliatti” e svoltosi presso la sede della
Scuola, a Campoleone (Roma), il 28 maggio 2016. Oltre ai
testi delle relazioni,
pubblicheremo anche i video integrali dei lavori del
convegno, che intendiamo come un contributo alla
rigenerazione di una cultura politica, quella
del comunismo italiano, che costituisce una base
essenziale del processo di ricostruzione del Partito
comunista nel nostro paese.
* * *
«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […] uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico». (P. Togliatti, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista)
Democrazia e pace?
Conviene prendere le mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse mi limito ad alcuni particolari.
Qui di seguito una lettera del
compagno
Enrico Galavotti con la nostra risposta sulle discussione
aperta con tema l'Effetto di sdoppiamento:
«Per me resta esagerato far risalire la civiltà a 9000 anni fa (singole città, come p.es. Gerico, non fanno testo perché rappresentano delle eccezioni). La nascita dell’agricoltura e dell’allevamento di per sé non implica la nascita delle classi. Diciamo che i problemi insorgono quando gli allevatori si contrappongono agli agricoltori, ma questo, su ampia scala, in varie parti del pianeta, ha cominciato ad avvenire 6000 anni fa. Una specializzazione in una mansione lavorativa di per sé non implica un antagonismo sociale.
Che poi una città come Gerico appartenesse allo stile collettivistico, quello stile tipico del paleolitico, per me è un controsenso. Una qualunque città esprime uno stile di vita non conforme a natura, quindi anticollettivistico per definizione. La città tende inevitabilmente a schiavizzare la campagna circostante, proprio perché non può pretendere l’autonomia alimentare. Essa implica già una sorta di stratificazione sociale e la comparsa della religione, che le è sempre correlata.
Il progetto di riforma costituzionale è stato autorevolmente commentato da numerosi costituzionalisti, che hanno concentrato la loro attenzione sugli aspetti propriamente giuridici e politici del cambiamento prospettato[1]. Nel dibattito che si è sviluppato in questi mesi, minore attenzione hanno ricevuto interpretazioni che attengono a ragioni di carattere propriamente economico che spingono verso la riforma della Costituzione italiana.
Per individuarle conviene partire da un fatto ampiamente noto. J.P.Morgan, una delle Istituzioni finanziarie più importanti su scala globale, in un documento del 2013, ha rilevato l’impronta “socialista” che sarebbe implicita nella nostra Carta costituzionale[2]. In effetti, si tratta di un’interpretazione che può essere condivisa se si leggono gli articoli che più direttamente riguardano la sfera economica e, in particolare, quelli che danno allo Stato anche funzioni di programmazione. Evidentemente, dal punto di vista degli interessi della finanza che quella Istituzione rappresenta, la presenza di elementi di “socialismo” nella nostra Costituzione deve essere particolarmente sgradita. Va chiarito che il documento di J.P. Morgan è estremamente rilevante, anche al di là del progetto di riforma costituzionale, perché aiuta bene a comprendere i processi di depoliticizzazione in atto: ovvero processi che demandano a tecnici non eletti la gestione della politica economica, a condizione che quest’ultima sia concepita in modo da “non essere invisa alle banche centrali”[3].
Sono sollevato: anche al referendum Benigni starà dalla parte di Renzi. Ho sempre detestato Benigni, come attore, come regista e come persona e "La vita è bella" mi è sempre sembrata una cagata pazzesca -- premiata con un Oscar solo per la sua melensa apologia di un buonismo senza uscite.
Che votasse no al referendum e al colpo di stato piddino proprio non aveva senso: non sono i narcisisti, i vincenti e i ricchi che fermeranno la privatizzazione dell'Italia, non è nel loro interesse e non è nella loro natura. Finiamola di contare su questo tipo di personaggi: la crisi politica e culturale della sinistra è cominciata proprio quando si è messa a inseguire le celebrity invece che la gente.
............................................................
Ma lei cosa voterà al referendum? Mi è sembrato indeciso, prima ha detto sì, poi no. Dunque?
Ho sotto gli occhi le foto relative all’operazione di attacco alla città di Raqqa, foto che ritraggono mezzi militari americani e relativi soldati, e combattenti curdi/e del Rojava.
Mi è tornata alla mente Joyce Lussu che, fervente internazionalista, qui in Italia ha portato alla ribalta e si è spesa per far conoscere la causa del popolo curdo negli anni’60, “un popolo costretto a vivere da straniero nel suo territorio”, come scriverà in Portrait. In un viaggio pieno di traversie aveva raggiunto il Kurdistan e aveva conosciuto i Peshmerga e Mustafa Barzani a cui era riuscita a fare una famosa intervista. Ma Mustafa Barzani fu tanto attivo nel condurre le lotte contro l’Iraq, quanto veloce ad allearsi agli Usa e a diventare addirittura un loro uomo di fiducia.
La memoria assume grande importanza per la comprensione del presente e del futuro, quella memoria storica, autonoma e collettiva dei movimenti antagonisti, tanto diversa da quella neoliberista e patriarcale che concepisce il futuro come un semplice prolungamento dell’adesso e che vorrebbe che ricordassimo solo quello che ci viene proposto come degno di essere ricordato e nel modo in cui vogliono che noi ricordiamo.
E allora mi sono venute in mente tante domande a cui forse sarebbe bene dare una risposta.
Le combattenti curde e i combattenti curdi ci raccontano del Confederalismo Democratico, del tentativo di costruzione di una società dal basso.
Se il governo Berlusconi aveva posto l’accento sulle tre I (informatica-inglese-italiano), l’attuale governo, pur non dimenticando l’inglese (leggi CLIL), concentra quasi esclusivamente l’attenzione sulla prima I.
Sia La buona Scuola che il Piano Nazionale Scuola Digitale mettono al centro la digitalizzazione delle strutture scolastiche, con relativa applicazione di tale metodologia alla didattica. C’è stato un enorme sforzo comunicativo da parte del Ministero, con il coinvolgimento massiccio delle singole scuole che, per digitalizzarsi, hanno dovuto e devono partecipare ai famigerati Pon, progetti finanziati con fondi europei, investendo tempo, energie progettuali di docenti e di un personale amministrativo sempre più oberato, se non paralizzato( causa assenza di turn over e conseguente mancanza di personale) dalla montagna burocratica legata a tali progetti (gestione, monitoraggio e rendicontazione).
C’è da chiedersi: perché tanta enfasi? Non bastava prevedere un piano nazionale che garantisse a TUTTE le scuole una adeguata dotazione senza obbligarle a partecipare a gare che alla fine hanno il solo scopo di attribuire alla scuola quegli strumenti che dovrebbe avere di default? Se sarebbe ridicolo immaginarci oggi scuole senza riscaldamento o senza luce elettrica, allo stesso modo è ridicolo pensarle senza wi-fi, banda larga, tablet e pc, dato che si tratta di strumenti ormai di uso comune, nonché di un servizio per la collettività.
Un’analisi empirica di Brancaccio, Fontana, Lopreite e Realfonzo appena pubblicata sul Journal of Post-Keynesian Economics evidenzia che la BCE non è in grado di governare l’andamento del reddito nominale e quindi nemmeno dell’inflazione. Lo studio risulta in linea con la tesi alternativa, secondo cui il vero compito della banca centrale consiste nella regolazione del ritmo delle insolvenze all’interno del sistema economico
Lo spettro
della deflazione,
il più temuto indicatore di
crisi economica, continua ad aggirarsi per l’Europa. In più
occasioni il presidente della BCE Mario Draghi ha riconosciuto
che le
politiche monetarie espansive attuate nei mesi scorsi non sono
riuscite a frenare la tendenza dell’eurozona verso la
deflazione. Egli tuttavia
ha insistito sull’efficacia delle manovre attuate dalla banca
centrale e si è detto fiducioso sulla possibilità che la
tendenza al
calo dei prezzi si interrompa entro la fine di quest’anno e
che l’anno prossimo l’inflazione torni stabilmente in
territorio
positivo. L’obiettivo, per la BCE, resta dunque quello di
sempre: raggiungere e mantenere un tasso d’inflazione annuo
prossimo al due
percento.
Questo modello di comportamento si chiama “inflation targeting”. Esso è contemplato negli statuti di varie banche centrali ed è alla base della cosiddetta “regola di Taylor”, una delle più comuni interpretazioni del funzionamento della politica monetaria. Tale linea di condotta, tuttavia, è oggi fortemente criticata da vari studiosi. Cristina Romer, sul New York Times, ha sostenuto che in fasi storiche come l’attuale, caratterizzate da grave instabilità macroeconomica, le autorità monetarie non dovrebbero fissarsi sul solo andamento dell’inflazione ma dovrebbero guardare anche all’andamento della produzione, dell’occupazione e del reddito.
«Ricordiamo
che Croce, per esempio, la struttura teologica della Divina
Commedia la considerava non poetica, pressoché inutile al
suo
senso poetico. Noi sappiamo assolutamente che non è così;
questo non significa che noi dobbiamo necessariamente
condividere fino in
fondo il pensiero cattolico dell’Alighieri. Un celebre
studioso americano, Singleton diceva: "il lettore non
dimentichi mai che il poeta Dante
Alighieri è un poeta cattolico", ed effettivamente l’aspetto
in questo caso teologico, di verità teologica, come anche le
affermazioni di verità materialistiche in Leopardi, non sono
elementi soltanto accessori, sono elementi integranti e
integrali della
poesia». (Franco Fortini Che cos'è la poesia? Intervista a
RAI Educational dell'8 maggio 1993)
«Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza, io non riesco davvero a immaginarmelo. Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale? Ho dalla mia, per non nominare i massimi cristiani, Marx, Nietzsche, Freud e Sartre. Essi mi rassicurano: deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima». ( F. Fortini, Non è solo a voi che sto parlando, in Disobbedienze II, pag. 38, manifesto libri, Roma 1996)
Se confrontassimo le iniziative per ricordare Fortini in occasione del ventennale della sua morte con le precedenti,[1] noteremmo tre fatti significativi: il ridimensionamento della pattuglia di studiosi e amici della vecchia guardia, essendo mancati Cesare Cases, Giovanni Raboni, Michele Ranchetti, Edoarda Masi e Tito Perlini; il silenzio nel ventennale di diverse voci, spesso tra le più autorevoli e qualificate, che lo commemorarono a Siena nel decennale; e l’affacciarsi presso studiosi giovani o meno anziani di due immagini di Fortini più mosse rispetto alle precedenti e consolidate: quella di un Fortini fuori tempo (e fuori dal Novecento) o, si potrebbe dire, di un Fortini oltre Fortini (come si parlò in passato di un Marx oltre Marx); e quella di un giovane Fortini, staccato se non amputato dal Fortini maturo o ideologo.[2]
Nota su: Franco Berardi e Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini e Castoldi, Milano 2016
«Morte ai
vecchi», il libro scritto a quatto mani con Massimiliano
Geraci, non può essere considerato forse il «primo romanzo»
di
Franco Berardi Bifo. Ma senza dubbio questa singolare
distopia, che immagina un futuro non poi così lontano dal
nostro presente,condensa molte
delle riflessioni dedicate da Bifo alla «mutazione»
contemporanea. E proprio per questo il vero protagonista del
romanzo diventa uno
sciame omicida di ragazzini, perennemente intrappolati in un
onnipresente alveare digitale.
Al fortunato amante di piccole curiosità letterarie che si trovi a frugare tra i polverosi scaffali di qualche rigattiere, potrebbe forse capitare di imbattersi nel nome di Loris Aletti, misterioso autore di alcuni romanzetti erotici pubblicati al principio degli anni Settanta, che ben pochi oggi ricordano. Ospitate nella collana «I libri della notte» dall’editrice milanese Kermesse, le opere di Aletti sono infatti le sbiadite testimonianze di un genere dimenticato della letteratura di consumo, che fiorì improvvisamente sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso e che tramontò altrettanto rapidamente solo pochi anni dopo – quando la diffusione della pornografia di fatto chiuse ogni spazio di mercato a una produzione che allora si definiva «erotica» – senza lasciare traccia nelle biblioteche, nei repertori bibliografici e forse anche nella memoria collettiva.
Molti giornali hanno riportato la notizia secondo cui la settimana scorsa lo scrittore Roberto Saviano avrebbe tenuto un discorso sulla corruzione della City londinese al parlamento britannico, su invito di un deputato laburista. La notizia ha un suono un po’ irrealistico, dato che, conoscendo il razzismo degli Inglesi, risulta improbabile che ad un italiano, per di più meridionale, sia stato consentito arringare il parlamento britannico manco fosse la regina Elisabetta. Magari il discorso è stato tenuto in qualche scantinato o garage del parlamento alla presenza di qualche passante. Circa il contenuto del discorso, in Italia alcuni commentatori hanno osservato che si trattava di scoperte dell’acqua calda, visto che da anni esiste una ricca documentazione sul ruolo delle grandi piazze finanziarie e immobiliari nel riciclaggio del denaro delle narco-mafie. Già qualche anno fa l’economista Giorgio Ruffolo diede un grosso contributo scientifico a riguardo. Negli anni '80 inoltre molti critici del thatcherismo osservarono che le riforme in atto stavano trasformando la Gran Bretagna da Paese industriale a lavanderia finanziaria del denaro illecito.
Ma l’aspetto interessante del discorso di Saviano riguarda la sua indiretta ingerenza nel dibattito referendario in corso nel Regno Unito sulla cosiddetta “Brexit”. Saviano ha affermato infatti che sarebbe illusorio per qualsiasi Paese fare scelte isolazioniste ed affrontare certe emergenze criminal-finanziarie senza una stabile cooperazione internazionale.
Gli Stati Uniti sono indiscutibilmente il paese guida dell’Occidente. Essi, nel bene come nel male, ne rappresentano l’epitome, la summa attraverso cui è possibile scorgere e seguire il filo rosso che tiene unita una trama di per sé apparentemente sconnessa e complessa.
Quello che sta accadendo in quel paese è quanto mai inquietante e sorprendente, di un’eloquenza che, però, risulta muta in un’epoca in cui l’esorbitante flusso di informazioni produce l’oscuramento dell’essenziale.
Il paese a capo dell’Occidente rischia seriamente di essere governato da un populista che usa toni e argomenti violenti, misogini e razzisti, ma soprattutto con un programma politico fortemente incurante (per non dire ostile) rispetto a tutto ciò che non è «american branded» (segnatamente americano).
L’impero occidentale non sta vacillando soltanto nella sua periferia (dove sempre più paesi rischiano di consegnarsi, o si stanno per consegnare al governo del populismo più reazionario e xenofobo), ma ormai anche il suo fulcro sembra subire uno smottamento dagli esiti più imprevedibili e preoccupanti.
«I terroristi incutono timore, mentre noi puntavamo solo ad educare». Così William «Bill» Ayers, esponente del gruppo Weather Underground, definisce l’organizzazione di estrema sinistra di cui era uno dei leader in Fugitive Days (pubblicato una prima volta nel 2007 da Cox 18, riproposto ora da DeriveApprodi), opera che racchiude quattro decadi di storia americana: dagli anni Quaranta ai primi Ottanta: quando Ayers metterà fine alla propria latitanza consegnandosi alle autorità.
È l’invasione americana del Vietnam a rappresentare una catarsi non solo per la vita dell’autore, ma per quella parte della generazione dei baby boomers che aveva compreso l’inutilità e la follia della guerra nel Sud Est asiatico. Alcuni giovani giungono a una visione comune: la necessità di abbandonare la disobbedienza civile in favore della lotta anti-imperialista, antirazzista e anticapitalista. Una dimostrazione è rappresentata dai Days of Rage, ovvero i Giorni della Rabbia (da non confondere con il semplicistico film 1969. I giorni della rabbia, Ernest Thompson 1988): forse uno dei primi tentativi di passaggio dal movimento pacifista alla lotta armata. Tutto ha inizio con gli Students for a Democratic Society, come ha sottolineato anche Harold Jacobs in Weathermen. I fuorilegge d’America (Feltrinelli 1973, ristampato da Bepress 2013), quando i giovani bianchi tentavano di rifiutare i loro privilegi di classe e di razza col progetto di rendere la società più «democratica».
David Weinberger sarà uno dei
relatori del convegno
internazionale Interactive Imagination che
si terrà dal 6
all’8 giugno all’Istituto Svizzero di Roma. Pubblichiamo
la traduzione di “Re-decentrilize Knowledge” apparso il
29 aprile 2016 su KMWorld. La traduzione è a cura di Angela
Maiello
C’è stato un tempo in cui il web era piatto. Le persone creavano i siti e tutti i siti venivano creati uguali. Ma la piattezza non può crescere o diminuire di scala. A metà degli anni Novanta tu sapevi che, con ogni probabilità, ciò che volevi era sul web, ma non sapevi come trovarlo. I motori di ricerca erano giovani e incompleti. Mi ricordo di quando lavoravo per Open Text e il suo motore di ricerca arrivava a contenere fino a 100.000 pagine. Immaginate! In quel periodo era considerato un numero eccezionale, ma il numero di siti web era più grande rispetto al numero di siti che un qualsiasi motore di ricerca poteva comprendere.
Tale problema ispirò un dei primi centralizzatori del web: Yahoo. Yahoo nacque come un classificatore multilivello dei siti web preferiti di due studenti di Stanford. Con una buona dose di ironia nerd lo avevano nominato “Yet Another Hierarchical Officious Oracle”. Mentre i motori di ricerca permettevano di ispezionare la propria lista di siti, Yahoo lasciava solo sfogliarla, almeno fino a quando non ha cominciato ad utilizzare il motore di ricerca di Open Text. Yahoo funzionava solo perché elencava “il meglio del web”. Se volevi che il tuo sito venisse trovato, dovevi sperare che Yahoo lo accettasse.
Previsioni. Sabato, in un video, ho detto: “Il Pd vince
a Cagliari
con Zedda, a Milano al ballottaggio su Parisi, a Torino al
ballottaggio su Appendino, a Bologna al ballottaggio sul
centrodestra. A Napoli vince De
Magistris al ballottaggio su Lettieri, con idolo Valente
fuori. E a Roma Raggi e Giachetti al ballottaggio, con Raggi
favorita. Se ne sbaglio 1 su 6
vado a lavorare al Foglio, se ne sbaglio 2 faccio un duetto
coi Modà a San Siro”. Al momento le ho prese
tutte,
compresi i secondi arrivati: fenomeni si nasce, e io
modestamente lo nacqui (cit). Il ballottaggio di Milano,
decisivo per capire chi ha vinto e
perso, è però molto aperto. Teoricamente potrebbero esserci
ribaltoni anche a Torino e Bologna.
Faccio
comunque presente che Cerasa mi ha già detto che non mi vuole,
avendo già messo sotto contrario Scaramacai, quindi resterò al
Fatto. Fiuuuu. Il mio produttore teatrale
mi ha poi fatto firmare uno strano contratto: “Se il Pd
perderà a Milano
e Torino, farai una data de Il sogno di un’Italia
con Mariano Apicella al posto di Giulio Casale”. Altre
considerazioni.
Affluenza. E’ calata di 5 punti rispetto al 2011, ma non è crollata. Il 62,14%, di questi tempi, non è poco. E a Roma si è votato più di tre anni fa, quando vinse Marino.
Dicevano i
vecchi
comunisti che le analisi elettorali, quelle serie, si fanno
basandosi sui voti assoluti. Fedeli a questo principio
rimandiamo ogni ragionamento
più complessivo a quando saranno termite le operazioni di
scrutinio più lente del mondo e ci concentriamo su alcuni dati
politici che ci
sembrano particolarmente significativi, primo su tutti la
crisi del renzismo. Al di là delle considerazioni sul numero
di candidati sindaco
arrivati al ballottaggio nei comuni più importanti, è infatti
l’emorragia di voti che ha colpito il PD il dato su cui
bisognerà aprire un ragionamento nelle settimane a venire,
soprattutto nell’ottica del voto referendario di ottobre. Ma
come direbbero
alla neuro, visto che mancano una manciata di sezioni, diamo i
numeri! A Milano il PD nel 2011 aveva preso 170.551 voti
(28,64%), oggi si ferma a
144.329 (28,96%). A Torino è sceso da 138103 voti (34,5%) a
104.818 (29,81%). A Bologna da 72.335 voti (38,8) a 59.792
(35,43). A Napoli da
68.018 (16,59%) a 38.198 (11,77%). Nella capitale, dove si era
votato nel 2013, il PD è invece passato da 267.605 (26,26%) a
190.737 (17,16%).
Complessivamente parliamo di 178.738 voti in meno, non proprio
bruscolini. Il dato però si fa più significativo se
confrontiamo il voto
di ieri con la performance renziana alle europee. Infatti, se
è vero che le due tornate elettorali non sono propriamente
sovrapponibili
è anche vero che nel 2014 il premier si era appena insediato e
le europee rappresentarono probabilmente l’apice della sua
luna di miele
con l’opinione pubblica nazionale.
Nel caos
post-primo turno, alcuni cose diventano chiarissime.
a) Renzi prende molte bastonate sui denti, ovunque;
b) Napoli diventa ufficialmente la prima “città derenzizzata”;
c) il Movimento Cinque Stelle sfonda a Roma e Torino;
d) esistono molte Italie, ma la differenza primaria è tra metropoli e provincia;
e) il sistema di potere allineato lungo la filiera Troika-Unione Europea-Renzi-clientele locali non riesce più a convogliare il consenso di una “maggioranza silenziosa”;
f) vere alternative di sistema per ora non ci sono, o possono trovare progressivamente forma solo a partire da quelle alleanze sociali, per quanto disomogenee e vaghe, che si sono chiaramente coagulate in un voto antigovernativo e antidestra.
Al vertice della banda renziana hanno decisamente ragione ad essere fortemente preoccupati. Si è rotto il presunto incantesimo che doveva elevare Matteo Renzi assolutamente al di sopra della scena politica nazionale.
Pur di imporre la regola del mercato
François Hollande è pronto a tutto. Mentre la prospettiva di
una ripresa economica si dissolve, la sinistra si è assunta il
compito di sferrare l’assalto finale contro i lavoratori. È
difficile credere che costoro non si rendano conto della
devastazione che
producono, è difficile credere che i dirigenti di questa
sinistra la cui dote principale è il servilismo non si rendano
conto che stanno
preparando il peggio. L’applicazione europea del neoliberismo
sotto il pugno di ferro teutonico ha prodotto tali catastrofi
che una sezione
crescente dell’opinione pubblica occidentale si sta
convertendo all’antiglobalismo di destra, al nazionalismo
razzista.
I prossimi anni saranno segnati da una triplice guerra i cui fronti rimangono confusi.
Il fronte globalista finanziario avrà forse in Clinton il suo leader, sempre che riesca a superare l’odio popolare e il trionfante Trump, al quale perfettamente si attaglia il ruolo di rappresentante dell’ignoranza razzista. Il fronte anti-globalista guidato da Trump e Putin tiene insieme un coacervo di nazionalismi in conflitto tra loro ma uniti nel tentativo di riaffermare il dominio bianco sul pianeta. E per finire il fronte terrorista raggruppa fondamentalismo islamico e necro-imprese della Gomorra globale.
La vittoria
elettorale di Lula e del Partito dei Lavoratori nel 2002 è
stata il prodotto del fallimento del modello neoliberista. La
stabilizzazione
monetaria, nel decennio 1990, non aveva inaugurato una ripresa
della crescita; al contrario, aveva avuto come effetto la
de-industrializzazione e la
disoccupazione di massa. L'aggravarsi della crisi sociale
esigeva cambiamenti ed il Partito dei Lavoratori, che aveva
portato a termine la sua svolta
programmatica, si poteva presentare come unica alternativa di
potere realmente capace di attutire lo shock di un processo
continuo di svuotamento
economico. All'epoca del primo mandato di Lula, tuttavia, un
cambiamento nella congiuntura economica mondiale - soprattutto
per quel che riguardava i
termini internazionali di scambio - aveva permesso una
parziale ripresa della crescita. Era stato soprattutto
l'aumento dei prezzi delle materie
prime, in parte dovuto alla domanda cinese, che aveva
consentito il cosiddetto "spettacolo della crescita" ed il
"patto sociale" dell'era Lula.
L'industrializzazione cinese assorbiva gran parte delle
derrate agricole, cementizie e del minerale di ferro
brasiliano. La Cina, a sua volta,
rimaneva completamente dipendente dal potere di acquisto dei
paesi centrali e, mentre il Brasile si era convertito in
fornitore di materie prime,
l'industrializzazione politicamente indotta del gigante
orientale si era trasformata in esportazione unilaterale verso
i mercati di consumo sempre
più indebitati, in primo luogo gli Stati Uniti.
Iraq, Libia, Sudan, Somalia,
etc., la
lista di nazioni che sono andate a pezzi dopo un intervento
militare statunitense e/o europeo non cessa di aumentare.
Sembra che al colonialismo
diretto di una "prima età" del capitalismo e al
neocolonialismo di una "seconda età", succeda adesso la
"terza età" della
balcanizzazione. Parallelamente si può constatare una
mutazione delle forme del razzismo. Dopo la Seconda guerra
mondiale, il razzismo
culturale prese il posto di quello biologico e da diversi
decenni il primo tende a presentarsi a livello religioso,
sotto la forma attualmente
dominante dell'islamofobia. A nostro parere, siamo in
presenza di tre storicità strettamente vincolate: quella del
sistema economico, quella
delle forme politiche della dominazione e quella delle
ideologie di legittimazione.
* * *
Ritorno a Cristoforo Colombo
La visione dominante dell'eurocentrismo spiega l'emergere e la successiva estensione del capitalismo a partire da fattori interni delle società europee. Da qui deriva la famosa tesi che alcune società (alcune culture, religioni, etc.) siano dotate di una storicità, mentre altre ne siano carenti. Quando Nikolas Sarkozy afferma nel 2007 che "il dramma dell'Africa è che l'uomo africano non è entrato sufficientemente nella storia" (1) non fa altro che riprendere un tema frequente delle ideologie di giustificazione della schiavitù e della colonizzazione:
A un tassista che si lamentava della concorrenza di Uber, chiesi: «Lei fa acquisti in rete?». «Sì». «Utilizza l’home banking?». «Naturalmente. Perché mi fa queste domande?». «Le rispondo con altre domande. Si rende conto che, facendo acquisti in rete toglie spazio ai negozi tradizionali e riduce le opportunità di occupazione nel commercio? E lo sa che l’home banking – così comodo, lo uso anch’io – elimina posti di lavoro nelle banche? Avvalendosi di questi servizi, lei contribuisce a danneggiare altre categorie, proprio come chi ricorre a Uber si comporta nei suoi confronti». A corto di argomenti, il tassista rimase silenzioso per il resto della corsa, ma dall’espressione del volto era palese il rimprovero a chi aveva appena distrutto la sua innocenza.
In effetti facciamo fatica a cogliere appieno le conseguenze di un insieme di innovazioni, destinate a crescere in numero e in diffusione. Quando – più presto di quanto si creda – saranno disponibili auto che si guidano da sole, convocabili a domicilio con un’app, anche Uber e i suoi occasionali autisti saranno messi in crisi. Se, com’è possibile, la moneta elettronica sostituirà quella cartacea e, evento assai probabile, qualcuno metterà in circolazione un software open source per la gestione di piccoli investimenti da parte di privati cittadini, cosa resterebbe delle banche attuali?
Fino a poco tempo fa la decisione di utilizzare un’innovazione, destinata a influire sulle prospettive economiche di un’impresa e su quelle sociali di chi vi lavora, aveva nomi e cognomi facilmente identificabili.
Nessuno libera nessuno, nessuno si
libera da
solo,
gli
uomini si liberano nella mediazione con il mondo
(Freire,
2002)
Pubblichiamo un estratto dal libro Neurocapitalismo, Mediazioni tecnologiche e linee di fuga (Mimesis, 2016). Il saggio verrà presentato mercoledì 1 giugno alle ore 18.00 a Esc Atelier Autogestito (via dei Volsci 159, Roma). Insieme all’autore interverranno Benedetto Vecchi e Giuliano Santoro
La mediazione tecnologica è inscindibile dalle origini e dalla storia dell’umanità in quanto parte integrante della mediazione degli uomini con il mondo e quindi della società. Questo libro è dedicato al ruolo invasivo di tale mediazione nelle dinamiche culturali, antropologiche, sociali, politiche ed economiche contemporanee così in bilico fra asservimento ed autonomia.
Non esiste epoca in cui le tecniche non siano state parte essenziale dell’attività umana ed il loro uso non abbia condizionato la vita. Gli ipotetici estremi di questa affermazione possono essere racchiusi fra due scene culto di cineasti e scrittori della statura di Stanley Kubrick, Ridley Scott, Arthur C. Clarke e Philip Dick. L’iniziale, in 2001: Odissea nello spazio, quando una scimmia antropomorfa, ispirata dalla scoperta di un monolito vecchio di quattro milioni di anni, raccoglie per la prima volta un osso per farne un’arma.
Carlo Calenda rappresenta al meglio la casta renziana. Esperienze manageriali sin dalla prima elementare e un’abilità, superiore a quella di Tarzan sulle liane, nel saltare tra le cordate di potere e da un incarico all’altro. Cosi il nostro è balzato agilmente da Montezemolo a Monti e poi da quest’ultimo a Renzi. Che lo ha nominato all’inizio dell’anno nella Commissione Europea, salvo poi ripensarci dopo pochi mesi e collocarlo al vertice del Ministero dello Sviluppo Economico.
Il nuovo salto di Calenda c’é stato il 10 maggio e già il 13, intervenendo da neo ministro a Bruxelles, il nostro ha subito schierato l’Italia tra gli ultras del TTIP. Mentre il governo francese e tedesco cominciavano ad esprimere dubbi sul micidiale trattato che concederebbe licenza di far tutto alle multinazionali, il nostro si è lamentato del fatto che le opinioni pubbliche ed i parlamenti nazionali abbiano rallentato il negoziato. I popoli a volte contano ancora qualcosa rispetto al mercato, che scandalosa arretratezza!
Ora il ministro chiarisce in una intervista sul Corriere della Sera la sua posizione, che evidentemente è anche quella del governo.
L’Italia, sostiene il ministro, è il paese che più avrebbe da guadagnare dalla piena attuazione del TTIP. Non solo non avremmo più il formaggio Asiago prodotto nel Minnesota, ma le nostre piccole imprese avrebbero la possibilità di sconfiggere la prepotenza e i privilegi delle multinazionali e quella di invadere i mercati del mondo, compresi quelli degli USA.
I giri di parole non mancano, ma il quadro è inequivocabile: le illusioni su un ceto medio che non esiste si sono sgretolate sotto il martello della crisi economica.
La grande maggioranza del paese, quella che lavora, gli operai che “non esistono più”, ritiene di appartenere alla classe bassa o medio-bassa. Con tutto il carico di paura, sfiducia e rabbia che ne consegue.
Ce lo dice La Repubblica, a partire dai sondaggi sviluppati da Demos. Perché, come dicevamo nel nostro libro, chi ci governa, la borghesia, “ha bisogno di sapere come siamo fatti. Ne ha bisogno per sapere come può fare profitti, come può sfruttarci di più e meglio, e – poiché sa anche di essere una minoranza della società – come può utilizzare le nostre debolezze e comandare attraverso le nostre divisioni. Perciò appena esce dai salotti televisivi dove ci riempie di stupidaggini per farci stare buoni, la borghesia si mette alla scrivania per studiare come stanno le cose.”
E quindi possiamo leggere uno dei giornali più filo-governativi del paese, quello che tesse le lodi del mercato, dell'Europa, della globalizzazione, della flessibilità, smontare colpo su colpo, dato su dato, la retorica Renziana dell'ottimismo e della fiducia. Si scopre che gli unici a coltivarla questa fiducia sono le fasce alte tra gli imprenditori, i lavoratori autonomi, i liberi professionisti, “tra i quali, anzi, si è allargata la componente di quanti si sentono arrivati in cima alla scala.”.
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1. Voci
dall'estero ci riporta meritoriamente un articolo di
Ambrose Evans-Pritchard che ci racconta come i
giudici inglesi si stiano "ribellando"
alla corte di giustizia UE. Il problema è così
posto:
"Si tratta della prima entusiasmante resistenza della autonomia sovrana contro una Corte di Giustizia europea che ha ormai tratti imperiali, che ha acquisito poteri indiscriminati sotto il Trattato di Lisbona, e che da allora ha fatto leva sulle sue conquiste per rivendicare la giurisdizione su praticamente qualsiasi argomento".
Citata la storia di questa espansione "intollerabile" della giurisdizione europea, e anche l'atteggiamento non cedevole della Corte costituzionale tedesca, che avrebbe censurato la CGUE in più occasioni per essere andata oltre il suo mandato, si riporta che:
"È dunque toccato alla Corte Suprema del Regno Unito – che senza far rumore sta diventando una forza con cui bisogna fare i conti – sollevare la questione se le rivendicazioni di sempre maggior egemonia della Corte di Giustizia europea siano legali, e di che cosa possiamo fare per fermarla.
Il prof. Rodolfo
Signorino, docente di
Economia presso l’Università di Palermo, ci ha inviato
questo articolo in cui avanza alcune critiche al paper di
Thomas Fazi e Guido
Iodice “Why further integration is the wrong answer to the
EMU’s problems: the case for a decentralised fiscal
stimulus”,
regentemente premiato dal think tank Progressive Economy
di cui abbiamo già parlato.
Segue in fondo al testo la risposta di Fazi e Iodice.
* * *
“The Eurozone looked like a wonderful construction at the time it was built. Yet it appeared to be loaded with design failures. In De Grauwe (1999) I compared the Eurozone to a beautiful villa in which Europeans were ready to enter. Yet it was a villa that did not have a roof. As long as the weather was fine, we would like to have settled in the villa. We would regret it when the weather turned ugly” (De Grauwe 2013).
Come mi capita di dire ai miei studenti, scherzando ma solo fino ad un certo punto, anche nel dibattito macroeconomico esistono le fads.
“Alla
più debole produttività dell’Italia nel confronto con gli
altri principali paesi europei contribuisce anche una
struttura
produttiva sbilanciata verso le piccole e piccolissime
imprese. La produttività delle imprese italiane con almeno
250 addetti è
più del doppio di quella delle aziende con meno di 10
addetti; tale divario è solo del 48 per cento in Germania.
Queste differenze si
sono ampliate durante la recessione per effetto di un calo
maggiore della produttività delle piccole imprese italiane
rispetto a quelle
tedesche. Per contro le aziende italiane di media
dimensione (50-249 addetti), la cui produttività era già
lievemente più elevata
prima della crisi, tra il 2007 e il 2013 hanno registrato
incrementi maggiori di quelli osservati in
Germania (”Banca
d’italia, Relazione Finale, pag. 64 Roma 31 maggio 2016).
“Gli interventi sugli istituti di gestione delle crisi d’impresa varati l’estate scorsa e le ulteriori misure di recente approvate potranno facilitare il risanamento delle aziende in crisi reversibile e favorire l’uscita dal mercato di quelle non più profittevoli (”Ignazio Visco, Considerazioni finali del Governatore, pag. 12 Roma 31 maggio 2016).
Curato con grande precisione filologica da Dario Borso, la raccolta di scritti politici di Elvio Fachinelli Al cuore delle cose è un insieme prezioso di scritti dello psicoanalista di Luserna, che ha la grande importanza di mettere insieme per la prima volta testi apparsi su riviste e quotidiani, la cui gran parte era divenuta, oggi, praticamente introvabile.
I saggi sono stati scritti tra il 1967 e il 1989, anno della morte di Fachinelli, ed è allora naturale intuire l’importanza di tale raccolta per addentrarsi nel pensiero di un dei più importanti psicoanalisti italiani, tanto importante da essere indicato, non a caso, da Lacan come suo miglior erede (investitura che, a titolo di cronaca, Fachinelli rifiutò). Il sottotitolo Scritti politici non deve però trarre in inganno: non si tratta di articoli che avevano un ruolo comprimario rispetto alla sua produzione psicoanalitica, ma si tratta invece, come sottolinea Borso nella sua prefazione, di testi importanti per indagare l’analisi più difficile di Fachinelli, quella condotta su un paziente imprevedibile e molto complesso, l’Italia.
Lo sforzo gnoseologico dello psicoanalista di Luserna che si respira nel gran numero di articoli riportati ne è testimonianza lampante. Si tratta di interventi anche lunghi, di veloci articoli o di veri e propri saggi, che hanno la caratteristica di essere sempre legati all’attualità e alle vicende che Fachinelli ha sempre conosciuto da vicino, apparsi per la maggior parte sulla rivista da lui fondata (con Luisa Muraro e Lea Melandri) L’erba voglio, sui Quaderni Piacentini e su L’espresso.
Tra sfruttamento e precariato, due saggi collettanei appena pubblicati per ombre corte indagano il rapporto tra capitale e lavoro vivo
Il capitalismo è una religione puramente cultuale», sosteneva Benjamin, che fa leva sui desideri diffusi di socialità, espressione e relazione. Il culto idealizza i principi di autonomia e libertà mentre dissemina nel sociale assiomi e ingiunzioni all’azione, a tal punto da far accettare come normale addirittura l’ossimoro di lavoro gratuito. Et voilà: le nuove frontiere del neoliberismo.
Se il lavoro è la forma della socialità, con l’irrompere della soggettività nella produzione e nella riproduzione, la dimensione di culto si estremizza. Attraverso il lavoro, anche se deprezzato o non pagato, continua a giocarsi sul piano simbolico l’accettazione all’interno della società. Non fa una piega la tesi di Sergio Bologna, contenuta nel volume collettivo, curato da Emiliana Armano e Annalisa Murgia, Le reti del lavoro gratuito. Spazi urbani e nuove soggettività (ombre corte, pp. 124, euro 12) che insieme al volume di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi, Stefano Lucarelli, Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale (ombre corte, p. 126,euro 12), indagano le manifestazioni estreme dello sfruttamento nei rapporti tra capitale e lavoro vivo.
Non avendo l'anello al naso, è opportuno fare una robusta tara sul presunto "asse populista" Salvini-M5S, in vista dei ballottaggi. Ed è la tara della propaganda elettorale ispirata, con ogni probabilità, dal burattinaio della comunicazione renziana Filippo Sensi.
Intendo dire che se oggi tutti i media o quasi scoprono similarità (o addirittura "accordi segreti") tra la Lega e i Cinque Stelle, è anche per allontanare l'elettorato di sinistra dalla tentazione di votare al ballottaggio i candidati Cinque Stelle: e una reale o presunta parentela tra grillini e leghisti svolge una funzione utilissima in questo senso.
D'altro canto il giornale più esplicito, in questo senso, è proprio l'Unità, che titola in prima, a tutta pagina, "Carroccio a 5 Stelle".
Fatta questa tara, tuttavia, ci sono anche articoli più seri che analizzano la questione, come quello di Ilvo Diamanti oggi su Repubblica. Che parte da una considerazione sul delinearsi di una «convergenza tra i principali soggetti politici antirenziani».
È vero: c'è una fetta di Paese - variegatissima al suo interno - che ha come unico punto in comune l'avversione al premier.
Succede, quando la politica diventa una persona.
Succede cioè quando la dialettica e il confronto non sono più sulle cose, sulle idee, sulle visioni del mondo, sulle realizzazioni, ma diventano un ininterrotto derby "Io contro il Resto del Mondo".
A quattro anni dalla prima uscita in formato cartaceo, giungiamo infine a pubblicare un secondo numero de «Il Lato Cattivo». Rispetto al calderone di spunti del primo numero, lasciamo al lettore il compito di cogliere nel dettaglio quali «piste» abbiamo seguito e quali abbiamo abbandonato o lasciato in sospeso. Ma un così lungo silenzio merita almeno qualche spiegazione. Non che sia stato un silenzio assoluto o inattivo, data l'intensa attività di pubblicazione e diffusione in cui ci siamo spesi, soprattutto via Internet, di scritti nostri o altrui, riguardanti le questioni più svariate – trovando anche il tempo per un paio di incontri pubblici. Ma è pur vero che contavamo di dare all'uscita della rivista una cadenza semestrale o quantomeno annuale – cosa che puntualmente non è avvenuta. Il tran tran e le difficoltà quotidiane non spiegano tutto.
Diciamo, in primo luogo, che il periodo giusto a ridosso della crisi del 2008, aveva suscitato, in noi come in molti altri, delle aspettative che si sono rivelate essere frutto di un fraintendimento. Se le rivolte nelle banlieues francesi del 2005, il collasso economico del 2008, il movimento greco del dicembre dello stesso anno (per restare agli eventi più eclatanti), potevano lasciar presagire non solo un approfondimento fulmineo dell'antagonismo fra proletariato e classe capitalista, ma soprattutto una semplificazione di questo antagonismo – i proverbiali nodi che vengono al pettine – il seguito non è andato propriamente in questo senso.
In questi mesi nella Rete dei
Comunisti si
è vissuto un dibattito sul ruolo dei comunisti oggi, dibattito
necessario per rimettere di nuovo a confronto militanti
provenienti da diverse
esperienze e provare ad elaborare un linguaggio condiviso.
Chi scrive ha partecipato al dibattito facendone principalmente resoconti che facilitassero questa elaborazione. Tuttavia si sente il bisogno anche di esprimere il proprio personale punto di vista. E fare una prima sintesi problematica di tutti gli stimoli che il termine “comunista” porta con sé, a dispetto delle caricature che si fanno a questo termine creando a piè sospinto il proprio tascabile partito.
A questo termine non si deve abdicare nonostante tutte queste parodie. Il nome è il primo momento di un passaggio dall’in sé al per sé che si augura ad ogni individuo e ad ogni organizzazione che iniziano un determinato processo di autocoscienza. Il nome è l’appropriazione di una storia con tutto il suo precipitato di errori e di tragedie. Il nome è la garanzia di un rammemorare sia i contenuti propri di una tradizione politica, sia i momenti storici che costituiscono e devono costituire problema. Rendere quello del nome un problema solo nominalistico vuol dire rischiare di trasformarsi perdendo ciò che invece va salvato e acquisire invece ciò che va rifiutato. La rapida destrutturazione del Pds in Italia non è senza rapporto con la questione del nome, perché nel nome è riassunta tutta l’apertura che una organizzazione che si definisca comunista deve avere verso tutta la sua storia, una storia che è plurale proprio per la sua ricchezza, una storia che va risolta sempre con una sintesi, con una scelta fallibile e non necessitata, una scelta che preservi l’intelligenza, invece di abdicare ad essa in nome della fatalità, in nome di una realtà che è alla fine solo un resoconto capzioso di essa.
In questi giorni, i critici della
politica elettorale possono mettersi a sedere compiaciuti e
gustarsi lo spettacolo dei partiti politici allo sbando; le
preoccupazioni dell'1%, che in
realtà vogliono dai loro governi poco più che tasse basse,
sussidi alti, pace sociale e tranquillità, e quanto basta di
azione
militare sufficiente a tenere il mondo al sicuro per la
democrazia; e le elucubrazioni dettate dal panico degli
esperti politici cercano di dare un
senso a tutto questo reclamando la loro funzione ormai perduta
di profeti e di interpreti. Naturalmente, quando (com'è più
probabile)
Bernie alla fine è stato fatto fuori dalla macchina
Democratica e si sta chiedendo ai "progressisti" di tapparsi
il naso - come hanno finora
fatto in tutte le elezioni - per votare l'odiata Hillary e
fermare così il terribile Donald, sembrerà di trovarsi solo ad
un passo dal
precipizio, l'apparentemente inevitabile risultato degli
sforzi elettorali volti a non sacrificare il bene per
l'impossibile meglio.
Ma stavolta sempre ci sia qualcosa di speciale. Per prima cosa, entrambi i contendenti più dinamici, Trump e Sanders, sono apparentemente entrati in lizza senza aspettarsi di vincere, e si sono impegnati a fare del loro meglio quando hanno scoperto un inaspettato livello di risposta da parte del pubblico votante. Questo è un altro aspetto della quasi completa assenza di contendenti credibili a parte loro due (e, certo, la Clinton, ma senza Sanders lei sarebbe stata la sola del suo schieramento).
A che punto si trova lo sviluppo della “biopolitica affermativa” di Roberto Esposito? Per comprenderlo occorre prendere in considerazione il suo ultimo libro, "Da fuori. Una filosofia per l'Europa", uscito recentemente per Einaudi. In questa intervista, che l'autore ha gentilmente concesso alla nostra rubrica, se ne mette a tema il nucleo centrale e le sue più importanti implicazioni
1. Il
tuo
libro Da Fuori. Una filosofia per l’Europa
sembra situarsi nel punto di incrocio tra due
diversi assi: da un
lato lo sguardo sulle filosofie dell’Europa, dall’altro
uno sguardo sulla filosofia per l’Europa. Il punto di
incontro tra questi
due vettori potrebbe essere la domanda su che cosa la
filosofia possa dire oggi all’Europa. Vorremmo aprire
questa intervista proprio ponendole
questo quesito, quale ruolo la filosofia dovrebbe giocare
nel dibattito attuale sull’Europa?
RE. Se ci si pensa, nei momenti più drammatici della sua storia, l’Europa si è sempre rivolta alla filosofia e, a sua volta, la filosofia si è interrogata sui destini dell’Europa come qualcosa che toccava il suo stesso modo essere. Perché? Quale nodo stringe in maniera indissolubile filosofia ed Europa? Una prima risposta a questa domanda attiene alla nascita europea – in particolare greca – della filosofia. Anche quando si è nutrita di altre tradizioni di pensiero, la connotazione europea ha segnato la filosofia in forma incancellabile. Anche la linea di pensiero che ha assunto il nome di “filosofia analitica”, da alcuni curiosamente opposta alla filosofia “continentale”, è nata nel nostro continente e solo successivamente trasmigrata altrove, in fuga dal nazismo. Ma c’è qualcosa di più, che attiene al carattere filosofico della stessa costituzione dell’Europa. Non avendo confini geografici certi, almeno a est – la sua distinzione dall’Asia è problematica, visto che due grandi Paesi, la Russia e la Turchia sono a cavallo dei due continenti –, l’Europa si è fin dall’inizio pensata tale a partire dalla specificità costitutiva dei suoi principi filosofici: la libertà delle città greche rispetto al regime assoluto asiatico. Benché tali principi siano stati spesso contraddetti e rovesciati nel loro contrario, l’idea di Europa fa tutt’uno con essi.
Stanca, impoverita, disincantata, la società italiana si è svegliata domenica mattina un po’ meno pigra del solito e ha dato al sistema politico due segnali inaggirabili. Il primo: la narrativa renziana dell’ottimismo forzato, del riformismo forzoso e del leaderismo rafforzato non convince e non vince. Il secondo: il bipolarismo italiano, già morto alle elezioni politiche del 2013, adesso è anche sepolto. Il Movimento 5 stelle, l’alieno venuto tre anni fa a fare da terzo incomodo fra un centrodestra e un centrosinistra già pericolanti dopo il tramonto di Berlusconi, si è installato stabilmente nell’immaginario politico nazionale e a fermarlo non sono bastati gli scongiuri del novello partito della nazione, né nella versione piatto unico né in quella con contorno di Verdini. L’infinita transizione italiana non si ferma neanche stavolta, alla vigilia di un referendum costituzionale che vorrebbe, com’è già stato invano tentato in passato, irreggimentarla in un nuovo apparato di regole: siamo e restiamo – ed è un bene – in un inquieto movimento.
Matteo Renzi ha provato con ogni mezzo a derubricare in anticipo il responso delle amministrative, e ci ha riprovato anche lunedì, a responso emesso. Il quale responso, sostiene il premier, non ha alcun significato generale, è locale e perfino casuale, perché ormai “si vota facendo zapping”. Ma si sbaglia. Non è locale ma generale il salasso di voti del Pd, non è locale ma generale il consolidamento e la crescita del M5s, non è locale ma generale la divisione del fu centrodestra e la riduzione ai minimi termini della fu Forza Italia.
Condividiamo anche dal nostro sito la presa di posizione della Carovana delle Periferie, che rispecchia la nostra posizione su ballottaggio, referendum e crisi del renzismo. Nella foto sotto, il fortino elettorale del Pd, in pieno centro storico, assediato dalla valanga astensionista e grillina delle periferie: un’immagine che descrive la realtà meglio di ogni analisi.
I risultati elettorali nelle grandi aree metropolitane indicano una meritata e sonora sconfitta per il Pd, il partito di Renzi e del suo progetto di governance autoritaria e antipopolare. Il Pd si rivela ormai come il partito dei “ricchi”, dei banchieri, della Confindustria. Per questo salutiamo positivamente il risultato, in particolare quello di Napoli e in modo diverso quello di Roma dove, così come a Torino, decisivo è stato il voto nelle periferie. Il fatto che le due più popolose aree metropolitane abbiano sconfitto già dal primo turno il Pd è un segnale importante, soprattutto per le contraddizioni che questo risultato può aprire nel prossimo futuro. Come Carovana delle Periferie già molto prima delle elezioni avevamo indicato che chi avesse contribuito alla sconfitta del PD era meritevole di attenzione. Ma adesso si aprono partite assai più complicate e pesanti di un passaggio elettorale.
Sia De Magistris a Napoli che il M5S a Roma, qualora dovessero confermare la vittoria ai ballottaggi, si troveranno a fare i conti con il boicottaggio e le campagne ostili orchestrate dal governo e dai suoi terminali locali.
Sì può battere Renzi e la sua conventicola al referendum di ottobre? Sì, è possibile. Ma solo a certe condizioni...
Prima tesi
Da tempo sostenevamo che il referendum costituzionale di ottobre, per numerose ragioni —malgrado non sarà la battaglia che decide delle sorti della interminabile guerra tra chi comanda e chi subisce — sarebbe stata una partita decisiva. I fatti ci stanno dando ragione.
Comunque vada a finire una fase politica si chiuderà e un'altra si aprirà. Lo conferma lo stesso Renzi, che in questo referendum si gioca la sua carriera politica. Senza la legittimazione del voto popolare non solo egli dovrà dimettersi, sarà momentaneamente battuto il disegno politico, che viene da molto lontano, di un regime blindato di tipo presidenzialista. Se vincerà il NO la finestra dell'alternativa resterà aperta, la maggioranza di cittadini che sono stufi ma frustrati e sfiduciati, prenderanno coraggio. E quando il popolo prende coraggio tutto diventa possibile.
Seconda tesi
Sappiamo già cosa avverrà in caso di vittoria del SÌ. Schiantati gli oppositori Renzi vorrà andare a passo di corsa verso un congresso del Pd e quindi verso elezioni anticipate per essere incoronato nuovo Re d'Italia.
"Mentre in Francia militanti della CGT vengono accolti in trionfo al loro congresso, dove esibiscono il contatore elettrico tolto dalla villa del presidente della Confindustria di quel paese, da noi gli scioperi degli straordinari in Fiat sono sotto accusa in FIOM e di in Cgil"
I militanti che lasciano la Cgil e che si riuniscono in assemblea a Roma l'11 giugno hanno fatto tutto ciò che era possibile per restare nell'organizzazione. Ovviamente per restarci restando sé stessi. Ma i gruppi dirigenti della Cgil e della FIOM hanno posto a loro esemplarmente, cioè in modo che risultasse da esempio per tutti, l'aut aut. Se quei militanti sindacali avessero continuato nel loro impegno, sarebbero divenuti incompatibili con il loro sindacato, se invece si fossero piegati all'organizzazione, allora questa li avrebbe ancora benignamente compresi nelle sue fila.
A Termoli e Melfi un gruppo di delegati della FIOM aveva deciso di organizzarsi per resistere alla oppressione dei ritmi sempre più intensi e della flessibilità selvaggia.
Una lotta semplice e giusta per diritti elementari del lavoro, che era parte della storia più antica e forte della Cgil e della FIOM. Una storia che i gruppi dirigenti hanno evidentemente messo in archivio, perché proprio per questo impegno contro la Fiat di Marchionne, i delegati FIOM di Termoli e Melfi sono andati sotto processo nella organizzazione.
In seguito all’incontro seminariale di martedì 1 marzo tenuto presso il circolo Rosa Luxemburg, pubblichiamo una riflessione sulla storia dell’Unione Sovietica scritta da Tommaso Baris, docente di storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Palermo
La
storiografia italiana si è arricchita recentemente di alcuni
importanti contributi sulla storia dell’Unione
Sovietica, permettendoci di rendere estremamente più
articolata l’immagine dell’Urss costruita nel nostro paese. In
particolare
punto di partenza di questa riflessione sono i lavori di
Silvio Pons e di Andrea Graziosi, che hanno condensato in due
importanti volumi sul movimento
comunista internazionale e sulla storia dell’Urss un
pluriennale lavoro di ricerca[1].
Tra le tante questioni segnalate dai due volumi vale la pena soffermarsi su quella che mi pare cruciale: la forte correlazione esistente tra Grande Guerra e forma politica assunta dal partito bolscevico nel corso della sua presa del potere. Pons insiste molto su questo aspetto cruciale, sul fatto cioè che il bolscevismo, dinanzi al massacro della Prima guerra mondiale, abbia adottato un modello organizzativo strettamente militare, introiettando fortemente nella sua cultura politica le categorie e le forme organizzative tipiche di un moderno esercito di massa in vista del suo diventare il “partito della guerra civile”. L’idea di Pons è che questo tratto burocratico-militare costituisca l’essenza dell’approccio alla politica del bolscevismo e che caratterizzi quindi le scelte politiche non solo nel corso della guerra civile russa scoppiata dopo la presa del Palazzo d’Inverno a Pietroburgo, ma che continui ad operare anche dopo la stabilizzazione dello Stato sovietico, tanto nelle sue relazioni interne che in quelle esterne.
Il mio amico e collega Jesper
Jespersen mi
sollecita da tempo a riprendere insieme il progetto di Keynes
sulla riforma del sistema monetario internazionale, noto come
Bretton Wood. Questo
nella convinzione che oggi, come allora (1944), c’è bisogno di
una ricostruzione del sistema economico e monetario in Europa
e nel mondo,
e gli strumenti e le conoscenze necessarie per farlo sono a
disposizione. Si è scelta invece la strada della moneta unica
e dell’euro,
imponendo un processo di integrazione economica a scapito
della solidarietà sociale e del co-sviluppo tra paesi, europei
e no.
Questo non vale solo per il sistema monetario. Gli squilibri economici e sociali tra l’Europa e il Mediterraneo sono noti da tempo e nel Primo Rapporto sul Mediterraneo elaborato per il CNEL nel 1991 avevamo scritto con chiarezza che l’andamento demografico dei paesi euro-mediterranei e il divario economico segnalavano con chiarezza che di li a venti anni, in assenza di nuove politiche di cooperazione (le chiamammo di co-sviluppo) tra le due sponde saremmo andati incontro al disastro attuale, di una emigrazione selvaggia da quei paesi e una ripresa generale della conflittualità tra stati europei. Fummo accusati (dalla sinistra e sindacati) di allarmismo economico.
Tuttavia quelle elaborazioni contribuirono a dar vita ad alcune spinte positive con il progetto euro-mediterraneo di Barcellona (1995) (“un’area di benessere condiviso”) interrotto poi bruscamente con l’invenzione prodiana delle “politiche di vicinato” (2004), che scambiarono il welfare condiviso con la difesa comune, trasformando una strategia di cooperazione e stabilizzazione in quella di destabilizzazione e di guerra voluta dalla NATO.
Nel futuro la disoccupazione sarà generalizzata. È la previsione che segue le analisi sull’automazione delle attività produttive. Una tesi che ritorna ciclicamente, da oltre cinquant’anni, ogni volta che viene annunciata qualche innovazione tecnologica
Lo scorso anno ha
provocato un certo scalpore in Italia un articolo del saggista
britannico John Lanchester pubblicato dalla London Review
of Books e tradotto
in italiano da Internazionale intitolato Il capitalismo
dei Robot. Il testo di Lanchester consta di una
documentata analisi della situazione
planetaria del lavoro sotto la pressione dello sviluppo
tecnologico e dell’automazione. Tra i dati più spettacolari
presentati da
Lanchester spiccano la netta vittoria di Watson, ultimo
software Ibm in materia di intelligenza artificiale, al gioco
a quiz televisivo
Jeopardy!, i successi del traduttore di Google e
l’annuncio di Terry Gou, fondatore di Foxconn, della sua
intenzione di sostituire il
milione di dipendenti della celebre azienda elettronica con
dei robot. Come scrive Lanchester: «Se mettiamo insieme tutte
queste cose, possiamo
iniziare a capire perché molte persone pensano che sia in
arrivo un grande cambiamento basato sull’influenza
dell’informatica e
della tecnologia sulla nostra vita quotidiana».
Che molte persone pensino qualcosa del genere è senz’altro vero, basti citare titoli di grande successo come Postcapitalismo di Paul Mason (Il Saggiatore) o altri importanti lavori pubblicati recentemente come Rise of robots di Martin Ford. Sul palco delle Ted Conference, seguite da centinaia di migliaia di persone sui canali video di Youtube, si susseguono giovani e brillanti pensatori che, nel nome del reddito di cittadinanza, snocciolano grafici e tabelle che rivelano impietosamente il trend progressivo e inesorabile della fine del lavoro sotto la pressione dell’automazione.
Il sostegno al «peccatore segretamente maledetto» di Zizek e l'inno al masochismo dell'ex ministro greco
Da tenere bene a mente. Due delle icone di una certa sinistra europea - il filosofo sloveno Slavoj Zizek e l'economista greco Yanis Varoufakis - se fossero inglesi farebbero la croce sul Remain per tenere la Gran Bretagna nell'Unione Europea.
Ora direte, e dov'è la notizia? Giusta obiezione, la cosa in se non stupisce affatto. Colpiscono però gli argomenti utilizzati dai due. La loro difficoltà è infatti evidente. D'altronde, dovendo difendere un mostro, non gli è rimasta altra scelta se non quella di intraprendere la più classica arrampicata sugli specchi. Con tutte le conseguenze del caso...
Gli interventi di Zizek e Varoufakis sono stati ospitati nei giorni scorsi sulle pagine del Guardian, che ha chiesto a diversi intellettuali europei di esprimersi sul referendum del prossimo 23 giugno.
Zizek la prende alla larga. Gironzola un po' intorno alla cosa, ma poi getta la maschera:
«Dal punto di vista di sinistra, ci sono alcune buone ragioni per sostenere la Brexit: un forte Stato nazionale esentato dal controllo dei tecnocrati di Bruxelles in grado di proteggere lo stato sociale e contrastare la politica di austerità.
Nei film c'è un antagonista buono e uno cattivo. Il buono è spesso burbero e stravagante e si mette in contrasto nel primo sviluppo del plot con l'eroe
In ogni film che si rispetti c'è un antagonista buono e un antagonista cattivo.
L'antagonista buono è spesso un tipo burbero e stravagante che si mette in contrasto nel primo sviluppo del plot con l'eroe, il protagonista del film. Eppure, benché sia chiaramente un antagonista di colui che amiamo fin dalle prime scene, l'eroe appunto, esso non ci desta mai antipatia ma su di lui aleggia un'aurea benevola e simpatica. La sua capacità più straordinaria è quella di mettere in luce i fatal flaw, i lati d'ombra, dell'eroe, non per enfatizzarli quanto piuttosto per esorcizzarli e renderli "umani". Permette all'eroe di confrontarsi con il proprio demone oscuro, superandolo e sublimandolo.
Ad un certo punto però, nel punto di snodo della parte centrale della trama, l'eroe si affranca dall'antagonista buono e prende il sopravvento su costui che gli riconosce cavallerescamente la superiorità morale per combattere contro l'antagonista cattivo, il comune nemico che nel frattempo ha continuato a stagliarsi minaccioso sullo sfondo. L'antagonista buono, da "guardiano della soglia" si può trasformare addirittura in "mentore", colui che allena e istruisce l'eroe e lo spinge all'avventura, diventando un elemento decisivo per la vittoria finale sull'antagonista, la vera "ombra" (shadow) della storia.
Questo weekend si è tenuta la diciannovesima edizione di Hackmeeting, il raduno nazionale delle controculture digitali italiane. Dal '98 a oggi, l'evento riunisce mediattivisti, ricercatori, programmatori o semplici curiosi per discutere insieme dei rapporti tra la società e le nuove tecnologie. Al centro del dibattito sono posti temi come privacy, copyleft, crittografia, software libero, ma anche autoproduzioni e radio amatoriali. Come da tradizione, l'edizione è numerata con una cifra esadecimale crescente, in questo caso 0x13 (il numero 19, per l'appunto).
Quest'anno la location è stata il Polo Fibonacci dell'Università di Pisa, sede delle facoltà scientifiche dell'Ateneo, che è stato temporaneamente occupato per i tre giorni durante i quali si è svolto il meeting. L'evento è organizzato in modo autogestito da una mailing list aperta, ospitata su un mail server del collettivo Autistici/Inventati.
A fare da denominatore comune tra tutti i progetti presentati è stato l'approccio Do It Yourself (DIY), la voglia di sovvertire il ruolo di semplice fruitore inconsapevole delle macchine con cui abbiamo a che fare ogni giorno - siano esse informatiche, biologiche o cognitive.
Inutile ribadire che il progetto, dotato di una forte connotazione politica, tende a sensibilizzare su temi come l'importanza della privacy e della comunicazione libera da controllo, tanto che, durante la tre giorni, c'è l'esplicito divieto di fotografare persone all'interno dello spazio.
Trento, Festival dell’economia, 5 giugno 2016. Susanna Camusso ribadisce la posizione della Cgil contro il reddito minimo: “Reddito minimo? Il vero tema è la piena occupazione… Penso che il tema sia il lavoro e la piena occupazione, quindi le risorse vanno investite nella costruzione di lavoro e libere scelte delle persone”
Si è discusso molto, in queste ultime settimane, del ruolo dei sindacati italiani e europei nella strategia di contrasto alla precarizzazione del lavoro. Non si poteva fare altrimenti dopo le lotte in Francia contro la “Loi travail”, denominata Oltralpe, non a caso, “Jobs Act francese”. E soprattutto, dopo la posizione netta della Cgt, un sindacato che da noi italiani viene considerato, al pari degli altri sindacati francesi, poco rappresentativo, visto che ha un tasso di sindacalizzazione intorno al 20%. La Cgil ha sei milioni di iscritti, ma metà di questi sono pensionati. Se calcoliamo tre milioni di iscritti in attività lavorativa tra pubblico e privato, ci accorgiamo che il tasso di sindacalizzazione effettivo italiano non è di molto superiore a quello francese.
Eppure le strategie sembrano molto diverse.
La leadership della Cgil ha più volte dichiarato la sua contrarietà sia all’istituzione di un reddito minimo che a un salario minimo orario per legge.
Le ragioni sono chiare ma non adeguate né sostenibili nell’attuale contesto di accumulazione.
La globalizzazione è diventata un’ossessione –denuncia Will Denayer su Flassbeck-economics– che impedisce alle forze progressiste il raggiungimento di qualsiasi obiettivo a qualsiasi livello. Nel voler diventare a tutti i costi “europea” e transnazionale, la Sinistra ha perso di vista che le battaglie si possono e devono ancora combattere quasi interamente a livello nazionale, con le proprie politiche, le proprie scelte e la propria moneta. Nell’avere accettato la leggenda di un Capitale internazionale totalmente libero e onnipotente, al quale bisogna per forza adeguarsi (al limite con qualche correzione), perché “non c’è alternativa”, si è dimenticato che è (ancora e solo) all’interno dei singoli paesi che si possono perseguire concretamente i grandi obiettivi di progresso sociale. Il Capitale è quello che è sempre stato. È il Lavoro che ha smesso di difendersi (per inseguire un’allucinazione)
1. Varoufakis
Questo articolo parla di strategia, ma la strategia non può essere considerata indipendentemente dalle persone, dalle loro storie e dalle loro azioni. Syriza è sempre stato un complicato conglomerato di gruppi con convinzioni politiche eterogenee, ma da quando è salito al potere nel gennaio 2015 fino alla sua resa sette mesi più tardi, sono emerse due fazioni principali che combattevano una fiera lotta. Da una parte c’era una sinistra composita ma determinata a mantenere le promesse elettorali (il programma di Tessalonica): non ci doveva più essere alcuna austerità, la Grecia avrebbe dovuto negoziare una cancellazione del debito, e se la Troika avesse proseguito per la sua strada portando il paese al limite, questo gruppo avrebbe preferito sostenere l’uscita dall’eurozona. La dirigenza di Syriza, dalla parte opposta, voleva ugualmente mettere fine all’austerità, ma non voleva a nessun costo uscire dall’eurozona.
Come spiega Lapavitsas, la dirigenza di Syriza si era convinta che se avesse rifiutato un nuovo salvataggio, i creditori europei si sarebbero piegati di fronte al rischio di un nuovo tumulto finanziario e politico.
È
trascorso ormai un secolo dalla pubblicazione di L’imperialismo,
fase suprema del capitalismo (1916) di Lenin e L’economia
mondiale
e l’imperialismo (1915) di Bucharin, i quali, insieme a
L’accumulazione del capitale (1913) di Rosa
Luxemburg,
identificavano l’imperialismo come una forza e uno strumento
del capitalismo. Era l’epoca della guerra mondiale, dei
monopoli, delle leggi
antitrust, degli scioperi per gli aumenti salariali, dello
sviluppo da parte di Ford della linea di assemblaggio, della
Rivoluzione d’Ottobre,
di quella messicana e di quella, fallita, tedesca, e tanto
altro ancora. Un momento storico che ha registrato la
diffusione e l’approfondirsi
della sfida globale al capitalismo.
Questo articolo si pone l’obiettivo di esaminare la divisione internazionale del lavoro attraverso le classiche concezioni marxiste dell’imperialismo, estendendo tali idee alla divisione internazionale del lavoro nell’ambito della produzione di informazioni e tecnologie dell’informazione odierne. Argomenterò la tesi secondo la quale il lavoro digitale, in quanto nuova frontiera dell’innovazione e dello sfruttamento capitalisti, ha un ruolo centrale nelle strutture dell’imperialismo contemporaneo. Attingendo a questi concetti classici la mia analisi mostra come, nel nuovo imperialismo, le industrie dell’informazione formino uno dei settori economici più concentrati; come iper-industrializzazione, finanza e informazionalismo vadano di pari passo; come le società multinazionali dell’informazione siano radicate negli stati-nazione ma operino globalmente; e infine, quanto le tecnologie dell’informazione siano divenute uno strumento di guerra.(1)
1.
E’ la questione dell’individuazione, della messa in valore
della soggettività, rispetto ad una più tradizionale questione
sociale, che costituisce oggi, io credo, la linea più durevole
e feconda dei movimenti di emancipazione dell’ultimo
cinquantennio e la
linea di apertura di un possibile futuro in cui le relazioni
umane non debbano continuare ad essere mediate e consentite
dalla sola mondializzazione
delle merci e del capitale. Sulla questione della
soggettività, delle sue istanze più esistenziali ed emozionali
che non sociali, molto
ha avuto a dire e pensare la tradizione più illuminata e
rigorosa del femminismo, del pensiero di genere e della
differenza, malgrado la
resistenza all’ascolto e al confronto praticata al riguardo da
molti ambiti dell’emancipazione intellettuale e sociale. Ma, a
mio avviso,
è soprattutto alle scienze della psicoanalisi nel loro
complesso, guardando con maggiore attenzione al freudismo e
allo junghismo e con molto
maggiore sospetto verso il lacanismo, che siamo debitori di
acquisizioni nuove e ulteriori rispetto al tema della
costituzione della
soggettività personale, in una linea di debito che anche qui
spesso non è riconosciuta quanto invece combattuta e
marginalizzata. Le
scienze psicoanalitiche ci consegnano infatti un arricchimento
e una complicazione del concetto di libertà come di quello di
società che
arricchiscono e nello stesso tempo complicano la già ricca
tradizione moderna su questi temi. Libertà ora viene a
significare,
più che assenza o riduzione da vincoli esterni, limitazione o
affrancamento da vincoli interni.
Quale era la posta in gioco delle elezioni amministrative 2016? Eleggere i sindaci di molte città tra cui le più importanti del Paese? Far decidere se a governare Torino continuasse ad essere Piero Fassino o meno? A Napoli De Magistris o la Valente ed a Roma un successore di Ignazio Marino, il sindaco marziano? O Merola nella capitale dell’Emilia “rossa” (sic) ? Era questa la vera posta in gioco?
Ora che abbiamo dinanzi a noi dei dati di fatto reali ed incontrovertibili, i risultati del primo turno delle comunali 2016, possiamo ragionare non più su sondaggi o intenzioni di voto ma su risultati reali e vedere cosa ci dicono e cosa ci suggeriscono di fare.
Ricordiamo cio’ che è accaduto negli ultimi tempi nel nostro Paese. Nell’arco di pochi anni si sono succedute maggioranze di governo non elette da nessuno (e Presidenti del Consiglio non indicati dalle stesse). Prima Letta, poi Renzi per non dimenticare Monti.
Queste elezioni hanno finalmente dato una possibilità di espressione ad una buona parte del popolo sovrano, più di 13 milioni di cittadini chiamati al voto. Per la prima volta, dalle politiche del 2013, gli italiani hanno potuto dire come la pensano.
Al di là dell’orgia delle interpretazioni del voto amministrativo e dei paragoni o conteggi di percentuali di questo o quel partito, cerchiamo invece di mettere in evidenza le principali indicazioni di questo voto.
Il piano di keynes per la libertà del commercio e il disarmo finanziario
Paolo Paesani presenta le idee principali di Keynes sulle caratteristiche di un sistema monetario internazionale capace di favorire crescita, occupazione, commercio e stabilità dei prezzi, traendole da un recente volume di suoi scritti sull’International Clearing House curato da Luca Fantacci oltre che da un seminario di quest’ultimo. Paesani sottolinea, in particolare, che secondo Keynes il sistema avrebbe dovuto assicurare parità di trattamento a paesi debitori e creditori, una condizione sulla quale anche oggi è urgente riflettere.
* * *
“Che ne direste di delfino? Un delfino nuota, come il commercio, di lido in lido. Ma questo magnifico animale va anche su e giù, fluttua e non è proprio quello che vogliamo. Oppure bisante? E’ il nome, come ha recentemente ricordato in altra sede il segretario finanziario del Tesoro, dell’ultima moneta internazionale che ci sia stato: la moneta d’oro di Bisanzio”. Il 18 maggio del 1943, l’economista inglese John Maynard Keynes rivolgeva queste domande ai membri della Camera dei Lord, nell’ambito di un discorso volto a presentare la sua proposte per l’istituzione di un’Unione Monetariainternazionale, basata sul principio della compensazione, da porre alla base del sistema monetario mondiale alla fine della guerra (International Clearing Union).
Sulla doppia pagina di analisi e commenti del Corriere di sabato 4 giugno si fronteggiano due lunghi articoli che guardano in opposte direzioni, come gli occhi di uno strabico. A destra (collocazione non casuale: non per ragioni ideologiche ma perché, aprendo il giornale, lo sguardo del lettore tende spesso a pendere da quel lato, per cui è più facile che vi si piazzino articoli che rispecchiano il punto di vista della testata) troviamo un velenoso attacco di Goffredo Buccini al sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Lo si potrebbe definire un atto di “guerra preventiva”, nel senso che, paventando l’esordio di De Magistris sulla scena politica nazionale in veste di leader d’uno schieramento populista di sinistra radicale, il Corriere si porta avanti nel tentativo di screditare un possibile, fastidioso avversario per l’establishment.
Il pezzo in questione si riduce sostanzialmente a una sequela di invettive, delle quali non vale la pena di discutere. Assai più interessante l’intervento di Ernesto Galli della Loggia sulla pagina accanto. Considero Galli della Loggia, benché condivida poco o nulla delle sue idee politiche, uno dei collaboratori più lucidi e intelligenti del Corriere, e questo articolo lo conferma. Semplificando drasticamente, il discorso suona così: di fronte alla sfida dei movimenti populisti di destra, le reazioni dell’establishment politico europeo tradizionale (sia a livello dei singoli stati sia a livello dell’Unione) suonano deboli: sia perché nessuna retorica può nascondere problemi reali come la disuguaglianza crescente,
Secondo tutti i rapporti, il Venezuela si trova in pieno blackout: inflazione sfrenata, un tasso di omicidi che la pone al secondo posto fra i paesi più mortiferi e inoltre soffre di penuria di beni di prima necessità e medicine. I partiti dell'opposizione stanno cercando di mettere sotto accusa e rimuovere dalla sua carica Nicolas Maduro, il leader chavista che ha preso il posto di Hugo Chavez quando questi è morto nel 2013, e che è riuscito a vincere di stretta misura le ultime elezioni presidenziali. La tattica dell'opposizione appare essere la stessa adottata con successo in Brasile dai partiti di destra per estromettere il leader del Partito dei Lavoratori, Dilma Rouseff, dalla presidenza.
In tutto dil Sud America, i governi democratici di centrosinistra che sono stati in carica durante il grande boom dei prezzi delle materia prime sono crollati a causa della caduta della domanda globale, quando l'economia mondiale, dopo la Grande recessione, è entrata in un lungo periodo di depressione. Sia le politiche neoliberiste che quelle keynesiane, adottate in Argentina, Brasile e Venezuela, volte ad evitare una grave recessione economica, hanno fallito miseramente.
Più di due anni fa, ho scritto che esisteva un significativo rischio che la "rivoluzione chavista" non sarebbe sopravvissuta alla morte di Hugo Chavez. Come avevo sottolineato, le fortune economiche del Venezuela sono state sempre legate ai prezzi del petrolio.
Ragioni e passioni per una resistenza creativa al tecno-capitalismo
Il nostro è un tempo di paradossi:
il
precipitare delle crisi innescate dall’insostenibilità del
capitalismo spettacolare integrato dovrebbe sollecitare azioni
riparative di
vasta portata nel breve periodo. L’emergenza climatica, il
dissesto ambientale, la tragedia dei migranti e gli effetti
rovinosi delle politiche
di austerity sulle condizioni di vita di moltissime persone,
sono convulsioni che scuotono il corpo febbricitante
dell’Occidente denunciando la
fine delle vecchie egemonie. Tali questioni offrirebbero seri
motivi per rilanciare, senza ulteriori rinvii, un impegno
politico collettivo che funga
da antidoto contro le derive dell’indifferenza e del
nichilismo compiuto. Ma – lo dicono da tempo i commentatori
più lucidi del
presente – l’intreccio di tali eventi macroscopici raramente
produce delle risposte degne di rilievo. I ceti subalterni,
che avrebbero
tutte le ragioni per insorgere mettendo in discussione
l’attuale assetto dei rapporti di potere, sembrano
ipnotizzati, svuotati e impotenti. Il
fenomeno francese della Nuit Debout è un primo segnale in
controtendenza, positivo nel suo emergere, ma pur sempre
aurorale.
Il paradosso cui facevamo cenno è, dunque, quello di un’epoca estrema (si parla, per noi occidentali, dell’imminente “fine di un mondo”) che non può affatto contare su dei soggetti capaci di agire in modo sensato e liberante perché, a monte, manca un’analisi accurata delle situazioni concrete in cui le dinamiche di dominio del sistema tecno-capitalista1 si riproducono ed articolano.
Il giorno della civetta, dal
romanzo di Sciascia e dalla riduzione cinematografica di
Damiani, è quello che permette di capire chi vale e
chi è solo fatto
di parole. A quest'ultima categoria appartiene sicuramente, ma
non c'era bisogno del voto delle amministrative per saperlo,
Matteo Renzi. Non solo
perché il PD ha perso in tre aree metropolitane su quattro (e
non è poco) ma soprattutto perché, voto dopo voto, è Matteo
Renzi stesso a rendersi sempre più improbabile. Con
dichiarazioni tipiche di chi prova a ripetere schemi vincenti,
simili al bonus 80 euro, in
un campionato dove tutte le squadre sono attrezzate proprio al
contropiede su questi schemi. Un logoramento dell'immagine,
dovuto anche a una
sovrapposizione mediale del premier, che rischia di essergli
fatale al referendum di ottobre (periodo in cui si concentrano
spesso, oltretutto, tutte
le tensioni sociali della stagione autunno-inverno).
Il voto delle amministrative va saputo leggere bene. Allora regalerà più certezze analitiche che politiche.
Cominciamo però dall’impolitico, ovvero dall’astensione molto alta, qualche prima certezza viene fuori. Nei decenni passati l’alta astensione era considerata un fenomeno tipico della affluent society, la società del raggiunto benessere. Dove il disinteresse per la politica coincideva con stabili livelli di consumo. Oggi, in Italia, l’alta astensione coincide con la regressione dei diritti materiali di cittadinanza, dei consumi e della capacità di far circolare ricchezza. Chi vuol pescare, a vario titolo, in questa fascia di popolazione deve saperci entrare (spesso astensione e analfabetismo da società digitale coincidono) e non è facile. Ma veniamo al resto.
Commenti sui risultati dei ballottaggi
di Redazione Contropiano
La vera partita comincia ora. La batosta subita da
Renzi e dal centrodestra rivela che gli
equilibri sociali consolidati si sono ormai rotti, a partire
fondamentalmente dalle realtà metropolitane. Governare
questo paese secondo le
linee guida dell’Unione Europea e della Troika diventa
dunque di fatto molto più difficile, mentre
l’alternativa
possibile e concreta resta avvolta – purtroppo – nella
nebbia delle buone intenzioni inconsapevoli delle
caratteristiche fondamentali del
“sistema”.
Ma ora si può cominciare a giocare una partita che prima era semplicemente bloccata e già vinta dal potere più fetido.
Non vi può essere alcun dubbio che la sconfitta subita da Renzi – per certi versi clamorosa quanto a dimensioni e realtà sociali – sia anche la sconfitta delle politiche di austerità, malamente mascherate da provvedimenti “populisti”, come gli 80 euro, ma saldamente incentrate su un diluvio di misure che più antipopolari non si può:
* * * * *
di Aldo Giannuli
Al momento in cui scriviamo i
risultati si può solo abbozzare un giudizio, non essendo
ancora disponibili i dati in
cifra assoluta. A quanto pare è andata così, in primo luogo
l’astensione è cresciuta –come
sempre accade nei ballottaggi- e al di là del solito, per
cui ha votato solo la metà degli elettori, ma non nelle due
città dove
era più incerta la sfida, Milano e Torino, e dove la
flessione fra primo e secondo turno è stata più contenuta.
Il che è un dato che fa riflettere: se questa è la tendenza nazionale, questo significa la fine della rappresentatività del parlamento, perché una forza che, magari, ha avuto il 20% dei voti al primo turno si aggiudica il 54% dei seggi grazie ad un 1% percento in più in un secondo turno dove, per ipotesi, ha votato il 48% degli elettori e, magari, batte un altro partito che aveva avuto il 38% al primo turno. Vi riesce di immaginare una cosa più disrappresentativa?
* * * * *
di Augusto Illuminati
Che bilancio possiamo trarre dai ballottaggi? Non facciamo parte dei vincitori (tranne che a Napoli), però a nostro modo abbiamo vinto anche noi. Se vincere vuol dire cominciare a sgomberare la strada da ostacoli, abbiamo vinto
Il Faraone è sgomento per le piaghe, ma noi stiamo
ancora in Egitto. Se vincere vuol
dire costruire basi positive sufficienti per avviare
un’alternativa, allora non ci siamo, se non inizialmente a
Napoli.
Abbiamo goduto come ricci per la sconfitta tattica e strategica di Renzi e per lo scacco dell’arroganza sabaudo-fordista di Fassino e della liquidità postfordista del “doganiere” Giachetti. Non parliamo neppure delle campagne tutte fallite di Repubblica, la cui irrilevanza dovrebbe spingere alle dimissioni il suo direttore, secondo solo al menagramo Stefano Esposito nella navetta Torino-Roma.
Ma la nostra (sempre eccetto Napoli) non è la schietta gioia che spinozianamente si collega a un incremento di potenza di cui noi stessi siamo causa.
* * * * *
Moreno Pasquinelli
Non avevamo dubbi che i ballottaggi avrebbero
confermato ed anzi appesantito la batosta subita da Renzi e
dal Pd al primo turno. E non avevamo
dubbi che il Movimento 5 Stelle, dove aveva un adeguato
radicamento, sarebbe uscito vincente.
Non ci volevano doti profetiche per capirlo, bastava sintonizzarsi col rumore sociale di fondo, sentire ciò che ribolle nella pentola sociale. Di passata ricordiamo che noi abbiamo dato indicazione di voto per i candidati Cinque Stelle ed a Napoli per De Magistris — "Colpire il Pd per cacciare il governo Renzi".
Escono con le ossa rotte tutti quei cretini che avevano pronosticato una lunga vita al governo Renzi, quelli che cianciavano di una stabilizzazione politica della crisi italiana,
* * * * *
di Carlo Formenti
Stupore,
frustrazione, rabbia, denegazione, depistaggio, seduzione:
questi gli atteggiamenti che ho
visto/ascoltato affiorare sui volti e nelle parole di
politici, giornalisti ed <<esperti>> mentre
seguivo (rimbalzando fra Rai1, Rai3 e
La7) le reazioni a caldo a exit poll e proiezioni la notte
di domenica scorsa.
Stupore: non se lo aspettavano, malgrado gli innumerevoli segnali di irritazione (a partire dai tassi di astensionismo sempre più elevati) che da tempo salivano dal basso, le élite di questo Paese erano convinte di poter seguitare a manipolare a tempo indeterminato un’opinione pubblica che, evidentemente, stimano incapace di intendere e di volere.
Frustrazione e rabbia: lo spettacolo più spassoso, in tal senso, lo ha offerto l’ineffabile Piepoli che, dando un limpido saggio della sua <<obiettività scientifica>> in veste di analista-sondaggista, commentava in diretta, con espressioni di stizza degne di un Gollum derubato del suo tesoro, la débâcle dei propri datori di lavoro.
* * * * *
di ilsimplicissimus
Qualche giorno fa avevo spezzato una lancia a favore
della Raggi e dio sa con quanta difficoltà. Ma ieri notte ho
avuto la riprova e la
consolazione di non essermi sbagliato, vedendo come in un
incubo il modo e i riflessi pavloviani in cui la vecchia,
asfittica compagnia di
giro di tromboni giornalisti e commentatori, praticamente a
reti unificate visto che il dissenso è ormai inesistente, ha
cercato di dare
un’interpretazione del voto che farebbe invidia al brigante
Musolino travestito da Heidi. Non voglio nemmeno occuparmi
delle cose miserabili,
come la traduzione di titolo di un quotidiano inglese: “Per
la prima volta una donna alla guida della città” come Per la
prima
volta un populista alla guida della città (rai24). O il
fatto che l’ex assessore Esposito, importato da Marino a
Roma e poi tornato nelle
braccia di Fassino, nero come la notte, abbia sostenuto che
chissà cosa faranno i cinque stelle nella capitale, ” certo
manca un
urbanista”, mentre l’unica squadra in tutti i luoghi in cui
si è votato che comprende un urbanista è proprio quella
della
Raggi con Paolo Berdini.
* * * * *
di Piotr
Effetto #CinqueStelle. Gli inamovibili, destinati a perdurare, grandi o piccoli, oggi stanno scomparendo a un ritmo maggiore del rinoceronte bianco
1. La mia educazione politica è avvenuta nella
sinistra extraparlamentare degli anni Sessanta-Settanta. La
mia formazione filosofica
è all'insegna di Marx.
Può quindi non stupire che i miei amici e conoscenti abbiano guardato con sconcerto il progressivo allontanamento delle mie simpatie dai partiti e movimenti che si autodichiaravano di sinistra e utilizzavano la simbologia e la terminologia che più sentivo mie per ammantare ragionamenti che ritenevo sempre più inaccettabili. Non perché li ritenessi "vecchi", ma proprio perché erano - e sono - sbagliati.
Come disse ironicamente una volta Gioachino Rossini commentando la composizione di un giovane musicista, quando c'è del nuovo e del bello, il bello può essere vecchio e il nuovo può essere brutto.
* * * * *
di Fabrizio Casari
E’ un voto netto, senz’appello, che indica due
letture distinte ma non distanti. Quella di un voto contro
Matteo Renzi e il PD, e
l’affermazione decisa del M5S, che del governo Renzi è
avversario acerrimo. Movimento 5 Stelle che da ieri smette
di essere
un’ipotesi, un’incertezza, una scommessa politica. E’ ora, a
tutti gli effetti, una forza di governo, sebbene la sua
affermazione
risulti ancora a macchia di leopardo, con consensi
importantissimi in alcune zone del paese e maggiori
difficoltà in altre. Vedremo da oggi
quale sarà la capacità di proporsi come alternativa di
medio-lungo termine per un movimento che, difficile da
inquadrare
ideologicamente, rappresenta certamente una forza di rottura
del sistema politico italiano.
Ma sarebbe un errore leggere solo come voto di protesta il consenso ai M5S: il voto di protesta si registra semmai nell’astensione, mentre il voto ai pentastellati appare piuttosto come consapevole, ragionato, che identifica nella novità politica una rappresentanza possibile.
Sono francamente sconcertato da questo articolo di Alberto Asor Rosa pubblicato sul Manifesto di ieri: Contro Renzi serve un nuovo centrosinistra
Qual è in estrema sintesi la sua tesi?
Il M5S sarebbe un movimento tendenzialmente di destra, comunque più vicino alla Lega Nord o al britannico Ukip piuttosto che ai resti della vecchia Sinistra, quindi è un nemico da battere, non solo sul medio e lungo periodo ma sul breve, anzi sul brevissimo, diciamo pure subito, tant’è che il “Nostro” invita a votare i candidati del PD ai ballottaggi di domenica prossima.
Poi però – spiega – c’è un altro nemico da battere che è Renzi, il quale, essendo fondamentalmente un uomo di centrodestra (e questo è senz’altro vero), si oppone ad una alleanza fra il PD e la sinistra (di quale sinistra stia parlando non si capisce dal momento che alla sinistra del PD c’è solo qualche cespuglio privo di ogni consistenza che ormai raccoglie non più del 3/4% dei consensi), e quindi bisogna farlo fuori. Ma per far fuori Renzi, secondo Asor Rosa, è necessario votare i candidati del PD ai ballottaggi di domenica. Ergo, votare per Renzi. E perché? Perché per costruire questa ipotetica nuova” (mi viene da ridere…) alleanza di centrosinistra, è necessario che il PD non crolli, perché chi ne trarrebbe giovamento sarebbero le forze “antisistema”, cioè il M5S e la Lega Nord, e questa prospettiva scemerebbe.
Non è solo per la persistenza del 'terrorismo islamista' che l'argomento 11/9 rimane molto attuale. Prendiamo l'incredibile caso dell'oppio afghano, ad esempio...
Si avvicina il quindicesimo anniversario degli attacchi dell'undici settembre, ed il prevedibile picco d'interesse scatenerà la più banale e genuina delle domande: ha ancora senso continuare a parlare oggi di quei fatti?
Vediamo allora di colmare alcune delle lacune che i nostri media hanno lasciato, così da poter dare un efficace risposta a tale domanda.
A seguito degli attacchi dell'undici settembre il presidente Bush ha equiparato l'associazione terroristica Al Qaeda con una nazione nemica; questo ha permesso agli Stati Uniti di invocare l'articolo V del trattato della NATO (1), che afferma sostanzialmente che un attacco militare contro un membro della NATO è un attacco contro tutti, coinvolgendo gli alleati nelle azioni susseguenti.
Avendo ratificato quel trattato ed avendo accettato l'interpretazione statunitense e quella del Consiglio di Sicurezza ONU, la Repubblica Italiana è di fatto in stato di guerra contro Al Qaeda dall'undici settembre 2001.
La principale azione a cui abbiamo partecipato con la NATO è l'invasione, e la susseguente occupazione militare, della nazione dell'Afghanistan.
Conservare il potere scatenando guerre fra poveri è una strategia ampiamente collaudata da tutte le classi dirigenti del mondo. Da questo punto di vista, non esistono sostanziali differenze fra le élite statunitensi e quelle cinesi. Due articoli del “New York Times” ne offrono una chiara conferma. Il primo racconta di una pratica adottata da molte corporation: quando un quadro viene licenziato, lo inducono a firmare, in cambio di un aumento della buonuscita, l’impegno a non diffondere pubblicamente alcuna notizia sulle cause e sulle circostanze del licenziamento. A quanto pare, tuttavia, è in crescita il numero dei lavoratori che, anche a costo di rinunciare a cifre sostanziose, decidono di svuotare il sacco con i media e/o con qualche uomo politico. Così stanno partendo pressioni bipartisan da parte di senatori democratici e repubblicani per indurre le imprese hi tech a smettere di licenziare i propri quadri, allo scopo di rimpiazzarli con omologhi indiani che costano meno. Si tratta di una pratica diffusa quanto nota, ma le cui proporzioni, grazie agli accordi di cui sopra, erano finora sottostimate.
Il fenomeno è particolarmente rilevante guardando al futuro confronto elettorale fra Donald Trump e Hillary Clinton, dal momento che i due pescano i loro consensi: il primo, fra i lavoratori bianchi esposti alla concorrenza internazionale della forza lavoro a basso costo proveniente dai Paesi in via di sviluppo (fra i quali l’India che, come confermato dal caso appena citato, occupa un posto di rilievo per quanto riguarda il mercato delle mansioni a elevata specializzazione tecnica), la seconda, fra le masse dei migranti spaventati dalle dichiarazioni razziste e isolazioniste del primo.
Volete capire il significato concreto, materiale, dell’eventuale uscita dalla Ue della Gran Bretagna? Volete comprendere i motivi profondi che hanno portato al referendum del 23 giugno? Ian McEwan, il famoso(?) scrittore inglese, li elenca in forma sinteticamente perfetta sul Corriere di alcuni giorni fa. Certo, la sua è una dimostrazione involontaria: l’intervista compone una serie di lapsus che neanche Freud nei momenti migliori. Lo scrittore, cercando di spiegare le buone ragioni della permanenza inglese nell’Unione europea, offre al contrario una panoramica eccellente dei motivi per cui la Ue andrebbe abbattuta senza rimorsi. Ma lasciamo parlare il celebre (a questo punto) gaffeur: “I più anziani, i meno istruiti e la working class vogliono lasciare la Ue, i giovani e le élite restare”. Ecco definiti in una riga i campi sociali della battaglia oggi in corso tra “europeisti” e “antieuropeisti”: da una parte i lavoratori, dall’altra le élite sociali. Questa che per l’imbranato scrittore dovrebbe essere la conferma della saggezza riposta nell’appartenenza alla Ue si dimostra, al contrario, un’arma rivolta contro ogni ipotesi di europeismo. Involontariamente McEwan svela a chi conviene la Ue e chi invece rimane fregato. Ma proseguiamo: “Tutta l’élite culturale in Gran Bretagna vuole restare in Europa, e questo genera sospetti presso chi non ne fa parte. [e grazie al cazzo, ndr] Tra i miei amici, non ne conosco uno che voglia uscire dall’Europa”. McEwan, cercando malamente di aiutare le sorti della permanenza, continua al contrario ad alimentare le ragioni in favore dell’uscita, ribadendo il concetto tanto lampante quanto scontato: sono le classi privilegiate, ricche, integrate, benestanti, a voler rimanere nella Ue.
Il processo
di
globalizzazione non si arresta. Una tappa dietro l’altra, le
politiche degli Stati proseguono nella creazione di un unico
libero mercato
mondiale, senza barriere protezionistiche per merci, servizi e
capitali.
A Occidente dodici Paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno firmato il TPP, il Trattato di libero scambio dell’area del Pacifico (1), e sono in corso i negoziati tra Usa e Europa per il TTIP (2).
A Oriente la Cina preme per esse-re riconosciuta dall’Unione europea come ‘economia di mercato’, un cambiamento di status che cancellerebbe i dazi doganali oggi applicati ai suoi prodotti. Difficilmente accadrà ora, ma è solo questione di tempo. A fine 2016 avrebbe dovuto infatti concludersi il processo avviato nel 2001, quando il Paese asiatico entrò nel Wto accettando un periodo di osservazione di quindici anni. Oggi gli Stati Uniti fanno pressione per respingere la richiesta, e l’Europa va nella medesima direzione. Ufficialmente la politica cine-se è ancora troppo presente nella struttura produttiva per essere considerata un’economia di mercato, in realtà, visto l’evolversi della crisi nei Paesi a capitalismo avanzato, aprire adesso le porte alle merci cinesi a basso prezzo significherebbe annientare l’industria manifatturiera ancora rimasta nel Vecchio Continente. Il 12 maggio scorso dunque il Parlamento europeo ha votato a grande maggioranza (546 sì, 28 no e 77 astenuti) una risoluzione contraria, e anche la Commissione si sta allineando.
Pubblichiamo qui due contributi ad una giornata di studio su Operai e capitale nel cinquantenario della sua pubblicazione. Il seminario si è tenuto all’Università Paris X Nanterre l’11 giugno 2016. Nella discussione, oltre ad Andrea Cavazzini, Fabrizio Carlino, Yaan Moulier Boutang, Etienne Balibar, Morgane Mertueil, sono intervenuti Toni Negri e con una lettera Mario Tronti. Qui pubblichiamo il testo di Toni Negri e la lettera di Mario Tronti. Indicano due vie di lettura nel corso di un cinquantennio – due vie per interpretare il presente (EN)
di Toni Negri
Nel 1966, nella sua prima edizione, Operai e capitale termina con l’impegno a studiare “che cosa è successo dentro la classe operaia dopo Marx” (Operai e capitale, Einaudi, Torino; 1966, p.263). Il postscriptum del 1970 alla seconda edizione di Operai e capitale, analizza la classe operaia nel New Deal e ne descrive le trasformazioni della composizione tecnica (fordismo) e della composizione politica (il sindacalismo ed il riformismo dal New Deal allo Stato del welfare, appunto). Tronti non riconosce tuttavia, per la classe operaia, una differenza strutturale di composizione tecnica e politica fra fordismo e anni ‘70. Non vi è modificazione dei processi lavorativi, taylorismo e keynesismo restano egemoni ed i rapporti politici di classe tuttora dominati dallo Stato-piano. Tra la prima edizione e la seconda di Operai e capitale c’è stato tuttavia il ‘68: a Tronti non sembrava però che fosse avvenuta gran cosa. La classe operaia nel ‘68 e seguenti (in particolare “l’autunno caldo” italiano) è ancora tutta dentro fordismo e New Deal. Affermandolo, Tronti aveva, a mio parere, insieme ragione e torto.
Comprendere la Cina – Vi proponiamo un estratto dell’ultimo libro del Professor Domenico Losurdo, “Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente”, Carocci, Roma, maggio 2016. La storia della RPC può essere vista anche alla luce del complesso rapporto con gli Stati Uniti
L’INIZIO COMPLICATO DELLA
RPC – Per quanto riguarda la Cina, già prima della
fondazione della Repubblica popolare, gli USA intervenivano
per impedire che
la più grande rivoluzione anticoloniale
della storia giungesse alla sua naturale conclusione, e cioè
alla
ricostituzione dell’unità nazionale e territoriale del grande
Paese asiatico, compromessa e distrutta a partire dalle guerre
dell’oppio e dall’aggressione colonialista. E, invece,
dispiegando la loro forza militare e agitando in più occasioni
la minaccia
del ricorso all’arma nucleare, gli USA imponevano la
separazione de facto della Repubblica di Cina
(Taiwan) dalla Repubblica
popolare di Cina. Erano gli anni in cui la
superpotenza apparentemente invincibile era lacerata da un
dibattito rivelatore: «who lost
China?» Chi era responsabile della perdita di un Paese di
enorme importanza strategica e di un mercato potenzialmente
illimitato? E in che modo
si poteva porre rimedio alla situazione disgraziatamente
venutasi a creare? Per oltre due decenni la Repubblica
popolare di Cina è stata
esclusa dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU e dalla
stessa Organizzazione delle Nazioni Unite. Al tempo
stesso, essa subiva un
embargo che mirava a condannarla alla fame e all’inedia o
comunque al sottosviluppo e all’arretratezza. A quella
economica
s’intrecciavano altre forme di guerra: l’amministrazione
Eisenhower assicurava l’«appoggio ai raid di Taiwan contro la
Cina
continentale e contro ‘il commercio per via marittima con la
Cina comunista’»; al tempo stesso la CIA garantiva «armi,
addestramento e supporto logistico» ai «guerriglieri» tibetani
(Friedberg 2011, p. 67), e alimentava in tutti i modi ogni
forma di
opposizione e «dissidenza» nei confronti del governo di
Pechino.
L’11 giugno “Il Giornale” è apparso nelle edicole con allegato il celeberrimo Mein Kampf hitleriano. Le discussioni – come c’era d’aspettarselo – sono immediatamente montate, e molti si sono detti scandalizzati. Sinistra.ch ne parla con Stefano Azzarà, ricercatore di Storia della Filosofia presso l’Università di Urbino. Concentrando il suo lavoro sul confronto tra le grandi tradizioni filosofico-politiche dell’età contemporanea, lo studioso italiano – di orientamento hegelo-marxista – si anche è occupato del filone di pensiero conservatore: ha lavorato, per esempio, su alcuni saggi di Arthur Moeller van den Bruck – autore pressoché sconosciuto in Italia –, come anche su Friedrich Nietzsche e su Martin Heidegger.
* * *
1. Alessandro Sallusti, direttore del “Giornale”, ha giustificato questa scelta editoriale sostenendo che non bisogna «aver paura di storicizzare» e che, in quest’ottica, il Mein Kampf va letto al fine di comprendere il nazismo. Crede alla sincerità di queste intenzioni? Oppure è un’operazione di marketing?
La seconda che ha detto, con qualche elemento della prima. Per quello che capisco, si tratta prevalentemente di una questione di marketing. Tuttavia questo non basta: c’è da chiedersi perché il Giornale pensi di realizzare questa operazione proprio con questo libro.
Dalla ristampa in italiano del Mein Kampf all’evaporazione della storia dal curricolo della scuola pubblica. Un commento di Girolamo De Michele
Comincio facendo, come si dice, coming out: chi guardasse nella mia libreria, vi troverebbe La distruzione del sistema di Franco Freda (l’ideatore della strage di piazza Fontana), diverse opere di Vincenzo Vinciguerra (autore della strage di Peteano), le cose più significative, in qualunque senso, di Julius Evola, tutti i cosiddetti “catechismi del fascismo”, e naturalmente La dottrina del fascismo di Mussolini (della quale sono in grado di citare interi passi a memoria), il Diario 1922 di Balbo, la Difesa della razza di Nello Quilici, la silloge degli scritti razzisti e antisemiti di Giovanni Preziosi Giudaismo, bolscevismo, plutocrazia, massoneria, una discreta raccolta dei giornali fascisti “Il Balilla”, “Il Corriere padano” e “La Gazzetta ferrarese”, e persino Il “caso” don Minzoni di Vincenzo Caputo, il più pataccaro fra i sedicenti “storici” fascisti. Altra pubblicistica dello stesso tenore l’ho in versione digitale, altra ancora l’ho consumata (una per tutte: l’intera raccolta di “La difesa della razza”) nelle biblioteche. Dunque non mi scandalizza più di tanto la ripubblicazione del Mein Kampf , che peraltro non è difficile da trovare sulle bancarelle degli usati – così come non mi scandalizza il cinismo di chi l’ha ripubblicato (uno che su “La Vita illustrata” di Preziosi al più veniva buono per procurare caffè e tabacchi). Aggiungo, per dirla tutta, che trovo inutile e dannosa la nuova legge sul reato di negazionismo, che sostituisce la battaglia politica e culturale con le aule di tribunale e la santità del diritto penale.
Il presidente di Google, Eric Schmidt, ora guida anche la Divisione Innovazione del Pentagono. Google è un asset dell'eccezionalismo militare USA
Qualche giorno fa Julian Assange, dalla sua forzata"clausura" londinese (ormai dichiarata definitivamente "arbitraria" dall'ONU) affermava: « Google è strettamente integrato con il potere di Washington, sia a livello personale che aziendale... ha aumentato il controllo sui canali di distribuzione, ed è perfettamente allineato con l'eccezionalismo americano». Secondo il co-fondatore di Wikileaks, Google è diventato un «potere statale tradizionale degli Stati Uniti».
Nei giornali italiani si rinviene la frase «Google fa campagna per Hillary Clinton». È vero ed è una posizione molto, molto discutibile, ma non solo.
Sempre secondo Assange, c'è di più, ovvero: l'ex amministratore delegato, oggi presidente del CdA di Google, Eric Schmidt, da più di due mesi guida anche la Divisione Innovazione del Pentagono.
Ha ragione a farcelo notare.
Dal 2 marzo 2016 Ash Carter, segretario della Difesa USA, ha infatti nominato Eric Schmidt chairman del DoD Innovation Advisory Board.
Paolo Godani, La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l’individuo, Roma, DeriveApprodi, 2016, pp. 108, ISBN 9788885481622, € 12
Si può ridare un senso alla propria vita facendo affiorare dal proprio essere tratti comuni al di fuori del cerchio dell’individualizzazione? Ci si può liberare di ogni pretesa appropriativa affinché la vita singolare si apra al progetto di una vita comune? Come è possibile che in un’epoca dominata dalla rivoluzione digitale che potenzia compulsivamente le nostre modalità di comunicazione e di connessione permanente effettiva, si faccia poi fatica a percepire la comunità che siamo mentre la solitudine è sempre più un fenomeno tangibile e un modo di sentire?
Sono alcuni degli interrogativi che attraversano il vibrante saggio di Paolo Godani, tra i cui meriti vi è anzitutto la chiarezza concettuale ed espositiva, a riprova dei raffinati strumenti teorici di cui si serve l’Autore. Obiettivo è esplorare nel magma rovente della quotidianità le direzioni del nostro vissuto e le rumorose onde sulle quali navighiamo e di cui siamo intrisi. Si tratta di delineare strade per una filosofia e una politica oltre l’individuo che rifondi il nostro pensare e il nostro agire. Condizione preliminare è neutralizzare e combattere i luoghi comuni del nostro tempo che ci assediano, ci isolano e accentuano la ossessiva dimensione proprietaria tipica della società capitalistica.
A partire da Walter Benjamin, Godani mette sotto accusa «le preoccupazioni: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica» (p. 5) le quali toccano i momenti più deprimenti del vissuto quotidiano.
Né-Nè
Nel Comitato No Guerra No Nato di cui faccio parte si è sviluppata in questi giorni una polemica da me innescata e che riguardava l’eterna questione dell’equidistanza, volgarmente né-né, per alcuni irrinunciabile valore. Questione per la prima volta scaturita ai tempi della guerra contro la Serbia, da me raccontata sotto le bombe su Belgrado, e in cui avevo definito la variegata folla di pellegrini a Sarajevo, tra disobbedienti di Casarini, rifondaroli e sinistri tutti, sedicenti nonviolenti e realtà ecclesiali varie, in quel modo: quelli del né con la Nato, né con Milosevic. Quelli puliti e intonsi alla finestra, freschi di Mastrolindo, senza macchia.
E’ una genia che si ripresenta in tutte le occasioni in cui tocca prendere la scomoda e compromettente decisione di schierarsi: né con i Taliban, né con Saddam, né con Gheddafi, né con Assad e, specularmente, né con gli Usa e con la Nato. C’era stato un antecedente, né con le BR, né con lo Stato, ma era falso, non c’entra niente perché lì si negava l’adesione a due facce della stessa medaglia. Come se oggi si dicesse né con Obama, né con Al Baghdadi, né con Trump, né con Killary. Come quando il Gasparazzo di Lotta Continua giustamente decideva né con il padrone., né con il sindacato. Tautologico.
Il né-né si è consolidato e istituzionalizzato. Ha trasceso vecchi accostamenti a pesci in barile, cerchiobottisti, panciafichisti.
Desideri, bisogni e stili di vita sono sottoposti a un costante lavoro di manipolazione in nome delle virtù tossiche dell’individuo proprietario. «L’industria della felicità» di William Davies per Einaudi
Il carnet dei suoi prodotti è
vario.
Spazia da pillole che mettono a tacere tutte le inquietudini a
promesse di un futuro radioso dove non ci sarà posto per
dolore, fame,
sofferenza, ma il core business è di quelli che non lasciano
indifferenti, perché è il sogno inseguito da filosofi, preti,
militanti politici di ogni tipo, visto che si tratta della
felicità. Merce tanto pregiata quanto scarsa da diventare un
manufatto sul quale si
addensano, appunto, una miriade di stimati professionisti e
una moltitudine di addetti alla sua produzione. Ha il potere
di un oggetto mutante del
desiderio, che si adatta a ogni richiesta del singolo. E
tuttavia, avverte William Davies nel libro L’industria
della felicità
(Einaudi, pp. 233, euro 20), è una promessa quasi sempre non
mantenuta. Sta di fatto che il potere seduttivo dell’industria
della
felicità sta nelle aspettative, sempre deluse, che continua ad
alimentare.
Davies passa al setaccio secoli di filosofia, psicologia e tecniche di marketing in un confronto minuzioso con testi dimenticati ai margini delle rispettive discipline, evidenziando però il loro potere di condizionamento sul lungo periodo. Ne emerge un saggio che può essere inserito nella variegata costellazione teorica che, tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso, ha cercato di spiegare la capacità del neoliberismo di costruire un consenso ampio, facendo leva proprio sulla promessa di felicità. In questa costellazione, trovano posto sociologi, storici e economisti della new left inglese e statunitense, ambito dove si è formato Davies. Forti sono infatti gli echi delle analisi di Stuart Hall sulle capacità egemoniche di Margaret Thatcher, ma evidenti sono i riferimenti alle tesi di David Harvey sulla indubbia flessibilità e adattabilità ambientale del vangelo neoliberista.
Già nel suo testo del
1991, "Die Krise die aus dem Osten kam" [La crisi che è venuta
dall'Est], Robert Kurz indica come causa della crescente
miseria delle masse a
livello mondiale «l'assoluta incapacità da parte della moderna
società capitalista di riuscire ad incorporare nel suo
processo di
riproduzione la stragrande maggioranza dell'umanità globale».
E conclude: «Già adesso le masse sradicate del mondo diventano
una minaccia per le isole di normalità e di benessere
dell'Occidente, che stanno diminuendo.» (in Helmut, orgs.,
"Der Krieg der
Köpfe" Horlemann Verlag, 1991, p. 150 sg.).
È più che dubbio che al sociologo urbano statunitense, Mike Davis, sia capitato mai di leggere questo testo. In ogni caso, Davis descrive, nel suo libro "Il pianeta degli slum" [Ed. italiana Feltrinelli], pubblicato per la prima volta nel 2006 e rieditato in un'edizione ampliata, la miseria della popolazione in crescita permanente alla periferia delle grandi città come Mumbai, Kinshasa o Città del Messico. L'autore si pone nella tradizione dei reportage e delle ricerche di critica sociale svolte sul terreno, come ad esempio l'analisi pioneristica di Friedrich Engels, "La situazione della classe operaia in Inghilterra, del 1845, cui anche Davis occasionalmente fa riferimento.
Va chiarito da subito anche il fatto che da parte Davis non c'è quasi alcun approccio alla critica del valore.
Nel suo blog Goofynomics Alberto Bagnai ha recentemente dato spazio allo scritto di un misterioso ed acuto signor mikez73 che giustamente ci invita a rileggere il testo che Giulio Bollati ha dedicato a suo tempo alla questione del “carattere nazionale” degli italiani. L’anonimo notista, proprio sulla scorta di Bollati, ci rammenta che quel presunto carattere nazionale è sempre stato definito dalle classi dominanti e dai loro intellettuali, e che (all’epoca della incerta formazione della nazione italiana, ma a ben vedere anche oggi) il problema fondamentale di quelle classi, incapaci di fare vere concessioni, era in fondo questo: come creare un esercito, come gestire una guerra nazionale senza armare il popolo, o senza armarlo troppo, o comunque impedendo che, armi alla mano, al popolo stesso venga in mente di fare una rivoluzione? Problema, quello del nesso tra guerra e cittadinanza, tra guerra e democrazia, di antichissima origine e come al solito definito impeccabilmente da Machiavelli: “se tu vuoi fare uno populo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo”. E risolto dai nostri padroni, allora come ora, anche attraverso una narrazione umiliante secondo la quale il popolo italiano è la sentina di ogni vizio e la tomba di ogni virtù e perciò deve convincersi che può combattere soltanto sotto il rigido comando altrui e per gli altrui scopi. Comando e scopi che possono ben essere, oltre che militari, sia politici che economici: obbedire all’euro ed all’austerità, lottare contro le imprese rivali, ma… non come lavoratori ben organizzati e stabili (che poi si montano la testa) bensì come precari e mendicanti.
Con la riflessione del compagno Giuliano Cappellini, continua la rassegna di contributi per un confronto aperto sulle prospettive dei comunisti in Italia
Riconosco apertamente che non mi ritrovo in nessuna delle parti del documento politico dell’Assemblea Nazionale Costituente Comunista che non è mia intenzione discutere complessivamente. Ma la tesi 10 – Italia: il quadro politico e il compimento della mutazione genetica… – pur sembrandomi talmente banale e sciatta da essere al di sopra di qualsiasi critica, è tuttavia talmente importante come “banco di prova” di un’identità comunista che poiché mi coinvolge, mi costringe ad intervenire.
L’analisi del quadro politico della tesi 10 si misura con la rappresentazione di comodo con cui lo stesso quadro politico italiano intende essere riconosciuto, non un passo in più, non un elemento di riflessione sulle sue origini e sui suoi sviluppi. Così resta il dubbio che la stessa mutazione genetica del PCI, PDS, …, PD data per conclusa dalla tesi 10, non sia, invece, un processo in itinere, magari senza ritorno ma dagli esiti per molti versi ancora imprevedibili.
Sebbene la tesi 10 non ne faccia cenno, il centro del quadro politico nazionale dovrebbe descrivere una grave crisi politica. Siamo di fronte al più grave attacco mai portato a quella Costituzione Repubblicana che definisce l’impianto democratico del Paese non solo attraverso dichiarazioni di principi, ma attraverso l’articolazione del potere nelle istituzioni che regolano l’esercizio della sovranità popolare.
E così anche Massimo Gramellini, che per un istante della nostra esistenza abbiamo dovuto anche sopportare come riferimento culturale di certa sinistra radical bohemien in tresca perenne con l’ecologismo d’accatto e la feticizzazione del “basso” contro “l’alto”, si smaschera per quello che è: un rimasticamento insignificante della cultura dominante. Il suo corsivo islamofobo di ieri mattina svela i tic tipici di certa sinistra, quella illuminata, che pretende di imporre culturalmente quello che il liberismo prescrive economicamente. Vittima del suo strale le nuove divise delle hostess Alitalia, espressione a suo dire della primitiva cultura araba di sottomissione della donna. Sono brutte, e per di più non si vede un filo di coscia. Davvero uno scandalo. Il sillogismo non assume neanche le forme sottili del razzismo intellettualmente raffinato: chiama in causa direttamente i valori occidentali per definizione superiori a quelli musulmani. Ecco cosa succede a vendere all’estero, per di più a culture primitive, i nostri gioielli nazionali. Le nuove divise Alitalia fanno evidentemente schifo. In linea con la maggior parte delle altre compagnie però. Basta vedere come vanno conciate le schiave sorridenti dei voli low cost, per capire immediatamente la truffa del discorso dell’intellò torinese (egregiamente sbugiardato da Lorenzo Declich su Vice). Lui tutto questo lo sa benissimo: è perfettamente conscio che non esiste alcun collegamento tra la cultura di provenienza della proprietà multinazionale di Alitalia e i nuovi capi di vestiario.
Tra il 1932 e il 1957, il futuro premio Nobel per la fisica Wolfgang Pauli e Carl Gustava Jung, padre della psicologia del profondo, intesserono un fittissimo carteggio alla ricerca di un terreno comune tra realtà fisica (Wirklichkeit) e realtà psichica (Realität) che si rivelò per entrambi estremamente fecondo per la chiarificazione e la ristematizzazione di alcuni concetti chiave al centro dei loro futuri lavori. Ce ne rende finalmente conto nella sua interezza l’edizione italiana a cura del fisico Antonio Sparzani e della psicoanalista junghiana Anna Panepucci, recentemente uscita per Moretti & Vitali: Jung e Pauli. Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e materia, pp. 392, euro 30. Tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, l’incontro tra i due non fu dovuto a questioni scientifiche ma a ragioni cliniche. Wolfgang Pauli, che nel 1932 era già riconosciuto come uno dei più eminenti rappresentanti della fisica meccanica e di cui Einstein aveva pubblicamente lodato “la comprensione psicologica dell’evoluzione delle idee, l’accuratezza delle deduzioni matematiche, la profonda intuizione, la capacità di presentazione del lavoro con sistematica lucidità, la completezza fattuale e l’infallibilità critica”, viveva infatti una profonda depressione che lo portava spesso ad ubriacarsi e a sfogare la rabbia in ripetute risse notturne nei caffè di Zurigo, città nella quale aveva ottenuto la prestigiosa cattedra di Fisica teorica al Politecnico.
Wolfgang Pauli.
Pochi anni prima la madre si era suicidata e il padre non aveva perso tempo e si era unito in seconde nozze con una “cattiva matrigna” che aveva l’età del figlio, che invece aveva visto andare a pezzi, dopo appena pochi mesi, il suo matrimonio con una cantante notturna di cabaret.
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Perché l’esito del voto amministrativo è importante, è presto detto: è un netto giudizio di portata nazionale sul governo Renzi; rivela una chiara connotazione sociale se non di classe; apre una fase politica nuova.
Il primo elemento si può sintetizzare così: il progetto renziano del partito della nazione, nonostante l’aiuto incondizionato del Berlusca, non si è realizzato, anzi mentre il voto dei ceti medio-bassi confluisce verso i grillini riemergono qua e là addirittura spinte alla ripresa del centro-destra. Renzi coalizza contro di sé invece di far convergere a sé. Per intanto, ha saputo rottamare l’ultimo partito rimasto con un qualche radicamento sociale sui territori con tutte le conseguenze del caso.
La connotazione “di classe” di questo voto, poi, è sotto gli occhi di tutti ancorchè rubricata dal circolo mediatico come sofferenza delle “periferie”. Periferie molto ampie, però, se è vero che arrivano a comprendere parte di un ceto medio sempre più impaurito, se non proprio ancora impoverito, da una crisi del cui superamento cianciano solo i twit del premier. Merito dei cinquestelle aver saputo intercettarlo scomponendo in alcune situazioni importanti anche il blocco di centro-destra.
In questo senso è il voto torinese ad essere il più significativo.
I tanti che, soprattutto nell’apparato politico-culturale anglosassone, fanno propaganda per la balcanizzazione del Medio Oriente e per la nascita di nuove entità statuali a base etnico-religiosa, dovrebbero dare un’occhiata a quanto sta accadendo a Fallujah, in Iraq. La città è storicamente un caposaldo del mondo sunnita, titolo che si è guadagnata con le 200 moschee che punteggiano il centro storico e il territorio circostante, ma anche con la dedizione totale alla causa sunnita. Nel 2004 resistette agli americani che, per “liberarla” dai miliziani di Al Qaeda, dovettero usare persino le bombe al fosforo.
Ora la storia di ripete. Dal gennaio 2014, cioè prima della conquista di Mosul e dell’avanzata nella Piana di Niniveh, Fallujah è un feudo dell’Isis, altro movimento terroristico sunnita, finanziato come già al Qaeda dalle monarchie sunnite del Golfo Persico. Non si può certo dire che gli abitanti di Fallujah siano fiancheggiatori dei miliziani Isis. Ma è chiaro la comune attitudine religiosa qualcosa ha contato, se nel “triangolo sunnita” dell’Iraq l’Isis ha potuto insediarsi e radicarsi senza trovare opposizione. Ha contato la superiore abilità politica degli uomini di Al Baghdadi, che hanno rispettato le comunità locali e i loro rappresentanti, mentre l’esercito e la burocrazia sciita, dominanti a Baghdad dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003, li hanno trattati da nemici, al meglio da sudditi.
Spinoza contro Marx senza esclusione di colpi ma con idealistiche incursioni di Platone: arbitra Fabrizio “Astrofilosofo” Melodia non senza qualche scorrettezza
«La pace non è assenza di guerra: è una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia» scriveva il filosofo panteista Baruch Spinoza, nel suo noto «Trattato teologico politico».
In effetti nessuno potrebbe obiettare; la filosofia da sempre tende a ricercare la cura per ottenere la pace dell’anima attraverso l’uso attivo e critico della Ragione, non solo nella sua parte decostruttiva – in cui mette in luce le difformità e le contraddizioni del mondo – ma nel suo lato costruttivo, quando essa diventa terapia e pratica continua di cura dell’anima.
La filosofia, in questo senso, diventa dunque un ottimo antidoto a quello spirito guerresco che caratterizza la razza umana, andando oltre alla “danza” dei conflitti, anche personali, per approdare alla cura del comportamento che il ragionamento analizza e riduce ai minimi termini. Ma essa vuole essere qualcosa di più quando entra in contrasto con le sofferenze della realtà, ed ecco che qualche “buontempone” se ne esce con simili amenità: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in vari modi: ma il punto ora è di cambiarlo»… Avrete riconosciuto Karl Marx, all’epoca della sua «Tesi su Feurbach» che suscitò qualche scalpore.
Le penne dei moderati italiani, quelle stesse che per anni si sono schierate dietro Berlusconi contro il centrosinistra di Prodi, si stringono oggi attorno a Renzi con l’obbiettivo di tamponare l’emorragia di voti che colpisce il Partito democratico. Le politiche provocatoriamente antipopolari votate negli ultimi due anni da un parlamento ammaliato dall’idea di rimanere in carica fino al 2018 cominciano a produrre i loro effetti. Nelle manifestazioni sindacali di Parigi è comparsa una scritta: “non faremo la fine degli italiani”. È vero: lo statuto dei lavoratori è stato abolito senza una sensibile opposizione, con il sindacato già da tempo “asfaltato”. Ma il malessere sociale e il disincanto politico che cova nel paese da anni è profondo. Ed è stato puerile pensare che bastasse Verdini ad esorcizzarlo. La crisi politica, ormai una vera e propria crisi organica, caratterizzata da un distacco progressivo tra rappresentanti e rappresentati, avanza e non sarà facile arrestarla con artifici retorici.
Paolo Mieli sul Corriere della sera del 14 giugno ha riesumato dal guardaroba l’antica teoria degli opposti estremismi cercando di riadattarla al presente. Paradossalmente questa volta si rivolge all’opinione pubblica della sinistra benpensante che pur rimanendo fedele all’antica e sempre onorevole idea di progresso vuole stabilità e rifiuta salti nel buio. Questo serbatoio di voti è cruciale per mantenere in vita nel paese gli equilibri politici definitisi in Parlamento negli ultimi due anni.
#PARIGI:
Siamo
più di un milione!
“Siamo più di un milione, e precisamente un milione e trecentomila”. Questo il messaggio che i lavoratori francesi hanno saputo lanciare a chi – Governo, opinionisti, giornalisti – voleva rappresentare in esaurimento un movimento che da tre mesi blocca settori nevralgici a ripetizione, occupa regolarmente le prime pagine dei giornali e contribuisce al calo vertiginoso dei consensi dell’esecutivo socialista. Altri momenti di mobilitazione nazionale sono previsti per il 23 ed il 28 giugno, mentre chi prima era a bloccare le raffinerie continua ad impedire il “normale” funzionamento dell’economia, andando a coadiuvare gli operai dei centri di trattamento rifiuti, in sciopero anch’essi. Insomma, nessun ritorno alla pace sociale per la Francia, almeno finché il Governo non ritirerà legge, ora in discussione al Senato.
Poiché il movimento non si è affatto esaurito – come invece fu nel 2010, dopo l’approvazione della legge sulle pensioni di Sarkozy – il blocco dominante non può semplicemente puntare sul suo sfinimento, né solo sulle norme costituzionali di stampo gaullista, che permettono al Governo di bypassare l’Assemblea Costituzionale qualora lo ritenesse opportuno.
Incontro-dibattito sul libro di Giorgio Griziotti Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, (Mimesis, 2016), presso il Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa (Milano), 4 maggio 2016
Innanzitutto mi preme sottolineare
che
questo libro non è nato con l’intenzione di sviluppare
un’elucubrazione teorica sulle tecnologie, o sul rapporto tra
tecnologie e
sociopolitica, ma quasi da un bisogno, scaturito da due
inclinazioni personali: la passione per le tecnologie – ho
studiato e lavorato tutta la
vita in questo campo, soprattutto nelle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione – e quella politica.
Facendo parte del lungo
‘68 italiano, termine che preferisco a quello degli ‘anni di
piombo’ che viene propinato dai media mainstream, mi sono
infatti
trovato a riflettere e a cercare di capire qual è il nesso fra
queste tecnologie e il contesto politico in cui viviamo.
Quando ho cominciato a interessarmi di politica erano gli anni in cui Berkeley, l’università e città californiana, era un doppio simbolo: da un lato la culla dei movimenti che negli Stati Uniti si battevano contro la guerra in Vietnam, dall’altro il luogo in cui nasceva quello che sarebbe poi divenuto il free software. È lì infatti che vengono create le prime versioni di Unix ‘open source’, precursore di Linux e del free software, ed è lì che sono state inventate le funzioni essenziali per connettere i computer a internet. Anche se la commessa veniva dal ministero della Difesa americano, che negli anni della guerra fredda era interessato a costruire una rete che potesse ricomporsi in caso di un evento atomico, la nascita di internet corrispondeva anche a un bisogno di quella generazione, che voleva comunicare e che lottava contro le forme d’imperialismo allora dominanti.
L’esperienza e il vissuto dei decenni che ho passato professionalmente nel campo di queste tecnologie mi hanno portato a riflettere sul ruolo della tecnica, che è da sempre una forma di mediazione con il mondo, con tutte le sue contraddizioni e biforcazioni.
Il mio intervento al seminario “La ragione e la forza” promosso dalla Rete dei Comunisti e svoltosi a Roma sabato 18 giugno 2016
La relazione introduttiva ha un
merito
fondamentale, e cioè conferma un approccio analitico e un
punto di vista di classe rispetto al contesto storico in cui
ci troviamo. Questo
può apparire scontato, specie per dei marxisti ma, a mio
parere, oggi, in una fase di grande confusione ideologica come
questa, dove la
concezione (e relativa coscienza) di classe hanno subito un
attacco massiccio fino ad essere state messe in discussione,
ad essere concepite come dei
relitti, dei reperti archeologici da consegnare ai musei e
agli archivi della storia, non lo è affatto. E questo è un
punto fermo, un
discrimine che a mio parere è determinante per fare chiarezza.
Pensiamo ad esempio ai cantori del presunto superamento del
conflitto di classe
(per lo più dell’area neoliberale e neoliberista ma non solo)
e ai sostenitori (in parte gli stessi ma non solo, anche in
questo caso)
del presunto superamento delle categorie di “destra e di
sinistra”. Ora, questo è un punto assai delicato perché non
c’è alcun dubbio che allo stato delle cose le attuali
declinazioni e determinazioni storiche e politiche della
destra e della sinistra
siano due facce dello stesso sistema capitalista che utilizza
ora l’una e ora l’altra a seconda delle necessità. Anzi, la
“sinistra” è oggi considerata per tante ragioni addirittura
più funzionale per garantire la famosa “governance”
tanto cara ai padroni del vapore, cioè al grande capitale
trans e multinazionale che governa sul mondo.
Mi è stato chiesto di occuparmi di Brexit in 5000 caratteri. Compito arduo, non perché ci sia molto da dire: fatto salvo il legittimo desiderio di certi colleghi di dare i numeri, le cose da dire credo siano poche e semplici. Sono però dolorose per chi si ostini a credere nella democrazia. In effetti quello economico, nel caso della Brexit, è veramente l’ultimo dei problemi. Questo non perché l’eventuale Brexit (secondo me improbabile) non abbia motivazioni e non avrebbe conseguenze anche di ordine economico, quanto perché il nodo fondamentale è politico, e in questo ambito i danni sono già stati fatti. Parto dall’osservazione più semplice: le stesse istituzioni, in qualche caso addirittura le stesse persone, che ci stanno prospettando sciagure inerarrabili in caso di uscita del Regno Unito dalla Ue, sono quelle che ci hanno promesso prosperità e pace grazie alla nostra adesione al progetto europeo. Un esempio per tutti: Donald Tusk, secondo cui la Brexit sarebbe “la fine della civiltà politica europea”.
Siamo di fronte alla forma più esasperata del fenomeno descritto da Giandomenico Majone, professore emerito di Scienze politiche all’Istituto Universitario Europeo, nel suo libro Rethinking the union of Europe: il passaggio dalla cultura politica dell’ottimismo totale, quella che ha portato a negare nei Trattati l’eventualità di una crisi, al suo contrario, la cultura della politica del catastrofismo totale, quella che, al verificarsi di una crisi, paralizza l’azione dei governanti, scaricando i costi sui cittadini.
Due proposte presentate di recente attribuiscono al sistema della contrattazione nazionale, e ai meccanismi redistributivi che implica, un ostacolo al miglioramento dell’economia
Durante le ultime settimane, il dibattito pubblico sul lavoro è stato investito da due proposte provenienti dagli ambienti industriali e dal campo degli economisti liberal. Al Festival dell’economia di Trento, Andrea Ichino ha presentato uno studio – condotto con Tito Boeri e Enrico Moretti – sulle ricadute del sistema di contrattazione nazionale sull’aumento delle disuguaglianze. Solo pochi giorni dopo è toccato invece al presidente dei Giovani Industriali, Marco Gay, puntare il dito contro le disfunzioni del sistema redistributivo e previdenziale italiano, colpevoli a suo dire di frenare la crescita economica e i livelli occupazionali.
Le due proposte riflettono una visione comune nell’attribuire al sistema della contrattazione nazionale e ai meccanismi redistributivi e solidaristici che essa implica, un ostacolo al miglioramento dell’economia generale e la conseguente ricaduta (negativa) sui livelli di reddito dei lavoratori. Nello studio presentato da Ichino, l’indice viene puntato sull’inefficienza di un regime non abbastanza differenziato di salari nominali, che unendo il paese da Nord a Sud, svantaggerebbe proprio i lavoratori del Nord costretti a far fronte ad un costo della vita più alto, principalmente dovuto al più elevato costo delle abitazioni.
La forza-lavoro è una merce, ma a differenza di un frigorifero non è prodotta in una fabbrica. Il supporto materiale della forza-lavoro sono gli esseri umani, che sono ancora generati biologicamente e allevati all’interno della famiglia, un’unità produttiva non capitalistica sussunta solo formalmente al modo di produzione dominante. A questa prima peculiarità della merce forza-lavoro ne va aggiunta una seconda: essa è l’unica merce capace di produrre un valore superiore al proprio. Questa seconda caratteristica fa della forza-lavoro l’elemento vivificante dell’accumulazione capitalistica, mentre la prima ne costituisce un limite di difficile gestione per il metabolismo del sistema.
L’immigrazione contemporanea è frutto dello stesso sviluppo capitalistico, delle conseguenti espansioni del mercato mondiale, delle espulsioni di manodopera dalla produzione tradizionale, dei conflitti bellici. Nelle economie più avanzate, inoltre, l’immigrazione alimenta un esercito di riserva di salariati che crea condizioni negoziali favorevoli in termini di comando del lavoro e di compressione del valore della forza-lavoro. Governare un fenomeno moltitudinario di questo tipo è una sfida di estrema complessità che i centri di potere statuali e sovranazionali affrontano con sofisticati dispositivi giuridici, politici, sociologici e militari.
Per orientarsi in questo mondo, il saggio Sulla governance delle migrazioni di Iside Gjergji è uno strumento essenziale sia per la ricerca accademica che per chi, impegnato nelle lotte sociali, voglia dotarsi di analisi capaci non solo di scaldare i cuori, ma di mordere la realtà.
La borsa, ovvero il megafono dei ricchi, festeggia l’assassinio di Jo Cox la parlamentare laburista impegnata contro la Brexit. Festeggia perché sale, mentre gli avversari, quelli che vogliono uscire dalla Ue, sono costretti a spargersi la cenere sui capelli e fare penitenza, come se fossero colpevoli delle mosse del’ennesimo pazzo o terrorista o sedicente terrorista o bombarolo usato come succedaneo della politica, dei comizi, delle idee. Non sono un esperto di storia britannica, ma l’ultimo assassinio di un politico inglese in carica che io ricordi risale a 204 anni fa, ossia all’ 11 maggio del 1812 quando il primo ministro Spencer Perceval fu ucciso con un colpo di pistola a bruciapelo da un banchiere: la pratica dell’assassinio politico è dunque rarissima nell’isola, ma guarda caso con tutto quello che è accaduto in più di due secoli, Ira compresa, il barbaro uso viene ripristinato proprio alla vigilia di un voto che rischia di menare un colpo di accetta sui disegni della finanza globale.
Beati i tempi in cui almeno sparavano in prima persona. Ma forse era necessario perché l’Europa e i banchieri per convincere il 50 per cento più uno dei britannici a rimanere dentro il recinto europeo non hanno saputo offrire che minacce e argomentazioni così deboli che Cameron si è trovato più volte in palese difficoltà nei dibattiti. Anzi a dire la verità nella perfida Albione la campagna per la permanenza nella Ue è stata ribattezzata “Progetto paura” ed evidentemente non si trattava di un nomignolo scherzoso perché qualsiasi possibile tragedia poteva essere messa in conto:
Utilità e pericoli della “rivoluzione passiva”. Pericolo di disfattismo storico, perché l’impostazione generale del problema può far credere a un fatalismo, ecc.: ma ala concezione rimane dialettica, cioè presuppone, anzi postula come necessaria, un’antitesi vigorosa e che metta in campo tutte le sue possibilità di esplicazione intransigentemente. Dunque non teoria della “rivoluzione passiva” come programma […] ma come criterio di interpretazione in assenza di altri elementi attivi in modo dominante (A. Gramsci, Q 14 (1932-1935)2.
Ogni traduzione riuscita sedimenta
una parte
nella lingua. La Germania non ci ha regalato la rivoluzione
fra Settecento e Ottocento, ma almeno Aufklärung e Idealismus
sì. Per contro, trapela subito un filo di fretta e di
approssimazione nell’essere invalso un termine che unisce i
vantaggi della voga
internazionale a una povera presa sull’originaria realtà
generativa. Diciamola tutta: che arriva quando la suddetta
realtà si sta
facendo sterile di fatti e idee, così da accentuare
l’altrimenti perdonabile provincialismo della denominazione,
sorta in ambito
accademico anglosassone e un po’ troppo baldanzosamente
importata. Benintenzionato ma isolato appare il distinguo
terminologico di R. Esposito,
che preferisce scandire la deterritorializzazione del pensiero
europeo in tre fasi: German Philosophy (scuola di
Francoforte emigrata in Usa
e poi rientrata), French Theory
(riadattata e arricchita dal passaggio nei dipartimenti
statunitensi di Cultural Studies)
e Italian Thought (pensiero della prassi e
pratica di pensiero). La configurazione Thought si è
rivelata
desueta rispetto all’immediato mimetismo competitivo con i
transalpini, ma non è questo il problema. Non si può non
registrare il
dettaglio singolare che tutti e tre i termini siano espressi
in inglese, ovvero in un lessico che, non radicato in nessuno
dei tre filoni, è
proprio piuttosto della teoria analitica (egemone
nell’accademia) o, più semplicemente, agisce da lingua
veicolare universale e
omologante.
Davvero
il punto
di inizio è il 2007?
La grande recessione inizia nel 2007, come crisi del mercato finanziario del debito (privato) Usa. Assume dimensioni globali e dopo il fallimento di Lehman Brothers (settembre 2008) sembra portare al collasso il sistema finanziario internazionale.
Gli effetti della crisi sono devastanti in particolare per i paesi capitalistici avanzati: USA, UE e Giappone.
A fronte di questo, le spiegazioni della crisi sono confuse, contraddittorie e incoerenti: effetto-Babele o effetto John Belushi.
La crisi come ci è stata spiegata
L'elenco dei suoi presunti colpevoli è molto più lungo delle scuse di John Belushi nella celebre scena del film Blues Brothers.
I teorici del cosiddetto Capitalismo cognitivo
e del Postcapitalismo hanno
frainteso nel modo più clamoroso e infantile possibile la
naturale tendenza del
Capitale
a creare sempre di nuovo occasioni di profitto senza alcun
riguardo circa la
natura (produttiva o improduttiva) dell’investimento, la quale
per il singolo investitore non ha alcun significato, perché,
com’è arcinoto (al netto dei soliti miserabili moralismi
francescani e sinistrorsi), il profitto non ha né colore né
odore.
Lo sviluppo capitalistico per un verso ha irrobustito la
caduta tendenziale del saggio di profitto industriale,
spingendo con ciò stesso una
massa sempre più cospicua di capitali a cercar fortuna fuori
della sfera della produzione immediata del plusvalore,
fondamento reale e
concettuale di ogni tipologia di profitto e di rendita; e per
altro verso ha generato una tecnoscienza in grado
1. di incrementare il grado di sfruttamento della capacità lavorativa impiegata in ogni sfera di attività (industria, commercio, finanza, servizi) e
2. di rendere l’intera esistenza umana una sola, gigantesca, vivente (e per questo sempre mutevole e plasmabile) occasione per drenare profitti. Un’esistenza interamente mercificata e, per mutuare abbastanza indegnamente il feticista di Treviri, ad alta composizione organica di capitale.
Il 15 giugno 2016, il tribunale di
Torino ha
condannato Roberta, ex studentessa di antropologia di Ca’
Foscari, a 2 mesi di carcere con la condizionale per i
contenuti della sua testi di
laurea, conseguita nel 2014. Per scrivere la tesi «Ora e
sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino
contro l’alta
velocità», Roberta ha trascorso due mesi sul campo durante
l’estate del 2013, ha partecipato a varie dimostrazioni in
Valsusa,
intervistando attivisti e cittadini. Coinvolta insieme a lei
in questo procedimento giudiziario era Franca, dottoranda
dell’Università
della Calabria, che come Roberta era in Valle per ragioni di
ricerca, che compare con Roberta nei video e nelle foto
analizzati dalla procura ma che a
differenza di Roberta è stata assolta da tutti i capi
d’imputazione.
A differenza di Franca, Roberta è stata condannata a 2 mesi di reclusione con la condizionale. Nonostante le motivazioni della sentenza saranno rese pubbliche tra 30 giorni, la ragione della sua condanna è stata attribuita all’utilizzo, nella sua tesi di laurea, del “noi partecipativo” interpretato dall’accusa come “concorso morale” ai reati contestati. Di fatto, i video e le foto scattate durante le manifestazioni parlano chiaro: le due donne sono lì, presenti, anche se in disparte. È stato dimostrato in tribunale che nessuna delle due imputate ha preso parte a momenti di tensione.
Il celebre economista Dani Rodrik: «La mia generazione di turchi considerava l’UE un faro di democrazia. Oggi sia è trasformata nel suo opposto»
Non ho scritto molto sul Brexit perché non ho un’opinione chiara a riguardo. La mia personale speranza è che il Regno Unito scelga di rimanere nell’UE – anche perché ritengo che senza il Regno Unito l’UE diventerà ancora meno democratica e ancora più testarda di quanto non sia già, a causa dei probabili costi economici del Brexit.
Sì, penso che un’uscita implichi un serio rischio economico per il Regno Unito (e forse per l’economia globale nel complesso), anche se penso che esistano ampi margini di incertezza intorno ai pronostici quantitativi presentati dal Tesoro britannico e da molti economisti inglesi. Ma esistono anche seri problemi relativi alla natura della democrazia e dell’autogoverno nell’UE per come è attualmente costituita.
Ambrose Evans-Pritchard (AEP) ha scritto un ottimo articolo in cui propone un’argomentazione politica a favore del Brexit. AEP dice di non condividere il tono sciovinista e nativista della campagna pro-Brexit. Mettendo da parte le distorsioni e le menzogne promosse dai “Brexiters”, AEP sostiene che il referendum solleva importanti domande sul futuro del Regno Unito:
La difficile situazione economica e politica del Venezuela viene raccontata in modo martellante dalla propaganda –specialmente in USA– come il destino inesorabile di un paese che voglia essere indipendente e darsi un ordinamento socialista. CounterPunch mette in luce altri elementi. L’economia venezuelana è cresciuta fortemente sui proventi del petrolio, con poca diversificazione, ed è ora facile vittima della politica del basso prezzo del greggio instaurata da un gruppo di paesi (capeggiati dagli USA) per destabilizzare in particolare Russia e Iran. Le alternative, come ad esempio la produzione agricola, sono però difficili: con TTIP e simili gli USA stanno costruendo un impero economico globale da cui gli outsider saranno esclusi
La crisi economica e politica in Venezuela sta mostrando ben pochi segnali di risoluzione. Allo stesso modo, il modo propagandistico di descrivere questa crisi sta mostrano ben pochi segnali di terminare. Ma perché il Venezuela si trova in questa grave situazione? I media statunitensi continuano a dire che la crisi è il risultato della rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez e delle politiche comuniste di redistribuzione, che vengono messe in atto e mantenute dal presidente Nicolas Maduro. Tuttavia qui si tratta di una situazione sfaccettata e con molti fattori all’interno. Uno non può dare la colpa di ogni male economico del Venezuela a Maduro, come ovviamente non può dare ogni colpa all’opposizione di destra.
Immaginare una Brexit è praticamente impossibile per tutta una generazione di britannici nata dopo o attorno al 1973, l’anno d’ingresso nella Comunità europea. Forse per questo il New York Times sottolinea come potrebbero essere i giovani a salvare il Regno Unito Europeo; se solo gli andasse di perdere quella mezza giornata per registrarsi per il voto. Ma tant’è, l’Europa dei giovani è quella che abbiamo voluto diventasse: un curato progetto low-cost per la generazione Erasmus privo di un senso di direzione, di ideali e di solidarietà.
Eppure immaginare una Brexit è doveroso. Non solo perché è uno scenario probabile e perché una non-Brexit è quanto di più noioso e prevedibile possa avvenire per noi europei continentali, con quel nostro inevitabile proseguire da “business as usual” che ha caratterizzato l’Europa tutta dopo svariate crisi superate al filo di lana, come in Grecia ed Austria. Ma anche per assaporarne le implicazioni politiche. Non quelle economiche, perché alla fine dei conti è vero che, sterlina più sterlina meno, ci sarà sì chi guadagnerà e chi perderà dall’uscita, ma la somma complessiva di lungo periodo che verrà buttata ai pesci nell’Atlantico sarà minimale: altre sono le determinanti di lungo periodo della crescita di un Paese, ci insegnano proprio gli economisti.
Altro che ritocchi, è l'essenza della Costituzione antifascista che viene messa in discussione da governanti sempre più spregiudicati quanto pericolosi. Bisogna fermarli
Solo la libidine di servilismo da cui sono soggiogati i gruppi dirigenti di CGILCISLUIL può aver fatto sì che questi considerassero interessante il progetto del governo sul prestito bancario ventennale, necessario per poter andare in pensione un pò prima.
Del resto, il confronto con la Francia mostra ogni giorno come i grandi sindacati confederali in Italia siano parte del disastro che è precipitato addosso al mondo del lavoro, cioè siano tra i problemi e non tra le soluzioni.
La sola cosa giusta e ragionevole da fare sarebbe quella di riabbassare l'età pensionabile dai livelli iniqui cui l'ha elevata la legge Fornero. Ma siccome il governo si è impegnato con la Troika a non toccare quella legge, ecco allora il coniglio che salta fuori dal cappello: il mutuo per la pensione.
Il governo propone che un lavoratore di 63/64 anni possa andare in pensione prima dei 67/68 imposti dalla legge Fornero, facendo un prestito in banca.
“No, non voglio essere una delle
vostre donne confezionate col cellophane. Non voglio
essere presenza tenera di piccole
risate e di sorrisi stupidamente allettanti e dovermi
sforzare di essere quel tanto triste e ammiccante e al
tempo pazza e imprevedibile e poi sciocca
e infantile e poi materna e puttana e poi all’istante
ridere pudica in falsetto a una vostra immancabile
trivialità.”
Ulrike Meinhof
* * *
Il libro appena uscito per le Edizioni Gwynplaine “Ulrike Meinhof, una vita per la rivoluzione-R.A.F. Teoria e prassi della guerriglia urbana” a cura di Giulia Bausano e Emilio Quadrelli su Ulrike Meinhof e sui documenti della RAF, viene a distanza di 37 anni da quando l’editore Bertani pubblicò “La guerriglia nella metropoli -Testi della RAF e ultime lettere di Ulrike Meinhof”.
In quella occasione in una nota, l’editore rammentò un articolo della stampa mainstream che ipotizzava che in un “covo” erano stati ritrovati degli scritti della RAF con un elenco di nomi fra cui un certo “George Bertein”. Era facile fare il collegamento fra questa presunta scoperta e il nome dell’editore Giorgio Bertani.
Proviamo a
guardare
la sequenza più ampia. In Francia, paese del presidenzialismo,
per 17 anni abbiamo un presidente della Repubblica che viene
dai ranghi della
destra. Chirac è rieletto per due mandati consecutivi dal 1995
al 2007, e Sarkozy, che gli succede, lascia la carica, nel
maggio del 2012, a
Hollande, nuovo presidente socialista. Prima di lui, bisogna
risalire alla lunga parentesi rappresentata dal doppio mandato
di Mitterand (1981-1995),
per trovare un altro presidente socialista. Non azzardo un
bilancio politico dell’ultima presidenza di destra, quella di
Sarkozy, ma alcune cose
risultano evidenti. Sarkozy ha fatto quanto poteva per aiutare
i grandi patrimoni e le grandi imprese, e nello stesso tempo
si è impegnato a
fondo per criminalizzare i poveri, cominciando dagli
immigrati. I margini di manovra per realizzare delle massicce
riforme che spingessero la Francia
verso scenari di radicale liberalizzazione sul modello
Thatcher o Regan, in Francia non c’erano. Sarkozy si è
trovato, quindi, in una
situazione simile a quella di Berlusconi in Italia. Non
potendo demolire le garanzie universali dello Stato sociale,
senza provocare violente reazioni
nella popolazione, entrambi hanno agito soprattutto sul
versante fiscale e su quello repressivo.
Non si
può veramente capire perché la Costituzione Italiana viene
stravolta così malamente dal premier Matteo Renzi senza
comprendere
quanto i mercati finanziari e l'Unione Europea - che
istituzionalizza di fatto la loro rapace supremazia – abbiano
premuto e spingano per una
svolta autoritaria e antidemocratica in modo da potersi
garantire il potere sovranazionale sugli stati europei. Non è
insomma plausibile
condurre una battaglia efficace contro lo stravolgimento
costituzionale progettato dal governo senza contrastare
contemporaneamente le forze
economiche internazionali (grandi banche d'affari, fondi
speculativi, ecc) e le istituzioni politiche sovranazionali ed
estere (Troika, Commissione
UE, BCE, governo tedesco) che hanno spinto la coppia
Renzi-Boschi a proporre di avanzare su una strada
anti-democratica di quasi-regime.
Purtroppo sono molto pochi quelli che all'interno delle forze progressiste vedono il legame tra la pressione della grande finanza internazionale e dell'Unione Europea da una parte e la svolta autoritaria contro la Costituzione Italiana dall'altra[1].
Non si tratta di ciò di cui si tratta. Il referendum [sulla Brexit – n.d.t.] è una questione di facciata. Sottostante c’è la domanda politica fondamentale, una domanda che è raramente posta perché ferisce al cuore: come riuscire meglio a tenere il denaro fuori dalla politica?
Senza sufficiente esame pubblico tutti i sistemi politici degenerano al servizio della ricchezza. Tutti finiscono controllati dai pochi con i soldi, non dai molti con i voti. Il principale compito democratico consiste nello spezzare il legame tra denaro e potere. Dunque la domanda che affrontiamo la settimana prossima è questa: “In quale unione politica ci si può opporre meglio al denaro?”. Non c’è l’imbarazzo della scelta. Siamo in un contesto di plutocrazie.
L’Unione Europea è una fogna infetta di influenze indebite e di lobbismo opaco. Imbeccata dall’industria del tabacco, la Commissione Europea sta lentamente smantellando, mediante quello che chiama il “programma delle regole migliori”, molte delle leggi conquistate a caro prezzo che proteggono la nostra salute, le nostre condizioni di lavoro e la natura. Una volta demolite, il potere dell’industria sarà corazzato mediante il Partenariato Trans-Atlantico sul Commercio e gli Investimenti che sta negoziando con gli Stati Uniti.
Il TTIP ha due versanti principali. Uno è la cooperazione normativa, che significa standardizzare le leggi sulle due sponde dell’Atlantico: quasi certamente al ribasso.
Alle porte delle decisive elezioni anticipate del 26 giugno, Pablo Iglesias, fondatore e segretario politico di Podemos, ha rilasciato il 13 giugno scorso, guarda caso al quotidiano El Pais vero e proprio organo dell'oligarchia eurista spagnola, un' intervista che lascerà il segno.
Senza mezzi termini annuncia che dopo le elezioni aspira a fare il Primo ministro, urne (e Re spagnolo) permettendo. Ben sapendo che Podemos, ammesso che diventi secondo partito dopo i Popolari di Rajoy, non avrà la maggioranza, ecco la novità, Iglesias propone un governo coi "socialisti".
L'ambizione gli ha dato alla testa? O si tratta di pura tattica per rubare voti al PSOE?
Staremo a vedere. L'idea, apparentemente solo bizzarra, è invece una bestialità, visto che il PSOE è, tra i due pilastri su cui si regge il regime oligarchico, forse quella più importante. Per capirci: l'equivalente iberico del Pd.
Se teniamo conto che Podemos, sull'onda del Movimento 15m, sorse proprio per rappresentare l'opposizione dal basso contro entrambi i pilastri del regime neoliberista, la proposta di Iglesias è sorprendente.
Ma sentiamo che dice Iglesias:
Questa storia ha molti inizi.
1. Ezio Lucchese, autista dell'ANM di Napoli e compagno dell'USB, è stato aggredito allo stazionamento degli autobus da una persona con forti problemi psichici; alcuni, del cosiddetto popolo di Facebook, hanno scritto che l'aggressione va condannata ma, insomma, sperano che questo episodio aiuti a comprendere che non è più possibile tollerare i fannulloni.
2. La CGIA di Mestre ha pubblicato uno studio secondo il quale, negli anni che vanno dal 1995 al 2015, le file agli sportelli sono raddoppiate, come lunghezza e quindi come tempi di attesa. In questi 20 anni noi contiamo, a spanne, almeno quattro provvedimenti, tra leggi, decreti e accordi contrattuali, presentati come iniziative per il miglioramento della qualità della Pubblica Amministrazione.
3. Tra il 2007 e il 2013 il personale dei Comuni italiani è diminuito di oltre l'11% e l'età media si è alzata; nel 2015 la busta paga media ha perso circa 443 euro rispetto all'anno precedente.
Intanto il blocco della contrattazione nazionale in corso da più di otto anni e giudicato incostituzionale dalla Consulta ha congelato gli stipendi di tutti i dipendenti e si è tradotto in una generalizzata perdita di potere d'acquisto per tutti i dipendenti della pubblica amministrazione.
Il lungo
XX
secolo di Giovanni Arrighi è, per il lettore non
specialista, una occasione per allontanarsi dai nostri tempi,
dalla loro supposta
insistente novità, dalla crisi che sembra condizione
permanente, per tornarvi avendo saputo che quello che sembra
nuovo (e incomprensibile) non
è poi davvero tale. Certo, bisogna avere una buona dose di
curiosità per affrontare le sue 500 pagine; ma la
constatazione della
complessità delle cose che sono fuori dal libro, nel mondo, e
la paura e l’insicurezza che quindi percepiamo, dovrebbero
essere motivi
sufficienti per provare a seguire chi ambiziosamente tenta
discorsi all’altezza di quella complessità.
Fa crescere la curiosità la lettura della biografia di Arrighi, raccontata in una lunga intervista del 2009 (poco prima della sua scomparsa) con un interlocutore d’eccezione, David Harvey. Arrighi, a differenza di tanti altri scienziati sociali, ha lavorato: prima nell’azienda paterna, una piccola industria che produceva macchine (per il settore tessile, in seguito per riscaldamento e condizionamento); nello stesso settore operava l’azienda del nonno, presso la quale Arrighi ha raccolto i dati per la tesi in economia; infine ha lavorato presso una multinazionale, la Unilever. Queste esperienze, afferma, gli sono state utili per valutare criticamente la validità delle teorie economiche (“l’elegante equilibrio generale dei modelli neo-classici”, come osserva non senza ironia nell’intervista), e per comprendere la multiformità, la “plasticità”, del capitalismo. E anche, c’è da supporre, per districarsi tra i vari tipi di lavoro – utile, astratto, vivo, necessario, immediatamente sociale, immediatamente socializzato ecc. – che affollano le pagine del marxismo.
Che cos’è la cosiddetta
“Italian Theory”? Per quali ragioni è diventata di
recente così centrale in una serie di dibattiti ontologici e
politici, soprattutto nel mondo anglofono, dibattiti che
coinvolgono non soltanto la filosofia ma anche le scienze
sociali? E anche: da dove proviene
la sua spesso elusiva prossimità alla biopolitica, una
politica per la quale, seguendo la definizione di Giorgio
Agamben, “il potere non
ha di fronte a sé che la pura vita biologica senza alcuna
mediazione”?
In questo intervento intendo sondare criticamente il successo, ma anche i limiti, di tale fenomeno teorico e sociologico (significativamente denominato “Italian Theory” anche in italiano). Da un lato l’espressione “Italian Theory” rimane altamente problematica nonostante una serie di recenti tentativi di chiarimento (penso in primis al lavoro ammirevole di Roberto Esposito): è sia troppo generica, cercando di raggruppare sotto questa etichetta un’ampia gamma di posizioni che rimangono per lo più incompatibili, che troppo specifica, dato il connesso rischio di essere associata al tentativo di far risorgere un’idea, francamente datata, di filosofia “nazionale”. Dall’altro lato, è fuori dubbio che nel corso degli ultimi due decenni un numero crescente di pensatori italiani provenienti sia dalla filosofia che dalle scienze sociali sono diventati a ragione molto popolari all’estero.
Come spiegare questa inaspettata notorietà su scala globale? Si tratta forse di una specifica capacità nostrana di sperimentare nella pratica politica le filosofie della differenza originate in Francia nella seconda metà del ventesimo secolo?
Negli
ultimi anni è aumentata la tensione tra Usa e Russia e
parallelamente si è sviluppata un'intensa campagna mediatica
volta a dipingere un
pericolo russo e, più in particolare, un “pericolo Putin”. Con
varie sfumature i media occidentali di quasi ogni colore
politico si
sono fatti docile veicolo di input russofobi, la cui ricaduta
principale, ne siano o meno coscienti, è quella di fare il
coro ai tamburi di
guerra che minacciano l'umanità. In realtà, per comprendere la
politica estera di Mosca all’inizio del nuovo secolo occorre
anzitutto tenere presente il contesto nel quale questa si
inserisce.
Quale sfida abbiamo di fronte?
Con la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione del blocco sovietico gli Stati Uniti sono rimasti l’unica vera superpotenza. Il mondo, privo di contrappesi, pareva ai loro piedi. In quel contesto, sotto l’Amministrazione di Bush senior, Washington formulò l’ambizioso progetto di costruire un “Nuovo Ordine Mondiale” unipolare. Da allora gli Usa hanno perseguito con lucida determinazione l’obiettivo di imporre al resto del mondo la loro indiscutibile egemonia. Le scelte strategiche compiute dagli Stati Uniti nel corso degli ultimi 20 anni, qualsiasi siano state le motivazioni ufficiali addotte, sono state dettate dal tentativo di garantire a Washington un dominio a pieno spettro sulle altre civiltà del pianeta.
E Brexit fu, nonostante la mobilitazione dei poteri forti inglesi ed internazionali. E hanno deciso di uscire senza essere nell'euro!!
Ora, non essendo riusciti a spaventare i britannici, si cerca di spaventare tutti gli altri affinché non ne seguano l'esempio.
Si dice che l'uscita è dovuta ai vecchi che avrebbero votato la nostalgia. A nessuno viene il dubbio che le classi popolari dell'Inghilterra del nord e del Galles abbiano invece visto il peggioramento dovuto al combinato disposto liberismo e Unione!? Non viene in mente che questi sono settori che per motivi materiali e culturali fanno più fatica a stare nella globalizzazione liberista perché ne sono le vittime designate?
In realtà è un voto di classe senza un partito di classe. Questo è il dramma. E, diciamocelo, il buon Corbyn, come gran parte della sinistra continentale, della questione non ci ha capito una mazza. Purtroppo. Per altro verso, si è ripetuto quello che, facendo le dovute distinzioni, è accaduto in Italia alle amministrative. Le periferie hanno votato “leave” in Gran Bretagna e M5S in Italia. Questi ultimi, tuttavia, ammorbati dalla logica dei sondaggi, sulla Brexit hanno toppato.
Impareranno?
Si dice altresì che i giovani abbiano votato di rimanere. Certo i giovani di Londra vivono diversamente la globalizzazione da quelli sopra citati.
Sedotti e abbandonati, si potrebbe dire mutuando dal celebre film di Germi. Oppure, per i palati più fini, potremmo ricordare le Illusioni perdute di Balzac, meravigliosa epopea di un giovane di belle speranze nella Parigi del XIX secolo che finisce assai tristemente. In entrambi i casi, non sbaglieremmo. I giovani americani, all’inizio del XXI secolo, stato stati sedotti dall’esplosione di benessere indotta dal boom, per essere subito dopo abbandonati nella vasta miseria della disoccupazione, una volta che l’economia dei capitali fittizi ha presentato il conto. Perdute le illusioni, questi ragazzi, che magari hanno trascurato di migliorare la loro professionalità perché il mercato assumeva senza chiederne troppe, si sono ritrovati senza reddito e senza quelle competenze che oggi, lo stesso mercato, richiede a gran voce, giudicandole necessarie per i lavoratori del futuro.
In questa doppia menzogna – un benessere che si rivela fittizio e un malessere che si dice solo provvisorio – che connota tutta la vicenda del primo decennio del XXI secolo e buona parte del secondo, risiede l’insegnamento che non dovremo mai dimenticare e che invece, regolarmente, obliamo: i soldi facili danno l’illusione della ricchezza, ma poi presentano il conto. E a pagare non sono mai i più forti, ma quelli più deboli.
Vi parrà strano, ma queste riflessioni sono il frutto di un interessante paper diffuso di recente dalla Bce che ha un titolo assai evocativo che comincia con una domanda: “Una generazione perduta?”.
Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo . Inizia così – chi non lo ricorda? – il Manifesto del partito comunista, di Karl Marx e Friedrich Engel, anno di grazia 1848. Oggi lo spettro va ovviamente inteso in un senso diverso, il comunismo è morto e neppure il socialismo sta molto bene. E non tanto per una sconfitta sul campo (anche se, certo, la lotta di classe l’hanno vinta i ricchi ma soprattutto il capitalismo & la tecnica come apparato), quanto per la propria volontaria auto-liquefazione, il socialismo avendo alzato le braccia in segno di resa – o forse, e peggio, avendole allargate in segno di benvenuto – davanti al capitalismo e alla rete. Illudendosi che la globalizzazione e il web fossero la modernità ma anche la sua ineluttabilità, diventando più neoliberista dei neoliberisti, più ordoliberale degli ordoliberali, più tecno-entusiasta della stessa Silicon Valley.
Può allora il socialismo, risorgere dalle proprie ceneri, come la mitica Fenice? E come? Prova a rispondere Axel Honneth – importante filosofo tedesco, direttore dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, quello della Teoria critica e della Scuola di Francoforte novecentesca – in questo breve ma denso saggio che arriva in libreria dopo l’analitico e bellissimo Il diritto della libertà (e di cui questo è l’integrazione e il compimento sul piano propositivo), dal titolo L’idea di socialismo, e con un sottotitolo dal forte ottimismo della volontà: Un sogno necessario.
L. J. Peter era uno psicologo canadese che nel 1969 formalizzò un principio che prese il suo nome: Principio di Peter o Principio di incompetenza. Il principio si applica alle strutture gerarchiche quali le aziende, i partiti, le istituzioni. Esso dice che ogni agente dentro la struttura gerarchica, tende a salire di grado sino a raggiungere il proprio livello d'incompetenza dal punto di vista funzionale. Peter scoprì cioè che una struttura è fatta di competenze ad hoc mentre la gerarchia è fatta da un pathos alla scalata che inevitabilmente porta ad un punto in cui soddisfatta la bramosia di potere, si registra il pieno fallimento delle capacità di mantenerlo, gestirlo e giustificarlo.
Il presidente di provincia di Firenze Matteo, nel 2009, diventa sindaco della città accrescendo così il suo potere ma sembra rimanere ancora nella sfera delle sue capacità. Matteo conduce una doppia battaglia, quella per il ruolo istituzionale e quella per la leadership del suo partito. L'8 Dicembre 2013 diventa segretario del suo partito del quale è stato parte della minoranza assoluta ma il 25 Febbraio 2014, dopo appena poco più di due mesi, da minoranza e sindaco di una città di 382.000 abitanti, diventa non solo segretario del suo partito e quindi maggioranza ma anche Presidente del Consiglio di uno stato di 60.665.551 abitanti, appena 158 volte più grande di Firenze.
Matteo non conosce Peter e così si avvia incautamente verso la scalata di quella gerarchia di capacità che lo porta fatalmente a raggiungere in breve tempo, il suo massimo livello d'incompetenza.
Quello che è successo ieri in
Inghilterra è un fatto politico enorme, che porta con sé una
carica oggettiva, difficile da interpretare a caldo, ma che ci
dice
senz’altro una cosa incontrovertibile: si è aperta una grande
falla sul Titanic della Ue. Una falla difficile da arginare
anche per il
suo carattere immediatamente simbolico. La Brexit assume un
valore emblematico decisivo: è possibile rompere le maglie di
questa gabbia del
governo oligarchico-tecnocratico, espressione diretta degli
interessi del capitale transnazionale, causa della tragedia
collettiva che le masse
popolari europee stanno vivendo da almeno quindici anni.
Per ricordare un evento così significativo bisogna tornare indietro a quel 5 luglio di un anno fa, quando il popolo greco bocciò il memorandum imposto dalla Troika, un referendum voluto dal governo Tsipras appena insediatosi, e che nemmeno una settimana dopo fu tradito dalla vergognosa capitolazione da parte dello stesso governo “riformista”. Quella sconfitta si era fatta sentire e aveva chiuso una finestra di possibilità difficilmente riproducibile nel breve periodo. La storia, come evidente, va però avanti lo stesso.
La botta presa dal PD domenica scorsa è di
quelle
storiche. Il risultato di Roma era abbastanza scontato dopo
decine d’anni di amministrazioni corrotte, dopo Mafia Capitale
e la defenestrazione
voluta da Renzi dello spaesato Marino.
Il risultato più sorprendente da analizzare è però quello di Torino.
Dove dal 2011, anno dell’esordio in Consiglio Comunale con due consiglieri, il M5S ha costruito meticolosamente giorno dopo giorno la vittoria cercando soprattutto di dividere, erodere quel consolidato blocco sociale che per decenni ha consentito alla “sinistra” torinese e alle sue clientele di dominare la città. Blocco sociale, meglio ricordarlo, che riusciva a tenere assieme gli interessi di FIAT, di Banca San Paolo, del Collegio Costruttori, fino all’operaio iscritto al PCI-PDS-DS-PD, al pensionato inquadrato nelle truppe cammellate di quella vera e propria setta chiamata SPI-CGIL, e agli “utili idioti” che pensano ancora al PD come partito della classe operaia: una invincibile armata, fino a qualche giorno fa.
Le giunte di “sinistra” che si sono succedute (Castellani, Chiamparino, Fassino) si sono solo e sempre occupate ovviamente di compiacere gli anelli forti di quel blocco sociale: Marchionne, e colui che è stato il vero dominus di Torino, Enrico Salza ex presidente di Intesa-San Paolo che qualche giorno prima del ballottaggio ha dichiarato: “Fassino non può non vincere, altrimenti finiscono Torino e il Piemonte” (La Stampa, 9 giugno).
Maurizio Franzini riflette su una recente pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale che ha avuto grande risonanza per il suo giudizio negativo su alcune politiche neoliberisti sostenute in passato dallo stesso FMI. Franzini richiama l’attenzione sull’importanza delle tesi presentate e le collega a precedenti lavori dello stesso FMI sostenendo che, al di là dei problemi di coerenza di quest’ultimo, si viene componendo un quadro di conoscenze potenzialmente molto utile per andare oltre gli errori del passato
Jonathan Ostry – vicedirettore del Dipartimento
economico del Fondo Monetario Internazionale formatosi a
Oxford, alla London
School of Economics e alla Università di Chicago – dopo
avere prodotto, con diversi coautori, importanti studi
empirici sul rapporto
tra disuguaglianza e crescita, poche settimane fa ha
pubblicato sulla rivista trimestrale del FMI, Finance and
Development, un breve paper
scritto con Prakash Loungani e Davide Ferceri, dal titolo Neoliberalism: Oversold? la cui
principale conclusione è che alcune politiche distintive del
neoliberismo –
fortemente sostenute in passato dal FMI – hanno sortito
effetti opposti a quelli che ci si attendeva.
Non sorprendentemente, il paper ha catturato l’attenzione dei media mondiali che lo hanno largamente interpretato come una smentita di se stesso da parte del FMI. Maurice Obstfeld, il capo economista del FMI, ha replicato a queste interpretazioni, parlando di evoluzione e non di rivoluzione del Fondo. Ciascuno potrà valutare quanto convincenti siano i suoi argomenti. Queste note non sono dedicate alla coerenza del FMI – che naturalmente non è questione di cui ci si possa disinteressare – ma ai contenuti del paper e al loro legame con precedenti analisi condotte dallo stesso Ostry con altri coautori.
1. Critica delle
critiche.
Contro la teoria dell’“effetto di sdoppiamento” si potrebbe però muovere l’obiezione che quell’effetto potrebbe esistere da sempre – e quindi durare per sempre. Non è vero. L’“effetto di sdoppiamento” ha preso ad agire nella storia solo dopo il 9000 a.C. quando, a seguito della “rivoluzione agricola” da un lato e della domesticazione degli animali dall’altro, ci si è assicurati la produzione sistematica e costante di un surplus accumulabile anche in forma privata, e non soltanto comunitaria, ed esso scomparirà in quella fase superiore della produzione sociale, da Marx denominata “comunismo”, in cui «con lo sviluppo omnilaterale degli individui saranno cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorreranno in tutta la loro pienezza... e la società potrà scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!»1. Questo risultato ultimativo, consentendo la piena soddisfazione dei bisogni sociali del genere umano (consumi, tempo libero, cultura e attività ludiche), disseccherà, almeno a livello di massa, la principale fonte d’alimentazione della “linea nera”, ossia la pretesa di gruppo di un’appropriazione “elitaria” di mezzi di produzione, beni di consumo e tempo libero (a meno che il genere umano non si autodistrugga in precedenza per l’impiego delle mostruose armi di sterminio attualmente a disposizione).
Stretta da anni nella morsa di una crisi profonda e persistente, l’economia mondiale è oggi anche sempre più obbligata a confrontarsi con le drammatiche conseguenze del riscaldamento globale e del cambiamento climatico connessi alle attività umane. In tale contesto, i rinnovati e più estesi accordi internazionali sulla riduzione delle emissioni di gas serra, scaturiti dalla Conferenza sul Clima di Parigi del 2015 (con l’obiettivo di mantenere il surriscaldamento del pianeta al di sotto dei 2 gradi, l’adesione degli Stati Uniti e la programmazione di finanziamenti per mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici nelle aree più arretrate), rappresentano lo scenario entro cui i paesi avanzati debbono guardare al superamento dell’attuale fase di depressione, di cui sono protagonisti, tenuto conto del processo di sviluppo che si è innescato nelle economie di nuova industrializzazione a partire dal nuovo millennio.
Ma se le economie avanzate e in corso di industrializzazione saranno in grado di contenere l’impatto sul cambiamento climatico lo si dovrà anche alla loro capacità di innescare adeguati processi di innovazione dei sistemi produttivi. Non è un caso infatti che a partire dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto nel 2005 – con il quale per la prima volta venivano definiti obiettivi di abbattimento dei gas serra – lo sviluppo di tecnologie per la riduzione della pressione ambientale, rilevato attraverso le statistiche sui brevetti, abbia registrato un andamento esponenziale e in accelerazione rispetto alla dinamica tecnologica complessiva (I. Haščič e M. Migotto, Measuring environmental innovation using patent data, Oecd WP n.89, 2015).
Fuck The Constitution! Da più fronti arriva un forte attacco alle nostre libertà e diritti, fino alla loro finanziarizzazione
1) Da tempo, in diversi articoli, ho parlato di progetto di "finanziarizzazione dei diritti costituzionali". Ovvero, quei diritti non saranno più diritti, bensì benefici derivanti da investimenti (o estorsioni) finanziarie. Casa, salute, vecchiaia dignitosa, istruzione, eccetera.
Il vampiresco progetto renziano che prevede che le persone anziane si indebitino per un quarto di secolo con le banche per avere la pensione (sperando ovviamente che crepino prima, tanto il debito passerà agli eredi, ma non la pensione) è diretta conseguenza di questo progetto.
Fu una delle prime controriforme attuate da Pinochet dopo il suo sanguinoso golpe.
Ve lo ricordate "Allende! Allende! El pueblo te defiende!". Chi ha la mia età se lo ricorda.
Ma di solito chi ha la mia età ed era di sinistra oggi continua a votare PD.
E chi è ospite in questi giorni del gruppo renziano "Scelta Civica"? Pensate un po': proprio Josè Piñera, il ministro di Pinochet che attuò la famigerata controriforma.
Evidentemente il PD studia le "best practices". A scuola dai fascisti. Come se non gli bastasse il suo sostegno alla Guardia Nazionale Ucraina e ai suoibattaglioni con le svastiche (altri ospiti e altra storia, già raccontata).
Questa è a conti fatti una storia, una storia dell’America Latina nell’ultimo quarto di secolo, vale a dire più o meno dal disastro dei governi di destra, che si insediano e propugnano politiche liberiste in quasi tutto il continente all’inizio degli anni Novanta, attraverso la decade dorata 2003-2013 che vede affermarsi molti governi con posizioni progressiste quando non apertamente rivoluzionarie all’attuale prospettata rimonta dei liberali; le categorie chiave scelte dagli autori sono tra le più controverse oggi: il socialismo del XXI secolo e il populismo.
Si tratta in entrambi i casi di fenomeni di difficile definizione, il primo pare essere anche una conseguenza del secondo, si tratta cioè di un socialismo che ha spostato il suo nucleo fondamentale dalla collettivizzazione a seguito di un fisiologico conflitto tra classi, a una redistribuzione di mezzi e poteri a seguito di precedenti sperequazioni, tramite una lotta che spesso in quei paesi ha coloritura e respiro nazionalistico e che viene presentata e in parte condotta come “la lotta di tutti gli oppressi contro tutti gli oppressori”.
Naturale dunque che di conseguenza i socialisti del XXI secolo siano anche i populisti del XXI secolo, dove per populismo bisogna intendere non la demagogia ma uno schema interpretativo semplificatorio dei rapporti politici che pone da una parte il popolo, portatore di diritti, virtù e salute, dall’altra i suoi nemici esterni ed interni allo stato, generalmente portatori di interessi, sopraffazione, corruzione. Il populismo è, per eccellenza, la mistica politica dell’indistinto, una potente arma di rappresentazione mitica.
L’economia è una scienza? I modelli elaborati dagli attuali economisti neoclassici hanno lo stesso potere predittivo delle teorie fisiche? Sono domande importanti perché come i modelli dei fisici sono usati per costruire razzi che mandano in orbita satelliti che ci permettono di usare i nostri smartphones e internet, così i modelli degli economisti neoclassici sono usati dai politici per prendere decisioni che hanno conseguenze sui servizi pubblici, sull’economia reale e sulle nostre scelte di vita. A quanto emerge da una recente disamina l’economia neoclassica può essere classificata come pseudoscienza e comporta una serie di conseguenze negative a vari livelli: in politica, nella società, nella cultura e nella ricerca scientifica. Di questo si discute nell’intervista con il fisico Francesco Sylos Labini.
Un modello teorico
che ambisca a diventare una spiegazione scientifica della
realtà dovrebbe produrre predizioni su fatti nuovi che
permettano di controllarne
l’affidabilità ed eventualmente confutarlo. Il successo
empirico è un buon indicatore, non certo infallibile,
dell’alta
probabilità che una teoria possa aver colto una qualche
regolarità della realtà, e possa conseguentemente divenire
utile per
pianificare azioni sulla stessa realtà. Un modello ipotetico
che abbia ambizioni esplicative ma che fallisca il controllo
empirico dovrebbe
essere abbandonato dai ricercatori, e questo solitamente
avviene nelle scienze sperimentali. Talvolta è possibile
aggiungere ipotesi
ausiliarie, ad hoc, che temporaneamente coprano le
falle della teoria, ma un eccessivo accumulo di queste
anomalie è segno di scarsa
salute della teoria stessa, che andrebbe sostituita con una
più aggiornata. Capita tuttavia che una comunità scientifica
si affezioni
particolarmente a un modello esplicativo e si dimostri
talvolta restia ad abbandonarlo, nonostante i suoi ripetuti
fallimenti predittivi. Se le
resistenze sono dovute a convinzioni arbitrarie derivanti da
una determinata visione del mondo (Weltanschauung),
e non da ragioni veramente
scientifiche, la teoria difesa strenuamente assume i
caratteri della pseudoscienza.
Rivolgeremo qui alcune domande a Domenico Losurdo, professore emerito presso l’Università degli Studi di Urbino, a partire dalle sue due più recenti pubblicazioni La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma–Bari 2013 (abbreviato “LC” e seguito dal numero di pagina dopo la virgola) e La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma 2014 (abbreviato “SA” e seguito dal numero di pagina dopo la virgola)
Gargani: Nel marxismo italiano,
dal secondo
dopoguerra, si possono – con le dovute cautele
storiografiche – rintracciare tre filoni fondamentali. Il
primo è quello storicista,
ossia il canone interpretativo del PCI, impostato nelle sue
linee essenziali da Togliatti e ispirato a una lettura di
Gramsci quale culmine di
un’ideale linea De Sanctis-Labriola-Croce. Il secondo è
quello operaista, la cui simbolica data d’inizio può esser
fatta
risalire alla fondazione nel 1961 della rivista «Quaderni
Rossi» e che ha annoverato tra le sue fila personalità
differenti per
formazione e provenienza politica come Tronti, Panzieri,
Asor Rosa, Negri e Cacciari. Il terzo è quello del
cosiddetto
“dellavolpismo” che, attraverso soprattutto la produzione di
della Volpe e Colletti, ha cercato di dare una lettura in
chiave scientifica
della Critica dell’economia politica di Marx,
marginalizzandone la produzione giovanile e accentuandone
allo stesso tempo la distanza da Hegel.
In che modo ha letto Marx negli anni della sua formazione?
Come colloca la sua interpretazione di Marx rispetto a
questi tre filoni?
Losurdo: Non metterei sullo stesso piano i tre filoni. Il richiamo a Labriola e ancor prima al Risorgimento non impedisce a Togliatti di mettere l’accento sulla questione coloniale (ignorata da Labriola, che celebra l’espansione italiana in Libia) e di denunciare (con Lenin) la «barbara discriminazione tra le creature umane», propria del capitalismo e dello stesso liberalismo.
Brexit: succede purtroppo grazie a un movimento egemonizzato dalle destre. Quando ci sbarezzeremo del ciarpame ideologico e ci metteremo a lavorare per un’alternativa populista di sinistra?
Il
senso più profondo della vittoria della Brexit riguarda il
fatto che il terrorismo politico mediatico non riesce più a
condizionare la
rabbia popolare contro quell’istituzione profondamente
antidemocratica che è la UE: una struttura burocratica non
eletta, strumento di
dominio del capitale globale e delle élite ordoliberiste. Era
già successo con il referendum greco, ma Tsipras non ha avuto
le palle di
rispettare la volontà del proprio popolo di riconquistare la
sovranità sul proprio destino. Oggi succede in Uk, purtroppo
grazie a un
movimento egemonizzato dalle destre, a casua dell’ottusità di
una sinistra (inglese ed europea, riformista e radicale, con
pochissime
eccezioni) che si ostina a vedere nell’Europa una garanzia di
pace!? (e la guerra in Ucraina? e l’accordo con la Turchia
fascista per
deportare i migranti? e i muri eretti dai membri fascistoidi
della Ue? e il TTIP? e le feroci politiche antioperaie e
antisindacali? e lo
smantellamento del welfare?).
Bisogna essere idioti per vedere in tutto ciò degli “errori di rotta” correggibili dall’interno con adeguate riforme. E bisogna essere irresponsabili per consegnare alle destre il monopolio della rivolta contro la tecnocrazia europea.
L’affermazione
dell’“exit” al referendum britannico apre una crisi che oggi
vede uscire il Regno Unito dall’Unione Europea e che in breve
tempo potrebbe vedere sgretolarsi l’eurozona. È il caso di
dire che i nodi vengono sempre al pettine, e per una volta
nessuno
potrà dire che gli economisti non avevano avvertito.
Già nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera pubblicata da economiaepolitica.it e sottoscritta da trecento economisti italiani e stranieri, lanciò un allarme sul modo in cui i governi europei reagivano alla crisi e soprattutto sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità” imposte dai Trattati, che avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Ma quell’allarme rimase inascoltato.
Nel novembre 2013 il Financial Times pubblicò il “monito degli economisti”, con il quale insieme ad alcuni celebri studiosi di tutto il mondo sostenevamo che in assenza di una svolta espansiva e di uno sforzo concertato per la ricomposizione dei crescenti squilibri macroeconomici, l’Unione Europea non avrebbe potuto reggere, e la stessa esperienza della moneta unica si sarebbe esaurita. Il “monito” sottolineava il “carattere asimmetrico” della crisi, evidenziava i processi di divergenza impetuosi tra Paesi che traevano vantaggio dal quadro di regole europee (Germania in testa) e paesi che invece ne subivano le conseguenze.
Democrazia dei popoli ed euforia delle Borse sono incompatibili, ce ne faremo una ragione. Morto subito il Ttip comincia la fine dell’Ue. Oggi in Gran Bretagna domani in Italia e in tutta Europa. Viva la Brexit, ora Renxit e poi Italexit
Smentendo tutti i sondaggisti e
tutti i palazzi del potere, e
anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime
nostre, il popolo britannico ha detto basta alla UE. Lo aveva
fatto un anno fa anche il
popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo
governo si era piegato alla tirannia della Troika.
Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che Il gote re dei mercati e la democrazia sono incompatibili, e stare con chi sceglie la democrazia.
Con questo voto muore subito il TTIP, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della UE dell’Euro delle multinazionali e delle banche e soprattutto dell’austerità. Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della UE perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche e furiose dei suoi leader.
Lo storico risultato del referendum in Gran Bretagna. Un voto di classe saluta l'UE: Leave 52% - Remain 48%
Il
mostro denominato UE ha perso un pezzo. E che pezzo! I 28 sono
diventati 27. I sudditi delle oligarchie euriste sono scesi da
503 a 441
milioni. E si potrebbe continuare. Ma per adesso fermiamoci
qui, che ce n'è già abbastanza per capire a quale livello è
ormai
giunta la crisi europea.
Questa crisi politica sarebbe andata avanti anche se il risultato fosse stato opposto, ma ora gli elettori del Regno Unito hanno detto una cosa più chiara: dall'UE si può uscire. Per noi un'ovvietà, ma andatelo a spiegare alle frotte di giornalisti e commentatori che ieri sera - sulla base di un semplice sondaggio commissionato dagli hedge fund - già brindavano sguaiatamente al successo del Remain. Per loro un risultato obbligato e senza alternative...
Da sempre, per costoro, la rottura dell'UE sarebbe fonte delle più tremende sciagure, quando invece per la povera gente la sciagura è proprio la gabbia europea, concepita giusto per affermare il dominio assoluto delle oligarchie finanziarie. Da qui i trattati che hanno trasformato in leggi i dogmi del neoliberismo, il dominio della logica dei mercati, i tagli salariali, l'attacco sistematico ai diritti del popolo lavoratore, l'austerità a vita e chi più ne ha più ne metta.
Un pazzo o un provocatore manovrato? Chi ha davvero ucciso la deputata anti-Brexit?
Intanto gli europeisti festeggiano...
Vogliamo iniziare dicendoci subito la verità senza troppi preamboli? Bene, la verità che tutti possono vedere è che il fronte europeista è in festa. Il resto è solo ipocrisia. Come quella de la Repubblica: «Le borse - tristemente - reagiscono positivamente all'assassinio della deputata laburista inglese». Tristemente ma positivamente. Possiamo immaginarci la tristezza...
L'odioso omicidio della parlamentare laburista Jo Cox ha innescato un'ipocrisia altrettanto ripugnante. Il fronte europeista, ormai a corto di argomenti e sotto nei sondaggi, ha adesso un'arma in più, forse quella decisiva. E mentre finge di piangere la vittima dell'attentato, se potesse erigerebbe un monumento all'assassino, quel Thomas Mair che si dice sostenitore dei neonazisti americani della National Alliance. Un ambientino, quest'ultimo, che non è difficile immaginare quanto sia infiltrato dall'intelligence americana.
I "mercati", i famosi mercati finanziari, ormai l'unico luogo al quale i fanatici europeisti riconoscono il diritto di decidere, hanno effettivamente già salutato con entusiasmo l'uccisione della Cox.
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Lawrence Summers
è una superstar tra gli economisti borghesi. Ha ricoperto
posizioni direttive alla Banca Mondiale, al Dipartimento del
Tesoro USA e più
di recente nell'amministrazione Obama. Oltre all'insegnamento
ed agli incarichi amministrativi, ha svolto consulenze e
collaborato con istituti
finanziari. La sua consulenza è ricercata da governi e
multinazionali. E non si è mai fatto intimidire dalle
posizioni contrarie.
Fin dal crack del 2008, gli economisti mainstream hanno nascosto i loro peggiori timori per arrivare oggi a definire l'evento come un rallentamento insolitamente brusco del ciclo economico. Naturalmente gli economisti si dovevano arrampicare sui vetri per spiegare il collasso virtuale del settore finanziario, il panico e l'andare in fumo di migliaia di miliardi di dollari.
All'epoca, dominava una disperazione generalizzata, una sensazione diffusa di incombente tragedia. Ma, con una memoria corta, gli economisti hanno ricostruito l'evento come un severo, ma gestibile (e gestito) aggiustamento periodico del normale corso del capitalismo.
All'alba della crisi, i commentatori ammettevano una lenta "guarigione", ma tuttavia concordavano sul fatto che l'economia globale fosse rientrata in rotta.
Summers dissentiva da questa visione, come avrebbe dovuto.
L’ultimo libro scritto da Luciano
Gallino prima della sua scomparsa (L. Gallino, Il denaro,
il debito e
la doppia crisi, spiegata ai nostri nipoti, Einaudi,
Torino, 2015) fa parte di quelle indagini economiche e sociali
che non negano le
contraddizioni capitalistiche, pur non utilizzando a pieno gli
strumenti di comprensione del materialismo storico e della
critica all’economia
politica di Karl Marx. Tuttavia, la questione ecologica e
soprattutto le colpe dell’attuale situazione ambientale nel
mondo non vengono
imputate, come in genere si suol fare, a un generico e
impalpabile responsabile collettivo quanto, invece, vengono
ascritte direttamente alla cerchia
capitalista che governa il mondo dell’industria e della
finanza mondiale.
Sia l’approfondimento sulla cosiddetta «finanza del carbonio», sia la lettura classista su cui Gallino struttura, sulla falsariga di movimenti come Occupy, la contrapposizione tra un’élite mondiale del 1% e un proletariato del 99%, comunque privo della necessaria coscienza di classe, offrono però un grosso numero di spiegazioni sintetiche sulle dinamiche del capitalismo, sul ruolo e le funzioni della finanza, sul perché della crescita del debito pubblico e sui meccanismi tipici dell’irrazionalità di questo modo di produzione attuale.
Nella stagione neoliberista la sussunzione della società nel capitale è completa. La resistenza si qualifica quindi in maniera diversa rispetto al passato perché non può essere semplicemente espressione della difesa di interessi particolari, ma, data la rottura unilaterale e drastica del patto sociale da parte del capitale, deve diventare necessariamente espressione di interessi sociali e perciò immediatamente politici.
Viviamo in un tempo che ha esteso il potere capitalistico della fabbrica alla società tutta. Il potere capitalistico si manifesta in tutte le dimensioni e articolazioni del sociale. Le forme economiche dello sfruttamento, cioè l’organizzazione capitalistica della società, è mutata nelle attuali condizioni. Questo deve essere presente nel nostro impegno, la consapevolezza di questo passaggio.
La voracità onnivora del capitale che vuole annullare ogni forma altra dal suo modello di società si manifesta oltre ogni misura umana immaginabile di sfruttamento e di ipotesi di guerra. Pertanto è necessario definire e praticare ogni misura che sfugga al comando capitalistico. In questa situazione non c’è altra alternativa. Il controllo nazista della popolazione, la criminalizzazione della povertà, la centralità della guerra e la guerra infinita corrispondono a questa società, al disegno imperialistico attraverso la società neoliberista. Il capitale che si è sviluppato oggi come sussunzione reale della società rappresenta la forma più alta dell’autoespansione capitalistica.
L’attualità del dibattito sull’economia è caratterizzato dal prefisso “post” – dalla società “post-industriale”, fino al più recente “post-capitalismo” – dopo decenni trascorsi a declinare strutture e sovrastrutture come qualcosa di inedito a cui ci si riferì introducendo un altro prefisso “neo”: neo-capitalismo, neo-liberismo. Già allora però un post si aggirava sui giornali, nelle aule delle università, era il “post-fordismo”. Siamo alla fine degli anni Settanta; l’ondata di mobilitazione della classe operaia, la crisi petrolifera e la saturazione del mercato dei beni ormai di massa prefiguravano, secondo un’interpretazione diffusa, il declino del paradigma socio-economico che aveva pervaso il XX secolo, il Fordismo. Quell’idea di gerarchizzazione della produzione e dell’intera società che dagli Stati Uniti trovò espressione in Europa ma anche nel blocco Sovietico, declinandosi di volta in volta in modo differente. Un capitolo di storia che tuttavia non è facilmente archiviabile, perché “il concetto di fordismo era ed è noto ma non conosciuto”. Così Bruno Settis, autore di Fordismi. Storia politica della produzione di massa (Il Mulino 2016), ci avvia alla conclusione di un excursus storico su quel che è stato e ha rappresentato il fordismo tra le sponde dell’Atlantico e del Pacifico. Il libro ripercorre non soltanto i connotati economici della produzione di massa nei diversi Paesi, il ruolo determinante della dialettica tra potere politico e potere economico, ma anche l’elevato dibattito che attorno a queste mutazioni socio-economiche si andava sviluppando.
E così, tra alti lai dei partiti tradizionali, pianti dei soliti raccomandati, contumelie dei palazzinari e giubilo del popolo che le ha votate, Roma e Torino hanno una sindaca del M5S. Grande sorpresa a Torino, dove si pensava che il vecchio Fassino avrebbe comnque prevalso, come peraltro indicavano le previsioni della vigilia. Ma mai fidarsi dei sondaggi che con il fiuto politico non hanno niente in comune. E questo diceva che la gente ha grande voglia di cambiamento e di facce nuove. Ma si sa che i politici sono istupiditi e resi sordi dalla loro arroganza, e le capacità di analisi e di ascoltare la gente le hano buttate nel cestino della spazzatura. Meglio così, ora la possibilità di cambiare è concreta e c’è del gusto a rottamare chi si era presentato come un rottamatore.
Quanto concreta? Ho scritto che non ho avuto una grande impressione dalla neo sindaca di Roma, e tanto meno del suo rivale Giachetti. La ragione, è soprattuto legata a quello che ho sentito sull’economia e la finanza della capitale. La neo sindaca ha fatto riferimento al Sardex, probabilmente senza sapere di che parlava, come spesso accade a chi affronta questi temi, e Giachetti l’ha presa in burletta, pensando di fare lo spiritoso e snza rendersi conto che così faceva la figura del cretino. L’alternativa è che sia un servo del sistema finanziario. Per me sono entrambi da rottamare, per cui la scelta tra le due alernative è indifferente.
Due dati parlano di un avvenuto inserimento organico del movimento 5S nel contesto politico del paese: la sua capacità di drenare voti sulla destra e sulla sinistra, configurandosi, lo si è detto subito, come vero partito della nazione, e una rappresentazione altissima del voto giovanile che sembra aver trovato in questa offerta politica lo stimolo utile per uscire dall’assenteismo. La ragione di tutto ciò sta nella profondità della crisi sociale. Dopo anni di separazione la società e la politica sembrano essere tornate a parlarsi, determinando un risultato ben più importante e radicale degli scontri tra sindacato e polizia che abbiamo visto nelle piazze di Parigi.
Che di crisi sociale si tratti lo ha riconosciuto apertamente Piero Fassino, dicendo la verità solo nel momento amaro di una sconfitta che lo consegna al passato, ma dimenticando di aggiungere che di questa crisi è pienamente corresponsabile il Partito democratico con il suo incondizionato appoggio a politiche di austerità che risalgono ai tempi del centrosinistra. Il dato, assolutamente centrale, è invece ancora rigorosamente occultato da Massimo Cacciari che, coscienza inquieta e naturalmente “disincantata”del renzismo, nelle sue maratone televisive non cessa di spronarlo e di volerlo, ad onta di tutto, sempre più forte e più bello. Mente invece consapevolmente Renzi quando interpreta il voto come una richiesta di “cambiamento”.
1. Gli
operaisti
e l’operaismo
L’esperienza dell’operaismo italiano è tra le più significative della storia politica e intellettuale dell’Italia repubblicana. Il fatto che nasca all’interno delle turbolente vicende che hanno interessato il movimento operaio dalla fine degli anni ’50 alla fine degli anni ’70 evidenzia la particolarità di quella che è stata definita la differenza italiana2. Secondo Michael Hardt
in Marx’s time revolutionary thought seemed to rely on three axes: German philosophy, English economics and French politics. In our time the axes have shifted so that, if we remain within the same Euro-American framework, revolutionary thinking might be said to draw on French philosophy, U.S. economics and Italian politics3.
L’operaismo costituisce uno dei fondamenti teorici di queste «Italian politics». Il pensiero operaista non può però essere considerato un insieme organico, ma, piuttosto, una coalescenza di esperienze soggettive animate da un desiderio collettivo: partecipare teoreticamente e praticamente al conflitto sociale in atto in Italia tra gli anni ’60 e gli anni ‘70.
“La storia della specie e ogni esperienza individuale trasudano prove che non è difficile uccidere una verità e che una bugia ben raccontata è immortale”. (Mark Twain)
“La libertà è stata perseguitata su tutto il globo; la ragione è stata fatta passare per ribellione; la schiavitù della paura ha reso gli uomini timorosi di pensare. Ma tale è l’irresistibile natura della verità che tutto ciò che chiede, tutto ciò che vuole, è la libertà di apparire” (Thomas Paine, 1791)
“E’ mai concepibile che una democrazia che ha rovesciato il sistema feudale e ha sconfitto sovrani possa arretrare davanti a bottegai e capitalisti?” (Alexis de Tocqueville)
C’è una
resistenza, addirittura un’avanguardia? Regime change!
Si parte con una campagna di demonizzazione del leader e del suo regime. Si attivano per la bisogna Amnesty International, Human Rights Watch, Reporters Sans Frontieres, Medicins Sans Frontieres, Soros, house organs coperti, come “il manifesto”, Ong del posto o, in mancanza, del circondario. Cotti ben bene i neuroni di un’ampia opinione pubblica trasversale, ci si prova con una rivoluzione colorata. Se localmente difettano le basi materiali, umane, come nel caso dell’Eritrea, se ne inventa una esterna, della dissidenza in esilio, possibilmente a Washington e in mancanza di massa critica si fa un fischio alle presstitute e i media sopperiscono. Se poi tutto questo non fa vacillare il reprobo, valutata l’ipotesi di un approccio da dietro col sorriso, alla cubana, vietnamita o iraniana, e trovatola impraticabile di fronte all’ostinazione dell’interlocutore, si passa alle maniere forti: sanzioni per ammorbidire ogni resistenza popolare, suscitare lacerazioni sociali e malumori nei confronti dei vertici che preparino il terreno all’intervento armato. Diretto, perchè condotto con istruttori, armamenti, finanziamenti e forze speciali proprie, ma occultato dall’impiego visibile e teletrasmesso di sicari surrogati, tipo Isis o nazisti di Kiev. Nel caso in esame, etiopici.
In quest'articolo, Roswhita
Scholz discute le recenti teorie della colonizzazione nel
contesto del "Collasso della modernizzazione". Tali teorie
hanno guadagnato slancio nel
dibattito interno alla sinistra, almeno a partire dal crollo
del 2007/2008. Secondo Klaus Dörre, l'assunto di base,
nonostante tutte le
differenze di ciascun approccio, è quello per cui il
capitalismo ha bisogno di un esterno per poter continuare ad
esistere. Assai spesso, si
presuppone una "accumulazione primitiva" che si ripete
successivamente. Quest'accumulazione non viene considerata
limitata ai primordi del
capitalismo, ma viene bensì dichiarata essere la legge
centrale eterna del capitalismo. Scholz, in questo saggio,
contrappone al teorema della
colonizzazione, e alle corrispondenti ipotesi di una
"accumulazione primitiva" permanente, la dinamica essenziale
del capitale come "contraddizione in
processo". Per evidenziare le differenze relative alla
critica della dissociazione-valore, Scholz si focalizza sui
concetti di colonizzazione di Klaus
Dörre e di Silvia Federici - preminenti in Germania e non
solo - a partire dai quali si può attribuire a Dörre un
orientamento
più sindacale e a Silvia Federici un orientamento più
operaista-femminista. In questo contesto, l'articolo
prosegue affrontando anche la
dimensione delle attuali guerre civili mondiali, trascurata
da Dörre e da Federici.
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di Aldo Giannuli
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Arroganza ed odio di classe. Questi
i due ingredienti proposti dalle èlite, e dai loro media, in
questi giorni. L'arroganza di chi ha perso e non accetta
l'esito del referendum
chiedendo di ripeterlo, l'odio di classe di chi non accetta
che i poveri possano votare in maniera opposta ai loro
desideri.
I tempi non gli consentono di chiedere il ripristino del voto per censo, ma l'odio verso le classi popolari di cui gronda la stampa mainstream dopo la vittoria della Brexit non ha precedenti almeno negli ultimi settant'anni. Su questo tema vi proponiamo un breve ma efficace articolo di Daniele Scalea.
La cosa più opprimente del Brexit non sono i mercati che crollano (salvo fenomeni di isteria collettiva, non c'è nessuna condizione oggettiva per un crisi stile 2008), ma le analisi di sociologia spiccia e patetismo spinto sugli sventurati giovani-colti-e-ricchi battuti dai malvagi vecchi-ignoranti-e-poveri (fatevi un giro sul vostro social network preferito per averne abbondanti esempi).
Ci siamo
lasciati il 16 giugno dicendoci che la Brexit, comunque
andasse, sarebbe stata un insuccesso per Bruxelles.
Minacciando di ritorsioni uno stato che
intendeva avvalersi del diritto di recesso previsto dal
Trattato di Lisbona, i vertici delle istituzioni europee
confessavano vuoi la loro intenzione
di non far rispettare un patto sottoscritto, del quale essi
sono garanti, vuoi che questo patto contiene clausole
inapplicabili, perché
destabilizzanti, e quindi va ripensato. Quanto ai nostri amici
tedeschi, primo fra tutti il ministro Schäuble, si sono messi
come al solito in un
vicolo cieco: se attuano le loro minacce danneggiano
sopratutto la loro economia, la più legata a quella
britannica, e fanno capire agli altri
membri che l’UE più che a un club somiglia a un lager; se non
le attuano diventano poco credibili. Niccolò Machiavelli, o
John
Nash, che in tempi diversi hanno studiato la teoria dei giochi
strategici, si rivoltano nelle rispettive tombe. Ora l’evento
si è
verificato.
Ricordiamo intanto che quello svolto è un referendum consultivo, al qualre dovrebbe seguire una domanda formale di recesso da parte del governo britannico. Quando e se questa sarà inoltrata, si avvierà la procedura, lunga due anni, nel corso dei quali avremo tempo di tornare sui tanti dettagli tecnici. Intanto, però, una cosa è certa: la prima vittima della Brexit rischia di essere la credibilità degli economisti. I due mesi precedenti al referendum hanno visto un florilegio di appelli accorati da parte di colleghi che unanimi prevedevano catastrofi in caso di Brexit. Ma qual è la base fattuale di queste profezie?
Al
cuore del vero e proprio terrore che sta
rappresentando la Brexit per il ceto politico europeista sta
un dato: a differenza della
Grecia, la Gran Bretagna non fallirà. Anzi, come timidamente
stanno dicendo diversi economisti, l’indebolimento della
sterlina e la
riappropriazione di alcuni strumenti economici non più mediati
da Bruxelles, dovrebbe aumentare addirittura la competitività
del paese.
Un discorso che ci interessa il giusto, tutto interno alle
classi dominanti inglesi, ma il fallimento dell’unica
“narrazione forte”
agitata dalla Ue contro ipotesi di uscita sta terrificando i
commentatori filo europeisti. Fuori dalla Ue non c’è il
paventato disastro
sociale e politico. Se disgraziatamente la Gran Bretagna
dovesse continuare a crescere economicamente, lo spettro
ideologico verrebbe meno e a quel
punto ogni altra argomentazione si scontrerebbe col principio
di realtà per cui l’Ue non è il nostro unico orizzonte.
In questa maratona dialettica che ha mobilitato tutti i pasdaran europeisti, l’altra “narrazione forte” è data dallo “scontro generazionale” disegnato dal voto: da una parte i vecchi, reazionari e xenofobi, dall’altra i giovani, progressisti e cosmopoliti.
Ho avuto modo di vivere nella
«parte povera» del Regno Unito, nel Nord Ovest dello Yorkshire
in una delle tante sfaciatissime cittadine (sarebbe meglio
definirli
ghetti) di proletari inglesi e immigrati polacchi, dove
lavoravo in una fabbrica del posto.
Non ho alcuna pretesa di fare un «analisi del voto», altri ben più preparati di me sapranno farla molto meglio, tuttavia avendo vissuto e lavorato qualche anno proprio con quelle persone, quella classe sociale che ha votato per l’uscita dalla UE, non mi trovo d’accordo col la vulgata massmediatica in corso.
Prima di tutto guardiamo bene questi due grafici:
Il terremoto
è in pieno corso e sui giornali si leggono deliri uno peggiore
dell’altro. Il più diffuso è quello che “legge”
il risultato come una lotta fra vecchi egoisti e
giovani, incuranti del fatto (notato
dal
solo Enrico Letta) che i giovani hanno votato
solo nel 36% del totale, mentre gli anziani hanno votato
nell’83%.
Quindi, considerato che secondo gli stessi “raffinati” analisti che parlano di massiccio voto giovanile per la Ue, c’è pur sempre un 25% di essi che ha votato per la Brexit, questo significa che, sul totale dei giovani inglesi, i due terzi si sono chiamati fuori, il 36% ha votato contro la Brexit ed il 9% a favore. Praticamente i favorevoli sono poco più di un po’ di fighetti in Erasmus e simili: niente di politicamente significativo.
Seconda bufala propalata dai giornali (solo quelli italiani, però, visto che quelli inglesi ignorano il fatto così come la maggior parte di quelli del resto d’Europa): 2 milioni di firme per un secondo referendum sullo stesso tema. Insomma, il girone di ritorno. Solo che:
1. si tratta di firme on line non certificate da nessuno e di persone che dichiarano di essere cittadini inglesi ma che nessuno può garantire siano tali (io sono molto perplesso dal metodo M5s delle consultazioni on line, ma a quelle, almeno, partecipano persone certificate!).
Al primo impatto ho trovato assai
divertente
l'idea per cui la decisione degli elettori britannici di
uscire dall'Unione europea sarebbe un fatto «di sinistra».
Pensandoci meglio,
è semplicemente «tragica». Brevissime considerazioni.
1) Innanzitutto, è stata la xenofobia a determinare il successo del leave, del voto per lasciare l'Unione europea, per un margine non grande. La linea anti-migrazione, diretta non soltanto contro gli extracomunitari ma anche verso i cittadini europei, è stata condita, è vero, dalla demagogia antiplutocratica di destra e liberista nei confronti dei burocrati di Bruxelles e delle «banche». Non a caso si tratta di un successo elettorale che fa esultare la destra-destra e l'estrema destra europea, dal Front National alla Lega Nord ad Alba Dorata. Insomma, sul piano concreto e dei grandi numeri, la mobilitazione (elettorale) contro l'Ue si esprime con una forte connotazione nazionalista xenofoba, spesso ultraneoliberista.
2) Che si trattasse della tory Thatcher o del laburista Blair, in fatto di neoliberismo i governi britannici sono sempre stati più realisti del re: hanno considerato diverse normative europee troppo «di sinistra», facendo pressione per orientarle in senso più liberista. Il caso più chiaro è dato dal cosiddetto opting-out, cioè il diritto di non applicare decisioni dell'Unione, in particolare per quanto riguarda il «protocollo sociale» (per alcuni anni) e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Sondaggi smentiti, borse in
caduta libera e il
premier britannico David Cameron che annuncia le dimissioni:
il referendum sancisce la vittoria dei “sì” all’uscita del
Regno
Unito dall’Unione europea. Di questo risultato storico e
delle sue possibili conseguenze parliamo con Emiliano
Brancaccio, docente di Economia
politica presso l’Università del Sannio e promotore del
“monito degli economisti” pubblicato nel 2013 sul Financial
Times, un
documento che viene oggi ricordato per l’estremo scetticismo
sulla tenuta del processo di unificazione europea.
* * *
Professore, i sondaggi e i mercati davano per scontata la vittoria del “no” all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. L’onda della Brexit invece non si è fermata. Che lezione possiamo trarre da questo esito dai più definito inatteso?
«Non era inatteso per tutti. I sondaggi, in casi simili, non aiutano. Quanto ai mercati, smettiamola di pensare che gli speculatori siano dei veggenti: come diceva il premio Nobel James Tobin, al di là di rare eccezioni di solito quelli non sanno guardare oltre i prossimi dieci minuti».
Sapir analizza il voto sulla Brexit e le implicazioni politiche. Mentre alcuni nostri politici e commentatori si coprono d’infamia ripetendo che il Referendum non si sarebbe mai dovuto indire, i cittadini britannici hanno dato lezioni di democrazia resistendo a un’enorme pressione mediatica, ad allarmismi isterici e a reazioni emotive dell’ultima ora. La “sinistra” laburista, soprattutto, dovrà prendere atto di aver perso il contatto con il proprio elettorato, che non ha voluto difendere e che ora in parte consistente ha votato contro le sue indicazioni
Il voto di
giovedì 23 giugno è stato un momento storico cruciale. È stato
anche un grande momento per la democrazia. Il 51,9 percento
degli
elettori britannici ha votato per l’uscita dall’Unione
Europea, dando una lezione di democrazia al mondo e al vostro
umile servitore, e
probabilmente ha cambiato il nostro futuro.
Una lezione di democrazia
La lezione di democrazia è la cosa più importante e si articola su più livelli. Dobbiamo apprezzare la decisione del Primo Ministro britannico, David Cameron, di lasciare che le diverse posizioni divergenti si esprimessero, anche all’interno dello stesso partito conservatore e del governo. Allo stesso modo dobbiamo apprezzare la maturità degli elettori britannici che, pur legittimamente sconvolti dalla tragedia dell’omicidio della deputata laburista Jo Cox non si sono lasciati sopraffare dalle emozioni e hanno mantenuto ferme le loro posizioni in favore di un’uscita dall’UE.
Aspettatevi presto proposte di legge (probabilmente da sinistra) per togliere il voto agli anziani, ai malati e a chi è troppo povero o ignorante. In fondo hanno poco da vivere e comunque vivono male, e siccome non hanno soldi contribuiscono poco alla crescita economica; molti, pensate, manco usano lo smartphone e non vanno su facebook, cosa campano a fare? Di certo non dovrebbero avere una voce, un peso politico: sono solo parassiti, che con le loro assurde pretese di welfare, assistenza medica, pensioni, ostacolano l'ascesa dei rampanti.
Le rabbiose reazioni a Brexit hanno rivelato gli effetti
profondi della deregulation morale e culturale praticata dal
liberismo (e dai lib-lab):
tanti giovani europei pensano che il mondo sia loro e solo
loro; che tutto sia loro dovuto per ragioni anagrafiche; che
anche la democrazia sia un
diritto generazionale.
Siamo regrediti di un secolo, a livello della guerra igiene
del mondo esaltata dai futuristi, anch'essi dei
rottamatori del passato e dei grandi promotori di sé stessi.
Volevano bruciare i musei, ricorderete; e naturalmente sono tutti finiti nei musei.
Naturalmente dietro ci sono la finanza globale e i suoi media.
La vittoria del "Leave" c'entra poco con l'Europa e molto con le politiche uguali in tutti i paesi, o per convinzione o per costrizione, che stanno provocando dovunque un rigetto verso chi governa. Se le élites al potere si arrenderanno all'evidenza l'uscita dell'Uk e le sue conseguenze potrebbero essere l'occasione per rivedere radicalmente il progetto europeo, ma questo non è affatto scontato
Adesso che il voto inglese è andato come nessuno dei poteri internazionali voleva che andasse è importante vedere quale analisi si farà di questa vicenda. La spiegazione che questi poteri si daranno - o meglio, quella che daranno "ufficialmente", a prescindere da ciò che effettivamente pensino - sarà fondamentale per capire se si sono convinti che le politiche necessitino di una forte correzione di rotta oppure se resteranno sordi al profondo disagio che - elezione dopo elezione, in tutti i paesi europei - i cittadini stanno esprimendo con il voto.
Non c'è dubbio che la scelta degli inglesi in fondo con l'Europa c'entri poco. Basta guardare i grafici con l'analisi del voto pubblicati dal Guardian per capire che anche questo è stato un voto di protesta, l'espressione, appunto di quel grande disagio e scontento. Per il Brexit ha votato la parte meno istruita e a minor reddito, cioè quella parte su cui hanno più pesato la lunga crisi e le politiche di austerità. Il bello - si fa per dire - è che nel Regno Unito non c'è stata nessuna austerità dal punto di vista della politica di bilancio, visto che Cameron ha lasciato correre allegramente il deficit, la Bank of England è stata la prima a monetizzare massicciamente il debito e questo ha fatto salire il Pil molto di più della media europea.
Corrado Augias, un giornalista del tipo “sì, sono servile però con stile”, ha dichiarato che si può anche essere contro la riforma costituzionale fatta approvare da Renzi, ma riconoscendo gli alti intenti che l’avrebbero ispirata. Il problema è che se si concede la buonafede si finisce per concedere praticamente tutto, compreso il fatto compiuto. Un’altra trappola insita in questa situazione riguarda appunto il fatto compiuto che si cerca di imporre. Esso riguarda non solo e non tanto la pseudo-riforma costituzionale, con i suoi pasticci e i suoi inganni, come un senato venduto alla pubblica opinione come “abolito”, mentre invece sopravvive per innescare un estenuante conflitto di competenze con la Camera. Il vero fatto compiuto riguarda la delegittimazione operata nei confronti dell’assetto istituzionale, per cui si può respingere questa o quella riforma, ma sempre in nome di un’altra riforma. Una Costituzione deve necessariamente prevedere le procedure per farsi riformare, ma sta di fatto che ogni progetto di riforma costituzionale raggiunge un unico obiettivo certo: la delegittimazione e la destabilizzazione del quadro istituzionale vigente.
Adesso anche Renzi è stato destabilizzato dai rovinosi risultati elettorali del 19 giugno. Anche per Renzi, come già per il Buffone di Arcore, si potrà però costruire, a proposito della sua rovina, la fiaba sulle tristi conseguenze della sua “amicizia con Putin”. Mentre Renzi andava in Russia a sottoscrivere accordi miliardari per le grandi multinazionali italiane, l’Unione Europea riconfermava le sanzioni economiche contro la stessa Russia.
La strage di maestri da parte della polizia federale messicana pare proprio non interessare i grandi media italiani e internazionali. Nessuna commozione per le vittime di una vera e propria carneficina. Neanche i sindacati della scuola della civilissima Europa hanno speso una parola per denunciare l’accaduto, o quantomeno per deplorare il sangue versato.
Eppure si tratta di un episodio gravissimo, una strage da addebitare direttamente al governo del liberista Pena Nieto e ai suoi apparati repressivi. Gli stessi coinvolti nella strage degli studenti ‘normalistas’ della scuola rurale di Ayotzinapa, quando nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 2014 decine di adolescenti che protestavano contro l’esecutivo locale e statale vennero rapiti e uccisi da esponenti delle forze di sicurezza in combutta con l’esercito e alcune bande di narcos. A neanche due anni di distanza il terrorismo di stato si è scagliato di nuovo contro il mondo della scuola, ma questa volta prendendo di mira gli insegnanti.
All’inizio i media occidentali hanno preso per buona la confusa versione di comodo diffusa dalle fonti del governo di Città del Messico, dedicando alla vicenda poche e scarne righe: ‘sconosciuti’ avrebbero aperto il fuoco contro i maestri e i poliziotti che si fronteggiavano, causando alcuni morti e feriti.
Thomas Fazi e Guido Iodice hanno avanzato una proposta per stimolare le economie europee attraverso investimenti pubblici finanziati in deficit. Ecco perchè potrebbe funzionare
Guido
Iodice e
Thomas Fazi (I&F), anticipando un articolo che comparirà
sul Journal of Progressive Economy1
, hanno pubblicato una proposta molto interessante2
in merito alla possibilità di stimolare le economie
europee attraverso investimenti pubblici
finanziati in deficit.
Ciò che rende particolarmente interessante la proposta è che essa è organizzata in maniera tale da risultare “quasi fattibile” sul piano politico restando nello spirito delle regole stabilite dalla Commissione Europea e dalla Banca Centrale Europea (BCE). La proposta recupera in parte, e completa per altro verso, una simile fatta alla fine del 2011 da R.C.Koo, del Nomura Research Institute3 . I&F ritengono che se la BCE facesse sua la proposta in una delle sue possibili varianti ciò permetterebbe un notevole rilancio delle economie europee, limitando in tal modo il rischio di uscite dall’area Euro. Per essi c’è di più: tenuto conto dei vincoli politici, solo l’adozione di questo tipo di politiche “soft” potrebbe salvare l’Euro.
Fazi e Iodice partono dall’osservazione che le economie europee si trovano in una balance sheet recession (recessione da deterioramento dello stato patrimoniale).
Una lotta,
per
natura, non è un torneo amatoriale che possa concludersi per i
contendenti con la soddisfazione di aver partecipato. Ancora
meno nel caso della
– tanto entusiasmante quanto estenuante – mobilitazione contro
la Loi el Khomri che ha visto da quattro mesi a questa parte
centinaia di
migliaia di studenti, lavoratori, intermittenti e precari
francesi dispiegare una quantità eccezionale di energie
fisiche e morali per
resistere alle pressioni, e soprattutto alla repressione, del
governo Valls.
L’ultima grande giornata di sciopero nazionale interprofessionale, indetta dai sindacati tuttora contestatari lo scorso 14 giugno, è stata una sintesi paradigmatica, per quantità e qualità, dell’onda lunga di questo movimento. Un milione e 300mila persone in marcia in tutta la Francia secondo gli organizzatori, spezzoni compatti e rumorosi dei lavoratori che in queste settimane hanno riabitutato il paese al gusto un po’ retro della lotta di classe (uno per tutti quello dei portuali di Le Havre, a Parigi, che ha respinto le cariche dei celerini), centinaia di giovani fantasisti in testa alla parata parigina che dribblavano come potevano le granate scagliate dalla polizia, 1500 lacrimogeni lanciati solo nella capitale secondo Libération, centinaia di feriti da percosse e esplosioni (di cui uno molto grave la cui nuca bucata ha fatto tristemente il giro del web) stando alle stime di Streetmedics, le squadre mobili di volontari addetti al primo soccorso dei manifestanti.
Ci sono persone che con la loro
vita incarnano
lo spirito di un determinato tempo storico. Raccontare la vita
di queste persone è oggi più che mai fondamentale. Per molto
tempo i
contemporanei hanno avuto l’abitudine di rivolgersi al
passato, nel tentativo di cercare esempi di vita o
ispirazione. Poteva avvenire sia per
la costruzione di un immaginario legato al potere dominante,
sia per la costruzione di immaginari “altri”, popolari e/o
antagonisti. Negli
ultimi decenni abbiamo però assistito al venir meno della
capacità dei movimenti di classe o più genericamente di
protesta di
creare, attraverso battaglie culturali e/o politiche, un
immaginario conflittuale in cui i singoli individui potessero
riconoscersi, al di là
dello specifico vissuto personale.
Allo stesso tempo la società neoliberista, sulla spinta della vittoria ottenuta contro i movimenti rivoluzionari e della pacificazione armata che è seguita in Europa, ha dimostrato ancora una volta la capacità della società del capitale di sussumere i modelli di vita delle sottoculture, in diversi modi a seconda del livello di resistenza di cui i diversi segmenti di popolazione erano portatori, di appropriarsene e metterli a valore, evitando così anche la possibilità che una loro politicizzazione potesse farli diventare pericolosi.
Sapete cosa indica l’acronimo CMU? Se la risposta è no, dovreste preoccuparvi. Se la risposta è si, dovreste già essere preoccupati. Forse anche la parola cartolarizzazioni vi suonerà ostica. Ma se iniziamo a parlare di mutui subprime o di fallimento della Lehman Brothers, probabilmente tornano alla mente ricordi non troppo lontani. Ogni vertice internazionale si era chiuso con solenni promesse sul fatto che un disastro del genere non si sarebbe mai più ripetuto, che il colossale casinò finanziario sarebbe stato chiuso.
Era meno di dieci anni fa, ma sembra un’altra era geologica. Perché non solo poco e nulla è stato fatto, ma l’idea stessa di regolamentazione finanziaria è “passata di moda”. La tassa sulle transazioni finanziarie è impantanata da anni tra discussioni infinite. Di separazione tra banche commerciali e di investimento invece non si parla nemmeno più.
Al contrario, oggi si riparte come e peggio di prima. Malgrado le montagne di soldi immesse sui mercati dalla BCE con il suo quantitative easing, l’economia non riparte, la disoccupazione rimane inaccettabile, la fiducia è ai minimi, l’intero continente è sull’orlo della deflazione. Bene, la colpa non è di sciagurate politiche di austerità, di diseguaglianze inaccettabili, di un sistema finanziario fine a sé stesso che non sostiene l’economia ma la danneggia.
Intervista a Christian Marazzi, economista e analista del capitalismo finanziario: «Il piano del governo sull'anticipo pensionistico (Ape) trasforma i diritti sociali del Novecento in titoli finanziari. È la logica dei mutui subprime o del credito al consumo: anticipare per ipotecare il futuro. Stipulare un prestito con una banca per andare in pensione prima è una soluzione pericolosa e non risponde ai problemi della sostenibilità della sicurezza sociale»
Chi vorrà andare in pensione tre anni prima dovrà stipulare un prestito con una banca, garantito dallo stato e veicolato dall’Inps.
Christian Marazzi, economista e analista dei capitalismo finanziario, autore di libri come “E il denaro Va” e “Diario della crisi”, cosa pensa della proposta del governo Renzi?
Sembra di sognare. Devo dire che una cosa del genere fin’ora non l’ho mai vista proposta e tantomeno applicata altrove. Per il momento prendiamola solo come idea. Siamo nel pieno della bioeconomia nel senso della messa a valore finanziario della vita. Quella del governo italiano è una pura e semplice titolarizzazione dei diritti sociali. La sua logica assomiglia a quella delle strategie finanziarie che hanno portato alla catastrofe dei mutui subprime. Si vuole coinvolgere le banche e dare di nuovo una bella spinta alla privatizzazione di parti dello stato sociale.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini sostiene che questa non è una penalizzazione ma una rata di ammortamento, varierà a seconda della categoria dei lavoratori coinvolti e non graverà sui loro eredi.Quali rischi potrebbe comportare?
Quello di una cartolarizzazione sull’onda di quanto già sperimentato e che peraltro è una pratica ricorrente: questi titoli di credito cartolarizzato saranno sicuramente differenziati al loro interno, per quanto riguarda il rischio di rendimento e di ripagamento.
Qualche giorno dopo i ballottaggi che segnano l’inizio della fine per la stagione “renziana”, ci sembra utile vedere come “i mercati” intendono la politica. Utile per tutti, perché anche quando si arriva dentro le mitiche “stanze dei bottoni”, da cui si dovrebbe esercitare il potere, si scopre che in realtà sono stanze vuote. La testimonianza di Yanis Varoufakis, al suo primo giorno da ministro dell’economia greco, resta una pietra miliare per le illusioni riformiste (stupisce semmai che lui stesso non ne abbia tratto le necessarie conclusioni).
L’articolo apparso non per caso sul giornale di Confindustria, Il Sole 24 Ore, è altrettanto illuminante. Esplicito in modo quasi imbarazzante, se pensiamo a quanto il potere sia in genere attento a non apparire troppo invadente e sprezzante nei confronti delle classi popolari.
Un florilegio di affermazioni “economiche” che trasudano fastidio per la democrazia – anche quella “parlamentare borghese” -, per i bisogni della “gente”, per tutto ciò che complica il perseguimento del guadagno facile, veloce, sicuro, prevedibile.
Si comincia citando Joseph A. Sullivan, chairman e ceo di Legg Mason (colosso globale con 700 miliardi di dollari in gestione), costretto ad inserire anche la vittoria dei Cinque Stelle tra le variabili politiche dei suoi calcoli, insieme al rischio Brexit, le elezioni spagnole e l’incognita Donad Trump. Come se non bastassero i “normali” problemi di un sistema economico globale imballato:
Corsia preferenziale per i processi ai No Tav, mentre i reati da essi denunciati vengono trattati con tempi compatibili con la prescrizione
Il copione si ripete. Ieri mattina, appena ventiquattrore dopo il terremoto elettorale che ha rimesso in discussione, a Torino, gli equilibri politici intorno alla Nuova linea ferroviaria Torino-Lione, un ennesimo grappolo di misure cautelari si è abbattuto su esponenti del movimento No Tav. Ancora una volta le misure si riferiscono a fatti accaduti un anno prima (il 28 giugno 2015 intorno al cantiere della Maddalena di Chiomonte allorché un gruppo di dimostranti tentò e in parte riuscì ad agganciare e rimuovere, con un gesto di evidente significato simbolico, pezzi delle reti di recinzione).
Ancora una volta l’accusa è di resistenza a pubblico ufficiale (con l’appendice di alcuni reati minori). Ancora una volta gli indagati colpiti dalle misure sono, nella stragrande maggioranza, persone note nel movimento, ben conosciute dalle forze dell’ordine, non certo interessate a sottrarsi alle indagini con la fuga o a manomettere e inquinare le prove dei fatti.
Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Da oltre dieci anni i cittadini e le cittadine della Val Susa che si oppongono alla realizzazione del Tav sono oggetto di interventi repressivi di crescente gravità da parte della Procura della Repubblica e dei giudici per le indagini preliminari del Tribunale di Torino. Sono attualmente indagate in valle circa 1000 persone, di età compresa tra i 18 e gli 80 anni, per i reati più vari, a partire dalla mancata ottemperanza ai provvedimenti prefettizi che vietano la circolazione nella “zona rossa” prossima al cantiere della Maddalena di Chiomonte.
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[In passato LPLC ha pubblicato interventi molto critici nei confronti del Movimento Cinque Stelle. È probabile che lo faccia anche in futuro. Proprio per questo ci sembra interessante ospitare un punto di vista diverso e argomentato su un partito che rappresenta un fenomeno radicalmente nuovo nella vita politica italiana (gm)]
Oltre le reazioni epidermiche e
le analisi
generiche e consolatorie
La recente vittoria alle amministrative di Roma e Torino del M5S necessita di una riflessione attenta sulla natura del movimento creato da Grillo e ciò che esso rappresenta nel panorama politico italiano. Non si può liquidare con una scrollata di spalle un fenomeno che catalizza il 40% del voto operaio e raggiunge percentuali del 70% in quartieri popolari, raccogliendo l’adesione di una fetta importante di popolo della sinistra: da dirigenti FIOM ad attivisti No TAV. Purtroppo per anni, invece di tentare un’analisi seria, sine ira et studio, del movimento, militanti ed elettori hanno pensato di poter semplicemente catalogare il fenomeno in concetti preconfezionati, dedicandogli battutine sarcastiche ed altri esorcismi assortiti[1]. Al riparo della propria superiorità intellettuale e culturale, il “populismo” diventa la comoda categoria entro cui racchiudere tutto ciò che non viene compreso e che pertanto spaventa, sigillandolo là in attesa che tempi migliori siano propizi a scenari politici più graditi. E tuttavia elettori e classi sociali non aspettano i nostri tempi e se mai un tempo nostro ci sarà, potrà nascere solo dall’attiva preparazione con cui ne predisponiamo la maturazione.
Così, ad ogni tornata elettorale il voto per il M5S diventa un grosso problema di coscienza per chi a sinistra vorrebbe trovare una propria rappresentanza politica e se non trova (più) una forza adeguatamente rappresentativa delle proprie istanze, fa fatica a dare il proprio contributo all’affermarsi elettorale di un movimento “anti-sistema” che sente come ambiguo, forse “di destra”, se non addirittura “pericoloso” per la democrazia.
1. Dire che
la
situazione "è grave ma non seria" appare un
paradosso persino un po' logoro, alla luce della reazione del
sistema mediatico, e del suo
sovrastante concerto di forze dominanti.
Stiamo assistendo a tentativi di neutralizzazione dell'esito del referendum Brexit che, personalmente, come ho spiegato, ritengo assuma un valore più simbolico che relativo a contenuti significativi di un mutamento di paradigma politico-economico.
Si vuole, addirittura, che il referendum sia prontamente ripetuto e, per implicita logica, almeno fino a quando non si raggiunga la vittoria del "remain". Una petizione intenderebbe legittimare tale ripetizione del voto, salvo che non si comprende bene chi siano i "sottoscrittori".
2. In alternativa si propone che il referendum concernente scelte "importanti" debba avere almeno un quorum del 75% di votanti e del 60% di "favorevoli": notare che si adduce a sostegno il parere favorevole della Venice Commission UE, quella che ritiene che non il modello parlamentare-elettivo ma (v.p.2) un sistema di governance tecnocratico-finanziaria, modellato su quello della World Bank, debba governare l'€uropa.
Quindi neppure un 59% di voti pro-Brexit sarebbe considerato idoneo a scalfire il fogno e a far riflettere su come, in termini pratici e di obblighi di diritto internazionale già vigenti, l'effetto pratico della stessa Brexit non potrebbe mai essere traumatico come lo si dipinge, nella stucchevole campagna terroristica che, in Italia, raggiunge i suoi massimi vertici.
Cinque sono i dati salienti della tornata elettorale spagnola.
(1) In primo luogo il successo del Partito Popolare, ovvero della destra storica spagnola, erede diretta del franchismo. Dentro questo successo, quello personale di Rajoy, che ora riceverà il mandato per formare il governo. Molto probabilmente di "larghe intese" con il Partito socialista —così come chiedono le classi dominanti spagnole e gli oligarchi euro-tedeschi
(2) La sostanziale tenuta del Partito socialista che ha evitato l'annunciato sorpasso da parte di Podemos e può quindi, vendere cara la pelle nell'ipotesi di dover governare assieme a Rajoy e il partito Popolare.
(3) Il vero e proprio crollo di Ciudadanos, la neonata formazione neoliberista che, sul lato destro del panorama politico spagnolo, ha cercato di emulare Podemos.
(4) Il forte calo dei votanti. Un dato rilevante se si pensa che da sei mesi la Spagna era senza governo ed in una ininterrotta campagna elettorale ossessivamente alimentata dai media.
(5) La sconfitta elettorale di Unidos Podemos. L'alleanza tra il movimento di Pablo Iglesias e Sinistra Unita non solo non scavalca il Partito socialista, ma perde una milionata di voti rispetto ai voti che le due formazioni ottennero a dicembre.
Nella tua esperienza di scrittore e di editor ti sei occupato molto di educazione e formazione. In maniera provocatoria vorrei domandarti se pensi che, all'epoca di internet e delle nuove tecnologie multimediali, sia ancora possibile "educare" i giovani. Alle soglie di un millennio iniziato tra le convulsioni di una crisi sistemica senza precedenti, come possiamo rianimare il lavoro educativo per accompagnare le nuove generazioni verso un futuro che non sia già scritto?
Jean-Pierre Lebrun, nel suo libro La perversion ordinaire, assimila l'atto di pensare al sostenersi nel vuoto: una pratica da apprendere da chi l'abbia già appresa, e scrive: "È a questo che servono - o dobbiamo dirlo all'imperfetto? - i maestri". Secondo me Lebrun, al pari di Massimo Recalcati nel suo L'ora di lezione, ha centrato il problema che è la progressiva scomparsa degli intercessori. I nostri ragazzi pensano di potersi "educare" in internet, di seguire corsi o di laurearsi on line e adottano così la massima di Racine "Le plus profond c'est la peau", "Non c'è niente di più profondo della pelle", della superficie. Una simile educazione, proprio in quanto dà un senso di onnipotenza visto che in rete si può trovare di tutto, in realtà disabilita e preclude ai nostri giovani l'unico vero tipo di apprendimento che possa far maturare, quello che si carica del significato e quasi del respiro dei nostri insegnanti migliori e che al tempo stesso non è né "comodo", né immediato, ma allena la nostra mente a confrontarsi con le difficoltà che immancabilmente ritroveremo amplificate e infittite nella vita adulta.
Grazie alla Thatcher e poi a Blair il Regno Unito è stato il paese europeo in cui s’è sperimentata più in profondità la svolta liberista con amalgami o ibridazioni apparentemente singolari di “arretrato” e “postmoderno”, comprese eredità di destra e di sinistra. Il primo obiettivo liberista è stato e resta la permanente destrutturazione economica, sociale, culturale e quindi politica. Non solo perché divide et impera è da sempre la modalità vincente di ogni dominio, ma anche perché così si erodono o si cancellano le possibilità e le capacità di agire politico collettivo che negli anni 68-75 portarono alla conquista di diritti e di miglioramenti per lavoratori e studenti.
Non deve quindi stupire che i risultati del referendum scombinino tutte le carte tradizionali della lettura della realtà: per il Brexit hanno votato sia razzisti e “popolo” di destra sia quello di sinistra, sia nazionalisti che semplici qualunquisti, sia zone considerate l’“Inghilterra profonda” sia zone popolari alla periferia di Londra, sia operai che neo-ricchi, sia acculturati che “analfabeti di ritorno”. E, in parte, lo stesso è avvenuto per quelli che hanno votato per restare nell’UE: nazionalisti scozzesi e nord-irlandesi, tutto il mondo della finanza, a parte probabilmente qualcuno che ha scommesso sulla sorpresa inaspettata visto che tutti si sono fatti abbindolare da sondaggi fallaci ma super mediatizzati. Proprio il clamoroso fallimento dei sondaggi può essere considerato l’indicatore emblematico della profonda destrutturazione sociale.
Adesso
alcuni si aspettano da Renzi una
qualche novità, qualche aggiustamento tattico, qualche
ripensamento. In molti credono che il piatto forte potrebbe
essere la rimessa in
discussione dell'Italicum, come preme alla sinistra Pd.
Scordatevelo. Non solo perché tutto ciò non è nelle corde del
personaggio, ma soprattutto perché è oramai troppo tardi.
Essendosi spinto troppo avanti, Renzi non può fare oggi un
dietrofront
così smaccato senza perdere completamente la faccia.
Venerdì si terrà la direzione del Pd, un luogo assai pittoresco dove il ducetto provoca e sfida gli avversari interni. I quali solitamente non sanno far di meglio che mettere in mostra la vocina timorosa di un Cuperlo, alternata alla faccina insicura di uno Speranza. Della natura da avanspettacolo di questo organismo ha parlato ieri anche Massimo D'Alema, in un'intervista già brillantemente commentata da Piemme. In ogni caso non è dalla sinistra piddina che verranno cose importanti.
Domandiamoci piuttosto quale sarà la mossa del presidente del consiglio di fronte alla debacle dei ballottaggi di domenica scorsa. A rischio di una rapida smentita, avanzo una risposta assai semplice: Renzi dirà che ci "vuole più Renzi". Può sembrare una battuta, ma non lo è. Certo, da imbonitore consumato qual è, ammetterà (come ha fatto ieri) qualche problema, dirà che "il Pd si deve aprire di più", che "deve ascoltare maggiormente i cittadini".
Dalla silloge di scritti politici di Elvio Fachinelli Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989) curata da Dario Borso per Derive e Approdi pubblichiamo, ringraziando l’editore per la cortesia, la recensione di Fachinelli a Lettera a una professoressa, originariamente apparsa sui “Quaderni piacentini” del luglio 1967
Un
testo cinese. L’autore del libro di cui parlo è collettivo,
Scuola di Barbiana, il titolo Lettera a una
professoressa. L’appellativo: cinese, è più
provocatorio, e meno indeterminato, di quel che può parere a
prima vista.
Se il libro non mi fosse capitato tra le mani per caso, e non
temessi la mia disinformazione, oserei persino scrivere: il
primo testo cinese del
nostro paese. Penso che i motivi della denominazione – diversi
ma non in contrasto fra loro, e tutti presenti, qui e ora – si
andranno
chiarendo man mano.
In forma di brevi capitoletti, accompagnati e spesso commentati da sottotitoli, senza grande ordine apparente, e con molte note esplicative, il libro è opera dei ragazzi-scolari, dei ragazzi-maestri e del loro maestro comune, don Lorenzo Milani, della scuola di un paese toscano, Barbiana di Vicchio nel Mugello. Notare le numerose stranezze del fatto. Il punto di vista da cui partono, da cui esaminano il mondo, è altrettanto strano: il ragazzo contadino, e anche operaio, bocciato a scuola.
Entriamo il primo ottobre in una prima elementare. I ragazzi sono 32. A vederli sembrano eguali. In realtà c’è già dentro 5 ripetenti. [...] Prima di cominciare mancano già 3 ragazzi. La maestra non li conosce, ma sono già stati a scuola.
Dilagano ribrezzo e timore nell’opinione pubblica quando si parla di bombe atomiche, e spesso si prende la palla al balzo per criticare le politiche estere di certi paesi, ultimamente Iran e Corea del Nord.
È da anni che i media occidentali stanno facendo del neo-leader coreano Kim Jong-Un lo spaventapasseri della politica internazionale e del regime dinastico di Pyongyang l’Oceania del romanzo di Orwell.
Così la Corea del Nord, paese remoto di circa 25 milioni di abitanti, che prosegue il suo programma nucleare a dispetto del trattato di non proliferazione (dal quale si ritirò nel 2003) viene dipinta come una minaccia all’equilibrio mondiale, poiché vige l’asserzione che se qualcuno vuole dotarsi dell’arma nucleare, non è di certo per scopi pacifici. Le polemiche riguardanti il programma nucleare nord-coreano vengono poi immancabilmente assecondate da una pesante critica della politica interna del regime, divulgando faccende che narrano gli atti deliranti di un autocrate che – si vocifera – si divertirebbe a far giustiziare un ministro adoperando un sistema di difesa anti-aereo o facendo sbranare suo zio da dei cani affamati per pura vendetta. Da far concorrenza a Vlad l’Impalatore nell’elenco dei tiranni della storia.
È come se ci fosse una corsa a chi trova la notizia più delirante, a chi scrive l’articolo più sconvolgente, facendo del giovane Kim il protagonista di una saga degna di un fumetto.
Più passano i giorni e più la decisione di sottoporre l'uscita del Regno Unito dalla UE non appare un errore di calcolo ma una premeditazione delle élites
Più passano i giorni e più mi convinco che la decisione di sottoporre l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea non sia stato un errore di calcolo ma una premeditazione freddissima, lucidissima e perfetta.
Le élites britanniche volevano uscire dall'Unione Europea per mettere al riparo il Regno dalla prossima e ineludibile tremenda deflagrazione della Moneta Unica: troppi problemi.
I sistemi bancari di mezza Europa sono a un passo dall'implosione: Portogallo, Spagna, Italia e Grecia sono letteralmente al collasso, tenute in vita - in sala di rianimazione - solo dalla disperate manovre di allargamento della base monetaria che non stanno dando peraltro alcun effetto reale.
Anche la Germania e la Francia hanno i loro enormi problemi nel settore bancario e con l'implosione dei paesi deboli (sia essa dovuta alla finanza pubblica o al sistema bancario) sarà difficile governare la situazione anche per loro.
Praticamente siamo seduti su una bomba nucleare di 100 megatoni e gli inglesi hanno abbandonato il palazzo. Per di più lo hanno fatto facendo finta di essere dispiaciuti e parlando di errore.
All’indomani del referendum sul Brexit, il magazine online die Welt pubblica l’analisi di un documento confidenziale redatto dal Ministro tedesco delle finanze Schäuble per i prossimi negoziati sull’uscita del Regno Unito dall’UE. Come era prevedibile, la stessa Germania propone una via “norvegese” per la Gran Bretagna, consapevole dell’insensatezza di una guerra economica che taglierebbe il ramo su cui è seduta: come spiegato in un recente post sul blog del prof. Bagnai, il Regno Unito è importatore netto di beni dell’UE per oltre 100 miliardi di euro l’anno. Al tempo stesso traspare il forte timore da parte del governo tedesco di creare un precedente che rafforzi ancora di più i movimenti contrari all’UE nei singoli stati europei. Un processo che pare a questo punto inevitabile
Nel giorno X il sentimento che prevale nel governo federale è un misto di impotenza e orrore.
Alla vigilia del referendum molti membri del governo si erano detti fiduciosi in merito a una permanenza nell’UE della Gran Bretagna – una valutazione simile a quella della stragrande maggioranza dei sondaggisti, bookmaker e mezzi di comunicazione.
Angela Merkel ha definito il risultato del referendum come “Un punto di rottura per l’Europa”.
Questo lunedì incontrerà a Berlino il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, il presidente francese Fracoise Hollande e il primo ministro italiano Matteo Renzi.
Ciò che era
iniziato lo scorso anno in Grecia e che era stato stoppato col
ricatto mafioso di Bruxelles e con l’ipocrisia dei governi
di tutti gli altri paesi, si ripropone a distanza di un solo
anno, in Gran Bretagna; stavolta non si tratta solo di dire no
al memorandum della
Troika, ma di uscire hic et nunc non dall’Euro,
dove non era mai entrata, ma dall’Unione Europea; se si
potesse fare
rapidamente un referendum in ciascun paese è probabile che la
maggioranza dei popoli europei si esprimerebbe nello stesso
modo: fuori da questa
Europa.
Che poi l’uscita dall’involucro neoliberista e mercantilista – imposto a suo tempo in una fase in cui le rispettive borghesie finanziarie e della rendita andavano d’accordo perché condividevano l’estorsione di valore praticata sul lavoro e sulla messa in concorrenza dei lavoratori – sia cavalcata dalle cosiddette destre populiste e xenofobe non è il centro della questione: ciò manifesta solo l’incapacità o la subalternità di prospettive alternative e “di sinistra” che hanno latitato qui come altrove.
Le socialdemocrazie europee sono state tra i primi e migliori artefici degli eventi che stiamo seguendo. La loro accondiscendenza alla chiamata alla fine della storia e all’offerta dei poteri multinazionali della globalizzazione di diventare classe dirigente privilegiata di questo processo è stata la variabile decisiva per lo scardinamento dell’idea di Europa come da tanti in più generazioni lo si era immaginato e ricorda non poco all’approccio interventista dei partiti socialisti nell’imminenza della prima guerra mondiale che distrusse l’idea di internazionalismo e le cui conseguenze sono note.
C’è un giudizio ingeneroso e
sommario che, da troppo tempo, aleggia sul pensiero di
Gianfranco La Grassa. Quello per cui la sua teoria negherebbe,
in maniera eccessivamente
sbrigativa e sprezzante, la possibilità ai dominati di essere
protagonisti di una trasformazione sociale nel/del sistema
capitalistico.
Così è anche secondo Augusto Illuminati che riprende, nella
postfazione al libro (che vi consiglio) di Piotr Zygulski “La
Grassa:
il meccanico del marxismo” (Petite Plaisance), un parere del
filosofo torinese Costanzo Preve:
“Preve, – dice Illuminati – proprio grazie al suo essenzialismo, coglie però il limite principale del suo interlocutore, 'il totale disprezzo per le azioni dei dominati e il solo ossessivo interesse per le azioni «strategiche» dei dominanti', che in effetti definisce un punto di forza dell’analisi sociale ma anche una radicale estraneità ai movimenti rivoluzionari, privando i dominati di qualsiasi praticabile transmodalità e speranza di riscatto. Non vogliamo rimproverare a La Grassa un limite effettuale di schieramento e tanto meno (come Preve) una debolezza filosofica, ma proprio un difetto di analisi, per il suo escludere il conflitto di classe dalla scena primaria della storia, relegandolo alla combattiva negoziazione tradeunionistica del salario. Non gli imputiamo, alla Preve, una teoria “aleatoria” del socialismo (Althusser aveva ben diversamente declinato tale assunto in favore della rivoluzione e della forma-movimento rispetto ai partiti), ma proprio che, di fatto, il cambiamento del modo di produzione venga escluso nella forma di un rinvio sine die o di una prospettiva catastrofista”.
Stamattina, un’interessante intervista con Walter Veltroni su Repubblica.
A differenza di altri, Veltroni coglie lucidamente che “ci sono dei momenti della storia in cui, per slittamenti progressivi, improvvisamente diventa plausibile l’implausibile.”
Veltroni non dedica un secondo a chiedersi perché.
Sono duecento anni che si progredisce, che ci si illumina, che i politici risolvono, le scuole educano, gli scienziati scoprono, gli esploratori civilizzano, gli economisti predicono, i giornalisti informano, gli imprenditori aprono nuovi orizzonti, le telecamere sorvegliano, i geometri urbanizzano e gli urbanisti progettano – tutti assistiti da milioni e milioni di esperti, tecnici, chimici, funzionari, manager, informatici, vigili urbani, bidelli, facchini, consulenti…
… e dopo qualche trilione di tonnellate di carbone e di petrolio usati per fare tutto ciò, siamo sull’orlo del collasso planetario (proprio letteralmente, mica solo come metafora).
Il risultato logico è che la gente tende a scrollarsi di dosso tutta la banda.
Finalmente il libro più importante del nuovo marxismo italiano che passa sotto il nome di operaismo - Operai e capitale pubblicato da Einaudi esattamente cinquanta anni fa - viene tradotto e pubblicato in francese e in spagnolo, mentre manca ancora una traduzione inglese di questa opera fondamentale. E’ l’occasione per valutare l’importanza dell’innovazione metodologica implicita in quel libro e poi dispiegata nella pratica teorica dell’operaismo italiano. Ma è anche il momento di misurare la distanza di quel testo e da quel movimento teorico rispetto all’attuale realtà della lotta di classe.
L’operaismo italiano ha offerto un metodo utile per interpretare i processi di ricomposizione sociale nell’epoca operaia, ma per comprendere il tempo presente occorrono strumenti analitici più raffinati e complessi, che sfuggono all’operaismo italiano come sfuggono al post-strutturalismo francese.
Mentre a mio parere il metodo analitico trontiano, basato su un rovesciamento del rapporto tra composizione della soggettività sociale e sviluppo del capitale, continua a essere indispensabile per una comprensione dei processi profondi della trasformazione produttiva e politica, sul piano dei contenuti l’operaismo non ha più molto da dire già dal 1968, anno di cui Tronti mostra ancor oggi di non aver capito la sostanza. In un libro pubblicato recentemente da Derive approdi col titolo Noi operaisti, Tronti scrive infatti che:
Lo sviluppo dell’”economia numerica” e in specifico di quella della condivisione appare una tendenza certamente destinata a diventare sempre più pervasiva
Lo sviluppo recente della cosiddetta economia della condivisione (sharing economy), ancor più se collegata alla più generale spinta verso la numerizzazione del sistema economico, pone dei problemi su diversi fronti. In questo articolo vengono affrontati soprattutto quelli relativi alla possibile modifica nella struttura dei mercati.
Si possono delineare in questo senso almeno sei principali tendenze.
1)Ipermercantilizzazione e fabbisogni di capitale
Si può registrare, con l’affermarsi di tali nuove attività, una “ipermercantilizzazione” delle relazioni sociali (Chavagneux, 2015). Le attività capitalistiche diventano ancora più pervasive e tendono ad estendersi a molti beni sino a ieri in gran parte esclusi dal circuito mercantile, quali le auto o gli appartamenti delle persone.
D’altro canto, le attività in oggetto impiegano normalmente bassi livelli di capitale; le auto, gli appartamenti, ecc., sono in realtà acquistati da chi rende materialmente il servizio.
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Evocare = dal
dizionario: Far
comparire le anime dei morti o i demoni mediante pratiche
magiche o medianiche.
Dopo la Brexit è tutto un “evocare”, da una parte si evoca una Unione Europea più democratica che si apre all’ascolto dei suoi cittadini, ecc. dall’altra si evocano le piccole patrie, il ritorno del razzismo, le voglie securitarie, ecc.
Enrico Letta (oggi professore) dice che sarebbe una iattura aspettare 16 mesi per rimediare alla Brexit, in attesa della risoluzione della crisi spagnola, del voto francese e poi a settembre del prossimo anno quello tedesco. Occorre fare subito delle cose che colpiscano al “cuore” i cittadini europei: un Erasmus Pro = 1.000.000 di posti di lavoro per i giovani (su ca. 300.000.000 di cittadini Europei, sic!). Però lui è il primo ad avere dei dubbi su questa evenienza.
Massimo D’Alema (apparentemente fuori dal giro) in una intervista a Radio Radicale afferma che il bipolarismo è andato in crisi in tutta Europa mentre si sta’ assistendo alla crescita di nuove formazioni populiste, antisistema, razziste, ecc. e aggiunge che la “governabilità” se non vuole essere un esercizio controproducente ha sempre bisogno del “consenso” dei soggetti per i quali si esercita. Domanda: e chi lo riceve oggi il consenso? i partiti conservatori e/o popolari, ovvero le varie formazioni socialiste o socialdemocratiche? Ovvero ancora le nuove formazioni populiste?
0.
Considerazioni
preliminari
Agamben è divenuto negli ultimi anni uno dei filosofi italiani più in vista a livello internazionale2. Il progetto Homo sacer (HS), inaugurato nel 1995 con la pubblicazione del volume omonimo, si può senz’altro considerare come la ricerca che ha riscosso maggior successo di pubblico3. Le ra-gioni sono da ricercare anzitutto nello stile: conciso ed essenziale nell’apparato bibliografico ma allo stesso tempo ricco di riferimenti eruditi – che ne costituiscono spesso il marchio di fabbrica – illustrati attraverso un vocabolario minimale e una prosa piana. Molto più vicino alla critica letteraria che alla saggistica accademica, ogni libro di Agamben si rivolge ad un pubblico ben più vasto di quello dei soli specialisti.
A ciò si aggiunga l’attenzione prestata da Agamben ad alcune tematiche di stringente attualità: per esempio il significato delle misure d’emergenza, della decretazione d’urgenza, delle carceri e dei campi d’internamento per immigrati, il confine sempre più labile fra cittadino e potenziale criminale, la costante minaccia del terrorismo, e ancora la crisi della rappresentatività, della sovranità nazionale, oppure la centralità della finanza, dell’economia, il ricatto del debito, il valore politico assegnato a questioni che sembrano esulare dall’orizzonte della cosa pubblica (fine-vita, suicidio assistito, salute pubblica, etc.). L’opera di Agamben, forse più di altre, sembra cogliere il cuore problematico del nostro presente.
Nel vertice UE di cosa si sono occupati i leaders europei, di scuola, lavoro, occupazione? No, di banche. Consiglio agli europeisti istruiti: votate Fitch
Dopo i tanti pianti a reti e giornali unificati sui giovani Erasmus, si sarebbe potuto credere che i tre grandi, si fa per dire, d'Europa nel loro vertice dopo la Brexit discutessero innanzitutto di istruzione.
Immaginate un piano straordinario di borse di studio per permettere di andare a studiare nei paesi ricchi del continente anche ai giovani poveri di Grecia e di tutti i paesi devastati dalle politiche di austerità.
Immaginatevi un grande investimento europeo sulle scuole pubbliche di periferia. E visto che siamo in vena di utopie, immaginiamo che al vertice UE si fosse discusso di come recuperare consenso tra gli operai e nei quartieri distrutti dalle delocalizzazioni, con una terapia d'urto europea per la creazione di posti di lavoro.
E poi immaginiamo il varo di un programma vero di accoglienza dei migranti, condivisa in base alla ricchezza dei diversi stati.
E poi sostegno continentale alla sanità e alla previdenza pubbliche e lotta comune alla corruzione e alla evasione fiscale.
Uno spettro si aggira per l’Europa: è la democrazia. Dopo il referendum greco, con il quale più del 60% della popolazione di quel Paese ha detto no all’austerità imposta dalla Ue e dalla Troika, è arrivata la Brexit, che ha visto una maggioranza meno netta, ma per molti versi più significativa, di cittadini inglesi chiedere il divorzio dalle istituzioni oligarchiche di quell’Europa che impone gli interessi del finanzcapitalismo globale ai propri sudditi.
In entrambi i casi non ha funzionato la campagna del terrore orchestrata da partiti di centrosinistra e centrodestra, media, cattedratici, economisti, “uomini di cultura”, esperti di ogni risma, nani e ballerine per convincere gli elettori a chinare la testa ed accettare come legge di natura livelli sempre più osceni di disuguaglianza, tagli a salari, sanità e pensioni, ritorno a tassi di mortalità ottocenteschi per le classi subordinate e via elencando.
In entrambi i casi la sconfitta è stata accolta con rabbia e ha indotto l’establishment a riesumare le tesi degli elitisti di fine Ottocento-primo Novecento: su certi temi “complessi”, che solo gli addetti ai lavori capiscono, non bisogna consentire alle masse di esprimere il proprio parere, se si vuole evitare che la democrazia “divori se stessa”. Ovvero: così ci costringete a imporre con la forza il nostro punto di vista.
In entrambi casi ciò è infatti esattamente quanto è successo. In Grecia con il ricatto che ha indotto Tsipras a calare le brache e tradire ignominiosamente il verdetto popolare. In Inghilterra con il tentativo di far pagare così cara la Brexit a coloro che l’hanno votata da dissuadere altri a imboccare la stessa strada (non a caso il risultato deludente di Podemos e la marcia indietro di 5Stelle sull’Europa sono state accolte con soddisfazione: la lezione è servita a qualcosa…).
Sotto la superficie del profluvio di una retorica europeista avariata, di un politically correctness idiota e anche di un certo riflusso di bile, si stanno prendendo decisioni fondamentali per la sopravvivenza dell'Europa per come la conosciamo oggi. Sembra emergere che il fulcro del piano di salvataggio dell'Europa sia il salvataggio dell'Italia e del suo sistema finanziario completamente decotto.
Infatti stanno diventando sempre più insistenti le voci di un piano di salvataggio da 40 miliardi per il sistema bancario italiano, ormai decapitalizzato (se non con il Capitale Proprio completamente disintegrato). Tutto si gioca sul modo in cui saranno concessi questi 40 miliardi per ricapitalizzare le banche italiane: le regole europee vietano l'intervento diretto dello Stato e pertanto il percorso previsto sarebbe quello dell'intervento del fondo Europeo ESM, con relativo commissariamento politico dell'Italia e con lo sbarco della famigerata Trojka a Roma, per dirigere un cosiddetto piano di "risanamento": cioè, come sempre, tagli feroci allo stato sociale (il poco che in Italia è rimasto) e privatizzazioni con la vendita dei rimanenti gioielli di Stato (tra l'altro qualcuno ci spieghi per quale ragione se lo Stato non sa amministrare le sue aziende sono invece, sempre, dei gioielli su cui il capitale privato non vede l'ora di mettere le mani).
Nel caso italiano facile capire che i gioielli sono: ENI, ENEL, Ferrovie e poco altro ormai. Poi rimarrebbero i gioielli veri, Musei e siti archeologici davvero unici al mondo e orgoglio della cultura italiana.
Mentre l’attenzione politico-mediatica è concentrata sulla Brexit e su possibili altri scollamenti della Ue, la Nato, nella generale disattenzione, accresce la sua presenza e influenza in Europa. Il segretario generale Stoltenberg, preso atto che «il popolo britannico ha deciso di lasciare l’Unione europea», assicura che «il Regno Unito continuerà a svolgere il suo ruolo dirigente nella Nato». Sottolinea quindi che, di fronte alla crescente instabilità e incertezza, «la Nato è più importante che mai quale base della cooperazione tra gli alleati europei e tra l’Europa e il Nordamerica».
Nel momento in cui la Ue si incrina e perde pezzi, per la ribellione di vasti settori popolari danneggiati dalle politiche «comunitarie» e per effetto delle sue stesse rivalità interne, la Nato si pone, in modo più esplicito che mai, quale base di unione tra gli stati europei. Essi vengono in tal modo agganciati e subordinati ancor più agli Stati uniti d’America, i quali rafforzano la loro leadership in questa alleanza. Il Summit Nato dei capi di stato e di governo, che si terrà a Varsavia l’8-9 luglio, è stato preparato da un incontro (13-14 giugno) tra i ministri della difesa, allargato all’Ucraina pur non facendo essa parte ufficialmente della Nato. Nell’incontro è stato deciso di accrescere la «presenza avanzata» nell’Europa orientale, a ridosso della Russia, schierando a rotazione quattro battaglioni multinazionali negli stati baltici e in Polonia.
Stiamo per conoscere la prova inconfutabile che l'economia USA è in rallentamento da un bel po' di tempo. Ed è vitale che prestiamo attenzione ai fatti, perché in tutta Internet troverete molte e molte persone che esprimono opinioni su cosa sta accadendo all'economia. E naturalmente i media mainstream cercano sempre di mettere le cose in modo che Barack Obama ed Hillary Clinton ne vengano fuori bene, perché quelli che lavorano nei media mainstream sono molto più liberisti della popolazione americana nel suo complesso. E' vero che anch'io ho la mia opinione, ma come avvocato ho imparato che le opinioni non significano nulla finché non sono corroborate dai fatti. Pertanto lasciatemi per cortesia qualche minuto per condividere con voi le prove che dimostrano chiaramente che siamo entrati in una grande recessione economica. I 15 fatti che seguono riguardano l'economia USA che sta implodendo e sono fatti che i media mainstream non vogliono farvi sapere…
1. La produzione industriale è in declino da oltre nove mesi di fila. Non abbiamo mai visto accadere questo nella storia degli USA al di fuori dei periodi di recessione.
2. I fallimenti negli USA sono aumentati sulla base annua per sette mesi di fila e sono ora oltre il 51% in più da settembre.
3. Il tasso di criminalità sui mutui commerciali ed industriali è in aumento sin da gennaio 2015.
Fortemente condizionate dalla Brexit e dalla paura del cambiamento, dalle urne iberiche esce un netto successo della destra di Rajoy. Il Psoe giunge secondo, a conferma della vittoria dell’establishment. Podemos al 21% paga l’accordo elettorale con la sinistra radicale di IU. Ma la partita è ancora aperta e la forza di Iglesias, dall’opposizione, potrà dire la sua
Gli exit poll avevano
illuso. I dati reali ci
conducono ad un’altra dura verità. La faccia di Pablo
Iglesias, alle ore 23, la dice lunga. Funerea. Nessuna
spallata. Nessun sorpasso di
Podemos ai danni dei socialisti del PSOE. Anzi, il voto
spagnolo ci evidenzia come il sistema abbia tenuto. La
governabilità è ancora
complicata in Spagna, nessun partito ha raggiunto la
maggioranza assoluta, ma si preannuncia una grande coalizione
PP-PSOE o un governo in minoranza
dei popolari con l’astensione dei socialisti. Se ormai si può
affermare in maniera conclamata che lo storico bipartitismo
iberico, che si
è alternato al potere dalla caduta di Franco in poi, è
definitivamente tramontato grazie alla presenza di Podemos –
stabile sopra
al 20 per cento – e in parte di Ciudadanos, anche se in calo,
dall’altro la “vecchia politica” non viene scardinata dalle
forze del cambiamento. Le elezioni di ieri segnano il successo
dell’establishment. Questo il primo dato da analizzare delle
elezioni
iberiche.
La storia non si è ripetuta. La Spagna del 2016 non è la Grecia del 2015. Unidos Podemos non è riuscito nell’impresa di superare i socialisti e di trasformarsi nel secondo partito nelle Cortes di Madrid. Il PSOE non è il PASOK, ma un partito più strutturato che, per quanto stia vivendo una profonda crisi, regge e perde soltanto 120 mila voti. E il PP non è Nea Democratia. Mariano Rajoy vince con un ampio margine, migliorando i risultati di dicembre. Non è “El triunfo de Rajoy”, come titola il quotidiano di destra La Razón, ma poco ci manca.
“Z” è un instancabile commentatore di questo blog, che da anni esprime con pacata ironia il suo totale disaccordo su qualunque cosa io scriva.
E siccome è anche una persona gentile, ha tradotto dall’inglese questo articolo di John Harris, uscito su The Guardian. Un articolo con cui io mi trovo largamente d’accordo, per cui lo sforzo di Z diventa ancora più encomiabile.
“Se hai i soldi, voti per restare”
disse con sicurezza “se non ne hai, voti per uscire”. Venerdì
scorso eravamo a Collyhurst, quartiere povero al confine nord
del
centro di Manchester, e ancora non avevo trovato un elettore
che avrebbe votato Remain. La donna con cui stavo parlando mi
spiegava che nel quartiere
non c’erano parchi né aree gioco per bambini: sospettava che
tutti i soldini fossero stati destinati al centro di
Manchester, Paese delle
Meraviglie rimesso a nuovo, a dieci minuti di strada.
Solo un ora prima mi trovavo ad un evento per il reclutamento di personale laureato, a Manchester, dove nove intervistati su dieci erano schierati per Remain. Alcuni parlavano dei votanti per il Leave con freddezza e supponenza: “Alla fine, siamo nel ventunesimo secolo”, diceva un ragazzo tra i venti e i trent’anni “Se ne facciano una ragione”. Non era la prima volta che sentivo l’atmosfera intorno al referendum puzzare di zolfo – non solo di disuguaglianza sociale, ma anche di una malintesa guerra tra classi.
Ed eccoci qui, dopo la decisione terrificante di andarcene. Gran parte degli elementi politici di primo piano sono stati ormai spazzati via. Cameron e Osborne. Il partito laburista così come lo conosciamo, che si rivela ancora una volta un fantasma ambulante, i cui precetti non riescono più a raggiungere le sue supposte roccaforti.
Pubblichiamo
l’intervista realizzata da Alessia Di
Eugenio, dottoranda all’Università di Bologna, a Francisco
Foot Hardman, professore presso l’Università Statale di
Campinas.
Negli anni ’70 e ’80 del Novecento Foot Hardman è stato
militante contro la dittatura militare in Brasile e tra il
1983 e il 1985,
nella fase finale della dittatura, è stato uno dei
principali editorialisti del quotidiano «Folha de S.
Paulo», politicamente
impegnato nella campagna per le elezioni dirette per la
presidenza del Brasile. Si è occupato di storia del
movimento operaio in Brasile e,
più recentemente, del ruolo della memoria e delle
rappresentazioni culturali riguardo il periodo storico
della dittatura (1964-1985). Ha
inoltre partecipato e sostenuto le iniziative del
collettivo «Feijoada Completa», creato a Bologna da
studenti e ricercatori brasiliani e
italiani in solidarietà alle proteste nelle città
brasiliane contro il golpe.
Foot Hardman fornisce una precisa ricostruzione dei recenti avvenimenti della crisi brasiliana, inserendola in un quadro genealogico che mostra le dinamiche complesse in cui si è prodotta.
Fra gli effetti positivi ed imprevisti del referendum sulla Brexit c’è un certo effetto di “cartina di tornasole” che ci rivela quel che pensa effettivamente una certa sinistra, che in Italia possiamo identificare nel Pd e nei suoi alleati.
Ha iniziato un alleato come Monti (quello che Renzi, in un momento di baruffa, si lasciò andare e definì “illuminato”, ecco… appunto) che ha rimproverato Cameron del delitto di lesa maestà per aver dato la parola al popolo con il referendum, un vero “abuso di democrazia” (parole testuali dell’illuminato uomo politico e statista).
Poi ci si è aggiunto anche Giorgio Napolitano, altro illuminato progressista, che ha sentenziato che su argomenti così complessi non si può interpellare il popolo che evidentemente non ha gli strumenti per capire. In effetti la stessa cosa si può dire della Costituzione, del nucleare, del codice penale o civile, della responsabilità dei magistrati, e, in fondo anche divorzio, aborto o, diciamola tutta, anche decidere fra Repubblica e Monarchia non sono temi semplici alla portata del popolo bue. Magari questo lo pensò, nel giugno 1946, Umberto II di Savoia e, si sa, il sangue non è acqua.
Poi è giunto il verbo dell’eccelso storico e politologo Roberto Saviano che, dall’alto dei suoi studi, ha decretato che quelli che hanno votato Brexit sono tutti fascisti e nazisti!
Poiché il debito pubblico ci riguarda tutti, pure se magari pensiamo il contrario, è buona prassi tenersi informati su chi siano i nostri creditori, se non altro perché toccherà blandirli, domani come ieri, affinché continuino a comprarlo.
Le recenti evoluzioni monetarie decise dalla Bce, peraltro, hanno inciso significativamente sulla composizione dei debitori, e poiché queste pratiche sono iniziate a marzo 2015, approfitto di una ricognizione che la Banca d’Italia ha pubblicato nella sua ultima relazione annuale per aggiornare le mie conoscenze e magari anche le vostre.
La prima informazione utile è che “tra marzo e dicembre dello scorso anno la Banca d’Italia ha acquistato nell’ambito dell’APP (Asset Purchase Programme, ndr) circa 73 miliardi di titoli pubblici italiani, portando la quota di tali attività in suo possesso a fine anno al 9,1% del totale (in aumento di 3,4 punti percentuali rispetto a dicembre del 2014)”. In sostanza la Banca d’Italia è diventata una grande acquirente di titoli pubblici.
La quota di creditori esteri è rimasta sostanzialmente stabile, come si può vedere dal grafico preparato da Bankitalia, collocandosi alla fine del 2015 al 38,5% del totale. Questo dato però include i titoli detenuti dall’eurosistema e quelli inclusi in gestioni patrimoniali e fondi comuni esteri riconducibili a investitori italiani, al netto dei quali gli investitori esteri “puri” si collocano al 28,8%, una quota “pressoché invariata rispetto al 2014”.
“Un politico che non conosce il suo paese non merita di governarlo” ha sentenziato Ivan Scalfarotto a Omnibus. Si riferiva a David Cameron e alla Brexit, ma in realtà questo epitaffio s’adatta perfettamente anche a Matteo Renzi.
Come Cameron, Renzi s’è giocato la carriera su un referendum, e come Cameron merita di essere sconfitto.
I rintocchi del Big Ben scuotono tutta un’oligarchia politico finanziaria che lo merita ampiamente. Il De-Cameron, le dimissioni annunciate del porcofilo premier sono però finora l’unico concreto effetto positivo della Brexit per i britanni che, ansiosi di liberarsi di Cesare (ma anche delle presunte “invasioni barbariche”) alla fine della procedura guidata di cancellazione del loro account UE rischiano di ritrovarsi ad avere soltanto scambiato una serie di accordi commerciali antipopolari fra partners UE con un’altra serie di accordi commerciali antipopolari fra UE e GB, e come il Numero 6 nel finale di The Prisoner accorgersi che la fuga è illusoria finché il potere politico-economico resta nelle solite mani.
I democratici che in questi giorni invocano l’abolizione del suffragio universale, e il nostrano finanziamento ai partiti trasformato in “rimborso elettorale” dimostrano quanto poco Cesare sia incline a rispettare nei fatti il risultato di un referendum popolare.
Probabilmente si sta già elaborando un nuovo status ad hoc per la Gran Bretagna: “Concorso Esterno in Unione Europea”.
Oggi [ndr. 23/6/2016] è un giorno storico per la Colombia e per l’America latina tutta. All’Avana, e non è un luogo a caso, si firma il cessate il fuoco bilaterale e definitivo tra esercito colombiano e la guerriglia delle FARC. E’ la prima volta che lo Stato si compromette a non sparare mentre la guerriglia ha rispettato in tre anni molteplici cessate il fuoco unilaterali, violati in incidenti minori con appena quattro morti nel 2015, dopo una guerra che per decenni lasciava un saldo di migliaia di morti l’anno. Oltre ciò c’è il difficile cammino per l’attuazione materiale della pace vera e propria, con un pacchetto di misure per le quali ci sono voluti tre anni di trattative. Verrà da domani in avanti: sviluppo integrale, partecipazione politica, questione droghe, riparazione per le vittime, trasformazione della guerriglia in pace e sicurezza in una forza politica.
La Violenza in Colombia era cominciata il 9 aprile del 1948 con l’assassinio di Eliecer Gaitán, un politico liberal-progressista che voleva una riforma agraria che avrebbe democratizzato e reso più equo il paese. Tra quelli che si sollevarono per protestare contro quell’omicidio ne furono uccisi 3000. 300.000 ne moriranno in quasi settanta anni di guerra interna. Il campo popolare fu difeso militarmente dal 1964 in avanti dalle controverse FARC, quasi sempre una guerriglia difensiva rispetto all’ingiustizia totale del paese ma soprattutto rispetto alla sua modernizzazione forzata.
L'AD intervista l'ex economista della Banca Mondiale: L'informazione in Europa e altrove nel mondo occidentale è controllata per il 90% da sei giganti dei media che sono anglo-sionisti"
Peter Koenig è un
noto economista e
analista geopolitico. Ha lavorato nella Banca Mondiale e
in giro per tutto il mondo come esperto ambientale e di
risorse idriche. Scrive regolaramente
su Global Research, ICH, RT, TeleSur, the Voice of Russia
/ Ria Novosti, The Vineyard of The Saker Blog, e altri
siti internet. E' l'autore di
Implosion – An Economic Thriller about War, Environmental
Destruction and Corporate Greed – un docu-film basato sui
fatti di
attualità e sui 30 anni di esperienza nella Banca
Mondiale.
Come Antidiplomatico abbiamo avuto il privilegio di rivolgergli alcune domande sulla politica internazionale attuale.
* * *
Partirei da una domanda brutale sulle campagne presidenziali statunitensi. Ma cosa è diventato questo Paese se come migliore candidato, in quanto meno pericoloso per la sopravvivenza del mondo, offre Donald Trump?
P.K.: "Gli Stati Uniti sono un paese chiuso al resto del mondo quasi ermeticamente grazie al lavaggio del cervello fatto di bugie e propaganda quotidiane che i cittadini subiscono. E' una propaganda vecchia quanto gli Stati Uniti, ma si è rapidamente intensificata durante la Guerra Fredda e poi nuovamente dopo la caduta del muro di Berlino.
L’analisi della merce, come lavoro
in
doppia forma, di valore d’uso – quale risultato di un lavoro
reale o di una attività <produttiva> finalizzata – e di
valore di scambio, o tempo lavoro o lavoro sociale
indifferenziato, è il risultato critico finale della ricerca
quasi secolare
dell’economia politica classica, che in Inghilterra inizia con
W. Petty, in Francia, con Boisguillebert e si chiude, in
Inghilterra, con
Ricardo, in Francia con Sismondi. Solo apparentemente la
pagina di Marx è chiara: che significa, infatti, lavoro
produttivo o finalizzato? Non
è questa la caratteristica di ogni lavoro, che non sia un mero
passatempo?
In un senso generalissimo, certamente le cose stanno così, ma appunto alla condizione di attenersi ad un senso generalissimo dei termini, dunque, ad un senso impreciso, vago ed in questo senso estraneo ad un linguaggio, che si voglia almeno comprensibile, se non addirittura scientifico.
Ed allora cominciamo a notare che il lavoro, produttore di valore d’uso, è finalizzato a realizzare una situazione di jouissance o di Nutznißung, ovvero di piacere, godimento o utilità. Mentre il lavoro produttore di valore di scambio, sia pure en principe, ha lo scopo, mediante lo scambio, di realizzare profitto – ed alla nozione di profitto, si badi, non appartengono di necessità logica né quella di godimento/jouissance né quella di utilizzabilità immediata/Nutznißung.
Dunque, la distinzione a cui l’economia politica è giunta, appunto, è quella tra lavoro come produttore di jouisance o Nutznißung (lavoro concreto, reale, finalizzato) e lavoro come lavoro sociale indifferenziato[1], il quale, almeno en principe, è produttore di profitto (e, ripeto, nel concetto di profitto né è compreso quello di jouissance, né quello di utilità).Passiamo ora ad un’altra interessante notazione.
Pubblichiamo una breve analisi di Andrea Fumagalli sull’esito del referendum inglese, a cui segue, in coda, la traduzione in portoghese (Brasil), ripresa dal sito di UniNomade Brasil, che ringraziamo
All’indomani del
risultato del referendum che ha sancito l’abbandono
dell’Europa da parte della Gran Bretagna è possibile
cominciare a discutere i probabili effetti su tre piani di
analisi: finanziario, economico-istituzionale,
politico-istituzionale.
Gli effetti finanziari
Nonostante l’impatto immediato di caduta degli indici di borsa e di forte svalutazione della sterlina, gli effetti sulla finanza non devono essere ritenuti negativi. In primo luogo, occorre, infatti ricordare che qualsiasi turbolenza, con forti oscillazioni nella dinamica degli indici, è manna per la speculazione finanziaria. Ciò che è successo nella settimana precedente il voto è da manuale. Sulla base di sondaggi più o meno attendibili, tutti a favore della Brexit, per circa tre giorni, abbiamo assistito al prevalere della speculazione al ribasso (vendo ora i titoli che mi aspetto diminuiscano domani, per poterli ricomprare dopodomani ad un valore nettamente inferiore). L’omicidio della deputata laburista Cox, in quel modo cinico che caratterizza il mondo finanziario, ha invertito la tendenza. I sostenitori del “remain” hanno ripreso fiato e le aspettative sono ritornate positive. In tal modo si è potuto capitalizzare la precedente fase speculativa al ribasso.
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Con questo mio articolo voglio
riprendere l’interessante riflessione sull’energia avviata da Marco Tafel con il suo
articolo “Quanta?
Quale?”: la questione della dipendenza energetica e di
come questa sia legata all’organizzazione della
società.
Una storia poco scritta della contemporaneità è quella della storia delle infrastrutture energetiche. La prima rivoluzione industriale, quella dei motori a vapore, si fondò sulla disponibilità di carbone ed inizio un ciclo a feedback positivo in cui la maggiore disponibilità di combustibile permetteva di estrarne ancora maggiormente: una delle prime grandi applicazioni del motore a vapore fu proprio l’azionamento delle pompe che permettevano di tenere asciutte le miniere di carbone. Da lì il passo alla primitiva meccanizzazione dell’estrazione, con i montacarichi azionati a vapore e del trasporto con le prime locomotive, fu breve. Insomma: maggiore era la quantità di carbone estratto e maggiore diventava la velocità di estrazione di altro combustibile.
Questo feedback positivo si è interrotto solo nella tarda seconda metà del ventesimo secolo, con l’esaurimento delle maggiori vene carbonifere in Europa occidentale e con la completa sostituzione con un combustibile più economico: il petrolio.
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Con l’attuazione del mercato unico europeo e del Trattato di Maastricht, l’integrazione europea si è affermata come progetto di ristrutturazione a lungo termine dell’economia europea in senso neoliberista. Il Patto di Stabilità e Crescita, l’affermazione delle “libertà fondamentali” del mercato unico e l’Unione monetaria europea, rappresentano l’impalcatura istituzionale che ha alimentato le politiche di austerità, lo smantellamento dei diritti dei lavoratori e dello stato sociale e le politiche di privatizzazione in tutti gli stati membri dell’UE.
Contrariamente alla tesi che vuole l’UE come un campo di gioco neutrale, gli eventi successivi alla Grande Recessione del 2007/9 hanno evidenziato come l’attuale progetto di integrazione europea sia segnato dalla natura regressiva dei trattati che lo definiscono e da una radicalizzazione senza precedenti del suo carattere neoliberista. Rapporti asimmetrici e relazioni gerarchiche di potere (centro-periferia) caratterizzano da lungo tempo l’integrazione europea, ma hanno raggiunto il loro culmine con il dominio tedesco sugli orientamenti di politica economica negli anni successivi alla Grande Recessione.
Quaderno Nr. 5/2016 - Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Presentazione Parte III di “E se il lavoro fosse … senza futuro?”
Il limite della nostra forma di sapere è che pur parlando continuamente di cambiamento in realtà non abbiamo alcuna idea di come rappresentarlo. Dopo aver ricostruito la dimensione storica dell’ascesa del rapporto di lavoro salariato, affrontiamo in questi due capitoli il processo attraverso il quale si è, con lo Stato sociale keynesiano, avviato un rozzo superamento di quel rapporto. E’ la complessa storia dell’affermazione del keynesismo e delle sua implicazioni.
Parte quarta
Capitolo undicesimo
Qual è il limite del rapporto di merce, cioè l’aspetto che, dopo averne riconosciuto il ruolo storico positivo, come abbiamo fatto, ci permette di esprimere nei suoi confronti una valutazione (anche) negativa?
Disonesta e opportunista. Spietata e guerrafondaia. Con legami oscuri con l’Arabia Saudita. Un libro della giornalista americana Diana Johnstone offre un documentato controcanto alla narrazione prevalente sulla donna che potrebbe diventare il prossimo presidente della superpotenza americana. In questa intervista l’autrice ci spiega perché la Clinton non è un “male minore” rispetto a Trump
Esperimento. Prendere la biografia autorizzata di Hillary Rodham Clinton, uscita nel 2004 col titolo Living History (in Italia come La mia storia, la mia vita). E poi prendere il libro scritto dalla giornalista americana Diana Johnstone, biografia politica e certo non autorizzata della stessa Hillary, intitolato Hillary Clinton regina del caos, da poco pubblicato da Zambon Editore. È un tuffo vertiginoso non solo da un’epoca all’altra ma da un mondo all’altro. Là la Clinton è, fin dalla copertina, la moglie di successo di un uomo di successo, una signora glamour perfetta anche per il country club. Qua è una donna che fa l’uomo politico, dura, spietata, segnata anche in viso dalle lotte per arrivare al vertice, abile manovratrice nei corridoi del potere. Piccolo particolare: è questo, non quello, il personaggio che ha tutte le carte per diventare il prossimo presidente della superpotenza americana. Il libro della Johnstone, nel suo controcanto alla narrazione prevalente, è già imperdibile. Ecco allora qualche approfondimento dalla sua viva voce.
L’Invasione delle Mosche Cocchiere
Il referendum sul Brexit è stato lungamente agognato e lungamente preparato dalla Destra euroscettica, concesso (sperando che non avesse poi luogo) dalla Destra europeista, dibattuto di fronte all’opinione pubblica tra le due suddette Destre (padrone assolute della scena), infine vinto dalla Destra euroscettica; il suo esito nel medio-lungo termine sarà gestito politicamente dalla Destra euroscettica nella sua versione più moderata (e forse compromissoria), mentre nel breve termine intendono fermamente guadagnarci sopra le Destre europeiste, vuoi tory vuoi blairiane, che reclamano a gran voce le dimissioni di Jeremy Corbyn. Eppure non mancano i commentatori – evidentemente appena sbarcati sulla Terra, provenienti dal pianeta Urano – secondo i quali “una controproducente campagna per il ‘remain’ da parte laburista avrebbe “consentito alla destra xenofoba di indirizzare la campagna per il ‘leave’”[1]: che è un po’ come dire che, nella Germania di Weimar, una controproducente campagna cosmopolita avrebbe consentito ad Hitler di indirizzare la campagna antigiudaica. Sulla moralità e produttività politica di questo unirsi da parte “comunista” alla tiritera della stampa di regime sulle “incertezze” di Corbyn (offrendo una lamentosa e criticona copertura a sinistra a quanti in questo momento cercano di ridimensionarne l’immagine onde affrettarne la rimozione dal vertice del Labour) lascio il giudizio ai nostri lettori.
La verità è che un referendum del genere, in questo momento storico, era per la sinistra di classe una partita persa comunque, in quanto giocata con carte truccate.
La pubblicità ha sempre promesso le stesse cose: benessere, felicità, successo. Ha venduto sogni e proposto scorciatoie simboliche per una rapida ascesa sociale. Ha fabbricato desideri raccontando un mondo di eterne vacanze, sorridente e spensierato. La pubblicità ha venduto di tutto a tutte e a tutti, indistintamente, come se la società fosse senza classi. Oggi ha mutato pelle. Oggi, ogni prodotto, dalla macchina alle scarpe, passando per le bibite e altro, tutto è presentato come un elemento distintivo per una gioventù ribelle. Ci sono pubblicità che vogliono ridare il potere al popolo, altre che vogliono sovvertire le leggi del mercato, tutte inneggiano alla rivoluzione.
Oggi, la cultura commerciale è “ribelle”.
La rivoluzione passa attraverso le scarpe che porti, la bibita che bevi. Il nuovo, solo perché tale, è “rivoluzionario” e, come tale, il comprarlo e l’usarlo, sostituisce le pratiche di lotta.
Il meccanismo è semplice.
Si identifica una convenzione sociale che non metta in discussione lo status quo, né i rapporti di classe, né la società e la si destruttura e, grazie a questa destrutturazione, le ditte vendono e la società rimane sempre la stessa.
Il risultato delle amministrative ha riaperto la piaga del sistema elettorale creando una situazione pressoché insolubile.
Il Pd aveva commissionato ai suoi esperti un sistema elettorale che ne garantisse la vittoria trasformando la sua maggioranza relativa in maggioranza assoluta, qualunque fosse la base di partenza. Questo era già il Porcellum, ma la Corte Costituzionale lo bocciò, quindi bisognava fare altro e gli scienziati del Pd o circonvicini (Ceccanti, D’Alimonte eccetera) ebbero la formidabile trovata del “doppio turno con trucco”, cioè premio di maggioranza già al primo turno se una lista ottiene almeno il 40% (all’inizio si parlava di coalizioni ed il Pd alle europee, da solo, aveva avuto il 41% mentre M5s e destra arretravano) oppure premio al secondo turno al migliore. E questo nel presupposto che i voti degli altri due poli (M5s e destra) non si sarebbero sommati, data la distanza politica.
Solo che poi è successo l’impensabile: sistematicamente la destra al secondo turno votava per il M5s facendolo vincere oppure (meno frequentemente, ma a volte) gli elettori M5s votavano destra. Era già successo a Parma, poi a Livorno, Mentre, Chioggia ecc, ma si pensava fossero casi isolati in centri di provincia. Ora, a Torino e Roma è successa la stessa cosa (e per poco non è successa anche a Milano). Dunque, la tendenza è nazionale, per di più, nelle more dell’approvazione definitiva, la legge ha escluso le coalizioni assegnando il premio alla singola lista vincente, con il bel risultato di rendere inarrivabile la soglia del 40% al primo turno per il Pd che ormai è sotto il 35%.
“Tutto è relativo: ho assolutamente ragione” (A. Einstein)
Intervento al seminario “La ragione e la forza”, del 18 giugno 2016
1.
Le
scienze economiche sono un fenomeno relativamente recente,
almeno paragonato alle altre discipline scientifiche, ma hanno
fatto in modo di imporsi
come il principale strumento di misurazione della realtà
sociale e fondamentale mezzo di controllo e gestione della
società stessa.
“Le nuove idee nascono come eresie e muoiono come dogmi” affermava Albert Einstein, e l’economia assunta come verità incontrovertibile e come unico motore in grado di produrre benessere sociale sembra incalzare perfettamente questa visione. Questo lavoro ha avuto l’intento di sistematizzare una critica scientifica e metodologica alla politica economica internazionale in chiave, evidentemente, marxista.
L’economia nasce quindi accanto alla fisica, all’astronomia, alla biologia e a tutte le altre scienze galileiane, con l’aspirazione e l’ambizione di portarsi, prima o poi, sullo stesso livello; meta raggiunta, in parte, anche grazie al fatto che nasce nell’ambito della Royal Society in Inghilterra, che dà corpo al progetto di Francis Bacon che vede nella scienza il modo per giungere al governo perfetto, quello che descrive nella Nuova Atlantide, l’utopia di una società guidata dagli scienziati.
In Italia le
elezioni amministrative del 5 e 19 giugno, in Francia la
mobilitazione operaia e studentesca contro le politiche
liberiste del governo socialista, in
Gran Bretagna il referendum del 23 giugno, in Spagna le
elezioni politiche del 26 giugno: venti giorni che hanno
cambiato profondamente lo scenario
politico, sociale e culturale dell’Europa. In Italia, la
disfatta della lobby del Partito democratico con
tutte le sue ruote di scorta
(da una pretesa sinistra interna al malaffare verdiniano, ai
media arruolati con ruoli di propaganda e disinformazione) e
dei modesti conati di
Sinistra italiana, la sconfitta e dispersione della destra
berlusconiana e leghista, e l’«imprevedibile» forte
affermazione del
Movimento 5 Stelle, non solo in grandi città simboliche come
Roma e Torino. In Gran Bretagna, la decisione di un elettorato
maggioritario,
espressione in gran parte di ceti popolari, di dissociarsi
dall’Unione europea a egemonia tedesca, per recuperare una
pretesa sovranità.
In Spagna, la paralisi del sistema politico tradizionale che
ha coinvolto lo stesso tentativo di «assalto al cielo»
dell’alleanza
Podemos-Izquierda unida. In tutte queste situazioni, a
crollare o a entrare in crisi sono i sistemi politici
subalterni ai poteri finanziari, mentre
avanzano, con esiti dirompenti, l’astensionismo e movimenti e
forze politiche che sono espressione di vasti settori popolari
e di ceto medio
impoveriti dalla crisi economica, vessati dalle politiche
europee di austerità e da oligarchie al potere sempre più
isolate.
Non riserva sorprese la Brexit, attenendosi al copione già anticipato: lo choc generato dall’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sta fungendo da innesco alla dinamite accumulata sul continente dopo otto anni di eurocrisi. Se la nascita degli Stati Uniti d’Europa, fuori tempo massimo nell’attuale contesto politico, è ormai tramontata, è invece certo che la ricaduta della Francia in recessione o l’aggravarsi della crisi bancaria italiana implicherà la dissoluzione dell’eurozona e delle istituzioni brussellesi: il precipitare di una situazione economica e sociale già critica, renderà improcrastinabili risposte a livello nazionale
La situazione è paragonabile al collasso della Germania guglielmina nel 1918, alla caduta della DDR nel 1989 od all’implosione dell’URSS nel 1991: il caos è grande, la situazione è concitata, gli scenari più disparati si aprano e si chiudono nel volgere di poche ore, è un fioccare di illazioni e congetture. Lo choc è tale da lasciare l’opinione pubblica spaesata. Ma come: è stata Brexit? Ne siamo sicuri?
Lo stordimento è chiaramente percettibile anche tra la tecnocrazia brussellese ed i capi di Stato europei, chiamati a gestire l’ennesima crisi europea, benché ormai completamente esautorati: il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, è l’equivalente dell’imperatore Guglielmo II all’indomani dell’armistizio o di Erich Honecker all’indomani delle grandi manifestazioni dell’ottobre ’89 contro il regime socialista. Il residuato di un’epoca che fu. Non è un caso che sia proprio la stampa tedesca, esperta in materia di crolli politici, a lanciare l’appello: sconfitto, vecchio e malato, Juncker deve gettare la spugna.
Secondo lo storico e filologo le polemiche del dopo Brexit (“devono votare anche gli ignoranti?”) rivelano l’antico sogno liberale di “addomesticare” la democrazia. Ecco perché l’idea di restringere il diritto di voto su temi importanti non può funzionare, ed è antidemocratica
Pochi argomenti, nella storia, sono stati trattati così tanto da aver raggiunto la consunzione. Uno di questi è, senza dubbio, il diritto di voto. A chi spetta? Chi può votare? È giusto che lo facciano tutti? Le sensibilità, nel corso degli anni, sono cambiate. E così le posizioni in merito. Ma capita – ed è successo con il voto della Brexit – che certe idee (che si credevano archiviate) riaffiorassero, quasi dalla notte dei tempi, per ritornare nel discorso pubblico. È il caso del “voto agli ignoranti”: è giusto che anche chi non capisce voti? Tutti i voti valgono allo stesso modo? Secondo il professor Luciano Canfora, filologo classico e storico, docente di Filologia greca e latina all’Università di Bari, sono tutte asserzioni «insostenibili». Vecchie tentazioni che, nonostante siano nella bocca di persone molto conosciute, non meritano di essere considerate.
* * *
Quindi è giusto che il voto delle persone incolte valga come quello delle persone istruite?
È una tematica già trattata in ampiezza e profondità. Le risponderò così: l’altra sera ero a Taranto, in occasione di un incontro per il comitato per il No al referendum, quando dal pubblico mi è stata fatta proprio questa domanda.
In Francia il presidente Hollande persiste nel suo progetto di “riforma” del lavoro, incurante delle proteste dei lavoratori, perché tanto “glielo chiede l’Europa”, anzi la Banca Centrale Europea. Un’altra spirale di recessione e di compressione della domanda interna che farà saltare anche ogni previsione di bilancio a causa del calo delle entrate fiscali dovuto al crollo dei redditi.
In base alle statistiche la Francia è l’unico Paese che può insidiare all’Italia il primato in fatto di ricchezza delle famiglie (altrimenti Balzac che ci stava a fare), quindi sia l’Italia che la Francia hanno un ceto medio proprietario di immobili e titoli che sarebbe in grado di finanziare interamente il debito pubblico, anzi non aspetta altro. Ma, a differenza dell’Italia, la Francia non è un Paese occupato militarmente, non ha basi USA e possiede persino proprie armi nucleari, non in gran numero ma tecnologicamente avanzate; perciò il governo francese potrebbe fare tutte le politiche espansive tranquillamente infischiandosene dei “mercati”, dello spread, della Merkel e persino del nostro idolo nazionale “Super-Mario” Draghi.
Eppure Hollande brucia le sue possibilità di rielezione per varare una riforma del lavoro che mina le basi del ceto medio francese perché elimina i clienti del commercio, delle imprese e delle professioni. Si tratta di un segno che Hollande ed i suoi colleghi non affidano le loro prospettive personali di carriera alla politica ma al lobbismo delle banche multinazionali.
Intanto si comincia a stilare l’inventario del possibile bottino proveniente dal sacco di Londra. Apre le danze Easy jet che, per non rischiare di perdere i diritti di volo comunitari, si è messa alla ricerca di una sede europea dove trasferire la sua base londinese. Virgin e Ryanair potrebbero seguire. Il settimanale tedesco der Spiegel elencava l’altro ieri una succulenta serie di possibili migrazioni finanziarie e imprenditoriali post Brexit
Londra non si è fatta in un giorno e in un giorno non si smonterà. Neanche in qualche decennio. E, tuttavia, il tempo degli sciacalli ha già visto sorgere la sua alba. Prima ancora di sapere il corso, tutt’altro che lineare, che prenderà l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e la natura dei futuri rapporti tra Londra e il vecchio continente, gli ex partner già si contendono le presunte spoglie della City.
Con l’eleganza di un branco di lupi e con la serietà di un avanspettacolo. Renzi e Sala non perdono tempo. Già favoleggiano di ravvivare il transatlantico spiaggiato di expo e la spiaggia sepolta di Bagnoli con le schegge prodotte dall’esplosione immaginaria della più grande piazza d’affari d’Europa. Ma, se sono tra i più ridicoli, non sono certo i soli.
Numerosi candidati si fanno avanti con ambizioni ancora più spudorate di soppiantare la City londinese. Gli imbonitori imperversano sulla rete, sulla stampa, nei circoli padronali e perfino nelle cancellerie, promettendo il paese della Cuccagna finanziaria.
L’esito del Brexit, come era prevedibile, ha portato ad una ulteriore radicalizzazione delle posizioni, anche e soprattutto nella Sinistra cosiddetta radicale e/o antagonista. Da una parte c’è chi lo interpreta come un rigurgito nazionalista, xenofobo e razzista, di fatto aderendo completamente alla lettura che ne dà il sistema politico mediatico dominante, ivi compresa, ovviamente la “sinistra” liberal (e anche “radical”) di governo. Dall’altra chi lo saluta invece entusiasticamente come un atto di rifiuto e di ribellione consapevole da parte di ampi settori popolari nei confronti dell’UE e delle sue politiche neoliberiste che potrebbe contribuire a riaprire una fase di conflittualità sociale.
La mia personale opinione è che la situazione sia ancora più complessa rispetto a queste due interpretazioni che peraltro contengono entrambe del vero.
Non c’è infatti alcun dubbio che il “Brexit” abbia raccolto il consenso di ampi strati sociali popolari e di lavoratori impoveriti dalle politiche neoliberiste e castiganti dell’Unione Europea a trazione tedesca. Non c’è però altrettanto dubbio sul fatto che questo legittimo risentimento, in assenza di forze di Sinistra autorevoli e rappresentative, sia stato e sia però prevalentemente egemonizzato da forze nazionaliste, “isolazioniste” (ma solo ideologicamente…), populiste e tendenzialmente xenofobe.
Il
Movimento 5 Stelle ha riscosso un grande e meritato successo
elettorale ed è diventato una credibile forza candidata al
governo del Paese.
Diventa quindi importante valutare quale sia il suo piano di
governo per risollevare l'Italia dalla crisi economica che
dura ormai da troppi anni. Il
programma economico del Movimento fondato da Beppe Grillo –
a partire dal reddito minimo per tutti i cittadini per
passare poi alla
pubblicizzazione della Banca d'Italia, alla riconversione
verde della politica energetica, al credito mirato per le
piccole e medie imprese, alla
rivisitazione del debito pubblico, alla critica all'euro,
all'autoritarismo dell'Unione Europea e alle sue politiche
di stupida austerità, ecc
- è largamente condivisibile. Ma mancano ancora due elementi
indispensabili perché questo piano possa diventare realmente
efficace e
concreto: la democrazia economica e la Moneta Fiscale.
Senza partecipazione diretta e dal basso alla gestione dell'economia il programma economico dei 5 Stelle è destinato ad afflosciarsi di fronte alla prevedibile formidabile resistenza dei centri di potere del finanzcapitalismo; e senza moneta fiscale, ovvero senza espansione monetaria nell'economia reale, l'austerità e la crisi proseguiranno, e gli obiettivi di reddito garantito e di lavoro per tutti non verranno centrati.
Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero (Aristotele).
1. Tempo e velocità
hanno un limite
Il mondo non ha più tempo da perdere. Siamo nel mezzo della crisi energetica più rilevante nella storia dell’umanità. Se per gioco volessimo rappresentare con personalità conosciute le generazioni che succedendosi hanno “plasmato la memoria” su cui risiede la nostra civiltà occidentale – a scelta da Pitagora a Pericle a Cesare a Carlo Magno a Marco Polo a Napoleone a Marx, ad Einstein a Feynman, fino ad Obama – sarebbe sufficiente spalmare su un grande palco una novantina di illustri individualità – (90 personalità x 25 anni a generazione =2250 anni di storia). Ma se volessimo prevedere quanti nuovi personaggi potranno salire d’ora in avanti su quel palco, dovremmo riflettere che, almeno a detta del mondo scientifico più responsabile e accreditato, non potremmo andare oltre alle quattro o cinque unità, se i nuovi “leader” si limitassero a replicare il “business as usual”, con i conseguenti effetti irreversibili e devastanti sul clima e la temperatura del pianeta.
In pratica, la velocità di trasformazione e di sfruttamento delle risorse naturali e lavorative è giunta al punto tale da pregiudicare, con gli effetti di manomissione dei cicli naturali, il mantenimento della biosfera e la sopravvivenza della specie.
Al dramma potrebbe aggiungersi la farsa. Secondo il Guardian, la decisione di Cameron di trasferire al proprio successore la notifica dell’uscita dall’UE sarebbe la prima mossa di una politica del rinvio, nella speranza che le prime conseguenze negative del referendum producano il ripensamento di una parte di coloro che hanno votato “leave”, e anche di alcuni leader dello schieramento antieuropeo. Il “non c’è fretta” della Merkel va nella medesima direzione. Sarebbe il bis del referendum greco, il cui esito è stato immediatamente contraddetto dalle decisioni del governo che l’aveva promosso.
Non stupisce che si consideri credibile l’ipotesi di una replica, a Londra, di quanto accaduto ad Atene. Il voto del 23 giugno ha sancito la frantumazione multipla (territoriale, generazionale, sociale) di un Regno che di Unito ha conservato soltanto il nome. Una frantumazione oltre tutto priva di rappresentanza politica, come conferma il divario tra la grande maggioranza dei parlamentari britannici, favorevoli alla permanenza nell’UE, e l’esito del referendum.
Analogo è il responso delle elezioni spagnole che, per la seconda volta in sei mesi, confermano la fine del bipartitismo popolari-socialisti e nel contempo segnalano la battuta d’arresto di Podemos, cioè del tentativo di proporre un’alternativa che non sia di pura protesta.
Due sono gli scenari che si aprono: una maggiore integrazione, ma fondata su presupposti neoliberali, o un recupero di sovranità, politica ed economica, da parte degli Stati membri
A meno di un anno dal referendum greco, una nuova scossa ha investito il processo di integrazione europeo. Il 23 di giugno, la maggioranza assoluta dei votanti del Regno Unito ha deciso di abbandonare l’Unione Europea. Si chiude così una vicenda iniziata con la mossa di Cameron, che nella campagna elettorale del 2015 promise il referendum per contenere il deflusso di voti verso gli estremisti dello UKIP.
Difficile negare che si tratti di una sorpresa: il leave ha vinto nonostante l’impatto emotivo dell’omicidio della deputata laburista Jo Cox e l’appoggio dato al remain da parte dei grandi partiti e dalla maggioranza degli intellettuali. Tuttavia, come segnalava Krugman sul suo blog, bisognava essere ciechi per non vedere arrivare una crisi di questo genere nel progetto europeo. L’analisi del voto mostra infatti risultati interessanti: da un punto di vista geografico, a votare per il leave sono stati per lo più i cittadini dei grandi centri urbani delle Midlands come Birmingham e vecchi distretti industriali delle West (59,3%) e East Midlands (58,5%). Aree che hanno sofferto intensi processi di deindustrializzazione e smantellamento di interi comparti produttivi, a seguito dell’applicazione delle ricette neoliberiste di origine Thatcheriana portate avanti negli ultimi decenni con la benedizione dell’UE.
Il voto del popolo inglese spinge i nemici della democrazia a tradirsi in una reazione scomposta.
Niente che ci sorprenda, anni fa era stato denunciato il programma per una falsa democrazia maturato sin dai tempi della fondazione dell’ONU, adesso non ci sono più scuse per non vedere
Per il Senatore a vita Giorgio Napolitano l’esercizio della volontà popolare è “un azzardo sciagurato“, per il vice direttore della Stampa nonché volto rassicurante del politically correct del salotto di Fabio Fazio Massimo Gramellini è ora di finirla col suffragio universale perché “La retorica della gente comune ha francamente scocciato“, per Beppe Severgnini il suffragio universale andrebbe tolto a chi non è più giovane (quanto giovane? E lui fa parte dei giovani?) perché la colpa è dei vecchi che hanno costituito una “decrepita alleanza“, per Mario Monti, il Senatore nonché ex Presidente del Consiglio che nessuno ha mai eletto, il suffragio universale va concesso solo per votazioni che non riguardino i piani di chi comanda altrimenti sono un “abuso di democrazia“, per il tuttologo neo santone (anche lui certificato politically correct dall’immancabile Fabio Fazio) e in odore di santità laica Saviano, il popolo che vota è sempre a rischio di nazismo “Me lo ricordo il Popolo, nel 1938, acclamare Hitler e Mussolini” (se lo ricorda?!? Ma come fa, manco fosse Christopher Lambert in Highlander…), per tutti questi e altri patinati idoli del pensiero politicamente corretto la democrazia è qualcosa di molto diverso da quello che tutti noi dall’altra parte della ribalta pensavamo.
Nelle democrazie consolidate «il popolo» e cioè i disoccupati, i precari, le periferie hanno usato il voto per vendicarsi. La vendetta riguarda le sconfitte economiche/politiche e l’emarginazione sociale subite senza potersi difendere. Per difendersi avevano bisogno di rappresentanti all’altezza dei loro bisogni sotto scacco e che avessero un’alternativa alla crescente deindustrializzazione, alla flessibilità del lavoro, alla ghettigazione urbana. Rappresentanti che nei governi locali, nelle istituzioni nazionali e transnazionali avessero una politica contrapposta all’altra in corso.
E cioè alla politica che ha abdicato al suo ruolo e si fa suggerire dall’economia come democraticamente realizzare le esigenze dell’economia. Esigenze di valore universale: meno lavoro operaio significa un minor prezzo del bene prodotto e dunque un vantaggio anche per l’operaio che ha perso il lavoro.
Il mercato unico e l’appuntamento elettorale son divenute una sorta di brevetto di legittimazione di come si deve stare nel mondo. È poi quel mondo in cui il dito viola dell’elettore analfabeta e il degrado di città come Detroit o Manchester o Bagnoli testimoniano la guerra combattuta, vinta dagli uni e persa dagli altri. Coloro che l’hanno vinta si son resi conto che potevano vincerla quando hanno capito di non avere più avversari. E anzi che il loro governo del mondo era accettato da chi nel passato lo combatteva in campo opposto.
In un’intervista esclusiva per il nostro sito, Domenico Losurdo, Presidente dell’Associazione Politico-Culturale Marx XXI, presenta il suo nuovo libro, “Un mondo senza guerre”
Iniziamo
da
un nesso immediato: il tema centrale del tuo nuovo libro (D.
Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle
promesse del passato alle
tragedie del presente, Carocci, Roma) non può che richiamare
alla mente, a quel lettore che ha seguito un poco il tuo
percorso intellettuale,
un altro tema a cui hai dedicato attenzione nel corso dei
tuoi studi: quello della non-violenza (cfr. La non-violenza.
Una storia fuori dal mito,
Laterza, Roma-Bari 2010). Esiste un filo conduttore tra
questi argomenti e tra queste due ricerche?
Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace.
Si sta parlando molto degli effetti politici della Brexit, ma che succede effettivamente se il Regno Unito lascia l’Unione europea? Riprendendo l’ampio lavoro fatto da Full Fact, organizzazione britannica indipendente di fact-checking, abbiamo provato a descrivere le possibili conseguenze che ci saranno riguardo importanti temi, come il commercio, le finanze pubbliche, gli investimenti esteri, l’immigrazione, il lavoro e i diritti umani.
L'Unione Europa è il principale partner commerciale del Regno Unito, con il 53,2% delle importazioni di beni e servizi e il 44,6% delle esportazioni nel 2015, come certificato dall’Office for National Statistics (l’istituto statistico del Regno Unito). Come cambierà il rapporto commerciale tra Ue e Regno Unito non si può ancora sapere, dipenderà infatti dall’accordo che sarà raggiunto.
Introduzione
La globalizzazione della produzione e il suo spostamento verso i paesi a basso reddito costituiscono una delle più significative e dinamiche trasformazioni dell’era neoliberista. La sua forza trainante fondamentale consiste in quello che numerosi economisti chiamano “arbitraggio globale del lavoro”: lo sforzo compiuto dalle imprese in Europa, Nord America e Giappone al fine di tagliare i costi e aumentare i profitti rimpiazzando il relativamente ben pagato lavoro domestico con manodopera estera a basso costo, ciò sia attraverso l’emigrazione della produzione (la cosiddetta “esternalizzazione”) sia tramite l’emigrazione dei lavoratori. La riduzione dei dazi e la rimozione delle barriere ai flussi di capitali hanno stimolato la migrazione della produzione in direzione dei paesi a basso reddito, ma la militarizzazione delle frontiere e il crescere della xenofobia hanno creato l’effetto opposto sulla migrazione dei lavoratori provenienti da questi stessi paesi – non fermandoli del tutto, bensì inibendo il loro flusso e aggravando il già vulnerabile status di serie B dei migranti. Di conseguenza, le fabbriche attraversano liberamente il confine USA-Messico e passano agevolmente i muri della fortezza Europa, così come le merci in esse prodotte e i capitalisti che le possiedono, mentre gli esseri umani che vi lavorano non godono del diritto di passaggio. Si tratta di una parodia di globalizzazione – un mondo senza frontiere per tutto e tutti a esclusione dei lavoratori.
1. Breve riassunto
Il referendum inglese sull'UE rappresenta un punto di svolta, che non poteva non generare un dibattito sostenuto. Abbiamo cercato di documentarlo in questi giorni sul blog. È probabile che il prossimo futuro ci riservi altri mutamenti politici significativi (la decisione di ripetere il ballottaggio per le elezioni presidenziali austriache va in questa direzione). In un momento simile si può forse provare a fare il punto di quanto fin qui elaborato, per capire se le ipotesi che ci hanno mosso finora hanno retto al confronto con la realtà.
Da quando Fabrizio ed io abbiamo cominciato ad occuparci di questi temi, cinque anni fa (“Liberiamoci dall'euro” uscì appunto nel luglio 2011) abbiamo elaborato alcune convinzioni, disseminate in vari scritti, che si possono sintetizzare come segue:
1) Euro e UE sono la forma particolare assunta sul nostro continente dalle politiche neoliberiste. Sono il modo in cui i ceti dirigenti europei hanno cercato, finora riuscendoci, di realizzare le politiche neoliberiste di attacco ai ceti subalterni. Tali politiche sono connaturate al modo come euro e UE sono state costruite, e non possono essere contrastate se non con lo smantellamento di euro e UE. L'Unione Europea si abbatte e non si cambia.
2) Le politiche neoliberiste targate UE portano alla distruzione di tutte le conquiste ottenute dai ceti subalterni europei nel trentennio seguito alla fine della seconda guerra mondiale.
Abbiamo cominciato a pensare che la Brexit avrebbe potuto farcela quando abbiamo letto la notizia sorprendente che anche “nella City la finanza si spacca” (F. Giugliano, “La Repubblica”, 21.6.2016). Era mai possibile? Allora non c’erano soltanto anziani popolani spaventati dall’immigrazione straniera oppure industrialotti preoccupati dalle importazioni tedesche! Qui c’era dell’altro che andava ricercato e che finalmente abbiamo trovato.
Tra febbraio e marzo 2016 compare sulla stampa l’annuncio che la Borsa di Londra (tra l’altro proprietaria del 100% della Borsa di Milano) è prossima a fondersi con quella di Francoforte a realizzazione di un vecchio progetto tedesco testardamente perseguito da almeno una decina d’anni. Intervistato da “La Repubblica” (17.3.2016) commenta Davide Serra della Algebris Investments: “vedo in questa operazione una grandissima lezione per l’Europa politica, continuamente divisa e inefficiente in mille campi… La creazione di questa holding unica indica la strada da seguire: presentarsi al resto del mondo, dagli americani ai cinesi, con una struttura forte e un vero mercato europeo… E’ una scelta logica che suona a merito dei tedeschi”.
Ma quali sono le condizioni dell’accordo? Pur affermando platealmente che sarebbe stata una “fusione tra eguali”, addirittura con la sede centrale a Londra “in omaggio alla legge di Wimbledon:
Perché due outsider come Sanders e Trump hanno avuto successo? Su quali punti si somigliano e in cosa sono diversi? Che interessi esprimono? Due libri di recente pubblicazione – l’autobiografia politica di Sanders e il saggio su Trump di Andrew Spannaus – rappresentano un prezioso strumento di comprensione di quanto sta avvenendo negli Stati Uniti e non solo.
Poco dopo la pubblicazione dell’autobiografia di Bernie Sanders per i tipi di Jaca Book (“Un outsider alla Casa Bianca”) esce un libro del giornalista americano Andrew Spannaus sulla vittoria di Donald Trump alle Primarie del Partito Repubblicano (“Perché vince Trump. La rivolta degli elettori e il futuro dell’America”, Mimesis Edizioni).
Letti assieme, questi due lavori rappresentano un prezioso strumento di comprensione di quanto sta avvenendo nel Paese che i nostri servilissimi media continuano a chiamare “la più grande democrazia del mondo”. Aiutano infatti a capire: 1) che tanto democratico quel Paese non è; 2) che i cittadini americani lo sanno benissimo (forse ancor più di quanto gli europei dimostrano di aver capito che la Ue è un’oligarchia postdemocratica); 3) che le differenze ideologiche fra Sanders e Trump – per quanto radicali – sono meno significative di ciò che li accomuna e li contrappone (o meglio contrappone coloro che li sostengono) al sistema di potere incarnato da Hillary Clinton.
Diciamo che non è proprio normale. Pochi giorni dopo che Boris Johnson aveva rinunciato a candidarsi alla guida dei Tories, anche l’altro “vincitore” del fronte Brexit decide di dimettersi.
Nigel Farage, fondatore e leader dell’Ukip, partito nazionalista con forti connotazioni razziste, ha annunciato le sue dimissioni da segretario del partito. “Ho deciso di mettermi da parte come leader dell’Ukip”, visto che “la vittoria del Leave nel referendum significa che ho raggiunto la mia ambizione politica”.
Assolutamente stupefacente la motivazione ufficiale: «Sono entrato in questa lotta per l’indipendenza perché volevo che fossimo una nazione autonoma, non per diventare un politico in carriera». Di più: «Durante il referendum volevo indietro il mio Paese, adesso rivoglio la mia vita. Ho raggiunto il mio obiettivo politico».
Difficile vedere in Farage un novello Cincinnato che, vinta la guerra, si ritira in campagna. Sta di fatto che, diversamente da Johnson, popolarissimo ma poco amato dall’establishment del suo partito, Farage non aveva praticamente rivali interni. Quindi nel suo caso non può esistere alcuna ragione politico-partitica che ne giustifichi le dimissioni, perché – da che mondo è mondo – un vincitore non si ritira prima di aver assunto, o aver provato a farlo, la guida della fase per cui si è battuto.
L’occasione
della ripubblicazione di una raccolta antologica di alcuni
scritti della RAF[1]
è stato il quarantennale
dall’assassinio di Ulrike Meinhof, uccisa nel carcere di
Stammhein il 9 maggio 1976. Ma l’intento di questo lavoro non
è né
celebrativo, né esclusivamente memorialistico, ritenendo che
la memoria non possa che consistere in una ripresa in mano, da
parte
dell’odierna generazione di militanti rivoluzionari, di quanto
dell’esperienza RAF sembra avere ancora qualcosa di importante
da dire
nello scenario attuale. Pertanto con l’introduzione ai testi
abbiamo provato ad individuare e riflettere su alcune ipotesi
della RAF che, a
nostro avviso, hanno trovato conferma nella realtà in cui
viviamo: cioè l’odierna fase imperialista del capitalismo
globale.
Sintetizzando, le intuizioni teoriche e pratiche della RAF, che ci sembrano aver trovato un riscontro fecondo nella cornice storica attuale, sono:
- l’eclissi della dimensione dello stato nazione e l’internazionalizzazione di fatto di ogni dimensione politica
- lo sviluppo della tendenza alla guerra come elemento centrale dell’attuale fase imperialista
- Le trasformazioni che hanno interessato la composizione di classe dentro il cuore del sistema imperialista che tendono a confermare come l’attenzione, e conseguente centralità, posta dalla RAF per le “masse senza volto” cogliesse appieno ciò che il destino riservava alle classi sociali subalterne. Oggi, ciò che negli anni 70 del Novecento poteva apparire ancora come un’eccezione (causando spesso alla Raf accuse di deliberato minoritarismo o estremismo) sembra diventare, attraverso un processo a cascata, la regola.
Introduzione
Il testo che
segue, un intervento del 1994 nel corso di un seminario sul
tema dei rapporti tra capitale e Stato, in seguito
pubblicato su un periodico economico
brasiliano, discute in maniera schematica il ruolo dello
Stato e della politica nella società moderna, mettendolo in
relazione con la sfera
dell’economia, del mercato e quindi del denaro.
L’antagonismo ideologico tra Stato e mercato che ha finora
caratterizzato la
modernità, è ingannevole perché riposa su una base comune ad
entrambi i poli della contesa. L’idea socialista che vede
nello Stato il lato autentico e positivo dell’universalità
sociale, addirittura la leva dell’emancipazione sociale,
antitetico
all’anarchia del mercato, è altrettanto unilaterale
dell’idea liberale che lo giudica come un mostro
burocratico, oppressivo e
parassitario, contrapposto all’efficienza e
all’auto-regolazione del mercato. In realtà Stato e mercato
sono i due volti della
testa di Giano della società capitalistica e il loro
rapporto indissolubile, nella crisi della terza rivoluzione
industriale, manifesta tratti
paradossali in una fase in cui la crisi strutturale del
capitalismo mette spietatamente in luce la dipendenza dello
Stato dai processi di
valorizzazione. L’espansione della spesa pubblica, tanto
biasimata da neo-liberali e conservatori, si origina, in
realtà, dalle numerose
funzioni che lo Stato deve assolvere per garantire i
presupposti generali di una società articolata e basata
sulle dinamiche di mercato
(produzione di norme, riparazione dei costi sociali ed
ecologici, realizzazione di infrastrutture, sovvenzioni e
politiche protezionistiche etc.), che
i singoli capitali privati non sono in grado di realizzare
autonomamente.
Se i diritti dei lavoratori vengono
messi in
discussione, il movimento di contestazione sociale che
denuncia questa sfida deve confrontarsi con un problema di
ordine teorico e strategico.
Cosa significa? Le leggi come la legge El Khomri sono soprattutto ricche di insegnamenti. Il sistema che mette al primo posto finalità quali la "crescita", la "produttività", la "competitività", se garantisce che una legalità che permetta il suo funzionamento non esclude la negazione degli interessi vitali della classe lavoratrice (quella che pure rende possibile, in senso stretto, la creazione del valore), in questo stesso momento fa un'esplicita confessione. In un certo qual modo, ed in maniera paradossale, questo sistema si auto-denuncia. Proclama, spudoratamente, che quel che considera "virtuoso" corrisponde, nei fatti, ad un occultamento del vissuto qualitativo concreto di tutti coloro che fanno "funzionare" la macchina, vale a dire che esso corrisponde a ciò che è scandaloso in sé.
Questa confessione è un'occasione: la classe che detiene il capitale, e lo Stato che ne difende gli interessi, ci offrono il bastone con cui batterli. Un cinismo così chiaro ci fa definitivamente vedere come il sistema non abbia assolutamente niente di "sano" (cosa che il mito dei "Trenta gloriosi" tendeva a farci dimenticare). Un dimostrazione così radicale di disprezzo istituzionalizzato è un appello all'insurrezione.
Cronache marziane del dopo Brexit. C’è un antica scenetta di Totò riproposta in più di un film in cui il protagonista chiede all’avversario di dargli uno schiaffo se ne è capace e quello invece di esitare gli assesta uno smataflone tremendo, allora Totò incredulo per tanta arroganza, gli dice di dargliene un altro se ha il coraggio così quello gli tira un altro ceffone da antologia e la storia si ripete con Toto che ancora non ci crede e vuole vedere fin dove andrà avanti il suo schiaffeggiatore. Il pubblico capisce che tutto questo fare educato e apparentemente riflessivo non è altro che paura, insicurezza e ride di fronte a una correttezza che è solo impotenza e vigliaccheria, con ciò raggiungendo la catarsi su ciò che esso stesso è.
Purtroppo la gag rappresenta ciò che sta accadendo da decenni: l’opinione progressista prende botte da orbi, ma sembra non reagire, limitandosi ad essere incredula di fronte al suo avversario che ormai non nasconde nemmeno più le sue intenzioni. Tutte le volte sembra porre un limite dicendo che più non è possibile oltrepassarlo, ma l’avversario se ne frega e procede come un treno. Così invece di opporsi a mosse e intendimenti dichiarati apertis verbis abbozza e dedica le forze a santificare in qualche modo le armi del nemico, come se questo riducesse la portata della sconfitta, mentre porta solo conforto psicologico. Illustri e nobelati economisti dicono che l’euro è un assurdo economico, ma una mano santa per la riduzione della democrazia e questo induce a una sgangherata fede nella moneta unica;
Senza la guerra. Moriremo pacifisti?: un volumetto uscito per Il Mulino, a quattro voci - Galli Della Loggia, Cacciari, Rasy e Caracciolo - sugli effetti e l'oblio dei conflitti in Europa
Da tempo Ernesto Galli della Loggia promuove sulla prima pagina del Corriere della sera la tesi secondo cui un’imbelle Europa occidentale avrebbe rimosso la guerra, con ciò rivelando di avere rotto con il proprio passato. Ora, questa posizione viene elaborata in un volumetto a quattro voci (Senza la guerra. Moriremo pacifisti?, Il Mulino, pp.125, euro 12). Si tratta di un testo d’occasione, in cui la tesi in questione si specchia nelle riflessioni di Lucio Caracciolo sull’eredità della grande guerra nella geopolitica contemporanea, di Massimo Cacciari sulla scomparsa di Polemos (e sul fallimento dell’utopia della regolazione dei conflitti ) e di Elisabetta Rasy sulla sostituzione della nobiltà della vittima a quella del guerriero nella letteratura del Novecento. In realtà, con l’eccezione di Caracciolo – che in un certo senso sostiene il contrario di Galli della Loggia, cioè il perdurare degli effetti dei conflitti mondiali e quindi «il passato che non passa» – il libretto ruota intorno all’oblio della guerra e dei guerrieri come aspetto decisivo della coscienza europea.
Un'altro contributo di analisi, un punto di vista che aggiunge un ulteriore tassello nel contesto storico europeo estremamente complesso che stiamo vivendo post Brexit
Chi ha una certa esperienza di scissioni delle organizzazioni della sinistra, sa che per le loro leadership è impensabile ammetterle: «Scissione? Quelli che sono andati via erano solo degli estremisti che non capiscono. Andiamo avanti». Che in genere vuol dire: andiamo avanti sulla strada che ha provocato la scissione. Le reazioni della burocrazia europea e degli stati fondatori dell’Unione, dopo il referendum britannico, seguono la stessa tradizione.
La Gran Bretagna sembrava «too big to exit» e, in ogni caso, «dentro forse non andava bene, ma fuori sarebbe sicuramente peggio». Collaborando con Obama e la City di Londra, gli euroburocrati sono stati i protagonisti di una lotta esistenziale per la vittoria del Bremain: per difendere «la civilizzazione occidentale» (D. Tusk), cioé per salvare il modello mancato di unificazione dell’Europa ed evitare un episodio disastroso di crisi nel contesto della recessione globale. Oggi, hanno fretta di andare «avanti» con i 27. Ma avanti dove?
Le iniziative di Wolfgang Schäuble dopo il risultato del 23 giugno non cambieranno la dottrina che ha prodotto la delegittimazione della UE in Gran Bretagna, dopo averlo fatto in Grecia, Islanda e Francia.
La radice della Brexit è nelle tendenze del mercato del lavoro britannico e sembra avere poco a che fare con l’andamento dei conti esteri. Il voto del 23 giugno ha definito un nuovo particolare blocco sociale che lega insieme le elite conservatrici, che si sentono più vicine al Commonwealth che al continente europeo, e i settori marginali della società britannica, minacciati dalla crescente concorrenza degli immigrati, resa possibile proprio dalla deregolamentazione del mercato del lavoro.
Brexit ha scatenato, come prevedibile, un’ondata di commenti di analisti più o meno ‘esperti’, economisti più o meno autorevoli, grandi e piccole firme. In generale, si può affermare che l’evento è stato interpretato come conferma di ciò che si era previsto, soprattutto da parte di economisti che sono convinti che certamente l’UE è destinata all’implosione o – variante di questa profezia – che è vi sono rilevanti rischi che ciò accada. Su questa linea, alcuni commentatori, che hanno ritenuto e ritengono che la crisi dell’Eurozona sia imputabile agli squilibri commerciali al suo interno, hanno stabilito che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione dipenderebbe dai crescenti squilibri commerciali che il Paese ha accumulato verso l’UE negli ultimi anni, come mostrato in Tabella 1.
Con questo testo intendiamo contribuire alla discussione che si terrà al Festival Antirazzista di Atene, un’occasione per fare un bilancio e per discutere la crisi di Blockupy anche oltre Blockupy, a partire dai limiti che ha mostrato nell’intervenire negli attuali movimenti che attraversano lo spazio europeo
Il risultato del referendum britannico è l’ennesimo segnale della crisi di un processo di integrazione europea portato avanti esclusivamente all’insegna dell’austerity e del dominio incontrastato del capitale finanziario. È una considerazione di senso comune. C’è chi ha accolto quel risultato con entusiasmo, leggendovi l’espressione di una presa di posizione operaia che finalmente trova modo di farsi valere, sebbene attraverso le pieghe di un ‘ambiguo’ nazionalismo. Altri invece hanno segnalato la necessità di una visione alternativa dell’Europa, puntando anche ad attraversarne gli assetti istituzionali nella prospettiva di forzare i rapporti sociali che vi trovano espressione. La cosiddetta Brexit pone però ai movimenti una questione fondamentale che riguarda tanto la direzione del legittimo rifiuto di classe dello sfruttamento e dell’oppressione rappresentati dalle politiche dell’Unione, quanto la dimensione plausibile della nostra iniziativa politica. Nel momento in cui abbiamo affermato che l’Europa è lo spazio minimo di quest’iniziativa, fare i conti con le tensioni che l’attraversano senza dare per scontata la sua tenuta istituzionale è quanto mai necessario.
Per noi l’Europa è uno spazio politico transnazionale. Essa non si esaurisce nella forma istituzionale dell’Unione Europea e neppure coincide con la semplice sommatoria di spazi nazionali, come se questi potessero essere chiaramente distinti dalle dinamiche globali e dal potere sociale che li costituiscono.
Nel 2015, in
questo stesso periodo dell’anno, ci siamo occupati di GREXIT.
Anche questa estate, ad un anno dal voto OXI, ci occupiamo di
un altro paese che
vuole rompere con la politica unitaria europea. Il paragone
tra Grecia e Regno Unito è molto improbabile, per via della
storia, delle
dimensioni e dei diversi gradi di sviluppo dei due paesi. Però
alcune analogie si possono rilevare, soprattutto a proposito
dei rapporti tra
governi nazionali e cittadini, visto che questi ultimi - in
entrambi i casi - hanno scelto di contrastare le élites
europee. In entrambi gli
avvenimenti il ruolo della sinistra è stato molto ambiguo. Nel
caso greco il governo Tsipras si è rivelato inadeguato a
rappresentare le
istanze di cambiamento provenienti dalle classi lavoratrici
che in massa – prima attraverso manifestazioni pubbliche, poi
attraverso il voto
– hanno rifiutato i memoranda della troika.
Ma andiamo al caso inglese, sulla Grecia abbiamo già scritto abbastanza qui, qui, qui e qui. Non mi soffermerò sulla polemica a sinistra scoppiata in rete tra sostenitori del remain e sostenitori del leave sulla composizione dell’elettorato inglese che è andato a votare al referendum BREXIT. Per questo argomento – si ritiene per ora superfluo - rimandiamo a quest’analisi di Andrea Genovese apparsa su Contropiano qualche giorno fa.
Le
elezioni
europee di maggio hanno rinfocolato il dibattito pubblico
intorno all'euro. Per lo più da destra, ma anche da
sinistra una schiera di
organizzazioni e di singoli propone l'uscita dall'euro
come la carta primaria da giocare contro la crisi e contro
l'oligarchia economico-politica che
impera in Europa, la sola alternativa alle politiche di
"austerità". Una carta da giocare, si dice da sinistra (ma
anche da destra),
nell'interesse dei lavoratori. Forse non sufficiente di
per sé a risolvere tutti i loro problemi; però, quanto
meno, può essere
l'inizio della soluzione.
L'uscita volontaria dall'euro può suonare suggestiva in quanto evoca la possibilità (inesistente) di tornare a tempi un po' meno aspri degli attuali, ma è secondo noi, per gli interessi dei lavoratori, una soluzione-truffa del tutto interna alla logica capitalistica. E non comporterebbe affatto la fine dei sacrifici. Di più: la propaganda e l'agitazione in suo favore in atto a sinistra, con argomenti quasi sempre simili a quelli della destra "sociale", è pericolosa, perché mette in circolo altri veleni nazionalistici. Come se non bastassero quelli che intossicano corpo e testa di milioni di proletari/e da generazioni.
Il gioco è enorme, come la sua posta. Come inserire e accomodare allora singoli episodi, singoli eventi, singole "cause giuste"?
Spesso, come accade a tutti, sono invitato a indignarmi, prendere posizione, fare appelli, dare un contributo per questa o quella "causa giusta". Non so se abbia un reale senso il proverbio che dice "Delle migliori intenzioni sono lastricate le strade dell'inferno". Francamente ho anche dei dubbi sulla sua interpretazione. So però, perché l'ho visto, che quando le migliori intenzioni e i migliori ideali sono avulsi da ogni contesto creano spesso danni importanti e molteplici. Il primo a essere danneggiato è l'idealista, che viene fagocitato da meccanismi che non conosce e non riesce a vedere. La seconda cosa che viene danneggiata è l'ideale stesso, che finisce per perdere di credibilità. La storia della Sinistra sembra un continuo autodanneggiamento dei propri ideali. Infine viene danneggiato proprio chi dovrebbe invece trarre beneficio dall'applicazione di quegli ideali. I migranti e i rifugiati ne sono oggi un tragico caso apodittico. Purtroppo, i periodi di crisi esaltano gli errori autolesionisti e li portano al loro limite. Proprio perché le crisi non perdonano gli errori. Anzi, di essi si nutrono. E, ahimè, le crisi complicano tutto, rendendo gli errori sempre più probabili.
Uno dei campi privilegiati di coltura degli errori è la lotta antimperialista, perché questa lotta è per definizione immersa nelle contraddizioni.
«Invidia sociale», «ascoltare»: come sempre il lessico esprime i livelli di stratificazione di una identità radicata. Vie d’uscita per i veri eredi del movimento operaio
Alcune espressioni linguistiche hanno la caratteristica di definire con esemplare chiarezza la dimensione politica e culturale nell’ambito della quale si muove chi le pronuncia. Di tale dimensione delimitano con nettezza i confini e determinano la profondità del radicamento cosciente ed inconscio. La locuzione «invidia sociale» è particolarmente indicativa a questo proposito.
Qualche anno fa l’economista Antonio Martino (quello che alla fine del secolo scorso aveva scritto «Marx va rispettato per il suo pathos, ma non certo per l’economia politica di cui era del tutto ignorante»), già ministro di governi Berlusconi, dedicò alla «invidia sociale» un’intera pagina del suo blog (11 giugno 2010). L’invidia sociale «è stata il carburante del comunismo, il suo ricostituente», sintetizzava il senso della pagina un ammiratore di Martino. In verità Martino, in perfetta coerenza con i suoi riferimenti ideologici (il Nozick dello Stato ultra-minimo, il Nozick secondo cui anche politiche minime di giustizia distributiva implicano una violazione dei diritti individuali), non si limitava a considerare l’invidia sociale «carburante del comunismo», bensì il «carburante» di tutte le forme di lotta di classe dal basso a partire dalle rivoluzioni di fine XVIII secolo.
1. Come premessa di questo post, va rammentato che il famoso
rapporto tra opinione pubblica e opinione di massa
- la
prima predeterminata dal potere della "razionalità
indiscutibile" delle forze del mercato e la seconda che
"deve" seguire idraulicamente-, vale in chiave
elettorale ma, a maggior ragione,
per i sondaggi, come momento preparatorio e
consolidativo del consenso "desiderato" dalle elites.
Sul punto vi invito a
rileggere, nella sua versione integrale, la
splendida
citazione di Gramsci, sul controllo del processo elettorale,
offertaci da Arturo.
Il sondaggismo, espressione della meccanica idraulica dell'ingegneria sociale, è più che mai al potere.
Il sondaggismo è divenuto, come abbiamo visto, sia neo-potere costituente, prevalente sull'esercizio partecipato della ex sovranità popolare, sia costituzione materiale in forma patafisica, (cioè il regno dell'immaginario libero di ciascuno, circa il senso della Costituzione normativa), prevalente su quella formale.
2. Naturalmente, il presupposto del sondaggismo è l'instaurazione di una neo-lingua orwelliana istituzionalizzata, tale da pre-indirizzare l'opinione di massa senza lasciarle alcuno scampo.
Torniamo perciò a commentare un sondaggio di Ilvo Diamanti: il tema riguarda gli equilibri elettorali sondaggistici proiettati sul funzionamento dell'Italicum.
Come mai la Commissione Europea ha autorizzato garanzie statali per 150 miliardi alle banche italiane? Un post di Zerohedge per capire1
Come abbiamo rilevato oggi (ieri, per chi legge), le voci di un bailout per le banche italiane avanzate lunedì mattina e prontamente stroncate dalla Merkel il giorno successivo, sono diventate più pressanti dopo un lancio della Reuters secondo cui il governo italiano stava considerando un modo più creativo per iniettare liquidità nel sistema bancario italiano.
Tuttavia era solo l’antipasto. Il piatto principale è arrivato più tardi quando il Wall Street Journal ha riportato – citando una portavoce della Commissione europea – che “la Commissione europea ha autorizzato l’Italia a utilizzare le garanzie di governo per creare un programma precauzionale di liquidità a supporto delle loro banche”.
Come è accaduto? Così in silenzio e senza la benedizione della Merkel? Il Wall Street Journal dice che il programma è stato approvato nell’ambito delle “regole straordinarie di crisi per gli aiuti di Stato”.
E noi che pensavamo che le banche italiane stessero andando così bene … No, fermi. Non lo pensavamo affatto.
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Hits 2119
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Hits 2003
“Che roba,
contessa!” Un tempo qualcuno cantava, e con accenti vibranti,
questa vecchia canzone di Paolo Pietrangeli in faccia al
clericofascismo nostrano spaventato e disgustato dalla
riscossa degli operai italiani. Oggi, molti di quei “qualcuno”
cantano ancora la
stessa canzone, ma sono loro, questa volta, ad essere
spaventati e disgustati: dal “no” degli operai inglesi
all’Europa. E con
l’immaginaria contessa condividono il rimpianto per i bei
tempi in cui l’intelligenza (la loro) contava ancora qualcosa,
lo stupore per
quei molti che si considerano vessati da quel gioiellino che è
l’Unione europea, il fastidio per il fatto che ormai anche
l’operaio
vuol decidere di testa sua : “non c’è più morale, contessa!”.
Oggi, dopo la Brexit, è tutto un “sì, ma…”: la democrazia è bella, ma…, i referendum saranno pure importanti, ma…, il suffragio universale non si tocca, ma… siamo sicuri che il voto di un qualunque tizio privo di cultura debba valere quanto il nostro? E su questioni così complesse, poi! E via sproloquiando. Dopo aver distrutto la scuola pubblica se la prendono con l’ignoranza del popolo. Dopo aver smantellato le concentrazioni operaie, dopo aver annichilito i partiti, dopo aver dichiarato che ogni ideale di eguaglianza (anzi, ogni e qualsiasi ideale) è pericoloso, hanno il coraggio di lamentarsi del populismo.
Sul referendum il regime trema. Ecco allora l'ipotesi "spacchettamento", un trucco per rimandare il voto sulla controriforma costituzionale al 2017
Avete in mente il Renzi che già pregustava una
vittoria plebiscitaria in autunno? Bene, non c'è più. Avete in
mente i commentatori che erano comunque certi della vittoria
del Bomba? Spariti come neve al sole. Idem quelli
sicuri della tenuta
dell'Italicum, la legge che vorrebbe garantire la
"governabilità" - cioè gli interessi di lorsignori - per
l'eternità.
Certo, Renzi è ancora al suo posto, l'Italicum è in vigore da ben 9 giorni, e perfino i pennivendoli di regime sono ancora a stipendio pieno. Tanto loro sono riciclabili, come la carta igienica.
Il quadro però sta cambiando. La Brexit gli ha fatto perdere la testa e le oligarchie sono all'opera per imbrogliare le carte. Volevano vincere a man bassa il referendum, del quale il sì sparato di Confindustria chiarisce assai bene la matrice di classe. Ora si sono accorti che quella vittoria è assai complicata. Certo, potrebbero ancora provarci con l'unica arma che gli è rimasta: la paura. Ma si è visto oltre-Manica che anche quest'arma potrebbe rivelarsi spuntata. Ecco allora la pensata: prendere tempo rimandando il referendum. Già, ma come, visto che la legge prevede una rigida tempistica?
La presente riflessione, non breve perché l’argomento non lo consente, raccoglie un percorso di pensiero che ho sviluppato da tempo in vari articoli che gli interessati troveranno riportati nelle note. Riepiloga ed argomenta intorno alla tesi che noi si sia entrati una nuova era, l’era della complessità. Entriamo in questa nuova condizione del mondo, con istituzioni, credenze ed immagini di mondo, ereditate da una lunga storia che va indietro anche oltre la modernità, una storia che aveva caratteristiche del tutto diverse. Ne consegue il concreto rischio di dis-adattamento
L’epoca in
cui siamo capitati (Heidegger avrebbe detto “siamo stati
gettati”) la definiamo “complessa”. Questa complessità ne
è il concetto, come moderno è stato il concetto di quella che
sta finendo. L’era della complessità subentra al moderno e
termina anche quella lunga incertezza definitoria che è
ricorsa all’utilizzo dei “post-qualcosa” per segnare la fine
del
moderno ma non ancora la nascita di qualcos’altro.
Vorremmo argomentare su tre punti: 1) perché definiamo la nostra, addirittura una “nuova era” e perché la definiamo complessa; 2) che cosa intendiamo per complessità; 3) cosa differenzia il complesso dal moderno e cosa ci indica, sul piano del cambiamento adattivo, questa differenza. I primi due punti si co-implicano e quindi l’argomentazione verrà svolta in un’unica soluzione prima di argomentare sul terzo
1) UNA NUOVA ERA? Da tempo è in questione, presso i geologi e da loro alla comunità scientifica in senso più ampio, se definire la nostra era in maniera nuova rispetto alla precedente. L’ipotesi in discussione è sul termine “antropocene”, l’era antropica ovvero l’era in cui non è più e solo la Natura a determinare il suo stesso stato e divenire ma la relazione tra questa è l’umano.
Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze della Grecia, ha pubblicato su il manifesto un articolo di critica alle posizioni di Stefano Fassina sull’Europa, sviluppate sull’onda di Brexit. Fassina propone “la riaffermazione della sovranità democratica a scala nazionale”, aggiungendo che “sono sempre più retoriche e astratte le invocazioni degli Stati uniti d’Europa e le mobilitazioni per democratizzare l’Unione Europea, proposte da Diem 25".
Varoufakis, principale l’ispiratore del movimento Diem 25, ha definito “preoccupante” il discorso di Fassina, accusandolo di “ritirarsi dentro posizioni nazionaliste”, simili a quelle di esponenti della destra europea come Marine Le Pen. La soluzione di Varoufakis per risolvere la crisi attuale è “una ricostruzione democratica del continente” in modo da “ricostruire, attraverso lotte e conflitto, un demos europeo che possa richiedere una costituzione federale e democratica”. Quindi, mentre Fassina propende per il superamento della moneta unica, Varoufakis è per conservare l’area euro, pensando di poterla democratizzare.
In effetti, in questo Fassina ha ragione, la posizione di Varoufakis appare astratta. Per capire se è possibile operare una democratizzazione dell’Europa occorre guardare a che cosa è l’Europa oggi nel concreto, cioè alla sua struttura materiale.
Ci siamo già detti che il vero nodo della Brexit è quello politico: ce lo confermano tanto la cronaca quanto un’analisi fattuale delle conseguenze economiche. Partiamo dal breve periodo. Il risultato del referendum ha scatenato una fisiologica ondata di volatilità sui mercati finanziari. La Borsa di Londra, che tifava “remain”, ha ceduto, recuperando in meno di una settimana. Il FTSE 100, che il 23 giugno era a 6338,1 una settimana dopo era a 6504,3. I media catastrofisti sono stati smentiti dai dati e dalle dichiarazioni di tante multinazionali che hanno confermato di non voler abbandonare Londra. Veniamo alla sterlina, che ha ceduto di circa il 10% rispetto al dollaro e dell’8% rispetto all’euro, stabilizzandosi in un paio di giorni. Non c’è stata la caduta libera di cui fantasticavano certi gazzettieri, ma non c’è stato nemmeno un recupero, né è prevedibile che ci sia. Il cambio della sterlina era sopravvalutato, per due motivi: la pesante svalutazione competitiva praticata da Draghi a partire dalla metà del 2014, che ha portato una sterlina a costare 1,4 euro (erano 1,2 a inizio 2014); le politiche di austerità imposta da Bruxelles, che hanno compresso i redditi dei cittadini dell’Europa continentale, e quindi, fra l’altro, i loro acquisti di beni inglesi, aggravando il deficit commerciale del Regno Unito.
Queste scaltre mosse dei nostri apprendisti stregoni hanno messo in difficoltà il resto del mondo, che ha reagito: la Cina a metà del 2015 (svalutando), gli Usa a fine aprile 2016 (mettendo la Germania nella lista nera dei manipolatori di valuta), e la Gran Bretagna approfittando della Brexit (ottima scusa per riportare il cambio alla casella di partenza, sfruttando razionalmente l’irrazionale isteria dei mercati).
Che Roma sia una città disastrata è ormai luogo comune. Dopo aver celato mediaticamente il progressivo disfacimento cittadino culminato nel piano regolatore del 2008, tutto l’apparato politico-culturale centrosinistro ha virato rocambolescamente narrazione: dal “modello Roma” veltroniano alla città fallita di Alemanno e Marino. Roma è stata in questi anni elevata ad epicentro dei mali nazionali, simbolo di corruzione e di malgoverno, annichilita da una narrazione mediatica che dieci anni prima la descriveva come modello metropolitano. Ovviamente, com’era politicamente orientata quell’esaltazione che celava il sacco speculativo che stava subendo la città nel suo complesso e in particolare la sua sterminata periferia, è oggi artificiosamente orchestrata questa narrazione opposta, che trasforma la Capitale nel peggiore dei mondi possibili. Il “diverso” (si fa per dire) modo in cui vengono raccontate le vicende romane e milanesi di questi ultimi due anni rappresenta un caso di studio. In questi giorni si è scopertol’ennesimo incredibile caso di corruzione milanese, alla faccia dell’antropologica differenza tra le due “capitali” del paese, delle “qualità morali” con cui ce la mena da anni la borghesia lombarda sopravvissuta a Tangentopoli.
In buona sostanza, la Mafia (quella vera, siciliana), ha gestito per anni (almeno, secondo l’inchiesta, gli ultimi tre anni) numerosi appalti legati alla costruzione dell’Expo e dei suoi padiglioni interni, nonché tutta un’altra serie di lavori inerenti all’area della Fiera di Milano.
Dalle elezioni amministrative è iniziata una reazione a catena che sta travolgendo tutto, complice anche la “botta” della Brexit.
In primo luogo le amministrative hanno distrutto l’immagine del Renzi sempre e comunque vincente. Nel complesso il fiorentino se l’è cavata con la risicata vittoria milanese (regalatagli dai renziani di complemento di Basilio Rizzo ed amici) ma non ha potuto evitare una vistosa crepa nel suo blocco di maggioranza, con le critiche di Franceschini.
Come era prevedibile, il risultato delle amministrative è andato molto al di là del significato locale (altro che “votare per i sindaci”, come sostenevano imbecilli e renziani coperti) ed ha attivato un terremoto nazionale. Il doppio nodo è diventato quello dell’Italicum e del referendum. L’esito delle amministrative ha dimostrato che:
a. la tendenza del Pd è a calare
b. il risultato del referendum non è affatto scontato, anzi si profila la vittoria del No
c. con il doppio turno vince il M5s.
In questo
numero proponiamo la
recensione del bel libro di Jean Claude Michéa, I
misteri della sinistra, insieme ad uno scritto di
Amadeo Bordiga del
1922. Michéa racconta le tappe storiche della deriva
culturale della sinistra e della sua progressiva
subordinazione a una visione del
mondo, quella borghese, estranea ai motivi ispiratori del
socialismo delle origini, che aveva invece forti accenti
comunitaristi. Discutendo delle
cause di quella deriva, lo studioso francese arriva alla
conclusione che il termine sinistra non è piú
spendibile per un
progetto politico di uscita dal capitalismo liberale.
Di Amadeo Bordiga, fondatore del PCd’I, proponiamo invece un testo del 1922 sulla massoneria e la sua infiltrazione nel movimento socialista.
Secondo Bordiga — ed è una tesi storiografica curiosamente dimenticata — fu proprio il controllo della massoneria sul movimento operaio che permise di coinvolgerlo, contro i suoi interessi, nell’Union sacrée contro l’Austria, ultimo residuo del Sacro Romano Impero.
Non abbiamo elementi per avvalorare o smentire l’ipotesi bordighiana. Possiamo solo dire che Bordiga in quegli anni poteva vedere questi fenomeni da posizione privilegiata. D’altra parte, l’analisi delle concezioni culturali e antropologiche della sinistra attuale, compresa quella antagonista, non può non rivelarne l’affinità con quelle liberalmassoniche.
In Aprile “Il Rasoio di Occam” ha
pubblicato in anteprima la traduzione
della prefazione e dell'introduzione al nuovo libro di
Axel Honneth, L'idea di
socialismo. Ora, in questo articolo, Lucio Cortella
riattraversa la sostanza
argomentativa del libro, mettendone in luce i lati
problematici. L'articolo è ripreso dal sito, appena
inaugurato, della Società
Italiana di Teoria Critica
Nel 1989, alla caduta del muro di Berlino,
Jürgen Habermas, scrivendo le sue riflessioni sulla “nachholende
Revolution” (la “rivoluzione”, allora in atto in
Germania e in tutta l’Europa orientale, il cui significato –
secondo Habermas – era quello di rimediare [nachholen]
agli errori della ormai consumata esperienza del cosiddetto
“socialismo
reale”), si chiedeva quale futuro potesse ancora avere un
socialismo che rischiava di essere trascinato nel crollo del
comunismo sovietico.
Secondo il pensatore tedesco dalle ceneri di quell’esperienza
poteva ancora essere salvato il nucleo essenziale, vale a dire
«l’intuizione normativa di una vita comunitaria non violenta,
che consente un’autonomia e un’autorealizzazione individuali
non
al prezzo ma sulla base della solidarietà e della giustizia».
Insomma l’idea di una libertà nella solidarietà, di una
libertà non “contro” gli altri ma “assieme agli altri”. Più
che un modello di società quest’idea
era da considerare – secondo Habermas – un correttivo critico
dei nostri rapporti sociali ed economici, uno standard
ideale
col quale confrontare sperimentalmente i
risultati e le conseguenze del capitalismo, «un’autocritica
radicale e riformista
della società capitalista» che «scomparirà solo insieme
all’oggetto della sua critica».
La concezione che Honneth elabora nel suo ultimo libro, L’idea del socialismo. Un sogno necessario, parte da lì, dalla persistenza normativa di quell’ideale socialista.
l
giornalista e politologo Andrew Spannaus
apre il suo interessantissimo e approfondito libro “Perché
vince
Trump”, edito da Mimesis, con un’affermazione forte,
ricordando ai lettori di lingua italiana che, al di là delle
sparate razziste
e xenofobe, le sole lasciate emergere dal sistema mediatico,
tutto prono ai poteri forti che sospingono la Clinton, Donald
Trump
“si è posizionato a sinistra non solo del proprio partito, ma
anche di Hillary Clinton”. Il mostro bicefalo
democratico-repubblicano, come non solo io lo definisco, da
anni esprime candidati che al di là delle differenze di
facciata promuovono
tutti “meno welfare, più finanza e più guerra”, come spiega
Spannaus. Tuttavia questa volta la rivolta dei cittadini e
degli elettori a stelle e strisce è stata più forte degli
interessi delle multinazionali e dei politici a loro
subalterni. In campo
democratico la rivolta è quasi riuscita a imporre Sanders, in
quello repubblicano invece Trump ha scardinato ogni
possibilità di
vittoria del vecchio apparato del partito.
Trump è “contro il TPP, l’accordo di libero scambio con le nazioni che si affacciano sul Pacifico, paragonato agli accordi del passato che hanno già tolto lavoro produttivo agli americani” e in egual maniera, come tutta la sinistra radicale europea, è contro il TTIP, il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, ancora in discussione, ma invocato dalla Clinton e da tutto l’establishment. Proprio contro l’establishment lotta Trump, perché gli apparati dei due maggiori partiti pensano ai loro interessi e a quelli dei poteri forti con i quali sono conniventi e “non a quelli della maggioranza della popolazione”, tanto che “la differenza tra i democratici e i repubblicani è meno rilevante di quella tra il sistema di potere centralizzato e la popolazione in generale”.
Vale la pena leggere un lungo brano, potentemente esplicativo, di Spannaus:
La Brexit ha infranto il tabù europeo, specialmente in un Paese come l’Italia, dove l’anglolatria costituisce una vera religione; quindi la Brexit ha suscitato in molti, che prima non avrebbero osato, la voglia di riportare nel dibattito l’espressione “interesse nazionale”. Un esempio di “interesse nazionale” dovrebbe essere rappresentato dall’istruzione pubblica, soprattutto nel versante tecnico e professionale. In un articolo del gennaio scorso sul quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore”, l’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi ha perorato la causa dell’istruzione tecnica nella Scuola, esaltando la sua funzione nello sviluppo industriale di un Paese e lamentando la sua decadenza, dato che il numero di iscritti nei licei tecnici tende a calare paurosamente. L’articolo è piuttosto generico e meramente esortativo, evitando accuratamente di smascherare gli interessi che hanno portato allo smantellamento dei gloriosi istituti tecnici così decisivi in passato.
Prodi mette sì in evidenza l’assurda dilatazione delle competenze universitarie a scapito di quelle scolastiche, ma si trova a parlare di corda in casa dell’impiccato, sia perché dimentica le responsabilità del suo primo governo e del ministro Berlinguer nell’affossare la Scuola, sia perché Confindustria non ha mai levato una protesta nei confronti delle riforme Moratti e Gelmini, tutte rivolte a liquidare l’istruzione tecnica pubblica, e ciò perché Confindustria ha anteposto gli interessi della sua Università, la LUISS, alla produttività che l’istruzione tecnica della Scuola pubblica determinava.
Citarsi è brutto, però… Qualche mese fa scrissi per Famigliacristiana.it un articolo intitolato “Per favore, processate Tony Blair”. L’impulso mi era scattato dopo aver letto uno sproloquio dello stesso Blair sulla pace e sul dialogo con l’islam moderato. Mi saltarono addosso le vestali del politicamente corretto, quelle che siccome Saddam Hussein faceva schifo allora tutto il resto va bene. Da una guerra inventata di sana pianta, mandando il povero Colin Powell ad agitare provette di borotalco all’Assemblea Generale dell’Onu, fino alle centinaia di migliaia di morti e allo spazio enorme offerto al terrorismo che da quella guerra sono derivati e che hanno appiccato al Medio Oriente un incendio che nessuno riesce più a spegnere.
Mi domandavo perché i responsabili di un simile disastro non dovessero essere chiamati a rispondere delle loro azioni. Se fossi un iracheno mi chiederei perché ci deve essere un tribunale per l’ex Jugoslavia e non un tribunale per l’ex (di fatto) Iraq. Ancor più me lo chiedo adesso, dopo che la Commissione d’inchiesta varata dallo stesso Governo inglese ha pubblicato le proprie conclusioni.
Il cosiddetto Rapporto Chilcot (dal nome del presidente della Commissione, sir John Chilcot) è un grosso volume che chiunque può trovare in Rete e che fa a pezzi non solo Tony Blair ma qualunque ulteriore chiacchiera su quella guerra.
La sinistra è subalterna al liberismo. Quasi dappertutto la bandiera della rivolta è brandita dalle destre. Bisogna parlare alle masse e opporsi alle politiche delle élite
Quando una grande Utopia mostra le prime crepe profonde, quando sembra avvicinarsi il suo crollo, quando le sue promesse sembrano ormai evaporate lasciando presagire solo un futuro di miseria e di rancori, è comprensibile che chi aveva creduto in essa tenda a negare la realtà. Come è ricorrente il richiamo alle idee originarie, fondative, che riesumate e attualizzate potrebbero invertire la tendenza. Solo a distanza di tempo e a mente fredda potrà maturare la necessaria riflessione sull’essenza stessa di quella idea iniziale, su quanto in essa accanto a nobili visioni fossero presenti anche un eccesso di semplificazione, un difetto di analisi realistiche, e un tasso preoccupante di generoso pressappochismo.
E’ accaduto per altre grandi Utopie novecentesche, sta accadendo ora per l’ideale europeistico, che è stato il più grande investimento delle classi dirigenti del continente in un arco ormai lunghissimo di anni. Era stato fin dall’inizio un matrimonio di interessi, ma si volle che sbocciasse anche l’amore tra i sudditi, e si organizzò la più massiccia opera di indottrinamento mai perseguita dalle élites, dalla culla alla bara, come si conviene a ogni idea totalitaria: dai mielosi temi per gli alunni delle elementari al martellamento quotidiano di politici, giornalisti, mezzi di comunicazione di massa.
«Il salvataggio del sistema bancario italiano è semplicemente impossibile senza la rottura delle regole europee. Ma siccome queste regole sottostanno alla concreta architettura dell'unione monetaria, l'unica via è quella dell'uscita dall'euro»
L'abbiamo detto più volte: non si esce dalla crisi bancaria senza rompere le regole europee. E non se ne esce con piccoli rattoppi caso per caso, come immodestamente il governo pretendeva di fare con il modestissimo Fondo Atlante (leggi qui e qui). Si narrava che quest'ultimo strumento sarebbe servito ad affrontare il nodo delle sofferenze, dette anche npl. In realtà le sofferenze sono sempre lì, a prezzi di mercato stracciati, ed Atlante - dopo la ricapitalizzazione della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca - ha ormai solo degli spiccioli in cassa.
Relazione al seminario della Rete dei Comunisti su “La ragione e la forza” di Sergio Cararo (RdC)
Dopo la sconfitta dei 35 giorni
alla Fiat
nel 1980, ai cancelli di Mirafiori venne affisso un cartello
scritto a mano. C’era un volto di Marx stilizzato e una
scritta che diceva:
“Avevamo la ragione e la forza. Ci è rimasta la ragione.
Coraggio compagni!”.
Sono passati più di trentacinque anni da quell’episodio decisivo per le sorti del movimento operaio nel nostro paese. Oggi credibilità e le possibilità di una opzione comunista nel XXI Secolo – dunque la ragione e la forza – in una realtà come quella italiana integrata nella dimensione europea, non possono non fare i conti con le modificazioni sociali e produttive intervenute in questi ultimi tre decenni nella realtà di classe e nella società. Modificazioni oggi nuovamente e fortemente scosse dalla nuova fase della crisi sistemica dell’economia capitalista.
In questi anni di lavoro di inchiesta e confronto ancora in corso sulla ricomposizione di un blocco sociale antagonista – di cui i comunisti dovrebbero tornare ad essere espressione politica e ipotesi strategica di affermazione degli interessi nel nostro paese – abbiamo cercato di individuare i punti in cui la quantità delle contraddizioni può diventare qualità sul piano della lotta per il cambiamento.
Nessuna lettura unilaterale delle dinamiche modernizzatrici del
capitalismo è oggi possibile. Viviamo un
tempo nel quale sembrano riemergere, a condizionare e
compromettere un’impossibile linearità dello svolgimento
storico, ambiguità
drammatiche e contraddizioni laceranti. Le convinzioni
interiori dei singoli cittadini e la cultura politica dei
singoli militanti non sono
entità isolate ma forme ideologiche, espressione del vivere
collettivo, che si sedimentano dentro gli abissi del disordine
capitalistico.
Alienazione e sfruttamento delle soggettività, oppressione e
manipolazione delle coscienze sono il frutto avvelenato di
tendenze che, su
livelli differenti, ci parlano del sovrapporsi di crimini
neocoloniali, guerre di religione, divaricazione scandalosa
delle ricchezze, imbarbarimento
delle periferie, estinzione dello spazio pubblico, violenza
razziale, impoverimento culturale e materiale generalizzato, e
altro ancora. Senza il
riferimento a questo scenario più generale, di carattere
economico, politico e sociale, essenzialmente determinato
dall’estensione del
capitalismo fino a costituire un unico e pervasivo mercato
mondiale e compromesso dalle conseguenti linee di faglia fra
sfera dell’economico,
con le sue assurde pretese di autoregolamentazione, e la sfera
del politico, diventa complicato elaborare un pensiero, per
così
dire, sine ira et studio, capace di fornire una
chiave di lettura dotata di senso su quanto è accaduto con il
Brexit. Laddove per
dotato di senso è da intendersi, va da sé, lo sforzo di
collocare l’evento, unico e irripetibile nella sua natura
contingente,
entro un contesto storico più grande e complesso, la lunga
durata dei processi storici citando Braudel, per l’appunto
entro una
più ampia cornice di senso.
La campagna politica di criminalizzazione della
CGT
[Confédération générale du travail, il principale sindacato
francese, n.d.t.] e il tentativo di interdire una
manifestazione sindacale sono fatti caratteristici di questo
periodo. Il principale sindacato operaio di Francia viene
accusato esplicitamente da un
prefetto, e implicitamente da un ministro, di complicità
quantomeno passiva con i cosiddetti «casseurs». La logica qui
all’opera non è nuova. È stata largamente utilizzata in
passato e nel presente contro i militanti e le organizzazioni
impegnati
nel sostegno alla lotta del popolo palestinese, nonché contro
quelli provenienti dall’immigrazione. In entrambi i casi si
tratta di
produrre, dal punto di vista politico e mediatico, un «nemico
pubblico» al fine di autorizzare l’assunzione di misure
eccezionali a
lungo termine, il tutto col pretesto di proteggere la società
e i suoi «valori repubblicani»
Dal nemico di civiltà…
I sistemi di dominazione hanno un bisogno consustanziale di suscitare la paura e mettere in scena un qualche pericolo. Il non potersi presentare per ciò che sono li costringe a legittimarsi tramite una simile minaccia artefatta, dalla quale affermano di preservarci.
L’intento del prezioso volumetto scritto da F. Chicchi, E. Leonardi e S. Lucarelli, Logiche dello sfruttamento (ombre corte, 2016) – che qui abbiamo anticipato – consiste nel restituire centralità analitica e politica alle relazioni di sfruttamento. L’attenzione posta sulla molteplicità delle forme contemporanee di sfruttamento e sull’articolazione attraverso cui si manifestano nei rapporti sociali e nelle figure soggettive si dipana attorno a tre fuochi: la discussione della categoria marxiana di sussunzione, esaminata alla luce delle attuali trasformazioni dei processi di accumulazione; la rielaborazione di una fenomenologia del lavoro nel capitalismo avanzato, in grado di rappresentare la proliferazione delle esperienze di assoggettamento; il confronto con il dibattito teorico sviluppatosi nel cosiddetto neo-operaismo a partire da una felice intuizione già formulata durante gli anni Settanta, secondo cui il passaggio al post-fordismo comporta una mutazione qualitativa della composizione di classe.
Nell’affrontare tale spettro di tematiche, gli autori elaborano una teoria sensibile alle singolarità storiche e alle specificità socio-geografiche dei capitalismi realmente esistenti. A partire da questo approccio, Chicchi, Leonardi e Lucarelli mettono in luce la plasticità, il rinnovamento costante e le capacità di assimilazione delle istanze sociali da parte delle società capitalistiche, mostrando al contempo ciò che le accomuna e ciò che le differenzia le une dalle altre: da un lato, l’inerzia della riproduzione sistemica operante a livello globale, fatta di logiche concorrenziali, pressioni di mercato, ingiunzioni al profitto e necessità di valorizzazione; dall’altro, le particolarità contestuali nelle quali tali invarianti si incarnano di volta in volta all’altezza di precise coordinate spazio-temporali.
Molto rapidamente: come andrà a finire lo sapremo. L'euro crollerà. Per l'Italia ciò comporterà, verosimilmente, un episodio tecnicamente definibile come "large devaluation", anche se dubito che si potrà parlare di un vero e proprio "currency crash" (alcune possibili definizioni le trovate a p. 303 di Milesi-Ferretti e Razin, 2000). Dovremmo perdere qualcosa di vicino al 30% (forse) rispetto al nucleo dell'Eurozona, ma sicuramente di meno verso dollaro (visto che Draghi ci ha già tirato giù) e poi verosimilmente rivaluteremmo verso la periferia dell'Eurozona: insomma, in termini effettivi (cioè in termini di media ponderata con le quote dei diversi partner commerciali) mi pare difficile che la svalutazione possa essere molto pesante, molto superiore a quella già sperimentata nel 1992, quella che, come diceva uno che se ne intende, ci aveva fatto bene.
Comunque, ammettiamo che lo sia, che sia un Armageddon...
Fin dai tempi di Krugman e Taylor (1978) si sa che una "large devaluation" può avere anche effetti recessivi. Certo, aiuta la ripresa delle esportazioni (se il paese ha ancora qualcosa da produrre), e scoraggia le importazioni (se il paese ha ancora qualcosa da produrre: due punti sui quali Gennaro Zezza attira sempre la mia attenzione), ma causa anche problemi agli operatori esposti finanziariamente in contratti non ridenominabili. Questo era lo standard dei paesi in via di sviluppo (indebitati in dollari), ed è diventato il nostro standard da quando ci indebitiamo in euro se il contratto non è regolato dal diritto italiano.
Come scappi dalle sabbie mobili? Semplice, ti devi tirare su per i capelli! Questa e altre soluzioni per la crisi bancaria dalla premiata ditta Alesina&Giavazzi
Bisogna ammettere che la crisi bancaria italiana sta stimolando la verve creativa dell'ingegner Francesco Giavazzi che in una settimana ha prodotto ben due - diconsi due - piani di alta ingegneria finanziaria tesi al risanamento delle banche.
Il primo è il famoso "scudo bancario" da 40 miliardi fatto immediatamente proprio da Renzi e respinto con perdite dal fuoco di sbarramento di Frau Merkel.
Il secondo piano è di oggi, firmato con quell'altro genio di Alberto Alesina.
Quello di oggi è particolarmente delirante. Gli elementi salienti meritano un'attenzione punto per punto:
- Excursus storico. Gli USA nel 2008 vararono un piano da 700 miliardi di dollari per acquistare i titoli che avevano come sottostante mutui immobiliari insolventi in pancia alle banche americane. Dicono Alesina&Giavazzi: se lo ha fatto l'America perché in Italia non si può? Vero vero, ci sarebbero però alcune piccole differenze tra gli USA e l'Italia, quali per esempio:
Oggi avrei voluto occuparmi delle strane dimissioni di Farage dopo la vittoria e del passo indietro di un altro vincitore, Boris Johnson che ha rinunciato alla guida dei Tories nonostante abbia condotto la campagna per il brexit proprio a questo scopo. Avrei voluto, ma poi mi sono detto: non sarà che il solo accennare a questi eventi così paradossali, alle dimissioni dei vincitori, sia fare professione di complottismo? E per carità sappiamo quanto l’informazione globale così accurata, limpida, imparziale, così solerte nel distinguere i fatti dai commenti da aver abolito i primi a meno che non vengano fatti in casa, sia allergica a qualsiasi riflessione che non convenga al potere, chiamandola a seconda dei casi, complottismo, populismo, comunismo, utopia: perciò meglio stare alla larga da ipotesi e diciamo invece che la palla è tonda, che così è la vita, che sono cose che succedono. Mica vorremmo supporre che una rete di potere attaccatissima alla Ue come prezioso strumento dell’oligarchia , abbia imposto a Farage di fare l’anacronistico Cincinnato e a Johnson di sedare una voracità che pareva implacabile?
Come ho avuto modo di dire ieri riguardo all’Argentina, l’informazione globale rifugge dal tentativo di dare un senso alle cose, agisce sull’emotività proprio per evitare che le opinioni pubbliche si spingano oltre il recinto de dei luoghi comuni e delle reazioni immediate.
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