Una guerra, anzi due per impadronirsi delle risorse di un territorio, stragi e creazione di terrorismo, armi e soldi prima agli uni, poi agli altri e agli altri ancora in un cinico gioco al massacro, creazione di caos e di morte che poi nell’informazione si trasforma in un infantile monopoli con viale della democrazia, hotel giustizia, giardini della crescita, lotta al terrorismo. Guerra di Libia è la casella nella quale si arriva usando i dadi truccati, ma è pur sempre solo un esempio della menzogna globale che poggia alla fine sul profitto e lo sfruttamento.
Ma è solo un capitolo. Vorrei che seguiste con attenzione e divertimento il video linkato alla fine del post e ripreso nell’autunno scorso al Valdai Discussion Club, in cui un ex ambasciatore americano a Mosca, Jack Matlock cerca di spiegare a Putin che lo schieramento missilistico ai confini della Russia, messo in atto dagli Usa e dalla Nato, non rappresenta affatto un atto di ostilità verso Mosca, ma è solo un modo di creare posti di lavoro e opportunità per le aziende americane. Ovviamente la platea se la ride di questa assurda e penosa spiegazione e in tutti noi si fa strada un sentimento di indignazione e allo stesso tempo di ilarità nel sentire queste inconcepibili idiozie. Ma non ci accorgiamo che non è altro che il risultato finale, l’applicazione pratica di quelle teorie neo liberiste per le quali il profitto fa aggio su qualsiasi cosa e l’approdo finale della democrazia del lobbismo.
Anche quest’anno ad Agrigento presso il Tempio della Concordia si è svolto il Google Camp, un meeting del quale i media si sono premurati di dire il solito nulla, solo la presenza dei nomi più influenti del mondo occidentale e dei loro opulenti jet (che evidentemente non emettono la deprecata CO2 che noi dovremmo evitare di produrre con le nostre utilitarie). Questo è quanto è sto sapere dalle pagine del Corriere:
Sulle note e la voce di Alicia Keys è andata in scena la «prima puntata» del Google Camp nella provincia di Agrigento, in una Valle dei Templi blindatissima chiusa già nel pomeriggio al pari delle strade che l’attraversano. La cantante americana si è esibita, dopo il gruppo Four One Six , noto anche per aver inciso la colonna sonora del film «Italiano Medio» di Maccio Capatonda. Top secret la lista degli ospiti. Secondo alcune indiscrezioni avrebbero preso parte alla cena: Charlize Theron, la principessa Rania di Giordania, la star Pharrell Williams, autore del tormentone «Happy», Jovanotti. Tavola bandita ai piedi del tempio della Concordia illuminato per l’occasione con una luce più accesa, diversa dal solito…
Le indiscrezioni sui presenti al grande evento sono tante: da Angelina Jolie a Lapo Elkann, fino a Bill Gates e Lorenzo Jovanotti, sempre presente nelle precedenti edizioni.
Un lucido Sapir collega chiaramente l’euro all’attuale crisi politica europea. La moneta unica ha privato i governi europei degli strumenti per agire in nome del benessere dei propri cittadini, violando anche il tacito patto, alla base delle democrazie, “no taxation without representation”. In questo modo, i governi appaiono deboli e incapaci di difendere i cittadini, che si rifugiano in sotto-comunità che sembrano meglio garantirli ma che finiscono per mettere tutti contro tutti. Questa strada porta dritta verso la guerra civile
La questione della compatibilità tra l’euro e la democrazia si pone oggi con una rilevanza molto particolare. Questa moneta ha imposto alla Francia di cedere la propria sovranità monetaria ad un’istituzione non eletta, la Banca Centrale Europea. Essa impone ora alla Francia di cedere alla Commissione Europea, altra istituzione non eletta, interi settori della politica fiscale e di bilancio. Cosa resta allora del patto politico fondamentale che vuole che il potere di tassare un popolo venga ceduto solo in cambio del controllo sovrano dei rappresentanti del popolo sul bilancio del paese in questione?
Questo processo era già iniziato nel periodo precedente (dal 1993 al 1999) con l’istituzione di uno status di indipendenza della Banca di Francia. Ma questo status aveva senso solo nell’ottica dell’imminente implementazione dell’euro.
Se risulta evidente che per troppo
tempo si
è proiettato sulla lotta di classe una rivoluzione radicale
che dall'inizio del 19° secolo aveva cominciato a girare solo
nella testa di
qualche teorico della sinistra hegeliana (e in Marx
nell'Introduzione al Contributo alla critica della filosofia
del diritto di Hegel), oggi le "manie
metafisiche" circa la lotta di classe, come dice Norbert
Trenkle [*1],
vengono resuscitate dalla
loro tomba sotto forma di farsa. A grandi colpi di
defibrillatore teorico, alcuni fanno ancora del nuovo
proletariato (quello "incondizionatamente"
vero e puro, come testimonierebbero i fantasmi attuali che
vedono muoversi intorno al proletariato cinese, indiano, ecc.)
una classe sociale
suscettibile di rispondere alle esigenze dello schema
dialettica, e di perdersi in un'alienazione radicale pur di
realizzare una liberazione radicale
(per altri ancora, si tratta del "Bloom"
che, in questo schema,
rimpiazzerà il proletariato...).
La morte della metafisica della lotta di classe
È possibile sentir dire, uscite dalle labbra di un individuo che legge concentrato sul suo e-reader, le parole secondo le quali la critica della dissociazione-valore avrebbe abbandonato la lettura "classista".
La strategia del sommergibile,
l’hanno
chiamata proprio così gli spin doctor di Renzi, neanche ci
trovassimo in piena “Battaglia dell’Atlantico” durante la
Prima
Guerra Mondiale. Parliamo del tentativo di salvare in extremis
le sorti del referendum autunnale, fortemente caldeggiato
dall’Unione Europea,
limitando al massimo l’esposizione mediatica del Premier
rispetto alla riforma costituzionale. A ben vedere si tratta
di una vera e propria
inversione ad U da parte di quel Matteo Renzi che fino a poche
settimane fa aveva fortemente personalizzato la consultazione
referendaria, tanto da
farne dipendere il proprio futuro politico (se perdo
lascio!), e che adesso, intervistato dalla CNBC, è
obbligato a volare più
basso: sono sicuro che vincerò il referendum, ma non
perché questa sarebbe la mia vittoria, non è il referendum
di Renzi ma
si decide del futuro dell’Italia. Allora, cos’è
successo nel frattempo? Cosa ha spinto a più miti consigli il
rottamatore toscano, notoriamente malato di protagonismo?
Semplice, sulle scelte di Renzi e del suo entourage ha pesato
la batosta presa dal PD alle
amministrative, e non bisogna(va) essere dei fini analisti
politici per comprenderlo, ma ancor di più hanno pesato le
cause sociali e politiche
che hanno determinato quel risultato e che sono state rese
particolarmente evidenti soprattutto dall’andamento dei
ballottaggi.
1. Nella confusione iperbolica che, come di prammatica, regna nell'informazione ("ufficiale") italiana, la crisi bancaria sistemica nazionale, avente attualmente il suo epicentro in MPS, può riassumersi in due proposizioni tra loro complementari:
a) l'adesione, in preda alla follia filo-€uropeista, all'Unione bancaria, avendo previamente ignorato gli effetti sull'economia reale, e quindi, in termini di disoccupazione, deindustrializzazione e insolvenze diffuse, del fiscal compact (qui p.7). Da ciò una "policy-induced crisis" (che è poi, in soldoni, un ital-tacchino da spennare prima di infornarlo): che equivale a dire che, in assenza dell'adesione alle regole del fiscal compact e dell'Unione bancaria non staremmo a parlare di crisi;
b) l'impossibilità giuridica, in base ai trattati, di adottare tutte quelle misure che sarebbero logiche e, ancor più, costituzionalmente obbligate, per i massimi organi di governo della Repubblica, ai sensi dell'art.47 Cost - da considerare, in base ai lavori preparatori dell'Assemblea Costituente, norma fondamentale, di tutela del risparmio, inderogabile da qualsivoglia trattato ai sensi degli artt. 11 e 138 Cost..
2. In modo più empirico e sensibile alla logica dei mercati, aveva espresso un concetto simile a quanto ora detto al punto b), l'amico Paolo Cardena, qualche settimana fa:
La riforma costituzionale Napolitano-Verdini-Renzi-Boschi incide sulla Parte Prima della Costituzione. Ma anche sui Principi, svuotando la Sovranità popolare
Trentasei secondi. Solo trentasei secondi di video per vedere con quale aria di sufficienza l’on. Moretti dice bugie: “I Principi costituzionali e la Parte Prima non vengono toccati. Noi agiamo sulla Parte Seconda”:
http://ilcappellopensatore.it/2016/08/sovranita-svuotata-voto-dettaglio/
Nel post relativo alla composizione del Senato ho scritto:
I problemi dell’articolo 57 partono già al primo comma:
«Il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica.»
I Senatori, quindi, non rappresentano più la Nazione (intesa come Popolo: art. 67 della Cost. vigente).
95 rappresentano le istituzioni territoriali e i restanti 5 non si sa chi o cosa rappresentano.
Qui si pone già un enorme problema. La Sovranità appartiene al Popolo che la esercita col voto (sentenza n° 1/2014 Corte Costituzionale).
Buoni ultimi, fa piacere anche a noi commentare questo film che “ha messo d’accordo pubblico e critica”, come suol dirsi in questi casi, cosa questa ormai entrata nella norma visto il progressivo arretramento della funzione della critica artistica in favore degli umori del pubblico (e delle case di produzione e/o letterarie). Il film di Paolo Genovese consente però alcune riflessioni su una certa tipologia di cinema italiano e sui suoi attori. Eviteremo di ricordarne la trama, visto il successo del film, i suoi record di spettatori, eccetera. Il film ci sembra rientrare in quel genere molto in voga di questi tempi, una sorta di nuova raffinata commedia all’italiana, da non confondersi con le porcherie alla Zalone e epigoni. Un filone recentemente cavalcato da un gruppo di attori e di registi abbastanza definito, che si sta ritagliando uno spazio lasciato libero e che in altri paesi, soprattutto in Francia, già da anni sforna film leggeri ma di qualità superiore alla media della truce comicità destinata a riempire i palinsesti delle multisala dentro i centri commerciali.
A differenza di moltissime operazioni simili, il film si regge su di una sceneggiatura forte, precisa, coerente, che è la prima e più importante caratteristica che salta all’occhio. Una vera novità, abituati alle sceneggiature deboli, irreali o fumettistiche che contraddistinguono in genere queste operazioni. Non solo la sceneggiatura però. Anche i dialoghi e la messa in scena reggono al confronto con la realtà.
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Tranquilli. E' lungo quanto un instant book. Ma c'è tutto Ferragosto e io per un po' non apparirò. Buon Ferragosto
Non domandarci la formula che mondi possa
aprirti,
sì
qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto
solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (Eugenio
Montale, “Ossi di seppia”)
Ci sono i romanzi di formazione e ci sono le esperienze di formazione. La mia è racchiusa nelle 16 ore che vanno dalle 14 del 30 gennaio 1972 alle 06 del 31 gennaio.Tra quando partì la marcia dei diritti civili a Derry a quando, dopo il massacro, poi iconizzato come Domenica di Sangue, sfuggendo aille ricerche dell’esercito britannico, raggiunsi Dublino e consegnai ai giornali e alla radio della Repubblica irlandese le pellicole e i nastri di quanto avevo fotografato e registrato. Avevo vissuto la tragedia palestinese, la Guerra dei Sei giorni, la brutalità della guerra tra Stati giocata sul raggiro e il sacrificio dei sudditi, il feroce razzismo contro una popolazione cui usurpare la terra e da togliere di mezzo. Avevo già avuto prove di come si sopprimono voci sconvenienti per il potere del momento: la censura israeliana controllava i miei reportage da trasmettere a Paese Sera e sbianchettava qua e là. E’ vero che, alla fine, mi buttò fuori, quando è troppo è troppo, ma fu più che altro per un alterco con un capitano dell’esercito che abusava dei caduti e prigionieri arabi.
Per un seminario su “Se la scienza non pensa”, Politecnico di Torino, 2016
La frase di Heidegger «La scienza non pensa»i risale all’inizio degli anni 50 dello scorso secolo. Questa frase si è prestata, da quando la scrisse il filosofo, a molte superficiali interpretazioni -alcune delle quali in senso riduttivo -quasi ad affermare che il pensiero umano, nella sua accezione più alta, fosse terreno estraneo alla scienza materiale. In realtà, Heidegger – nella trattazione che questa frase contiene -non ha affatto intenzioni denigratorie nei confronti della scienza. Se mai, si tratta – come vedremo -di una delimitazione: una definizione dell’ambito entro il quale, secondo il filosofo, ama muoversi la scienza, descrivendo quei confini naturali che è poi la scienza stessa a darsi. Heidegger, anzi, riflette se questi comodi confini siano giustificati, e sulle ragioni per le quali la scienza, invece, dovrebbe pensare, o perlomeno essere aiutata a farlo.
Sotteso a questa affermazione vi è in realtà il dibattuto concetto di neutralità della scienza. Scienza che secondo alcuni – come ad esempio lo scienziato atomico Werner Heisenberg [D. C. CASSIDY, Un’estrema solitudine. La vita e l’opera di Werner Heisenberg, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 126] dovrebbe occuparsi della ricerca, dell’avanzare della conoscenza tecnica del genere umano, del “progresso”, applicando il metodo scientifico, che tanti successi e miglioramenti materiali ha apparentemente portato all’umanità negli ultimi secoli.
«Nell’anno 1787, ventottesimo del regno di Giorgio III, il governo britannico inviò un flotta a colonizzare l’Australia” (…) ora questa costa sarebbe stata testimone di un esperimento coloniale mai tentato prima e destinato a restar unico nel suo genere: Un continente inesplorato sarebbe diventato una prigione. Lo spazio che lo avvolgeva, l’aria stessa, il mare, l’intero labirinto trasparente dell’Oceano Pacifico meridionale, sarebbero diventati una muraglia spessa ventiduemila chilometri».
Una storia che ci appartiene, viaggio nella nostra ferocia, legittimata dal sentirsi “classe giusta”, cosa che autorizza le peggiori violenze nei confronti di chi non riconosciamo degno di starci accanto, e per la nostra tranquillità è meglio eliminare.
Ne sarete stati turbati anche voi, vedendo le immagini trasmesse da una tv australiana che tanto scandalo hanno suscitato in Australia e non solo. Un ragazzo incappucciato, a torso nudo, legato per due ore a una sedia… solo una delle continue umiliazioni subite da adolescenti nel carcere minorile Don Dale a Darwin, nel Territorio del nord, stato dell’Australia con un altissimo tasso di carcerazione, dove il 30 per cento della popolazione è aborigena… dove soprattutto aborigeni, come il ragazzo del video, sono le persone in carcere.
Mi ha riportato, questa terribile storia, a un libro che mi ha accompagnato durante tutto lo scorso autunno e che, permettete, vorrei proporre come lettura d’agosto.
Mentre la caccia ai possibili “lupi solitari” affiliati all’Isis prosegue in maniera apparentemente implacabile, sembra sfuggire ai più, e in particolare ai media ufficiali, che sul territorio italiano è presente un apparato del terrore che può usufruire di più di cento basi, sparse su ben sedici regioni italiane, che possono contare, a loro volta, su almeno diecimila uomini e donne ben addestrati e preparati a portare la violenza e il terrore in un’area che attualmente va dai Balcani al Vicino Oriente. Il dato più straordinario è però costituito dal fatto che queste basi sono ufficialmente presenti sul territorio italiano dal 1951 e che, in alcuni casi, nascondono al loro interno un vero arsenale atomico1.
Negli ultimi giorni è poi diventato evidente che l’area interessata si allargherà al Nord Africa, in particolare alla Libia, e che il Governo, ben lungi dal discuterne pubblicamente o anche soltanto in Parlamento, risponde agli ordini e alle esigenze di tale apparato del terrore senza colpo ferire.
Si, perché come si afferma sull’Huffington Post del 3 agosto scorso2 il tentativo di silenziare le bombe in Libia potrebbe infrangersi in Parlamento.3
Il Ministro della Difesa, Roberta Pinotti ha infatti appena ammesso che, se richiesto, daremo la base di Sigonella per i raid sulla Libia e Mario Mauro, ex ministro della Difesa, può affermare:
Non è di tutti i giorni la possibilità di leggere report in cui si legano geopolitica, finanza e commercio mondiale; spesso le tre cose vengono slegate ed è per questo che gli analisti finanziari non colgono l’essenza del mercato mondiale e le sue dinamiche. E così che si è avuta la fortuna di leggere il report Sinossi 2015 - Rapporto Intermedio 2016 Economia e mercati finanziari - dell’autore Guido Salerno Aletta, editorialista di MilanoFinanza, per la casa editrice Teleborsa, che ha anche un sito di informazione finanziaria.
Partiamo dal capitolo Geopolitica, macroeconomia e finanza. L’autore, dopo aver analizzato il ruolo caotico degli Usa sullo scacchiere mondiale, passa in rassegna il percorso dell’Heartland e del Grande Medio Oriente, quella Via della Seta che è stata studiata ampiamente. Secondo Salerno Aletta, i cinesi si sono negli ultimi tempi ripiegati su se stessi per via della crisi del commercio mondiale e della crisi dell’Occidente. Contemporaneamente hanno costruito un network finanziario e di investimenti lungo la via della Seta, partecipando alla Sco, alla banca dei Brics, all’AIIB e all’Unione Economica euroasiatica. Il network militare ed economico Cina Russia e India costituisce per l’autore un infallibile schema cui l’Occidente non potrà far fronte, malgrado gli Usa abbiano predisposto Il TTP asiatico e il TTIP transatlantico. Perché il network, allargato all’Iran, è composto da tre miliardi di persone, con tre potenze nucleari e l’immenso patrimonio industriale cinese, oltre che le esorbitanti riserve di risparmio e valutarie.
Referendum. Cosa accade con la riforma
Se guardiamo alla sostanza delle cose e non solo alle parole, l’Italia si è infilata dritta come un fuso in una nuova avventura bellica. In Libia per giunta. Il passato ritorna. Gli Stati uniti hanno programmato un intervento aereo la cui durata sarà come minimo di un mese. Ma vi è già chi, nell’establishment militare americano, fa capire che è solo un termine indicativo, fatto più per essere prolungato che rispettato. Si invoca, e il governo italiano si è subito allineato, la risoluzione 2259 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, attraverso la solita cavillosa interpretazione del paragrafo 12 della medesima, che la Russia apertamente contesta, pretendendo invece una nuova eventuale decisione ad hoc da parte del supremo organo dell’Onu.
In questo quadro il coinvolgimento italiano è inevitabile se non viene espressa una volontà esplicitamente contraria. Le ragioni sono di natura militare e politica. Un’azione così prolungata nel tempo richiede l’utilizzo delle basi di Aviano e di Sigonella.
Particolarmente di quest’ultima, distante solo una ventina di minuti di volo dall’obiettivo. D’altro canto la Sicilia è sempre stata considerata oltreoceano una «portaerei americana» nel Mediterraneo, espressione mutuata da una quasi identica di Mussolini riferita a tutt’altro contesto.
Come molti lettori
sanno, Rimbaud
utilizza una strana espressione, «le rivolte logiche», che
fu anche titolo di una bella rivista fondata da Jacques
Rancière e altri
amici. La filosofia è qualcosa dello stesso ordine: una
rivolta logica. È la combinazione tra un desiderio di
rivoluzione – la
felicità reale impone che ci si sollevi contro il mondo
per com’è e la dittatura delle opinioni prefissate – e
un’esigenza di razionalità – la pulsione in rivolta da
sola non basta a raggiungere gli obiettivi che si
prefigge.
Il desiderio di filosofia è appunto, in un modo estremamente generale, il desiderio di una rivoluzione nel pensiero e nella vita, tanto collettiva che personale, e ciò in vista di una felicità reale distinta dalla parvenza di felicità qual è la soddisfazione. La vera filosofia non è un esercizio astratto. Da sempre, fin da Platone, essa si erige contro l’ingiustizia del mondo. Contro lo Stato miserabile del mondo e della vita umana. Ma lo fa in un movimento che sempre protegge i diritti dell’argomentazione e che in ultima istanza propone una nuova logica all’interno dello stesso movimento con il quale essa libera il reale della felicità dal suo sembiante.
Mallarmé, dal canto suo, ci propone questo aforisma: «Ogni pensiero emette un lancio di dadi».
Dopo 23 anni il PD romano (e per esso Roberto Giachetti) riscopre la pianificazione urbanistica. L'erede di quell'epoca nefasta attacca il nuovo assessore (Paolo Berdini), il quale replica da par suo. Il manifesto, 6 agosto 2006
* * *
di Roberto Giachetti
Le linee programmatiche sono il documento che mostra alla città quali sono le scelte e gli interventi che dovranno essere messi in atto e qual è la visione che li guida. Il testo presentato dalla sindaca Raggi è in realtà un testo vuoto, perché manca proprio di quelle “azioni e progetti” che, sul piano della concretezza, devono dare indirizzo e corpo alle delibere della Giunta.
L’unica cosa che, invece, permea tutto il documento è l’apertura di “Tavoli” per qualsiasi cosa. Non c’è mai, però, un impegno preciso o una scadenza. In un momento storico in cui le città europee sono ferite da fatti gravissimi, non affronta nessuno dei “grandi temi” come, ad esempio, le migrazioni di milioni di persone, i cambiamenti climatici, la sicurezza, la tecnologia, il disagio nelle periferie, la mancanza di lavoro.
Prendiamo, per esempio, l’urbanistica che è, secondo me, la politica principe per dare attuazione alla visione che si ha della città, perché ha il compito di tramutare in trasformazioni urbane le idee che guidano il governo della città. Di tutto questo non c’è nulla nelle linee programmatiche, se non molta retorica e conclusioni generiche.
Serpeggia on line un certo malcontento per le iniziative universitarie a sostegno della libertà di ricerca. Si reclama, cioè, l’impossibilità di un “eccezionalismo universitario” rispetto alla repressione.
Sacrosanto. E, difatti, molte delle iniziative sin qui condotte sono state concordate col Movimento No-Tav (questa una delle principali: http://effimera.org/assai-piu-un-appello-un-dibattito-venaus-sulla-liberta-ricerca/).
La stessa intelligenza collettiva che per oltre un mese ha quotidianamente prodotto critiche all’operato della magistratura, oppure divulgato analisi sullo stato delle libertà politiche in Italia, sta adesso tentando di allargare il “fronte” e includere l’Università tra i territori all’interno dei quali condurre una nuova/vecchia lotta politica e culturale.
Una lotta che contempla certamente la rappresentanza delle istanze dei movimenti territoriali (No-Tav, No Muos, etc.) e quelle relative alle libertà politiche di tutti e tutte. Ma anche una lotta per l’Università.
Una lotta, cioè, finalizzata a riaprire i canali ostruiti tra università e società e ad affermare la responsabilità degli intellettuali “di professione” nei confronti della società stessa.
Mentre gli inglesi addestrano un nuovo gruppo di ribelli contro Assad e Dowing street ne dà la notizia ufficiale, mentre gli jiahdisti che resistono ad Aleppo contro le regolari truppe siriane vengono riforniti di armi dall’Arabia Saudita, in Occidente l’opinione pubblica viene confusa e depistata verso la xenofobia generica e infantile della guerra di civiltà, l’unica che garantisca di nascondere dentro un contenitore oscuro le contraddizioni insensate e il caos creato dalla geopolitica del neo colonialismo. La difficoltà non consiste nell’ammettere la politica di rapina che è sempre stata accettata e perseguita, ma nel giustificare le vittime innocenti che questo comporta beninteso nei Paesi dominanti – degli altri chissenefrega – e nell’armonizzare tutto questo con i topoi, gli archetipi del pensiero unico fondati sull’individualità e sul conflitto tra individui. Esiste il denaro, esistono vincenti -perdenti, secondo un darwinismo da balera, mentre tutto il resto, stati, religioni, classi, comunità, popoli e culture non sono che varianti ammissibili anzi da difendere nei singoli, ma res nullius nel loro insieme.
Invece queste sovrastrutture che si era pensato di abolire e annegare nel globalismo si tornano ad esigere i loro diritti e allora come ai vecchi bei tempi del suprematismo bianco, ecco che bisogna ricorrere a categorie collettive come l’Islam e i barbari, tornare a mostrane il volto diabolico, deciso a sopprimere l’occidente con le pallottole, i camion, le asce, ma soprattutto con la demografia colpendo a tradimento il bianco che preferisce la televisione alla riproduzione.
«Anarchist Studies. Una critica degli assiomi culturali» di Salvo Vaccaro, per elèuthera
L’anarchismo è per sua natura non dogmatico. In Anarchist Studies. Una critica degli assiomi culturali (elèuthera, pp.143, euro 13) Salvo Vaccaro non ha nessuna difficoltà ad ammettere che anche la tradizione anarchica ha bisogno di una «dialettica»: molte delle sue categorie subiscono infatti l’usura del tempo. Meglio allora parlare di «anarchismi», vari e diversi tra di loro. Per gli anarchici, «la libertà non è mai individuale bensì singolare plurale, non è una qualità etica dell’individuo bensì uno spazio impersonale condiviso con l’altro».
Della dialettica dell’anarchismo fa parte anche la rinuncia all’idea mistica di una società purificata e pacificata da una rivoluzione definitiva. La temporalizzazione della modernità fa leva sul bisogno umano di novità, di futuro, di progettualità. E questo sia sul versante del potere, che si presenta come sempre rinnovato, sia su quello della rivoluzione che offre un nuovo inizio al tempo. In ogni caso, «il dominio del tempo, nei suoi aspetti simbolici e immaginari, rappresenta la vocazione intima dell’autorità».
Nonostante il peso che le strutture del controllo e del dominio esercitano sul presente, «segni libertari si intravedono dappertutto, giocati e triturati da più parti e in più luoghi».
La Convenzione del Partito Democratico (quello a denominazione di origine controllata, non le imitazioni nostrane) si è conclusa con la scontata consacrazione della candidatura di Hillary Clinton, e, soprattutto, con il previsto calo di brache da parte di Bernie Sanders, il candidato danneggiato dalle frodi della dirigenza del partito a favore della Clinton. Sanders ha lanciato un appello all’unità del partito attorno alla candidatura Clinton ed ha giustificato la propria sottomissione con la necessità di fronteggiare il pericolo rappresentato dal candidato repubblicano, il “bullo” Donald Trump. D’altra parte, visti gli intrighi perpetrati nei confronti di Sanders, la stessa candidatura di Trump si espone al sospetto di costituire soltanto un’ulteriore mistificazione a favore della Clinton, contrapponendole l’unico candidato disponibile sulla piazza che sia più impresentabile di lei. Il risultato è che non solo si premia la Clinton per aver barato, ma addirittura la si santifica come se fosse la nuova Giovanna d’Arco chiamata a salvare il mondo dalla minaccia Trump.
Ai sostenitori di Sanders rimane anche un altro dubbio, forse più inquietante: visto che Sanders ha rivelato alla fine di non essere un vero candidato anti-establishment, che bisogno c’era di farlo fuori con dei trucchi? Ne potrebbe venir fuori una sorta di paradosso: a volte imbrogliare è necessario perché non si capisca che imbrogliare non era davvero necessario, cioè che un candidato vale l’altro, perché tanto non è mica il presidente a comandare.
1. Dunque: il
libro di
Siglitz è pubblicato e ne circolano anche svariate
recensioni: e tutte si possono definire "adesive", nel
senso che ne condividono
quantomeno l'analisi problematica, che ripercorre la serie
di errori e di assurdità teorico-economiche che hanno
caratterizzato l'applicazione
e gli effetti disastrosi, a dir poco, della moneta unica.
Ma, del libro, evidenziano pure le contraddizioni.
Voci dall'estero ci ha riportato un "doppio" commento di Sapir sempre al libro di Stiglitz e al quasi contemporaneo volume di Mervyn King, sempre sull'argomento della crisi della moneta unica.
Al di là dei rispettivi presupposti di teoria economica, entrambi gli autori prevedono una imminente grave crisi politica oltre che economica come futuro sviluppo inevitabile di un elemento "culturale" che qui abbiamo molte volte analizzato: le elites €uropee, in perfetta ed inevitabile continuità con l'intero paradigma pianificato da oltre 60 anni, concepiscono qualsiasi soluzione solo come un'intensificazione degli stessi meccanismi e delle stesse aspettative che hanno caratterizzato la loro azione immutabile.
Abbiamo affidato ai nostri autori la lettura di un classico che non conoscevano, da leggere come se fosse fresco di stampa
Il deserto dei
tartari è un romanzo di Dino Buzzati pubblicato nel
1940. Racconta la vita di Giovanni Drogo, ufficiale
dell'esercito di
un paese che, così com'è descritto nel romanzo, somiglia
all'Italia della prima metà del Novecento; tuttavia
confina con un
grande deserto. In fondo a questo deserto si suppone
vivano i Tartari. Un deserto onirico, dove i confini
rimangono incerti e si dilatano
all'infinito.
Lo sfondo integratore del romanzo è la fortezza Bastiani. A differenza dell'agrimensore del Castello, il tenente Drogo raggiunge la fortezza, ci entra, viene arruolato e accolto. Il problema è come uscirne. Buzzati attenua di un grado lo stile di Kafka, Drogo entra nella fortezza, prende servizio e può anche andarsene. Nessuno, in linea di fatto, glielo impedisce. Rispetto al Signor K., Giovanni Drogo è libero; giunge alla Fortezza ha un colloquio immediato con il comandante e chiede il trasferimento, l'impressione di quei luoghi non è buona, vuole partire appena possibile. Ci resterà per la vita, esercitando la libera scelta.
La Fortezza, come la vita, ha un fascino irresistibile. Lo emana mano a mano che il tempo passa. Si tratta della presenza dell'altro: i Tartari. Realtà tenebrosa e sotterranea. Il Tartaro è il luogo della catatonia. Si può pensare al Deserto dei tartari come a un delirio catatonico, che ripete sempre l'identico.
Ad inizio agosto il
presidente Barack Obama ha lanciato una nuova campagna
di bombardamenti aerei sulla Libia: 30 giorni
di durata e le roccaforti dell’ISIS a Sirte come
obbiettivo. Colpire il Califfato, quando
l’amministrazione statunitense ne ha coperto per
mesi il radicamento nell’ex-colonia italiana, è sintomo
che qualche novità è sopravvenuta: si tratta della prima
visita a
Mosca del generale Khalifa Haftar, capo delle forze
armate del governo di Tobruk. Con il sostegno russo,
egiziano e delle tribù fedeli al
defunto Colonnello Gheddafi, sono alte le probabilità
che Haftar riesca a riconquistare l’intero Paese,
deponendo l’esecutivo
americano-islamista di Faiez Al-Serraj: Sirte è un nodo
strategico per bloccarne l’avanzata. Concedendo le basi
siciliane agli USA, il
governo Renzi si incammina a cuor leggere verso
l’ennesimo disastro mediterraneo.
Mancano solo pochi mesi all’addio di Barack Hussein Obama alla Casa Bianca, pochi mesi prima che il presidente che ha gettato nel caos il Medio Oriente e l’Europa (coadiuvato dal suo Segretario di Stato, Hillary Clinton) termini il mandato, prima di essere velocemente risucchiato dal cesso della storia.
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Recensione del libro di Vladimiro Giacché, La Costituzione italiana contro i trattati europei, un conflitto inevitabile, Imprimatur.
Introduzione
Che il progetto di riforma costituzionale del Governo Renzi, che andrà a referendum in autunno, non serva a ridurre i costi della politica o a colpire la fantomatica “casta” politica, è un dato che sembra oramai acquisito al dibattito politico. Anche all'interno del centrosinistra, per azione degli scontenti PD, e nel dibattito sui media di regime si mette in evidenza come il Senato di fatto non venga abolito ma si trasformi in una Camera inutile che continuerà comunque ad avere costi altissimi. Il punto principale della propaganda renziana sulle riforme sembra quindi scomparire dal dibattito politico che invece si concentra sul “combinato disposto” riforma Costituzione-Italicum paventando una possibile riforma della nuova legge elettorale come condizione necessaria per appoggiare il processo di riforma. Sullo sfondo emergono le difficoltà del governo Renzi il quale prova a fare un passo indietro scegliendo di non personalizzare il quesito del referendum. Comunque sia, la partita è decisamente aperta (i sondaggi, per quel che valgono, segnalano un'opinione pubblica spaccata a metà tra favorevoli e contrari) e l'insistenza di alcuni settori della classe dominante europeista a sostegno del sì raccontano di una riforma che comunque deve essere fatta.
Una seconda lettura per l’estate: un saggio di Giuseppe Burgio pubblicato su Studi della formazione (2014). Burgio è un ricercatore di pedagogia di Palermo e in questo testo ricostruisce bene i problemi di quadro dell’istituzione universitaria (che, come Effimera, abbiamo diffusamente affrontato in questo periodo, a partire dal caso di Roberta Chiroli), stretta tra dispositivi neoliberali, profondamente connessi alla crisi, processi di esclusione differenziale, gerarchie, valutazione e debito. Il tutto nell’orizzonte del capitalismo biocognitivo, cioè all’interno di un nuovo paradigma produttivo, e nel crescere del ruolo “ri-produttivo” assunto dal cognitariato.
Cifra della nostra società è
l’avvenuto passaggio dal modo di produzione fordista a quello
postfordista. In questo contesto, la corrente teorica del
post-operaismo vede come
centrale la dimensione cognitiva del lavoro, che si manifesta
ormai in ogni attività produttiva, materiale o immateriale che
sia.
Dopo aver definito tale cornice teorica, queste pagine si concentreranno sulla precarietà lavorativa e sull’affaticamento esistenziale di quanti hanno affrontato un percorso di istruzione superiore all’università, proponendo la tesi che – proprio per poter essere adattati a, e inseriti nel, postfordismo – questi futuri lavoratori del cognitariato siano stati formati da un dispositivo economico ed educativo complesso, paragonabile a quello che nel capitalismo industrialista permise la formazione (cioè la costituzione sociale e il condizionamento culturale) del proletariato.
Tale dispositivo verrà analizzato in alcune delle sue curve attuative – studiandone le conseguenze da un’ottica pedagogica – in relazione alle trasformazioni del mondo del lavoro, ai mutamenti del sistema della formazione e alle riforme che da ormai 25 anni interessano quasi incessantemente l’università italiana.
«Siamo tutti tracciati, identificati e geolocalizzati. Unica alternativa? Buttare il telefono. E navigare anonimi dal pc». Parla il padre del software free
A tutti gli agenti dell’Nsa e dell’Fbi impegnati a leggere questa mail: in nome della Costituzione americana mi appello a voi affinché seguiate l’esempio di Edward Snowden». L’originale inciso in capo alla mail rivela le attitudini politiche e comunicative di Richard Stallman, attivista e intellettuale newyorkese capofila del movimento per il software libero: «Ci troviamo tutti implicati nostro malgrado in un perfetto panopticon tecnologico», spiega il padre del copyleft: «La sorveglianza digitale di massa è ormai un fenomeno globale».
Stallman, una laurea in fisica ad Harvard e altre nove “honoris” causa sparse per il globo, persegue con tenace coerenza la sua filosofia: l’unica opposizione efficace alla violazione dei diritti nel Web è il ricorso a programmi non proprietari, liberi di essere studiati, modificati, copiati e ridistribuiti. «Laddove tutto questo è vietato», sostiene il presidente della Free Software Foundation, «siamo di fronte a software in grado di reperire informazioni dal nostro computer e dalla nostra vita privata».
* * *
Assistiamo a una mediatizzazione sempre più pervasiva delle nostre esistenze. Da un lato smartphone e computer hanno rotto il monopolio dei mezzi unidirezionali come la televisione, dall’altro sembrano diventati imprescindibili per le nostre esistenze.
«La democrazia e le libertà individuali sono a repentaglio ugualmente.
Circa due settimane fa, zitto zitto piano piano, il tribunale internazionale dell’Aia ha riconosciuto innocente Slobodan Milosevic, ex presidente della Yugoslavia accusato di crimini di guerra. Peccato che l’imputato, opportunamente suicidato in carcere assieme a Milan Babic ex leader dei serbi di Krajina nel 2006, non possa rallegrarsi di questa riabilitazione postuma e peccato anche che la notizia sia passata del tutto inosservata nel cuore di un’estate caldissima dal punto di vista geopolitico più che climatico. Perché l’assoluzione dai presunti crimini di guerra di Milosevic significa che tutti i pretesti, le ragioni, le coperture, i finanziamenti a gruppi del terrorismo separatista con cui si sono giustificati i massacri balcanici non erano che un mucchio di balle, di pretesti, di menzogne costruite e violenze premeditate. Avevano insomma la medesima natura delle armi di massa di Saddam, servivano a distruggere la Yugoslavia e a fare dei balcani una ennesima piattaforma Usa.
Solo che in questo caso si trattava di far fuori un dirigente democraticamente eletto, non bastava balbettare qualcosa riguardo al tiranno come è stato fatto in medio oriente prima con Saddam e poi con Assad, quindi si doveva trovare un’altra chiave con cui prendere per il naso opinioni pubbliche rese incompetenti dal fiotto continuo di notizie ed emotivamente rozze dai media.
I tempi di lettura si accorciano progressivamente. Le persone dedicano sempre meno tempo a leggere i libri e gli editori di saggistica negli ultimi anni si sono adeguati, riducendo via via il numero delle pagine. Ora c’è chi è arrivato più o meno alla lunghezza di un articolo accademico. È il caso dell’editore Castelvecchi, il quale, dopo aver superato alcune difficoltà economiche, si trova attualmente in una fase di rilancio e ha creato la nuova collana Irruzioni. L’ultimo volume di tale collana, tolte le pagine bianche e quelle che hanno solo dei titoli, conta 35 pagine. Il che non sarebbe in sé un problema. Il sociologo Georg Simmel con il saggio La moda e l’economista Piero Sraffa con Produzione di merci a mezzo di merci hanno dimostrato che poche decine di pagine sono sufficienti a rivoluzionare il pensiero umano. Ma i testi della collana Irruzioni di Castelvecchi non sembrano paragonabili a queste fondamentali opere. Sono piuttosto testi minori, preparati per conferenze o qualcosa di simile. Certo l’obiettivo che l’editore sembra essersi posto con questa collana è meritorio: provocare, lanciare un sasso nello stagno, stimolare la nascita di nuove idee. Per poterlo raggiungere, però, è necessario proporre delle tesi che siano al tempo stesso innovative e convincenti. Due libri usciti di recente propongono invece delle tesi non particolarmente condivisibili.
Il primo è firmato dal mediologo Derrick de Kerckhove e pone sin dal titolo una domanda retorica: La rete ci renderà stupidi?
Enrico Donaggio, Direi di no. Desideri di migliori libertà, Feltrinelli, Milano 2016
Nel leggere questo libro di Enrico Donaggio, mi è tornato in mente uno dei personaggi di un romanzo di Mario Tobino, Per le antiche scale. Parlo del Federale, un gerarca fascista di provincia che finisce in manicomio perché affetto da “delirio di negazione”: negava che il Duce (il Duce!) esistesse e che, alla fin fine, tutto non fosse che una assurda apparenza.
Ho pensato a quel Federale riflettendo su uno dei rischi che oggi corre chi voglia mantenere, o almeno provare a coltivare, quello che una volta, in un altro mondo, veniva chiamato “spirito critico”. E’ il rischio di rifiutare semplicemente la realtà, rinchiudersi, isolarsi, arrendersi; il che significa allo stesso tempo esporsi, da vinti, a una realtà vincente e irresistibile. Questo non è tempo per “gesti critici”, per aprire nuove strade, utopiche o riformiste. Si accetta che la vita vada come va; si riconosce la vittoria di uno stile di vita e di un pensiero (unico) allo stesso tempo assolutamente flessibili e assolutamente performanti.
Disfatta, disillusione, assurdità, disastro. Sono le parole che Donaggio usa più spesso o, almeno, sono quelle che rimangono più in mente. E non si tratta di vuota retorica catastrofista, né sono la premessa a un ennesimo programma radicale di cambiamento e di rifondazione.
La sofferenza
incessante ha tanto
il
diritto di esprimersi quanto il
martirizzato
di urlare (T. W. Adorno).
Basterebbe allo spirito un piccolo
sforzo
per liberarsi dal velo di
questa parvenza onnipotente e
pur
nulla: ma questo sforzo
pare
di tutti il più difficile
(M.
Horkheimer, T. W. Adorno).
Attualità di Adorno: è questo il titolo che Sandro Dell’Orco ha voluto dare al suo interessante articolo scritto in occasione del «50° anniversario della pubblicazione di Dialettica negativa» (1966). Qui mi propongo di affrontare un solo aspetto, squisitamente storico-politico, dei problemi messi sul tappeto dall’autore, cioè a dire il rapporto tra Adorno (e la «teoria critica» in generale) e il cosiddetto «socialismo reale» (e la sinistra, più o meno “radicale”, in generale). Come il lettore può facilmente constatare, si tratta di temi che si sposano bene con il clima agostano, diciamo… Sul merito propriamente filosofico della Dialettica negativa mi piacerebbe scrivere qualcosa quanto prima. Si vedrà!
Da "Lire Marx. Les textes les plus
importants de Karl Marx pour le XXIe siècle. Choisis et
commentés par Robert Kurz", La balustrade, 2002,
(p.45-51). Questo
estratto, che presenta soprattutto gli errori del "marxismo
tradizionale" il quale ha sempre portato avanti la sua
critica dal punto di vista di
un'ontologia del lavoro, è l'introduzione fatta da Kurz ad
un insieme di frammenti, scelti da diversi testi di Marx,
cui rinvia. Nel testo che
segue, con "Marx essoterico" e "Marx esoterico" (una sorta
di Marx-Giano), Kurz intende distinguere due interpretazioni
differenti dell'opera
marxiana, di cui una è quella tradizionalmente ammessa
(essoterica), che si basa principalmente su un punto di
vista che si svolge a partire
dal lavoro (che non viene assunto nella sua specificità e
viene invece visto come naturale e sovra-storico) ed il cui
oggetto di studio
è soprattutto la lotta di classe. Quest'interpretazione
tradizionale si focalizza sul modo di distribuzione. L'altra
è assai meno
conosciuta (esoterica), ma con questo non si vuol difendere
l'idea per cui ci sarebbe stato un "vero Marx", il cui
pensiero sarebbe stato tradito, e
che deve quindi essere ripristinato. Si tratta piuttosto di
affermare che in alcuni testi (soprattutto quelli che non
erano destinati ad essere
pubblicati - Grundrisse - o quelli lo sono stati molto più
tardi, dopo la formazione dei marxismi), ci sono degli
elementi che permettono di
"andare con Marx oltre Marx" e quindi di liberare qualcosa
di diverso dal Marx conosciuto: un "Marx esoterico".
Viviamo un mondo complesso. Le società implodono. Ogni settore collassa su se stesso sfumandosi in quello accanto, ripiegandosi l’uno nell’altro. La differenziazione dei settori – che ha permesso l’emancipazione del soggetto dalla tradizione – si è convertita in una sorta di iper-differenziazione globale, che, per necessità strutturali, ha dovuto in seguito configurarsi in una de-differenziazione locale.
Imperversa quindi l’internazionalizzazione dell’economia, e della cultura. Quest’ultima non è più una semplice “estrusione” della società, ma diviene parte fondante e imprescindibile della “società del sapere”. Si indebolisce lo stato-nazione, e tutto ciò che gli pertiene. Emergono le culture di minoranza, la politica della differenza. L’identità si fa plurale, proteiforme, alimentata da fonti inesauribili e sterminate. La “coscienza collettiva” della classe, e delle esperienze di lavoro condivise, viene prosciugata dal sistematico ritiro nel privato, da una pletora d’identità insorgenti. L’entusiasmo per la società “super-industriale” viene immediatamente messo a tacere dal sentire ecologico, dalla consapevolezza di un’autodistruzione annunciata. Le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro e della tecnologia inaugurano così l’era del post-fordismo: incertezza, precarietà, sviluppo smisurato dell’economia terziaria di basso livello sono le sue variabili più qualificanti.
C’è una cosa che non mi torna. Per almeno un decennio ho sentito i neocon nostrani, e anche esteri, paragonare l’islam e molte sue manifestazioni al nazismo. Gli ayatollah dell’Iran? Nazisti. I terroristi islamici? Nazisti. Pure l’islam in generale, con il Corano, il jihad, il velo delle donne e così via, veniva spesso paragonato al nazismo. La definizione “islamo-fascista” veniva distribuita con grande facilità. Ovviamente paragonare un “prodotto” così completamente, tipicamente e irrimediabilmente europeo come il nazismo a un fenomeno così estraneo all’Europa come l’islam era ed è una sciocchezza politica e culturale, ma non importa. Se il paragone con il nazismo avesse avuto un qualche senso, oggi dovremmo trovare tutti compattamente schierati a favore di Bashar al-Assad e del suo regime relativamente laico, e impegnati a fare il tifo affinché Aleppo venga al più presto liberata dagli islamisti. Se il paragone tra nazismo e islamismo avesse avuto un senso, oggi la battaglia di Aleppo sarebbe considerata coma una nuova battaglia di Stalingrado.
Le analogie, per quanto possa sembrare strano, sono molte. A Stalingrado le truppe russe si opposero, tra l’estate del 1942 e il febbraio del 1943, alle truppe tedesche, italiane, rumene e ungheresi. Fino ad allora i nazisti erano sempre stati all’attacco e solo poche settimane prima dell’inizio dell’assedio avevano subito una battuta d’arresto a Mosca, che non era stata conquistata e da dove le truppe russe erano partite per la controffensiva.
I popoli rischiano la vittoria: scatenati i cani di guerra a stelle e strisce e mezzaluna wahabita
Libia: tutti contro l'Egitto
In Libia siamo all’intervento, presuntamente e falsamente contro l’ISIS (che si toglierebbe dai piedi non appena i suoi mandanti in Usa, Israele, Qatar, Turchia e Arabia Saudita, glielo ordinassero, o gli facessero mancare rifornimenti e guiderdone), delle forze speciali Nato, con tanto di italiani spediti a uccidere e farsi uccidere col pretesto di combattere il terrorismo e con lo scopo di favorire la spartizione della Libia e delle sue risorse tra i paesi colonialisti aggressori. Le strumentali e calunniose polemiche contro l’Egitto e contro l’ENI, che con il Cairo collabora nell’interesse dei nostri rifornimenti energetici (per una volta sottratti al controllo Usa), sono motivate unicamente dal tentativo di escludere l’Egitto, arabo e laico, da una soluzione unitaria e inter-araba del conflitto che elimini l’esercito surrogato dei Fratelli Musulmani.. L’operazione Regeni, sfruttata a fondo da tutta la stampa filo-imperialista e sostenitrice della quinta colonna coloniale dei Fratelli Musulmani, come i ripetuti attacchi all’Eni e la spaventosa guerra terroristica condotta dalla Fratellanza in Egitto, si inseriscono in questo quadro, Nella strategia occidentale e dei petrosatrapi del Golfo le milizie di Misurata, fanteria Nato, resesi note durante il conflitto con torture, stupri, assassinii di prigionieri e civili, e nell’immediato dopo-Gheddafi per le orrende atrocità compiute sui membri della precedente amministrazione,
Il capitalismo continua a lasciarci perplessi. Non fosse per lo spettacolo a volte così ripugnante, potremmo quasi osservare con ammirazione la sua audace performance che consiste nell’incalzare la massima centrale del corpus teorico che gli serve da ostentato riferimento ideologico. Si tratta del liberalismo, nella fattispecie di quello kantiano, che comanda a ciascuno di agire «in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo». Attraverso uno di quei rivolgimenti dialettici dei quali solo i grandi progetti di strumentalizzazione detengono il segreto, si è dichiarato conforme all’essenza stessa della libertà che gli uni fossero liberi di utilizzare gli altri, e gli altri liberi di lasciarsi utilizzare dagli uni, in quanto mezzi. Questo magnifico incontro tra due libertà porta il nome di lavoro salariato.
Etienne de La Boétie ci ricorda quanto l’abitudine alla servitù faccia perdere di vista la condizione stessa di servitù. Non perché gli uomini «dimentichino» di essere infelici, ma perché perseverano in questa infelicità come un fatum, rispetto al quale non avrebbero altra scelta se non sopportarlo, oppure come un semplice modo di vivere al quale finiscono per abituarsi. Gli asservimenti di successo sono quelli che riescono a separare nell’immaginazione degli asserviti le passioni tristi dell’asservimento dall’idea stessa di asservimento – la quale è sempre suscettibile, quando si presenti chiaramente alla coscienza, di far nascere progetti di rivolta.
Una
conseguenza poco
piacevole del referendum britannico è stata quella di un nuovo
attacco dei mercati finanziari ai titoli bancari italiani.
Come uscirne? I
problemi del sistema bancario italiano riguardano la debole
dinamica del nostro sistema economico, oltre al tema dei
crediti in sofferenza e
dell’inadeguata capacità di gestione degli istituti
Una conseguenza poco piacevole del referendum britannico è stata, come è noto, quella di un nuovo attacco dei mercati finanziari ai titoli bancari italiani, da parte in particolare di investitori molto nervosi; essi sembrano ora avere in mente una sola idea, quella di fuggire dal nostro paese, magari guadagnandoci qualcosa. Molti pensano in effetti che la prossima crisi possa riguardare proprio l’Italia.
Le perdite di valore dei titoli sono state pesanti, anche se poi, basandosi sulla speranza che si materializzi presto un intervento pubblico, esse si sono un po’ ridotte.
Alla fine dello scorso anno, Piazza Affari guadagnava circa il 13%, risultando, tra l’altro, campione d’Europa e le banche in particolare, non si sa per quale miracolo di cecità dei mercati, il 21%. Ora, nei primi sei mesi del 2016, il FTSE Mib ha ceduto più del 19%; per quanto riguarda il settore bancario, in particolare MPS ha lasciato sul terreno il 78%, lo stesso valore del Banco Popolare, Unicredit il 62%, mentre Intesa San Paolo, pure un istituto in buona forma, ha perso il 45% (Tosseri, 2016).
Rapide riflessioni sull'idea di programma di lavoro garantito o di "occupazione di ultima istanza"
Negli ultimi mesi si sta diffondendo
in misura
ancora maggiore rispetto a quanto avvenuto già nel corso degli
ultimi anni, il dibattito sulle varie proposte politiche di
reddito di sostegno
e prevenzione della povertà. Dal reddito garantito, reddito di
cittadinanza, reddito minimo, reddito di partecipazione e così
via.
Occorre però dire subito che, come mostra da ultimo la recente fondamentale guida scritta da Elena Granaglia e Magda Bolzoni per Ediesse (Il reddito di base), su buona parte di queste definizioni vi è, nel dibattito giornalistico, una grandissima confusione, provocata forse in buona parte a cominciare da sostenitori del cosiddetto “reddito di cittadinanza” del Movimento 5 Stelle, che hanno utilizzato questo termine per proporre semplicemente un sostegno al reddito in funzione dell’occupazione, cosa che niente ha a che fare con la definizione specifica del reddito di cittadinanza. A questa accusa di confusione occorre aggiungere che al di là di questa, colpisce anche in particolar modo la totale assenza nel dibattito di quello che invece tra le proposte politico-economiche più interessanti di politica economica per l’occupazione, proposto da una vasta rete di economisti post-keynesiani, in particolare statunitensi ma non solo, che si riconoscono in particolare nel filone del “neo-cartalismo” moderno (una teoria della moneta che evidenzia il ruolo cruciale dello stato nella determinazione dell’accettabilità e del valore della moneta). Si tratta dell’idea dei Piani di Lavoro Garantito e di Occupazione di Ultima Istanza (Employer of Last Resort Program/Job Guarantee – ELRS/JG).
Per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, a Rio 2016 parteciperà una squadra di atleti rifugiati. Ma dietro al gesto che si vorrebbe politico, c'è soltanto ipocrisia e retaggi neocoloniali
I vertici del CIO lo avevano annunciato a marzo: per la prima volta nella storia delle Olimpiadi moderne, tra le squadre partecipanti ci sarebbe stata anche una squadra speciale che avrebbe gareggiato sotto la benedizione del CIO stesso, che avrebbe sfilato sotto i colori della bandiera olimpica e che sarebbe stata formata da dieci atleti selezionati dal comitato centrale del CIO. I criteri? Abbastanza semplici: “sporting level, official refugee status verified by the United Nations, and personal situation and background”, recita il comunicato ufficiale.
Una buona notizia? Per il mondo colorato in cui saltellano fischiettando le nostre pallide coscienze sicuramente sì, proprio un'ottima notizia. Ma per il mondo reale, quello che sta fuori dai cinque cerchi olimpici, invece, è soltanto un'operazione di comunicazione, una mossa ipocrita e consolatoria.
In tutto dieci persone. Sei uomini e quattro donne. Due siriani, tre sudsudanesi, due congolesi e un etiope. Tutti con un vissuto dietro le spalle da far accapponare la pelle.
Dal dopoguerra non s’era mai visto un crollo come quello degli anni scorsi. E con Renzi? L’indice in ventotto mesi è passato da 91,6 a 91,8: l’Italia non riparte
Due elettori mediani commentano il fatto politico del giorno: “Hai visto che scandalo? Poi dicono che c’è la crisi! Ma il problema è che se sò magnati tutto…”. L’amico, sconsolato: “Che ci vuoi fare: ogni popolo ha i politici che si merita…”. Su queste parole i due si congedano, ebbri di assolutoria autocommiserazione. Ognuno di noi ha assistito a simili siparietti. Qualcuno invece potrebbe essersi perso un fatto che apparentemente non ha nulla a che vedere con quanto precede. Il 5 agosto scorso, alle 12:19, l’Ansa ha twittato: “Istat, economia frena, meglio ultimi mesi”. Frenare, in italiano, significa diminuire la propria velocità. Letto così, il lancio sembrerebbe indicare che l’economia italiana cresca di meno (freni), ma che negli ultimi mesi la situazione stia migliorando (cioè si stia tornando a crescere di più). Nei dati leggiamo che a giugno l’indice della produzione industriale (Ipi) è diminuito dello 0,4%, mentre a maggio la diminuzione era stata dello 0,6%.
L’Ansa ha ragione: la velocità dell’economia italiana è diminuita. Quindi tutto bene? Non me ne voglia l’agenzia di stampa, ma direi di no. Non stiamo andando “meglio” (crescendo di più): stiamo andando “meno peggio” (diminuendo di meno).
La Corte Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia ha scagionato Slobodan Milosevic dalle responsabilità per i crimini di guerra della guerra bosniaca 1992-95
Si tratta di una notizia di prima grandezza; enormi le implicazioni politiche che essa comporta. Ma stranamente nessuno ne ha parlato tra i grandi media di informazione di massa del mondo intero. Ed è comprensibile che tutti tacciano: coloro che in un coro unanime lo definirono il "macellaio dei Balcani"; coloro che lo paragonarono a Hitler, iniziando la serie che sarebbe poi continuata con Saddam Hussein, con Muhamar Gheddafi, e che vorrebbero continuare con Bashar el Assad. E' comprensibile che tacciano le cancellerie occidentali, in specie quella americana, che vollero la fine della Jugoslavia e la fine di Milosevic.
https://youtu.be/6myryvlbuiY
Da pandoratv.it.
Possono farlo, perché la "riabilitazione" di Slobodan Milosevic non c'è ancora stata. La sentenza che la contiene è quella che ha portato lo stesso tribunale a condannare a 40 anni di reclusione Radpvan Karadzic. Dunque bisogna leggere quella lunghissima sentenza per scoprire che Milosevic non fu colpevole delle accuse per cui passò in prigione gli ultimi cinque anni della sua vita, da tutti esecrato.
Fra tutte le bugie che ci vengono sistematicamente raccontate
su questa guerra, una delle più false è che sia cominciata
l’undici settembre 2001.
In realtà, quando le torri gemelle sono crollate lo Scontro
di Civiltà andava già
in onda da quasi undici anni.
Io l’ho visto.
Il cielo verde di Baghdad.
Emilio Fede che esulta per il primo bombardamento, e poi
durante la diretta notturna, mentre si rifà il
trucco, molla una battutaccia sulle cosce di Kay Rush come un
generico in pausa sul set.
Il sosia di Saddam del Tg iracheno.
Bellini e
Cocciolone che leggono il gobbo.
L’inviato della CNN che si mette la maschera antigas soltanto
durante il collegamento.
Il
cormorano incatramato che in realtà viene dall’incidente con
una petroliera.
La scia di automobili carbonizzate delle vittime
d’una bomba USA Daisy Cutter.
I soldati iracheni che si arrendono alla troupe del Tg3.
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L’attenzione
e talvolta la passione per lo studio dei diversi aspetti dei
cambiamenti nel campo delle conoscenze sul pianeta Terra sono
sempre state circoscritte
alle cerchie degli archeologi, biologi, geologi, alcuni
antropologi, mentre non hanno mai suscitato interesse fra le
scienze politiche e sociali. Si
sa, sin da Platone e Aristotele sino ai vari filosofi politici
(Sant’Agostino, Ibn Khaldoun, Tommaso Moro, Machiavelli,
Tommaso Campanella,
Hobbes e Locke) e poi Durkheim e alcuni contemporanei, queste
«scienze» sono state quasi sempre condizionate soprattutto
dall’imperativo «prescrittivista», cioè dalla pretesa di
fornire «ricette» per «risolvere» i problemi
dell’organizzazione politica della società. Spesso in nome
della prosperità e posterità, della pace e persino della
felicità «per tutti» (come la «giustizia uguale per tutti»).
La storia del mondo recente e anche l’attuale
congiuntura, al contrario, mostrano sempre crescenti
diseguaglianze, atrocità e genocidi. Più guerre che periodi di
pace. La pretesa
prescrittivista si è rivelata dunque fallimentare, se non
peggio: visto che molto spesso le “scienze”, di fatto, hanno
prodotto
saperi utili ai dominanti, cioè i primi responsabili della
riproduzione del peggio. La parresia – da Socrate a Foucault –
è
stata sempre osteggiata, o confinata in una nicchia concessa
dal potere. Il quale si può permettere di essere criticato o
dissacrato, anche
perché di pari passo cresce sempre più l’asimmetria fra
dominanti e dominati, ridotti oggi a qualche tentativo di
resistenza
spesso disperata o semplicemente all’impotenza, a fronte
dell’erosione delle possibilità di agire politico (il caso
della Grecia
è assai eloquente e peggio è l’assenza di contrasto della
tanatopolitica che l’UE pratica nei confronti dei
migranti).
Nella lunga crisi della politica, in Italia come anche in Europa, emerge al centro della scena la razionalità neoliberista, quella che Dardot e Larval chiamano «la nuova ragione del mondo». Una post democrazia fondata sull’inedita dialettica tra élite e populismo, una trasfigurazione della lotta di classe
In un recente articolo (il manifesto, 1 agosto 2016),Valentino Parlato, con rigorosa tenacia, auspicava che il giornale offrisse gli strumenti per uscire dall’«attuale passività»(figlia di una formidabile, pervasiva morte della politica), sollecitando una discussione capace di mobilitare e di aprire una battaglia culturale e politica. Si richiamava una diagnosi di Alberto Burgio, secondo cui la scomparsa della politica è dovuta al suo essere ridotta a pura – e perciò cattiva – «amministrazione dell’esistente». Lo spietato confronto col passato (nel quale «c’erano il Pci di Togliatti, il Psi di Nenni, il Pri di La Malfa e anche la Dc di De Gasperi» e nel quale «anche Tv, stampa quotidiana e pure l’editoria» contribuivano in varia misura alla «vitalità della politica») non voleva avere alcun effetto nostalgico, ma stimolare ancor più l’analisi critica del presente.
Questo presente viene da lontano, almeno dagli ultimi trenta anni: dai dettami della Commissione Trilaterale, la «mega-macchina» del capitalismo finanziario (Gallino) si è andata costituendo su una sapiente e insieme brutale divaricazione tra capitalismo e democrazia, tra capitalismo e politica, intesa come democrazia, possibilità delle classi popolari e delle forze antagoniste di partecipare alla lotta per la formazione delle decisioni pubbliche.
Un altro dei consueti rituali estivi si è consumato: quotidiani e telegiornali hanno fornito i dati dei risultati dell’Esame di Stato nelle regioni del Sud, denunciando l’ennesima pioggia di cento e lode. La “notizia”, chiaramente preconfezionata, è stata fornita secondo gli stessi moduli da tutti gli organi di disinformazione, i quali hanno denunciato preoccupati la disparità di valutazioni tra il Nord ed il Sud, nel quale la facilità di elargire il massimo del punteggio avrebbe assunto i connotati dell’assistenzialismo, dati i benefici che ciò comporta all’atto di iscriversi ad una facoltà universitaria. A partecipare al rituale dell’indignazione sono stati chiamati stavolta anche i governatori delle Regioni del Nord, indotti a lamentarsi del danno che queste valutazioni alla “meridionale” arrecherebbero agli studenti settentrionali.
L’attendibilità del dato fornito in realtà è molto discutibile, dato che non si precisa il numero degli studenti che frequentano il triennio finale del Superiore (che non rientra nell’obbligo scolastico) rispettivamente al Nord e al Sud. In Regioni come il Veneto, ad esempio, il tasso di iscrizioni al triennio superiore è storicamente molto basso. Il calo di iscrizioni al Nord si è intensificato dopo l’azzeramento dell’istruzione tecnica da parte della riforma Gelmini, che ha trasformato tutti gli istituti superiori in licei. Nel Sud, dove il tasso di disoccupazione è molto più elevato, il liceo, per quanto privo di una specifica professionalizzazione, rimane un’opzione priva di alternative.
Tom Barrett, uno che conta parecchio nel partito Democratico, è sindaco di Milwaukee da 12 anni. Politicamente molto vicino a Obama, nei giorni scorsi durante la rivolta del quartiere di Sherman Park, provocata dall’ennesima uccisione di un giovane afroamericano da parte della polizia, ha dichiarato che la «situazione è sfuggita di mano» e che «ci sono stati molti individui che hanno usato i social media per organizzare gli scontri con la polizia», tanto da rendere necessario l’impiego della Guardia Nazionale e la proclamazione del coprifuoco notturno per i minorenni, considerati i principali responsabili dei «disordini». Dichiarazioni che potrebbero sembrare sorprendenti da parte di un sindaco che ha destinato più della metà del bilancio comunale all’armamento della polizia, all’acquisizione delle più recenti tecnologie di controllo del territorio, agli incentivi monetari agli agenti di polizia in base alla logica tayloristica del «più sanzioni, più arresti: più soldi». Basterebbero pochi dati per dimostrare che a Tom Barrett la situazione non poteva che «sfuggire di mano». Uno studio dello scorso anno dell’Università di Los Angeles mostra che gli studenti sospesi o espulsi dalle scuole pubbliche di Milwaukee sono in percentuale doppia rispetto alla media nazionale a causa dei pesanti tagli all’intero sistema dell’istruzione. Gli indici di segregazione urbana – disoccupazione, povertà, precarietà, confinamento territoriale – della popolazione afroamericana, che costituisce il 40% degli abitanti, sono agli stessi livelli dei primi anni ’60.
Il Pil è a zero nel secondo trimestre 2016, +0,7% sull'anno, ben al di sotto dell'1,2% fissato dal governo. L'economista Emiliano Brancaccio: «Nel declino generale del Pil l’Italia è uno dei paesi che fa registrare i risultati peggiori. Siamo in una deflazione da debito. Ma il rilancio dei salari è considerato un’eresia». «Un’analisi comparata tra paesi dimostra che la crescita occupazionale italiana è risultata meno della metà della media europea. L'apologia del Jobs Act è infondata»
Dopo cinque trimestri consecutivi di aumento il Pil si è fermato. La crescita è a zero nel secondo trimestre, +0,7% sull’anno, ben al di sotto dell’1,2% fissato dal governo. Per il Ministero dell’Economia la responsabilità è della Brexit e del terrorismo. Per Emiliano Brancaccio, docente di economia all’università del Sannio, è invece la conferma che lo storytelling del presidente del Consiglio Renzi non funziona e i suoi presunti successi sulla politica economica o sull’occupazione possono trasformarsi in un boomerang. «Non si tratta di un dato solo italiano – precisa – Eurostat ha segnalato che l’Eurozona cresce di circa la metà rispetto a quello che era stato il trimestre precedente. Il Pil europeo cala rispetto alle previsioni a causa dell’incertezza sulla tenuta economica del sistema bancario, ed anche sulla tenuta politica dell’Unione europea dopo la Brexit. L’italia ci mette il suo: nel declino generale del Pil è uno dei paesi che fa registrare i risultati peggiori».
Pubblichiamo la traccia di un intervento a un dibattito con Giorgio Cremaschi a una straordinaria e affollatissima festa nei dintorni di Pisa. Il tema era: “La sovranità appartiene al popolo: i referendum momento di conflitto sociale fondamento di democrazia”, 18 Agosto 2016, Festa RossaPerignano (PI)
Paese mio che stai
sulla collina. Battaglioni
internazionalisti o ordo-keynesismo?
Voi perdonerete se prenderò il tema di questa sera un po’ alla lontana. Non sono un giurista, e sono anche un po’ scettico sulla via giuridica al conflitto sociale, come sembra un po’ suggerire il tema della serata. In un certo senso mi riferirò di più alla prima parte del titolo: La sovranità appartiene al popolo. Giusto. Ma qual è l’ambito di questa sovranità? Lo Stato nazionale, il tuo continente, il mondo intero? Su questo come sinistra siamo molto reticenti, e su questo mi piacerebbe dire qualcosa. Esiste una democrazia che vada oltre i confini del tuo Stato nazionale? E siccome, almeno su questo si è d’accordo, il conflitto sociale è l’humus della democrazia, qual è lo spazio naturale per il conflitto sociale?
Presa alla lettera, la tradizione marxista respinge oltraggiosamente l’idea dell’identificazione della classe lavoratrice col proprio Stato nazionale. Come è stato osservato, secondo questa tradizione: “Proprio perché la classe operaia è priva di proprietà, non è più lacerata dai limiti dell’interesse privato, diventa per ciò stesso suscettibile di solidarietà” (Gallissot 1979, p. 26; v. anche Cesaratto 2015), insomma chi ha solo le catene da perdere non necessita di passaporto. Il principale ostacolo a tale solidarietà, ben noto a Marx ed Engels, era nella concorrenza fra le medesime classi lavoratrici nazionali, sia intermediata dalla concorrenza fra i capitalismo nazionali che diretta attraverso i fenomeni migratori.
Parlando con Stefano
Borselli su come dare un
seguito all'antologia Marxisti
Antimoderni,
ci è sembrato buona cosa andare a incontrare
Jacques Camatte di persona. Jacques ha preferito che i
nostri colloqui non avvenissero in forma di intervista, ma
che fossero del tutto liberi,
conviviali (stricto sensu), proprio per darci maggiori
possibilità di recepire a modo nostro le sue parole. Ciò
che dunque
emergerà non sarà il Camatte-pensiero, ma ciò che di esso,
dalle conversazioni e dai suoi scritti, abbiamo capito
noi.
* * * *
In questa impresa non possiamo non partire dai luoghi che Jacques ha scelto di abitare. Una campagna, fra Tolosa e Bordeaux, scarsamente atrofizzata, con paesini antichi per lo piú siti in collina, coltivazioni di viti, campi, ed ancora tanti boschi. Luoghi che gli inevitabili centri commerciali che qua e là appaiono non hanno ancora sfigurato. Una campagna caratterizzata dai tipici fiumi francesi che per trovare la loro strada verso il mare si involvono in numeros1 amplissim1 meandri, i quali trasmettono a chi osservi il paesaggio dall’alto un senso di grande calma. Insieme ai fiumi, un reticolo di canali con un sistema di chiuse che li rende navigabili anche a imbarcazioni di una certa mole e, insieme, ne rallenta la marcia. Ma questo, in quei luoghi, non ha l’aria di essere un problema.
Per giungere in zona, prima di addentrarci nell’interno abbiamo lambito in autostrada luoghi famosi ed affollati lungo il Mediterraneo, le mete di vacanza della Costa Azzurra, il che ha contribuito a generare il contrasto con la tranquillità dell’interno: anche i picnic familiari — abbiamo notato sulla via del ritorno — lí si svolgono in parchi attrezzati, intorno a enormi autogrill, come se nemmeno nel tempo libero passato all’aperto ci si potesse allontanare dai colossi del consumo.
Le vacanze o meglio, in tempi di crisi , l’aria e l’atmosfera delle vacanze sono la più nefasta alleata della disinformazione. Una settimana fa abbiamo saputo che vi sono truppe italiane in Libia, una rivelazione clamorosa per le sue implicazioni, ma che non ha avuto alcun seguito nonostante il sito dei servizi segreti israeliani abbia rivelato che nostri reparti sono lì da mesi, che sarebbero stati uccisi e presi prigionieri alcuni uomini delle forze speciali, non si sa bene da chi, se dall’Isis o dallo stesso esercito di Misurata che ha liberato la città o da altri indistinguibili briganti che non leggono la Washington Post e dunque non sanno quale ruolo è stato loro assegnato dalle acute menti dell’amministrazione imperiale. Su questi eventi c’è il silenzio più assoluto e di conseguenza anche il più assoluto disinteresse nonostante la partecipazione alla guerra di dissoluzione libica voluta da Obama, sia gravida di conseguenze dirette per noi.
Del resto è bizzarro che nessuno abbia notato come questa guerra americana di natura carsica, a volte sommersa, altre volte evidente, in corso da oltre trent’anni e che ci vede nel bene e nel male protagonisti non fosse altro che per contiguità geografica, ha già fatto 81 vittime collaterali, tutte civili e tutte italiane, ovvero i passeggeri del tragico volo di Ustica. Vittime ancora prive di una verità ufficiale visto che da una parte non si può attribuire apertamente la colpa ai francesi o agli americani, dall’altra non si possono rivelare i patti segreti con il Colonnello.
Tutti vogliono sconfiggere l’avversario di Hillary Clinton. Da Wall Street ai sostenitori di Sanders, fino ai superstiti del movimento Occupy, dalle grandi multinazionali ai sindacati dei lavoratori, fino agli esponenti più «sensati» dello schieramento repubblicano
Alfred Hitchcock amava ripetere che «più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film», e se questo è vero, vorrà dire che le imminenti elezioni presidenziali americane saranno ottime, poiché il «cattivo» (Donald Trump) è il miglior cattivo che si possa immaginare? Sì, ma in un senso assai problematico. Per la maggioranza liberale, le presidenziali del 2016 rappresentano una scelta netta: Trump incarna un’aberrazione ridicola e volgare, capace di sfruttare i peggiori sentimenti razzisti e sessisti, è un maschilista privo del benché minimo senso della decenza, al punto tale che persino i grandi nomi del partito repubblicano sembrano fare a gara per abbandonarlo. Se Trump resterà il candidato repubblicano, avremo un voto che farà appello alla coscienza e alla responsabilità individuale, vale a dire, malgrado tutti i nostri problemi e le beghe meschine, quando si è davanti a una vera minaccia, saremo capaci di unire le forze a difesa dei nostri valori democratici fondamentali.
Tuttavia, è proprio questo consenso democratico così conveniente a metterci in allarme e sarebbe meglio fare un passo indietro e rivolgere lo sguardo su di noi per chiederci: qual è il vero «colore» di questa unione democratica al di sopra delle parti?
Il COPASIR ci avverte che l’ISIS cacciato da Sirte potrebbe
trasferirsi a Gallarate.
La Boschi però ci assicura che la
riforma renziana servirà a combattere
l’integralismo islamico.
Forse perché fa carne di porco della
Costituzione.
Intanto i media ormai di default fino a prova contraria
attribuiscono qualsiasi fatto di cronaca all’ISIS.
Se un
locale va a fuoco non si sospetta più la mafia, ma la jiad.
Non si pretendono migliori norme di sicurezza contro gli
incendi, ma contro il
terrorismo. Non si chiede d’aprire un idrante, ma di
chiudere una moschea.
È il sistema definitivo per risolvere il problema
dell’ordine pubblico percepito.
Se non possiamo eliminare la criminalità, possiamo però
derubricarla interamente come
terrorismo.
T’hanno scippato? È stato un foreign fighter per pagarsi il
viaggio in Siria, usando i tuoi documenti per
espatriare.
T’hanno svaligiato l’appartamento? È stata una cellula
dell’ISIS per finanziare la jiad coi tuoi CD.
Il tuo vicino ha strozzato la moglie? Evidentemente era
d’origine mediorientale, anche se lo credevi toscano da
sette generazioni.
La riforma costituzionale non farebbe che consolidare un procedimento di inaridimento della democrazia iniziato tempo fa, rendendo il paese sempre più permeabile agli interessi di una “governance” sovranazionale non eletta
L’otto agosto si è avuta notizia del fatto che la Corte di Cassazione ha ammesso il referendum avente ad oggetto la riforma della Costituzione. Il governo deve, entro sessanta giorni da allora, stabilire la data della consultazione popolare, che sarà indetta con decreto del presidente della Repubblica.
La riforma costituzionale che, irritualmente (dato che un’iniziativa riformatrice di tale portata non dovrebbe promanare dall’esecutivo) è stata promossa dal governo Renzi, non fa che consolidare un procedimento di inaridimento della democrazia iniziato parecchio tempo fa. Al di là dei proclami ottimistici quali «riforma che il paese attende da decenni» o «riforma per i prossimi trent’anni», è opportuno cercare di indagare la sottintesa neutralità, soprattutto sul piano sociale, dell’intento riformatore.
È stato enfatizzato da parte di insigni costituzionalisti che, in caso di conferma alla prova referendaria, l’esito della prevista riformulazione di 47 degli articoli contenuti nella parte II del testo costituzionale, in combinato disposto con la nuova legge elettorale, sarà un’alterazione dell’equilibrio fra i poteri dello Stato,
Da ormai oltre un
quindicennio, la questione
dei diversi
veli
indossati da alcune donne islamiche si impone ciclicamente
nel dibattito pubblico e politico. Dopo il patetico
tentativo di pinkwashing
con cui si giustificò l’attacco all’Afghanistan governata
dai talebani («Dobbiamo liberare le donne dal
burqa»), abbiamo avuto la discussione in Francia
sul divieto di indossare il burqa e il niqab.
Dopo l’orribile
Daniela Santanché – quella che si fa chiamare col cognome
dell’ex marito dopo oltre vent’anni dal divorzio e blatera
sulla
libertà delle altre donne – che se ne andava in giro a strappare
i veli alle
donne islamiche, abbiamo visto le Femen invitare in modo
neocoloniale le musulmane a spogliarsi girando in topless
per i quartieri islamici di Parigi
(leggi 1
e 2).
Ecco che adesso – in
periodo di vacanze – la questione è diventata quella del
cosiddetto burkini, termine nato da una
contrazione impropria tra la
parola burqa (abito che copre integralmente tutto
il corpo – viso incluso – usato da una minoranza
di donne
islamiche) e la parola bikini, indumento che
evidentemente – soprattutto se succinto – è ritenuto dover
caratterizzare le
donne occidentali. Il dibattito è stato scatenato dalla
decisione di alcune città francesi di vietare l’uso del burkini
in spiaggia, convalidata giuridicamente dal tribunale
amministrativo e politicamente dal ministro dell’Interno
francese Manuel Valls (leggi),
secondo il quale addirittura il burkini non
sarebbe compatibile coi valori della repubblica francese in
quanto espressione di
un’ideologia basata sull’asservimento della donna.
1. È notizia di
qualche giorno fa che
la Corte d’Appello di Tolosa, ha confermato la decisione di
primo grado che aveva ritenuto privo di causa [(reale, e
seria) perché senza
fondamento economico)] il licenziamento di 191 dipendenti da
parte di Molex, condannata al pagamento di
“un’indennità” di 7 milioni di euro, che – ci avverte L’Humanitè
- saranno corrisposti da un
fondo pubblico, l’Assurance de garantie de salaires:
(i) a parte l’ovvia, ma sempre efficace, considerazione che
il capitale
privatizza i profitti e socializza le perdite, (ii) a parte
che non si hanno notizie sulla solidità patrimoniale e
finanziaria della
(già) datrice di lavoro e della possibilità di recupero
della somma, (iii) quello che risalta è l’esiguità della
somma rispetto al rilievo dato alla notizia; secondo i
padroni si tratterebbe di condanna (oltreché ingiusta in
quanto limitativa della
libertà di impresa) esorbitante, i sindacati, tronfi
d’ottusità, confermano la natura esemplare della condanna.
Abituati, quantomeno dai tempi di Lama a non credere ai sindacati (da sempre ai padroni) facciamo qualche conto. Ecco i numeri: 8 anni di lotta giudiziaria (il che la dice lunga sul potenziale scarsissimo del ricorso alle toghe, più o meno rosse), 191 esseri umani sul lastrico, 7.000.000 di euro di indennizzo.
Paul Craig Roberts, in un post molto pungente, rilegge la Guerra Fredda di ieri e di oggi alla luce delle responsabilità americane. Oggi come ieri è esclusivamente l’ambizione espansionistica statunitense, la sua aspirazione all’egemonia globale — non quella russa, da sempre limitata entro la propria sfera d’influenza — ad alimentare il conflitto. Ma se i governi americani dei decenni passati sentivano la responsabilità e il pericolo di una guerra atomica, quelli di oggi non hanno più senso del limite, e il culmine di questo nuovo atteggiamento è nella candidata presidente Hillary Clinton
La Guerra Fredda iniziò durante l’amministrazione Truman e durò durante le amministrazioni Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford e Carter. Terminò col secondo mandato di Reagan, quando lui e Gorbachev trovarono un accordo sul fatto che il conflitto era pericoloso, costoso e inutile.
La Guerra Fredda però non cessò per molto tempo — la tregua durò solo dal secondo mandato di Reagan al mandato di George H. W. Bush [padre]. Negli anni ’90 il presidente Clinton riavviò la Guerra Fredda infrangendo la promessa che l’America aveva fatto di non espandere la NATO nell’Europa dell’est. George W. Bush [figlio] riattizzò la nuova Guerra Fredda ritirando gli Stati Uniti dal Trattato ABM (anti missili balistici), e Obama proseguì su quella via con una retorica irresponsabile, posizionando i missili statunitensi a ridosso del confine russo e appoggiando il rovesciamento del governo ucraino.
Per contrastare la deflazione in Giappone, l’ex capo economista del FMI Olivier Blanchard è arrivato a proporre un significativo aumento dei salari. Nel nostro continente, tuttavia, di ricette simili non si discute nemmeno
Le politiche espansive della BCE non sono in grado di allontanare l’eurozona dal precipizio della deflazione. Nei giorni scorsi l’istituto di Francoforte ha dovuto rivedere al ribasso le stime d’inflazione nell’eurozona per il 2017 e il 2018, e per la fine di quest’anno la previsione di crescita media dei prezzi nell’Unione monetaria continua a rimanere troppo vicina allo zero. La deflazione, del resto, già costituisce una realtà consolidata in alcuni paesi dell’Unione, tra cui Cipro, Grecia, Spagna, Croazia e Slovenia. Le ultime rilevazioni ISTAT indicano che pure l’Italia è invischiata nella secca della deflazione, con il calo dei prezzi che risulta confermato anche a luglio. Queste tendenze rischiano di vanificare gli effetti benefici dell’abbattimento dei tassi d’interesse: con prezzi ed entrate nominali in diminuzione sarà difficile per molti debitori, pubblici e privati, onorare gli impegni di pagamento.
La persistenza della deflazione viene solitamente spiegata con la diminuzione del costo delle materie prime. Ma questa giustificazione appare poco plausibile: se la banca centrale fosse realmente in grado di controllare l’andamento dei prezzi, in un ragionevole arco di tempo dovrebbe riuscire a scongiurare la deflazione anche in presenza di ribassi del prezzo del petrolio o di qualsiasi altro mutamento nello scenario macroeconomico globale.
Sta suscitando molto scalpore in questi giorni l’affermazione del deputato di Sinistra Italiana, Arcangelo Sannicandro, che opponendosi alla riduzione dell’indennità dei parlamentari ha ritenuto opportuno sottolineare di non appartenere certo «all’ultima categoria dei metalmeccanici o dei lavoratori subordinati». Una affermazione strana, sottolineano tutti i giornali, quando proviene da una sinistra che dovrebbe difendere il lavoro e da un deputato addirittura definito “ex comunista”.
In realtà chiunque segua le vicende che riguardano questo gruppo parlamentare e i recenti tentativi di costruire a partire da SI-SEL una nuova “cosa” di sinistra, sa benissimo che c’è ben poco di strano. Il fatto è proprio che questa sinistra non ha nulla a che vedere con il lavoro, sa poco o nulla del movimento operaio con cui da tempo non condivide esperienze di lotta (fosse anche di sconfitta).
A poco servono le scuse, le smentite, le spiegazioni, perché le parole hanno un significato e in casi come questo pesano come macigni sul consenso dei lavoratori nelle forze che vengono percepite di “sinistra” (fra le quali, al netto di ogni considerazione, rientrano anche i comunisti nella percezione comune). Sannicandro non è un caso isolato o una “mela marcia” della sinistra. È al contrario il prodotto coerente di quel processo che ha trasformato la sinistra, un tempo rappresentata dal PCI, nel principale amministratore degli affari di questo sistema.
Ogni grande evento è un arma politica nelle mani di chi lo organizza. Premi Nobel, premi Oscar, mondiali di calcio, expo, saloni del libro, fiere di questo o quel campo del sapere, eccetera, contengono molti significati sovrapposti. Sono eventi polisemici, difficili da catalogare (e dunque da condannare o, al contrario, da esaltare) in blocco, senza considerare l’evento nel suo complesso e nella sua complessità. Alcuni sono eventi necessari sebbene fagocitati da logiche capitalistiche; altri hanno perso nel corso del tempo il loro significato (o funzione) originario, rivestendo nella post-modernità il ruolo di contenitori del superfluo o dell’inutile; altri sono invece baracconi devianti. Le manifestazioni sportive hanno da sempre una funzione legittimante il potere costituito, ma allo stesso tempo rivestono una funzione necessaria dello spirito sociale dell’uomo che le ha rese antiche quanto l’uomo stesso, motivo per cui è altresì inutile marchiarle come “prodotto del capitalismo”. Le Olimpiadi, ad esempio, non sono un prodotto del capitalismo, ma sono capitalisticamente organizzate più o meno da quando sono state reintrodotte nella modernità. Eppure una delle più grandi – la più grande, nel rapporto tra numero dei suoi abitanti, medaglie vinte e Pil pro-capite – nazioni olimpiche, Cuba, non può essere certo ridotta a riflesso sportivo del capitalismo. Anche a Cuba, figuriamoci, lo sport ha valore legittimante, ma in funzione socialista, dunque progressiva. Perché mai d’altronde lo sport non dovrebbe legittimare, cioè cementare il rapporto tra popolazione e potere politico, se questo è espressione di un potere di classe?
Mai scrivere “noi”. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero
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Senza ombra di dubbio Donald
Trump, dal punto di vista dei
personaggi della comunicazione politica, rappresenta
un’originale interpretazione americana di una, diremo nel
nostro linguaggio,
sintesi tra Bossi e Berlusconi. Ovvero un
incrocio, immancabilmente di destra, tra “quello che non le
manda a dire”, per
attirare l’elettorato frustrato e travolto dalle
ristrutturazioni dell’economia, e l’imprenditore che spende la
propria fama per
alimentare la mitologia dei grandi creatori di ricchezza.
L’originalità, dal punto di vista italiano sta nell’incarnarli entrambi (Berlusconi invece faceva la parte del moderato) radicalizzando gli archetipi contenuti nelle figure che interpreta. Trump interpreta il ruolo dell’uomo libero da vincoli che dice “le cose come stanno” e, allo stesso tempo, quello di colui che ha accumulato ricchezze favolose con un tocco che può contagiare anche l’istituzione della presidenza americana. Per il resto, possiamo dire, dopo un ventennio di Bossi-Berlusconi, che quanto visto in Usa appare straordinariamente familiare: un establishment ripetitivo (il partito democratico) o bollito (il partito repubblicano), qualcuno che si propone come nuovo che avanza facendosi forza sulle frustrazioni di una parte importante dell’elettorato. Magari irridendo e delegittimando linguaggi, simboli, idee della politica che lo hanno preceduto.
La
difficoltà
che si nota quando ci si ritrova a parlare dei problemi di
Napoli dovrebbe, a mio avviso, spingere ad una riflessione
radicale. Dopotutto abbiamo
sentito lo stesso ritornello da decenni, se non secoli, da
napoletani e forestieri. Forse le questioni sono troppo
scivolose e complesse da afferrare,
o forse il linguaggio impiegato non è all’altezza della
situazione, ma arriviamo sempre agli stessi verdetti: la città
è
sporca e disorganizzata, la gente è maleducata e incivile, il
declino della città appare incontrollabile, Napoli è sempre in
bilico tra la perdita delle sue glorie antiche o non è ancora
abbastanza moderna. Si sa che nessun linguaggio, abbandonati
gli idealismi
positivistici e linguistici, può essere in grado di rendere la
città completamente decifrabile, trasparente, nei nostri
ragionamenti. In
questa chiave provocatoria, la città resta sempre una sfida.
Magari, però, spostando il lessico e la sintassi che siamo
abituati a
impiegare, diventa possibile ascoltare e far parlare la città
in un registro diverso. E allora potremmo forse riuscire a
liberare il discorso
sulle cosiddette malattie di Napoli dalla luce pallida di
vecchie diagnosi, e riciclare le carte ingiallite che
trascrivono sempre la stessa canzone.
Se, come sembra, la città è in declino ormai da secoli, e vive
quotidianamente sull’orlo dell’abisso, forse dobbiamo cercare
di trasformare l’energia di questa caducità in un altro spazio
critico e culturale. Le rovine, come insegnava il più grande
maestro della caducità europea Walter Benjamin, sono sempre
fonti di energia rinnovabile, luoghi di storie che nelle loro
resistenze
disseminano delle interrogazioni che possono aprire altre
porte verso altri orizzonti.
Ogni giorno nel mondo milioni e milioni di persone utilizzano monete complementari, digitali o con supporto cartaceo, per acquistare beni e servizi. Con questo sistema le aziende di una comunità che ne accetta il corso possono aumentare il proprio volume produttivo, stimolare l’acquisto di beni e sostenere l’economia locale. Ne esistono diverse forme. Quella ‘commerciale’ ha come obiettivo l’incremento del consumo di determinati beni di aziende: classico esempio sono i punti fedeltà. Esistono inoltre le ‘monete dedicate o settoriali’, come i buoni-pasto, spendibili per prodotti specifici e le ‘monete-tempo’ il cui valore viene quantificato attraverso le ore lavoro dei partecipanti al circuito.
In Sardegna nel 2009 è nato il Sardex un circuito di credito commerciale in cui le imprese che sono iscritte scambiano beni e servizi utilizzando una moneta complementare virtuale. Al Sardex aderiscono oggi oltre 3mila imprese che nel 2015 hanno generato transazioni per 50 milioni di euro. I crediti non sono convertibili in euro ma solo in prodotti per evitare speculazioni.
Le aziende sarde possono finanziarsi reciprocamente, scambiandosi debiti e crediti, attraverso un sistema digitale di conti online. Le aziende con saldo negativo si portano in pari vendendo beni e servizi ad altre imprese aderenti, quelle con saldo attivo monetizzano i crediti accumulati facendo acquisti da altri membri del circuito.
“Tra poco sarà troppo tardi per
conoscere la mia
cultura, poiché l’integrazione ci sovrasta e presto non
avremo valori se non i vostri. Già molti fra i nostri
giovani hanno
dimenticato le antiche usanze, anche perché sono stati
presi in giro con disprezzo e ironia e indotti a
vergognarsi dei loro modi
indiani.”
(Il
mio spirito si innalza- Capo indiano Dan
George)
La rappresentazione dell’”Altro” da sempre è utilizzata per la costruzione di un nemico che permetta la mobilitazione dei cittadini/e per dimenticare crisi e ingiustizie. Una valvola di sfogo.
Nelle correlazioni tradizionali c’erano queste classiche equazioni: comunismo-dittatura, lotta armata-terrorismo, autonomia-violenza, lesbiche-immorali, omosessuali-corruttori, anarchici-senza dio, femministe-rovina famiglie…. Alcune di queste sono venute meno, qualcuna è rimasta e molte altre si sono aggiunte: poveri-delinquenti, disoccupati-falliti, lavoratori pubblici-fannulloni, operai-scansafatiche, insegnanti-rubastipendio, pensionati- parassiti, politica-sporca, partiti-corruzione, collettivi e centri sociali-covi di estremisti e terroristi, resistenti della val di Susa-irragionevoli e violenti, solidali contro i Cie-fomentatori di rivolte….. Queste correlazioni, una volta costituivano l’armamentario dell’estrema destra, oggi attraversano l’insieme dei discorsi mediatici dell’intero arco partitico.
Joseph Stiglitz, già premio Nobel per l’economia, ha dichiarato che teme una catastrofe per l’Europa, in particolare per quanto riguarda l’Italia, dove se vincesse il No nel referendum, potrebbe seguirne il crollo dell’euro. Di conseguenza invita Renzi a “rinunciare al referendum” disdicendo la consultazione popolare.
D’accordo: Stiglitz è un economista e non un giurista, è un cittadino americano ed ha tutto il diritto di ignorare la Costituzione italiana, ma, visto che si occupa di cose italiane, potrebbe anche informarsi prima di aprire bocca.
Allora: il referendum non dipende dalla volontà di Renzi, la Costituzione prevede norme precise in caso di revisione costituzionali, per le quali, se la modifica non è approvata dai 2/3 di ciascuna camera e ne facciano richiesta 500.000 elettori o il 20% dei parlamentari, si dà luogo a referendum confermativo.
E non è scritto da nessuna parte che esso possa essere revocato, rinviato o anche solo sospeso e tantomeno dal Presidente del Consiglio: in italiano questo si chiamerebbe colpo di Stato perché sarebbe il cambiamento della Costituzione scavalcando precise disposizioni costituzionali. Renzi non ha neppure il potere di sospendere o revocare la riforma della Costituzione su cui si decide, perché la riforma è stata decisa da un Parlamento, per quanto indegno, pur sempre nella pienezza dei suoi poteri e con doppia delibera.
Un bell’articolo del Guardian tira un primo bilancio del Regno Unito post-Brexit: tutti i (falsi) avvertimenti di catastrofi sociali ed economiche nel caso avesse vinto il Leave si sono rivelati infondati e le stesse istituzioni che avevano cercato di intimorire gli elettori ora si rimangiano le minacce e assicurano che va tutto bene. Una cosa che non va bene c’è di sicuro: durante una votazione democratica, una parte ha tentato di inquinare il dibattito con menzogne totalmente inventate e infondate, per difendere gli interessi di pochi. Purtroppo nell’attuale Europa questo andazzo è praticamente la norma
La disoccupazione sarebbe decollata. Le autostrade sarebbero rimaste deserte. La borsa sarebbe andata a picco. Il governo non sarebbe più riuscito a vendere i bond del Regno Unito. I mercati finanziari sarebbero crollati. L’Inghilterra sarebbe istantaneamente ripiombata in una profonda recessione.
Ve lo ricordate? Non si riusciva ad evitare di sentire le previsioni di terremoti e catastrofi, non solo nelle settimane prima del referendum, ma anche in quelle immediatamente successive. Molti di quanti avevano votato Remain trovavano conforto nel credere fermamente che tutti quelli che avevano optato per la Brexit si sarebbero amaramente pentiti della loro scelta.
Ma non è andata così. L’aumento di luglio dell’1,4% delle vendite al dettaglio dimostra che i consumatori non hanno smesso di acquistare, e sembra influenzato più dal tempo atmosferico che dalla paura delle conseguenze di quanto è accaduto il 23 giugno.
L’assoluzione
di un uomo accusato del peggiore dei crimini, il genocidio,
non ha fatto notizia. Né la BBC né la CNN se ne sono
occupate. Il Guardian si è permesso un breve
articolo. Un’ammissione ufficiale così rara è finita sepolta o
soppressa, comprensibilmente. Spiegherebbe troppo riguardo a
come i reggitori del mondo lo governano.
La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) de L’Aia ha sollevato in silenzio l’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, dalle accuse di crimini di guerra commesse durante la guerra bosniaca del 1992-95, compreso il massacro di Srebrenica.
Lungi dall’aver cospirato con il condannato leader serbo-bosniaco Radovan Karazdic, in realtà Milosevic “condannò la pulizia etnica”, si oppose a Karazdic e cercò di fermare la guerra che ha smembrato la Jugoslavia. Sepolta verso la fine di una sentenza di 2.590 pagine lo scorso febbraio, questa verità demolisce ulteriormente la propaganda che giustificò l’offensiva illegale della NATO in Serbia nel 1999. Milosevic è morto d’infarto nel 2006, solo nella sua cella de L’Aia, nel corso di quello che è stato un processo fasullo da parte di un “tribunale internazionale” inventato dagli Stati Uniti. Negatogli un intervento al cuore che avrebbe potuto salvargli la vita, le sue condizioni sono peggiorate e sono state controllate e mantenute segrete da dirigenti statunitensi, come da allora ha rivelato WikiLeaks.
per Bob Young
Introduzione
Il mio obiettivo, con
questo scritto, è comprendere, come partecipante e come
osservatore, la storia e le prospettive della critica marxista
della scienza
capitalistica.
Tale prospettiva – e le politiche da essa sostenute – hanno vissuto una breve fioritura, in particolare in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, negli anni Trenta e Quaranta, per poi essere riprese e trasformate solo negli anni Sessanta e Settanta. In entrambi i casi, i critici socialisti hanno attinto dalla propria esperienza personale, professionale e politica – influenzati dal marxismo della loro epoca – dando vita a nuovi e stimolanti resoconti circa la storia, la filosofia e le politiche della scienza. Tuttavia, nessuna corrente marxista ha condizionato, in modo significativo, la tendenza dominante nello sviluppo degli studi su scienza e tecnologia (STS) nella second meta del XX secolo. Ancora più importante per queste attività, i movimenti politici sui quali poggiavano sono interamente, e rispettivamente, crollati negli anni Cinquanta e ottanta.
Ciò nonostante, come un fantasma infernale nella macchina degli STS, l’influenza di tali critici marxisti ha aleggiato nell’ombra, nelle memorie e nelle liste di lettura. Al culmine della Guerra fredda, Marx rappresentava una sorta di spirito non annunciato, che ossessionava i resoconti dell’epoca sulla rivoluzione scientifica del XVII secolo. Né certi sopravvissuti marxisteggianti – in particolare J.D. Bernal e Joseph Needham – avevano chiuso bottega del tutto.
Con «fabbrica del sensibile» possiamo intendere anzitutto la costituzione di un mondo sensibile comune, di un habitat comune, attraverso l’intreccio di una pluralità di attività umane. Ma l’idea di una «partizione del sensibile» implica qualcosa in più. Un mondo «comune» non è mai semplicemente l’ethos, la dimora comune, risultante dalla sedimentazione di un certo numero di atti interconnessi. È sempre una distribuzione conflittuale dei modi d’essere e delle «occupazioni» all’interno di uno spazio dei possibili. È a partire da qui che possiamo porre la questione del rapporto tra «ordinarietà» del lavoro ed «eccezionalità» artistica. Ancora una volta il riferimento a Platone può contribuire a porre chiaramente i termini del problema. Nel terzo libro della Repubblica, l’imitatore non viene più condannato semplicemente per la falsità e la pericolosità delle immagini che propone, ma a partire dal principio della divisione del lavoro che già era stato utilizzato per escludere gli artigiani dallo spazio politico comune: la pratica della mimesis, per definizione, rende chi la fa propria un essere doppio. Il principio mimetico consente di fare due cose alla volta, mentre il principio della comunità ben organizzata è che ciascuno farà una sola cosa, quella alla quale è destinato dalla sua «natura». In un certo senso, sta già tutto qui: l’idea del lavoro non è in primis quella di una attività determinata, di un processo di trasformazione materiale, ma quella di una divisione del sensibile: l’impossibilità di fare «qualcos’altro», a partire dall’«assenza di tempo».
Tra i motivi che intristiscono ogni anno la fine d'agosto c'è anche la rituale sagra degli economisti dello zerovirgola. Costoro non vedono l'ora che la luce dell'estate inizi a spegnersi per ricominciare a propinarci le loro ricette. Sempre le stesse, sempre smentite dai fatti.
D'altronde il loro lavoro è di far da spalla ai veri padroni, tanto quelli che stanno nei consigli d'amministrazione, quanto quelli che abitano i palazzi della politica. Le cose filavano lisce, e perfino noiose, finché la crisi è venuta a scuotere innate certezze.
E siccome da tempo i loro conti non tornano, il rito di fine estate si è fatto un po' più interessante. Non perché abbiano abbandonato i loro dogmi. Tutto sì, ma questo mai. Ma perché le loro contorsioni ci parlano di una manifesta crisi teorica. Crisi però mai riconosciuta, con effetti comici talvolta davvero esilaranti.
Avete in mente quando gli economisti mainstream - quelli che il compianto Costanzo Preve chiamava "economisti con la pipa" - ci dicevano seri, quando non serissimi, che era necessaria l'austerità, tagliare la spesa, aumentare la competitività e così avremmo avuto la crescita, la fine della disoccupazione e la felicità eterna?
Ecco, costoro non ne hanno azzeccata una. Ma sono sempre lì, perché in fondo il loro compito non era quello di centrare le previsioni, bensì quello di annunciare un futuro radioso a condizione che si accettasse un duro presente di sacrifici.
Un'immagine di un bimbo ferito viene promossa negli screditati media mainstream insieme a una tragica storia di 'attivisti' in un quartiere collocato nella Aleppo Est occupata da Al-Qa'ida
Secondo i media imbeccati dai governi, è agli «attacchi aerei russi o del regime siriano» che va imputata la colpa di questo atto di brutalità contro un bambino innocente.
Un bimbetto traumatizzato, apparentemente ferito, si siede tranquillamente in un'ambulanza nuova fiammante.
A un certo punto si tocca una ferita sulla propria testa.
Non reagisce a quel tocco.
Il video di due minuti da cui il fermo immagine è estrapolato mostra il bimbo mentre viene consegnato da una posizione buia a una persona "ufficiale" e portato dentro l'ambulanza.
Lì sta seduto silenziosamente mentre le macchine fotografiche vanno avanti a confezionare questa operazione di guerra psicologica.
La narrazione dei media principali è la seguente:
Da una parte il capitalismo, distruggendo la piccola impresa artigianale o commerciale, elimina i rapporti semifeudali, dall’altra i nuovi bisogni sociali li fanno riemergere
Ciclicamente l’Istat ci aggiorna dei progressi o regressi registrati nel campo dell’occupazione e si scatena la solita bagarre tra i sostenitori e detrattori del governo Renzi e della sua creatura più famosa: il jobs act.
Ma, quello che i dati quantitativi non ci dicono è come sia cambiata e sta cambiando la qualità dei lavori con cui devono confrontarsi le nuove generazioni. Soprattutto non ci dicono come sono cambiate le relazioni tra imprenditori e i lavoratori, ovvero come sono cambiate le relazioni nel mondo del lavoro (i rapporti sociali di produzione per dirla con Marx).
Percorrendo, a volo d’uccello (rapace) la tradizionale visione “progressista” della storia umana, si può dire che il lavoro sia passato da una condizione di schiavitù”- età romana e grandi imperi- ad una condizione di servitù” – durante il Medio Evo – a quella dell’operaio moderno della catena di montaggio, per finire oggi in una condizione sociale in cui predominano i “lavoretti” nel settore dei servizi.
La storia invece ci dimostra che sopravvivono formazioni sociali del passato che convivono, come sosteneva Nicos Poulantzas, il geniale filosofo marxista precocemente scomparso, con altre formazioni sociali che appartengono alla modernità.
Il
rimosso
della diseguaglianza
I libri dedicati alla scuola ne ignorano quasi sempre il carattere sociale. I tratti dominanti del discorso sono costituiti, da un lato dall’idealizzazione del merito, dell’efficienza, della razionale allocazione della spesa, della libertà di scelta tra pubblico e privato o, per converso, dalla istanza della difesa della natura “pubblica” e democratica della scuola, dalla valorizzazione della passione per l’insegnamento e della sua (platonica) dimensione erotica. La diseguaglianza sociale rimane normalmente, perlomeno nella letteratura più diffusa e di successo, una glossa o una nota a margine. Una rimozione che riguarda trasversalmente destra e sinistra, anche se cifre molto vistose ci dicono che stiamo vivendo, nel campo dell’istruzione, un’epoca di crescita delle differenze sociali: i neoiscritti all’università provenienti dai tecnici e i professionali sono diminuiti, negli ultimi 10 anni, dal 40% al 26.4%.
Quando viene messa al centro del discorso, si fa della diseguaglianza nel campo dell’educazione un uso strumentale: molte pubblicazioni caratterizzate da un’impostazione economica ed economicistica considerano le evidenze della differenza di risultati scolastici degli studenti appartenenti alle diverse classi sociali come la prova della natura inefficiente e parassitaria dell’educazione pubblica, e la dimostrazione della necessità di riforme “meritocratiche” – come la “Buona scuola”, oramai in fase di implementazione avanzata – che modifichino in senso privatistico e manageriale i caratteri del sistema educativo.
E a Ventotene tre frodatori, eredi di tre frodatori, con i loro corifei
Medaglia
d’argento della
maratona, medaglia d’oro dell’eroismo
Il drammatico, coraggioso, nobilissimo gesto della medaglia d’argento etiopica della maratona di Rio ha squarciato non solo l’ipocrita e cinica immagine dello sport affratellante e pacificante, in effetti mercato mafioso e strumento di guerra fredda (vedi la montatura del doping russo). Ha squarciato il velo dietro al quale l’Occidente e l’Italia in prima persona nascondono, a vantaggio di rapine e profitti, l’orrenda dittatura e i sistematici genocidi compiuti dal regime di Addis Abeba nei confronti dei vari popoli del Corno d’Africa. Tra i quali i somali e, sottoposti ad aggressioni latenti o attive da oltre sessant’anni, gli eritrei.
L’eroico Feyisa Lilesa, con i polsi levati alti e stretti nel gesto delle manette all’arrivo della maratona, nello sbatterli sul muso dei mercanti e boccaloni olimpici e sulla coscienza del mondo e, a seguire, con le interviste e denunce, ha determinato anche il suo destino: schiacciato nella scelta tra ritorno in patria per raggiungere in carcere i suoi famigliari Oromo o, più probabile, essere ucciso, e l’esilio perenne, quanto meno fino alla caduta del terrorismo di Stato che gestisce l’Etiopia ininterrottamente dai tempi di Haile Selassiè, l’amerikano, Mengistu, il sovietico-cubano, Meles Zenawi e, ora, Haile Mariam Desalegn, di nuovo amerikani.
La scomparsa di Ernst Nolte, l’esponente più noto del «revisionismo storico». La fortuna editoriale e di pubblico fu data dalla lettura dell’ascesa hitleriana come reazione alla «barbarie asiatica» rappresentata dal comunismo
La scomparsa a 93 anni di Ernst Nolte segna l’uscita di scena di uno dei protagonisti più controversi del cosiddetto revisionismo storico: in qualche misura del suo interprete più originale e autentico, noto anche al grande pubblico.
Un destino che non sembrava profilarsi nel primo studio che gli diede notorietà, il libro del 1963 su I tre volti del fascismo (che erano fascismo, nazismo e Action Francaise), dal taglio assai più filosofico che storico, nel linguaggio come nella problematica (e con una totale indifferenza per la dimensione economica e sociale). Ci sono in quel testo elementi destinati a permanere, come notava nel 1964 Enzo Collotti: se il fascismo veniva inteso come una filiazione del marxismo, anche i suoi esiti estremi si sarebbero potuti imputare al comunismo. Ma per la verità venivano operate allora nette distinzioni tra nazismo e comunismo, come tra i rispettivi sistemi concentrazionari. C’era molta cautela nell’uso del termine «totalitarismo», che anzi veniva criticato perché sommergeva e banalizzava il fenomeno fascista, impedendo la ricerca di una sua «teoria generale».
C'è un passaggio, nella vicenda narrata dal film Romanzo di una strage, di Marco Tullio Giordana, a dir poco illuminante della natura ambigua del potere democratico. Aldo Moro - disegnato nella sua caratura di personaggio emblematico di quel potere, lacerato da una pietas civile cui si contrappone la ragionata propensione alla ragion di stato - si reca dal presidente Saragat (altro personaggio dotato di un'incredibile disposizione all'ambiguità) con un dossier che svela la vera matrice delle bombe che avevano già insanguinato il paese fino a quel matriciale 1969. Il documento è esplosivo: larghe fette di apparati dello stato favoriscono (o addirittura mobilitano) gruppi della destra eversiva, con l'obiettivo di radicalizzare lo scontro sociale e politico e dunque creare le condizioni per l'instaurazione di un regime autoritario.
La decisione presa in quell'incontro - così come narrato dal film - è semplicemente quella di "non fare nulla", lasciare le cose come stanno, ovvero lasciare agire la tesi ufficiale di stato che la responsabilità di quella prima stagione di terrore fosse attribuibile adun ristrettomanipolo di anarchici, emarginati dalla stessa sinistra radicale (allora si diceva "extra-parlamentare").
La scelta. Semplice e implacabile.
La ragione espressa da Moro e da Saragat è un capolavoro di ipocrisia democristiana (in realtà Saragat era un socialdemocratico, ma sfido chiunque a reperire differenze di sostanza in quel momento topico della storia di questo paese): la pubblicazione di quel dossier avrebbe scatenato una guerra civile!
Da circa due anni va avanti il dibattito attorno all’inflazione europea, giudicata, a detta di commentatori ed economisti, eccessivamente bassa per garantire la crescita economica. In effetti l’inflazione si aggira tra lo 0,2 e lo 0%, ben al di sotto del target fissato dalla Bce del 2%. Come sappiamo, il controllo dell’inflazione è uno degli strumenti, anzi: lo strumento, attraverso cui la Banca centrale europea impone agli Stati membri la moderazione salariale e impedisce qualsiasi spesa pubblica in deficit. Bloccare ogni rialzo di prezzi e salari è l’obiettivo ideologico della Ue, ma l’inflazione allo 0% ha portato molti commentatori a criticare le scelte della stessa Ue come troppo restrittive. Sillogismi fantasiosi (del tipo: “se i prezzi scendono i consumatori non comprano” [ma quando mai...semmai i prezzi scendono perché cala la domanda interna, che a sua volta cala perché il reddito disponibile si riduce]) contribuiscono ad orientare un dibattito tutti interno all’economia politica liberista. Bravi, benissimo. Eppure, in questi giorni ha trovato un certo risalto la notizia dell’aumento dell’inflazione in Gran Bretagna, che sale allo 0,6%, sempre troppo poco per i presunti standard liberisti europei, ma comunque in salita rispetto agli altri paesi del continente costretti nella gabbia europeista. Una notizia in realtà di poco conto, ma il modo in cui è stata trattata sui media e il risalto datogli ha smascherato il rosicamento che ancora si prova tra Bruxelles e Francoforte. Secondo coerenza, la notizia avrebbe dovuto essere accolta positivamente dalla sequela di sòla che commentano l’economia europea.
La fine dell’economia politica l’abbiamo sognata con Marx mediante l’estinzione delle classi e la trasparenza del sociale seguendo l’ineluttabile logica della crisi del capitale. Poi l’abbiamo sognata contro Marx nella negazione dei postulati dell’economia, alternativa radicale che nega ogni primato dell’economico o del politico, in prima come in ultima istanza: l’economia politica semplicemente abolita come epifenomeno, sopraffatta dal proprio simulacro e da una logica superiore.
Oggi non dobbiamo più nemmeno sognarla, questa fine. L’economia politica svanisce da sola sotto i nostri occhi, trasformandosi in una trans-economia della speculazione e sbeffeggiando la sua stessa logica (la legge del valore, quella del mercato, la produzione, il plusvalore, la logica stessa del capitale) in nome di un gioco dalle regole fluttuanti e arbitrarie, il gioco della catastrofe.
L’economia politica sarà pure finita, ma non come ci aspettavamo esacerbandosi fino alla parodia. La speculazione non è più plusvalore,, ma è l’estasi del valore, senza alcun riferimento alla produzione né alle sue condizioni reali. È la forma nuda e pura, la forma purgata del valore, che gioca solo con la propria rivoluzione e circolazione orbitale. È destabilizzandosi da sola in modo mostruoso, ironico in qualche modo, che l’economia politica cortocircuita ogni alternativa.
Un’intervista al grande geografo David Harvey sul mensile Jacobin : https://www.jacobinmag.com/2016/07/david-harvey-neoliberalism-capitalism-labor-crisis-resistance/ - Traduzione a cura di Panofsky (https://www.facebook.com/Panofsky-260479200991238/?fref=ts)
Proponiamo un’interessante intervista al geografo e sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe ricordarsi.
* * *
Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi uno dei libri più citati sull’argomento.
1. La
costruzione
€uropea, - contrariamente a quanto ritengono gli
z€loti che vivono di luoghi comuni, facitori e vittime della
propaganda
neo-ordo-liberista -, è stata guidata dalla volontà
USA di governare l'intero Occidente (qui
p.2 e qui,
per la traduzione della fonte
ufficiale), assicurandosi, per la sua parte più importante
(cioè il "vecchio" continente), due certezze considerate
imprescindibili:
a) ancorare il continente "madre" (o "padre") all'economia di mercato, in contrapposizione a ogni cedimento "socialista" al bolscevismo sovietico, e trascinarlo in tutte le successive evoluzioni economico-ideologiche del "mercatismo", preparatorie e posteriori alla "caduta del muro" (in particolare il Washington Consensus);
b) agevolare il conseguente perseguimento delle strategie geo-politiche ritenute opportune dagli USA stessi - o meglio dal suo establishment sentitosi trionfatore della guerra fredda e emblema della "fine della Storia"-, in quanto naturali leaders di questo blocco omogeneo di paesi trasformati in sinergici ausiliari "liberal-liberisti": l'agevolazione consentita dall'€uropa è quella di avere un interlocutore unico allorquando occorra garantire un coordinamento politico, ossequioso della linea stabilita al centro dell'Impero, verso le aree diverse da questo blocco (come insegna la vicenda dell'Ucraina e, in misura più incerta, quella dei Balcani, della Libia e del Medioriente...).
Nella sua accezione
rinascimentale e
umanistica, con la parola impresa si intende l’attività che
si organizza per dare al mondo la sua forma umana. L’impresa
dell’artista rinascimentale è il segno e la condizione
dell’indipendenza della sfera umana dal fato e dalla volontà
divina.
Nel pensiero di Machiavelli l’intrapresa è tutt’uno
con la politica, che si emancipa dalla fortuna e pone in
essere la
repubblica, spazio nel quale le volontà umane costruiscono e
confrontano la loro astuzia, la loro capacità di creazione.
Nella sua accezione capitalistica la parola impresa acquista nuove coloriture, pur non perdendo il senso di azione libera e costruttiva. E le nuove coloriture stanno tutte nella opposizione tra impresa e lavoro. L’impresa è invenzione e azione libera. Il lavoro è ripetizione e azione esecutiva. L’impresa è investimento di capitale che produce nuovo capitale, grazie alla valorizzazione che il lavoro rende possibile. Il lavoro è prestazione salariata, che valorizza il capitale ma svalorizza il lavoratore. Cosa resta oggi dell’opposizione tra lavoratori e impresa, e come si sta modificando la nozione di impresa, la sua percezione nell’immaginario sociale?
Impresa e lavoro sono sempre meno opposte nella percezione sociale, e nella coscienza stessa dei lavoratori cognitivi, cioè nella coscienza di quell’area che esprime il più alto livello di produttività e la più alta capacità di valorizzazione e che incarna la tendenza generale del processo lavorativo sociale.
Sono convinto da tempo che la Francia, oggi, abbia una delle classi politiche più mediocri d’Europa e la polemica intorno al burkini, ovvero il costume da bagno che copre interamente il corpo e la testa, usato da certe donne musulmane, è l’ennesima dimostrazione di questo assioma. Frequento da anni, con un minimo di continuità ma senza pretese, le spiagge della Costa Azzurra e di burkini ne avrò visti sì e no due. Non credo quindi che si possa parlare di sfida ai “buoni costumi”, “alla laicità” e “alle regole d’igiene e sicurezza” alle quali si è riferito David Lisnard, sindaco di Cannes, nell’emettere l’ordinanza di divieto che è poi stata replicata da altri sindaci della Costa.
Assai più spesso, e certamente proprio a Cannes oltre che in altri luoghi del Sud della Francia, ho visto ricchi arabi in abbigliamento tradizionale, seguiti da donne velate con solo gli occhi liberi, con relativo stuolo di bambini, entrare e uscire dalle boutique carichi di borse e pacchetti, intavolare fitte conversazioni nelle agenzie immobiliari, uscire satolli dai migliori e più cari ristoranti, sbarcare nei porticcioli da barche da sogno. In altre parole: il burkini che in spiaggia, in rarissime occasioni, tanto turba il senso della laicità, dell’igiene e della sicurezza del sindaco di Cannes, gli è del tutto indifferente quando serve a far girare la moneta. Anche se questa moneta è la vera architrave dei regimi più ostili alla laicità e alle donne che esistano al mondo. C’è solo un personaggio più dannoso dell’ipocrita: l’ipocrita babbeo.
Tutto come previsto. Le oligarchie euroatlantiche stanno con Renzi e iniziano a giocare la carta del terrore
Un mese fa, provando a fare il punto sulla battaglia referendaria, scrivevo:
«Possiamo invece stare certi sul sostegno di Bruxelles, Berlino e Parigi in quella che si annuncia come l'ennesima compagna terroristica. Renzi cioè - e questa è la sua vera carta europea - non verrà lasciato solo nella sua battaglia referendaria. E siccome - Brexit insegna - l'unica arma di persuasione che è rimasta al blocco dominante è la paura, è lì che batteranno all'unisono tutti i media mainstream. In altre parole, il referendum costituzionale diventerà "europeo" e non solo italiano, e Renzi avrà con sé tutto il pattume che alberga nelle cancellerie dell'Unione. Che poi gli giovi è tutto da vedere, ma questa sarà la partita».
Adesso, proprio nei giorni di Ferragosto, abbiamo avuto la conferma. Come si può leggere in un articolo riassuntivo di Federico Rampini, dopo l'Economist, stanno entrando a gamba tesa nella campagna referendaria italiana i pesi massimi della stampa mondiale da sempre al servizio dei grandi poteri oligarchici: Wall Street Journal, New York Times, Financial Times, El Pais.
Il referendum italiano è «probabilmente più importante di Brexit». Così il Wall Street Journal ha sintetizzato la ragione di tanto interesse per il voto d'autunno.
Ci siamo lasciati la scorsa settimana dicendoci che le recessioni ci sono sempre state, ma il problema è che oggi non ci sono le riprese. Una frase che, mi rendo conto, rischia di suonare come la stantia trasposizione alla crescita economica di un altro grande classico: “Non ci sono più le mezze stagioni”. Per evitare il pericolo, vorrei approfondire, condividendo con voi due scoperte di questa settimana.
La prima è toccata a un mio lettore. Siamo in epoca di grigliate, e rovistando fra la carta straccia per accendere il caminetto l’amico ha trovato un preziosissimo reperto: il Panorama del 25 dicembre 1975, anno della terza recessione più grave dell’Italia nel dopoguerra, dopo quelle del 2009 (Lehman) e del 2012 (Monti). L’articolo di pagina 116, intitolato “Odore di ripresa”, ci riporta a un mondo che non esiste più: quello in cui i giornalisti fornivano fatti; quello in cui una rivista “generalista” dedicava sei pagine a una descrizione della congiuntura internazionale, con tanto di grafici e glossario, di una qualità che oggi inutilmente cercheremmo nella stampa cosiddetta economica; e, naturalmente, quello in cui le riprese c’erano.
“Italia: crescita dal 3% al 4%”, recita un sottotitolo. Previsione prudente: nel 1976 la crescita infatti fu del 7%, tre punti sopra la media del decennio (4%). Commuove il rispettoso spirito critico col quale l’anonimo giornalista presenta le analisi di Andreatta e Basevi (non proprio due di passaggio).
Sarebbe troppo facile, anche se opportuno, sparare a zero contro tale Arcangelo Sannicandro, rappresentante della sinistra “radicale” di lungo corso, esponente di Rifondazione comunista prima e di Sinistra e libertà dopo. La verve con cui rivendicava il diritto a non mischiarsi coi metalmeccanici, la pretesa di difendere il proprio status non solo nel percepire guadagni infinitamente maggiori, ma di far parte di un altro mondo, con altre regole, descrive il senso della sinistra di questi anni. Lui, poveretto, ne è solo un involontario emblema: ricco avvocato d’istinti illuministici, sicuramente progressista e dai buoni sentimenti, forse anche una “persona per bene”, onesta, laboriosa e via dicendo. Il problema, il vero problema, è che la “sinistra”, con queste virtù morali e/o etiche, dovrebbe avere ben poco a che fare. Negli anni si sono però confusi ruoli e compiti, e oggi ci ritroviamo nel punto in cui sinistra fa rima con Arcangelo Sannicandro. E vale davvero poco la pretesa di prendere le distanze da questo personaggio, perché quello che questo pezzente esprime in forma immediata e rozza è la medesima sostanza che caratterizza la sinistra “radicale” italiana da un trentennio a questa parte. La sinistra dei diritti, quella civica, cittadinista, illuminata, interclassista, dei buoni sentimenti, delle “buone pratiche”, del “buon governo territoriale”. Il parlamentare di Sel è solo la punta d’iceberg di un percorso storico che riguarda tanta parte di questa sinistra, in parlamento ma non solo. E allora c’è poco da scandalizzarci.
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Lavoro Insubordinato: The Jobs Act Effect, dall’Europa all’Italia e ritorno
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Quarantotto: Da Keynes a Gramsci
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Introduzione
La logica keynesiana (o
kaleckiana) conduce gli economisti post-keynesiani a presumere
che una variazione delle entrate dello Stato provenienti dalla
tassazione o dalla
vendita di buoni del Tesoro siano il risultato di una
variazione della spesa pubblica, e non il contrario – date le
altre componenti autonome
che costituiscono la domanda aggregata (AD) e dati i parametri
che regolano il moltipli catore del
reddito (oppure, in un’analisi di lungo
periodo, del super-moltiplicatore)1. La
logica di questa proposizione è la medesima applicata dagli
economisti post-keynesiani
alla teoria degli investimenti: la creazione di moneta
endogena finanzia l'investimento (finanziamento iniziale),
mentre il risparmio compare solo
alla conclusione del processo del (super)moltiplicatore del
reddito e costituisce un fondo per il cosiddetto finanziamento
finale (o
“funding”) (Cesaratto 2016). Mentre la sequenza keynesiana
tmoneta endogenainvestimentorisparmio è generalmente
accettato, almeno nei suoi termini generali, la proposizione
che "lo Stato spende prima" invece non lo è. Come è noto,
negli ultimi due
decenni gli esponenti della Teoria della Moneta Moderna (MMT)
sono stati in prima linea nel sostenere la logica keynesiana
(o kaleckiana) di questa
proposizione, riempiendo un vuoto teorico del pensiero
post-keynesiano stesso. Considerando l’importanza della
proposizione, si tratta di una
lacuna davvero sorprendente. La preposizione è stata forse
data per scontata, ma non dovrebbe esserlo.
1. Com'è ormai tradizione del blog, riteniamo
molto utile fissare alcune informazioni che dovrebbero essere
incorporate nella
comprensione consapevole del momento storico, e del ciclo
economico che stiamo vivendo, per come emergono dai commenti e
in raccordo a precedenti
post.
Questa volta, come in molte alter occasioni, diamo il dovuto risalto a vari interventi di Arturo (che sempre ringraziamo...).
Il primo riguarda la reale visione di Spinelli sulla costruzione €uropea, ritraibile da un discorso (del 1985) che, nell'attualità, - e quando le dinamiche che erano auspicate esplicitamente (e implicitamente ma necessariamente) nel "Manifesto" si sono consolidate in modo coerente -, costituisce una sorta di interpretazione autentica dell'ideologia e della prassi politica concepita a Ventotene.
Un tale carattere ne consiglia la lettura integrale e con attenzione, specie per quei lettori che dispongono del quadro critico che emerge dal complesso del blog.
Arturo seleziona e commenta per noi dei passaggi altamente "eloquenti":
Le morti e gli infortuni sul lavoro sono di nuovo in crescita, così come le malattie professionali. È scritto sul rapporto 2015 dell'Inail: più di 600.000 denunce di infortuni, più di 1200 quelle di morte (694 quelle accertate). Si tratta però di stime al ribasso, visto che non tengono conto né di lavoratori indipendenti (partite Iva, liberi professionisti...) né di lavoratori in nero che, va da sé, non sono assicurati Inail (e quindi non risultano nei loro conti) e sono particolarmente presenti nei due settori a più alto rischio di incidente e con la quota più alta di vittime mortali: agricoltura ed edilizia.
Un conteggio più veritiero lo fornisce l'Osservatorio Indipendente di Bologna, che si basa sulle notizie di incidenti mortali pubblicate sui giornali: l'anno scorso sono stati almeno 678 quelli sul luogo di lavoro (quest'anno sono già 405). Tenendo conto anche dei morti in itinere (vittime di incidenti mentre vanno o tornano dal lavoro), che per l'Inail sono il 55% del totale, si arriva ben oltre i 1200.
Cifre che hanno ricominciato a salire negli ultimi anni, nonostante l'effetto "positivo" della crisi e dell'aumento della disoccupazione. Calerebbero certamente se fosse pienamente applicato il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro entrato in vigore nel 2008 (la legge 81/2008), un testo che ora il governo vuole riformare, o piuttosto, abbattere.
La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire.
Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia. Questa disaffezione si traduce nell’idea che la politica sia tutta uguale, destra e sinistra, e che i politici siano tutti disonesti. Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.
Spiega la disaffezione quale dovuta all’incapacità dei politici di risolvere i problemi, la disoccupazione in primis, mentre tutti si riempiono la bocca del medesimo mantra delle riforme (operando delle feroci contro-riforme). Spiega la sostanziale somiglianza fra destra e sinistra che agli occhi del comune cittadino è giustamente scomparsa.
A fronte dell’ennesimo terremoto rovinoso con interi paesi distrutti, nonchè mortale per centinaia di persone, si apre la solita diatriba sulla possibilità di previsione del scisma. Se non con certezza almeno con una ragionevole probabilità che l’evento avvenga, o meno. Oggi, quando scopriamo un pianeta gemello della terra a quattro (4) anni luce da noi– ricordo che la luce viaggia a 300.000 km al secondo, calcolate voi quanto valgono in metri – nell’orbita di Proxima Centauri, col telescopio dell’ESO (European Southern Observatory), e altri molto più lontani ne abbiamo trovati attraverso la missione Kepler, il telescopio spaziale della NASA (National American Space Agency), e questo in un Universo osservabile che conta più o meno 100 miliardi di galassie, mentre nella sola Via Lattea ci sono all’incirca 200 miliardi di stelle, ebbene può sembrare poco comprensibile se non incongruo che non si riescano a mettere in campo gli strumenti pratici e teorici per prevedere, seppure con una qualche approssimazione, quando il terremoto sta arrivando. In fondo il terremoto è un fenomeno che avviene nella nostra piccola terra, e per giunta ce ne sono parecchi in giro per il mondo e nella storia dell’umanità che abbiamo potuto osservare, studiare, modellare eppure continuano a rimanere imprevedibili, o , in forma più debole, molto poco prevedibili.
Per l’intanto noi molto poco conosciamo sull’interno della terra, e più si scende in profondità meno sappiamo, anche la stessa descrizione morfologica è assai approssimativa.
Mentre le anime belle, sempre troppe e sempre pericolose, in perfetta simbiosi con i peggiori ceffi del fascio clerico berlusconismo, tra cui Sallusti e Bertolaso, si indignano di fronte ad ogni accenno di realismo come fosse un offesa ai morti e predicano l’unione mistica e solidale con Renzi, magari decidendo di votare Si al referendum costituzionale in nome del terremoto, si comincia a diradare la nebbia su ciò che verrà. Ma il panorama è terremotato anch’esso, anche se offende solo i vivi ormai, vivi che devono subire un’informazione da barzelletta e la conversione degli ultimi blandi critici che in cambio di prebende, trasmissioni e apparizioni si dedicano alla mirabile opera di confondere la mancanza di impegni immediati e il rinvio a prossimi ed eventuali piani, come saggezza di governo.
Così anche il terremoto fa bene al guappo che si appella alla solidarietà nei momenti di tragedia annunciata. Ma per la verità il premier potrebbe diradare la bruma e dare prova di reale buona fede in pochi giorni, se non ore: gli basterebbe abolire la legge con cui Monti, con perfetta scelta dei tempi, degna di un uccello del malaugurio, volle sottrarre completamente lo Stato dal pagamento di qualsiasi danno dovuto alle calamità naturali, comprese quelle dovute ad incuria, errori, colpevole inazione delle articolazioni dello Stato medesimo, per affidare tutto ad eventuali assicurazioni private.
Counterpunch commenta un recente articolo di Zbigniew Brzezinski, noto politologo e geostratega americano, consigliere sotto diverse amministrazioni, famoso per aver teorizzato nel 1997 la strategia (successivamente adottata) per consolidare la supremazia “imperiale” degli USA nella prima metà del XXI secolo – strategia di cui la Clinton è una delle principali promotrici. In questo articolo, Brzezinski fa un’inversione a U: gli USA non sono più una superpotenza, sostiene, si sta formando una vasta coalizione anti-americana e perseguire il progetto originale nelle mutate condizioni potrebbe portare caos e guerra in tutto il globo. Meglio collaborare con Russia e Cina e cercare di preservare la leadership americana. Una svolta letteralmente storica nell’indirizzo geostrategico di una parte dell’establishment americano, che prospetticamente lascia Hillary Clinton sola ad inseguire un progetto imperiale sconfessato dal suo stesso ideatore
L’architetto
principale del piano di Washington per governare il mondo ha
abbandonato il progetto e ha richiesto la creazione
di legami con la Russia e la Cina. Anche se l’articolo di
Zbigniew Brzezinski su The American Interest dal titolo
“Towards a Global Realignment” [“Verso un riallineamento
globale”, ndT] è stato ampiamente ignorato dai media, esso
dimostra che membri potenti dell’establishment decisionale non
credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di
estendere l’egemonia degli Stati Uniti in tutto il Medio
Oriente e in Asia. Brzezinski, che è stato il principale
fautore di questa
idea e che ha redatto il progetto per l’espansione imperiale
nel suo libro del 1997 “La
Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi
imperativi geostrategici“, ha fatto dietro-front e ha
richiesto una incredibile revisione strategica. Ecco un
estratto dal l’articolo
del AI:
“Mentre finisce la loro epoca di dominio globale, gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale.
Prevenzione
anti-terremoto no, Tav
sì
Scrivo da un’Italia che, dopo aver esaurito le sue lacrime e i calcinacci da spostare, farebbe bene a urlare in faccia ai nostri mafioreggenti, tanto da travolgerli, le loro colpe per ogni singola tragedia che ci colpisce, dal terrorismo, alla mancata prevenzione, alle Grandi Opere, alle grandi guerre. Tragedie sulle quali poi reclamano e sciaguratamente ottengono – vecchio trucco di tutti i farabutti - la “grande unità nazionale”. Un miliardo in 10 anni per la ricostruzione dell’Aquila, 44 milioni per il 2016, briciole scandalose per non sforare a Bruxelles. Invece arriviamo ai 50 miliardi per le Grandi Opere, tutte devastanti, tutte inutili, tutte mafiose: Tav Torino Lione, Tav Terzo Valico, altri TAV, trivelle dappertutto in terre e mare, Olimpiadi, Orte-Mestre, Ponte sullo Stretto, per citarne solo alcune, Grandi Opere di uno Stato killer. Con 10 miliardi all’anno si metterebbe in sicurezza un paese in cui per il 70% si è costruito senza criteri antisismici. Basterebbe rimettere l’IMU a chi può.
Si ristabilirebbero l’organico e i bisogni finanziari dei Vigili del Fuoco, si potenzierebbe un Corpo Forestale ora sequestrato dai carabinieri. Intanto Nicoletta Dosio, tanto per citarne una, quasi 70 anni, da un quarto di secolo combattente nonviolenta anti-Tav e punto di riferimento di una resistenza nazionale che va oltre la Valsusa, protagonista con Alberto Perino del mio docufilm “Fronte Italia-Partigiani del 2000”, rischia il carcere perché non accetta il diktat di una magistratura alla Torquemada che le impone i domiciliari e l’obbligo di firma.
Matteo Renzi ha motivato la riforma costituzionale anche con l’obiettivo di ridurre i “costi della politica”, quantificati, in caso di vittoria del SI, in un miliardo di euro. Anche ammettendo che una Costituzione debba essere riformata per risparmiare, i conti non tornano, né è dato sapere da dove vien fuori l’importo stimato da Palazzo Chigi. Va poi aggiunto che la politica ha necessariamente un costo e che la delegittimazione dell’attuale classe politica – che, in un Paese di caste, è la “casta” per eccellenza – non giustifica in alcun modo la revisione di 47 articoli della Costituzione: se l’obiettivo è risparmiare, lo si può fare molto più semplicemente riducendo gli emolumenti dei parlamentari, dei ministri, dello stesso Presidente del Consiglio. Ciò al netto del fatto che i privilegi e gli emolumenti di cui godono i nostri parlamentari (nel confronto con quelli dei principali Paesi OCSE) sono effettivamente abnormi, soprattutto considerando l’elevato tasso di assenteismo e in molti casi una preparazione molto lontana da ciò che ci si aspetterebbe nel loro ruolo.
In ogni caso, vale la pena provare a fare un tentativo di chiarimento sui risparmi effettivi che si genererebbero in caso di vittoria del SI, nell’attesa che il Governo fornisca stime più puntuali e ufficiali.
Il calcolo risulta agevole proprio se si segue il ragionamento del Presidente del Consiglio, per il quale i risparmi deriveranno dall’abolizione del Senato.
«Tutto è merce e tutto deve circolare per mantenere in vita il sistema, atleti inclusi. La nazionalità serve solo a fissare dei criteri per la “libera concorrenza” (altro dogma del capitalismo postmoderno), prodromo della corsa ai diritti civili»
Libera circolazione di merci, capitali e uomini. Uomini come merci. Uomini che danno spettacolo (Debord annuisce) e che fanno vendere le riprese televisive in qualità di merci. La sola RAI, per le olimpiadi da poco concluse, ha speso 65 milioni di euro in diritti. Vi lascio immaginare il totale a livello planetario.
Parafrasando de Coubertin si potrebbe dire che l'importante non è vincere, è vendere diritti. Il che è una bella commistione di virtualità e realtà. Simulacri, li chiamerebbe Baudrillard. Sui simulacri si fonda praticamente tutto il commercio postmoderno: le merci sono passate da oggetti reali, dotati di corpo fisico, ad oggetti virtuali dalla consistenza impalpabile. La transustazione delle merci, insomma.
Appare oggi ridicolo qualsiasi tentativo di dare dei connotati nazionali a questo mercimonio legato allo sport. La competizione non si svolge più tra appartenenti a luoghi geografici distinti ma, grazie all'intervento della globalizzazione, opera al suo esterno. Si fa credere che il tal sportivo o la tal squadra appartengano ad un certo luogo quando nessun luogo è ormai definito e definibile, se non per forzate quanto desuete specifiche.
La vera notizia di questi giorni non è l’operazione di facciata del vertice autoconvocato e autonominato Renzi-Hollande-Merkel a largo di Ventotene (e su di una portaerei, a proposito di simbolismi), per tentare di dare ossigeno ad una Ue in crisi politica, che ancora non si è ripresa dall’incubo Brexit (incubo che ormai si legge quotidianamente sui giornali, ad esempio il Corriere di ieri 23 agosto: “tenere unita la Ue non solo nel post Brexit, probabilmente meno drammatico di quanto temevano”. E’ proprio questo l’incubo: che non c’è nessun dramma fuori dalla Ue). La notizia è che Renzi teme fortemente di perdere il referendum di novembre (se sarà a novembre, ormai è una barzelletta), e per evitare di fare la fine di Cameron, finito nella pattumiera della storia, dichiara il giorno prima dell’incontro fra i tre “leader” che il referendum non è su di lui, sul suo governo o contro l’Ue (figuriamoci), e che la sua eventuale sconfitta non significherebbe andare alle elezioni politiche anticipate. In realtà la marcia indietro viene da lontano, e soprattutto non c’entra nulla con la volontà di Renzi.
La débâcle delle amministrative di giugno, la profonda crisi economica che attanaglia il paese in una stagnazione totale, il fermo della produzione industriale e il contesto europeo sconquassato dalla Brexit, hanno costretto il Pd, in accordo con la sempre presente regia dell’ex presidente della Repubblica Napolitano, a cambiare strada, anzi, a fare una vera e propria inversione a U in autostrada.
Günther Anders, Brevi scritti sulla fine dell’uomo, Asterios, Trieste 2016, ISBN: 9788893130134, pp. 112, €9,00
Va detto, innanzi tutto, che di Günther Anders (1902-1992), avevamo a disposizione, fino a questo momento, in italiano, quasi tutte le forme di scrittura da lui coltivate: dal testo filosofico al saggio di critica d’arte o letteraria, dalle riflessioni sull’attualità ai suoi diari ed epistolari. Mancavano all’appello solo i suoi apologhi. Preceduti da un libro di favole filosofiche, Lo sguardo dalla torre (2012), escono ora, in una pregiata veste editoriale e con testo originale a fronte, a cura anche questa volta di Devis Colombo, presso la casa editrice Asterios di Trieste, sotto il titolo di Brevi scritti sulla fine dell’uomo (pp. 104, euro 9).
Partiamo proprio dal titolo. Come segnala il curatore nella sua «Introduzione», la formula «fine dell’uomo» intende evocare tre cose. In primo luogo, funge da richiamo alla tesi esposta nell’opera teoretica più importante di Anders: L’uomoèantiquato (2 voll.: 1956 e 1980). In secondo luogo, trattandosi di scritti redatti, per lo più, in età avanzata, rispecchiano uno stato d’animo in cui l’autore sente avvicinarsi sempre di più la propria morte. Infine, si allude alla minaccia di estinzione totale che incombe sull’umanità, nell’era della bomba atomica, temuta da uno che, come è noto, ha avuto uno scambio epistolare proprio con il pilota che l’ha sganciata su Hiroshima.
Ci troviamo con le spalle al muro. Non ci resta che una cosa: sognare, inventare, ritrovare il gusto dell’agire comune
Siamo in stato di
emergenza. Non nel
senso in cui lo intendono François Hollande o Charles
Michel. No, per Christian Laval e Pierre Dardot, autori
di Ce cauchemar qui n’en finit pas, Comment le
néolibéralisme défait la démocratie (La
Découverte, 2016), “viviamo un’accelerazione decisiva
dei processi economici e sicuritari che trasformano in
profondità le nostre società e i rapporti politici tra
governanti e governati”. “Siamo prossimi ad
un’uscita
definitiva dalla democrazia a vantaggio di una governance
espertocratica sottratta a ogni controllo”, affermano
il sociologo e il filosofo.
Nemmeno le crisi non sono state in grado
di segnare
una rottura capace di obbligare a una svolta. Al
contrario “la crisi stessa è diventata un vero e
proprio modo di governo delle
società”.
Ma non tutte le speranze sono finite.
Secondo gli autori di Commun (La Découverte, 2014), il risveglio dell’attività politica democratica “dal basso” tra i cittadini è il segno che lo scontro politico con il sistema neoliberale è già cominciato. [1]
* * *
Voi scrivete che viviamo un’accelerazione
dell’uscita dalla democrazia. Chi spinge oggi
sull’acceleratore?
In primo luogo le forze politiche di destra dappertutto in Europa e nel mondo. In questo momento lo si vede in Francia e in Brasile.
I novant'anni di Fidel
Castro hanno dato adito a esaltazioni alquanto
fantasiose riguardo alla rivoluzione cubana. Quasi si
volessero lanciare rossi lampi in
un cielo assai cupo. Certo, Fidel si presenta con un volto
assai più simpatico di altri cascami del socialismo reale (il
coreano Kim Jong-un!).
Ma la forma non cambia la sostanza. A Cuba come in Corea, la
sostanza è il nazional-comunismo. Tuttavia
la rivoluzione cubana
presenta aspetti del tutto particolari che non devono essere
assolutamente banalizzati, altrimenti non se ne capirebbe il
prestigio, tutt’ora
vivo.
Una riflessione su Cuba ci consente di sgombrare il campo da imbarazzanti eredità che viziano la possibilità di immaginare una prospettiva diversa da quella che ci propina l’ideologia dominante, di sinistra e di destra1.
Cuba: libertà e socialismo
La rivoluzione cubana (con l’Algeria e il Vietnam) fu l’esempio più alto delle lotte di liberazione nazionale (la decolonizzazione) che scoppiarono alla fine degli anni Cinquanta. In quel periodo, la «guerra fredda» andava attenuandosi mentre l’Unione Sovietica, col «disgelo» (destalinizzazione), guadagnava simpatie a livello internazionale. Contemporaneamente, per gli Stati Uniti veniva meno la spinta propulsiva democratica che aveva accompagnato (e nobilitato) il suo preminente ruolo nella Seconda guerra mondiale.
Beppe Grillo ha lanciato l’appello a versare 30 euro di sottoscrizione per consentire al Movimento di affrontare le prossime scadenze. Lo farò ed invito tutti i sostenitori del No a fare altrettanto. Il M5s è il principale motore dello schieramento del No, lo ricordo a tutti, e già lo sta dimostrando con il tour in tutta Italia di Di Battista: bravo Dibba, e brava anche Chiara Appendino, che è partita con il piede giusto (a parte l’insana passione vegana che non approvo). Ci risarciscono un po’ del sangue amaro che ci fanno fare le notizie da Roma.
Intendiamoci: per lamentarsi, dopo un solo mese dall’insediamento, che Roma è sommersa dai rifiuti e che la giunta non sta facendo niente, occorre avere molta malafede e, se poi ad essere sdegnati sono quelli stessi che hanno provocato il disastro, in primo luogo quelli del Pd e dopo quelli della destra, ci vuole anche una faccia di tolla da guinness dei primati.
Nei confronti del M5s la stampa sta conducendo una campagna indecente, di totale disonestà intellettuale, che non sa cosa sia la deontologia professionale. La Raggi tarda a fare la giunta? Giù romanzi di foschi di giochi correntizi interni, basati su spifferi e dicerie. Non dico che tutto sia inventato, ma si capisce subito che si tratta di voci di corridoio gonfiate all’inverosimile.
Però, cari amici del M5s, attenti con gli errori: i giornalisti ci ricamano, e va bene, però anche voi gli date ago e filo per farlo.
Il marcio prima o poi viene galla, anche se non ci si fa nemmeno più caso e molti ipnotizzati lo scambiano per spuma delle onde. Ma più che il marcio l’universo di menzogne e di ideologismi, di potere e di cinismo dal quale esso nasce e che crea un mondo deformato dove ogni cosa ha senso solo e soltanto in relazione al profitto. Un esempio minimo, ma chiarissimo di quello che intendo è l’outing cerearicolo di Oscar Farinetti, l’amico di Renzi, il modello prediletto di quell’imprenditoria vuota che è la stella polare del premier, lo stampo in grande del suo stesso ambiente e dei suoi istinti. Come forse molti avranno sentito l’imprenditore ( che in realtà di nome fa Natale, ma si è ribattezzato Oscar, de gustibus) ha detto che il grano italiano è una schifezza, inadatto a fare la pasta e che bisogna approvvigionarsi di frumento ogm dal Canada dove se ne produce tanto e della qualità giusta per il maccarone, cosa per la quale il Ttip è una mano santa.
Ora è piuttosto strano che il luogo dove è nata la pasta non produca il grano adatto, anzi diciamo che è una vera cazzata, detta da uno che di cibo non capisce una minchia come del resto ci si aspetta da chi ha curato l’impresa paterna Unieuro, (“l’ottimismo è il profumo della vita!, ricordate?) appropriandosi poi di un’eredità marginale e mai coltivata in proprio, ma certamente i costi e il prezzo non sono confrontabili con le grandi produzioni di massa del nord america: quindi la questione riguarda più da vicino il profitto che la qualità.
Non è un colpo di stato, è la continuazione di un progetto autoritario che parte almeno dagli anni ’80, che ha modo di rafforzarsi lungo un trentennio nell’assenza di una vera opposizione (anzi, con l’approvazione di molti provvedimenti iniqui, proprio da parte della ex sinistra-vedi D’Alema e le banche)1 e che, grazie all’euro e ai trattati europei ferisce mortalmente la Costituzione, precipuamente tra il 2011 e il 2014.
Tra l’estate del 2008 e la primavera del 2010 il debito pubblico in Europa sale di venti punti corrispondenti all’incirca ai 4 trilioni di euro elargiti alle banche2 eppure i governi hanno attribuito tale incremento alle spese per lo stato sociale. Un inganno che oltre a nascondere le enormi responsabilità della classe politica di governo nel salvataggio di un sistema bancario fraudolento reso tale dagli interventi legislativi e dalla assenza di controlli, offre il destro per accusare i cittadini di aver vissuto al di sopra dei propri mezzi e quindi per “alleggerire” la spesa sociale. Un “atto dovuto” per risanare le casse pubbliche, asserisce l’oligarchia politica di destra, di centro, di ex sinistra. Un inganno che riuscirà nel suo intento. Convincere i cittadini che è giusto “fare sacrifici” per far fronte alla crisi ( una sorta di catastrofe naturale).
Il successo di tale operazione ideologica non sarebbe stato possibile se non ci fosse stato il fattivo concorso della allora già ex sinistra e dei sindacati confederali. Come dimenticare la necessità di “fare sacrifici” propinata da Luciano Lama, in tempi più remoti?
Il magazine austriaco Kurier ha intervistato il sociologo tedesco Klaus Dörre in merito ai recenti dati sul basso livello di disoccupazione in Germania e la loro correlazione con la riforma Hartz IV. L’analisi del professore dell’Università di Jena mette evidenzia ancora una volta quelle che sono le caratteristiche principali della riforma del lavoro tedesco – presa come esempio da imitare per tutti i Paesi del Sud Europa. L’Hartz IV non ha un impatto diretto sulla disoccupazione ma, al contrario, va a creare un crescente substrato di sottoccupati; una dinamica che alimenta fenomeni di pregiudizio ed emarginazione sociale, e che rende quasi impossibile il reinserimento reale sul mercato del lavoro
In Austria l’industria e una parte del Partito Popolare reclamano con forza misure che aumentino la pressione sui disoccupati, ricalcando il modello della riforma tedesca Hartz IV (vedi spiegazione sotto). Il sociologo tedesco ed esperto del mercato del lavoro Klaus Dörre, dell’Università di Jena, ha esaminato gli effetti sociali dell’Hartz IV. Il suo giudizio è devastante.
* * *
In Austria aumenta la disoccupazione mentre in Germania diminuisce. Qual è il segreto dei tedeschi?
Il miracolo del lavoro tedesco ha un lato oscuro. In Germania la soglia dei lavoratori a basso salario oscilla costantemente tra il 22 e il 24% del totale degli occupati (in Austria corrisponde a circa il 9%).
Mai scrivere “noi”. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero
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Per
Bordiga, nel socialismo il valore non esiste piú, cosí come la
moneta, il salariato, l’impresa, il mercato:
laddo-’è il valore, come in URSS, non può esserci socialismo.
Anselm Jappe — già autore di un Guy Debord,
apparso nel 2001 — ha scritto un libro ambizioso ed
interessante, Les aventures de la marchandise. Pour une
nouvelle critique de la valeur
(Le avventure della merce. Per una nuova critica del
valore), Denoêl, 2003; egli fa una distinzione fra un Marx
essoterico partigiano dei
Lumi e di una società industriale diretta dal proletariato —
un Marx che si interessava ai problemi contingenti, politici,
alla lotta di
classe e al movimento del proletariato, quello del Manifesto
e della Critica del Programma di Gotha — ed un
Marx esoterico,
quello del Contributo alla Critica dell’Economia politica,
dei Grundrisse, dell’Urtext, del VI
capitolo
inedito del Capitale e dei quattro libri dello stesso
Capitale, un Marx che si pone il problema del
capitale, della sua definizione,
della sua origine, del suo divenire e del suo superamento nel
comunismo e nella comunità. Scrive Jappe che il pensiero di
Marx è servito
a modernizzare il capitale — il che è innegabile — e che i
marxisti tradizionali si sono posti solo il problema della
redistribuzione del denaro, della merce e del valore, senza
metterli in discussione in quanto tali. Per Jappe il movimento
rivoluzionario avrebbe
perciò accettato valore, salario, merci, denaro, lavoro,
feticismo, ecc. — il che è nello stesso tempo falso ed esatto
— e
lui, Jappe, si propone di «ricostruire la critica marxiana del
valore in modo abbastanza (?) preciso».
Cinque anni fa prendeva vita su Megachip una serie di interviste, a cura di Paolo Bartolini, dedicata a filosofi, psicoanalisti, sociologi, antropologi e ad altre figure della cultura italiana capaci di esprimere un pensiero originale sulla transizione epocale che la società globalizzata sta attraversando. Senza disperazione, ma con la consapevolezza di una convivenza umana ed ecologica da rifondare interamente, sono così iniziati dei dialoghi sinceri con persone di grande spessore umano e culturale, che condividono con noi una premessa etica e metodologica: non è possibile pensare a una trasformazione della società senza una concomitante e profondissima conversione della vita personale. "Trasformare se stessi per trasformare il mondo", dunque, senza per questo dimenticare che noi stessi siamo fatti di mondo e di relazioni. Fu proprio Romano Màdera ad aprire il ciclo di queste interviste e per questo lo ringraziamo di essere tornato là dove tutto ha avuto inizio (la Redazione)
Chi conosce la tua
storia, personale e
pubblica, ha la sensazione che tu abbia vissuto molte vite:
quella del militante (ai tempi del Gruppo Gramsci da te
fondato insieme a Giovanni
Arrighi), del fine studioso di Karl Marx, del professore
universitario, dell'analista junghiano, del creatore -
insieme ad altri - dei primi gruppi di
pratiche filosofiche in Italia, della guida esperta per
colleghi e amici che grazie a te si sono riconosciuti in
quella che hai chiamato "analisi
biografica a orientamento filosofico". La mia impressione, a
fronte di un cammino così "molteplice", è che sia proprio
sul piano
dell'etica e della prassi trasformativa che tutte queste
vite convergono, lasciando intravedere una trama sotterranea
coerente. Con che sguardo
osservi, oggi, la crisi profonda della politica, in Europa e
in Italia?
Sono d'accordo, forse anche perché non ce l'ho mai fatta a "studiare dall'esterno". Mi prende una sorta di "senso di colpa". Ma questo ci porterebbe troppo lontano. Diciamo che - lasciando perdere le possibili ragioni biografiche - non mi rassegno a credere che per l'umanità l'orizzonte della speranza si possa ritenere chiuso. Non vedo perché. Mi sembra miope e anche ridicolo. Perché mai la storia dovrebbe fermarsi?
Stagnazione, collasso della democrazia, crisi, esclusione sociale. Un modello di società che va ripensato altrimenti crollerà. È quanto affermano un gruppo di economisti nel volume curato da Mariana Mazzucato e Michael Jacob. I Big data e le biotecnologie saranno il nuovo eden del capitalismo. È la tesi di un saggio di Alec Ross, consigliere per l’innovazione di Hillary Clinton
Stagnazione, crisi, declino. Tre parole tornate al centro della discussione pubblica per essere rimosse ogni volta che il Prodotto interno lordo cresceva di qualche decimo di punto in percentuale; o quando veniva quantificata la crescita dell’occupazione in poche decine di migliaia di unità. (Su questi temi va segnalato l’articolo di Pierluigi Ciocca pubblicato su il manifesto il 9 Agosto).
C’è però chi sostiene, come Alec Ross, consigliere per l’innovazione della seconda amministrazione Obama, che un nuovo circolo virtuoso dell’innovazione è già in essere e porterà una nuova era di prosperità se solo le nuove industrie del futuro troveranno il contesto politico adeguato per svilupparsi liberamente (Il nostro futuro, Feltrinelli, pp. 341, euro 19,50), così come è accaduto con Silicon Valley negli anni Ottanta e Novanta del Novecento.
Ma creare una nuova Silicon Valley non è una semplice operazione da laboratorio sociale, come d’altronde lo stesso Ross riconosce.
Se si vuol capire quale “logica di sistema” sia dietro il modello di “buona scuola” impugnato da Giannini e Renzi, bisogna leggere queste analisi che vengono da centri di riflessione completamente diversi dal nostro.
Apparso su IlSole24Ore, l'articolo di Nicola Gardini riprodotto di seguito centra il problema cultura chiave delle “riforme” che si vanno accumulando nello schiacciasassi reazionario del governo della Troika: la distruzione delle scienze umane in favore delle discipline tecniche (solo raramente delle scienze naturali, vista la riduzione costante dei fondi per la ricerca scientifica).
Ed effettivamente una certa retorica da “quelli dell'ultimo banco” vede nella cultura”classica” in senso lato semplicemente una insana passione per l'erudizione, “inutile” ai fini pratici. Una tendenza all'abbassamento della qualità del pensiero che è ottimamente rappresentata dall'attuale classe politica, che appare presa direttamente dal bar dello sport (non certo quello di Benni…).
Nessun rivoluzionario ha mai pensato che il livello di preparazione intellettuale formato sugli studi classici fosse un “limite”. Anzi, hano sempre coltivato con passione studi filosofici, storici, letterari, filologici, raccomandando ovviamente altrettanta attenzione per le “scienze dure”, quelle che dovevano contribuire alla costruzione di un mondo migliore, riducendo la fatica dell'uomo.
L’operaismo “fu essenzialmente una forma di rivoluzione culturale […]. E più che un modo di fare politica […] fu un modo di fare cultura politica.” Ma c’è un’altra premessa da mettere in campo, fondamentale quanto la prima: l’operaismo italiano “comincia con la nascita dei Quaderni rossi e finisce con la morte di Classe operaia. Punto. Questa è la tesi.” Così Mario Tronti nel 2008. 1961-1966 sono dunque i limiti temporali entro cui avviene la scoperta della classe operaia come soggetto politico. Dentro questo periodo c’è la rivolta operaia di Piazza Statuto a Torino; dopo ci sono Corso Traiano, ancora a Torino, e l’autunno caldo verso cui forse vanno spostati quei limiti a cui faceva riferimento Tronti. Non fosse altro perché la nuova edizione di Operai e capitale accresciuta con il rilevante Postscritto di problemi è del 1971.
Dopo queste date ci sarà di tutto, il post-operaismo, il neo-operaismo, lo pseudo-operaismo, l’altro-operaismo, con il “profluvio di pubblicazioni entusiastiche” che oggi invadono il mercato editoriale, come scrive Marco Gatto nel suo intervento del 16 luglio su questo sito. Ma non ci sarà più l’operaismo. Non ci sarà più quel punto di vista altro o, meglio, quella pratica teorica del punto di vista; quella rivendicazione di “essere parte” contro l’universalismo egualitario e umanitario della sinistra e non solo; quella supremazia del “ciò che è” su “ciò che è stato detto e scritto”; quel rifiuto della morale del sacrificio e della speranza; quel rivolgere sempre lo sguardo a occidente perché solo qui c’erano la classe operaia, lo sviluppo capitalistico e la grande cultura borghese;
La Storia del marxismo in
tre tomi curata da Stefano Petrucciani per l’editore Carocci e
pubblicata nel 2015 è un encomiabile tentativo di fare
informazione e
buona divulgazione[1].
Tanto più lodevole quanto più non si potrebbe esagerare
l’importanza di fornire alle generazioni più giovani delle
conoscenze precise e verificabili sul marxismo, questa
componente decisiva della storia degli ultimi due secoli che è
ormai un oggetto della
conoscenza storica.
Ci sono però altre ragioni che fanno di questa pubblicazione un utile stimolo per la riflessione. Innanzitutto, occorre precisare che si tratta di una storia principalmente filosofica, in quanto consacrata allo studio e all’analisi delle forme teoriche del marxismo[2]. Tuttavia, una specificità di Marx e del marxismo consiste nel mettere in questione le partizioni disciplinari troppo nette e abituali e di articolare filosofia, economia politica, storiografia, sociologia... Perciò, i concetti e le teorie che compongono queste forme del marxismo appartengono a pratiche teoriche e a regimi discorsivi differenti, e si inscrivono in congiunture storiche e politiche specifiche. Storia filosofica dunque, ma che corrisponde ad una pratica della filosofia per cui è centrale il rapporto con una molteplicità di saperi e con la storia globale.
Inoltre, tra i “generi” del discorso filosofico, quest’opera occupa una posizione specifica. Essa si rivolge infatti ad un pubblico che si suppone già maturo ed informato, ma non “specialista”.
Che le banche
italiane non godano di buona salute è ormai noto da tempo.
Esse sono state principalmente danneggiate dalla
controproduente gestione della
crisi economica che, specialmente a partire dal 2010, le
autorità italiane ed europee hanno adottato.
Sono, semplificando, malate di
euro.
Dopo le “risoluzioni” di Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e CariChieti (con la copertura delle perdite ottenuta anche facendo ricorso al sacrificio di azionisti e possessori di obbligazioni subordinate), è stata la volta delle due banche venete Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca, con l’ingresso nei rispettivi capitali societari da parte del fondo Atlante.
Se queste “risoluzioni” (o salvataggi) hanno riguardato istituti che si possono considerare minori, un allarme più rilevante si è tuttavia avuto quando è apparso chiaro che il Monte dei Paschi di Siena, uno dei maggiori gruppi bancari del paese, necessita ancora una volta (come confermato dai risultati dello “stress test” eseguito dall’Autorità Bancaria Europea) di un aumento di capitale. I titoli del Montepaschi hanno perso in borsa, nell’ultimo anno, l’87%. A gennaio un’azione valeva circa 1,21 euro, oggi vale circa 0,25 euro.
Per cui il 29 luglio, con il parere favorevole delle BCE, è stato approvato il “piano di salvataggio” del Monte dei Paschi.
La polemica recentissima
(6 agosto 2016)
tra
Roberto Giachetti e
Paolo Berdini pare riprendere l’essenza delle
problematiche affrontate in “Roma moderna”. Rinvio
integralmente, senza entrare
nel merito, al link che pubblica attacco e risposta. Mi pare
un ottima premessa di cronaca politica per introdurre un
capolavoro storico.
Libro evolutivo
Quasi 40 anni fa un caro amico, che poi avrebbe studiato architettura, mi suggerì la lettura di Roma moderna di Italo Insolera. Allora la lettura distratta e ideologica di qualche pagina si limitò alle parti riguardanti gli sventramenti fascisti e la nascita delle borgate; in compenso quelle sparse nozioni caddero in un contesto militante di lotta per il verde e nella stagione di grandi speranze per la città, aperta a metà degli anni 70 con i sindaci Argan e Petroselli. Fu, quindi, un pallido sorgere di coscienza urbanistica.
Ora riprendo in mano quel libro, nel frattempo aggiornato dei 40 anni trascorsi. L’edizione che lessi allora fu quella del 1976, la prima era stata del 1962, quella di oggi è l’edizione del 2011 “ampliata con la collaborazione di Paolo Berdini”, proprio alla vigilia della morte di Insolera del 2012.
Le esigenze militari di Ankara
Fino al maldestro golpe dello scorso luglio gli Stati Uniti (su cui continuano a gravare sospetti di appoggio almeno indiretto) si erano sempre opposti in modo fermissimo a interventi armati della Turchia in Siria. Giorni fa il ribaltamento di questa posizione e il tradimento ai Curdi dell'Ypg, che sul terreno si erano dimostrati un efficace strumento nella lotta contro l'Isis, perché sui campi di battaglia siriani tanto le truppe di al-Assad quanto l'Isis avevano concentrato la loro azione essenzialmente sulle altre formazioni jihadiste, privilegiando l'obiettivo della loro eliminazione prima di arrivare allo scontro decisivo tra Damasco e lo pseudocaliffato.
Alla notevole espansione curda nel nord siriano ha fatto seguito l'inizio degli scontri con l'esercito di Damasco nella città di Hasakah, interpretati da alcuni analisi internazionali come un segnale alla Turchia sul fatto che anche il governo siriano considerasse ormai i Curdi una minaccia. In quell'occasione l'intervento dell'aviazione siriana aveva tuttavia provocato una minacciosa reazione statunitense, considerata da molti il segno della solida alleanza instauratasi tra Washington e l'Ypg curdo. Invece gli statunitensi hanno poi dato mano libera alla Turchia proprio contro i Curdi.
Riceviamo dal compagno Giuliano Cappellini e pubblichiamo come contributo alla discussione
A quasi vent’anni di distanza, la Corte Penale Internazionale per l'ex Yugoslavia ha scagionato Slobodan Milosevic dalle responsabilità che gli erano state imputate. Il casus belli non sussisteva, come si può evincere anche dal libro del procuratore capo di quel tribunale, il giudice svizzero Carla del Ponte (che ipocritamente si lamenta che non sapeva). Intanto Milosevic, malato di cuore e privato delle necessarie cure mediche è, da tempo, morto in carcere. La sua morte ha tolto dall’imbarazzo i veri responsabili di quella guerra: i capi dei governi occidentali dell’epoca. Costoro, che godono dell’impunità che i vincitori si concedono, non sono stati deferiti a quel tribunale ma ciò non li sottrae al giudizio della Storia. Tuttavia ancor ora, praticamente inesistente nei media di regime l’informazione sul pronunciamento della Corte Penale Internazionale, i sostenitori del PD continuano a credere fermamente al racconto di comodo confezionato dalle centrali della disinformazione occidentale.
Come è noto il governo italiano partecipò alla guerra di aggressione nei Balcani. Prima concesse l’uso delle basi Nato ed USA (pacta sunt servanda, si disse), poi intervenne direttamente nella guerra di aggressione contro la Repubblica Serba con l’aviazione e i reparti speciali dell’esercito. Lo stato di guerra non fu, però, deliberato dal Palamento (come previsto dall’articolo 78 della Costituzione) e, in questo modo, il governo trovò il modo di fare la guerra senza dichiararla, addirittura senza darne conto all’opinione pubblica.
Ormai la storia della
capitolazione
di Syriza alle istituzioni
creditrici europea è ben nota.
Syriza è salita al potere nel gennaio del 2015 con il mandato di opporsi all’imposizione dell’austerità. Syriza, invece, si è piegata alla pressione della troika, accettando misure accentuate di austerità e facendo svanire le speranze dei suoi sostenitori.
In questa intervista con George Souvlis l’economista Elias Ioakimoglou descrive la conseguente crisi che continua a devastare la Grecia un intero anno dopo. Secondo i suoi dati la depressione greca è oggi più profonda e più grave della Grande Depressione statunitense degli anni ’30.
* * *
Il governo di Syriza/Greci Indipendenti (ANEL) si è dimostrato totalmente incapace di invertire l’austerità; al contrario, le politiche neoliberiste sono proseguite e persino intensificate. Il primo ministro Alexis Tsipras aveva ragione quando ha affermato che non c’era alternativa a una continua austerità in Grecia?
Non spettava a Tsipras decidere se c’era o non c’era un’alternativa.
Tutti questi
argomenti, che
ci si vuol
proporre come questioni della massima
importanza per la classe lavoratrice, in
realtà presentano
un interesse di portata
essenziale solo per i borghesi (F.
Engels).
Leggo da qualche parte:
«La posta in gioco è decisiva. Non ci troviamo di fronte ad un passaggio qualsiasi della politica italiana, ma di fronte al tornante storico che definirà il nostro modello di sviluppo di qui ai prossimi decenni [nientedimeno!]. È una partita, quella del referendum, in cui la sinistra di classe gioca oggettivamente un ruolo subalterno e minoritario. Si tratta di mobilitare decine di milioni di voti, un campo dunque fuori dalla portata degli attuali movimenti di classe. Nonostante ciò, il contributo che da questi potrà venire favorirà quel processo che potrebbe aprirsi con l’eventuale vittoria dei NO. Non giocarsi nemmeno la partita, al contrario, regalerà quei NO alla rappresentanza politica della destra reazionaria o populista. La più classica delle eterogenesi dei fini».
Quando la mosca cocchiera parla di «eterogenesi dei fini» non si può che sghignazzare e lasciarla al suo gioco virtuale preferito: “fare la storia” – o quantomeno provarci.
Qui di seguito svolgerò alcuni ragionamenti, per dirla con il filosofo di Nusco, con l’obiettivo di convincere anche un solo lettore (meglio se non già convinto “di suo”) circa la natura ultrareazionaria della contesa referendaria sulla riforma – o «controriforma» – della Costituzione.
I consiglieri economici della Merkel, cosiddetti "i Cinque saggi", capeggiati da Lars Feld, se ne sono usciti con una proposta sulla ristrutturazione del debito pubblico italiano che ricalca il meccanismo del bail-in bancario. Ai piani alti del Palazzo tedesco, dando per scontato che il Fiscal compact non funzione si pensa oramai al dopo Eu e al dopo euro. La strategia è semplice: "si salvi chi può". Un messaggio anche per Draghi e la Bce: "quando la finiamo con il Quantitative easing?".
Ai tedeschi piace l'euro, almeno fino a quando continuerà a dargli i ben noti vantaggi che sappiamo. Ancor di più, ai tedeschi piacciono gli euri. Quelli che gelosamente custodiscono nelle loro casseforti, e che non intendono proprio scucire. Neppure se ciò dovesse servire a salvare l'euro, inteso questa volta come moneta unica dei 19 paesi dell'eurozona.
Ho l'impressione che vista da Berlino questa contraddizione tra euro ed euri cominci ad esser cosa seria assai. L'ultima notizia che ci giunge da quelle parti ce ne dà una conferma piuttosto lampante. Come riferisce Federico Fubini sul Corsera, il Consiglio tedesco degli esperti economici ha già in canna un colpo assai pesante per affondare le economie del Sud Europa, quella italiana in primo luogo.
Attenzione, perché il suddetto "Consiglio" non è un Think tank come tanti.
Pil stagnante e debito pubblico ai massimi storici. Nessuna delle due notizie dovrebbe sorprendere nessuno, perché tutto era ampiamente previsto e prevedibile. Ci sono stati interventi congiunturali, montati da una campagna mediatica, che non avevano caratteristiche di veri interventi strutturali e non potevano avere che una efficacia momentanea.
Qui non ne usciamo con queste furbate da avvocato di paese, i problemi vanno affrontati alla radice ed il discorso è sgradevole ma semplice: con una pressione fiscale che supera di slancio il 50% non si va da nessuna parte e non c’è ripresa possibile; ma la pressione fiscale è inevitabile perché la nostra spesa pubblica è altamente anelastica e si mette in moto un circolo vizioso: se le tasse restano alte, i consumi si abbassano e le aziende chiudono, di conseguenza abbiamo un gettito fiscale più ridotto perché ci sono meno occupati, bisogna tappare la falla del minore gettito e fare ricorso a nuove emissioni di debito su cui, poi, bisognerà pagare interessi per cui bisognerà inasprire la pressione fiscale o emettere altri titolo di debito, non si scappa, ed il ciclo ricomincia.
Si, è vero che da diversi anni registriamo un avanzo primario, ma poi la crescita del peso degli interessi (che ormai ammontano ad oltre 80 miliardi l’anno) manda tutto a gambe all’aria.
Leggo di una catena di ristoranti internazionali che propongono un surplus di due euro per la pasta all’Amatriciana da versare ai terremotati. Bene. Ma noi, italiani, penseremo alla distruzione di Amatrice quando cucineremo in futuro, o ordineremo in qualche ristorante magari in giro per il mondo, un piatto di questi spaghetti? Saremo in grado, gustandolo, di fare il collegamento tra il nostro piacere sensoriale e la cultura che originariamente lo ha sviluppato, oramai ridotta in polvere anche, e forse soprattutto, dalla nostra incuria proprio per quei luoghi che l’hanno generato?
In questi giorni terribili si susseguono le notizie dalle zone terremotate e le conseguenti polemiche sulle mancate norme di messa in sicurezza del nostro territorio nazionale che, notoriamente, condivide con altre parti del mondo il triste primato di un rischio sismico elevatissimo. Eppure ogni volta la pellicola della ricostruzione sembra ripetersi, seppur aggiornata nelle date e magari nelle tecniche con le quali viene presentata, nel suo format insomma; ma il contenuto, i suoi protagonisti, e spesso il finale, sembrano non cambiare mai. E allora, al di qua della cronaca e della politica, al di qua dei dibattiti sui fondi e le opere da realizzare, forse sarebbe anche il caso di proporre un altro piano per la ricostruzione, non solo dei livelli materiali, che pure contano e molto, ma di quelli culturali che li sostengono e motivano in profondità.
Mai scrivere “noi”. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero
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Quaderno Nr. 7/2016 - Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
In questi ultimi due capitoli di E se il lavoro fosse … senza futuro? affrontiamo un’interpretazione della fase storica del keynesismo nella quale furono gettate le basi per un superamento dei rapporti capitalistici. Un superamento che certamente era caratterizzato da una continuità col passato, ma che era anche contraddistinto dal confuso prender corpo di una serie di istanze e di pratiche che, in qualche misura, trascendevano i rapporti capitalistici. Certo, i cambiamenti sociali hanno molte similitudini con i processi evolutivi naturali. Il fondamento razionale di tutto il progetto è confuso, e viene anticipato in forme grossolane; ma quando emergono i problemi si debbono saper raccogliere i nessi che legano quei problemi alla confusa spinta al cambiamento. E’ quello che non si è fatto nel momento in cui è esplosa la crisi dello stato sociale keynesiano. Ai conservatori, che spingevano per riportare la società a pratiche e valori del passato, si sono opposti i progressisti che si limitavano a riaffermare con forza la validità delle pratiche keynesiane, nonostante la loro evidente crisi. Questo approccio, del tutto improduttivo, ha caratterizzato anche le organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori, che sono precipitate in una situazione di progressiva impotenza.
Nell’ultima parte del testo si cerca di delineare il perché solo il tramonto del lavoro salariato può costituire la base di un nuovo sviluppo sociale.
Se John Zerzan avesse ragione,
dovremmo dire che della vita non abbiamo capito niente. Per
fortuna però che è un anarchico e che, come tutti gli
anarchici, presenta
dei lati estremistici che lo rendono poco credibile. Ciò senza
nulla togliere al fatto che molte delle sue idee
"primitiviste" siano tutt'altro
che assurde.
Il suo estremismo, d'altra parte, è comprensibile. Come può non esserlo un uomo nato negli Stati Uniti del XX secolo? Questa nazione è una costola dell'Europa borghese nata nel XVI secolo, quel secolo in cui Marx fa decollare il moderno capitalismo. Ed è una costola puritana, cioè calvinista, quel ramo del protestantesimo che meglio s'è adattato e che, nel contempo, meglio ha favorito lo sviluppo del capitalismo manifatturiero.
Il cittadino medio americano risente profondamente di questa cultura, soprattutto se è di origine europea. Ne sono stati condizionati anche i neri provenienti dall'Africa, in quanto, dopo la loro liberazione giuridica dalla schiavitù, non sono mai riusciti a creare un'alternativa al capitalismo, neppure teorica. E ne sono condizionati oggi gli immigrati provenienti dal Sudamerica o dalla Cina o da qualunque altro paese, che sono convinti di trovare negli Usa una sicura possibilità di riscatto. Chi mette in discussione il valore del free market rischia di porsi appunto come un estremista, uno che non accetta l'idea di vivere nel paese più "democratico" del mondo, l'unico autorizzato a esportare ovunque, anche con la forza delle armi, la propria idea di "libertà".
Le uniche in grado di contestare il capitalismo in maniera "naturale" avrebbero potuto essere le 500 tribù o nazioni indiane, anteriori alla colonizzazione europea, ma oggi i sopravvissuti vivono relegati nelle riserve, in procinto di scomparire definitivamente.
Le imposte non pagate, la lettera di Tim Cook alla "comunità Apple" e il discorso all'ONU di Salvador Allende. Alcuni elementi per collocare la vicenda
Non entro nel merito della questione Commissione europea/Apple circa i mancati versamenti di imposte all'Irlanda perché è una questione tecnica abbastanza complicata e lunga. Voglio però attirare l'attenzione su un paio di questioni che ritengo interessanti dal punto di vista politico e sociologico.
Il presidente di Apple, Tim Cook - un brillante ragioniere che da quando è morto il guru Steve Jobs ha sfornato prodotti brillanti quanto lui in termini di innovazione (es.: l'orologino/gadget contabattiti cardiaci noto a lui e qualche suo amico come iWatch e ha allargato lo schermo dei primi striminziti iPhone che hanno prodotto più ipovedenti che l'onanismo maniacale) - ha scritto una lettera di risposta alle accuse di evasione/elusione della Commissione che è rappresentativa dello stato dell'arte dell'ideologia capitalistico-consumista dominante per generale consenso dei destinatari della stessa ideologia (la quasi totalità degli abitanti del pianeta).
La lettera infatti non si rivolge né alla Commissione, né ai media, né agli azionisti di Apple. Si rivolge alla "Comunità Apple in Europa".
La nostalgia dei sindacati complici per la stagione della “concertazione” è nota. Che quella stagione abbia rappresentato un lungo percorso di spoliazione per i lavoratori, in termini salariali e normativi, e addirittura di diritti universali (ad oggi, in molti posti di lavoro, non sei trattato come un soggetto umano, ma come una cosa o un animale), a loro non interessa affatto. A quel tempo avevano un “ruolo politico”, come si diceva allora. Venivano chiamati a Palazzo, messi intorno a un tavolo, e la loro complicità veniva ben ricompensata con buone carriere politiche o amministrative a fine carriera sindacale. L'elenco è sterminato, inutile farlo…
A forza di svendere interessi altrui, però, è venuta meno anche la loro utilità come “intermediari” tra imprese e lavoratori. Se l'impresa è autorizzata in ogni caso a fare come le pare, è inutile convocare “la controparte” per chiedere il parere. Se ne può fare a meno. E i governi della Troika (da Monti a Renzi) hanno sancito che il sindacato non è più una “parte sociale” da dover consultare prima di assumere decisioni che investono i lavoratori. Punto.
Nel tentativo di ricostruirsi una funzione utile, Cgil-Cisl-Uil hanno provato a stendere insieme a Confindustria (altro “sindacato” in crisi, perché dopo la Fiat molte altre aziende hanno smesso di farsi rappresentare da via dell'Astronomia) una intesa per modificare la gestione delle crisi aziendali; ammortizzatori sociali compresi.
Si sta determinando una situazione paradossale per cui la bocciatura del sistema elettorale dell’Italicum, da parte della Corte Costituzionale, è vista con sollievo dalla maggior parte di quelli che l’hanno sostenuto.
E’, in particolare, il caso del Pd, nel quale, per ragioni diverse fra loro, gran parte delle componenti spera che la legge venga impallinata il 4 ottobre prossimo.
Sicuramente lo spera la “brigata conigli”, cioè la coraggiosa pattuglia guidata da Bersani che, in questo modo, potrebbe votare Si nel Referendum sostenendo che, siccome in questo modo cambia la legge elettorale, loro possono votare come il resto del partito e fare la parte dei bravi ragazzi disciplinati.
Ma, lo stesso auspicio è quello di Franceschini e di quella parte di Pd che, dopo le amministrative, teme che il meccanismo del doppio turno faccia vincere i 5 stelle: una bocciatura sarebbe provvidenziale, perché obbligherebbe il riottoso Renzi a rimettere le mani nella legge elettorale e, a quel punto, si vede come fare una legge più sicura per il Pd. E a pensarla così sono anche molti parlamentari che non si esprimono apertamente, ma ormai vedono l’Italicum come una minaccia (cosa comune ai parlamentari di Alleanza Popolare che vogliono il ripristino delle coalizioni).
A partire dal dibattito sul divieto di indossare in alcune spiagge francesi il burkini e più in generale sulla questione degli obblighi di comportamento e di costume imposti dalla religione o dallo Stato (discussione che ha animato, in questi giorni, anche la comunità di Effimera), pubblichiamo un intervento di Etienne Balibar, uscito il 29 agosto scorso su Libération, sulla trasformazione del concetto di laicità che trasla verso forme di “laicismo identitario”. La traduzione è di Davide Gallo Lassere, che ringraziamo
Grazie all’ordinanza del Conseil d’État, si eviterà di vedere in Francia una polizia dei costumi, incaricata non di forzare le donne a portare il velo, ma di forzarle a toglierselo. L’esercizio delle libertà deve primeggiare nella misura del possibile sulle esigenze dell’ordine pubblico, che per definizione le restringe. In democrazia i diritti delle donne appartengono alla loro decisione, e non a una griglia interpretativa apposta sul loro comportamento per “forzarle di essere libere”. La laicità è un obbligo di neutralità dello Stato nei confronti dei cittadini e non un obbligo ideologico dei cittadini nei confronti dello Stato.
Assieme ad altri, considero questi semplici ragionamenti come fondamentali. In quanto arrestano il tentativo di sfruttare i sentimenti suscitati dalla serie di attentati perpetrati in nome dell’islam per combinare un laicismo integralista con una strategia di esacerbazione del nazionalismo, essi susciteranno una contro-offensiva.
Tutto ricomincia ad andare bene - dal momento in
cui tutti
diventano buoni. È questa, più o meno, la logica che si può
trovare dietro a tutti gli approcci di organizzazione,
iniziative,
leggi ed ideologie che pretendono di lottare per un
capitalismo etico, per un capitalismo dal volto umano. È
difficile che una qualsiasi
impresa non faccia riferimento a pratiche etiche riguardo la
fabbricazione dei suoi prodotti, nel momento in cui un'immensa
confusione di regole,
certificati e norme ha la pretesa di assicurare al consumatore
dei centri capitalisti che il suo consumo non avviene grazie
allo sfruttamento o al
furto delle risorse delle periferie.
Oltre al ben noto marchio del Fair Trade che promette un commercio equo per mezzo di un salario più alto dei produttori (ad esempio, nella produzione di cioccolata) del "Terzo Mondo", i consumatori con un senso etico possono anche prestare attenzione all'abbigliamento, certificato dalla "Fondazione Fair Wear". Il cui marchio deve garantire l'osservanza di "condizioni di lavori decenti" ed eque, nell'industria tessile della periferia - cosa che, a fronte di situazioni barbare come quelle del Bangladesh o della Cambogia, equivarrebbe, nella realtà, ad una sollevazione rivoluzionaria. Commercio equo di prodotti naturali, come frutta, legumi, fiori o erbe aromatiche, viene garantito da certificati come Fair Flowers Fair Plants, FairWild, Flower Label Program, oppure dal marchio della Rainforest Alliance.
In un mondo in cui non si muove foglia che il dio denaro non voglia la narrazione corrente che descrive la guerra moderna come uno scontro fra diverse fedi religiose o diverse civiltà è in realtà una costruzione tutta ideologica per occultare il fatto che le radici della guerra affondano negli elementi costitutivi del modo di produzione capitalistico
Con il crollo del muro di Berlino e
con la fine della guerra fredda non avrebbero dovuto esserci
più guerre. L’economista liberale Francis Fukuyama, nel suo
saggio La
fine della storia e l’ultimo uomo, giunse a sostenere
che con la fine il comunismo, potendosi finalmente
dispiegare su scala
planetaria la “democrazia liberale” (ritenuta oltre che la
forma di governo più confacente al capitalismo, anche, fra
tutte quelle
possibili, la migliore in assoluto) sarebbe venuta meno anche
la principale causa scatenante delle guerre.
E pertanto la storia stessa, in quanto teleologicamente intesa come la progressiva successione di stadi tutti tendenti al raggiungimento di questo obbiettivo, si sarebbe conclusa. In questo nuovo mondo, senza storia, ogni singolo individuo avrebbe potuto finalmente compiutamente realizzarsi in base alle proprie aspirazioni e capacità. Con maggiore prudenza il politologo statunitense Samuel P. Hutington, sostenne, invece, che era sì venuta meno la contrapposizione politico- ideologica fra comunismo e capitalismo, ma permanendo le diversità culturali e per certi versi antropologiche che distinguono tutti i popoli del pianeta fra loro, la sola affermazione della democrazia liberale non sarebbe stata sufficiente a evitare l’insorgere di scontri fra queste diverse civiltà. E difficilmente potremmo dargli torto se ci attenessimo alle sole cronache e alle descrizioni che fanno delle guerre, che ormai insanguinano tutti i continenti, i media e, salvo qualche rara eccezione, gli analisti della borghesia.
V’è un antico e forse non rincuorante adagio che dice che quando si è toccato il fondo non resta altro da fare che scavare. E così quasi sempre avviene. Ed è anche avvenuto in questi giorni di fine agosto. In questa luce propongo di leggere la vicenda – che tanto ha fatto discutere nella nuova agorà alienata delle reti sociali – del cosiddetto Fertility Day.
Si tratta, a quanto pare, di una giornata consacrata alla sensibilizzazione sulla natalità e sull’esigenza di fare figli, “per richiamare l’attenzione di tutta l’opinione pubblica sul tema della fertilità e della sua protezione” (sic). L’istituzione di questa giornata – così leggiamo sulle pagine del sito del ministero della Salute – “è prevista dal Piano Nazionale della Fertilità per mettere a fuoco con grande enfasi il pericolo della denatalità nel nostro Paese, la bellezza della maternità e della paternità, il rischio delle malattie che impediscono di diventare genitori”.
E così sul finire dell’estate, tra un attacco terroristico e l’altro, ti accorgi dell’invenzione di ipocrite campagne pubblicitarie sulla fertilità delle donne. Le chiamano #fertilityday, ovviamente con l’usuale subalternità culturale e linguistica rispetto alla lingua dell’impero. La sovranità nazionale è perduta anche a livello linguistico: e, con essa, la dignità del Paese.
Mentre la destra pensava a come travolgere le regole e i confini di quel mondo che gli era stato consegnato dagli esiti della seconda guerra mondiale, la sinistra, non senza lodevoli e significative eccezioni, si prometteva di conservarlo, al massimo di fare opera di manutenzione, in qualche caso di troppo timida e fragile trasformazione. Una costruzione troppo debole per reggere l’offensiva avversaria
Quando si sente parlare di «morte della politica», senza altra specificazione, è difficile non preoccuparsi di venire trascinati in un equivoco di senso che potrebbe rivelarsi fatale. Certo l’asserzione ha il suo fascino e la sua potenza, come conviene a una sentenza espressa in modo aforistico, un apoftegma potremmo dire in linguaggio paludato. Questi a loro volta derivano dal fatto che con quell’espressione si colgono innegabili elementi di verità. Ma non tutti. E sappiamo bene cosa poi diventano le verità parziali.
Riparto allora da un esempio dall’attualità. Sergio Marchionne, nel suo endorsement a favore della «deforma» costituzionale, così si è espresso : «Non voglio giudicare se la soluzione è perfetta, ma è una mossa nella direzione giusta e io sono a livello personale per il Sì, serve stabilità». A lui quindi non interessano i dettagli e neppure gli strumenti con cui affermare l’obiettivo che gli sta a cuore, ovvero quella stabilità del sistema politico che coincide con il rigor mortis della democrazia ma assicura libertà di manovra al mercato.
Un personaggio come Donald Trump suscita indignazione e sgomento in tutte le persone perbene. Vanno tuttavia comprese le ragioni del suo successo. Che non riguardano, se non marginalmente, la sua squallida retorica anti-immigrazione, sulla quale insistono molto i media; ma hanno a che fare principalmente con l’economia. Trump – distaccandosi dal liberismo estremo che connota il suo partito – è infatti un feroce critico della globalizzazione e dell’élite politica e finanziaria che l’ha sostenuta e realizzata (tra cui spicca il marito della Signora Clinton).
La maggior parte dell’elettorato di Trump è formata dalla white working class concentrata soprattutto nel Midwest, l’area che include stati come Ohio, Indiana e Michigan; dove la popolazione bianca è superiore all’80% e gli immigrati ispanici, arabi e asiatici (bersagli delle invettive xenofobe del candidato repubblicano) sono relativamente poco numerosi. Queste zone hanno subìto negli ultimi trent’anni anni una drammatica deindustrializzazione, le cui cause sono di vario tipo. Una è certamente la contrazione, in termine di valore aggiunto e di addetti, della manifattura e la crescita dei servizi, propiziata da progresso tecnico e innalzamento del tenore di vita dei consumatori. Ma un ruolo fondamentale è stato giocato dalla globalizzazione di merci e capitali, inaugurata nel 1994 dal trattato di libero scambio tra Usa, Messico e Canada (NAFTA), e proseguita nel 2001 con l’ingresso della Cina nell’organizzazione mondiale del commercio (WTO).
Con una votazione pilotata, che non lasciava margini a nessuna sorpresa, la legittima Presidente del Brasile, Dilma Roussef, è stata deposta dalle sue funzioni presidenziali. Il suo vice, Temer, tra i personaggi più corrotti della politica brasiliana e autore della manovra golpista, s’insedierà ora alla presidenza pur senza essere mai stato eletto. Degli 81 senatori che hanno votato, 40 di essi sono sotto processo o sotto inchiesta per corruzione. In Parlamento la percentuale di parlamentari sotto accusa è del 60% del totale.
Il paradosso di vedere un corrotto che accusa di corruzione ad una innocente fa parte di quel samba dell’iperbole che vive perennemente nella politica brasiliana. Le accuse rivolte a Dilma, eletta da 54 milioni di brasiliani sono ridicole e riguardano la firma di tre decreti che, a detta degli accusatori, sono serviti ad ottenere prestiti esteri non concordati con il Parlamento.
Dilma ha smentito categoricamente le accuse e va detto che, comunque, gli eventuali errori amministrativi o di procedura commessi non possono in nessun caso comportare l’inibizione e la destituzione del Presidente, riservata a reati di natura e volume decisamente più gravi. Semplicemente, la compravendita di deputati e senatori (tra i quali 5 ex ministri) ha costruito una maggioranza parlamentare per ribaltare il voto delle urne.
Quello che è andato in onda a Brasilia è quindi un vero e proprio colpo di Stato condotto in spregio alla Costituzione e con l’abuso delle prerogative parlamentari nei confronti della Presidente.
In
occasione della sua uscita,
pubblichiamo l’introduzione di Giorgio Grappi al volume
Logistica (Roma, Ediesse, 2016, pp.
265). È un lavoro
documentato e preciso che non si limita però a
considerare la logistica solo come una tecnologia
applicata all’organizzazione e alla
distribuzione. Essa è descritta come la forma
politico-organizzativa di un capitale che ha ormai
raggiunto una dimensione compiutamente
globale. Mentre si espande ovunque e si concentra
occasionalmente in certi punti, la rete logistica impone
una ridefinizione dell’organizzazione
spaziale e politica di intere regioni. La «logistica fa
politica» perché connette segmenti produttivi e
ordinamenti giuridici,
coniuga la forza dei protocolli informatici e le
tecnologie tradizionali di governo, riarticola le catene
globali del valore e obbliga gli Stati a
riconfigurare il loro ruolo politico a livello globale.
La logistica è il capitale in movimento assieme alle
regole costantemente riformulate
delle sue dinamiche materiali. La logistica muove
le merci nell’incessante ricerca del profitto ma,
proprio per questo, essa è
costretta a organizzare luoghi produttivi in grado di
catturare una forza lavoro che tende costantemente a
sfuggirle. La
logistica è il rovescio delle migrazioni globali e della
ricerca quotidiana di un salario e di una vita migliori
da parte di milioni di uomini
e di donne. Dire logistica significa nominare la forma
contemporanea e globale del rapporto sociale di capitale
e della costituzione materiale che lo
sostiene.
Che cosa ne
è stato della Fortuna? Si è nascosta? Fuggita? «…Les dieux
s’en vont», si diceva un tempo ma quando se ne vanno
– questo si è preferito tacerlo o non vederlo – dietro di loro
lasciano tormenta e deserto. Oppure la fortuna si è
disseminata, secolarizzata integrandosi e diventando tutt’uno
con un mondo che vede le sue grazie e i suoi rischi sempre più
racchiusi
dentro la gabbia che – forse per mancanza di parole, forse per
disperazione d’uomini o desolazione di teorie – ci si
rassegna,
comunque sottovoce, a chiamare “capitale”? Da quando la
fortuna coincide con l’inevitabile, l’ineluttabile, la
staticità e la gabbia? Da quando la salvezza è tornata a
riaffiorare nella forma di un debito infinito con la sorte?
Alcune pagine del filosofo Peter Sloterdijk aiutano, quanto meno, a problematizzare. Peter Sloterdijk, che ha esposto la sua teoria della globalizzazione nella ben nota trilogia Sphären (ora edita integralmente da Cortina), ha insistito a lungo sulla moderna deriva di “fortuna”, in particolare in un capitolo del suo Im Weltinnenraum des Kapitals (2005; Il mondo dentro il capitale, Meltemi, Roma 2006), dedicato proprio alla “Fortuna e alla metafisica e chance” e, più recentemente, anche in Das Reich der Fortuna (Fundación Ortega Muñoz, 2013).
Qui abbiamo sempre più la sensazione che ci sia qualcosa che non vada nello scambio di insulti tra opposte tifoserie, ogni volta che si parla della “questione dei profughi“.
Come se metà del pubblico sugli spalti stesse gridando, “Forza Juve” e l’altra metà, “Forza Lazio”, con tutti a dire la loro su rigori, assist e calci d’angolo, mentre dentro il campo si stesse svolgendo una corsa di cavalli.
Ed
è proprio così, come ci spiega molto semplicemente Gabriele
Del Grande, che probabilmente è la persona che
si è più impegnata, in questi anni, proprio a fianco dei
migranti.
Leggete molto attentamente, perché ci va di mezzo il nostro futuro – pensiamo all’impatto della “questione profughi” sul referendum inglese o sulle elezioni in Austria o sui rapporti tra Europa e Turchia.
Ci sarebbe da discutere sulla semplicità della soluzione che Grandi propone, ma almeno si inquadra correttamente il problema.
Ringraziamo Rossana per la segnalazione.
* * * *
di Gabriele Del Grande
C’è gente che una volta faceva le manifestazioni antirazziste e oggi difende a spada tratta il sistema d’accoglienza (ideato da Maroni con l’emergenza Nord Africa)!
Non pochi commentatori hanno notato che nella pagliacciata di Ventotene allestita da Renzi nella scorsa settimana, la Merkel ed Hollande si sono prestati ad un’operazione propagandistica puramente ad uso dell’opinione pubblica italiana, che viene ancora annebbiata con false prospettive di “Stati Uniti d’Europa” per compensare le attuali euro-miserie degli zero-virgola del bilancio o del PIL. La Corte Costituzionale tedesca ha già più volte ribadito che di “cessioni di sovranità” da parte della Germania non se ne parla proprio, dato che la loro Costituzione non le contempla (se è per questo, neppure la nostra). L’establishment tedesco rifiuta quindi ogni ipotesi di “Stati Uniti d’Europa” e, quanto a cessioni di sovranità, si accontenta dell’attuale occupazione militare della Germania da parte degli Stati Uniti d’America.
La tutela NATO continua a supportare l’Unione Europea e costringe noi a continuare a sopportarla, ma anche l’assetto NATO presenta qualche crepa. Non è da escludere infatti che nel determinare la Brexit abbia influito l’investitura della Germania come Paese leader d’Europa, una investitura che Obama aveva elargito alla Merkel nel corso del suo ultimo tour europeo. Nel frattempo anche il negoziato TTIP viene dato per fallito e sepolto dal governo tedesco, anche se bisogna sempre diffidare di dichiarazioni troppo stentoree che potrebbero celare la disponibilità a cedimenti improvvisi.
Un dibattito falso e astratto sulla relazione tra la libertà della donna e il numero di indumenti che devono coprire o scoprire il suo corpo ha inondato l’estate dei media. La Francia repubblicana si è “coranizzata”, il suo laicismo armato si è fatto religione, fino a perseguire in modo implacabile ogni accenno di “islamizzazione”, specie quella delle donne, a cui pare sempre più facile e piacevole togliere e mettere vestiti. Il burkini non minaccia la democrazia europea, la sua proibizione sì. Incassa la cultura del patriarcato, vittoriosa sia nel mercato che “libera” che nella religione che “reprime” un’invenzione australiana che, secondo Aheda Zanetti, la proprietaria del prototipo del burkini, è una cospicua fonte di benefici commerciali
Vedo un’immagine sconvolgente: quattro omaccioni in divisa e armati che obbligano una donna indifesa a spogliarsi in un luogo pubblico. Non è uno stupro. È il laicismo armato che libera una musulmana dalle sue catene in una spiaggia di Nizza, e il tutto davanti allo sguardo indifferente di alcune virtuose repubblicane in bikini. Così come la polizia saudita perlustra le piazze, adesso la polizia francese perlustra le spiagge per far rispettare la hisba, il precetto religioso che obbliga a “rifiutare il male e imporre il bene”. La Francia repubblicana si è “coranizzata”, si fa guidare dalla sua sharia, cioè la sua legge religiosa, e persegue in modo implacabile qualunque accenno di “islamizzazione”, specialmente quando si tratta di donne, a cui è sempre più facile e piacevole togliere e mettere vestiti.
La scienza come chiave di lettura della più grave crisi economica del secondo dopoguerra. E’ questa l’originale idea che anima il saggio di Francesco Sylos Labini “Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi” (Laterza 2016, pp. 262, Introduzione di Donald Gillies) in un’ampia discussione il cui obiettivo è quello di mostrare in che misura una visione distorta e sbagliata della scienza nell’economia mainstream, rappresentata dalla scuola neoclassica, abbia contribuito alla crisi e come, l’assenza di una correzione di rotta, sia destinata ad aggravarla. “Perché nessuno se ne è accorto per tempo?” chiedeva la regina Elisabetta ai professori della London School of Economics all’indomani del fallimento di Lehman Brothers nel 2008, ma la domanda sembra essersi persa nel vuoto. Dopo otto anni, infatti, gli economisti neoclassici, fautori dell’idea che il mercato sia dotato di una capacità di autoregolazione e della bontà delle politiche liberiste, non solo sono ben lontani dal fare ammenda, ma sono anche ben saldi nel rivendicare a gran voce la scientificità del cosiddetto principio di “efficienza” dei mercati formulato da Eugene Fama, facendone il cardine interpretativo della realtà economica. Di scientificità, tuttavia, non vi è nessuna traccia, poiché – come l’autore ben illustra lungo tutta la prima metà del volume dedicata anche ad un’estesa rassegna del dibattito epistemologico sul metodo scientifico – è il costrutto dei mercati efficienti ad essere incompatibile con i principi del metodo scientifico, negando la possibilità stessa di effettuare previsioni (e dunque di verificare il modello interpretativo alla luce dei dati reali).
Mai scrivere “noi”. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero
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Giuseppe Nicolosi e Fabrizio Fassio: I terminator del lavoro
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Franco Berardi Bifo: Salvare il capitalismo o uscire dal suo cadavere?
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In passato,
l’orologio biologico delle donne era anche la vicina/parente
impicciona che chiedeva
insistentemente novità alla sposina. Oggi in periodo di
comunicazione politically correct occorre spiegare,
informare in modo capillare e
continuativo, portare a conoscenza delle donne e degli
uomini che la fertilità è una curva gaussiana che comincia a
scendere molto prima
che la donna consideri la questione come una opportunità.
[Piano
nazionale per
la fertilità]
Eccoci qua. Rientrati dalle ferie, per chi ha avuto la fortuna di godersele, troviamo un bel regalino di inizio anno: l’istituzione, nientemeno, del Fertility Day, una giornata pensata apposta per incrementare la scarsa natalità italiana. Una campagna che si dà come dichiarazione di intenti la diffusione di informazioni sulla prevenzione e la cura di patologie legate alla sterilità ma che, nella realtà, cerca di mettere una pezza a colori sul fatto che in Italia, mentre l’età media si alza e la vita media si allunga, il numero di nuovi nati diminuisce di anno in anno: ed è così che assistiamo alla traslazione semantica, forse per influenza della lingua inglese, per cui il termine “fertilità” – condizione biologica che indica la potenzialità riproduttiva di un individuo – diventa sinonimo di “fecondità”, di promozione della natalità e addirittura di “maternità”.
Uno strano
paradosso investe le economie dell’Occidente. Da un lato, a
dispetto di stimoli monetari senza precedenti, la crescita
economica è
precaria e stentata: anche negli Stati Uniti, dove la politica
monetaria è stata accompagnata da politiche fiscali espansive,
la crescita del
Pil è rimasta sotto le attese, generando un aumento del
rapporto debito/Pil dal 64% del 2007 al 106% del 2015; Larry
Summers, economista e
potente politico americano, assieme ad altri ha recentemente
avanzato l’ipotesi che i paesi avanzati stiano attraversando
una fase di
“stagnazione secolare”. Questa crescita insufficiente si
accompagna però ad un flusso d’innovazioni scientifiche e
tecnologiche senza precedenti che sta radicalmente modificando
il nostro modo di produrre, consumare, lavorare, comunicare.
Stagnazione secolare da un lato, innovazione e progresso dall’altro. Eppure la crescita economica è sempre stata favorita dalle scoperte scientifiche e tecnologiche: il telaio meccanico ha avviato la prima rivoluzione industriale inglese, poi motore a vapore, ferrovie, telegrafo e piroscafi hanno spinto la seconda. Catena di montaggio e consumi di massa hanno infine caratterizzato l’economia americana e, nel secondo dopoguerra, la crescita del continente europeo. L’informatizzazione dei processi produttivi, la diffusione della rete, la scoperta di nuovi materiali e la biologia molecolare sembrano invece incapaci di sostenere un nuovo ciclo di crescita economica.
Questo estratto è l'introduzione (pp. 321-328) fatta da Robert Kurz ad una serie di passaggi relativi al Marx esoterico del VII capitolo del libro "Lire Marx. Les textes les plus importants de Karl Marx pour le XXIe siècle. Choisis et commentés par Robert Kurz", La balustrade, 2002. Le numerose riflessioni, sulla società del lavoro, la crisi inerente ai fondamenti del capitalismo, la teoria del capitalismo come barbarie, la globalizzazione, ecc., rimandano a dei capitolo precedenti che si possono consultare sul sito "Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme"
Nella discussione sulla teoria di
Marx, si
dimentica spesso che il concetto di modo di produzione
capitalista che egli sviluppa soprattutto nel primo libro del
"Capitale" dapprima espone solo
la logica elementare del capitale e le sue condizioni storiche
e sociali. Di contro, le manifestazioni empiriche immediate
per mezzo delle quali la
società capitalista si presenta all'osservatore dall'esterno
non coincidono del tutto con la logica dell'essenza del
capitale, ma subiscono in
qualche modo molteplici mutamenti. Se, come dice Hegel, è
l'essenza ciò che appare, essa non appare esattamente in
maniera diretta e in
quanto tale, ma "trasmessa", modificata, "incorrettamente"
rifranta dalle influenze per mezzo delle quali è emersa. Vale
a dire che, da una
parte, l'essenza, per il suo concetto e la sua logica, deve
innanzitutto essere distillata dalla diversità delle sue
manifestazioni, e che,
dall'altra parte, a partire dal concetto di capitale e dalla
logica della sua essenza ottenuta, bisogna successivamente
discutere intorno al contesto
concreto della sua trasmissione e spiegare come e perché tale
essenza si presenta nel modo in cui appare attraverso
determinate modificazioni.
E infine, bisogna anche analizzare ed esporre lo sviluppo
storico e il relativo stato empirico di queste forme e serie
di trasmissioni, se si vuole
conoscere la relazione del capitale come qualcosa di
assolutamente concreto allo stato attuale della sua
evoluzione.
Noi non spalleggiamo la campagna dei media di regime contro i Cinque Stelle. Ciò non ci impedisce di vedere certe bestialità...
Ultim'ora
Mentre pubblichiamo questo articolo giunge notizia di una forte presa di posizione del direttorio M5S. Bene, questa è una buona cosa. C'è solo da augurarsi che alla posizione sulla giunta Raggi si accompagni la riflessione più generale di cui abbiamo parlato qui.
Cosa accade a Roma? Più precisamente, cosa succede in casa M5S? La figuraccia della sindaca Raggi è così plateale che non ha bisogno di commenti. Ma il movimento cosa dice? Cosa dicono i suoi vertici? Cosa pensa e cosa vuole il corpo ampio degli attivisti? Per forza di cose, queste domande dovranno avere una prima risposta nelle prossime ore.
Mentre scriviamo è in corso un lungo conclave del direttorio pentastellato. Il minimo che ci si può attendere è che ne venga fuori il siluramento dell'assessora Muraro. Noi ci auguriamo però una svolta più profonda, un repulisti più deciso. Basta con i personaggi legati al passato, con i soggetti equivoci buoni per tutte le stagioni.
Basta! Cari amici M5S, era questo il vostro programma: applicatelo!
La frittata è stata fatta, su questo non c’è dubbio. A distanza di un paio di mesi la giunta Raggi perde pezzi su pezzi, assessori, capi di gabinetto, dirigenti e amministratori di aziende pubbliche che rassegnano le dimissioni o spinti a rassegnarle, da chi non si sa, o forse sì.
Insomma, chi comanda al Campidoglio? Il cosiddetto “raggio magico”, cioè il gruppo di fedelissimi della sindaca, oppure gli uomini e le donne che il “direttorio” nazionale del M5S ha affiancato alla Raggi? Oppure ancora consorterie, gruppi di potere e camarille varie a cui la Raggi sembra essere ancora legata? Come si concilia tutto ciò con la filosofia – già debole, a mio parere – del movimento pentastellato?
Direi assai poco se non nulla.
Il fatto che l’assessora all’ambiente Muraro abbia ricevuto un avviso di garanzia non è di per se grave. L’avviso di garanzia è stato infatti concepito per tutelare chi lo riceve, non per gettarlo sulla graticola o nelle fauci del sistema mediatico. In un paese civile e democratico un avviso di garanzia è appunto un avviso di garanzia, cioè un atto che serve a tutelare l’indagato, a metterlo semplicemente al corrente che c’è un indagine in corso sulla sua persona. In Italia non è più così ormai da decenni e ricevere un avviso di garanzia significa già essere condannati, non prima di essere sottoposti alla gogna mediatica e al pubblico ludibrio, quindi bruciati, come si suol dire.
Le due più importanti questioni urbanistiche all’attenzione della giunta capitolina riguardano le Olimpiadi del 2024 e il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle. Su entrambe non è chiara la posizione di Virginia Raggi e della sua giunta. Il problema delle Olimpiadi è noto ai lettori di eddyburg, basta rileggere i recenti articoli di Salvatore Settis e Tomaso Montanari e di Giovanni Caudo con postilla del direttore. Meno nota è la vicenda dello stadio, un clamoroso esempio di urbanistica contrattata, cioè di una trasformazione dell’assetto urbano, di rilevante impatto e in contrasto con il piano regolatore, proposta da un privato e accettata (o subita) dall’amministrazione comunale.
All’origine c’è la cosiddetta legge sugli stadi, che però non è una legge ma sono tre commi della legge di stabilità del 2014 (147/2013, cc 303, 304 e 305) inseriti all’ultimo momento, dopo un percorso lungo e controverso, grazie al tradizionale maxiemendamento governativo (governo Letta) e quindi approvata con voto di fiducia. Il comma 303 tratta di questioni finanziarie, il 304 prevede che il soggetto interessato, d’intesa con una o più società sportive, presenti un progetto preliminare che “non può prevedere altri tipi d’intervento, salvo quelli funzionali alla fruibilità dell’impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell’iniziativa e concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici e comunque con esclusione della realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale”.
Dopo decenni di analisi sulla transizione al postfordismo, si sono esaurite le illusioni in merito alle chance che quella mutazione offrirebbe ai membri di una emergente “classe creativa”.
La grande crisi, giunta all’ottavo anno senza che si profilino prospettive di ripresa, ha scavato un abisso fra l’economia dei flussi (finanza e transnazionali del settore hi tech in prima fila) che continua a riempire le tasche dei super ricchi e l’economia dei luoghi, dove le disiecta membra di classi lavoratrici sempre più impoverite lottano per la sopravvivenza. In mezzo, dopo il tramonto della funzione di rappresentanza di partiti e associazioni, e dopo l’indebolimento delle classi medie, non sembra restare alcunché.
Al tentativo di rintracciare segni di una possibile rinascita della “terra di mezzo”, è dedicata una nuova collana dell’editore DeriveApprodi, intitolata “Comunità concrete” e diretta da Aldo Bonomi. Il primo volume, “La società circolare”, curato dallo stesso Bonomi, è approdato in libreria da qualche giorno. Preso atto che la cosiddetta economia “immateriale” è tutt’altro che “leggera”, ma funziona come una macchina schiacciasassi in grado di frantumare ogni velleità di autonomia dei capitalismi locali, che avevano tenuto in piedi la nostra economia negli ultimi decenni del secolo scorso, e di trasformare i territori in colonie, riserve di saperi sociali da cui estrarre plusvalore,
L'analisi media sulla crisi siriana impiega poca immaginazione e mette in pace con se stessi. Ma è il contrario di ciò che bisogna fare
La guerra del Vietnam fu combattuta
alla
vigilia della crisi spia (Nixon shock)
che segnalò che il sistema globale di accumulazione a guida
USA uscito dalla
Seconda Guerra Mondiale era entrato in crisi
sistemica.
Il conflitto era iniziato a bassa intensità agli inizi degli anni Cinquanta ma l'escalation americana è contemporanea ai netti segnali che l'impianto di Bretton Woods (per dare un nome al sistema postbellico che caratterizzò il superamento della precedente crisi sistemica, quella del lungo declino dell'Impero Britannico e, al suo interno, della Grande Depressione del '29) non poteva funzionare più come prima. Il sistema doveva espandersi in tutta l'Eurasia e la guerra del Vietnam era un punto obbligato, ma anche un test, riguardo questa possibilità.
Lo sapevano tutti: gli Statunitensi, i Sovietici, i Cinesi e anche gli Europei.
Così Sovietici e Cinesi, nemici tra loro, si allearono per non far passare gli Americani, ognuno avendo in mente i propri interessi. I grandi Stati europei davano un blando appoggio agli USA, in quanto alleati, ma cercavano di utilizzare le difficoltà statunitensi per guadagnare in autonomia e strappare posizioni a Washington. In testa a questa operazione c'era la Francia gaullista, ma anche l'Italia democristiana faceva la sua parte.
Pubblicando questo approfondimento su Reti e Big Data, cogliamo l’occasione per segnalare la presenza nella nostra prossima Scuola di un tavolo sulla comunicazione, convinti che la battaglia nel campo della produzione virtuale sia oggi essenziale per qualsiasi lotta “reale”. Invitiamo perciò chiunque sia interessato a contribuire a questo momento della Scuola a contattarci, segnalare materiali utili e partecipare!
“Che
errore aver
detto l’(es). Ovunque sono macchine, per niente
metaforicamente: macchine di macchine, coi loro
accoppiamenti, colle loro connessioni.”
Deleuze-Guattari, L’Antiedipo
“Nel modo in cui la
cultura d’oggi vede il
mondo, c’è una tendenza che affiora contemporaneamente
da varie parti: [...] Il pensiero, che fino a ieri ci
appariva come qualcosa di
fluido, evocava in noi immagini lineari come un fiume
che scorre o un filo che si dipana […], oggi tendiamo a
vederlo come una serie di stati
discontinui, di combinazioni di impulsi su un numero
finito di organi sensori e di controllo”
Calvino, Cibernetica e
fantasmi
Atomi imprevedibili
Ripercorrendo le fasi storiche dello sviluppo scientifico nelle sue varie discipline è possibile riscontrare un passaggio dall’utilizzo di metodi qualitativi a metodi via via più quantitativi, numerici, formalizzati. E’ il caso dell’alchimia, antico sistema filosofico esoterico che condensava chimica, medicina e astronomia unendo risultati sperimentali con interpretazioni mistiche, e che soltanto nel 1661 con Il chimico scettico di Boyle e poi con Lavoisier si è tramutata nella chimica moderna, introducendo formule e codici per esprimere il mescolarsi tra sostanze e le reazioni che queste causavano.
Fra gli anni Novanta e il nuovo millennio, il ceto politico post-comunista si è in Italia variamente riorientato in senso neo-liberale, con una tendenza a subire l’egemonia del fronte neo-conservatore e neo-liberista e, ovviamente, a far venir meno ogni presidio egemonico sulla base sociale. È passata alla fine l’idea che “riformismo” significasse destrutturare lo stato sociale, assegnando al “privato economico” una funzione liberatrice e pluralistica.
Tutta la resistenza al populismo anti-politico che, nonostante tutto, i post-comunisti italiani hanno in qualche misura esercitato, almeno fino alla trasformazione in Partito Democratico, essendo priva di un progetto alternativo a quello egemonico dominante, è diventata, analogamente, soltanto difesa strenua di una politica che, così separata dalla base sociale, per una sorta di dialettica hegeliana degli opposti, trapassa nel suo contrario: e cioè nell’anti-politica che si pensava di fronteggiare e che, ovviamente, mostrava di avere ben più appeal elettorale nelle sue formule populistico-mediatiche che in quelle di una nomenklatura mai abituata a giocarsi la partita del consenso, prima per via dei limiti posti dalla Guerra Fredda e poi per il suo radicarsi in aree del paese in cui il proprio potere non è in discussione.
Si è amato dire paternalisticamente (qui è il dalemismo che stiamo sottoponendo a critica) che i dirigenti politici devono essere “più avanti” delle masse dei propri elettori, implicitamente subendo un assorbimento nel pensiero unico elitista che da tempo domina la politologia.
Da un appello del 22 marzo degli studenti francesi
In queste ore Renzi si trova in Cina per il G20, e anche qui non manca di rilanciare dichiarazioni tutte centrate sul contesto italiano. Da qualche tempo il premier è impegnato a contrastare e a riposizionare la valenza del prossimo referendum, ossia il rischio della propria fragorosa caduta. L'all in giocato sulla vittoria del Sì si rivela sempre più come un azzardo ingestibile per lui e più in generale per la governabilità del sistema-paese (e non solo). E' in particolare su un piano del dispositivo temporale che ora Renzi tenta di imbrigliare la possibile disfatta e la sua uscita dal tavolo.
«All’Italia spetterà la presidenza di uno dei prossimi G20, che non abbiamo ancora ospitato. Non so se sarà nel 2019, nel 2020 o nel 2021, comunque io ci sarò». Sono queste le parole con cui si conclude la sua conferenza stampa a Hangzhou. E hanno da un lato un sapore scaramantico, ma dall'altro segnano una profonda transizione nel discorso renziano. Ve la ricordate la campagna per le primarie? Lo slogan era “Adesso!”, e ci si prometteva di rottamare il vecchio. La paura del cambiamento è un'altra delle retoriche agitate dal renzismo, che tuttavia adesso si agita e sta cambiando verso.
Ancora Renzi dichiara: «Spesso per vedere i risultati delle riforme ci vogliono anni. Il futuro viaggia veloce e può impaurire […] Tutti vogliamo una crescita inclusiva ma abbiamo un nemico comune: la paura».
Sta diventando molto difficile difendere la giunta Raggi: va bene, i poteri forti remano contro, non ci sono i soldi, c’è un’ eredità spaventosa delle giunte precedenti, il M5s non ha avuto il tempo di formarsi una sua classe dirigente, i mass media sparano a zero… tutto vero, però, proprio per questo, non bisogna fare errori. Gli altri vogliono tagliarti la testa, ma tu non andare a mettere la testa sotto la lama! E se sbagli a fare le nomine, non sono i poteri forti che ti hanno fatto sbagliare, sei tu che hai sbagliato.
Il primo errore (da cui sono discesi gli altri) è stato quello di non preparare la squadra di governo da prima e non si può dire che la vittoria sia stata inaspettata. Soprattutto se c’è intenzione di un innesto di tecnici, la squadra va fatta prima per vedere se l’esperimento regge, non ci si fa prendere in contropiede dai fatti.
In secondo luogo: ma come può venire in testa di associare alla squadra gli uomini del regime precedente, dopo aver promesso la più completa discontinuità? Muraro, Marra? Pazienza per il passato, ma adesso bisogna semplicemente liberarsene e senza gioco dei quattro cantoni, per cui si passa da un incarico all’altro. Bisogna semplicemente liberarsene, punto e basta. Niente altri incarichi: fuori!
Terzo errore: che facciamo, ci mettiamo anche noi a fare cerchi magici? Che un sindaco (un ministro, in presidente di regione o chi volete voi) abbia un gruppo di collaboratori è giusto e necessario, ma collaboratori non vuol dire “co-decisori”.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo uno scritto di Paolo Di Remigio a proposito dell'intervento di Cesaratto che abbiamo segnalato sul blog. M.B.)
L'intervento di Cesaratto, «Il proletariato (non) ha nazione …»1 , largamente condivisibile, anzi illuminante in molti punti, nella sua prima parte non sembra spingere abbastanza in profondità la critica della sinistra e forse anche questo contribuisce a rendere oggi, come scrive lo stesso Cesaratto, «maledettamente difficile» la «prospettiva politica di cambiamento».
Un primo eccesso di delicatezza appare rispetto alla citazione di Gallisot: «Proprio perché la classe operaia è priva di proprietà, non è più lacerata dai limiti dell’interesse privato, diventa per ciò stesso suscettibile di solidarietà». Questa proposizione contiene un doppio, grave errore: 1. Sembra credere che la proprietà privata sia incompatibile con la solidarietà; ma nessun proprietario privato è soltanto proprietario privato; egli è anche membro di una famiglia, a cui è legato dalla più forte delle solidarietà, cioè dall'affetto; inoltre è membro di uno Stato a cui paga (in qualche misura) le tasse e presta, se necessario, servizio militare, e queste sono forme concrete della solidarietà con cui è prodotta la res publica. 2. Sembra credere che l'essere priva di proprietà renda particolarmente «suscettibile di solidarietà» la classe operaia; invece è evidente proprio il contrario, che la necessità di dover fronteggiare da una posizione debole la lotta per la vita nella società civile può solo facilitare l'assunzione di stili di vita egoistici.
http://www.imprimatureditore.it/index.php/2016/08/25/sei-lezioni-di-economia/
1. Il
libro di
Sergio Cesaratto, la cui copertina vedete nell'immagine di
apertura, è una piacevole lettura, solida e scorrevole, sia
dal punto di vista
storico che, ovviamente, teorico-economico.
Si può non concordare in toto con talune implicazioni che, d'altra parte, sono comunque dimostrate nel quadro di una rigorosa ricostruzione economica, senza però debordare sul dato istituzionale; ma, nondimeno, anche in questo caso, il libro ci offre una fondamentale spiegazione, particolarmente rilevante per i lettori di questo blog.
La spiegazione di come, e perché, la parte della sinistra in origine comunista, poi in mutevole e variegata definibilità nominalistica e ideologica, sia risultata solo marginalmente - e comunque in modo costantemente "selettivo"- ascrivible al "partito della Costituzione del 1948": su di essa la stessa sinistra marxista avrebbe nutrito una costante "diffidenza", scientifica e, prima ancora, politica (Cesaratto, preoccupandosi del profilo scientifico, ritiene, con ampie argomentazioni, più attendibile Sraffa rispetto a Keynes; ma il primo, a differenza del secondo, è inevitabilmente al di fuori del processo Costituente, come vedremo tra breve).
2. Cerchiamo di evidenziare i passaggi del libro da cui scaturisce questa utile, e comunque interessantissima, spiegazione: nella parte in cui ricostruisce, - con l'occhio lealmente dichiarato di un insider -, le vicende della scienza economica italiana "vista da sinistra", Sergio attribuisce un giusto rilievo a Marx, ed alla sua sopravvivenza rispetto al tramontare di alcune, ma non altre, delle sue analisi, e conferisce, come accennato, un grande rilievo a Sraffa.
1.
L’islam in corsia di sorpasso
Le ultime statistiche, sebbene non perfettamente coincidenti, sembrano non lasciare scampo alla religione cristiana e cattolica soprattutto. Secondo l’incrocio delle varie fonti i cristiani sarebbero circa due miliardi e cento milioni e di questi solo un miliardo e cento potrebbero essere annoverati tra i cattolici. I restanti sarebbero ulteriormente distinguibili in: cinquecento milioni circa di protestanti, duecentoventicinque milioni di ortodossi, settantatré milioni di anglicani, settantadue milioni di cristiani orientali. Sull’altro versante, i musulmani ammonterebbero a circa un miliardo e seicento milioni, di cui un milardo e trecentocinquanta milioni sunniti. Tali dati parlano da soli in quanto la salute di una religione monoteistica, e allo stesso tempo universalistica, si basa appunto sulla sua capacità di propagazione: senza espansione non c’è identità1.
Tutte le proiezioni demografiche danno un sorpasso chiaro e definitivo da parte dell’islam ai danni dell’intero mondo cristiano nei prossimi cinquant’anni. Le spiegazioni sociologiche di questo trend, e in particolare dell’attuale rapporto di forze islam/cattolicesimo, sono ricollegate alla superiore capacità di sviluppo demografico musulmana rispetto a quella della civiltà occidentale cristianizzata.
Quali sono le conseguenze teoriche e politiche dell’impiego della nozione di ideologia e di quella di cultura? Non è contraddittorio richiamarsi ai “fatti” per liquidare le visioni ideologiche e al contempo appellarsi al relativismo culturale per legittimare la propria opinione, qualsiasi essa sia?
Ascoltando con atteggiamento critico il linguaggio politico e quello massmediatico, assai spesso coincidenti, si può cogliere questa paradossale contraddizione: da un lato, le ideologie sono finite ed è quindi opportuno fare costantemente riferimento ai “fatti”; dall’altro, formulando qualche considerazione, ci si appresta a sottolineare che essa è esclusivamente frutto della propria personale opinione, ovviamente sempre rispettabile perché viviamo in un “sistema democratico”.
Sembrerebbe, quindi, che per un verso, si è del tutto convinti che esistano “fatti” osservabili e identificabili indipendentemente dal punto di vista di chi esprime una valutazione; e, infatti, a proposito ad esempio di una certa misura economica da prendere, si ripete ciò non è né di destra né di sinistra, perché sta nelle cose. Per l’altro verso, con una vena relativistica, assai antipatica alla Chiesa cattolica, si ribadisce che ognuno ha legittimamente le proprie opinioni, in cui si esprimono scelte culturali differenti, tutte accettabili.
Nel primo caso si identifica l’ideologia con un insieme di preconcetti, appartenenti ad un passato ormai superato, e applicati in maniera dottrinaria e semplificatoria.
È guardandosi intorno, percorrendo le strade della Capitale dal centro all’estrema periferia che si comprende come Roma non sia in grado di ospitare nessun grande evento, portando ancora le cicatrici delle precedenti manifestazioni e le ferite stratificate di decenni di inadeguata amministrazione ordinaria. Una città che non funziona per i suoi cittadini non funziona neanche per quelli che ci vengono per turismo, per lavoro, per studio, per investire. E neanche per gli atleti, per gli staff, per i giornalisti.
In una città economicamente fallita – con un debito storico che si aggira ora sui 14 miliardi, blindato nel 2008 e spalmato fino alle prossime generazioni – con una scia di opere incompiute – basti citare la Città dello sport a Tor Vergata, con due relitti che dovevano essere finiti per i Mondiali di nuoto del 2009–o che si sono dilatate oltre ogni pessimistico pronostico di tempi e di costi – come la Metro C, che da Pantano doveva arrivare a Piazzale Clodio nel 2016 e che ancora non arriva alle mura del centro storico – è difficile avere fiducia nei cronoprogrammi e nei piani economici delle grandi opere. E soprattutto è difficile non vedere le migliaia di interventi che dovrebbero essere messi in agenda per restituire ai romani una qualità della vita degna delle altre capitali europee. Ai quali si aggiungono, dopo il tragico campanello d’allarme dei giorni scorsi, tutti gli interventi necessari per garantire la sicurezza in una città a rischio sismico.
Andrea Iris D’Atri, IL PANE E LE ROSE. Femminismo e lotta di classe, a cura di Serena Ganzarolli, Red Star Press 2016, pp. 236, € 18,00
[Mentre le banalità di base sulla fertilità estratte dal cilindro magico della ministra Lorenzin si accompagnano all’orgia retorica liberal-femminista di Killary Clinton e alla inutile e demagogica discussione sull’uso del burkini sulle spiagge europee, potrebbe far bene ripercorrere il cammino dell’emancipazione femminile attraverso le pagine del bel libro pubblicato questa primavera dalla Red Star Press. L’autrice, nata a Buenos Aires nel 1967, si è specializzata in studi sulle donne. Militante femminista e dirigente del Partido de los Trabajadores Socialistas (Pts), ha fondato nel 2003 in Argentina il gruppo «Pan y rosas», oggi presente anche in Cile, Brasile, Messico, Uruguay, Bolivia e Spagna. Il testo ripercorre in maniera sintetica e precisa il cammino parallelo dell’emancipazione femminile affiancata a quello della liberazione dal lavoro salariato e dalla società patriarcale che lo fonda. Dalle Rivoluzione Francese alla Comune di Parigi e dalla Rivoluzione Russa alle più recenti istanze di liberazione della specie dalla schiavitù capitalistica si dimostra come le donne siano sempre state in prima fila nelle lotte di classe pur dovendo lottare spesso su tre lati della barricata. Problema già affrontato con la domanda enunciata, qui in apertura, dalla marxista americana Evelyn Reed fin dai primi anni ’70 del secolo appena trascorso. Qui di seguito un breve estratto dall’”Introduzione” dell’autrice stessa.].
A quanto pare le intenzioni di Beatrice Lorenzin sono state fraintese. Di fronte alle proteste, all’indignazione e alla rabbia suscitate dalla campagna pubblicitaria che annuncia il Fertility Day la ministra si è affrettata a correggere il tiro. Il Fertility Day, però, non è una trovata estemporanea e nemmeno si riduce a un pacchetto pubblicitario di cartoline, slogan e videogiochi di dubbio gusto. Dietro alla giornata-evento – che già nel nome e non a caso si richiama al Family Day – e alla propaganda che la accompagna c’è un Piano nazionale per la fertilità che si impegna, in 137 pagine redatte da esperti di chiara fama, a dare indicazioni per affrontare e risolvere l’annoso problema del calo demografico che affligge l’Italia. Diversamente dalle cartoline, però, questo documento non può essere frainteso. Ciò che viene pianificato è infatti una radicale riconfigurazione dei ruoli sociali che decenni di femminismo e di insubordinazione delle donne hanno trasformato in profondità. Alle spalle del Fertility Day – come già nelle misure e del dibattito sulla stepchild adoption – c’è il progetto neoliberale di rendere l’assoggettamento delle donne alla funzione procreativa una scelta di libertà. Anche se la ministra ha dichiarato di non voler offendere nessuno, questo piano per la società fertile è una chiara offensiva politica nei confronti della libertà, conquistata a caro prezzo, di essere donne senza essere madri.
Lorenzin ha chiarito che l’intervento del ministero che presiede è mirato ad affrontare prioritariamente questioni sanitarie e non sociali: «si possono anche fare gli asili, ma se poi si è sterili e non si riesce ad avere figli non abbiamo i bambini da metterci dentro».
Mai scrivere “noi”. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero
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«Genitori giovani per essere creativi». Nella sua banalità imbarazzante uno degli slogan della campagna sul Fertility Day accredita la mentalità della classe creativa, soggetto pseudo-sociologico inventato da Richard Florida nel 2002 e obiettivo dell’operazione del ministero della Salute: oggi in Italia non si fanno figli perché i possibili genitori sono impegnati a essere «creativi»
«Classe creativa»
Il ministero, e i suoi «creativi», alludono al profilo di un lavoratore elastico, sempre disponibile alle richieste dei suoi committenti, un soggetto che vive per lavorare e affermarsi nella carriera professionale intesa come un’attività creativa, appagante, auto-centrata. La «classe creativa» non include solo manager cosmopoliti, artisti, freelance o professionisti dell’immateriale, appartenenti a un ceto medio ricco e poliglotta nelle industrie dell’high tech o dell’intrattenimento. È un modello morale: per molti anni è stato usato per reinterpretare la condizione della precarietà. La precarietà è un’opportunità, va intesa come flessibilità, una condizione anche estetica, performativa. Mai intenderla come una questione giuridica o, peggio, sindacale. Che noia, che barba, che noia.
Lo slogan ha preso molto sul serio una delle fandonie che nutre la rappresentazione del lavoro indipendente, tra start up e auto-impresa: il creativo sa usare la precarietà, esistenziale e professionale, in maniera imprenditoriale, appartiene a uno strato culturale vasto che contiene diverse posizioni sociali economicamente disomogenee, in una società integrata senza classi. Salvo poi scoprire che tale «creatività» oggi è solo un’altra faccia dell’auto-sfruttamento, del lavoro gratuito o sottopagato, oltre che dell’alienazione del lavoro autonomo contemporaneo.
(...non metto link, tanto è un raccontino, non c'è nulla di vero, è un'opera di fantasia, e poi chi è di queste parti sa di cosa sto parlando, e chi non è di queste parti è arrivato senz'altro troppo tardi per impedire che la fantasia diventi realtà, e forse anche per riconoscere questa realtà quando gli si parerà davanti, cioè entro un anno...)
L'Unione Europea è un progetto
statunitense. Serviva, come sappiamo, a rendere coeso il
fronte orientale, quello verso il nemico sovietico.
Poi il nemico si sfaldò, e con esso c'era il timore che si sfaldasse anche il fronte. Sai com'è, quella storia della tesi: senza antitesi, non c'è sintesi...
Aggiungi che serviva anche un bell'impulso, l'impulso definitivo, a quella globalizzazione finanziaria che tante soddisfazioni stava dando al capitalismo, schiacciando ovunque i salari. In Europa questi resistevano: per opporsi al comunismo in modo efficace si era infatti dovuto creare un credibile welfare, e assicurare una bassa disoccupazione. Tutte cose che rendevano i salari piuttosto coriacei, ma non tanto da non poter essere scardinati dalla moneta unica.
Certo, l'euro aveva anche dei costi, proprio per quel sistema finanziario, e per quel blocco geopolitico, che legittimamente si aspettavano di trarne vantaggi.
Ubi commoda... Il fottuto latino!
I costi in termini economici erano noti e ovvi: squilibrando la distribuzione del reddito, la moneta unica provocava una ipertrofia del credito che rendeva il sistema finanziario più fragile, anziché più stabile come promesso.
Sul giornale dei padroni, o meglio sul più informato e meno ideologico trai giornali dei padroni, che è poi Il sole 24 ore (ebbene sì, c’è molto di peggio…), Carlo Bastasin, che di quel giornale è una delle migliori penne, guardando alle tragedie naturali ed ancor di più alle prevedibili tragedie economico-sociali che l’assenza di crescita prepara per l’Italia, esorta tutti noi ad uscire dalla logica del respiro corto, a guardare in avanti, a darci la stabilità necessaria per affrontare eventi difficili. Stabilità (recentemente additata dall’ineffabile Marchionne come motivo per votare sì al prossimo referendum) che sembra proprio essere la richiesta principale dell’articolo: “Se una riforma costituzionale è necessaria, ne dovrebbe far parte allora un’innovazione che preveda forme esecutive di lungo termine (corsivo mio, MP) ingaggiando in modo nuovo i poteri legislativo e giudiziario”.
E’ chiaro che qui si va ben oltre la stessa riforma Renzi e si cerca il modo di anestetizzare tutto e mettere quasi per sempre l’esecutivo “al riparo dal processo elettorale”, per dirla con Monti. Perché questo ulteriore rilancio? Perché si sente arrivare la tempesta: l’Italia ha fatto fiasco mentre dal 2009 in poi gli altri paesi hanno recuperato qualcosa; ma ora anche gli altri stanno per rallentare, quindi… “I tempi per la resa dei conti, che coinciderà con l’aumento dei tassi d’interesse in Europa, si stanno accorciando. Per questo bisogna pensare da subito in modo diverso…. C’è molto da fare per le menti più innovative del paese.
La riunione di fine settimana dei capi di Stato delle prime 20 economie del mondo (G20) che si è svolta nel resort cinese di Hangzou, ha concluso che l'economia globale si trova ancora nei guai. Il Fondo Monetario Internazionale (IMF) aveva calcolato che il 2016 sarà il quinto anno consecutivo in cui la crescita globale sarà il 3,7% al di sotto della media registrata nel periodo fra il 1990 ed il 2007.
E poco prima del vertice del G20, l'IFM ha presentato una relazione che prevede una crescita ancora più lenta di quella prevista:
«I dati ad alta frequenza indicano una crescita meno accentuata per quest'anno, soprattutto nelle economie avanzate del G-20, mentre l'andamento dei mercati emergenti è più vario».
E continua:
«La prospettiva globale resta sottotono, con dinamiche di crescita a lungo termine sfavorevoli e disparità dei redditi nazionali che si aggiungono alle sfide che i responsabili politici sono chiamati ad affrontare. I recenti sviluppi - che includono un'inflazione molto bassa, insieme al rallentamento nella crescita degli investimenti e del commercio - confermano ampiamente il ritmo modesto dell'attività globale.
Perché nessuno ha proposto di usare per le zone terremotate il «jackpot» della spesa militare italiana? Un tesoretto che, secondo i dati ufficiali della Nato, ammonta a circa 20 miliardi di euro nel 2016, 2,3 miliardi più del 2015: in media 55 milioni di euro al giorno
«Solo macerie, come se ci fosse stato un bombardamento», ha detto la presidente della Camera Boldrini visitando i luoghi terremotati. Parole su cui riflettere al di là dell’immagine. Di fronte alle scene strazianti dei bambini morti sotto le macerie del terremoto, come non pensare a tutti quei bambini (che la tv non ci ha mai mostrato) morti sotto le macerie dei bombardamenti ai quali, dalla Jugoslavia alla Libia, ha partecipato anche l’Italia? «Sembra di essere in guerra», racconta uno dei tanti volontari. In guerra, quella vera, l’Italia in effetti c’è già, bruciando risorse vitali che dovrebbero essere destinate a proteggere la popolazione del nostro paese dai terremoti, dalle frane e alluvioni che provocano sempre più vittime e distruzioni.
Politici di aree diverse hanno proposto, in un impeto di generosità, di destinare alle zone terremotate il jackpot del Superenalotto, 130 milioni di euro. Nessuno ha proposto però di usare a tal fine il «jackpot» della spesa militare italiana ammontante, secondo i dati ufficiali della Nato, a circa 20 miliardi di euro nel 2016, 2,3 miliardi più del 2015: in media 55 milioni di euro al giorno, cifra in realtà più alta, includendo le spese extra budget della difesa addebitate ad altri ministeri.
La vecchiaia, nella sua nudità di “vita che è solo vita, nient’altro che vita”, rivela, come scrive Franco Rella ( Egli, Tre lune, Mantova 1999), “quel lato oscuro della vita umana, che di solito rimane sconosciuto o ignorato nell’ombra, ma che le è proprio come nessun’altra cosa, il lato della morte. Nel vecchio la vita prende senso dalla sua fine”. Se questa è l’ “autentica condizione umana”, un pensiero che pretenda di mostrarla e di rifletterla che posto può avere in un mondo attraversato dalle logiche del potere, che si rappresenta la morte soltanto come distruzione, vittoria e sconfitta, e non come qualità dell’esistenza?
Di fronte a un modello di civiltà, che innalza come valori supremi la bellezza e la giovinezza, sembra che non resti altro modo per dire l’ “impresentabile” delle passioni del corpo che dar spazio a quell’intreccio di storie che il tempo ha sedimentato nelle nostre vite, quasi a nostra insaputa. Solo da una coraggiosa messa a nudo dei sentimenti, delle sensazioni, delle emozioni, si può sperare di veder emergere l’esperienza nei suoi aspetti contraddittori, felici e dolorosi, e quindi la possibilità di scoprire in se stessi risorse e vie d’uscita insospettabili.
Come terza volta in cui proviamo ad
affrontare
il cosiddetto “smart work” – le prime due pubblicate su “La
Città futura” e poi sul blog di
“Contraddizione” con i titoli ‘La “nuova svolta” lavorativa’ e
‘“Smart working”: sfruttamento
illimitato alla costrizione al lavoro’ – si tenterà ora di
mettere a fuoco le origini storiche più lontane, nonché
vicine, per cogliere appieno il senso e la funzione attuale di
questa parvente riorganizzazione del lavoro. Più che
nuova
organizzazione, si deve intendere, nell’uso ideologico di
“agile”, una pedissequa continuità e perfezionamento degli
obiettivi che da sempre il sistema di capitale ha perseguito,
ultimamente attraverso le ristrutturazioni – quelle sì - del
taylorismo
prima, del toyotismo o onhismo poi, confluite solo attualmente
in questa dicitura anglofona non a caso senza paternità
teoriche definite.
Emergono nella trovata “agilità” solo consulenti e apprendisti
realizzatori, o controllori di un prêt à porter
dell’ultima ora, autolegittimantisi con innovazioni
informatiche, peraltro aspecifiche per il modo di produzione
capitalistico tuttora in
vigore.
In questi lunghi anni di crisi del sistema la disoccupazione a livello mondiale è aumentata a un ritmo crescente rispetto alla rivoluzione tecnologica continuamente in atto, limitandone in parte la piena estensione nei settori produttivi e improduttivi di tutti i paesi.
Il concetto del
«limite»
come è stato interpretato nelle diverse epoche e, in
particolare, nella modernità?
Diversamente dal mondo antico, dove l’andare oltre i confini stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita, la modernità è un andare al di là dei limiti, un plus ultra, un navigare verso l’ignoto. Nelle sue avventure spirituali e nello slancio verso la scoperta di terre incognite, il pensiero moderno ha infranto i divieti di indagare sui misteri della natura, del potere e di Dio, rivalutando così la curiosità prima condannata come “concupiscenza degli occhi”. Sebbene non si debba avere una concezione trionfalistica della modernità, come innovazione pura, completa rottura dei ponti con il passato, essa certamente ha sfidato molti tabù imposti dalla tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana.
Il lungo, ma oggi accelerato processo della cosiddetta globalizzazione ha ovviamente portato mutamenti radicali all’idea di limite. I confini degli Stati sono diventati “porosi”, civiltà prima lontane o indifferenti si intersecano, si incontrano e si scontrano. I mezzi di comunicazione di massa e le migrazioni mutano il panorama. Ma le principali civiltà contemporanee hanno davvero cancellato tutti i limiti? O non è meglio sostenere che alcuni li hanno addirittura riproposti e perfino violentemente rafforzati mediante la restaurazione dogmatica di fedi, mentalità e comportamenti del passato (come nel caso dell’applicazione letterale della sharia, che significa, appunto, ritorno alla “strada battuta”)? Ci sono limiti da rifiutare e limiti da conservare. Per distinguerli occorre coltivare l’arte del distinguere, lasciandosi guidare, nello stesso tempo, da un’adeguata conoscenza delle specifiche situazioni, da un ponderato giudizio critico e da un vigile senso di responsabilità.
Che il cinquestellismo si sarebbe immediatamente impantanato in indagini giudiziarie che lo avrebbero posto in contraddizione con se stesso, costituiva una di quelle previsioni sin troppo facili.
Se oggi il sindaco Virginia Raggi segnalasse la strana tempestività di certe indagini potrebbe essere facilmente accusata di ricorrere ad argomenti già familiari al Buffone di Arcore ed alla sua corte politico-giornalistica. Visto che da parte dei grillini non lo si era notato a suo tempo, non avrebbe senso per loro ricordarsi oggi che il Buffone stesso deve la sua carriera politica dal 1994, e la sua resurrezione politica nel 2008, a due colpi di mano giudiziari, il secondo dei quali, ai danni del ministro Mastella e della moglie, mise fine al secondo governo Prodi.
La fiaba dell’eterno conflitto tra il Buffone ed i magistrati continua dunque a pesare sul dibattito “politico” ed impedisce di analizzare l’effettivo ruolo svolto dalla magistratura in questi ultimi decenni, cioè quello di ribadire lo stato di sottomissione coloniale del ceto politico italiano nel suo complesso, tenuto in ostaggio dalle indagini per corruzione. La stessa legislazione anticorruzione è strutturata in funzione coloniale, poiché si considera reato la tangente, ma non il riservare a se stessi o ai propri parenti carriere nelle multinazionali. Quando il Movimento 5 Stelle ha posto l’onestà al centro del proprio programma politico, non ha dimostrato l’onestà intellettuale di prestare attenzione ai risvolti colonialistici della corruzione ed alle forme “legalitarie” che la corruzione può assumere in un contesto coloniale.
La bufera è arrivata. E arriva ora una tempesta più grande all'ombra della troika e dell'austerity. Il M5S faccia un #GovernoOmbra coinvolgendo il popolo
La bufera è arrivata. Come nelle migliori previsioni auto-avveranti, quando ogni stormir di fronda diventa un temporale, è normale che arrivi, prima o poi, la tempesta. Tuttavia è onesto ed oggettivo ammettere che il caos al Comune di Roma gestito dal M5S dopo la strepitosa vittoria elettorale della primavera scorsa, oltre che da manipolazioni, strumentalizzazioni, disparità di trattamento con situazioni analoghe o peggiori (si veda il caso di Milano) da parte di certa informazione (orientata politicamente e da precisi interessi economici) derivi in buona parte anche da errori e mancanze dello stesso MoVimento a livello sia locale che generale.
È dunque positivo che i problemi siano venuti alla luce subito, e con virulenza, quando la situazione può essere ancora riportata sui giusti binari senza troppi sconquassi e sfruttandola come ammonimento per il futuro. Forse non è mai stato vero che in cinese la parola "crisi" abbia anche il significato di "opportunità", ma stavolta potrebbe esserlo.
Molto immodestamente, nella veste di analista politico ma anche di iscritto, cercherò di dare alcune indicazioni generali e pratiche che spero possano essere di ausilio e sprone a quanti hanno una responsabilità all'interno del MoVimento.
Le contraddizioni esplose dentro giunta comunale di Roma guidata dalla Raggi, giungono tutt’altro che impreviste. Già delle prime delle elezioni erano stati in molti a chiedere che la nuova giunta comunale scegliesse da subito la strada della discontinuità con le amministrazioni precedenti sul piano politico e nuove priorità sociali nelle scelte su Roma.
Una volta insediata la nuova amministrazione al governo di Roma, il blocco di interessi prosperato trasversalmente intorno ai poteri forti ha cercato con ogni mezzo di condizionare o boicottare la nuova giunta. La cosa è diventata evidente con le dimissioni di capo di gabinetto, superassessore al bilancio e alle aziende partecipate e amministratori delegati di Ama e Atac. Si tratta di dirigenti ereditati tutti o dallo staff del Commissario Tronca o dalle precedenti amministrazioni comunali. Parallelamente sono state e continuano ad essere praticate vergognose campagne stampa di giornalisti prezzolati sulle pagine del Corriere della Sera, La Repubblica, Il Messaggero, in tutti i telegiornali Rai normalizzati dai diktat di Renzi.
A Roma è fin troppo evidente che chi ha lucrato finora sul business dei rifiuti, dei biglietti clonati o della “manutenzione” dei bus dell’Atac, sulle cooperative sociali e soprattutto sulla cementificazione del territorio, non intende lasciare nulla di intentato per continuare a fare i propri affari sulla pelle della città, dei suoi abitanti e dei servizi pubblici.
Sarà Beppe Grillo, oggi, a chiudere la riunione fiume del Direttorio del M5S sul “caso Roma”. Ma quale che siano le deliberazioni che verranno adottate, una cosa è chiara: la guerra dei palazzinari e del partito trasversale delle olimpiadi, della gestione dei rifiuti e della manutenzione delle opere pubbliche, è ormai dichiarata. La dichiarazione di guerra del partito degli affari contro il Movimento 5 Stelle è stata affidata a giornali, radio e televisioni di proprietà o di complemento.
Il PD, che avrebbe milioni di motivi per tacere su Roma, urla e i giornali di riferimento del Premier ne diffondono la voce. La Sindaca, dal canto suo, pare prigioniera di errori suoi e dei suoi consiglieri. Insomma, Roma è stretta tra alcuni errori di gestione del governo della neo sindaca e l’aggressione mediatica della stampa di regime.
Ma il rumore di nemici non assolve gli errori grillini, frutto di mancanza di qualità politica e, ancor più, di comunicazione (anche se davvero il rapporto con i medi militarizzati non è questione da risolvere con qualche mago degli Uffici Stampa). L’impressione, fino ad oggi, è che il M5S e la stessa Raggi non avessero calcolato prima il peso di quello che sarebbe stata la reazione dei poteri forti alla vittoria di un governo contrario ai suoi interessi.
Governare Roma è certamente compito improbo.
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È doveroso, riflettendo
sulla vicenda politica del Comune di Roma, mettere anzitutto
in primo piano la violenza con cui il M5S è stato messo sotto
attacco. Tutte le
forze sconfitte da quel voto, i partiti politici, i poteri
economici della città, la malavita organizzata, fanno ora
blocco per cercare una
rivincita. La vicenda di Roma è importante anche perché da
un’idea della violenza dell’attacco cui sarebbe sottoposto un
governo che sulla base di un consenso idoneo tentasse di
presentare un programma di svolta democratica, intenzionato a
scontrarsi con i mille
interessi che si sono agglutinati attorno alla politica di
austerità.
E tuttavia sarebbe profondamente sbagliato non vedere che a Roma si sta consumando una vicenda che interessa da vicino il futuro della nostra democrazia. Il discorso deve farsi a questo punto molto più ampio e non può non prendere le mosse dalla grande diversità che la spinta populista ha assunto nel nostro paese rispetto agli altri paesi europei.
Il paragone più eclatante è con il caso della Francia, dove la protesta sociale è stata definitivamente catturata dal linguaggio di una formazione politica che mette apertamente in discussione i valori storici della civiltà democratica europea. Nelle prossime elezioni del 2017 saranno le parole chiave della rivoluzione francese, libertà, eguaglianza, fratellanza, ad essere messe ai voti. Ma tutta la paradossale vicenda del burkini ha dimostrato ampiamente quanto il Fronte abbia ormai vinto, infettando e condizionando già ora tutto il discorso politico nazionale.
Con questo articolo, una testimonianza di viaggio che riflette sullo scenario politico e economico della Germania e di Berlino, riprendono, dopo la pausa estiva, le pubblicazioni di Palermograd. Le elezioni in Meclemburgo-Pomerania registrano l’avanzata di Alternative für Deutschland che supera la CDU, il partito della cancelliera tedesca Angela Merkel. A due settimane dal voto del 18 Settembre di Berlino è difficile pensare che non potranno esserci ripercussioni sul quadro nazionale governato dalla Große Koalition
“Härte allein hilft nicht in der Rigaer
Straße”, titolava il 13 luglio scorso il quotidiano tedesco
Tagesspiegel: “a Rigaer Straße il solo uso della forza non
aiuta”. Questa estate mi sono imbattuto, un po’ per caso e un
po’ per necessità, nel corso delle ormai consuete vacanze a
Berlino, nel distretto di Friedrichshain, nella vicenda della
vertenza di Rigaer Straße 94. Avevo già letto della rivolta
dei
linksautonomen a Berlino-Est su Il Manifesto
(18.07.2016): a fine Giugno scontri tra attivisti politici e
polizia, feriti e arresti, per
difendere dallo sgombero delle forze dell’ordine lo stabile
occupato di Rigaer Straße, Hausprojekt in der R.S.94. E oggi
la vertenza
relativa alle questioni abitative è diventata uno dei temi più
scottanti della campagna elettorale che si chiuderà il 18
Settembre con l’elezione della Camera dei Deputati e delle
assemblee municipali della città-Stato di Berlino. Il punto è
che il
test elettorale non potrà non avere riflessi e ricadute più
generali sull’attuale Große Koalition di Merkel e
Schäuble.
Berlino ha fin dai primi anni ’70 del secolo scorso un’interessantissima storia, per altro a me quasi del tutto sconosciuta, relativa allo squatting, all’occupazione da parte di singoli e gruppi politici di immobili non abitati.
Gli sviluppi, sempre più
rapidi, dell'intelligenza artificiale richiedono un'etica, una
politica, una visione del rapporto tra tecnologia ed esseri
umani in cui la prima sia
al servizio dei secondi e non viceversa.
La questione è già oggi concretissima. Un esempio? Il 7 maggio scorso in Florida, Joshua Brown, quarant’anni, si trova alla guida della sua amata Tesla modello S. Visto che la vettura è dotata di funzioni di autoguida, il pilota – un entusiasta degli sviluppi dell’intelligenza artificiale per l’automobilismo, come testimoniato dai suoi stessi video su YouTube – si concede la visione di un film della saga di Harry Potter su un lettore DVD portatile. Agli ostacoli, ne è certo, penseranno il radar e il sistema di visione computerizzata di cui è dotato il veicolo, che consente una modalità di guida nel traffico e frenata automatica, mentre la macchina va a tutta velocità.
Ma qualcosa va storto. I suoi sensori, ed è una prima volta storica, non si accorgono di un camion con rimorchio che sta svoltando a sinistra dalla corsia opposta della US27, la strada che copre i quasi 800 chilometri che attraversano lo Stato. La Tesla S, prodotto dell'azienda diretta da Elon Musk che Brown venera come un idolo, non si ferma. Passa sotto al rimorchio e il parabrezza viene tranciato di netto. Poi esce di strada, colpendo un palo dell’elettricità. Quello che è sempre più difficile chiamare “pilota” non sopravvive all’incidente e diventa la prima vittima dell’era delle self-driving car.
Da quando Robert Lucas espose la sua famosa “critica” ai modelli keynesiani, gli economisti si sono convinti che i modelli economici debbano essere necessariamente “microfondati”, cioè costruiti sulla base del comportamento dei singoli agenti economici. In realtà, presa di per sé, la critica di Lucas è un consiglio che chiunque dovrebbe accettare: i modelli macroeconomici dovrebbero tenere conto del fatto che, se accade qualcosa di nuovo, vi sarà una reazione del sistema economico che potrebbe assorbire o moltiplicare l’effetto dell’evento. In particolare, secondo Lucas, i modelli dovrebbero tenere conto della reazione del sistema economico agli interventi esterni dei policy makers. Non sono solo gli economisti mainstream a pensarlo: un esempio è la cosiddetta “legge di Goodhart”: se la banca centrale provasse a controllare direttamente un certo aggregato monetario, l’economia reagirebbe utilizzando altri mezzi di pagamento, rendendo la misura di quell’aggregato irrilevante e la politica inefficace.
Purtroppo molti economisti mainstream, su stimolo dello stesso Lucas, hanno utilizzato questo concetto per concludere che l’economia reagirà in modo tale da vanificare del tutto o in parte qualsiasi intervento del governo.
Dal 16 al 18 settembre prossimi si svolgerà a Chianciano il Terzo Forum Internazionale No Euro, al quale parteciperanno esponenti e delegazioni di movimenti, sindacati, associazioni e partiti provenienti da Francia, Germania, Spagna, Grecia e Ucraina (oltre che ovviamente dall’Italia), uniti dalla convinzione che una sinistra degna di essere definita tale debba necessariamente impegnarsi nella lotta per la rottura di questa Europa (per notizie e informazioni sull’evento, consultare la pagina web). Nelle seguenti righe intendo spiegare perché ho accettato con entusiasmo di essere fra i relatori e i motivi per cui ritengo importante che il maggior numero possibile di amici e compagni partecipi all’evento.
È il momento di far capire a tutti che, fra l’aderire a formazioni di sinistra sedicenti radicali o antagoniste (non parlo qui di quelle socialdemocratiche, che considero avversari politici con cui non è più possibile dialogare) e il dichiararsi a favore della Ue (pur chiedendone la riforma) non può esservi compatibilità alcuna. In primo luogo, perché è ormai chiaro che la scelta di adottare una moneta unica per economie radicalmente diverse non è stato semplicemente un “errore” di politica economica, bensì un atto di dominio politico. La moneta non è mai neutrale, ma è uno strumento che serve a regolare i rapporti di forza fra nazioni, aree regionali, imprese e – soprattutto - classi sociali; nel caso in questione è servita a porre le basi per il dominio neocoloniale dell’imperialismo tedesco su periferie e semiperiferie continentali, oltre che a legittimare le politiche di austerità che hanno distrutto la capacità di resistenza delle classi subordinate.
«Un mondo senza guerre» di Stefano Petrucciani, pubblicato da Carocci. Quando un ideale diventa un incubo e si rovescia nel suo contrario
Una delle cifre più caratteristiche del lavoro intellettuale di Domenico Losurdo sta senza dubbio nella sua capacità di decostruire storicamente e criticamente le ideologie egemoniche. A cominciare dall’ideologia liberale, che Losurdo ha bersagliato in molti libri importanti, tra i quali spicca per incisività la Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005), un testo che si può leggere come un efficace controcanto rispetto a quegli scrittori politici che si sono unilateralmente concentrati sulle nefandezze dei comunismi o dello stalinismo.
In questo suo ultimo libro (Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, pp. 384, euro 30) l’ideologia che Losurdo analizza, con la ricchezza di sapere storico che lo contraddistingue, è quella della «pace perpetua». In altre parole il sogno, o il progetto politico, di un ordine internazionale capace di porre fine una volta per tutte ai conflitti interstatali e di assicurare una convivenza pacifica e ordinata. Questo sogno di pace, ci spiega Domenico Losurdo, è stato particolarmente sentito in alcuni grandi momenti di svolta storica; per esempio sulla scia della Rivoluzione francese e dei suoi ideali universalistici; oppure dopo la prima guerra mondiale, quando si sviluppò il progetto della Società delle Nazioni; o ancora dopo il 1989, con il crollo della divisione Est-Ovest e la fine della guerra fredda.
Mentre la sedicente sinistra di governo è valorosamente impegnata nella sua battaglia contro la Raggi, Confindustria e sindacati si mettono d’accordo per dare un’altra stangata ai lavoratori. Gira un documento comune sottoposto all’attenzione di un governo dispostissimo ad accoglierlo sia pure non prima di averlo peggiorato che tolto dal bagno di cromatura del linguaggio aziendal -sindacalese è teso a rendere più facili e meno onerose le espulsioni dal posto di lavoro, a ridurre quanto più possibile il ruolo della cassa integrazione che quanto meno costituiva un freno ai licenziamenti selvaggi, ad abbassare la liquidazione dei dipendenti di più lunga data stabilendo un massimo di vent’anni e farla gestire in pratica da fondi di natura privata, in primis quelli di Confindustria e dei sindacati stessi, che si occuperanno “incentivare” il pensionamento facendolo pagare ai lavoratori. Tutto questo in cambio di un “ballon d’essai”, ovvero di fantomatici programmi di aggiornamento e ricollocamento in posti che non esistono. O che se esistono richiedono spesso minori competenze rispetto a quelle acquisite dal lavoratore. Del resto la premessa dell’accordo è che siamo alla vigilia di un nuovo sanguinoso ” processo di ristrutturazione produttiva e occupazionale”. Insomma di una nuova caduta dell’economia da far pagare a chi lavora e che ha già prodotto nei primi mesi di quest’anno un’amento del 7,4 & dei licenziamenti.
La realtà che ci viene raccontata è quella decisa dalle elite al potere, tra manipolazioni e sinistre analogie col mondo descritto da Orwell in 1984. Questo è quel che lascia capire la lettura dell’articolo, ironicamente leggero e sottilmente disturbante, di C.J. Hopkins, autore satirico americano, sul deciso “cambio di narrazione” avvenuto in tutto il globo con l’attentato delle Torri Gemelle – dalla Guerra al Comunismo alla Guerra al Terrore. Da Countepunch, in occasione del quindicesimo anniversario delle Torri Gemelle
La “guerra al terrorismo”, che
l’ex presidente George W. Bush ha lanciato ufficialmente alla
fine di settembre del 2001, e che il presidente Obama ha
ufficialmente rinominato
“la serie di persistenti sforzi mirati
a smantellare specifiche reti di estremisti violenti che
minacciano
l’America” nel maggio 2013 , a questo punto (cioè dopo
quindici anni che ci siamo dentro), è diventata la nostra
realtà consensuale ufficiale … o in altre parole, “è come
stanno le cose”. Un’intera generazione ha
raggiunto la maggiore età nel corso dello “Stato di Emergenza
Nazionale rispetto ad Alcuni Attacchi Terroristici “, che il
presidente Obama ha recentemente esteso. Per la maggior parte
di questa generazione sfortunata (che alcuni chiamano
“Generazione Patria”),
la vista di soldati in armatura, coi fucili tenuti
anteriormente a tracolla pronti per l’uso, che pattugliano le
strade delle loro
cittadine o città, le assurde “procedure di sicurezza”
all’aeroporto, l’isteria pompata dai media mainstream, la
commemorazione bigotta di qualsiasi cosa anche lontanamente
collegata ad “Alcuni Attacchi Terroristici” in questione, e
tutto il resto,
è del tutto normale, il modo in cui il loro mondo è sempre
stato.
Naturalmente, questa è anche la prima generazione per la quale gli attentati di New York e Washington dell’11 settembre 2001 non sono altro che vaghi ricordi d’infanzia, o eventi storici che hanno imparato a conoscere a scuola, o in televisione o su Internet.
11 settembre 1973. Salvador Allende viene assassinato in Cile da un golpe sanguinario organizzato da militari e fascisti, padroni e democristiani, Cia e multinazionali
Oggi è importante
ricordare quella data per almeno due ragioni di fondo.
La prima è che il Cile sotto la sanguinaria dittatura di Pinochet divenne la cavia della prima sperimentazione liberista del secondo dopoguerra. Camminando sopra le decine di migliaia di cadaveri di sostenitori del governo socialista democraticamente eletto, i Chicago boys di Milton Friedman giunsero in Cile per gestire la politica economica del tiranno. E sperimentarono la distruzione del sistema pensionistico pubblico, della sanità e di tutti i servizi sociali , la privatizzazione in favore delle multinazionali di tutto il sistema produttivo a partire dalle ricche miniere di rame, la cancellazione di ogni diritto per il lavoro. La cavia cilena servì a sperimentare le ricette e le dosi delle politiche liberiste, che poi dilagarono in tutto il mondo e che oggi più che mai confermano la loro natura intrinsecamente criminale. Politiche liberiste che in Europa hanno avuto un nuovo impulso con l'uso come nuova cavia della Grecia, sottoposta alla dittatura bancaria della Troika
La seconda ragione per cui è importante e attuale il sacrificio di Allende e del suo popolo è che oggi ci stanno riprovando. In tutta l'America Latina, dopo quasi quindici anni di governi progressisti, è in atto una controffensiva reazionaria che vuole restaurare il dominio assoluto dei poteri e degli interessi che hanno sempre vessato i popoli di quel continente.
Quindici anni fa l’attacco alle Torri Gemelle di New York. Non c’era un solo talebano nel commando di terroristi
Furio Colombo in un articolo
pubblicato dal Fatto qualche giorno fa ci chiede se
ci ricordiamo che cosa stavamo facendo alle 14:45 (ora
italiana) dell’11 settembre
2001. Io lo ricordo bene. Dormivo, dopo una notte balorda. Mi
svegliò lo squillo del telefono. Era un’amica: “Stanno
bombardando
New York. Accendi la Tv”. Accesi e vidi quello che più o meno
tutti abbiamo visto, fino al collasso delle Torri. Non provai
né
costernazione né fui preso dalle isterie Fallaci style (“Oh
God! Oh my God!”) che poi diventeranno il tema de La rabbia e
l’orgoglio. Nella mia testa aleggiavano piuttosto i pensieri
che poco dopo il filosofo francese Jean Baudrillard avrebbe
messo sulla carta con
crudezza, con lucidità e con grande coraggio (e ce ne voleva
davvero tanto in quel momento): “che l’abbiamo sognato
quell’evento, che tutti senza eccezioni l’abbiamo sognato –
perché nessuno può non sognare la distruzione di una
potenza, una qualsiasi, che sia diventata tanto egemone – è
cosa inaccettabile per la coscienza morale dell’Occidente,
eppure
è stato fatto, un fatto che si misura appunto attraverso la
violenza patetica di tutti i discorsi che vorrebbero
cancellarlo” (Lo spirito
del terrorismo, 2002).
Per tutta la vita ho sognato che bombardassero New York e non potevo essere così disonesto con me stesso e con i lettori da negarlo nel momento in cui il fatto era avvenuto. Eppure ho provato anch’io un istintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano.
Sulla strategia e il rapporto di collaborazione e conflitto tra Stati Uniti, Turchia, Curdi e Daesh
In merito al conflitto Siriano sono state scritte numerose analisi, eppure uno degli aspetti meno noti riguarda la strategia e il rapporto di collaborazione e conflitto tra Stati Uniti, Turchia, Curdi e Daesh.
Sin dall'inizio del conflitto in Siria Washington e Ankara non hanno mai esitato nell'utilizzare a proprio vantaggio le avanzate di Daesh. L’occupazione di località Siriane nei pressi del confine Turco da parte degli estremisti Islamici è risultata essere una delle tattiche preferenziali adoperate da Stati Uniti e Turchia. Chiudere un occhio, spesso entrambi, sulle operazioni di Daesh significava, indirettamente, attaccare lo stato Siriano, minacciarne l’integrità e permettere la creazione di località protette a disposizione dei gruppi terroristi in cui ricevere armi e sostegno materiale per reiterare l’aggressione al governo di Damasco nel resto del paese.
Nel caso specifico della Turchia ci sono state anche altre valutazioni. L’avanzata di Daesh supportata energicamente da Ankara ha sottratto territorio anche ai Curdi Siriani causando morte e caos nella loro comunità. Vista la conflittualità storica tra le due fazioni, è scontato specificare che ogni vessillo innalzato da ISIS/ISIL si traduceva in una vittoria per Erdogan e un successo del piano di disgregazione della comunità Curda in Medio Oriente.
La Bce ha sostanzialmente esaurito armi e munizioni a sua disposizione, ma soprattutto è arrivata a dimostrare empiricamente che la sola politica monetaria non può risolvere i problemi economici e finanziari di un'area peraltro assolutamente interconnessa con l'economia globale.
La scelta – resa nota ieri pomeriggio – di non modificare nessuna delle decisioni prese in precedenza, tanto sui tassi di interesse quanto sul programma di acquisato di titoli sul mercato (altrimenti noto come quantitative easing) è al tempo stesso una presa d'atto di questi limiti e un richiamo deciso ai diversi paesi a fare quel che – secondo lui e i manuali di macroeconomia liberisti – andrebbe fatto.
Un atteggiamento critico verso i suoi critici – a cominciare da Bundesbank e dall'establishment tedesco – che è uscito fuori in conferenza stampa, visto che il comunicato finale della Bce è come sempre concertato e dunque “asettico”.
Di fatto, oltre un anno di iniezioni di liquidità non ha prodotto né quel lieve aumento dell'inflazione che in linea teorica dovrebbe facilitare gli investimenti produttivi (nessuna azienda investe se pensa che dovrà vendere ai prezzi attuali o addirittura più bassi, e lo stesso fanno all'opposto i consumatori che devono fare acquisti di beni durevoli), né tantomeno una crescita economica percettibile. Nelle previsioni della Bce, peraltro, i prossimi due anni anni ancora meno positivi di quanto fin qui sperato (+1,6% invece di +1,7), ma la responsabilità – ha sottolineato Draghi – non va addossata alla Bce o alle imprese.
Quando mi capita di parlare del M5s spesso constato un atteggiamento pregiudizialmente ostile che il più delle volte trapela da una malcelata speranza che il fenomeno duri poco, in modo da tornare al più presto alla “normalità”.
Non pensate che si tratti solo del piddino che spera nella morte del M5s in modo da restare senza sfidanti, o del leghista che spera di recuperare una parte dei voti persi all’epoca del Trota, ma anche del militante della sinistra (quella vera) che, del tutto irragionevolmente, pensa che il collasso dei 5 stelle gli spianerebbe praterie infinite. E la crisi romana (dove, innegabilmente, i 5 stesse stanno facendo gli straordinari quanto a fesserie) ha rilanciato questi umori: la Repubblica si spinge a parlare di “Caporetto” dei 5 stelle, ma forse dimenticando che dopo Caporetto venne Vittorio Veneto; Il Foglio dice che è inutile mettere mano alla legge elettorale per evitare la vittoria grillina, perché ci stanno pensando da soli a farsi fuori i grillini, con le contorsioni romane. Insomma “O Roma o Morte”, se il M5s fallisce a Roma è finito.
Il bello è che a questa balla hanno abboccato i 5 stelle che sono entrati nello psicodramma del crollo imminente se a Roma va male. Capiamoci: è ovvio che se a Roma facessero fiasco (e vi confesso che non sono affatto ottimista, anche se spero il contrario) sarebbe una sconfitta politica di prima grandezza con prezzi politici pesanti, ma di qui al crollo totale ne corre.
C'è una vecchia teoria di Wu Ming, sul Movimento 5 Stelle. Secondo la quale «il M5S amministra la mancanza di movimenti radicali in Italia: c’è uno spazio vuoto che il M5S occupa per mantenerlo vuoto. Nonostante le apparenze e le retoriche rivoluzionarie, è un efficiente difensore dell’esistente, una forza che ha fatto da tappo e stabilizzato il sistema: una grossa quota di “indignazione” è stata intercettata e organizzata da Grillo e Casaleggio in un franchise politico/aziendale con tanto di copyright e trademark, che raccatta e ripropone rivendicazioni e parole d’ordine dei movimenti sociali, ma le mescola ad apologie del capitalismo “sano”, in un programma confusionista dove coesistono proposte liberiste e antiliberiste».
In sostanza, secondo Wu Ming se in Italia non esiste una forte sinistra radicale - di movimento e saldamente intrecciata nel tessuto sociale delle classi subalterne - questo sarebbe anche a causa del Movimento 5 Stelle, che incanalerebbe il dissenso sociale in se stesso per poi svuotarlo, renderlo innocuo.
Se questa tesi fosse vera, chi è di sinistra in Italia avrebbe solo da gioire della crisi del Movimento 5 Stelle, delle sue ultime difficoltà e pessime figure.
C'è però anche la tesi opposta, quella che ha sempre sostenuto Grillo: secondo la quale senza il M5S in Italia avremmo invece percentuali altissime a oggetti putridi tipo Le Pen, o i nazisti tipo in nordeuropea, o i vari nazionalismi identitari in crescita ovunque.
Pochi giorni fa, in occasione del
simposio di
Jackson Hole del 27 agosto, il presidente della FED Janet
Yellen è intervenuta per fornire spiegazioni e
un’interpretazione
“d’autore” all’attuale politica monetaria USA. Il
messaggio lanciato davanti un pubblico d’eccezione,
comprendente i maggiori economisti e banchieri centrali a
livello mondiale, è stato che seppure lo scenario economico
sia migliorato da inizio
anno, tuttavia rimane ancora incerto e richiede una politica
monetaria dinamica ed attenta al flusso degli “hard
data”.
Il discorso della Yellen fa riferimento in primo luogo al miglioramento delle prospettive da gennaio. Ad inizio anno infatti erano nati timori di crisi e recessione globale che avevano portato a crolli di mercato e panico generalizzato. Questi timori di catastrofe si sono per ora rivelati infondati e i dati sull’andamento dell’economia reale hanno confermato una situazione economica in positivo. D’altra parte il discorso del presidente Yellen prosegue ricordando come il contesto economico rimanga debole e sia ancora sostanzialmente in monitoraggio.
I timori di inizio anno riguardo le possibili evoluzioni del contesto economico rimangono in effetti inalterati. L’Europa continua a soffrire la situazione politica tesa, di cui è divenuto recentemente il simbolo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. La Brexit è solamente la punta di un iceberg più profondo che mina i rapporti tra i diversi stati alimentando sfiducia verso un modello accusato di essere eccessivamente germanofilo.
Parigi. Pensare di arroccarci nella nostra
identità, di «esimerci dal
contatto e dalla contaminazione con gli altri è ridicolo,
un’illusione». Respingere chi cerca aiuto, «una nuova forma
di
fascismo». Richard Sennett, tra i più autorevoli sociologi
contemporanei, docente alla London School of Economics e
alla New York
University, guarda con preoccupazione al modo in cui in
Europa si affronta la questione migratoria. Il «nuovo
tribalismo», che combina la
solidarietà con i propri simili e l’aggressività contro chi
è diverso, è frutto di un’incompetenza sociale,
sostiene l’autore de Lo Straniero. Due saggi
sull’esilio (Feltrinelli 2014).
Un’incompetenza favorita dal modo in cui sono costruite le nostre città. Sistemi chiusi, sigillati, che dequalificano i cittadini e neutralizzano le differenze, eliminando quegli spazi ambigui in cui si può imparare a fare un uso produttivo della diversità. Perché la cooperazione con gli altri, specie con gli estranei, è una competenza, un’arte che va acquisita. E le città aperte, porose e dinamiche, possono aiutarci a esercitarla, «rendendoci cittadini migliori».
Abbiamo incontrato Richard Sennett a Parigi, dove con la moglie, la sociologa Saskia Sassen, alcune settimane fa ha inaugurato la cattedra “Global Cities”, presso il Collège d’études mondiales della Fondation Maison des Sciences de l’Homme.
Il libro di
Miguel Benasayag e Gérard Schmit L'epoca delle passioni
tristi si propone di indagare il crescente disagio
nelle società occidentali, specialmente tra gli adolescenti,
partendo dalla constatazione che mentre nel passato i ragazzi
più
problematici provenivano soprattutto dalla periferia e dai
quartieri più poveri, oggi il disagio tende a generalizzarsia
tutti i quartieri e quindi, dovremmo pensare, a tutte le fasce
sociali.
Gli autori partono dalla constatazione che si è ormai consumato il passaggio da un futuro-promessa ad un futuro-minaccia e non solo dal punto di vista economico.
L'Occidente aveva fondato i suoi sogni sulla convinzione che la storia dell'umanità fosse inevitabilmente storia di progresso; se in precedenza il processo storico permetteva di guardare al futuro come ad una promessa di sempre maggior benessere, di sempre maggiore felicità, oggi questa fiducia non esiste più: è avvenuta una vera e propria rottura che ha ucciso la speranza “storicista” di un futuro migliore. O forse sarebbe meglio dire così: è venuta meno, non tanto la convinzione che il futuro sia sempre necessariamente migliore, ma piuttosto che un futuro migliore sia anche soltanto possibile.
In libreria la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico di Karl Marx, nella storica traduzione di Galvano Della Volpe, con un ampio saggio introduttivo (quasi una monografia) di Michele Prospero
Poche settimane fa Editori Riuniti ha ripubblicato la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico di Karl Marx, nella storica traduzione di Galvano Della Volpe, facendo precedere il testo da un ampio saggio introduttivo (quasi una monografia) di Michele Prospero. Non intendo con questa nota presentare il testo di Marx, considerato ormai un classico del pensiero moderno, di difficile lettura ma intriso di importanti anticipazioni filosofiche e precoci osservazioni sociologiche; la lunga introduzione di Prospero, invece, merita qualche riflessione e alcuni rilievi.
In termini generali l’impianto del suo discorso ruota introno alla logica dell’argomentazione marxiana, in risposta al “misticismo speculativo” di Hegel. Riprendendo un’analogia stabilita in passato da Della Volpe tra la critica marxiana della logica di Hegel e la posizione aristotelica in rapporto all’ipostatizzazione delle idee platoniche, Prospero lavora instancabilmente per rendere definitiva questa sovrapposizione.
Una simile lettura implica, a mio parere, una semplificazione, se non due.
Quando la co-presidente del Ypg, Asya Abdullah, portatrice nel partito della linea politica di Ocalan di confederazione democratica all’interno dello stato siriano, è stata ricevuta da Holland, Erdogan ha manifestato con arroganza la sua contrarietà. Ben altri sentimenti il Sultano aveva espresso nell’incontro a Parigi con Saleh Muslim, l’altro co-presidente dell’Ypg1, presente Francois Holland. Ben distante politicamente da Ocalan e da Asya Abdullah, Saleh Muslin è interessato alla costruzione di uno stato kurdo all’interno dei confini siriani, uno stato di cui lui ovviamente fosse Presidente.
Molti analisti, immaginandosi un partito monolitico, non avendo consapevolezza del principio maoista della perpetuazione dello scontro di classe all’interno di una qualsiasi organizzazione che si definisca sia pure marxista, hanno di volta in volta trovato difficoltà ad interpretare le mosse del Pyd/Ypg che effettivamente risultano spesso incoerenti o maldestre e sopratutto non corrispondenti al progetto politico di Abdullah Ocalan.
E non credo che una linea politica nel Pyd abbia già prevalso sull’altra. Aver combattuto assieme agli States può essere un disegno strategico non solo per sconfiggere lo stato islamico ma anche per avere il sostegno determinante della grande Potenza al tavolo della Pace, sostegno che comporterebbe la possibile nascita dello staterello e con esso la perdita di una “reale” Indipendenza. Ben al di là del sogno ambizioso di Abdullah Ocalan. Potrebbe tuttavia costituire “forse” un “arretramento” tattico dettato dallo stato di necessità, un accorgimento temporaneo che non rinneghi la bontà del progetto.
Ringraziamo il compagno Domenico Losurdo per la segnalazione dell’articolo
Due anni dopo l'inizio del conflitto in Ucraina, è venuto il momento di fare un bilancio provvisorio. La polvere degli eventi è caduta a sufficienza perché si possa ricostruirne la trama. Un po' alla volta, grazie alle inchieste realizzate dagli osservatori accorti, come il giornalista che ha denunciato l'Irangate e premio Pulitzer Robert Parry, la verità comincia ad emergere.
E come d'abitudine, questa non è molto esaltante. La bella storia della rivoluzione popolare che abbatte un regime odiato e corrotto, appare ora in tutta la sua cruda realtà: non era che una finzione, una favola abilmente tessuta per ingannare un pubblico avido di racconti che finiscono con un lieto fine.
Vi ricordate dell'abbattimento dell'aereo MH 17 che ha fatto circa 300 morti nel luglio 2014 e che ha seminato il terrore nel mondo intero, che John Kerry dichiarò essere stato abbattuto da un missile “probabilmente russo” e che servì da pretesto per il secondo turno di sanzioni economiche contro la Russia? A due anni, ancora nessuna prova nonostante tutte le promesse. I risultati dell'inchiesta non sono mai stati pubblicate e gli Stati Uniti, i cui satelliti spia riescono a leggere le targhe delle nostre auto, rifiutano di dare le proprie immagini agli inquirenti, mentre la SBU, il servizio segreto ucraino, moltiplica le attenzioni verso gli esperti occidentali incaricati dell'inchiesta.
Si rimane esterrefatti vedendo le 10 pagine del Corriere e le 7 di Repubblica dedicate alla Raggi e all’affaire Muraro, impagabile testimonianza indiretta di una cupola che ad ogni costo vuole tornare a governare gli affari, mentre di fronte a questo fuoco di sbarramento, mai visto con i sindaci piacioni, piaciati, ciclotimici o picchiatori di strada che hanno mandato Roma alla rovina nel corso trent’anni. O magari con gli stessi personaggi che oggi vengono esecrati dopo essere rimasti intoccabili per anni. Un grido di dolore degli apparati che ha portato rapidamente nell’ovile chi aveva osato prendere le distanze dalla gestione affaristica delle città: questa cupola vuole ad ogni costo rimanere a tirare i fili e vuole soprattutto l’annuncio della candidatura alle olimpiadi (basta quello per mettere in moto i finanziamenti e le opere, se poi i giochi non si fanno tanto meglio visto che tutti hanno già incassato e non bisogna nemmeno faticare o dimostrare efficienza e correttezza).
Il solerte cronista del malaffare in forza al Corriere della Sera, Sergio Rizzo, parla scandalizzato di conflitto di interesse riguardo alla Muraro, ex consulente dell’Ama e oggi assessore che dovrebbe risanare l’Azienda, ma quante pagine ha scritto quando la medesima si vide triplicare da Alemanno gli emolumenti per la sua consulenza? Zero righe, sindrome della pagina bianca, eppure un pezzo sull’Ama lo aveva scritto a suo tempo per deplorare l’aumento delle assunzioni e delle spese.
Ieri,
8 settembre 2016,
pieno successo della Conferenza di Alessandro Pace a
Cagliari. Gli esponenti del Comitato per il NO alla
revisione costituzionale Renzi-Boschi-Verdini
sono visibilmente soddisfatti, La sala pur capiente
dell’Hotel Regina Margherita è stracolma; un uditorio
composito, che va dagli operai
metalmeccanici ad alcuni alti magistrati, ai molti
professionisti ed insegnanti.
Il pubblico segue
passo passo le argomentazioni del presidente nazionale
del Comitato per il NO
nonostante la difficoltà di alcuni passaggi tecnici,
aiutata da una magistrale chiarezza del relatore, capace
di rendere comprensibili a
tutti temi che hanno un indubbio risvolto giuridico.
Alla fine
dell’Assemblea Andrea Pubusa invita alla partecipazione
alle prossime iniziative del
Comitato cagliaritano in una battaglia che entra nel
vivo e che sarà durissima anche per la sproporzione di
mezzi e per la parzialità
dei media, specie della Rai e della TV.
Pace ha affrontato i vari punti critici del testo Renzi-Boschi, riprendendo temi e ragomentio già trattati in vari interventi e pubblicazioni, a partire da quella, estremamente chiara apparsa su Micromega il 1 marzo scorso.
L’islam è un sistema basato sul
concetto di unicità, quindi di unità ma da quando è nato ad
oggi, non ha fatto altro che dividersi al suo interno.
Altresì vorrebbe essere un sistema in cui il religioso è
l’ordinatore primo, quello a cui il sociale, l’economico, il
militare ed il politico sono subordinati ma da tempo ormai si
assiste, in diversi casi, all’inversione della subordinazione.
Ne nasce una certa
dinamica, un movimento che è difficile da leggere e capire,
soprattutto per noi occidentali che usiamo un ben diverso
sistema di immagine di
mondo.
Arrivano in questi giorni, due notizie che segnalano un certo movimento nella tettonica a placche dell’islam. La prima è stata inspiegabilmente ignorata in occidente ed è il pronunciamento (fatwa), di un certo numero di ulema sunniti, riunitosi a Grozny in Cecenia, a fine Agosto. La seconda è la polemica al calor bianco tra sauditi ed iraniani a proposito della gestione del tradizionale hajj, il pellegrinaggio rituale a Mecca e dintorni, il quinto pilastro della fede islamica, che si terrà il prossimo 10 settembre.
Partiamo da quest’ultima. Com’è noto, l’Arabia Saudita è sunnita e l’Iran è sciita ma l’hajj è precetto tanto dei sunniti che degli sciiti. Teheran ha esplicitamente lanciato l’idea di togliere ai sauditi la gestione dell’hajj.
Nei decenni culminanti della modernità considerammo il Nazismo un fenomeno estinto, passato, cancellato dalla storia. Per tranquillità lo definimmo Male Assoluto, e non se ne parla più. Identificando il nazismo con Auschwitz abbiamo finito per accettare Gaza, pensando: quello che accade è terribile, ma non è mica Auschwitz. Stiamo tranquilli. Il nazismo è diventato una sceneggiatura fosca che assolve preventivamente la violenza coloratissima della democrazia capitalista. Ma ora poco alla volta cominciamo a capire che il capitalismo democratico perde energia e futuro, forse perché alla lunga la democrazia non può convivere con il capitalismo.
La forma storica del nazional-socialismo hitleriano non si ripresenterà, ovviamente. Ma già nel 1946 Karl Jaspers consigliava di distinguere tra la manifestazione storica del nazismo e il suo significato essenziale. Per Gunther Anders il nazismo ha solo costituito la prima, brutale, manifestazione di una tendenza profonda della modernità tecnologica: «La tecnica che il Terzo Reich ha avviato su vasta scala non ha ancora raggiunto i confini del mondo, non è ancora “tecno-totalitaria”. Non si è ancora fatto sera. Questo, naturalmente non ci deve consolare e soprattutto non ci deve far considerare il regno (“Reich”) che ci sta dietro come qualcosa di unico e di erratico, come qualcosa di atipico per la nostra epoca o per il nostro mondo occidentale, perché l’operare tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacuna, con conseguente irresponsabilità individuale, ha preso le mosse da lì».
Diciamolo con calma: sappiamo bene che Roma non si può governare, prigioniera com’è di uno scontro insanabile tra gli interessi pubblici e quelli privati. Sappiamo pure che finora sono stati quelli privati a fare (quasi) sempre il bello e il cattivo tempo. Non solo in queste settimane ma almeno dall’estate 2015, la città vive una situazione politica surreale: il caos mediatico e istituzionale è complesso e imponente. Il brodo di coltura ideale perché la propaganda delle grandi opere vesta i panni dell’occasione irripetibile, magari da piegare a fini innovativi, ineccepibili sul versante etico e su quello ambientale. La metafora adatta potrebbe essere quella, trita e ritrita, della grande sfida. Nel caotico groviglio tutti i colpi sono ammessi, la sola domanda da evitare con cura è: cui prodest? Enzo Scandurra spiega perché le condizioni per piegare un mega evento come quello olimpico a favore della città sono lontanissime
Partiamo da un dato incontestabile: Roma è una città (pressoché) ingovernabile. Una governabilità apparente è possibile solo venendo a patti con i poteri forti: immobiliaristi, faccendieri, lobbies di vario tipo; ed è quello che ha sempre fatto il Pd, da Rutelli a Veltroni.
Questa apparente governabilità ha però un prezzo esoso: è costata un debito enorme, una espansione delle periferie ben oltre il raccordo anulare, un deficit accumulato dalle partecipate (Atac, Ama, ecc.). In una parola: una inefficienza della macchina urbana a livello di trasporti, raccolta dei rifiuti, asili nido, assistenza sanitaria, eccetera.
Non sono del Movimento Cinque Stelle. Sono un osservatore esterno, che da sempre guarda con curiosità e interesse al Movimento, pur senza aderirvi e, spesso, senza risparmiare critiche anche serrate. In questo caso, tuttavia, la mia solidarietà al Movimento e alla Raggi è incondizionata. Quello che sta accadendo a Roma è indecoroso. Stanno cercando, mediante l’opinione pubblica manipolata e la leva degli illeciti (i quali, ove vi siano, vanno ovviamente puniti a norma di legge), di delegittimare integralmente un movimento politico che ha democraticamente vinto le elezioni e che, peraltro, nemmeno ha ancora avuto modo di iniziare davvero ad amministrare Roma.
Con le parole di Gramsci, che ovviamente non era (né avrebbe potuto essere) del Cinque Stelle e che sicuramente oggi sarebbe bollato come “complottista” e “populista” dal Ministero della Verità, “lo Stato quando vuole iniziare un’azione poco popolare crea preventivamente l’opinione pubblica adeguata” (Quaderni del carcere). Questo è il punto. I poteri forti e, con essi, quel Pd che è loro servo fedele e che non fa mistero di tutelare gli interessi del capitale contro il lavoro (leopolde varie con Serra, attacco ai lavoratori del Colosseo, elogi sperticati di Marchionne, ecc.), hanno già deciso: il Cinque Stelle deve essere abbattuto e delegittimato. Perché è di impaccio rispetto a essi.
Non ho mai fatto mistero dei limiti del Cinque Stelle (assenza di una linea cultural-politica precisa, di una chiara forma partitica, ecc.), né dei suoi meriti:
“Come è evidente dal progetto Industria 4.0 ritengo sia necessario lavorare sull’offerta e sulla competitività del sistema industriale perché rende possibile una crescita di lungo periodo. Una volta che il sistema è competitivo riesce a vendere ed esportare e assicura una stabilità alla crescita. Per farlo abbiamo pensato a un’operazione sugli investimenti delle imprese private perché sono molto più rapidi rispetto agli investimenti pubblici”. Carlo Calenda, Ministero Sviluppo Economico, in “Industria 4.0 per rilanciare l’Italia, Milano Finanza 6 settembre 2016.
Uno degli obiettivi chiave dell’operazione Mani Pulite e del conseguente crollo della Prima Repubblica era quello di smantellare il sistema dell’economia mista salvato, per iniziativa di Menichella, dagli americani nel 1946. In una famosa lettera, il futuro governatore della Banca d’Italia invitava gli Usa a tenere in vita l’Iri perché sarebbe stato utile alla rapida ricostruzione del Paese e perché si temeva che l’imprenditoria privata avrebbe attuato una sorta di sciopero degli investimenti.
L’operazione condotta nel biennio ’92-93 ebbe successo e con Amato, Ciampi e Prodi si avviò la rapida dismissione della partecipazioni statali e il conseguente processo di privatizzazione, conclusosi a grandi linee con la privatizzazione di Telecom. Da allora c’è stato il crollo degli investimenti privati e ciò supporta storicamente la tesi di Menichella, che, tra l’altro, era liberale e non certo “socialista”.
Mai scrivere “noi”. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero
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L’indeterminatezza della durata
dello stimolo dai bilanci pubblici – invocato dai keynesiani
per rilanciare l’eurozona – viene usata talvolta per
argomentare
l’inefficacia, anzi la dannosità nel lungo termine delle
politiche di deficit spending. Potrebbe essere vero.
Il problema della sostenibilità delle politiche di deficit spending
Supponiamo di avere un’economia piuttosto chiusa, stagnante, simile all’eurozona, con un grave output gap, dove perciò il PIL è determinato dalla domanda aggregata:
Per stimolare la domanda, il 1° anno costruiamo un ponte (spesa: 100 Mld.). Il PIL sale di più (+1.5%), a 10150 Mld., per l’effetto moltiplicatore (1,5); generando circa 0,4*150 di nuove entrate fiscali; il deficit pubblico finale sarà 100 – (0,4*150) = 40.
L’umanità al suo livello più alto non
ha
bisogno
di uno Stato (Arthur Schopenhauer)
Se l’essenza dello
Stato è la
violenza: è questo l’ammiccante – ovviamente agli occhi
di chi scrive – titolo che Nicola Porro, o chi per lui, ha
voluto dare a un suo articolo inteso a dar conto del pensiero
politico-filosofico di Michael Huemer, autore di un libro,
pubblicato nel 2013 negli
Stati Uniti, che è diventato subito un punto di riferimento
dottrinario ineludibile per i sostenitori di una società
capitalistica in
grado di fare a meno dello Stato, giustamente concepito come
una presenza non solo ingombrante e oppressiva sotto ogni
rispetto (a partire,
ovviamente, da quello fiscale) (1), ma necessariamente
violenta. Il titolo del libro di Huemer recita: Il
problema dell’autorità
politica (Liberilibri, 2015); il sottotitolo è, come si
dice, tutto un programma: Un esame del diritto di
obbligare e del dovere di
obbedire. Diritto di obbligare, dovere di obbedire:
capito il concetto? Scrive Porro:
«Il testo ci spiega su cosa si fonda questa benedetta autorità politica e il suo strumento ultimo, che è la coercizione. In un esempio illuminante, in fondo, Huemer ci dice che si finisce sempre con la violenza fisica. La catena degli ordini di uno Stato su questo si basa. Se non rispetto il semaforo rosso mi fanno una multa. Se non pago la sanzione, la ingigantiscono, magari togliendomi la patente. Se continuo a girare senza patente, mi fermano. E poi magari mi arrestano. Infine, se non accetto di essere tradotto in cella, qualcuno dovrà pur strattonarmi per un braccio, come minimo, e ficcarmi nell’auto che mi porterà in galera. Certo tutto è fatto da un’organizzazione terza, e tutto è concepito con una procedura, che possiamo definire democratica» (2).
In Cina il livello delle spese per la ricerca, il numero delle pubblicazioni scientifiche, quello dei brevetti presentati, si stanno rapidamente accostando a quelli Usa
La Cina,
dopo aver ottenuto diversi anni fa il primato negli scambi
commerciali a livello mondiale, nel 2014 ha raggiunto anche
quello del pil complessivo,
almeno usando il criterio della parità dei poteri d’acquisto.
Le previsioni dell’IMF valutano così che nel 2016 il pil del
paese asiatico ammonterà a 20.880 miliardi di dollari e quello
statunitense a 18.550 miliardi.
La rincorsa cinese si va concentrando ora, tra le altre cose, nell’innalzamento del livello tecnologico della sua economia.
Degli indicatori quali il livello delle spese per la ricerca, il numero delle pubblicazioni scientifiche, quello dei brevetti presentati, si stanno rapidamente accostando a quelli Usa. Per quanto riguarda i vari settori di business, il paese presenta oggi certo ancora dei ritardi su alcuni fronti, ma anche delle sorprendenti avanzate in diverse aree.
Complessivamente, mentre negli ultimi decenni si dava per scontato che gli Stati Uniti fossero i leader tecnologici incontrastati del mondo, adesso la cosa appare messa sempre più in dubbio.
Dei punti deboli sono rappresentati per la Cina ancora, ad esempio, dal settore dei chip e da quello dell’aeronautica.
Una pila di terremotati che forma una lasagna tricolore. La vignetta di Charlie Hebdo, come previsto, ha fatto il giro del web e non solo, ma questa volta l’opinione pubblica si è spaccata in due; per molti è una questione di coerenza, se diviene possibile ridicolizzare la religione lo stesso si deve poter fare dinanzi ad un disastro costato quasi 300 vite umane. E’ il “duro” prezzo della democrazia. Qualcuno però ci è rimasto male domandandosi come sia possibile ridere di eventi tragici come il terremoto che ha devastato il Centro Italia, anche quando di mezzo c’è la libertà d’espressione.
La questione è intricata se si pensa che proprio la libertà d’espressione oggi sembra non essere più un valore tra tanti ma il valore fondante la cosiddetta civiltà occidentale, un valore considerato assoluto (ab-solutus ovvero sciolto, svincolato da ogni cosa) persino di fronte a centinaia di famiglie che piangono i propri cari morti sotto le macerie e ad un intero paese che viene cancellato dalla faccia della terra. Perché la libertà d’espressione è la democrazia, Charlie è la satira, e la satira è la democrazia.
Viene da chiedersi come mai oggigiorno per essere sicura di sé la democrazia deve poter sghignazzare su ogni cosa, e come mai per sentirci liberi e democratici dobbiamo ridere di tutto.
Sarà perché la comicità ha i suoi tempi, in genere brevi, che la leggerezza è divenuta scelta obbligata o persino conveniente.
Tanto tuonò che piovve: dopo reiterate dichiarazioni di
intangibilità dell’Italicum proclamate da Renzi, Boschi, Del
Rio e via
di seguito, il capobanda fiorentino dichiara che si può
benissimo rivedere la legge elettorale. Che problema c’è?
Certo ci
è voluto il richiamo ufficiale del Presidente della
Repubblica tutt’ora in carica, Giorgio Napolitano
(mentre quello nominale
fa come al solito scena muta), ma ormai ci siamo. Come
mai questa “inattesa” svolta? I motivi sono diversi.
In primo luogo, Renzi (illuminato dal Sommo Presidente) butta le mani avanti rispetto alla sentenza della Corte ed ai giochi interni al Pd in vista della sua sentenza (ne abbiamo parlato un po’ di giorni fa): a questo punto, anche una sentenza sfavorevole della Corte sarebbe disinnescata in anticipo (“Tanto avevamo già deciso di rifare la legge elettorale”).
Poi questo serve a prendere all’amo quei pesci bolliti della “sinistra Pd”, non tanto perché portino voti che non hanno, quanto perché qui si sta mettendo male ed andare al referendum con un partito spaccato non fa bene, per cui presentiamolo almeno nominalmente unito.
Poi, in effetti, se il referendum va male e vincono i No c’è davvero il rischio che vincano i 5 stelle, per cui è necessario ricorrere all’ortopedia elettorale per metterci una toppa.
– La vostra nuova formazione politica ha già scelto il nome?
– Chiede la conduttrice.
– SI.
– Quale?
L’ospite sorride.
– Gliel’ho appena detto. SI, Sincerità Italiana. Noi siamo
infatti convinti che la
sincerità sia il valore principale in politica e
nell’amministrazione della cosa pubblica. Ci rivolgiamo agli
elettori che
comprensibilmente hanno perso fiducia nella democrazia
rappresentativa – si gira verso la telecamera – I partiti
tradizionali vi
hanno mentito. I movimenti populisti vi hanno mentito.
Entrambi vi hanno promesso onestà e competenza, ed entrambi vi
hanno deluso. Noi non lo
faremo.
– Perché manterrete la promessa?
– No. Perché noi con sincerità diremo subito agli elettori che
siamo un’associazione a delinquere.
– Cosa?…
Uscito il primo settembre e già in ristampa il libro “Sei lezioni di economia” di Sergio Cesaratto.
Un paio di giorni dopo l’uscita ero con Marco Missaglia, che mi confessava di stare scrivendo un libro pensato, nelle intenzioni, per la “signora Luciana”. Gli ho risposto che Sergio ne aveva appena scritto uno…
In realtà non è proprio così: la “Luciana” di Sergio è
una persona, cittadina impegnata, che ami prendere un libro in mano
e alla quale ci si può quindi rivolgere con un linguaggio più sofisticato. Anche se l’attenzione di Sergio sembra più rivolta alla marea crescente di persone che sui social networks come Facebook cercano di capirci qualcosa di una crisi economica di cui non si vede la fine, e per le quali non è facile orientarsi, tra l’informazione dei media ufficiali – ormai giustamente screditata – e una “controinformazione” spesso delirante.
Il libro è ben scritto e molto godibile. Si parte da un excursus sulla teoria dei classici, l’economia marginalista, e la teoria Keynesiana, per “dare le basi”. La chiave di lettura è quella dell’economista di formazione sraffiana, come è ovvio, e su alcune affermazioni sui marxisti e su Keynes ci sarebbe da discutere. Ma in generale questa prima sezione è ben fatta: mi ha ricordato a volte il bel libro del 1976 “Il valore” di Claudio Napoleoni, che fu la mia introduzione a gran parte di quanto Sergio racconta.
Quando è avvenuta la resa formale dello Stato
Repubblicano nato dalla Resistenza al potere dei
mercati?
La data più importante, per quanto riguarda l'autonomia di bilancio e molte delle conseguenze che ne discendono, è certo il 1992, quando vengono sottoscritti – probabilmente senza neanche capirli fino in fondo, da parte del governo italiano d'allora, strizzato tra Tangentopoli e le stragi mafiose collaterali alla “trattativa” – i trattati di Maastricht. E certo fa oggi riflettere quella miserevole classe politica stretta tra due trattative in cui fa la parte del vaso di coccio orientata com'è – in entrambi i casi – da “prestigiosi esponenti delle istituzioni” che collaborano attivamente con “il nemico”. A Palermo come a Bruxelles…
Ma la data della resa formale, quella in cui “la politica” getta la spugna e accetta consapevolmente – e per sempre – la primazia dei “mercati” incarnata dalle scelte dell'Unione Europea, è certamente il novembre 2011, quando nel giro di pochi giorni lo scettro del comando passa d'autorità nelle mani di Mario Monti, ex Commissario Ue frettolosamente nominato da Napolitano senatore a vita (9 novembre) per dare una parvenza di “gesto istituzionale” alla già programmata investitura come premier (16 novembre).
C’è stata una parentesi
nella
storia del capitalismo in cui il sociale è riuscito ad
emergere dall’economico. Aveva rilevanza, in quanto sociale,
per il riconoscimento
giuridico che lo stato gli attribuiva in forza della sua
esistenza come popolazione disciplinata dal lavoro salariato.
In funzione della mediazione
con l’economico, lo stato aveva ricevuto legittimazione dal
sociale. La democrazia, che come parvenza funzionava fin
dall’800, era stata
giuridicamente ridefinita in senso sostanziale con una
articolazione istituzionale orientata a garantire il benessere
del sociale. Le politiche
economiche e fiscali, pur racchiuse in uno spazio definito
dall’economico, realizzavano questo obiettivo attraverso la
crescita e lo sviluppo.
Agenti dello sviluppo erano le imprese regolate dallo stato,
che interveniva sui processi economici stabilendo vincoli per
il mercato, e sosteneva la
domanda creando quel reddito aggiuntivo che il capitale non
poteva o non voleva assicurare, permettendo la riproduzione
delle condizioni di crescita e
di sviluppo.
Questa parentesi è ormai chiusa, e se ne è aperta un’altra. Il sostegno dello stato alla domanda, come condizione di crescita e sviluppo, è venuto meno, e il sistema cerca di garantire l’offerta spingendo all’indebitamento e abbassando i prezzi mediante una infaticabile ristrutturazione del sistema produttivo. Flessibilizza il lavoro per abbatterne i costi; riduce l’immobilizzo dei capitali fissi e dei mezzi di produzione; limita il valore unitario delle merci mediante una spinta frammentazione e diversificazione. Ma crescita e sviluppo restano costruzioni illusorie, e le innovazioni concettuali sono finalizzate a sanzionare le interferenze del sociale, che ostacolerebbero lo stato in quanto garante dell’economico.
Pochi
testi, per capire la situazione romana del movimento 5
stelle, sono utili e illuminanti come La guerra civile
in Francia di Marx. In
molti penseranno che, così scrivendo, si esagera e che, ad
esempio, usare l’autore del Capitale in questo contesto è come
leggere
le controversie sul parcheggio nel cortile del condominio
attraverso i classici del diritto internazionale. Nel caso,
chi lo sostiene sbaglia.
Perchè la vicenda romana, non solo quella recente del
movimento 5 stelle, ma anche le puntate precedenti, ci dice
molto delle trasformazioni di
territori in cui si agitano forze sia locali che globali. Poi
ci sono coloro che pensano che l’uso di Marx è qualcosa di
pretenzioso, o
vetero o inutile. Fortunatamente, l’analisi politica usa solo
ciò che è utile e non quello che, comunemente, si ritiene
consono.
Tornando, appunto, a Marx è interessante notare come l’analisi dell’evoluzione dello stato francese, quella avvenuta dopo la rivoluzione del 1789, costruisca categorie di analisi utili anche per il nostro caso. Marx, parlando della trasformazioni della forma stato, successive alla rivoluzione francese la inquadra in questo modo:
La NATO cerca in tutti i modi di dividere l’Europa dalla Russia e tiene l’Italia al guinzaglio, coinvolgendola suo malgrado in una guerra fredda sempre più calda. Costellata di basi americane, l’Italia si ritrova così alla mercé degli Stati Uniti.
La NATO fa veramente gli interessi dell'Europa? Le continue esercitazioni militari ai confini con la Russia, le costose missioni di guerra in giro per il mondo non daranno poi evidentemente tanta stabilità e sicurezza ai Paesi europei.
Dal canto suo l'Italia, sotto il controllo militare a stelle e strisce del suo territorio, si ritrova, mani legate, ad agire anche contro i propri interessi, continuando a sottoscrivere le sanzioni alla Russia.
"Siamo vittime di un'autocastrazione nei confronti dei nostri stessi interessi. L'Europa si sta pestando i piedi, si sta mutilando", ha sottolineato in un'intervista a Sputnik Italia il giornalista e documentarista Fulvio Grimaldi.
* * * *
Fulvio, secondo lei che cosa vuol ottenere la NATO con la sua espansione nell'Europa orientale ai confini con la Russia?
È un fenomeno estremamente preoccupante anche perché sta per arrivare probabilmente alla presidenza degli Stati Uniti Hillary Clinton, una persona che si è sempre dimostrata radicale nei rapporti con gli altri Paesi e in particolare con la Russia.
Intervista a Vezio De Lucia, tra i massimi urbanisti italiani e memoria storica della Capitale. «I Giochi del 1960 furono una strepitosa occasione per gli interessi fondiari. Ancora stiamo pagando il lascito di quell’evento "sportivo"». «La prima cosa da fare è spezzare le connessioni tra l’amministrazione e quelli che chiamiamo poteri forti. In romanesco, i palazzinari»
Vezio De Lucia non è solo uno dei più grandi urbanisti italiani ma è anche la memoria storica di Roma, del suo territorio, della sua trasformazione sotto gli appetiti dei potenti, della sua anima.
* * * *
Cosa pensa dell’attuale giunta capitolina, crede che Virginia Raggi sia nel posto giusto?
Intanto se c’è, è meglio che resista. Credo sia presto per dare un giudizio definitivo, mi pare che la stampa si stia scatenando contro al di là del dovuto. Certo però, dato che uno degli elementi che lo caratterizzavano era l’impegno prioritario alla trasparenza, ci si sarebbe aspettati dal M5S, soprattutto a Roma, l’adesione al precetto evangelico «Sì sì, no no, il resto viene dal maligno». E invece non è così purtroppo: non vediamo prese di posizione nette e coerenti rispetto agli impegni presi prima. Questa incertezza, questa ambiguità e reticenza legittimano chi osserva che il movimento sta andando verso l’equiparazione con gli altri partiti.
Enrico Donaggio, Direi di no. Desideri di migliori libertà, Feltrinelli, 2016, 160 pp., € 18
Se non esci da te stesso, non puoi sapere chi sei; o, detto altrimenti, bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola – scriveva José Saramago. Occorre cioè saper mettere una certa distanza tra sé e la realtà, per vedere la realtà (anche di se stessi). Di più: non si riesce a comprendere il mondo se si perde la capacità di osservare l’insieme e si rinuncia alla possibilità di farlo. E più il capitalismo e la tecnica (è una delle loro abilità biopolitiche) procedono nella logica autopoietica di suddivisione della realtà (del lavoro, della conoscenza, del sapere, della vita), meno abbiamo noi la capacità e la possibilità di vedere l’insieme e quindi capire dove il capitalismo e la tecnica (ciò che rimette insieme le parti prima suddivise) ci stanno portando. E ancora: per (provare a) cambiare il mondo occorrono sempre due elementi preliminari: essere coscienti che il mondo potrebbe andare meglio di come è; e, insieme, avere la consapevolezza (la capacità e la possibilità, ancora) di poterlo fare. Non da soli ovviamente, ma in-comune con altri con cui si riesce a condividere – grazie alla condivisione di capacità e possibilità critica – la capacità e la possibilità di farlo. Così ricomponendo (ma per scelta nostra, non del capitalismo o della tecnica) le parti in cui il sistema ci ha suddiviso e ha scomposto la nostra vita e la realtà, verso un pro-getto finalmente umano e consapevole (e non capitalista o tecnico – cioè inconsapevole).
“Mettiamocelo
bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun
vento federalista di cambiamento. La sostanza delle
politiche economiche non è cambiata. L’eurozona resta
sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le
economie più
fragili e per i lavoratori di tutto il continente. Il
sentiero che stiamo percorrendo è palesemente
insostenibile”. L’economista
Emiliano Brancaccio non ha mai aderito allo storytelling
renziano sulle possibilità di rilancio del progetto di
unificazione europea.
Anzi, nel commentare le recenti decisioni di politica
monetaria e le proposte di gestione del post-Brexit,
Brancaccio mette in luce l’affiorare
di crepe sempre più profonde nell’assetto istituzionale e
politico dell’Unione.
* * * *
Professore, la settimana scorsa Mario Draghi ha dichiarato che per i prossimi mesi la BCE non immetterà ulteriori dosi di liquidità nell’economia europea. Possiamo affermare che nel direttorio di Francoforte questa volta Draghi ha perso, e che hanno vinto i “falchi” dell’austerity guidati dal tedesco Weidmann?
Il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti maggiormente in difficoltà.
"La Gran Bretagna ha fatto una cosa giusta: sganciarsi da una realtà economica fallimentare". "Non si parla più di Brexit perché i dati sono positivi. Mostrare che chi esce sta meglio, è qualcosa che i media non possono permettersi di raccontare"
Alberto Bagnai,
professore di
Politica economica, avanguardia italiana del fronte
internazionale di economisti contrari alla moneta unica, già
autore in tempi non sospetti
del libro “Il tramonto dell’euro”: in Gran Bretagna
aumentano i consumi interni e gli investimenti esteri. Non
c’è male
come inizio dell’apocalisse…
Di questa vicenda mi colpisce il fatto che gli economisti, sia accademici sia appartenenti a istituzioni come il Fondo monetario internazionale, sistematicamente tengano un doppio discorso. Stiamo vedendo che nel breve periodo la Gran Bretagna è ripartita. Non è una sorpresa: il Fondo monetario internazionale aveva detto chiaramente che la sterlina era sopravvalutata. Con la Brexit il Regno Unito è riuscito a far aggiustare il suo cambio senza particolari sforzi aggiuntivi di politica monetaria, ma semplicemente con un effetto psicologico: una mossa da maestro. È schizofrenico il fatto che gli economisti dicano che una moneta è sopravvalutata, cioè che costa troppo, e nel contempo preconizzare catastrofi se quella moneta scende. Ci fosse un po’ più di etica professionale tra gli economisti, molti dei quali agiscono in conflitto di interessi, ci sarebbero meno titoli ad effetto e meno turbolenze di breve periodo su mercati.
Nei
Passages Benjamin nel contemplare la costruzione
finita della Torre Eiffel scriveva: «come le grandiose visioni
offerte dalle nuove
architetture in ferro della città […] rimasero a lungo
privilegio esclusivo degli operai e degli ingegneri, così
anche il
filosofo, che vuole conquistare qui le prime visioni, deve
essere un lavoratore indipendente, libero da vertigini e, se
necessario, solo». Nel
leggere le pagine di Mario Tronti, Dello spirito libero.
Frammenti di vita e di pensiero (Il Saggiatore, 2015),
non si può non
riconoscere uno spirito affine: indipendente, libero da
vertigini e solitario. Una voce consapevole però che non è più
tempo di
conquistare le prime visioni: «questo è un tempo che non
merita pensiero. Descriverlo è triste, come un pomeriggio
d’inverno
quando il buio arriva presto, e non c’è angoscia, magari!,
solo serena disperazione» (p. 17). Se in passato per Benjamin
le grandi
visioni si stagliavano davanti ai suoi occhi, per Tronti esse
sono ormai alle nostre spalle, come il Novecento, il sole
dell’avvenire. Con una
precisazione doverosa. Non c’è qui del pessimismo, come
qualcuno ha insinuato, quanto piuttosto un salutare
disincanto. Qualcosa di cui
è sempre difficile farsi carico, senza sprofondare in
rassegnazione e cinismo a buon mercato. Prospettiva non facile
da accettare, dunque. A
tal proposito, vengono in mente le belle parole di Rita di
Leo, impegnata anche lei a riflettere sugli esperimenti
profani del secolo scorso.
Chissà, magari qualcuno che legge questo blog si sarà chiesto perché consideri intollerabile e sospetta la campagna ossessiva e sguaiata contro la Raggi cui vengono dedicate più pagine di quelle dell’11 settembre. C’è un assessore forse indagato? Bene se ne chiedano le dimissioni, le esigano i giornali, si muovano i cinque stelle, ma costruire una massiccia offensiva politica su un peccato iniziale e tutto sommato veniale o almeno considerato tale in questa Italia è grottesco. Ricordo en passant che nella giunta Marino c’erano 4 assessori contemporaneamente “attenzionati” dalla magistratura, che in quella di Sala a Milano si è già dovuto dimettere un assessore e che lo stesso sindaco, ineffabile guida del disastro materiale ed etico dell’Expo, è nel registro degli indagati per aver mentito nella sua autocertificazione, senza parlare degli stipendi d’oro e dell’affollamento famelico di leopoldini a Palazzo Marino. O che a Pistoia è indagata l’intera giunta in blocco.
Però non è la scandalosa disparità dei media a farmi malmostoso, quanto le ragioni di tutto questo che certo ha radici in questioni locali come l’accanita resistenza delle cupole di potere e magna magna della capitale, la paura del guappo di Rignano che ormai si attacca a qualunque cosa salvo che a quella giusta, ovvero il tram (penserei a un altra cosa però non si può dire) e last but not least la rabbia del famelico ambiente che vuole fare il pieno di denaro pubblico con le olimpiadi, ma riflette la profonda e anzi mortale ostilità delle forze legate all’oligarchia europea contro qualsiasi cosa rischi di rompere le uova nel paniere del loro disegno reazionario.
La notizia che la Banca d’Italia ha raggiunto nel mese di agosto scorso il nuovo record del saldo debitorio verso l’Eurosistema TARGET2 ha provocato in alcuni siti e blog la consueta analisi di un imminente avvio di una nuova crisi dell’euro, di un sistema che spinto da queste forze centrifughe si avviava verso la propria dissoluzione, come nel 2012.
Abbiamo già parlato ormai numerose volte del sistema TARGET2, descrivendolo in sostanza come il sistema che permette alle banche centrali dei Paesi aderenti alla moneta unica di scambiarsi in tempo reale le risorse che occorrono per il funzionamento di ciascun sistema finanziario nazionale. Il saldo che ogni fine mese viene diffuso da ciascuna banca centrale nazionale, e ricavabile dal database della Bce è espressione della posizione debitoria o creditoria verso la Banca Centrale Europea di ciascuna Banca Centrale Nazionale.
Il dato appena diffuso rileva per la Banca d’Italia una posizione debitoria nei confronti dell’Eurosistema di circa 327 miliardi di euro, in aumento di 35 miliardi rispetto alla posizione debitoria di fine luglio. Il dato aggiorna nuovamente ed abbondantemente il record raggiunto all’apice della crisi dell’euro del 2012, che fu di circa 290 miliardi, prima che Mario Draghi annunciasse l’intenzione della Banca Centrale Europea di fare qualsiasi cosa fosse nel mandato per preservare l’esistenza della moneta unica.
Sulla piazza del Campidoglio da qualche giorno penzolano tre cappi che i cinque stelle hanno confezionato con le loro stesse mani e a cui adesso, per il più classico dei paradossi, rischiano di rimanere impiccati. Il primo cappio è quello della cosiddetta “trasparenza totale”, maneggiata ingenuamente quasi fosse un sinonimo di “onestà” ed indicata come l’unico antidoto capace di diradare quel porto delle nebbie che è invece la politica italiana. Se si sostiene, però, che trasformare il comune in una “casa di vetro” rappresenti la sola garanzia di una amministrazione corretta, è inevitabile poi che ogni seppur minima opacità venga trattata dai propri nemici come un indizio di malagestione della cosa pubblica. Un’ingenuità che, tanto per fare un esempio, lo scorso 5 settembre ha dato modo al PD (al PD!!!) di trasformare l’audizione della Raggi e della Muraro da parte della commissione parlamentare Ecomafie in un interrogatorio pubblico sui rapporti tra la giunta Raggi e il direttorio, sul contenuto delle loro mail private inviate a Di Maio, sui dissidi interni al M5s, ecc. Domande che non c’entravano nulla con gli scopi della commissione d’inchiesta (che dovrebbe occuparsi della gestione del ciclo dei rifiuti) ma a cui tanto la Sindaca che l’Assessore, salite da sole sul banco degli imputati, non hanno potuto non rispondere per evitare di apparire reticenti e, per l’appunto, poco trasparenti.
Ambrose Evans-Pritchard analizza la delicatissima posizione del presidente della BCE, Mario Draghi. Come ci attendevamo, la sua “svolta” in materia di politica monetaria è servita solo a comprare tempo all’eurozona, senza poter risolvere i problemi sottostanti. Nonostante l’utilizzo delle armi a disposizione (tassi negativi, QE) e in un corrispondenza di una situazione mondiale favorevole (crollo del prezzo dell’energia), l’eurozona non è riuscita ad uscire dalla trappola deflattiva, né a creare crescita. Quello che manca è una politica fiscale espansiva, ma i paesi periferici debitori non se la possono permettere, mentre i paesi creditori come la Germania non hanno alcuna intenzione di farla. Bloccata in questo groviglio inestricabile, l’eurozona non può che rimanere passiva in attesa che la prossima crisi globale le assesti un dolorosissimo colpo di grazia
Gran parte dell’eurozona sta scivolando sempre più in una trappola deflazionistica nonostante i tassi di interesse negativi e i 1000 miliardi di euro di Quantitative Easing dalla Banca Centrale Europea, lasciando l’area valutaria priva di strumenti di emergenza nei confronti della prossima recessione globale.
La BCE sta per esaurire le sue munizioni e appare sempre più impossibilitata a fare di più sotto i vincoli giuridici del suo mandato. La BCE ha rivisto le previsioni di crescita per i prossimi due anni al ribasso – adducendo le incertezze relative alla Brexit – e ha ammesso che ci sono poche possibilità di raggiungere l’obiettivo di inflazione del 2% entro questo decennio – insistendo sul fatto che ora spetta ai governi spezzare l’attuale circolo vizioso.
Mai scrivere “noi”. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero
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Il fine del libro di Cesaratto
è condividere conoscenza economica per una più democratica
partecipazione politica ai destini del tempo che ci è toccato
in sorte
da vivere. Corre l’obbligo di ricordare l’abusata citazione
del biografo di Keynes (Skidelsky) il quale, dell’economista
britannico,
raccontava il sottile piacere che provava di origliare -ai
party- le conversazioni tra membri dell’ élite, conversazioni
che i soggetti
conducevano senza rendersi conto di star replicando null’altro
che sistemi di idee forgiate da qualche economista a loro
ignoto. Se si
è un pensatore economico come Keynes, questo potere sulle
menti che fanno il mondo, certo fa piacere. Ma se si è un
cittadino, corre
l’obbligo di capire meglio quali sono questi sistemi di idee,
come sono strutturati al loro interno, quali conseguenze
portino, sia per lo
sviluppo del sistema di pensiero che diviene poi così
condizionante per il pubblico dibattito, sia e soprattutto per
gli effetti che i tramiti
politici ne danno nella applicazione all’organizzazione
economica che poi impatta sulle nostre forme di vivere
associato.
Credo sia questo ad aver mosso il professore di Siena a darci le sue sei lezioni, approfondite e comprensibili pur se rigorose e poco inclini alla narrazione, soprattutto rivolgendosi a quanti hanno animo critico verso lo stato economico (quindi politico) della nostra realtà e però scelgono la via facile ma sterile dell’olismo negativo (no a questo, no a quello ed in definitiva no a tutto) senza penetrare il dovuto, la complessità delle idee che poi portano alle scelte.
In un
recente articolo
pubblicato su MicroMega Guido Iodice replica
ad un’intervista
di Emiliano Brancaccio in cui quest’ultimo sostiene che
«l’Unione non è più riformabile in senso
progressista» e che dunque – dato che «il percorso che stiamo
percorrendo è palesemente insostenibile» – la
sinistra dovrebbe cominciare a guardare “oltre l’euro”, per
così dire. Brancaccio esclude l’ipotesi di un’uscita
unilaterale dalla moneta unica finalizzata al recupero della
sovranità nazionale, che ritiene estranea alla tradizione del
movimento operaio,
auspicando piuttosto «forme di coordinamento dei paesi
euro-mediterranei» (che però l’economista ritiene poco
fattibili) o,
meglio ancora, «un sistema di gestione delle relazioni
internazionali finalizzato al controllo dei movimenti di
capitale, fuori e dentro
l’Europa, specialmente da e verso quei paesi che adottino
misure di dumping sociale e fiscale».
La critica di Iodice alle argomentazioni di Brancaccio verte su tre punti in particolare. Primo, non è vero che l’eurozona non è riformabile perché l’euro è già cambiato tanto rispetto a quello fondato nel 1992 e a quello che abbiamo visto nella prima fase della crisi: negli ultimi anni abbiamo ottenuto il quantitative easing (QE), la “flessibilità di bilancio”, ecc. Secondo, la riforma del sistema monetario internazionale proposta da Brancaccio è addirittura più ambiziosa (e dunque più difficile da realizzare) di una riforma progressista dell’eurozona.
Un saggio di geopolitica e economia mondiale di Domenico Moro
Dopo
“Charlie Hebdo”, si parlò di 11 settembre europeo e Renzi
diede subito la disponibilità per un intervento militare in
Libia.
La conferma la diede Hollande, dopo il 16 novembre dichiarando
a Versailles “ La Francia è in guerra”. E come ogni guerra,
evidenzia l’autore, “la prima vittima è la verità”. Come
svelarla è “obiettivo complicato dal mutamento
del quadro storico, a partire dal radicalismo islamico”.
“La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione priva di spirito. E’ l’oppio dei popoli. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale.” Karl Marx
Karl Marx, più che mai attuale il suo pensiero. Nell’attuale disastro delle stragi terroristiche che colpiscono in modo strategicamente asimmetrico il Pianeta, mirando soprattutto ai Paesi in cui domina l’imperialismo occidentale, siamo tutti invitati a riflettere sull’aspetto fondante del fanatismo religioso, su qualsiasi versante esso esploda. L’Islam, inteso nella versione dell’integralismo islamico, è nell’occhio del ciclone, come elemento scatenante della guerra all’Occidente. Le religioni tutte, però da sempre,anche la cristiana che invita alla tolleranza e al perdono hanno fatto stragi di innocenti. La storia documenta i danni del fanatismo religioso in ogni “credo”. Liberarsi dalla dipendenza oppiacea, citata da Marx, che genera false aspettative fino ad essere la causa dominante persino di genocidi è un assunto che impegna i comunisti, ma che deve impegnare tutti i popoli.
Il direttore della diga Riad Izz al Din Ali ha dichiarato a un’agenzia internazionale di notizie che il lavoro per la messa in sicurezza della diga affidati all’impresa Trevi inizieranno il primo ottobre.
Il contratto firmato tra l’impresa e il governo italiano lo scorso marzo per un valore di 296 milioni di dollari ha una durata di un anno e mezzo. Gli ingegneri e tecnici impegnati nei lavori di consolidamento sono protetti da 500 militari. Riad Izz al Din Ali ha tenuto a precisare che, in quanto civile, non è in grado di dare un giudizio sulle recenti minacce terroristiche alla diga, a chi vi lavora e a chi la protegge. Solo gli Stati Uniti, le truppe italiane, le forze irachene e quelle curde Peshmerga hanno accesso alle informazioni di intelligenza riguardo la sicurezza.
A inizio settembre fonti di intelligence hanno rivelato l’intenzione del Califfato di attuare un attentato in grande stile nell’impianto in Iraq, dove la ditta di Cesena si accinge a svolgere lavori di consolidamento. Pronti una dozzina di kamikaze e 200 combattenti con artiglieria
E’ allarme rosso, quindi, nonostante le dichiarazini e il silenzio delle autorità militari e per le centinaia di militari e civili italiani che si trovano alla diga di Mosul. Qualificate fonti di intelligence, citate dal sito Wikilao, parlano di un “warning specifico e dettagliato” inerente al progetto di un attentato in grande stile alla diga da parte dell’Isis, “il più grosso attacco mai concepito dal Califfato nello scenario iracheno”.
Si considerino queste due affermazioni: "La piccola produzione è stata schiacciata dall'invasione del capitale" e "la piccola produzione è stata schiacciata dall'invasione delle multinazionali". Molti considererebbero le due proposizioni più o meno identiche, la seconda solo come forma più specifica per esprimere la prima. Ma si sbagliano: c'è una differenza abissale tra queste due affermazioni.
Il capitale come rapporto sociale ha determinate tendenze intrinseche; queste si manifestano attraverso le azioni di agenti economici, ciascuno dei quali è costretto ad agire in modi particolari dalla logica del sistema. Per esempio il fatto che i capitalisti accumulino non significa necessariamente che desiderino farlo, ma è la logica che glielo impone. I capitalisti in breve non sono liberi di fare quello che vogliono, anche loro subiscono la logica del sistema; anche loro sono esseri alienati sotto il capitalismo, interpretano semplicemente una sceneggiatura dettata dal sistema. Karl Marx era giunto al punto di riferirsi al capitalista come capitale personificato.
Sotto questo aspetto le multinazionali sono entità non dissimili dal singolo capitalista. Esse non sono sinonimo del capitale, ma sono agenti attraverso le cui azioni, dettate dalla logica del sistema, si risolvono le tendenze immanenti del capitale. Trattare le multinazionali come incarnazione del "capitale" significa cancellare l'intera concezione del capitale con le sue tendenze intrinseche, spazzare via l'intero discorso sulla logica e sulla "spontaneità" del sistema, operare con una teoria molto differente.
In Italia negli ultimi 30 anni hanno "riformato" per ben 8 volte le pensioni... non c'è stato governo di destra o di sinistra che non abbia smontato mattone per mattone la struttura portante del sistema pensionistico conquistato con le lotte operaie e studentesche dell'autunno caldo del 1969. Il fine è stato quello di far sparire un diritto sancito dagli articoli 36 e 38 della Costituzione: chiudere il ciclo lavorativo della propria vita con dignità e serenità. Per questo fine si sono inventate bugie clamorose sul costo pensionistico più alto d'Europa, statistiche mistificanti, falsi buchi di bilancio dell'Inps, fondi privati e pubblici aperti o chiusi, false illusioni...
Oggi si perpetua l'ultima truffa chiamata APE ( anticipo pensioni) dove il lavoratore che ha pagato tutti i contributi e potrebbe andare in pensione in modo dignitoso, deve invece aspettare fino a 67 anni di età (legge Fornero) oppure andare con 3,7 mesi di anticipo dando alle banche ed assicurazioni per tutta la vita (20 anni) una parte della propria pensione : su una pensione di 1500 euro mensile circa 300 euro al “prestito bancario”.
Ma perchè si sta perpetrando anche questo misfatto?
Prima considerazione:
- l'ultima legge anticostituzionale ( quella Fornero), ha preso a pretesto il buco dell'INPS per portare la realtà pensionistica allo sfacelo,
Il grido di battaglia di governo e Confindustria danneggerà la vita e l’economia italiane. Invece è possibile prendere questo percorso da un’altra strada, grazie alla leva fiscale
L’insistenza di Confindustria e governo sulla «produttività del lavoro» potrebbe far sperare in un loro ritorno ai Classici dell’economia politica: se non a Karl Marx, almeno ad Adam Smith: «Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma».
Un concetto che si ritrova nel primo articolo della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Si potrebbe anche sperare che così si voglia riconoscere al lavoro di essere l’unico «fattore produttivo» capace di produrre un sovrappiù.
Temo, tuttavia, che non sia così. Lo slogan del Presidente della Confindustria, il suo «grido di guerra» ampiamente ripreso, è «Vogliamo una più alta produttività per pagare salari più alti»: una esortazione a che, prima di tutto, i lavoratori si mettano a lavorare di più.
Il vero slogan dovrebbe invece essere: «Pagheremo salari più alti perché vogliamo una più alta produttività».
Dalla crisi del ‘29 Italia e Germania uscirono con il fascismo e il nazismo; gli Stati Uniti proprio con una politica di alti salari, con il «Fordismo» di Henry Ford e di Franklin Delano Roosvelt, cui Gramsci dedicò grande attenzione.
Come per ogni thriller che si
rispetti, partiamo dai fatti, o meglio, dai comunicati stampa.
Il 9 settembre, il Ministero del Lavoro rende noto i dati
relativi alle
comunicazioni obbligatorie relative ai licenziamenti e alle
assunzioni del II trimestre 2016 (aprile-giugno). In sintesi,
il quadro che emerge si
può facilmente riassumere nel seguente modo: calano le
assunzioni e aumentano i licenziamenti complessivi (+7,4% su
base annua).
Nel periodo considerato, infatti, i licenziamenti sono stati 221.186, (15.264 in più, rispetto al secondo trimestre 2015). Da notare, che sono aumentate quelli promossi dal datore di lavoro (+8,1%) mentre si sono ridotte le dimissioni del lavoratore (-24,9%). Si cominciano così a registrare gli effetti della liberalizzazione dei licenziamenti padronali, introdotta dal Jobs Act.
Fra le assunzioni risultano invece in netto aumento, del 26,2%, gli avviamenti in apprendistato, mentre calano vistosamente (- 29%) le assunzioni con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Si sta così verificando un effetto sostituzione, che ha cause ben precise. Da un lato, come era prevedibile, la riduzione dei forti incentivi fiscali, ridotti di quasi 2/3 dal 1 gennaio 2016, ha penalizzato il ricorso al contratto a tutele crescenti, fiore all’occhiello del Jobs Act, dall’altro, il maggior ricorso all’apprendistato (a basso costo) è il frutto dell’avvio del progetto Garanzia Giovani. In altre parole si sostituisce lavoro a termine (perché tale è il contratto a tutele crescente) con lavoro precario sottopagato.
Che la Brexit fosse
un’opportunità per rimescolare le carte del potere politico ed
economico in Europa, era facile intuirlo. Meno facile era
prevedere che i
primi segnali in questo senso sarebbero arrivati in fretta,
innanzi tutto con la notizia di un ripensamento nel settore
delle politiche europee volute
in particolare dagli Stati Uniti, e per questo sponsorizzate
da Londra. Si spiega così il tentativo di affossare
definitivamente il progetto di
Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, il
famigerato Ttip, che pure era da tempo sgradito a pezzi
importanti delle amministrazioni
tedesca e francese. Contrariamente a quanto è stato scritto,
non è ancora detta l’ultima parola[1],
e tuttavia assistiamo finalmente a prese di posizioni
impensabili solo qualche settimana fa, quando si doveva ancora
evitare di irritare agli inglesi:
quando occorreva offrire loro di tutto e di più per
convincerli a restare.
Qualche timido segnale si registra anche sul fronte delle politiche economiche complessive, e a monte degli schieramenti formatisi a supporto dell’austerità ottusamente imposta dai tedeschi. Si tratta di segnali molto deboli e soprattutto non riconducibili a comportamenti univoci, ma comunque degni di essere registrati, se non altro per tenere viva la speranza di un cambio di rotta.
Gli inglesi, per molti aspetti più dei tedeschi, sono gli interpreti più intransigenti del neoliberalismo, ovvero dell’idea che l’ordine economico deve essere lasciato liberi di autoregolarsi, e che allo Stato si deve affidare il solo compito di prevenire o risolvere i fallimenti del mercato.
La femminilizzazione della sfera pubblica, di per sè fondata sull’esclusione delle donne, può comportare l’attenuazione e perfino la scomparsa del conflitto tra i sessi. Così come nell’illusione amorosa, essa fa balenare la possibilità di una ‘tregua’ ma, proprio come per l’amore, lascia aperto il dubbio che finisca per essere invece, come ha scritto Pierre Bourdieu, la forma più insidiosa, perché invisibile, della violenza simbolica
Lo spazio
pubblico, che ha nel suo atto fondativo l’esclusione delle
donne, si è andato sempre più femminilizzando, ma sembra al
medesimo
tempo diminuita progressivamente la conflittualità tra i
sessi, proprio là dove l’impatto con saperi e poteri
marcatamente
maschili — l’economia, la politica, la scienza, ecc.— faceva
pensare che sarebbe riemersa con forza. Permangono pressoché
inalterati luoghi storici, come la scuola e i servizi sociali,
dove una predominante presenza femminile è garantita dalla
continuità con
quella “naturale” o “divina missione,” che vuole la donna
“madre per sempre, anche quando è vergine,”
oblativamente disposta alla cura, anche fuori dalla mura
domestiche. Ma la
femminilizzazione è andata
oltre, spingendosi fin nelle pieghe del tessuto sociale,
esaltata come fattore di innovazione e risorsa preziosa da
un sistema economico, politico,
culturale che risente del declino di antichi steccati tra
sfera privata e sfera pubblica, natura e cultura,
sessualità e
politica — quelle linee di demarcazione
che hanno permesso finora alla comunità storica degli uomini
di pensarsi
depositaria di un marchio di umanità superiore.
Sui giornali più vicini alla Confindustria, come Il sole24ore, non c’è giorno che non si elogi il “valore D,” il contributo di qualità relazionali che le donne possono portare ai livelli alti del management, in soccorso di un sistema produttivo sempre più flessibile e immateriale.
C’è un fatto curioso e significativo. Benché sia evidente e foriero di nuove disfatte, il vuoto desolante nel quale ci troviamo stenta a essere riconosciuto nella sua radicalità, per così dire epocale. Così il discorso sulla «morte della politica», che potrebbe e dovrebbe offrire le premesse per ripensare in tempo utile natura e funzioni delle soggettività della sinistra – compreso questo piccolo glorioso giornale – in un contesto totalmente mutato dagli anni della cosiddetta prima Repubblica e del bipolarismo mondiale della Guerra fredda, questo discorso è derubricato a faccenda di ordinaria amministrazione, quando non frainteso nel ricorso a puntualizzazioni fini a se stesse.
Queste ultime – la politica non muore perché tutto è politica – lasciano il tempo che trovano, e il tempo è prezioso.
Noi cerchiamo di correre contro di esso perché sentiamo che è in gioco anche una questione in senso largo generazionale. Chi non ha vissuto gli anni Sessanta e Settanta, chi è venuto all’età della ragione quando la politica era già, nel mondo, lo scatenamento neoliberale degli spiriti animali e, in Italia, la mercificazione berlusconica delle istituzioni – in una parola la post-democrazia – ha motivo oggi di identificare l’esistente con l’orizzonte del possibile o di scambiare tutt’al più le proprie aspirazioni soggettive per istanze critiche.
Ma in questa polverizzazione molecolare la sinistra evapora.
Non c’è dubbio che l’impegno di Massimo D’Alema nel sostenere il “no” al prossimo (?) referendum sulla revisione costituzionale costituisca un motivo di imbarazzo per il resto del fronte del no, in quanto la presenza di un personaggio come D’Alema fornisce molti argomenti polemici, anche piuttosto scontati, all’avversario. Matteo Renzi infatti non ha perso occasione per rinfacciare allo stesso D’Alema la sua posizione di leader del “passato”, cioè esponente del vecchiume politico che il renzismo si è incaricato di spazzare via in nome del “nuovo”. Per la sua polemica, Renzi si è fatto fornire dai suoi “spin doctor” anche un colpo basso, rinfacciando a D’Alema di aver solo firmato, e non scritto, il suo opuscoletto di una ventina di anni fa, quello in cui si proponeva di trasformare finalmente l’Italia in un “Paese normale”.
Invocare la “normalità” ha un solo e sicuro effetto pratico, cioè proclamare la propria anormalità. La “anomalia italiana” è diventata un’espressione proverbiale che si risolve nel conferire al provincialismo uno status ideologico. Di questo provincialismo ideologico risente anche il dibattito sul referendum costituzionale. Alcuni si sono spinti a chiedersi a cosa serva una Costituzione scritta, visto che gli Inglesi ne fanno a meno. Gli Inglesi hanno il self-control e l’understatement, perciò non hanno bisogno di norme scritte, se non come formalizzazione a posteriori. Altro che abolire il senato, si può abolire addirittura la Costituzione. Cosa non si farebbe per diventare “normali”.
Il lavoratore smart diventerà il migliore sfruttatore di sé stesso
Il Nuovo Ordine Mondiale negli Usa degli anni ’70, a guida Kissinger, aveva già determinato un nuovo ordine del lavoro. Il dispotismo del capitale (occultato dietro la finzione della società universalistica) sull’organizzazione del processo sociale di produzione e di lavoro necessitava di una stabilità certa, attuabile mediante riforme istituzionali funzionali alla cancellazione dell’antagonismo reale di classe tra capitale e lavoro. Si intendeva in tal modo rendere obsoleta, e quindi impraticabile, la conflittualità tra gli interessi della produzione e riproduzione del capitale e quelli della sopravvivenza subalterna della forza lavoro. Quest’ultima si sarebbe definitivamente trovata imbrigliata da un rinnovato “ordine” neocorporativo, presumibilmente al riparo dalla minaccia di un’accumulazione mondiale in calo progressivo. Di fronte alla crisi ineluttabile e ciclica del sistema, la lotta di classe apparve per il momento vinta dalla classe borghese, essendo prioritario e dominante il conflitto tra capitale finanziario, speculativo (“fratello nemico”), e quello industriale. Prendeva così l’avvio il processo di deindustrializzazione di alcuni paesi – tra cui l’Italia – e di mobilità e flessibilizzazione della forza-lavoro, contemporaneamente all’istituzionalizzazione e cioè neutralizzazione dei sindacati riconosciuti, con la marginalizzazione di quelli più radicali e combattivi.
Da qualche tempo si discute sul grave problema dei compiti a casa. Molti genitori e qualche insegnante ne teorizzano il rifiuto. L'ultima di queste discussioni, in ordine di tempo, è nata dalla lettera di un padre, pubblicata su facebook, che informava gli insegnanti della propria decisione di non far fare i compiti delle vacanze al figlio:
Non c'è niente di nuovo, naturalmente, nel rifiuto della fatica e della disciplina che comporta l'acquisizione del sapere. E' ovvio che è più divertente fare le cose divertenti, che è più interessante fare le cose per le quali proviamo un interesse immediato. Di tutto ciò ha parlato uno dei testi fondamentali della cultura occidentale, "Le avventure di Pinocchio", quando Collodi descrive il paese del balocchi. Un posto che ovviamente è molto più divertente e interessante della scuola. Collodi sapeva però la verità che i genitori e gli insegnanti di cui si discorre hanno dimenticato, o non hanno proprio mai saputo: il paese dei balocchi ha uno scopo preciso, quello di trasformare i nostri figli in somari bastonati e sfruttati. Fossi complottista, mi verrebbe da dire che l'attenzione mediatica che si dà a iniziative come quella del padre di cui sopra, è il risultato di un piano per trasformare l'Italia in un paese di somari bastonati e sfruttati.
(Nel 1808 Hegel assunse l'incarico di rettore del Ginnasio di Norimberga. Nel settembre del 1809, a conclusione del primo anno scolastico, tenne il seguente discorso sul significato degli studi classici. Paolo Di Remigio ci propone questa traduzione commentata. Leggendola siamo stato colpiti dalla lucidità e dall'attualità delle parole di Hegel su cosa siano cultura ed educazione. Per questo ci sembra interessante proporvelo. Ringraziamo l'amico Di Remigio per questa opportunità. Il testo appare anche su "Appello al popolo". M.B.)
In
occasione del conferimento solenne dei premi che l'Autorità
Suprema conferisce agli alunni distintisi per i loro
progressi al fine di
gratificarli e ancor più di spronarli, sono incaricato da
Graziosissimo Ordine di illustrare in un pubblico discorso la
storia del Ginnasio
nell'anno passato, e di toccare quegli argomenti di cui può
essere utile parlare per la loro relazione al pubblico.
L'invito alla deferenza con
cui ho da compiere questo incarico è proprio della natura
dell'oggetto e del contenuto, che consiste in una serie di
liberalità del
Re o di loro conseguenze, e la cui illustrazione
implica la necessità di esprimere la più profonda gratitudine
per esse –una
gratitudine che, insieme al pubblico, mostriamo alla cura
sublime che l'Autorità dedica agli Istituti pubblici di
istruzione1 . – Ci
sono due rami dell'amministrazione pubblica per il cui buon
ordinamento i popoli usano
essere più di ogni altra cosa riconoscenti: buona
amministrazione della giustizia e buoni istituti di
istruzione; infatti soprattutto di questi
due rami, dei quali uno tocca la sua proprietà privata in
generale, l'altro la sua proprietà più cara, i suoi figli, il
privato
comprende e sente i vantaggi e gli effetti immediati, vicini e
individualizzati.
Questa città ha riconosciuto il bene di un nuovo ordinamento scolastico con tanta più vivacità quanto maggiore e più universalmente sentito era il bisogno di un cambiamento2 .
Il nuovo Istituto ha poi avuto il vantaggio di seguire Istituti non nuovi, ma antichi, durati più secoli; così gli è si potuta connettere la pronta rappresentazione di una lunga durata, di una permanenza, e la fiducia corrispondente non è stata disturbata dal pensiero opposto che il nuovo ordinamento sia qualcosa di soltanto fuggevole, di sperimentale, – un pensiero che spesso, in particolare quando si fissa negli animi di coloro ai quali è affidata l'esecuzione immediata, finisce con lo svilire di fatto un ordinamento a un mero esperimento3.
1. Remember,
remember the 11th of
September
Paul Craig Roberts è stato il Sottosegretario al Tesoro del presidente Reagan. Plurilaureato in economia nelle più prestigiose università statunitensi, è un conservatore vecchio stampo, nemico giurato dei "neoconservatori" che imperversano a Washington a partire dalla presidenza di Bill Clinton. Fu molto interessante e drammatico il suo intervento al simposio "Global WARning", organizzato da Pandora TV, Megachip e Alternativa nel 2014.
[da pandoratv.it/?p=2835]
Rafforzati nel loro potere dall'amministrazione di Bush jr e imposti ad Obama durante il suo primo mandato, i neocons sono stati parzialmente emarginati durante il secondo con l'allontanamento di Hillary Clinton dalla Segreteria di Stato e dalla rimozione dalla direzione della CIA (con transito nelle patrie galere evitato con due anni di libertà vigilata) del potente generale David Petraeus, quello che ha detto senza vergognarsi che al-Qa'ida doveva essere il migliore alleato di Washington in Siria.
Dalla diga che crolla
a Tripoli bel
suol d’amore
La signora Pinotti rincorre famelica e trafelata il suo modello ideale, Hillary Clinton. Anche a dispetto della progressiva caducità del modello, minato da un concorso di demenza sanguinaria ossessiva e conseguente disfacimento neurofisico. Stesse attenta, la Pinotti. Intanto, all’ombra di tanto vertice di potenza criminale, la muselide de noantri gira vorticosamente nella sua ruota impazzita, sparando alla rinfusa contro chi sa di risultare sgradevole ai suoi domatori oltremare, anche a scapito dei disastri socioeconomici e dei rischi geopolitici che in parallelo infligge al proprio paese. 500 armigeri spediti a far finta di proteggere una diga che si va sbriciolando a Mosul, ma che il direttore del circo USraeliano le ha intimato di tener pronti per sostenere, contro l’avanzata dell’esercito nazionale iracheno e relative milizie popolari, la presa della seconda città araba irachena da parte dei pretoriani peshmerga del narcoboss curdo Barzani.
Forze speciali – con garanzia di anonimato e oblio in caso ci rimettano la ghirba, in cambio di stipendio da magistrato di seconda classe – che si aggirano sottobraccio a quelle Usa, britanniche, francesi, nelle zone contese della Siria, per assicurarsi che non troppo male sia fatto agli ascari curdi di Rojava (assistiti, anzi, nella pulizia etnica di terre arabe da incorporare) e neppure ai terroristi ingentiliti dal cognome “moderati” e, quando capita, anche per dare istruzioni e una mano a chi, con autobombe o kamikaze, rimedia alle batoste subite sul campo facendo saltare per aria aggregati di donne, uomini e bambini a Damasco.
Ci sono una serie di equivoci su cui il Pd galleggia e su cui è utile spendere qualche osservazione.
Spesso mi capita di discutere con colleghi storici (più o meno vicini al partito di Renzi) che danno questa lettura dello scontro in atto: l’estrema sinistra (da Sel ai centri sociali) è l’erede della sinistra rivoluzionaria degli anni venti o degli anni sessanta, che, al solito, taccia di tradimento la sinistra riformista rappresentata dal Pd e non si rende conto del pericolo del M5s che è una riedizione del “diciannovismo” se non proprio del fascismo. Insomma la solita storia dell’irragionevole sinistra rivoluzionaria che aggredisce la povera sinistra riformista, rea di affermare una visione realista e non ideologica della politica.
A parte la formidabile trovata del M5s come equivalente dei fascisti (per caso avete visto qualche squadra d’azione del M5s? Avete indizi di una prossima marcia su Roma?), è tutta questa chiave di lettura ad essere un po’ delirante.
Renzi come nuovo Turati o nuovo Berlinguer? Spero stiamo scherzando. Bertinotti, Vendola e Ferrero come Gramsci e Bordiga? Superato il momento di inevitabile ilarità, approfondiamo una parola che ha caratterizzato tutta la storia del Pd e, prima ancora del Pds-Ds: riformista.
Poniamoci questo problema: il Pd si può definire riformista ed in che senso?
La B61-12, la nuova bomba nucleare Usa destinata a sostituire la B-61 schierata in Italia e altri paesi europei, è stata «ufficialmente autorizzata» dalla National Nuclear Security Administration (Nnsa), l’agenzia del Dipartimento dell’Energia addetta a «rafforzare la sicurezza nazionale attraverso l’applicazione militare della scienza nucleare».
Dopo quattro anni di progettazione e sperimentazione, la Nnsa ha dato luce verde alla fase di ingegnerizzazione che prepara la produzione in serie.
I molti componenti della B61-12 vengono progettati e testati nei laboratori nazionali di Los Alamos e Albuquerque (Nuovo Messico), di Livermore (California), e prodotti (utilizzando in parte quelli della B-61) in una serie di impianti in Missouri, Texas, Carolina del sud, Tennessee. Si aggiunge a questi la sezione di coda per la guida di precisione, fornita dalla Boeing. Le B61-12, il cui costo è previsto in 8-12 miliardi di dollari per 400-500 bombe, cominceranno ad essere fabbricate in serie nell’anno fiscale 2020, che inizia il 1° ottobre 2019. Da allora cominceranno ad essere sostituite alle B-61.
Secondo le stime della Federazione degli scienziati americani (Fas), gli Usa mantengono oggi 70 bombe nucleari B-61 in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre), 50 in Turchia, 20 rispettivamente in Germania, Belgio e Olanda, per un totale di 180.
Il concorso 2016 sta generando un caos non previsto dai suoi artefici. Proponiamo un’analisi all’inizio del nuovo anno scolastico
In questi giorni di metà settembre ricomincia per studenti, insegnanti, dirigenti e personale ATA la scuola. Tuttavia non siamo solo all’inizio di un nuovo anno scolastico, perché quest’anno sarà il debutto della riforma tanto propagandata dal capo del governo. Sebbene il governo detenga ancora nove deleghe e molti insegnanti troveranno la loro sede per quest’anno soltanto fra settembre e la pausa natalizia, la scuola pubblica modellata dalla legge 107 preannuncia una nuova era. L’era del caos strumentale. Prendiamo l’ormai mitologico concorso del 2016, salutato dai think tank liberisti come lo strumento che avrebbe portato in cattedra solo i candidati meritevoli. Allo stato delle cose è un palese fallimento: clamorosi ritardi nelle correzioni, commissioni mal retribuite, bocciature per la metà dei candidati allo scritto, posti non disponibili per i pochissimi vincitori, numeri poco chiari per il triennio sul quale spalmare le assunzioni. Basta guardare, ad esempio, alla Regione del grande leader.
Il caso della Regione Toscana rappresenta una prospettiva esaustiva per fare il punto della situazione sul fallimento del concorso per docenti del 2016. In Toscana i posti contingentati in funzione del concorso per il triennio 2016/2019 e per ogni ordine di scuola e grado sono 4641. Di questi 2600 riguardano la scuola secondaria di primo e secondo grado.
Il Movimento 5 Stelle, da movimento radicale a partito d'ordine
Sin dalla sua ascesa nello scenario politico italiano, il Movimento 5 Stelle rappresenta una chimera misteriosa, fin troppo giudicata e mai compresa fino in fondo.
Dopo anni di studi politici sul “partito-non-partito” ci avviciniamo finalmente alle condizioni ottimali per la comprensione più piena di un’organizzazione complessa, nuova e non certo trasparente come l’M5S. Tale situazione si sta gradualmente realizzando in questo momento storico e politico di confusione e sostituzione delle élites dirigenti. Il centro-destra annientato, il PD in piena crisi d’identità, i pentastellati che sbancano le amministrative: il momento non potrebbe essere più propizio.
Facendo un passo indietro, possiamo affermare che la grande vittoria del Movimento è stata quella di concretizzare a livello politica l’utopia di rigeneramento morale tragicamente fallita con Mani Pulite. Il punto di forza del M5S è stato dunque la sua capacità di raggruppare organicamente legami e aggregazioni sociali trasversali intorno a un progetto di netta cesura politica col passato.
Tuttavia, come sempre succede in politica, è solo con una sana dose di realismo che si può mettere a confronto il programma statuario e politico di un partito con la sua realizzazione effettiva.
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Prime note su un “nuovo municipalismo” in Europa a partire dal caso di Barcellona
La definizione di un “nuovo
municipalismo” muove da un fatto politico significativo: i
risultati delle elezioni amministrative spagnole del maggio
2015, che hanno visto
l’affermazione di sindaci e liste espressi da plataformas
ciudadanas. In alcune grandi città della Penisola
Iberica – tra
cui Madrid, Barcellona, Valencia, Saragozza, La Coruna – quei
sindaci e quelle coalizioni sono ora al governo. In altri
rappresentano la
principale forza di opposizione. Questo fenomeno è legato al
ciclo di movimenti di massa che hanno occupato la scena
sociale dal 15M 2011 in
poi, ed è ovviamente correlato alla nascita e allo sviluppo di
nuove forze politiche, anche su scala nazionale. Podemos
in particolare
è, in quasi tutti i casi, una componente di tali coalizioni.
Ma vanno pure considerati alcuni fattori più specifici.
In primo luogo – ed è questa la prima tesi che intendiamo sviluppare – l’emergere delle “piattaforme civiche” è connesso alle trasformazioni strutturali che hanno investito le città contemporanee nell’epoca della finanziarizzazione del capitalismo, e all’impatto che le politiche di austerity hanno determinato sulle aree urbane nella recente gestione europea della crisi. È questala ragione per cui l’esperienza di Barcelona en Comú, che ha portato all’elezionea sindaca di Ada Colau, già portavoce del movimento per il diritto alla casa PAH, si è rivelata così interessante: non solo perché è stata in grado di suscitare effetti potenti, sia sull’immaginario sia sulla realtà politica, ma anche perché ha prodotto un rinnovato livello di attenzione sul tema delle forme alternative di governo locale in tutta Europa.
1. Per
chi dice che l'euro non è il problema ma che lo sono (solo)
l'austerità e il fiscal compact.
Inutile precisare che chi, a questo punto, non è in grado di comprendere il senso dei grafici che vedremo più sotto non dovrebbe più intervenire a cuor leggero nel dibattito mediatico e, ancor più, politico.
Questo perché, sull'euro-che-non-è-il-problema-senza-austerità-brutta, basta vedere i dati più significativi, e confermativi delle dinamiche INEVITABILI illustrate dal rapporto Werner - e che Carli, dico Carli, ben comprendeva.
2. Questi dati illustrano come funziona(va) l'Unione monetaria con il mero "valore di riferimento" del disavanzo pubblico al 3% e in assenza di una disoccupazione strutturale indotta in via fiscale, che debba attestarsi a livelli, (come tali irreversibili), tali da consentire un'intensa svalutazione interna.
Cioè indicano quali sono gli inevitabili problemi di a/simmetrie che discendono da una disciplina della moneta unica che, in assenza dei vietatissimi (dai trattati) trasferimenti federali, non si doti di criteri automatici di correzione improntati alla logica del gold standard (tanti euro-oro escono, tanti vanno recuperati e, se non lo si è fatto, occorre che il pareggio di bilancio fiscale dreni liquidità in modo da non consentire l'accumulo ulteriore di debito commerciale con l'estero via spesa privata, limitando le importazioni e sperando, in un secondo tempo, che la conseguente deflazione porti a una miglior competitività di prezzo relativo, ottenuta riducendo il costo del lavoro).
Nell’attuale contesto di
deterioramento
economico e politico, nessun quadrante merita maggiore
attenzione di quello mediorientale, candidato ad essere
l’innesco di quella possibile
“guerra costituente” che ridisegnerebbe gli assetti globali:
in Siria, in particolare, l’attrito tra il declinante impero
angloamericano e le potenze emergenti è massimo.
L’avvicinamento tra Putin ed Erdogan è la principale novità
strategica
accorsa nell’estate: ne è seguita una campagna mediatica che
presenta Aleppo come “nuova Sarajevo”, vittima di un brutale
assedio che invoca l’intervento occidentale. Gli sviluppi sono
appesi alle presidenziali americane: l’eventuale elezione di
Hillary
Clinton renderebbe certo il tentativo di imporre una zona
d’interdizione di volo sulla Siria, con alte probabilità che
il conflitto
degeneri in una guerra di larga scala.
Negli ultimi due anni il Medio Oriente è stato spesso oggetto dei nostri articoli, per due ragioni: primo, è l’area geopolitica dove l’Italia coltiva i suoi naturali interessi, secondo, come abbiamo sovente evidenziato nelle nostra analisi, la regione si è via via guadagnata la funzione di “Balcani globali”, quell’instabile regione, cioè, idonea a giocare sullo schacchiere internazionale lo stesso ruolo della penisola balcanica nel 1914.
La riduzione di esseri umani a merce ha trovato difensori agguerriti e autorevoli fino a tempi molto recenti
L’esigenza di ridurre alcuni gruppi umani in schiavitù per migliorare la condizione di altri è ben presente nella cultura oligarchica antica e moderna. Ne fu assertore, in pieno secolo XIX, il fior fiore dell’élite politica sudista negli Stati Uniti d’America. Basti pensare alle Remarks di John Calhoun (1838), principale ideologo della secessione sudista nonché assertore del «modello ateniese a Charleston».
L’abrogazione della schiavitù in colonia fu sancita per la prima volta dalla Convenzione nazionale a Parigi nel febbraio del 1794, non senza resistenze e ambiguità. Nel frattempo la Francia repubblicana aveva quasi completamente perso il controllo delle sue colonie, per cui quella abrogazione rimase lettera morta. L’iniziativa teneva dietro ad una lunga e dolorosa storia di schiavismo, la cosiddetta «tratta», su cui è uscito di recente presso il Mulino un importante volume di Salvatore Bono: Schiavi, una storia mediterranea (secoli XVI-XIX). La Seconda Repubblica francese si pose daccapo il problema e lo affrontò sin da subito (febbraio 1848) ad opera di alcuni parlamentari di diversa ispirazione politica, il più noto dei quali fu Henri Wallon, autore di una memorabile Histoire de l’esclavage .
Ma la pratica della schiavitù, che l’Europa aveva trasferito nel Nuovo Mondo, appunto nel Nuovo Mondo aveva continuato a fiorire.
Per il prossimo autunno-inverno i riformatori degli studi umanistici in Italia, fra cui non pochi membri dell’AMA (l’AMA di Siena, cioè Antropologia del Mondo Antico, non l’AMA di Firenze o Roma), hanno calendarizzato una serie di incontri e dibattiti nei quali si dimostrerà che la seconda prova della maturità classica va cambiata o magari abolita. Ci sono addirittura degli zeloti che percorreranno lo Stivale scuola per scuola. Sarà come nelle primarie americane: la squadra arriva, si accampa, mette in scena il suo numero e riparte. E via così fino alla convention finale. Il tour insisterà presumibilmente sui seguenti concetti: la traduzione di un brano dal greco o dal latino è un esercizio sterile, che non educa al bello, e che peraltro i ragazzi copiano da internet. Occorre dunque proporre traduzioni più brevi, precedute da cappelli introduttivi che spieghino circostanze e contesto e seguite da domande di verifica. Cosicché il maturando non sarebbe valutato solo in base alla capacità di tradurre, ma anche – attenzione – in base alle conoscenze generali sul mondo antico che appunto emergerebbero dall’esercizio di verifica.
Naturalmente nessuno sano di mente metterebbe in piedi un programma-monstre di convegni e di missioni apostoliche solo per promuovere una miglioria tecnica a un esame di diploma. E infatti la posta in gioco non è questa. La miglioria tecnica cela in realtà un attacco mortale alla versione in quanto tale, alla traduzione in quanto tale, poiché è chiaro che azzoppare la lingua alla prova di maturità significa azzopparla per tutto il quinquennio.
Che il libero mercato tenda inevitabilmente al monopolio è una legge economica difficilmente contestabile persino dall’economia politica borghese neoclassica. Che persino l’alimentazione e i suoi connessi legati al mondo della produzione agricola vengano governati esclusivamente dalle logiche privatistiche, è anch’essa un’evidenza ormai secolare. Nonostante Expo e gli intenti retorici sull’accesso al cibo e nuove forme di produzione alimentare, a stabilire forme, tempi e costi dell’agricoltura era, fino al 15 settembre, un ristretto gruppo di mega aziende multinazionali di sementi e pesticidi. Da quel giorno, di fatto, l’intero comparto agricolo globale, almeno in Occidente, è controllato da una sola grande azienda. La recente acquisizione della monopolista americana degli Ogm Monsanto da parte del colosso chimico tedesco Bayer si inscrive nella battaglia mondiale in corso tra le grandi corporation del settore, una guerra che la crisi economica, come ogni crisi economica, ha incentivato e, in qualche modo, reso inevitabile. Un’acquisizione da 66 miliardi di dollari, che era stata preceduta negli ultimi mesi, sempre nel settore agrochimico, da altre due mega acquisizioni: quella tra Dow Chemical e DuPont, e quella avvenuta nelle scorse settimane tra il colosso cinese della chimica ChemCina e la svizzera Syngenta.
Ma ciò avviene in ogni settore.
Libia. L'operazione italiana Ippocrate aprirà un ospedale militare per curare i feriti delle Brigate di Misurata, responsabili di abusi e violenze fin dal 2011
Chissà cosa pensano dell’«operazione Ippocrate» i libici di Tawergha. Cinque anni fa, i 40mila cittadini di pelle nera che popolavano questa città furono oggetto di pulizia etnica: parecchi uccisi e imprigionati, tutti gli altri deportati in massa proprio dalle milizie dichiaratamente razziste di Misurata che l’Italia va a soccorrere. In effetti dei molti gruppi armati libici ai quali l’operazione Nato «Unified Protector» nel 2011 fece da forza aerea, le Misrata Brigates – decine di migliaia di combattenti, già parte essenziale della compagine islamista Fajr sostenuta dal Qatar – sono forse il peggio. Altro che gli «eroi in ciabatte», prima protagonisti della «rivoluzione» libica nel 2011, poi della «lotta contro Daesh a Sirte» nel 2016.
Dall’agosto 2011 Tawergha, in fondo un simbolo della «nuova Libia», è una città fantasma e semidistrutta. Gli abitanti fuggirono in massa mentre i «ribelli» vittoriosi uccidevano molti di loro, ne imprigionavano altri – accusandoli di stupri senza prove e chiamandoli mercenari – e davano fuoco alle case, con il pubblico consenso dell’appena insediato primo ministro libico Mahmoud Jibril, capo del Consiglio nazionale di transizione (Cnt). I fuggiaschi si rifugiarono nel sud della Libia e in campi profughi sparsi in diverse città oppure si spostarono in Tunisia ed Egitto. Da allora hanno condotto una vita grama.
La Californian Ideology e il sogno dell'automazione totale nascondono un segreto. E cioè che il lavoro non è finito: al contrario, è sempre di più. Solo che è talmente invisibile che a nessuno viene in mente che vada pagato
Un paio di settimane fa
ho visto la puntata Il pianeta dei robot di Presa
diretta, una delle poche trasmissioni Tv che fanno
inchiesta in Italia. Bella
trasmissione, e se siete interessati potete rivederla qui. Peccato
che abbia accreditato la solita versione apocalittica della
cosiddetta “ideologia californiana”.
Per Richard Barbrook e Andy Cameron, autori venti anni fa dell’omonimo libro, la cosiddetta Californian Ideology è quel mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie su cui fonda l’intero immaginario della Silicon Valley. Questo amalgama degli opposti si rispecchia nella fede indiscussa nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie dell’informazione, nella credenza che la robotica e l’automazione renderanno inutile la forza lavoro, e nella previsione che con la cancellazione di milioni di posti di lavoro (dai trasporti alla logistica, fino alla sanità e tutto il resto) non ci sarà modo di guadagnare da un’occupazione. A meno che non ci sia un reddito di base universale.
In questa miscela di cibernetica, economia liberista e controcultura libertaria, frutto della bizzarra fusione tra la cultura bohémienne di San Francisco e la nuova industria hi-tech, in effetti il reddito di base è un tema di discussione; per Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson, autori de La nuova rivoluzione delle macchine, Google, Facebook, Apple e gli altri giganti dovrebbero inoltre pagare più tasse, argomento attualissimo anche in Europa dopo lo scontro tra la Commissione Ue e il governo irlandese sui maxi-sconti fiscali garantiti per anni alla Apple.
Durante tre decenni l’Italia è stata il fulcro di un pensiero economico molto avanzato - sia filosoficamente che politicamente - ove si intrecciavano tematiche classiche e keynesiane. Poi dalla fine degli anni 80 tale filone venne accantonato, non per volontà dei suoi principali ispiratori. Il declino coincise con la deriva politico-morale del paese (Sylos Labini, 2002, 2006) assieme all’omologazione subalterna della didattica e della ricerca ai criteri inventati nelle università statunitensi con irreparabile degrado della ricchezza del proprio bagaglio culturale.
E’ mia convinzione che Paolo Sylos Labini abbia costituito, fin dalla metà degli anni 50, il polo di maggior rilievo per la formazione e la crescita di quell’età dell’oro del pensiero economico che in Italia si venne formando nel quarto di secolo successivo alla Liberazione e alla fondazione della Repubblica. La pubblicazione della famosa monografia Oligopolio e progresso tecnico (1956, 1962, 1967) ebbe, in breve tempo, una risonanza internazionale, come testimonia la profonda disamina dello studio svolta -congiuntamente al lavoro di J.S. Bain Barriers to New Competition -da Franco Modigliani (1958) sulle pagine del Journal of Political Economy ancor prima della traduzione in inglese. Il valore universale di Oligopolio, comprovato dalle molteplici traduzioni, è stato ulteriormente sottolineato nel 1993 con la ristampa dell’opera da parte della casa editrice Augustus M. Kelley nella serie Reprints of Economic Classics.
Boris mi ha fornito poco fa
un compendio di come
la vede. È un
profeta del tempo. Farà brutto ancora,
dice. Ci saranno
ancora calamità, ancora morte,
disperazione. Non c’è il
minimo indizio di cambiamento.
Il cancro del tempo ci
divora. […] Non c’è scampo.
Non cambierà stagione
(H. Miller, Tropico del cancro).
Io ho solo sedici anni,
e il mondo non lo
conosco
ancora bene, ma una cosa sola posso affermare con
sicurezza: se io sono pessimista, un adulto che non lo
sia,
in questo mondo, è proprio un cretino
(H. Murakami,
L’uccello che girava le viti del mondo).
Quando ho saputo della squallida e tragica vicenda di Tiziana Cantone un solo concetto si è fatto fulmineamente strada nella mia testa, quello di violenza. Sì, la violenza sistemica (economica, politica, militare, psicologica) di cui ho tanto scritto in tutti questi anni. Certo, anche il concetto di Sistema mondiale del terrore, magari in una sua declinazione più particolare e puntuale (“microfisica”, per dirla con Foucault), è tutt’altro che fuori luogo rispetto alla fattispecie qui considerata.
A proposito della strappo tra Renzi ed il duo Merkel-Hollande all'ultimo vertice UE
Sul Corriere della Sera di ieri Federico Fubini, trascurando comprensibilmente l'inutile Hollande, si è occupato dei rapporti tra Renzi e Merkel dopo il vertice UE di Bratislava. Il suo parere è che tra i due capi di governo sia in atto un "dialogo fra sordi".
Siccome la cosa va avanti da tempo, la domanda da porsi è la seguente: quanto fumo e quanto arrosto c'è dietro le scintille tra i due?
La tesi di Fubini è piuttosto semplice: i capi dei governi di Roma e Berlino hanno due agende diverse, a tratti necessariamente contrapposte, in ogni caso dominate da esigenze interne.
Nonostante lo shock della Brexit, Merkel vuol congelare l'UE fino al 2017, quando l'attenderanno difficili elezioni politiche. Elezioni nelle quali potrebbe anche dover rinunciare alla candidatura, qualora la CSU bavarese gli togliesse l'appoggio. E certo i pessimi risultati della sua CDU in Meclemburgo- Pomerania e domenica scorsa a Berlino non l'aiutano.
Renzi ha invece bisogno di dare il senso di un certo cambiamento sulla questione dell'immigrazione e, ancora più importante, di una sostanziale copertura tedesca ad una politica di bilancio non troppo rigida. In ballo c'è l'esito del referendum.
Subito dopo aver demolito lo stato libico, gli Usa e la Nato hanno iniziato, insieme alle monarchie del Golfo, l’operazione coperta per demolire lo stato siriano, infiltrando al suo interno forze speciali e gruppi terroristi che hanno dato vita all’Isis
Ogni tanto, per fare un po’ di «pulizia morale» a scopo politico-mediatico, l’Occidente tira fuori qualche scheletro dall’armadio. Una commissione del parlamento britannico ha criticato David Cameron per l’intervento militare in Libia quando era premier nel 2011: non lo ha però criticato per la guerra di aggressione che ha demolito uno stato sovrano, ma perché è stata lanciata senza una adeguata «intelligence» né un piano per la «ricostruzione».
Lo stesso ha fatto il presidente Obama quando, lo scorso aprile, ha dichiarato di aver commesso sulla Libia il «peggiore errore», non per averla demolita con le forze Nato sotto comando Usa, ma per non aver pianificato the day after. Obama ha ribadito contemporaneamente il suo appoggio a Hillary Clinton, oggi candidata alla presidenza: la stessa che, in veste di segretaria di stato, convinse Obama ad autorizzare una operazione coperta in Libia (compreso l’invio di forze speciali e l’armamento di gruppi terroristi) in preparazione dell’attacco aeronavale Usa/Nato.
Le mail di Hillary Clinton, venute successivamente alla luce, provano quale fosse il vero scopo della guerra: bloccare il piano di Gheddafi di usare i fondi sovrani libici per creare organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana e una moneta africana in alternativa al dollaro e al franco Cfa.
Nozze d’oro, quelle tra Bayer, re delle aspirine, e Monsanto, regina delle sementi. Ma è lecito un matrimonio del genere? Commentando in agosto un’altra mega-fusione, quella tra Dow e DuPont, Margrethe Vestager, commissario europeo alla competizione, ha detto con una certa solennità: “La vita degli agricoltori dipende dall’accesso ai semi e ai pesticidi a prezzi competitivi. Dobbiamo essere sicuri che le fusioni in atto non conducano a prezzi più alti o a minor innovazione”. In teoria, per diventare operativi, agli accordi serve l’approvazione delle autorità di vigilanza sul mercato e la concorrenza di vari paesi, primi fra tutti Stati Uniti ed Unione Europea. Tuttavia, nessuno mette in dubbio l’esito positivo delle procedure. Non solo per la potenza di fuoco dei colossi o per i loro fatturati, quanto per i soldi spesi in attività di lobby. Dagli Stati Uniti, Opensecrets rileva che nell’ultimo decennio Monsanto e Bayer insieme hanno speso 120 milioni di dollari per ottenere dai centri di potere politico degli Usa decisioni favorevoli ai loro affari
L’annuncio è stato dato in contemporanea a Leverkusen (Germania) e a St. Louis (Stati Uniti), ed aveva più il sapore della storia d’amore che d’affari: Bayer, re dell’aspirina, sarebbe andata a nozze con Monsanto, regina delle sementi. Superato il periodo delle trattative hanno annunciato al mondo che si fonderanno per diventare un’unica entità che si occuperà contemporaneamente di farmaceutica, sementi e pesticidi. Strana mescolanza se non fosse che per adattarsi ai bisogni dell’agroindustria le sementi appartengono sempre di più alla chimica, che alla natura.
Il prof. Sapir spiega i dati dei sondaggi francesi, che mostrano l’avanzata dei candidati “sovranisti” per le elezioni presidenziali del prossimo anno, tanto a “destra” quanto a “sinistra”, con un totale che potrebbe facilmente superare la metà dei voti francesi. Dall’altra parte, però, domina un fronte in declino ma ancora compatto: quello dei sostenitori dello status quo e della subalternità, il fronte dei cosiddetti “europeisti” e moderati di entrambe le parti, che per Sapir rappresentano la vera destra estrema in Francia
I sondaggi sui candidati, effettivi o potenziali, alle elezioni presidenziali dell’aprile 2017 si susseguono a ritmo ormai rapido. Per quanto si possano avere dei dubbi o legittimi sospetti su questo argomento, a causa del modo in cui vengono poste le domande e al fatto che possano essere un po’ costruite, ad esempio per il fatto che si menziona poco la categoria dell’incertezza, questi sondaggi riflettono un’atmosfera politica particolare che sembra destinata a radicarsi nelle prossime elezioni. Questa atmosfera permette di capire certi spostamenti politici, certe manovre da bassa cucina come si usa dire, che ora tendono ad accelerare.
I sovranisti in maggioranza?
Il primo punto che traiamo da questi sondaggi è che c’è una maggioranza di francesi, forse la maggioranza assoluta, che al primo turno si appresta a votare candidati che si possono definire “sovranisti”.
di Daphna Whitmore
Il volume di John Smith sull’imperialismo è un lavoro innovativo che getta una luce inedita sul super-sfruttamento del sud globale. Daphna Whitmore di Redline lo ha intervistato a proposito del suo libro
DW: Innnanzitutto, vorrei ringraziarti per aver scritto Imperialism in the twenty-first century. Si tratta di un argomento imponente e il tuo libro prende in considerazione un materiale amplissimo e di grande interesse – quanto tempo ha richiesto un simile lavoro?
JS: Alla fine degli anni Novanta, la globalizzazione della produzione e il suo spostamento, a livello globale, verso i paesi a basso reddito stavano prendendo piede su scala così vasta che era impossibile non notarlo; il che valeva anche per ciò che stava guidando tali processi, vale a dire gli elevati livelli di sfruttamento disponibili in paesi come il Messico, il Bangladesh e la Cina. Era indispensabile una teoria in grado di spiegare tutto questo, ma per rendersi conto di ciò che stava accadendo erano sufficienti un paio di buoni occhi. Era naturale studiare il comportamento delle multinazionali industriali, le TNC [Transnational corporation, n.d.t.] non finanziarie, considerato che si trattava dei principali agenti e beneficiari della globalizzazione – ed è appunto ciò che si stava facendo! Del resto, anche una formazione di base comprendente la teoria marxista del valore ci spingeva a prestare attenzione ai cambiamenti nella sfera della produzione… Per tutte queste ragioni, è stato uno shock scoprire che il marxismo, o meglio i marxisti, avevano ben poco da dire riguardo a questi fatti inediti.
Da Zero Anthropology (account twitter che vi suggeriamo di seguire) traduciamo l’estratto di un saggio che traccia un parallelelismo tra l’imperialismo attuale e quello dell’era vittoriana. Nella prima parte l’autore fa una sorta di tagliente antropologia del piddino, e scopriamo che l’appiattimento e il conformismo della cosiddetta “sinistra” verso le posizioni del potere capitalista era già stato ben individuato e descritto negli anni ’90 negli Stati Uniti (nota: il Partito Democratico di cui si parla è quello americano). Nella seconda parte l’autore interpreta la Storia attuale come una riedizione o una continuazione (in declino) dell’imperialismo vittoriano ottocentesco
Contro la classe
lavoratrice: Le politiche
identitarie nell’era neo-vittoriana
Il neo-vittorianismo non serve solo a distrarre la politica verso le questioni della moralità e dell’identità, ma anche a offuscare le basi della crescente disuguaglianza. Se ci concentriamo sul Partito Democratico e sul suo abbandono della classe lavoratrice nel corso degli ultimi quaranta anni, Adolph Reed Jr. (professore di scienze politiche all’Università di Pennsylvania) sembra aver inteso fin dall’inizio come tutte queste questioni siano collegate tra loro — sebbene lui non usi l’espressione “neo-vittorianismo”, lo descrive con altre parole. Parlando dei democratici e dei “liberals” i generale, scrive:
“la loro capacità di dimostrare il più sublime fervore per i più vuoti e insipidi luoghi comuni, la loro tendenza a fare dei modi un feticcio trascurando la sostanza, a cercare le soluzioni tecniche ai problemi politici, la loro capacità di trascurare il crescente massacro sociale nelle stesse città in cui vivono mentre cercano i locali migliori dove bersi un buon caffè con le focaccine, la loro propensione ad estetizzare l’oppressione delle altre persone chiamandolo attivismo, il loro riflesso di storcere il naso e accigliarsi di fronte a un conflitto e, più di tutto, la loro inettitudine e inaffidabilità nel corso delle crisi” (Reed, 1996).
Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi?, Laterza, Roma-Bari 2016, 262 pp., 24 euro (Scheda libro)
La crisi economica globale che si è innescata dopo lo scoppio della bolla sub-prime (2007) rappresenta un fenomeno di portata storica eccezionale, che sta modificando alla radice gli equilibri interni alle società occidentali, acuendo le diseguaglianze e rallentando la mobilità sociale, in particolare in paesi come l’Italia. “Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi?” di Francesco Sylos Labini analizza i limiti e le responsabilità della disciplina economica portati alla luce dalla crisi, ma esamina anche quale dovrebbe essere il ruolo della scienza nella comprensione dei principali problemi economici e nell’individuazione di soluzioni originali.
La teoria neoclassica – il paradigma economico dominante – non solo ha dimostrato la propria incapacità predittiva a fronte di eventi di così vasta portata, ma ha fattivamente contribuito a generare le condizioni materiali che hanno favorito la crisi. Sylos Labini sottolinea, ad esempio, che questa abbia promosso le privatizzazioni delle industrie statali e il processo di deregolamentazione degli ultimi decenni, poiché queste avrebbero dovuto garantire il raggiungimento della massima efficienza in termini economici generali; al di là di un certo rigore formale, tuttavia, i modelli matematici che hanno giustificato le politiche neoliberiste sono basati su una serie di assunzioni teoriche distanti dalla realtà e prive di riscontro empirico (pp. 66-67).
La prova della vera agenda dell'Impero del Caos in Siria è in un documento del 2012 della Defense Intelligence Agency: un atto di fondazione del 'Califfalso'
Dimenticatevi di queste interminabili riunioni tra Sergei Lavrov e John Kerry; dimenticatevi lo sforzo della Russia per evitare che il caos regni in Siria; dimenticavi la possibilità che un autentico cessate il fuoco possa essere attuato e rispettato dai subordinati jihadisti degli Stati Uniti.
Dimenticatevi che il Pentagono indaghi su quel che è davvero accaduto in merito al suo bombardamento 'per errore' di Deir Ez-Zor.
La prova definitiva del vero ordine del giorno dell'Impero del Caos in Siria può essere trovata in un documento del 2012 della Defense Intelligence Agency (DIA), declassificato nel maggio dello scorso anno.
Mentre scorrete verso il basso il documento, ecco la pagina 291, sezione C, in cui si legge (in maiuscolo, nell'originale):
"L'Occidente, i Paesi del Golfo, e la Turchia [CHE] sostengono l'opposizione [SIRIANA] ... c'è la possibilità di creare un PRINCIPATO salafita dichiarato o non dichiarato nella Siria orientale (Hasaka e Deir Ez-Zor), e questo è esattamente ciò che vogliono le poTenze che sostengono L'OPPOSIZIONE, al fine di isolare il regime siriano, che è considerato come la profondità strategica dell'espansione sciita (Iraq e Iran)".
Il rapporto della DIA è un documento precedentemente classificato con il rango di SECRET/NOFORN che ha fatto il giro di quasi tutto il minestrone alfabetico dei servizi segreti statunitensi, dal CENTCOM alla CIA, e poi FBI, DHS, NGA fino al Dipartimento di Stato.
C’è un oscuro legame tra quanto accaduto ieri negli Stati Uniti, dove l’Isis ha colpito ancora, e quanto avvenuto alcune ore prima in Siria, dove a far strage è stata l’aviazione degli Stati Uniti. Un legame oscuro e inquietante.
Sabato sera gli aerei Usa hanno bombardato Deir Ezzor, massacrando oltre sessanta militari dell’esercito regolare siriano. La città da anni è stretta d’assedio dall’Isis, alla quale le forze di Damasco hanno opposto una resistenza eroica, tanto da esser considerata ormai un simbolo della resistenza al Terrore in tutto il Paese.
Attacco aereo peraltro strategico, perché ha preso di mira in particolare l’aeroporto, vitale per far giungere rifornimenti agli assediati.
Bombardamento atipico: da quando è iniziato il conflitto è la prima volta che l’esercito degli Stati Uniti ha colpito in maniera così massiccia le forze di Assad. Va da sé che è altrettanto raro che un attacco aereo americano abbia causato un analogo numero di vittime nelle fila dell’Isis…
Gli Stati Uniti hanno spiegato che si è trattato di un errore, ma si tratta di un’evidente boutade: quella zona di mondo è monitorata palmo a palmo da satelliti, droni e altre diavolerie in dotazione all’esercito Usa. Un errore così madornale è semplicemente impossibile. In particolare perché le bombe sono cadute su postazioni stabili e più che note.
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Giorgio Cremaschi: Referendum costituzionale
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John Smith: L’imperialismo nel XXI secolo
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Gianni Marchetto: La battaglia per una diversa Unione Europea è persa
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Giovanni Mazzetti: E se il lavoro fosse senza futuro? (IV Parte)
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Un canone, quando giunto
a
stabilizzazione, è l’espressione culturale di un insieme di
relazioni sociali che vogliono surrettiziamente veicolarsi
come eterne;
vogliono presentare come atemporali, mediante il loro riflesso
culturale, i nessi storici (le lotte storiche) che le hanno
prodotte. In seconda
battuta, visto che la relazione fra reale e culturale
è inevitabilmente dialettica, lo stesso canone ha il
compito di
stabilizzare la forma raggiunta da quelle medesime relazioni.
Tale stabilizzazione è cioè un elemento di lotta politica dove
il canone
ha il compito di ribadire, si perdoni il pleonasmo, la
vittoria dei vincitori, e di presentarla come storicamente
insuperabile.
È un principio semplice, utile perché permette di separare con chiarezza due schieramenti politici. Marxismo, post-colonialismo, cultural studies, decostruzionismo, benché riferiscano ad elementi diversi per ciò che concerne la formazione del suddetto canone, si ritrovano d’accordo circa le ragioni e modalità della sua formazione. Sinistra e Destra sono qua divisibili cioè con relativa semplicità.
Che l’economia non sia un scienza
sperimentale in senso stretto è noto da oltre 200 anni. Non
è possibile fare esperimenti “in vitro” tanto
per vedere come reagirebbe l’economia se si variassero certi
parametri invece di altri, e l’alternativa sarebbe tentare di
farlo nella
realtà, a rischio di un po’ di macelleria sociale.
È questo il motivo fondamentale che ha condotto i primi economisti a riflettere sui metodi aperti al teorico per studiare questa scienza sociale. Tanto che la prima riflessione economica tocca argomenti importanti per la filosofia della scienza, e in particolare l’epistemologia, la sua branca dedicata all’analisi della conoscibilità dei fenomeni e ai metodi per farne efficace ricerca.
John Stuart Mill delineò un approccio speculativo che continua a influenzare (malgrado i suoi quasi 200 anni e i progressi di statistica e matematica) il modo in cui il pensiero economico viene elaborato e prende forma. Mill partì dalla considerazione che vi sono molteplici correlazioni e influenze reciproche fra fattori transeunti che rendono difficile capire le relazioni che governano l’economia, rendendo arduo l’approccio tipico delle scienze empiriche: raccogliere una gran mole di dati dalle osservazioni e poi dedurne una teoria.
Il testo che segue ci è stato inviato dall’autore come risposta all’articolo di Francesco Piccinelli uscito su questo sito, in merito all’ipotesi di una democrazia senza partiti e alle prospettive che potrebbe offrire l’intelligenza artificiale a riguardo. L’autore intende porre in risalto alcuni punti discutibili, che ritiene imprescindibili, che ha trovato nell’articolo di Piccinelli, accanto ad osservazioni stimolanti
1. “I
partiti
servono a mettere in contatto cittadini e istituzioni”.
Attraverso di essi, “le domande che arrivano dall’esterno
arrivano dove
vengono prese le decisioni”. Così scrive Piccinelli. Osservo
che i partiti, nel loro ruolo di ponte tra società civile e
Stato,
non possono limitarsi a raccogliere domande “che arrivano
dall’esterno” per trasferirle tutte d’un pezzo, come un’eco,
all’interno degli organi decisionali. I partiti sono soggetti
che selezionano quelle domande, le organizzano e spesso ne
propongono
dialetticamente delle altre, alternative o laterali, e non
possono affatto limitarsi al ruolo di passacarte. Questa
visione unidirezionale è
esattamente il portato ideologico attuale più forte della
crisi dei partiti, e della convinzione diffusa che la voce dei
cittadini sia il solo
ed unico antecedente dell’azione politica, l’ascolto senza
filtri dei partiti sia l’atto successivo e il ‘canale’ di
trasmissione debba essere tutto a senso unico, direzionato
dalla periferia al centro. No invece, perché se così fosse
l’origine
della crisi della democrazia rappresentativa sarebbe lampante.
Generata dalla morte dei partiti ridotti a portavoce,
passacarte appunto, e a comitati
elettorali. La ‘rappresentanza’ muore, difatti, con la
politica ridotta a marketing, con la personalizzazione
mediale, con lo sciocco
cortocircuito tra elettore e leadership.
E’ un’intervista destinata a far scalpore, sebbene quotidiano che la pubblica “Repubblica” abbia cercato di annacquarla. Il vero titolo era “Via dall’euro, con l’austerità non c’è futuro” hanno preferito un più neutrale “Quella contro l’austerity e’ una battaglia persa”. Resta però la sostanza.
Luigi Zingales, economista della University of Chicago, stronca i tentativi di Renzi di strappare qualche decimale di flessibilità per la semplice ragione che il vero nodo è strutturale. Le schermaglie non servono a nulla.
«Il problema non è qualche punto decimale di flessibilità, ma la vera struttura dell’ unione monetaria. Senza una politica fiscale comune l’ euro non è sostenibile: o si accetta questo principio o tanto vale sedersi intorno a un tavolo e dire: bene, cominciamo le pratiche di divorzio. Consensuale, per carità, perché unilaterale costerebbe troppo, soprattutto a noi».
Parola di Zingales, che alla domanda su cosa dovrebbe fare l’Italia per sbloccare l’austerità di marca tadesca, la risposta è netta:
«Di certo smetterla di elemosinare decimali da spendere a scopi elettorali rendendosi poco credibile. Dovrebbe invece iniziare una battaglia politica a livello europeo. Dire chiaramente che alle condizioni attuali l’ euro è insostenibile. O introduciamo una politica fiscale comune che aiuti i paesi in difficoltà o dobbiamo recuperare la nostra flessibilità di cambio. Tertium non datur.
John Phillips rincara la dose per salvare il soldato Matteo con un perentorio invito a votare sì alla riforma costituzionale che ricorda quella di Mussolini con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
È sereno il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sereno e sorridente quando commenta senza menzionarlo un evento sconcertante anche se frequente nella storia del nostro paese, il perentorio invito rivolto agli italiani dell’Ambasciatore USA John Phillips a votare “sì” sul referendum costituzionale. Il primo cittadino esorta i connazionali a “vivere serenamente” il tempo che resta al voto. Sempre su quell’intervento da proconsole del grande impero d’occidente prende serenamente atto della “interconnessione” dei paesi del globo e giudica normale che tutti questi paesi si interessino a quanto avviene dalle nostre parti (interessante l’analogia tra il popolo, diciamo, del Ruanda e il rappresentante a Roma della più grande potenza mondiale). Con un crescendo di olimpica serenità ricorda infine che in Italia “la sovranità è demandata agli elettori”.
Ci permettiamo di osservare che l’articolo I della Costituzione non demanda ma impone a un compito impegnativo e solenne, la “osservanza” della costituzione, l’obbedienza cioè ai suoi mandati e quindi la tutela e la difesa della sovranità popolare contro chi la offenda o cerchi di violarla. Non pretendiamo certo da Sergio Mattarella un’esplicita e pubblica condanna del pronunciamento del diplomatico americano: sarebbe bastata una richiesta discreta e riservata di rettifica tramite il Capo del Governo.
Grande bagarre sul diniego, ora ufficiale, espresso dalla Raggi alla richiesta di tenere le prossime Olimpiadi a Roma, e accresciuta campagna (politica e mediatica) contro la Raggi, la maggioranza 5S nella «città eterna» e contro il M5S. E il presidente del C.o.n.i. annuncia ricorso tribunalizio, e il ministro Delrio, rattristato, “spera si faccia il referendum” in merito, e piddini in testa, con gran parte dei politici, attaccano, tanto che neanche Di Pietro se ne è voluto esimere e Renzi dichiara “la questione è chiusa, ma i 5S hanno dimostrato di non saper fare bene le cose”, cioè senza cadere in corruzioni e tangenti.
Le critiche sono tanto strumentali e proterve, da veri e propri cialtroni, da essere quasi divertenti:
1) poiché le giunte precedenti (comprese quella di Marino e della gestione Tronca) hanno detto «sí» e sono arrivati € 35 milioni, di cui 10 già spesi dal C.o.n.i. (per far che?), c’è un danno erariale dunque: poiché si sono impegnati (= buttati) diversi soldi, bisogna … continuare a spenderli (= sprecarli, da milioni a miliardi), cioè con la stessa dissennata motivazione delle «grandi opere», che invece sono, in sé, un danno erariale (= spreco di surplus sociale rastrellato dallo Stato tramite le imposte) e inoltre ambientale, spaziale, sociale, pro-malaffare, etc.
Il 30 Maggio 2016 il parlamento di Manila ha nominato Rodrigo Roa Duterte 16esimo presidente delle Filippine grazie alla vittoria elettorale sul rivale Mar Roxas con oltre sette milioni di voti. Nato a Maasin71 anni fa, Duterte ha una lunga carriera nell’amministrazione pubblica avendo servito da sindaco della città di Davoa per più di ventidue anni, con sette mandati. La cavalcata elettorale di Duterte, divenuta un vero e proprio trionfo, deve molto al sentimento anti-establishment sempre più diffuso tra la popolazione mondiale in maniera trasversale. L’estraneità di Duterte dalla classe politica dominante di Manila degli ultimi vent’anni anni ha garantito una vittoria inaspettata.
Un aspetto fondamentale, legato al successo che ha accompagnato il nuovo presidente, riguarda il programma elettorale. Quattro pilastri principali, semplici ed efficaci:
Francesco
Raparelli – In un volume sul materialismo (Kairòs,
Alma Venus, Multitudo, manifestolibri, 2000), scritto
nei primi anni del tuo tormentato ritorno in Italia, hai
dedicato pagine di grande importanza (e bellezza) al tema
della povertà.
Figura che si colloca tra la singolare, ed eterna,
disposizione del comune e l’amore come potenza ontologica
per eccellenza. Il povero cui ti
riferisci, però, non ha nulla a che fare con l’oggetto
della cristiana carità, costituito dalla pena, è,
piuttosto,
soggetto biopolitico. Puoi chiarire meglio questa
definizione?
Toni Negri – Questa definizione va afferrata da due punti di vista. Il primo è quello in cui si assume che il povero è effettivamente nudità, utilizzando un termine corrente del linguaggio filosofico odierno. Ed è concretamente miseria, ignoranza, malattia. Questa pesantezza corporea, intellettuale e morale della povertà è il punto che, innanzitutto, ci colpisce. Noi guardiamo il povero in questa occasione, con una tensione che non è – almeno per quanto mi riguarda – pietà, ma, piuttosto, curiosità. Interesse a comprendere il povero davanti a me e, insieme, a ricostruire la memoria del povero che sono stato. Che cos’è l’esser fuori, sul limite, sul margine? Non comporta una riflessione metafisica: il margine è completamente materiale. È appunto miseria corporea, malattia, ignoranza, incapacità di stare ai livelli di un sapere comune; è esclusione, per infiniti versi.
Lo Stato spagnolo,
composto da una
pluralità di nazioni e popoli, attraversa —a seguito della
crisi del bipartitismo che si è alternato al governo negli
ultimi 30
anni— un periodo di instabilità politica. Il partito
socialista che continua a dirsi di sinistra, assieme al PP e
alle formazioni
nazionaliste di destra, hanno condiviso le politiche di
“risanamento” e di austerità imposte dalla "troika" negli
ultimi anni. Per
cui preferiamo parlare di sinistre nello Stato spagnolo.
L'influenza del passato “franchista” nell’illusione europeista
Sotto la prolungata dittatura fascista in Spagna, le "democrazie" europee, con il loro benessere e i loro diritti sociali, sono state un riferimento per una maggioranza dei cittadini di Spagna. Dopo la morte di Franco e la transizione dalla dittatura alla democrazia, l'incorporazione dello Stato spagnolo alla Comunità economica europea avvenuta il 1 gennaio 1986, ha avuto un ampio consenso sociale. Il sogno del consolidamento della democrazia parlamentare e, soprattutto, di raggiungere il tenore di vita dei paesi europei più sviluppati era quello della maggioranza dei cittadini. Tre anni dopo la moneta spagnola, la peseta, è stata incorporato nel meccanismo del Sistema monetario europeo; nel giugno del 1991, l'accordo di Schengen è stato firmato, e con esso l'apertura delle frontiere; nel 1992 viene firmato il trattato di Maastricht, con i suoi quattro requisiti di convergenza economica, il trattato che dà origine e nome all'Unione europea.
“La guerra preme dappertutto, i conflitti facilmente emergono, lo sviluppo delle nuove tecnologie complica lo scenario… Però mi fa più paura quel che non succede di quel che succede. Per esempio, c’è molta gioventù disoccupata, che ora si sta rassegnando a vivere col reddito minimo, che si sta addormentando… e non lotta” (Josè Alberto Mujica, ex presidente dell’Uruguay)
L’orologio
dell’apocalisse
Sebbene solo metaforico, il cosiddetto “Doomsday Clock” (Orologio dell’apocalisse) rileva quanti minuti mancano alla mezzanotte della guerra nucleare. Ebbene, questo segnatempo simbolico - ideato dagli scienziati del Bulletin of the AtomicScientists dell’Università di Chicago nel 1947 – ci dice di quanto la lancetta si sia spostata in avanti. Se nel 2012 alla mezzanotte mancavano 5 minuti, nel 2015 i minuti si sono ridotti a 3, la stessa cifra rilevata nel 1984, ossia in piena guerra fredda.
Pur coi limiti propri di una figurazione simbolica resta tuttavia il fatto che la ricerca in questione riesce a focalizzare appieno una realtà globale sempre più innervata di fattori critici insieme al loro corredo di esplosività latente.
Gli scienziati dell’Università di Chicago valutano la possibilità di una catastrofe riferendosi – come parametri presi in esame –al cambiamento climatico incontrollato, agli arsenali atomici e all’ammodernamento globale delle armi nucleari.
Ci si riferisce, in una, ad una potenziale guerra guerreggiata che, tuttavia, di per sè non esaurisce tutte le altre opzioni che, beninteso, vanno a costituire i prodromi dai quali scaturiscono, alla fine, gli scontri bellici tout court.
I dati macroeconomici dicono che la cura dell’austerità ha funzionato. Bassi salari, depressione della domanda interna, aumento delle esportazioni, crescita della povertà. L’Italia batte il record del calo della produzione industriale del 22% dal 2007
In questo periodo, i governi europei sono alle prese con i bilanci di previsione e con le leggi di stabilità, che, com’è noto, devono essere presentate alla Commissione entro il 15 ottobre. Quale migliore occasione, allora, per fare un bilancio del Patto di Stabilità, ovvero delle regole poste a fondamento della governance economica dell’Unione? Calato il sipario sull’ultimo vertice dei capi di Stato e di governo tenutosi a Bratislava, ci ha pensato Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione, a fare il punto, intervenendo alla plenaria del Cese, organismo consultivo dell’Unione, rappresentativo della società civile organizzata.
La sua considerazione: «Il patto di stabilità non è stupido e funziona, lo dimostrano le cifre. Nel 2009 il deficit medio era del 6,3%, ora la media è dell’1,9. È la prova che il consolidamento progredisce». Come dargli torto? Un successone, se non fosse che proprio in tale successo sta la chiave di lettura dei mali attuali dell’economia europea.
Facciamo un passo indietro. È acquisito, ormai, che il costo dell’ultima crisi finanziaria sia stato scaricato sul groppone dei cittadini.
All'ultimo referendum confermativo di una modifica costituzionale, quello del 2006, la scheda era così:
A quello precedente, nel 2001, era così:
A questo giro, ha fatto sapere Renzi su Twitter, sarà invece così:
E’ una canzone di Michael Jackson, ma non importa. E’ anche una immagine: l’uomo imprigionato in un gioco di specchi si illude di costruire una realtà, ma non fa altro che rimanere imprigionato dentro il riflesso della realtà esterna a lui. E’ un po’ un gioco di specchi dentro il quale rimane imprigionato il professor Varoufakis con la sua articolata proposta di disobbedienza civile ai trattati europei, che costituisce il suo movimento Diem 25.
La proposta di Varoufakis in pillole
Cerchiamo di capire meglio la proposta di Varoufakis. Il punto di partenza è condivisibile: l’Europa, a politiche economiche vigenti, si sta avvitando in una crisi che porterà alla disintegrazione dall’interno dell’area-euro, e l’entità strutturale della deflazione in atto non è tale da poter essere risolta con un po’ di flessibilità nelle leggi di stabilità (che non fa altro che spalmare l’austerità su un maggior numero di anni) e nemmeno, come dimostra il caso francese, con qualche punto di deficit in più. Occorre evitare questa nemesi, inducendo un ribaltamento radicale della direzione austeritaria e deflazionistica delle politiche inscritte nei trattati europei. Sin qui siamo d’accordo tutti. Ma come?
«Ci sono solo due possibilità: o gli italiani, già apparentemente assuefatti e supini, si faranno impaurire e accetteranno la forma estrema di asservimento e sudditanza, oppure si solleveranno. Non ci sono vie di mezzo: o la resa o la rivolta sociale, o subire un regime di protettorato coloniale o una rivoluzione democratica»
Sono molte, ed evidenti, le analogie tra Renzi e Berlusconi. Prima fra tutte è l'ostinazione a raccontare fanfaluche. Montanelli disse un giorno del Cavaliere che era un inguaribile "piazzista", imbattibile nel vendere patacche spacciandole per mercanzia di primissima qualità. Si capisce dai suoi atteggiamenti spavaldi come Renzi si ritenga ancor più abile di Berlusconi. In questa sua pretesa, inversamente proporzionale alla sua statura politica, egli fa addirittura tenerezza.
Prendiamo la narrazione renziana di come vanno le cose nell'Unione europea. Vanno esattamente all'opposto di come il "bomba" ce le ha raccontate solo fino a pochi giorni fa. Egli ci diceva che la Brexit avrebbe reso l'Unione europea più forte e con un ruolo centrale dell'Italia. Ci diceva che Hollande era oramai conquistato alla causa della fine dell'austerità. Ci diceva che a Ventotene era sorto un "nuovo direttorio a tre con Germania e Francia".
Jakub J. Grygiel
insegna alla P.H. Nitze
School della Johns Hopkins University ritenuta il vertice
dell’insegnamento per le Relazioni Internazionali (in
compagnia di F. Fukuyama e Z.
Brzezinki), consulente OECD e World Bank, pubblica su
American Interest e Foreign Affairs. Proprio sul numero di
Settembre della rivista americana
che dà voce a gli studiosi degli scenari internazionali e
della geopolitica dal punto di vista americano, Grygiel
lancia la visione (qui)
di una Europa in cui ritornano di centralità
gli Stati-nazione. Ma non lo fa come lo farebbe un
giornalista decerebrato dal tormentone retorico del terrore
per il ritorno dei nazionalismi e dei
populismi, lo fa da sano realista, intuendone la necessità e
poi cogliendone le opportunità.
Grygiel definisce l’UE “sconnessa, inefficace ed impopolare” e più avanti “in chiaro deficit democratico”. Crisi dei migranti, asimmetrie non più sostenibili all’interno della zona euro, paralisi geopolitica nei confronti della Russia, del Medio Oriente, del Nord Africa, senza più il fidato (per gli americani) sergente britannico, scollamento ormai palese tra progetto ed opinioni pubbliche. Forze destabilizzanti che, in assenza di risposte e soluzioni, portano sempre più leader politici nazionali ad un ritorno alle leve di sovranità interna. L’utopia europea sembra aver perso la scommessa contro la sovranità nazionale.
Un ritorno allo Stato-nazione che, secondo lo studioso, non porta di necessità ad un traumatico scioglimento dell’UE ma ad una richiesta di minori vincoli unionisti e maggior libertà nella gestione delle essenziali leve del potere stato-nazionale, sul modello della linea del Gruppo di Visegrad – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia.
Ne "I dannati della Terra", Frantz Fanon avvia una celebre polemica contro Engels e la sua teoria della violenza. Da questo scambio i commentatori hanno tratto un'opposizione irriducibile fra un soggettivismo fanoniano ed un oggettivismo marxista. Contro una simile lettura schematica, Matthieu Renault propone qui di ripercorrere gli itinerari non-occidentali delle teorie della violenza. Viene così evidenziata la metamorfosi del marxismo rispetto alla guerra rivoluzionaria, sottolineando la centralità di Freud nell'economia fanoniana della violenza.
«La posta, al di là del presente tentativo, è la formazione di un pensiero globale della violenza emancipatrice, il solo che è in grado di rispondere alle sfide poste dalla globalizzazione effettiva delle forme di violenza istituzionale.»
L'analisi che segue
parte dalla constatazione
di una dissociazione quasi completa fra due campi di
problematizzazione nell'ambito di quel che abbiamo voluto
chiamare gli "studi fanoniani". Da una
parte, abbiamo numerose interpretazioni della teoria della
violenza di Fanon; tutte tendono a porre l'accento sulla
natura strutturale della violenza
coloniale e sulle dimensioni esistenziali, soggettive e
piscologiche-cliniche della violenza anticoloniale, sul suo
potere
purificatore-disintossicatore, e sui limiti di tale potere.
Abbiamo, dall'altro lato, delle riflessioni sul complesso
rapporto di Fanon con il
marxismo; girano tutte attorno ai temi dell'alienazione,
della corruzione delle borghesie nazionali, delle relazioni
fra "razza" e "classe", ecc.,
mettendo in discussione, e talvolta condannando,
l'eurocentrismo della tradizione marxista. Ma, stranamente,
a parte qualche riferimento alla critica
svolta da Fanon delle posizioni di Engels, su cui torneremo,
la questione delle sue relazioni con il pensiero marxista
della violenza è stata
ampiamente ignorata, come se non esistesse. Cercheremo di
dimostrare che non è così.
Al di là di queste considerazioni esegetiche, questa ricerca vuol essere un contributo ad uno studio della geografie della violenza, sia della sua pratica che della sua teorizzazione, della sua circolazione e delle sue trasformazioni rivoluzionarie.
La gerarchia dispotica del capitale spiegata nell’ultimo libro di Domenico Laise, professore marxista de La Sapienza di Roma
“La natura dell’impresa capitalistica” (EGEA,
Milano, 2015) di Domenico Laise – docente di Economia e
controllo delle
organizzazioni, alla Facoltà di Ingegneria Gestionale,
all’Università di Roma, La Sapienza – è un testo pubblicato
nell’ottobre dello scorso anno, ma che non ha ancora avuto
una sua giusta diffusione in ambito accademico e non solo.
Il libro consta di 559
pagine e si suddivide in tre parti che fanno capo a un‘unica
caratteristica centrale dell’impresa capitalistica: la gerarchia
dispotica. Questa viene indagata in quanto
funzionale all’ottenimento sia a) dell’efficienza economica
o del profitto, sia b)
dello sfruttamento del lavoro umano, sia infine c) alle
connessioni tra la Teoria Economica delle Organizzazioni e
la Scienza
dell’Artificiale.
La gerarchia dispotica capitalistica non rappresenta un ordine naturale, necessario quanto generico interno all’impresa, bensì risulta essere organizzazione di un rapporto sociale stabilizzatosi storicamente in potere autocratico, che si promana in ogni dettaglio relazionale e in tutti gli altri rapporti sociali e istituzionali. In altri termini, il capitale (come concetto), che domina nella capillarità delle sue innumerevoli imprese, non può che esercitare un comando coercitivo nei confronti dei suoi agenti e sottoposti per la produzione di valore e plusvalore, unico proprio fine produttivo.
In vista dell’incontro di mercoledì prossimo con Joseph Halevi (Istituto Gramsci, ore 17,30), Marco Palazzotto introduce i principali temi che verranno affrontati
Le riflessioni politiche ed economiche sui concetti di neoliberismo e globalizzazione, con le conseguenti interpretazioni teoriche, hanno eliminato dal discorso italiano il problema del Mezzogiorno, ciò che una volta chiamavamo “questione meridionale”. Questa tendenza può essere allargata anche al resto dell’Europa e del mondo, in cui – secondo la vulgata corrente soprattutto a sinistra – grazie ai processi di maggiore liberalizzazione del commercio e della finanza, sviluppo delle tecnologie e unioni monetarie, avremmo assistito ad un superamento delle barriere geografiche per giungere ad un capitalismo contemporaneo postmoderno che supererebbe le categorie del secolo scorso.
Credo piuttostoche il fenomeno indicato con il termine “globalizzazione” rappresenti oggi una forma nuova di imperialismo (Guglielmo Carchedi in IL LAVORO DI DOMANI - Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, BFS 1998) nella quale, secondo le classiche categorie di sfruttamento del modo di produzione capitalistico, non sussiste discontinuità tra ’900 e oggi se non in una diversa e più sviluppata organizzazione del capitale.
Trema la bilancia commerciale delle bugie: quelle italiane, benché di imitazione, sono di così scarsa qualità che possono essere usate solo per il mercato interno. Ora invece i bugiardi e gli speculatori nostrani si preparano all’importazione massiccia delle bugie di lusso di Cameron sulle Olimpiadi, per dimostrare come la Raggi abbia fatto una cazzata a dire no ai giochi romani. Dico di Cameron perché le olimpiadi di Londra del 2012 sono quelle che hanno fatto meno buchi nei bilanci pubblici e sono dunque quelle a cui il milieu politico affaristico della capitale comincia a fare riferimento. Certo fossi un palazzinaro mi convincerei che anche i giochi di Atene che hanno rovinato la Grecia siano una cosa buona e giusta, ma le cose non stanno così, il bilancio positivo presentato un anno dopo dall’ex premier britannico, è una menzogna colossale che si serve di nascondimenti e di ragionamenti paradossali per asserire il successo di bilancio della manifestazione.
Vediamo, cifre alla mano come non faranno quelli che ora parlano di primavera londinese per appoggiare le loro rivendicazioni, compreso il Coni degli scandali che arriva alla sfacciataggine di chiedere 20 milioni di danno erariale a fronte di spese che esso stesso quantifica in 150 mila euro: nel 2013 Cameron per placare le polemiche se uscì con un bilancio dadaista per dimostrare che i giochi erano stati un successo: le Olimpiadi disse erano costatei 8 miliardi e 700 milioni, (cinque volte più del preventivato e comunque meno dei 9 miliardi e 200 milioni che risultano oggi nei conti ufficiali),
«Che cos’è la vita vera? È l’unica domanda della filosofia». Alain Badiou si è messo in testa di corrompere i giovani. Non nel senso venale, ma in quello filosofico, prendendo su di sé l’accusa che venne fatta a Socrate quando venne condannato a morte per “corruzione della gioventù”. L’intellettuale francese, 79 anni, pubblica un saggio col quale spera di convincere i ragazzi a rinunciare alla ricerca di denaro, piaceri e potere, per cercare La vera vita. «È un’espressione platonica ripresa da Rimbaud che in un momento di disperazione scrive: “La vera vita è assente”». Per rispondere alla famosa domanda si può dunque cominciare a procedere per sottrazione. «Corrompere i giovani significa rifiutare i sentieri tracciati, l’ordine costituito, l’obbedienza cieca» racconta Badiou nell’appartamento parigino del quattordicesimo arrondissement. L’intellettuale impegnato, già maoista, scrisse qualche anno fa un popolare saggio contro Nicolas Sarkozy, visto come simbolo dei “nuovi avventurieri” delle nostre democrazie, da Berlusconi a Trump. «Con un capitalismo sempre più trionfante — commenta — il nostro sistema politico va in crisi, perché la sinistra non è più capace di mettere più un minimo di freno alle forze del mercato. La promessa di un capitalismo dal volto umano ha fallito».
* * *
Perché ha deciso di rivolgersi ai giovani?
«Sono partito da motivazioni personali, dell’osservazione dei miei figli, dalle loro difficoltà a inserirsi nel mondo adulto.
Il sindaco di Roma, Virginia Raggi, ha chiuso la partita delle Olimpiadi negando il consenso della città ad ospitare o giochi: non ha fatto bene, ha fatto benissimo dimostrando coraggio.
Finalmente, dopo due mesi di sangue acido per le vicende romane, posso scrivere di essere completamente d’accordo con una decisione della nuova giunta 5 stelle e lo faccio senza riserve e con grande piacere.
Entro nel merito: questa delle Olimpiadi si presentava come l’ennesima operazione speculativa che avrebbe prosciugato risorse comuni per il vantaggio dei soliti pochi. Ormai è storia nota e ripetuta quella che la politica dei “grandi eventi” produce regolarmente costi molto maggiori e ricavi molto più modesti di quelli previsti. E questo non solo in Italia ma dappertutto. Ancora non abbiamo i conti dell’Expo, ma sappiamo che i costi sono stati sicuramente maggiori del previsto, quanto ai ricavi forse è meglio stendere un pietosissimo velo e lasciar perdere.
Non voglio dire che non ci siano le eccezioni di eventi che hanno effettivamente giovato alla città ospitante, che hanno avuto spese ragionevoli e ricavi più o meno vicini a quelli promessi: è il caso delle olimpiadi invernali di Torino il cui lascito durevole è stata la metropolitana ed un più generale rilancio della città.
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Sotto molti aspetti, l'automobile è
stata la merce che ha caratterizzato il 20° secolo. La sua
importanza non proveniva dal suo virtuosismo tecnologico o
dalla sofisticatezza della
catena di montaggio, bensì dalla sua capacità di riflettere e
modellare la società. Il modo secondo cui si producevano, si
consumavano, si usavano e si regolamentavano le automobili
costituiva una finestra sul capitalismo stesso del 20° secolo
- uno sguardo d'insieme
su come il sociale, il politico e l'economico si intrecciavano
ed entravano in collisione.
Adesso, in un periodo caratterizzato dalla finanziarizzazione e dalla globalizzazione, nel quale la "informazione" è la regina, l'idea che una qualche merce possa definire un'epoca potrebbe apparire antiquata. Ma le merci oggi non sono meno importanti, e le relazioni delle persone con queste merci rimangono centrali ai fini della comprensione della società. Se l'automobile è stata fondamentale per comprende l'ultimo secolo, lo smartphone è la merce che definisce la nostra epoca.
Al giorno d'oggi le persone perdono parecchio tempo con i loro telefoni cellulari. Durante il giorno, lo controllano continuamente e se lo tengono sempre vicino al proprio corpo. Ci dormono accanto, lo portano in bagno, e lo guardano mentre camminano, mangiano, studiano, lavorano, mentre aspettano e mentre guidano. Il 20% dei giovani adulti ammette di controllare il proprio telefono perfino mentre fanno sesso.
Qual è il significato del fatto che le persone sembra che abbiano un cellulare in mano o in tasca dovunque vadano, per tutto il giorno?
Dopo gli interventi di Brancaccio, Iodice, Fazi e Grazzini proseguiamo il nostro dibattito sull'Europa pubblicando la recensione di Carlo Formenti al volume "Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa" con saggi di Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma, appena uscito da DeriveApprodi. A seguire anticipiamo il testo di Leonardo Paggi dell'introduzione che apre il volume
Agli
osservatori più attenti non dev’essere sfuggito che
l’inopinata conversione del Presidente del consiglio Renzi al
partito dei
critici dell’Europa contiene una buona dose di messa in scena
(attaccare l’austerità, se nel contempo si ribadisce l’impegno
a rispettare i vincoli Ue in materia, suona poco credibile).
Pur subodorando la teatralizzazione – che mira a captare il consenso di un elettorato irritato con le oligarchie europee – i media, i quali non cessano di diffondere il verbo euro liberista, si sono premurati di invitare alla prudenza, celebrando le virtù del modello tedesco e invitando a non mollare la presa sulla barra del timone, onde non perdere la scia della nave ammiraglia pilotata da Frau Merkel. Ma quali sarebbero le “virtù” in questione? Assai meglio dei media, ce lo spiega un libro a più mani (scrivono Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma) appena uscito da DeriveApprodi: Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa.
Il modello tedesco, imposto a tutti gli stati membri della Ue con le buone o con le cattive (per le cattive vedi il caso greco), si fonda sull’assoluta priorità attribuita alla lotta all’inflazione e all’equilibrio di bilancio (l’ultimo obiettivo, sancito dai trattati, è stato perfino integrato in alcuni ordinamenti costituzionali, fra cui il nostro).
Sul
fronte orientale non c’è niente di nuovo. L’opposizione dei
paesi dell’est al migration compact mostra che il
tentativo di risolvere la crisi centralizzando la decisione
politica all’interno dell’Unione è fallito prima ancora di
nascere.
Anche a ovest d’altra parte l’austerità continua a essere
affermata come la pietra angolare del governo dell’Unione,
sebbene
i singoli Stati stiano progressivamente forzandone i confini.
Anche qui niente di nuovo, si potrebbe dire: a est come a
ovest i confini
dell’Unione sono continuamente violati. L’Unione europea non è
quel Moloch unitario che alcuni immaginano e che essa stessa
pretende di rappresentare. Le crepe della sua disgregazione
sono le stesse che migranti, precarie e operai cercano
quotidianamente di allargare per
garantirsi una vita migliore. Tanto per Bruxelles
quanto per i singoli Stati, però, il governo dell’austerità
e quello
della mobilità sono due facce della stessa medaglia.
Mentre la Commissione cerca di imporre un sistema coordinato
per tutta
l’UE, gli Stati mettono in scena uno scontro che non intacca
il governo neoliberale dell’Unione. Questo gioco delle parti è
ormai
parte integrante della costituzione materiale dell’Europa e
dei suoi Stati e, anche laddove la sovranità nazionale è
invocata a
viva voce, il dispotismo del capitale è imposto attraverso il predominio incontrastato
degli esecutivi. È ormai chiaro che la presunta difesa
delle prerogative sovrane non è che un’articolazione delle
politiche di
austerità, il cui prezzo viene costantemente pagato da
precarie, operai e migranti.
Il commentatore Moi scrive:
“… con lo stipendio mensile di un solo insegnante umano, quanti tablet durevoli per decenni contenenti pressocché tutto lo scibile umano può comprare lo Stato, a prezzi di fabbrica ?”
Qualcuno potrà obiettare che in Italia i tablet rifilati alle scuole si scassano subito e che le cooperative di informatici sfigati che vincono gli appalti non sanno gestire l’elettronica scolastica.
Ma la domanda di Moi fa riflettere anche su qualcosa di più importante.
Una volta, l’essere umano aveva consistenza fisica.
Cioè fino a un secolo fa circa, la gente usava una parte molto elevata del proprio potenziale fisico – agilità, forza, prontezza, vista, coordinamento muscolare, abilità a imparare con la pratica senza troppe parole.
Questo uso del proprio corpo implicava fame, fatica, freddo, caldo, monotonia e molte altre cose sgradevoli, per cui l’arrivo della bolla energetica ha permesso a tanti di “vivere meglio”: cioè di utilizzare protesi tecnologiche al posto del proprio corpo.
Dopo che per cinque anni si è cercato di demolire lo Stato siriano, ora che l’operazione militare sta fallendo si lancia quella psicologica per far apparire come aggressori il governo e tutti quei siriani che resistono all’aggressione
Le «Psyops» (Operazioni psicologiche), cui sono addette speciali unità delle forze armate e dei servizi segreti Usa, sono definite dal Pentagono «operazioni pianificate per influenzare attraverso determinate informazioni le emozioni e le motivazioni e quindi il comportamento dell’opinione pubblica, di organizzazioni e governi stranieri, così da indurre o rafforzare atteggiamenti favorevoli agli obiettivi prefissi».
Esattamente lo scopo della colossale psyop politico-mediatica lanciata sulla Siria.
Dopo che per cinque anni si è cercato di demolire lo Stato siriano, scardinandolo all’interno con gruppi terroristi armati e infiltrati dall’esterno e provocando oltre 250mila morti, ora che l’operazione militare sta fallendo si lancia quella psicologica per far apparire come aggressori il governo e tutti quei siriani che resistono all’aggressione. Punta di lancia della psyop è la demonizzazione del presidente Assad (come già fatto con Milosevic e Gheddafi), presentato come un sadico dittatore che gode a bombardare ospedali e sterminare bambini, con l’aiuto dell’amico Putin (dipinto come neo-zar del rinato impero russo).
Siamo nel bel mezzo di quella fase geologica chiamata Antropocene. Abbiamo ribaltato le sorti del pianeta e dell'ecosistema al punto da diventare tanto potenti quanto la tettonica a zolle o l'era glaciale. I fattori che hanno portato a questo processo sono essenzialmente due: la stupidità umana e la tecnologia. E se la stupidità umana è una costante nella storia, senza l'aiuto della tecnologia degli ultimi secoli non saremmo mai riusciti a fare cose mirabolanti come riempire l'atmosfera terrestre di agenti chimici.
A suo modo, comunque, anche la tecnologia è una costante della nostra esistenza. L'uso di strumenti è una delle caratteristiche che ci hanno allontanati progressivamente dalla scimmia. Oggi i telefoni sono il perno della nostra vita sociale, i computer i nostri principali strumenti di lavoro e le biotecnologie come il pacemaker hanno letteralmente potere di vita o di morte. Più la società si fa evoluta e complessa, più gli strumenti tecnologici si intrecciano con le dinamiche sociopolitiche, economiche e culturali.
Nel libro Neurocapitalismo (Mimesis, 2016), Giorgio Griziotti mette in luce il ruolo sociale della nostra simbiosi con la tecnologia: da un lato strumento indispensabile al progresso e di potenziale ribellione, dall'altro di controllo e sottomissione. Il libro—attualmente in traduzione in inglese, francese e spagnolo—rivede il concetto di capitalismo, generalmente legato a un mondo antico di plusvalore e strumenti di produzione, in una chiave contemporanea che tende al post-umano:
La Russia accusata di crimini di guerra in una drammatica riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, convocata da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti per le bombe su Aleppo. Lettura alternativa di Piero Orteca: “Il macello anti-russo al Consiglio di Sicurezza Onu solo un altro capitolo del copione elettorale americano”. Francia e Gran Bretagna scatenate più della ambasciatrice Usa. Qualche conto con Obama da portare e saldo ora che non può reagire, ad esempio. E trescare col futuro inquilino della Casa Bianca. Ma quale? I timori di Hillary e la ‘non politica’ di Trump che lo avvantaggia. Intanto un po’ di nuova guerra fredda fa comodo a tutti e tre i sempre più svogliati alleati Nato
Predicare bene e razzolare male: sembra questo la caratteristica più comune della diplomazia internazionale a proposito del Medio Oriente. Specialmente se, ad alzare la voce, sono, in primis, i due Paesi, Francia e Gran Bretagna, che con una politica estera da bulli di quartiere hanno contribuito a inguaiare mezzo pianeta. Ormai anche i non addetti ai lavori conoscono i retroscena della lurida equazione politica che ha infiammato la regione. “Capitan Fracassa” Sarkozy e quell’idiota dell’ex premier conservatore britannico, Cameron, hanno pensato di poter dare una verniciata ai passati fasti imperiali franco-inglesi, cavalcando l’onda della “Primavera araba”.
Anche se per motivi diversi. I francesi, dopo essersi spartiti pane e companatico con Gheddafi se lo sono tolto dai piedi, per papparsi tutto il bottino da soli (petrolio, gas e soprattutto, uranio).
Alla guida del “Labour” britannico è stato confermato come previsto l’attuale leader, Jeremy Corbyn, grazie al vasto consenso ottenuto tra iscritti e “simpatizzanti” del partito che hanno avuto la possibilità di partecipare al voto nelle scorse settimane. L’esito della consultazione rappresenta una nuova umiliazione per la maggioranza dei parlamentari Laburisti e dei vertici del partito stesso, i cui sforzi in atto da dodici mesi per rovesciare la leadership di Corbyn sono stati correttamente percepiti dalla base come un vero e proprio golpe pianificato da una destra “blairita” con ben poco seguito nel paese.
Mesi di cospirazioni, propaganda, accuse al limite del ridicolo alla leadership del partito hanno anzi probabilmente contribuito ad ampliare il consenso per Corbyn e la sua agenda progressista tra coloro che hanno votato. Il membro della Camera dei Comuni per la circoscrizione londinese di Islington North ha vinto con una percentuale addirittura superiore (61,8%) rispetto a quella del voto tenuto nel settembre del 2015 (59,5%).
In questi mesi, Corbyn e i suoi fedelissimi sono stati al centro di una campagna di discredito senza precedenti. A guidarla, come già anticipato, è una destra del partito che vede con orrore anche una minima deviazione dalle posizioni virtualmente indistinguibili da quelle dei Conservatori, sia sul fronte domestico che internazionale, promosse dall’ex primo ministro Tony Blair negli anni Novanta e proseguite dai suoi successori alla guida del Labour.
Il rischio RefeRenzum e il rischio delle presidenziali USA sullo sfondo di una crisi mondiale
1. Il referendum
e la democrazia in Italia
L'altra sera sono andato a un'assemblea pubblica a Roma sul prossimo referendum, indetta dal Movimento 5 Stelle. Presenziavano vari esponenti locali e nazionali del Movimento e il relatore era Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. Sala stracolma e giudice Imposimato scatenato contro chi tira le redini della politica mondiale, contro Renzi, contro Napolitano, contro Trump e - parole rarissime al giorno d'oggi - contro un governo che penalizza i settori più deboli della società.
Contro una "riforma" truffaldina della Costituzione che letteralmente, parole sue, lo "disgusta".
Un referendum a risposta suggerita
Così come è disgustosamente truffaldino il quesito che ci verrà sottomesso. Roba del tipo "Sei a favore della riforma del sistema bicamerale che farà risparmiare sui costi della politica?" [1]. E come fai a dire di NO? Non vuoi forse risparmiare sui costi della politica? Peccato due cose. La prima, non formale ma sostanziale, è che eventualmente a quella conclusione ci dovevo arrivare io, in piena libertà. La seconda è che è una balla.
Analizzare la crescente insoddisfazione dei generali statunitensi verso i vertici politici di Washington, permette di gettare una nuova luce sulla direzione in cui procede la macchina militare Americana. In particolare è interessante osservare la futura programmazione bellica nell’ambito delle forze di terra, mare, aria, spazio e cyberspazio
Terminata la guerra
fredda le forze armate statunitensi si ritrovarono senza un
vero e proprio avversario paritetico, decidendo quindi
progressivamente di cambiare
strategia ed investimenti in materia di guerra e conflitti.
Passarono dal possedere una vasta forza numerica pronta a
combattere avversari dello
stesso livello (URSS), con una programmazione militare
specifica, ad una strategia focalizzata su avversari ibridi
(milizie o forze regolari) o di
taglio inferiore (Iraq, Siria, Afghanistan, Jugoslavia,
Libia). La forza militare degli Stati Uniti iniziava quindi
a mutare programmazione e
tattiche, assolvendo alle richieste dei nuovi inquilini
della casa Bianca, i famigerati Neocon. Seguendo una
dottrina militare incentrata sul concetto
di mondo unipolare, miravano alla dominazione globale.
E’ da quando agli inizi degli anni 90’ i decisori politici (policy-makers) a Washington si prefissarono l’obiettivo utopico di egemonia planetaria, che le forze armate USA hanno dovuto espandersi per creare nuovi centri di comando (USAFRICOM, USNORTHCOM), oltre a quelli già esistenti (USEUCOM, USNORTHCOM, USPACOM, USSOUTHCOM, USSOCOM, USSTRATCOM, USTRANSCOM), dislocandoli in ogni angolo del pianeta.
Piero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00
Cipriano
ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC),
ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non
sapere
“stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli
scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e
spietato
che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a
renderlo produttivo attraverso le cliniche e, soprattutto,
attraverso la
chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate
dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders
(DSM).
Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971) sostengono che la società considera “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi ed al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorre designarli, quanto più possibile, come “malati”. In tal modo il sistema della produzione può creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Rispetto agli anni ’70, sostiene Cipriano, “l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia” è diventata molto più sofisticata. Grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici si sono sostituti, od affiancati, nuovi metodi di internamento.
«Dovremmo essere consapevoli, sostiene lo psichiatra inglese Derek Summerfield, che l’ordine politico-economico trae vantaggio quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale. Da qui nasce l’ossessione, o la compulsione, o la pulsione, per la diagnosi che semplifica ogni cosa» (p. 14).
In questi ultimi anni è stato un coro. Roma fa schifo, è ai minimi storici. Il giornalista medio, così come il cittadino medio, e come il politico medio, spacchettano il disastro praticamente in sole tre voci: Mondezza, Trasporti, Buche (MTB). Qualcuno aggiunge: Palazzinari. Altri: Mafia Capitale.
Nessuno, nemmeno chi scrive, è in grado di andare molto più in là della narrazione sul corrotto Mondo di Mezzo (siamo tutti noi?) e della percezione quotidiana di forte degrado fisico che, fin dai tempi dell’Allegoria del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti, denota cattiva gestione politica della civitas.
Ma al di là di MTB dovremmo tutti ricordare che, a partire dal Secondo Dopoguerra, Roma soffre di mali ormai divenuti strutturali. Sono nozioni apparentemente sdate, da tutti condivise, applicate ai meccanismi storici di espansione speculativa della città, che però mai sono stati davvero indagati nel loro continuo adeguarsi ai tempi, pur continuando a produrre quella che senza mezzi termini definirei città di merda.
Avercela con Roma è facile, così come argomentare contro Roma. Tutti i libri che sono stati scritti sulla Roma contemporanea, e non solo, erano contro questa città, a partire da quella bibbia del Bravo Urbanista che è Roma moderna di Italo Insolera, dove si espone la tesi inoppugnabile che l’Urbe di oggi sia frutto, oltre che di urbanisticamente criminali (non sempre, non ovunque) interventi fascistici,
Per carità: è soltanto un esercizio teorico, ossia il modo politically correct sperimentato ai giorni nostri per parlare a suocera affinché nuora intenda. Però fa riflettere la casuale circostanza che la Commissione Ue abbia rilasciato alcune settimana un paper molto eloquente (“Public Investment Stimulus in Surplus Countries and their Euro Area Spillovers”) dove si mettono in evidenza i grandi vantaggi di cui l’eurozona potrebbe giovarsi qualora i paesi in surplus dell’area, segnatamente Germania e Olanda, profittassero dei tassi bassi di interesse per emettere nuovo debito con il quale fare ripartire gli investimenti produttivi.
La premessa è che “gli investimenti pubblici in Germania e Olanda sono in declino dal 2009”. Addirittura, in Germania (vedi grafico) la quota di investimenti pubblici sul Pil è stata al di sotto della media dell’eurozona sin dal 1995 ed è arrivata, nel 2015, al 2,1% del Pil a fronte del 2,4% nel 2009. L’Olanda è stata più generosa. La sua quota di investimenti pubblici sul Pil è maggiore della media dell’eurozona, ma comunque è diminuita dal 4,3 al 3,9% dal 2009 al 2015. Entrambe, peraltro, hanno livelli di debito pubblico inferiori alla media dell’area “e possono beneficiare dei tassi bassi a livello record” per rilanciare i loro investimenti. In più, sono paesi con rilevanti attivi di conto corrente (vedi grafico). In sostanza, si possono permettere di spendere assai più degli altri.
Testo a partire dal romanzo di Joseph Roth
Ci sono epoche e ci sono semplici periodi storici. Cos’è un’epoca? Una fase in cui tutto diventa possibile. Cosa contraddistingue un’epoca? Innanzitutto una cosa: la crisi, in senso forte, profondo, complessivo, sistemico. Quella in cui pensa e agisce Joseph Roth è indubbiamente un’epoca, la grande epoca del Novecento: quella che esplode nella prima guerra mondiale, che porta in grembo la rivoluzione, che apre la storia a direzioni completamente differenti e fino a poco prima impensabili. E ancora una volta, epoca e crisi sono un tutt’uno. Roth non è il prodotto deterministico dell’epoca, certo. Tuttavia, è altrettanto certo, senza quella grande epoca sarebbero cambiate le condizioni di possibilità perché un Roth si producesse.
E Roth è stato un grande, grandissimo non solo scrittore, ma interprete delle trasformazioni soggettive e collettive di quell’epoca. A poco ci interessa se Roth sia stato socialista o monarchico, se fosse effettivamente “il rosso”, come firmava alcuni suoi articoli, oppure legittimista e un po’ nostalgico. Per noi Roth è una miniera d’oro, e forse proprio quell’occhio del grande conservatore disincantato, travolto dalla dissoluzione dell’impero asburgico e da tutto ciò che era solido, alla Musil, lo rende ancora più prezioso e capace di cogliere ciò che i sinistri non possono arrivare a comprendere. Meglio un grande reazionario che un piccolo rivoluzionario, si diceva una volta. È ancora così.
Un’anticipazione da «Il contraccolpo assoluto», volume edito da Ponte alle Grazie che il filosofo sloveno presenterà a Pordenonelegge, l’annuale kermesse che prende il via oggi nella città friuliana
Tutti conosco la battuta di Winston Churchill sulla democrazia, di solito riportata in questo modo: «La democrazia è il peggiore dei sistemi possibili; il problema è che non esiste un sistema migliore». In realtà, l’11 novembre 1947, durante un discorso alla Camera dei Comuni, Churchill disse qualcosa di meno paradossale e brillante: «Molte forme di governo sono state sperimentate e saranno sperimentate in questo mondo di peccato e di dolore. Nessuno ha la pretesa che la democrazia sia perfetta o onnisciente. Infatti, è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo a eccezione di tutte le altre forme che sono state sperimentate di volta in volta».
La logica di fondo la si può comprendere meglio applicando le «formule della sessuazione» di Jacques Lacan all’aforisma di Churchill e riformulandolo come segue: «La democrazia è il peggiore di tutti i sistemi; tuttavia, se equiparato alla democrazia, ogni altro sistema è peggiore». Se mettiamo insieme tutti i sistemi possibili e li valutiamo in base al loro valore, la democrazia è il peggiore e si classifica all’ultimo posto; se, però, compariamo la democrazia agli altri sistemi, uno per uno, essa si rivela il sistema migliore. Non vale (o non sembra valere) qualcosa di simile per il capitalismo?
Il 18 luglio del 1936 la ribellione di alcuni generali e di una cospicua parte dell’esercito al legittimo governo della Spagna repubblicana dette avvio a una guerra civile destinata a durare tre anni. Già anticipata da altri evidenti segnali di crisi e di lotta sociale e politica, la rivoluzione dilagò in quei giorni in Spagna, proprio quella rivoluzione che i generali golpisti volevano prevenire e che in definitiva essi stessi contribuirono a provocare. Nata come reazione difensiva, la rivoluzione divenne ben presto offensiva e aggressiva verso il potere della classe dominante. Tra l’esercito in rivolta e il popolo in armi, lo Stato repubblicano finì in pezzi. Il potere dello Stato si sgretolò, dovunque i militari furono sconfitti il potere finì sulle piazze dove dei gruppi armati risolsero sommariamente i compiti più urgenti: la lotta contro gli ultimi fuochi della rivolta militare, l’epurazione delle retrovie, la sussistenza e l’armamento dei miliziani volontari appartenenti ai vari partiti della sinistra, agli anarchici e ai sindacati. A poco a poco tra le piazze ed il governo affiorarono gli organismi di un nuovo potere. Erano gli innumerevoli Comitati locali, veri e propri governi su scala regionale e provinciale che riprendevano la miglior tradizione di democrazia proletaria proveniente dalla Comune di Parigi e dai Soviet delle rivoluzioni russe del 1905 e 1917. In quei Comitati locali risiedeva il nuovo potere rivoluzionario che dovette organizzarsi per far fronte al proseguimento della guerra civile, causata dalla rivolta dell’esercito, e per la ripresa della produzione.
Per chi abita l’Università da
diverso tempo e, come me, secondo ruoli e prospettive
differenti che sono progressivamente cambiate con il
trascorrere degli anni, credo possa
risultare piuttosto evidente che questa stessa istituzione,
addirittura millenaria, ha subito negli anni recenti una
severa e profonda trasformazione.
In realtà non è il termine trasformazione quello
più adatto a rendere conto di ciò che è accaduto e che
sta ancora accadendo all’Università. Il concetto di
trasformazione infatti richiama etimologicamente il
superamento di una forma per lo
più esteriore, qui si tratta invece di qualcosa che, pur
implicando anche una nuova rappresentazione sociale
dell’Università,
mobilita e porta con sé un vero e proprio cambiamento di natura,
qualcosa quindi che incide fino in fondo la sostanza,
lo
spirito del suo funzionamento. Per certi versi non
sarebbe credo azzardato affermare che l’Università, almeno
quella che eravamo
abituati a frequentare, è morta ma non sepolta
(per giocare un poco con la nostra lingua). Non è sepolta
perché pur
avendo completamente perso le funzioni educative e di
produzione di un sapere teorico generale che prima (non
senza problematicità,
intendiamoci) la caratterizzavano, non solo mantiene e
prolunga, stile tardo impero romano, le griglie gerarchiche
e baronali di esercizio
tradizionale, ma per certi versi esalta in modo nuovo
il suo ruolo sociale ed economico. In che senso? Potremmo
dire che si tratta di una
nuova fenomenologia dell’istituzione che io definirei fenomenologia
zombie.
La
rivendicazione della povertà cristiana nel XIII secolo, dopo
una lunga parentesi di oblio rispetto alle origini, cade in
un’epoca
non solo di ricchezza ecclesiastica ma di profonda
feudalizzazione della Chiesa spinta sino alla simonia,
assumendo un carattere di contrapposizione
ereticale ma corrispondendo pure a tendenze interne
dell’apparato a ridurre il tasso di corruzione e sottrarsi a
ingerenze mondane nei propri
ordinamenti.
Francesco ne è un buon esempio, nel suo sforzo di rivendicare e praticare una sequela della vita di Cristo, una forma di vita più che una regola, schivando una normatività che poteva procurargli accuse di eresia quali, dopo la sua morte, colpiranno i seguaci troppo radicali.
La Regula non bullata, stesa da Francesco stesso nel 1221, è assai ruvida e poco dottrinaria, condannando ogni sorta di proprietà, individuale e comune, e bandendo lo stesso maneggio del denaro, materiale o mediato da procuratori: perfino l’accettazione delle elemosine è permessa nel solo caso della cura dei malati e del soccorso ai lebbrosi. I frati Minori (cioè quasi minorenni giuridicamente incapaci) non devono svolgere compiti amministrativi, tanto meno diventare prelati, ma fornire soltanto lavoro manuale e subalterno, con salario in natura e mai monetario. La Regula bullata (1223) approvata da papa Onorio III, è più moderata, tanto che Francesco l’accetta (per i vantaggi del riconoscimento istituzionale) ma raccomandando che sia applicata alla lettera, sine glossa come ribadisce nel Testamento; in compenso vi è molto enfatizzata la sanctissima o altissima paupertas.
Di
seguito un intervento allarmato (e allarmistico?) di
Lunghini, a cui risponde Cesaratto
di Giorgio Lunghini
Qualche cifra sugli effetti di un abbandono della moneta comune per capire perché è meglio evitare
Vi è oggi un consenso unanime circa l’inadeguatezza dell’assetto istituzionale dell’Unione economica e monetaria (Uem), e soprattutto vi è una unanime e severa e fondata critica del suo armamentario di politica economica (per una rassegna delle diverse posizioni si può vedere il mio commento («L’euro: un destino segnato?»), Critica Marxista, marzo-giugno 2015). Differenti sono invece le valutazioni circa le conseguenze economiche e sociali di una eventuale uscita unilaterale dell’Italia dalla Uem – che taluni addirittura invocano. Questa a me pare questione di grande importanza, e qui riprendo le stime e la conclusione di Carluccio Bianchi (che faccio mie e che si possono trovare per esteso cercando su Google “lincei 2015 bianchi storia breve dopoguerra”).
La manifestazione di Roma contro l’aggressione del regime turco e per la liberazione di Ocalan ha avuto una buona partecipazione di militanti, il che dimostra l’attenzione e la passione con cui in Italia viene “sentita” la tenace lotta di resistenza del popolo curdo siriano innanzitutto contro la Turchia e lo stato islamico.
Credo che sia doveroso evidenziare la giusta esigenza di riscatto che tutti i popoli curdi, frammentati in quattro stati (Turchia, Siria, Iraq, Iran) dall’accordo Sikes-Picot tra Gran Bretagna e Francia, stanno manifestando nelle diverse aree territoriali.
Ma come non ci esimiamo dal sottolineare che il Kurdistan iracheno è una soluzione negativa in quanto governato da una cosca di oligarchi malfattori che ha come guida il corrotto Barzani che traffica con il sultano Erdogan in contrabbando di petrolio estorto all’Iraq (grazie alla collaborazione con lo stato islamico), non ci possiamo esimere dal contestare le attuali mosse politiche dei Curdo siriani in contrasto con la concezione federalista ipotizzata da Ocalan non solo in Siria ma anche in Turchia, in Iraq e nello stesso Iran dove la repressione è senza tregua.
Ocalan aveva giustamente compreso l’inutilità della creazione di un altro stato nel medioriente che avrebbe comportato lotte sanguinose che a loro volta avrebbero generato guerre infinite e destabilizzazione a favore dei processi di colonizzazione da parte degli States, dell’Unione europea e di Israele.
Il governo Renzi è alla disperata ricerca di denaro da trasformare in bonus elettorali per comprarsi la vittoria al referendum che appare sempre più improbabile.
I soldi però sono finiti, il fondo del barile è stato
raggiunto, raschiato e scartavetrato. Quali altri magheggi
contabili
saprà inventarsi il piccolo Renzy Potter per aggirare i
limiti imposti dalla crudele Voldemerkel, che ormai ai
vertici lo evita
dicendo “non c’ho spicci”, e comprare il consenso degli
elettori alla sua ripugnante Deforma Costituzionale?
Ci vorrebbe
qualcosa di particolarmente truffaldino, ma è difficile
pensare a qualcosa di particolarmente truffaldino che il
governo Renzi non abbia
già fatto.
Non resterà che ricorrere ancora una volta alla risorsa più
sfruttata in questi casi: le pensioni.
Dopo l’APE, anticipo
pensionistico, sarà introdotta la VESPA, verifica
sistematica pensioni acquisite.
Con l’APE, come si sa, per andare in pensione in
anticipo rispetto ai limiti minimi, calibrati
sull’aspettativa di vita d’una tartaruga centenaria delle
Galapagos, si è obbligati a
chiedere un prestito bancario e, nonostante i contributi già
versati, sostanzialmente pagarsi la pensione da soli.
La mia generazione è un film di vent’anni fa ma ancora capace di raccontare il senso di dignità e sconfitta degli anni Settanta. E’ per questo che oggi ne consigliamo la visione, perché non solo non è invecchiato, ma al contrario, di fronte alla rimozione ideologica di questi anni, in grado di dare voce a un pezzo di quella generazione che non ha avuto successivamente alcuna riabilitazione mainstream. La storia è essenziale: il detenuto politico Braccio (Claudio Amendola), da tempo in rotta coi suoi compagni tanto in carcere quanto fuori, viene trasferito da un carcere del sud a Milano per una serie di colloqui con la sua ragazza (siamo nel 1983). Il trasferimento è però una messinscena organizzata dal Tribunale, con l’obiettivo di far pentire Braccio, promettendogli la fine della carcerazione speciale, la riduzione della pena, il trasferimento definitivo vicino alla sua ragazza, eccetera. Una serie di premi in cambio del pentimento. Il Capitano dei carabinieri (Silvio Orlando), assume subito un atteggiamento paternalista ed empatico col detenuto, si presenta insomma come il classico “poliziotto buono”, ma l’atteggiamento confidenziale termina drasticamente nel momento in cui Braccio decide di non pentirsi, scegliendo di non tradire e perdendo così ogni possibilità di rivedere la ragazza e di vedersi ridurre i trent’anni di detenzione ancora da scontare. Alle porte di Milano il cellulare dei Carabinieri inverte la rotta e torna in Sicilia, mettendo fine a ogni possibilità di ritorno alla vita di Braccio.
Calabi, Clotilde, Coliva, Annalisa, Sereni, Andrea, Volpe, Giorgio (a cura di), Teorie della conoscenza. Il dibattito contemporaneo, Milano, Raffaello Cortina, 2015, pp. 416, euro 34, ISBN 978-88-6030-779-8
Com’è stato sostenuto da molti filosofi, ad esempio da Immanuel Kant o dal nostro Giulio Preti, la conoscenza non è un problema bensì un fatto, ed in questo senso si è ritenuto opportuno saggiarne criticamente la portata conoscitiva come anche la portata oggettivo-costitutiva dei singoli ambiti disciplinari; in tal modo è stato possibile abbandonare le pretese assolutistiche della metafisica classica.
Ma il dibattito filosofico-scientifico sulla natura della conoscenza non è stato breve e lineare, semmai lungo e tortuoso e tutt’ora tale snodo problematico continua ad essere al centro dei dibattiti internazionali sull’analisi della conoscenza, della giustificazione, dello scetticismo ecc.
Il volume che qui presentiamo, curato da Clotidle Calabi, Annalisa Coliva , Andrea Sereni e Giorgio Volpe cerca di fornire al lettore italiano un’antologia di testi atta a fornire un quadro generale dei temi principali concernenti il dibattito attuale sulle teorie della conoscenza.
Il volume è suddiviso in tre parti, la prima delle quali si occupa della natura della conoscenza, la seconda della natura della giustificazione epistemica mentre la terza ed ultima parte è dedicata allo scetticismo.
In questi giorni il settimanale The Economist ha pubblicato un’analisi molto dettagliata del processo di concentrazione, tramite Acquisizioni&Fusioni, delle grandi imprese mondiali, sia nei settori più tradizionali, come quello energetico o farmaceutico, sia in quello più recente dell’economia digitale (“The rise of the superstars”, settembre 17, 2016). Il quadro che ne esce è piuttosto impressionante, se solo si pensa che il 10% delle imprese mondiali quotate in borsa genera l’80% di tutti i profitti.
In sé i processi di concentrazione non sono nuovi, a suo tempo lo storico dell’economia americana Alfred Chandler descrisse la storia degli Stati Uniti dopo la guerra civile come “dieci anni di competizione e 90 anni di oligopolio”. La rivoluzione digitale sembra confermare questa tendenza, ma su scala globale. La concentrazione del capitale è tipica delle fasi di stagnazione dell’economia, come quella che ha fatto seguito alla crisi del 2008, perché è un modo di accrescere i profitti tramite economie di scala e soprattutto riduzione del personale.
Nel 1990 le tre compagnie automobilistiche americane occupavano 1,2 milioni di persone, nel 2014 le tre compagnie digitali della Silicon Valley, con una capitalizzazione tripla di quella delle vecchie star automobilistiche, occupavano soltanto 137 mila. La transizione dalla vecchia alla nuova economia digitale è destinata a stravolgere il mondo del lavoro, e la cosiddetta IV rivoluzione industriale, quella della robotizzazione e delle automobili senza conducente, deve ancora dispiegarsi del tutto.
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Attualmente, un quarto di secolo dopo
la
dissoluzione dell’Unione Sovietica, la “guerra fredda” risorge
per diventare una minaccia crescente per la pace mondiale. Il
tentativo in corso di utilizzare l'espansione
dell'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord
(NATO), per completare il’accerchiamento
militare della Russia e il rivolgersi degli Stati Uniti alla
regione Asia-Pacifico per preservare il suo status di potenza
dominante, in particolare
nel Mare della Cina, sono percepite come le fonti della
rinascita di una guerra fredda che si pensava fosse sparita
per sempre.
In realtà nulla nasconde la volontà di Washington di provocare un aumento delle tensioni. Gli annunci quasi quotidiani confermano l’intenzione di affermare la presenza attiva della NATO in Europa, e in particolare nei paesi limitrofi alla Russia, e questo di traduce nella creazione di nuove basi militari, nell’installazione di sistemi avanzati di radar e di missili a media distanza con la capacità di portare testate nucleari, e nell’annunciata installazione di bombardieri strategici B52 nelle basi europee della NATO. La base di tutto questo spiegamento è costitita dalle incessanti manovre militari, tra esse l'esercitazione militare Anaconda-16, che ha dato luogo al più importante spiegamento di forze straniere in Polonia dalla Seconda Guerra Mondiale.
Il libro La crisi
del
soggetto. Marxismo e filosofia in Italia negli anni Settanta
e Ottanta, a cura di Giuseppe Vacca, (Carrocci, 2015),
si chiede perché il
marxismo in Italia sia andato in crisi, si sia dissolto. I
saggi, puntuali, mostrano la liquefazione marxista per un
cambio di paradigma. Dal trenino
dell’autonomia, nei primi anni Settanta, si passò al trenino
dell’autenticità. Dalla linea
Kant-Hegel-Marx-Bentam-Mill-Smart
a cui si aggiunsero i vagoncini Habermas e Rawls (il paradigma
americano), si passò alla linea
Rousseau-Kierkegaard-Nietzsche-Heidegger-Adorno&Horkheimer-Foucault.
Dal principio della coerenza, della coincidenza tra condotta e
principio morale
(il prof. Unrat dell’Angelo Azzurro) al principio
della soddisfazione di sé che diviene plurale. Avanza questa
secondo trenino
via via che sminuisce la certezza nella vettorialità del
tempo, che sminuisce la certezza del progresso. Lo aveva detto
Rousseau, lo aveva
indicato Diderot, lo riprende magistralmente Foucault. Nel Nipote
di Rameau si afferma l’io debole che si adatta per
trasformarsi.
È di Marshall Berman il libro chiave dell’epoca del secondo
trenino, The Politics of Authenticity, pubblicato
già nel
1970. Ma è ancora un altro libro di Berman, maltrattato sia in
Italia che altrove, The Experience of Modernity (1982,
tradotto in
Italia nel 1985) che per la prima volta propone una lettura
modernista di Marx richiamando l’attenzione su un passo del Manifesto:
La crisi della verità nelle società occidentali è ormai conclamata: ma è possibile ripensare la società a partire da queste basi?
Qual è il filo
conduttore che lega tra loro Brexit,
Donald Trump e i 35 euro che migranti e rifugiati
riceverebbero ogni giorno dal governo italiano? La risposta
sta in un’espressione inglese di
due parole: post truth. Un’idea, quella che la
nostra società stia attraversando un’epoca di
“postverità”, elaborata per la prima volta nel 2004 dallo
scrittore e saggista americano Ralph Keyes in un libro
intitolato The Post-Truth Era: Dishonesty and
Deception in Contemporary Life. Ma di che cosa
parliamo, precisamente, quando parliamo
di postverità?
Dire che la postverità sia semplicemente una menzogna è riduttivo, anche perché la bugia è sempre esistita e ha da sempre fatto parte dell’armamentario retorico dei politici. Semmai, in questo caso siamo di fronte a qualcosa di diverso: perché la postverità non è una semplice falsificazione della realtà, bensì un ordine del discorso che si appella all’emotività per superare i fatti e dare così consistenza a una credenza. Esempio: affermare che i migranti accolti nel nostro paese “ricevono” 35 euro al giorno, tecnicamente non è una menzogna; piuttosto, è un’affermazione che ignora deliberatamente che quella cifra rappresenta il costo medio giornaliero pro capite speso per la gestione di una persona immigrata nel nostro paese. Oltrepassare questo particolare, permette quindi di costruire una narrativa in cui gli italiani vengono rappresentati come vittime di un’ingiustizia, che viene sfruttata per portare avanti una precisa agenda politica.
“Era inevitabile, il titolo ha perso il 78% in due anni e mezzo, c’è ovviamente del fumo, e dove c’è del fumo c’è del fuoco”Kenneth Polcari, O’ Niel Securities, in “Va evitata un’altra Lehman, è troppo grande per fallire” La stampa, 1 ottobre 2016.
“Beneficiando di una eccezionale e generosissima solidarietà europea in occasione della Riunificazione, e poi con l’euro, la Germania è diventata sempre più grande e più forte. L’Unione non è riuscita ad europeizzare la Germania; si è trasformata nel guscio rotto dell’aquila tedesca: grande e forte, ma anche terribilmente sola. Ha negato solidarietà a chiunque, e verrà ripagata con la stessa moneta”. Guido Salerno Aletta, Le ceneri di Angela, Milano Finanza 1 ottobre 2016.
Certo, agli americani non vanno giù il gasdotto russo-tedesco North Stream, le timide aperture verso la fine delle sanzioni a Mosca, il dialogo commerciale fortissimo e solidissimo Berlino Pechino. Così come l’amministrazione Usa vuole che finisca l’austerity in Europa perché l’America, così come tutto il mondo, sta importando dall’eurozona una terribile deflazione, e non le va giù quell’incredibile 8,7% del surplus tedesco delle partite correnti. E ancora, ci sta tutta la guerra finanziaria: le grandi banche americane, dopo essere state salvate con denaro pubblico per circa 700 miliardi di dollari, hanno ripreso lo scettro mondiale dell’equity e delle funzioni di investment banking (fusioni e acquisizioni, collocamenti azionari, private placement, ma anche riacquisto di azioni), facendo letteralmente fuori le europee.
Con l’avanzata dell’esercito siriano ad Aleppo, è possibile notare e vedere concretamente qual è stato lo stile di vita nella città prima che la guerra ed il terrorismo prendessero il sopravvento; in giorni in cui presso molti media occidentali si è parlato di non meglio precisati ospedali distrutti nei territori controllati dai ribelli ad Aleppo, è emersa la ben più che paradossale vicenda della struttura di Al Kindi, posta a nord della metropoli siriana.
La storia di questo nosocomio è emblema di cosa sono stati Aleppo e la Siria prima della guerra e cosa i terroristi di al Nusra e ‘soci’ sono riusciti a distruggere dal 2011 ad oggi; l’ospedale di Al Kindi infatti, è stato (bisogna purtroppo parlare al passato) un centro specializzato contro il cancro: dal Medio Oriente e dalla Siria, molte persone sono riuscite ad evitare viaggi della speranza in Europa o negli Stati del Golfo ed hanno potuto curarsi in questa grande struttura pubblica posta nei quartieri nord di Aleppo, non lontano dalla zona industriale di Handarat e dalla Castillo Road. Un centro di eccellenza, un vanto della sanità della Repubblica Araba siriana, che per anni ha curato migliaia di persone e che però a partire dal 2012 ha dovuto cessare ogni attività; quelli che per tanto tempo sono stati chiamati ‘ribelli moderati’, incuranti dell’importanza civile dell’ospedale, hanno bersagliato la struttura e ne hanno fatto un sito strategico della battaglia di Aleppo: infatti, l’Al Kindi era posto in un’altura che, grazie ad un’eventuale conquista, avrebbe permesso di minacciare gran parte del nord della seconda città siriana.
La dipendenza da internet provoca disturbi della personalità. E le patologie sono sempre più frequenti fra gli eternamente connessi alla rete
Confusione, smarrimento, ansia. Insonnia. Tremore e totale mancanza di concentrazione. Ti parlano, ma stai pensando ad altro, oppure non pensi affatto. Non sei in grado di farlo. Non si tratta di mal d’amore, né di tasse in scadenza, neanche di Alzheimer precoce. Succede che la ram dello smartphone non risponda più alle funzioni, inibendo l’utilizzo di tutte le app. O che la scheda madre del pc sia danneggiata. Per giorni in assistenza e la nostra vita connessa si ferma. E può succedere, in particolari condizioni di dipendenza, che ci troviamo ad essere colpiti dallo Iad, acronimo di “Internet Addiction Disorder”. Una vera patologia causata dall’eccessivo uso dei mezzi informatici che offrono la connessione internet.
Una sindrome non rara. Chi trascorre la maggior parte del suo tempo nella rete potrebbe esserne colpito. Il problema non sta nelle app, né nel sistema Android, o nell’Iphone, ma nell’uso smodato che si fa di questi strumenti. Come se la nostra vita si sdoppiasse in due realtà, la reale e la virtuale. E forse non è ancora questo il problema che conduce allo Iad. È che la vita virtuale inquina le sinapsi a tal punto da superare quella reale, diventando poi inesorabilmente l’unica realtà.
Come si finisce nell’obnubilamento del reale e nell’interruzione spasmodica del normale scorrere delle attività della nostra giornata per navigare nella rete?
Riceviamo, da Palermo, e volentieri pubblichiamo
«Italia a 5 Stelle, l'evento che ha avuto luogo a Palermo, ha messo in luce la vera natura del M5S smentendo tante stupidaggini: un movimento autorganizzato, formato da attivisti che, come avveniva nei partiti storici della sinistra, danno di tutto per il Movimento. Tavole rotonde, agorà, gli interventi di Grillo, Davide Casaleggio, Di Battista, Di Maio, Spadoni, il collegamento via telematico con Assange dimostrano quanto siano lontani e falsi i giudizi dati dalle tv del PD e della sinistra sulla natura del Movimento.
Ma andiamo con ordine:
-politica estera: il M5S è per l'uscita della NATO, per rompere le relazioni con la Turchia e riconoscere il diritto d'autodeterminazione del popolo Kurdo e palestinese.
-politica economica: nazionalizzazione delle banche in crisi, reddito di cittadinanza, rottura con l'austerity , accordi economici con i paesi del Mediterraneo
-politica agricola: no agli OGM e alla svendita dei prodotti agricoli per favorire le multinazionali del grano e dell'orzo, si a incentivi per l'agricoltura biologica, no alle tasse imposte da Bruxelles
1. Potere
di revisione costituzionale e potere
costituente – C’è un fatto che accompagna,
da circa trenta anni, la lunga crisi della democrazia
italiana.
All’aggravarsi di tutti i suoi aspetti – il discredito e lo
sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità
all’economia e alla finanza, la loro opzione comune e sempre
più esplicita per le controriforme in materia di lavoro e di
stato sociale
– ha fatto costantemente riscontro il progetto di indebolire
il Parlamento e di rafforzare il governo, tramite modifiche
sempre più gravi
della seconda parte della Costituzione repubblicana: dapprima,
negli anni Ottanta e Novanta, i tentativi delle Commissioni
Bozzi, De Mita-Jotti
e D’Alema; poi l’assalto ben più di fondo alla Costituzione da
parte del governo Berlusconi con la riforma del 2005, scritta
dai
cosiddetti “quattro saggi” in una baita di Lorenzago e
bocciata dal referendum del giugno 2006 con il 61% dei voti;
infine l’ultima,
non meno grave aggressione: la legge di revisione
costituzionale Renzi-Boschi approvata il 12 aprile 2016, sulla
quale si svolgerà il
referendum confermativo nel prossimo ottobre. Di nuovo, come
sempre, l’argomento a sostegno della revisione, oltre a quello
penoso e demagogico
della riduzione dei costi della politica, è stato la necessità
di accrescere la “governabilità” nel tentativo, ancora
una volta, del ceto di governo di far ricadere sulla nostra
carta costituzionale la responsabilità della propria
inettitudine.
L’attuale revisione costituzionale investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139.
La miccia siriana: gli USA pensano sia possibile passare da una guerra circoscritta a una generalizzata e intanto vedere come reagisce l'avversario
Quod vult perdere Jupiter
dementat
Giove
toglie prima il senno a quelli che vuole rovinare
1. La Russia e gli Stati Uniti hanno rotto ogni collaborazione sulla Siria.
Dopo l'attacco aereo statunitense su Deir ez-Zor, coordinato con l'ISIS (e ci sono intercettazioni militari a riguardo) dove sono stati uccisi circa 80 soldati siriani e un numero non noto di militari russi e l'immediata, letale e soprattutto non prevista reazione russa, non riportata dai media occidentali (e ammessa solo implicitamente da Mosca) che ha annientato una centrale operativa di supporto ai "ribelli", nella fattispecie quasi tutti del Fronte al-Nusra, cioè al-Qa'ida in Siria, operanti ad Aleppo Est e Idlib, dove sono morti circa 30 ufficiali israeliani, qatarioti, sauditi, turchi e statunitensi, e dopo le accuse di Mosca a Washington di sostenere i jihadisti e la riasserzione che, costi quel che costi, Mosca non lascerà mai Damasco in mano ai jihadisti, gli Usa hanno iniziato a reagire come un pugile rintronato ma incattivito.
2. Da una parte il Pentagono e la CIA hanno dichiarato, ormai apertamente e senza più alcun ritegno, che aumenteranno il loro sostegno ai jihadisti con missili terra-aria e missili anticarro.
Su Naked Capitalism, un bellissimo articolo dell’antropologo David Graeber, nato in risposta ad una controversia con l’economista di scuola austriaca Robert Murphy, rivela la totale infondatezza del Mito del Baratto, secondo il quale la moneta sarebbe nata dal baratto delle società primitive. Perché, si chiede Graeber, se tutte le prove dicono il contrario, gli economisti continuano ferocemente a sostenere questo mito? Perché senza di esso crollerebbe la visione razionalista e monodimensionale dell’Homo Oeconomicus, svelando la natura prescrittiva dell’economia (liberale): più che una scienza, una disciplina che pretende di dire agli uomini come dovrebbero comportarsi, una religione le cui teorie devono essere difese dai propri adepti a prescindere da qualsiasi realtà empirica
Pubblico qui questa versione più
dettagliata della mia
risposta, non solo per fugare ogni dubbio, ma perché l’intera
questione delle origini della moneta solleva altre
interessanti domande
– non ultima, perché gli economisti contemporanei si scaldino
tanto in proposito. Per cominciare, fornisco dei ragguagli
sullo
stato attuale del dibattito scientifico in merito, spiego la
mia posizione, e mostro come un vero dibattito avrebbe potuto
svolgersi.
Innanzitutto, la storia:
1) Adam Smith per primo sostenne ne “La ricchezza delle nazioni” che, non appena nella società umana è apparsa la divisione del lavoro, con la specializzazione di alcuni ad esempio nella caccia, di altri nelle punte di freccia, la gente avrebbe cominciato a scambiarsi le merci gli uni con gli altri (sei punte di freccia per una pelle di castoro, per esempio). Questa abitudine, però, avrebbe logicamente portato a un problema che gli economisti hanno denominato come il problema della ‘doppia coincidenza dei bisogni “- perché lo scambio sia possibile, entrambe le parti devono avere qualcosa che l’altro è disposto ad accettare in cambio. Questo fa presumere che alla fine la gente abbia cominciato ad accumulare riserve di beni ritenuti generalmente appetibili, e che per questa stessa ragione sarebbero diventati ancora più largamente accettati, e che, alla fine, sarebbero diventati moneta. Il baratto in tal modo ha dato origine alla moneta, e la moneta, infine, al credito.
Anche se la prudenza consiglierebbe di non precipitarsi a scrivere di questo piccolo grande “caso”, mi sembra veramente impossibile non farlo. Dopo la levata di scudi contro gli spot pro fertilità del ministro Lorenzini, i nuovi agghiaccianti opuscoli sostitutivi sembrano rientrare nella tipica fattispecie “pulisco la macchia di vino sulla tovaglia strofinandola un po’ con la merda”.
Come si può vedere, l’opuscolo reca una splendida doppia coppia eterosessuale “buona”, opposta a un nero, una donna solitaria e un tizio che si fuma un bong, che sarebbero i “cattivi compagni” da abbandonare. La cosa sarebbe semplicemente ridicola, o normalmente idiota – un po’ come i manifesti di qualche anno fa sulla violenza sulle donne che coprivano il volto dell’uomo con una pecetta nera su cui c’era scritto “la violenza ha mille volti: impara a riconoscerli” – se qui non fossero in gioco ben altro che il semplice razzismo e la becera stupidità. Da questo opuscolo traspare allo stato puro l’istanza normalizzante, normalizzatrice e selettiva che il sapere medico rappresenta nella nostra società, illustrata in maniera ancor più chiara che in un corso di Michel Foucault.
Non credo affatto di star esagerando, anzi, credo che la cosa sia appena iniziata, e credo che l’eugenismo non si faccia soltanto coi forni, ma anche coi guanti bianchi della politica. Parlo ovviamente dell’eugenismo culturale, dell’omologazione sistematica di qualunque stile di vita che non sia quello dominante – edonista e utilitario – alla malattia, alla follia e alla perversione.
Si parla molto dello scontro televisivo sul referendum costituzionale avvenuto Venerdì sera tra Renzi e Zagrebelsky e il giudizio è quasi unanime: l'abilità comunicativa del premier ha schiacciato l'anziano e dotto professore, perso a contestare i cavilli giuridici della riforma voluta dal PD.
D'altronde l'ha detto lo stesso Zagrebelsky: Renzi è come un'anguilla, capace di sfuggire agli argomenti e alle obiezioni che gli vengon poste e di deviare la discussione con la sua demagogia. Abbiamo sentito infatti il leader del PD citare a sproposito i drammi di chi non ha lavoro, quelli dei malati oncologici, oltre all'immancabile ponte sullo Stretto e le lentezze della burocrazia italiana.
Non sappiamo se questo ha permesso a Renzi di "vincere il match", come piace dire ai giornalisti. Confidiamo nell'intelligenza di chi ascolta nel saper riconoscere le menzogne di chi da due anni va avanti con politiche di lacrime e sangue, gira a braccetto con manager e finanzieri e ora all'improvviso sembra scoprire i drammi delle classi popolari.
Però una cosa è vera: le ragioni del NO, le nostre ragioni, non sono riuscite a uscir fuori con la chiarezza che meritano, non sono state rappresentate come vorremmo. E non è una questione di comunicazione, ma di essere capaci quanto e più di Renzi di parlare agli interessi delle masse di sfruttati di questo paese, ancora liberi (chi sa per quanto!) di esprimersi attraverso il voto.
Una manovricchia per non scontentare nessuno (meno che mai l'UE). Cosa ci dicono i numeri della Nota di aggiornamento al DEF che preparano la nuova Legge di bilancio
Un tempo si chiamava "finanziaria", ma gli italiani la traducevano correttamente in "sacrifici". Così il "politicamente corretto" eurista decise di denominarla "legge di stabilità". Bella la "stabilità" del disoccupato, del pensionato al minimo, del precario a vita... Insomma, anche quel nome pareva una beffa. Ma sicuramente non è per questo che si è infine arrivati a chiamarla "legge di bilancio", una terminologia più asettica che non cambia la sostanza delle cose.
Cose che, da un quarto di secolo, ci rimandano a regole, trattati, accordi e diktat europei. E così sarà anche questa volta. La base di previsione macroeconomica sulla quale si fondano i vincoli esterni della legge di bilancio (ormai bisogna chiamarla così) è rappresentata dal DEF (Documento di economia e finanza, che viene varato ad aprile di ogni anno) e dalla Nota di aggiornamento dello stesso documento, che viene redatta a settembre.
In altre parole, gli aggiustamenti di settembre preludono alle concrete misure di ottobre, quando il governo dovrà presentarle al parlamento e a... Bruxelles.
La verità, di per sè assolutamente evidente, è questa: se la regione di Aleppo viene riconquistata dall’esercito siriano, la guerra è finita e addio ai piani di Washington, (con Parigi e Londra in funzione di valletti) sulla sistemazione neocoloniale del medio oriente e delle zone petrolifere. Addio ai miliardi spesi per importare e armare terroristi raccolti un po’ dovunque, addio alle gite segrete di Mc Cain, agli altrettanto segreti stanziamenti del congresso, addio ai generali francesi in gita ai confini con la Turchia, addio alla falsa guerra contro l’Isis. Ma il fallimento di un’operazione dal cinismo agghiacciante che finora è costata un numero incalcolabile di morti e un’incalcolabile danno alla verità, soppressa da ogni tipo di bugie rischia di ripercuotersi su altri fronti, Ucraina in primis, Per questo si moltiplicano gli “errori” degli Usa che attaccano apertamente le truppe siriane, salvo dire che si sono sbagliati, è per questo che è ricominciata senza sosta il “trattamento” mediatico che cerca di raccontare una verità completamente inventata a suon di vittime civili e di bambini morti sotto gli attacchi russi e siriani, di corrispondenze dai grandi alberghi o embedded, mentre spesso si tratta di scenari preparati ad hoc oppure si spacciano le bombe dei cosiddetti ribelli come quelle di Assad o non si ammette che i terroristi si facciano scudo dei civili, la scusa standard per le stragi occidentali. Per questo quando vedo l’orrido crapone del plagiario Saviano presentare, non a gratis evidentemente, un polpettone di Canal + che attraverso Vivendi è legata a Universal television, una delle più atroci multinazionali dell’informazione Usa, sulla propaganda dell’Isis mi vengono i brividi e mi viene da pensare che tutti hanno una loro Gomorra e qualcuno più degli altri.
[Versione originale uscita in francese sulla rivista marxista online “Période”, a cura di Davide Gallo Lassere e Frédéric Monferrand]
Co-fondatore di
riviste come Classe operaia e Primo Maggio e
del gruppo Potere Operaio, Sergio Bologna esamina
in quest’intervista la sua traiettoria intellettuale et
politica. Dalle lotte in
fabbrica negli anni ’60 ai movimenti contemporanei dei
precari e dei lavoratori della logistica, passando per il
movimento del ’77,
Bologna intreccia storia dell’operaismo e storia delle lotte
di classe in Occidente.
* * * *
Potresti ritornare sulle differenti tappe che hanno scandito la storia dell’operaismo, dalla fondazione dei Quaderni rossi fino a Classe operaia?
Non vi è accordo tra di noi circa la periodizzazione della storia operaista. Secondo Mario Tronti questa storia termina nel 1966 con la fine di Classe operaia; secondo me si prolunga fino alla fine degli anni ’70. Il periodo 1961-1966 è senza dubbio quello durante il quale furono tracciate le linee fondamentali della teoria operaista da Romano Alquati, Mario Tronti e Antonio Negri. Raniero Panzieri fu anche lui un fondatore, ma non si è mai definito “operaista”. La questione della storia dell’operaismo è dunque controversa. Il mio punto di vista personale è il seguente: tra il 1961 e il 1966 sono state poste le basi della teoria; tra il 1967 e il 1973 si è cercato di verificare la capacità di queste teorie nel mobilizzare i movimenti sociali e la risposta - almeno per gli anni 1968-69 - non può essere altro che affermativa.
A dieci mesi dall'insediamento del governo Macri, pubblichiamo la prima parte di una conversazione con Diego Sztulwark su macro e micro politiche neoliberali, corruzione e nuove povertà, sfide dei movimenti e panorama politico argentino nella crisi del progressismo latinoamericano
Con il governo di
Cambiemos in Argentina il
panorama politico ed economico è pesantemente segnato dal
ritorno delle politiche strutturali di austerità e dalle
privatizzazioni: in
pochi mesi vi sono stati migliaia di licenziamenti sia nel
settore pubblico che nel privato, il Parlamento ha
approvato nuove misure di indebitamento
estero, per la prima volta dopo dieci anni sono ripartite
le ispezioni del FMI. Intanto cresce senza sosta
l’inflazione ed aumentano i prezzi
dei servizi di base, dell’acqua, del gas, dell’elettricità
e dei trasporti (con percentuali che vanno dal 300 all’800
per
cento). Abbiamo vissuto mesi densi di mobilitazioni
popolari animate da differenti settori sociali e politici,
decine di scioperi e manifestazioni
sindacali, giornate di lotta del movimento delle donne e
degli studenti, significative mobilitazioni dei lavoratori
delle economie popolari. Si
è trattato di appuntamenti di piazza spesso differenti tra
loro, che hanno cominciato a delineare una mappa della
resistenza possibile,
segnalando l’esistenza di una grande capacità di
organizzazione popolare e di una diffusa disponibilità al
conflitto in un quadro
di violenta offensiva neoliberale.
Queste manifestazioni spesso moltitudinarie ed importanti, tanto nei numeri quanto rispetto alla capacità di mobilitazione della composizione sociale e politica di cui sono espressione, non hanno avuto però la capacità di fermare le politiche di austerità.
Il recente
volume, La crisi del soggetto.
Marxismo e filosofia negli anni Settanta ed Ottanta,
curato dal presidente della Fondazione Istituto Gramsci di
Roma Giuseppe Vacca ed apparso
per le edizioni Carocci, nel 2015, si propone un compito
estremamente arduo: rispondere cioè alla domanda che lo stesso
Vacca si pone nella
prefazione: «come mai nei primi anni Settanta pareva che il
marxismo vivesse una stagione ricca di promesse ed ambizioni,
e dieci anni dopo
sembrava che non ne sopravvivesse più nulla?».2
Detto altrimenti, il volume, frutto di diversi seminari ed incontri pubblici tenuti in maniera sinergica dalla Fondazione Gramsci e dalla Scuola Normale di Pisa coinvolgendo filosofi, storici, scienziati politici e sociologi della politica, cerca di indagare lo sviluppo del marxismo in Italia tra la metà degli anni Settanta sino ai primi anni Ottanta, provando a comprendere come quello che sembrava un indiscutibile ed inattaccabile primato politico-culturale (nonché capace di fare mercato, almeno quello editoriale) sia rapidamente tramontato con l’inizio del declino politico del Pci, portando ad una rinnovata e riproclamata definitiva crisi e morte del marxismo stesso. Quest’ultima peraltro, nel nostro panorama politico e culturale del nostro paese, è durata a lungo, almeno sino a qualche anno fa, quando invece, complice la nuova profonda crisi economica che ha investito l’Occidente capitalistico a partire dai mutui sub-prime americani, la riflessione storico-politico del Moro è tornata ad essere di grande attualità, producendo una ennesima riscoperta e nuova attenzione anche editoriale, come dimostrano le numerose recenti pubblicazioni dedicate al marxismo nelle sue varie forme.3
Ho visto in differita il confronto Renzi-Zagrebelsky. Il professore è stato colto, elegante, argomentato e la sua superiorità tecnica è stata indiscutibile: tutto sbagliato, non poteva fare servizio peggiore al No. I referendum non sono gare di bellezza.
Quell’approccio sarebbe stato perfetto per un convegno di giuristi, una lezione in facoltà o nel salotto della contessa Maffei, ma i giuristi e gli intellettuali in generale, gli studenti di giurisprudenza e le contesse Maffei sono solo una piccola minoranza del paese. Se vai in televisione, la tua platea è fatta da tante signore Maria di Voghera, signori Mario pensionati di Rossano Calabro, Carlo ragioniere di Oristano, Giuseppe commerciante di Cantù, Luciana operaia tessile di Biella, Corrado falegname di Vicenza. Ed al referendum quelli decisivi sono questi e non le contesse Maffei.
Il primo errore del professore è stato non capire di fronte a quale platea parlava e, pertanto, è caduto con tutti due i piedi nel trappolone di Renzi: dimostrare che quelli del no sono i soliti parrucconi astratti, incomprensibili, incapaci di capire le urgenze politiche ed estranei alla cultura del “fare”, per cui non apprezzano gli sforzi di chi “fa”.
Demagogia? Sicuramente! Ma contro i demagoghi cultura ed eleganza non servono a niente. Voi volete vincere un torneo di chatch nel fango mandando Roberto Bolle? Lo spezzano in venti secondi netti.
Magari è scorretto cominciare così, con l’esortazione a votare no al referendum costituzionale per darci almeno una chance di evitare la guerra. Sembrano due cose che apparentemente non c’entrano nulla eppure la manipolazione della carta fondamentale della Repubblica, avvenuta per giunta in modo così cialtrone e banditesco, apre la strada a un suo ribaltamento completo e a un regime di servi sciocchi all’ultimo stadio che potrebbe votarci facilmente alla distruzione. Forse è scorretto e appare inutilmente catastrofico, ma borsa canta e i segnali dello scontro si moltiplicano: in questi giorni abbiamo assistito al progressivo crollo dei titoli di Deutsche Bank, prima a Wall Street nella giornata di giovedì e poi in Europa nelle prime ore di ieri. Panico assoluto perché Bloomberg ha fatto sapere che alcuni fondi di investimento tra i più importanti avevano deciso di abbandonare gli investimenti su Deutsche e andare altrove. E non abbiamo collegato le notizie tra un fatto che pare economico nel suo senso più banale e la geopolitica.
Ma basta pensarci e le cose appaiono davvero strane perché è noto da anni, da almeno sei, che la maggiore banca tedesca ha una concentrazione di titoli spazzatura da far paura, equivalente a quattro o cinque volte il pil europeo, se non di più e secondo le famose leggi dell’economia le sue azioni avrebbero dovuto implodere da tempo, spargendo uno tsunami di proporzioni catastrofiche, ma si sa che quelle leggi valgono quando si tratta di rapinare un lavoratore o un pensionato, mica per i padroni del vapore.
Eschilo e i mercanti. L'obiettivo è limitare gli studi classici solo ai ricchi. Reagire alla volontà di sanzionare la criticità dei saperi teorici rispetto al mercato
«Tutte le volte che negli studi di antichità si fanno sentire esigenze di rinnovamento, tanto più è necessario, se non si vuole costruire sulla sabbia, mantenere l’esercizio del “mestiere”». D’altra parte, «senza il possesso della deprecata »tecnica» l’interesse storico rimane velleitario». Così un filologo materialista e «leopardiano» come Timpanaro prendeva posizione, negli anni ’70, contro l’eclettica disponibilità con cui la filologia inglobava i nuovi strumenti strutturalistici e antropologici, spesso in nome di malcelate «civetterie interdisciplinari».
OGGI, NEL CONTESTO DURO E INASPRITO DEL DECLINO ITALIANO, in cui il diritto alla formazione è diventato un costo non più sostenibile, l’ipocrisia dilagante ammanta di ragionevolezza l’attacco portato al cuore delle discipline classiche sotto forma di auspicata amputazione della lingua greca e latina. L’argomentazione si sposta di volta in volta dall’ambito statistico (il calo di iscrizioni al liceo classico) a quello economico (i saperi improduttivi, la spesa senza ritorno immediato) a quello sociologico in versione falsamente egualitaria (gli studi classici come sacca di privilegio: è l’argomento di detrattori di comprovato egualitarismo quali Vespa, Ichino, Berlinguer).
E' una buona notizia, ha commentato il portavoce presidenziale russo, Dmitrij Peskov, a proposito del fatto che il Ministero degli esteri olandese abbia convocato l'ambasciatore russo, per discutere delle critiche mosse da Mosca al rapporto della commissione d'inchiesta sull'abbattimento del Boeing malese MH17 sui cieli dell'Ucraina, nel luglio 2014; “il nostro plenipotenziario avrà così l'opportunità di esporre il punto di vista di Mosca” ha detto Peskov.
In precedenza, gli olandesi avevano qualificato come “infondati e inaccettabili” i rilievi russi a proposito dell'indagine sul disastro che era costato la vita a 298 persone. Un'indagine che non ha mai preso in considerazione gli elementi forniti a più riprese dalla parte russa e anche da fonti esterne (lo storico olandese Jost Nimjuller, ad esempio, autore di un volume sulla tragedia del Boeing, si è sempre detto sconcertato che non siano mai stati presi in considerazioni i dati della radiolocalizzazione) e che anzi sembra essersi indirizzata, sin dall'inizio, a “trovare” elementi tali da poter addossare alle milizie del Donbass la responsabilità della tragedia, ignorando ogni evidenza a contrario.
E il Ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, intervistato dalla BBC e invitato a scusarsi per il “fatto” che, secondo il rapporto olandese, il sistema missilistico “BUK” con cui, secondo la commissione internazionale JIT, le milizie avrebbero colpito il Boeing, sarebbe stato loro fornito dalla Russia e successivamente riportato indietro, ha fermamente rifiutato ogni scusa.
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Presentiamo
ai
lettori e alle lettrici italiani/e un’anteprima del libro “Guerres
et Capital” di Éric Alliez e Maurizio
Lazzarato che uscirà in Francia per Edition
Ámsterdam il prossimo 22 ottobre. Si tratta
dell’introduzione al volume,
intitolata Á nos ennemis, Ai nostri nemici. La
traduzione italiana è a cura di Antonio Alia, Andrea
Fumagalli, Davide Gallo
Lassere e Cristina Morini. Il testo viene presentato in
contemporanea anche sul sito
Commonware.
Qui si può scaricare il pdf dell’Introduzione, in francese: guerres-et-capital introduction.
*****
1. Viviamo nel tempo della soggettivazione delle guerre civili. Non usciamo da un’epoca in cui il mercato, gli automatismi della governamentalità e della depoliticizzazione dell’economia del debito trionfano per rivivere l’epoca delle “concezioni del mondo”, ma per entrare nell’epoca della costruzione di nuove macchine da guerra.
2. Il capitalismo e il liberalismo portano le guerre al loro interno come le nuvole portano la tempesta.
Un popolo eroico, con ormai solo 17
milioni di abitanti su 23, di cui non si sa quanti uccisi e
circa 5 sradicati, in fuga, sparsi nel mondo, perlopiù alla
mercè di
schiavisti turchi e di negrieri europei, centinaia di migliaia
di vittime tra civili e combattenti patrioti, una delle più
antiche
civiltà del mondo, quella che ha dato i natali al meglio di
noi e poi ci ha restituito Aristotile ed Eschilo, un popolo
sepolto sotto il
vilipendio di una narrazione falsa e bugiarda da parte di
mandanti e sicari, ieri ha potuto far sentire la sua voce in
una sede istituzionale
del più alto livello, nella casa deputata all’esercizio della
sovranità del popolo. Per la prima volta. Grazie al Movimento
Cinque
Stelle, grazie al deputato Manlio Di Stefano, responsabile
Esteri del Movimento.
Un popolo eroico, avanguardia del riscatto nazionale anticoloniale arabo, affermatosi come il più valido resistente nella tre guerre d’aggressione dell’elemento estraneo incistato dal neocolonialismo nel corpo della nazione araba, oggi in piedi, sanguinante, ma non piegato, dopo quasi sei anni in cui gli si è lanciato contro quanto di più criminale e orrendo l’Uccidente imperialista, con il suo presidio locale israeliano, abbia saputo concepire nei secoli delle sue scorribande genocide e predatrici: le più sofisticate tecnologie di morte insieme ai perenni strumenti della fame, delle malattie (sanzioni) e delle armate di lanzichenecchi.
Il terrore dei
silenzi durante una conversazione, l’angoscia che toglie il
respiro quando viene rivolta una richiesta di attenzione dalla
persona cara; o
l’ansia che prende quando l’argomento del dialogo con amici,
famigliari, amanti richiede impegno e concentrazione. Infine
la paura della
solitudine. Questa la cornice cesellata da Sherry Turkle
nell’ultimo saggio La conversazione necessaria
(Einaudi, traduzione di Luigi
Giacone, pp. 447, € 26) dedicato al dialogo nell’era digitale.
Un libro che rivela l’ostilità verso un mondo, quello
contemporaneo, dove ogni aspetto della vita privata e sociale
deve chinarsi alla algida tendenza a rendere tutto calcolabile
e a una costante
accelerazione della vita individuale e sociale. Ma che va
letto, al tempo stesso, come un disincantato atto di amore, a
volte dal sapore melenso ma
mai antitecnologico, verso l’attitudine delle discipline
umanistiche nel fornire strumenti per vivere in una realtà
dove siamo
Insieme ma soli, come titolava un altro saggio di
Sherry Turkle pubblicato da Codice edizioni. In una
successione seriosa di aspetti della
vita sociale dove la conversazione ha un ruolo essenziale – la
famiglia, il lavoro, l’amore, l’educazione, la politica –,
l’autrice così affronta i mutamenti intervenuti nella
conversazione: meglio, analizza il venir meno di questa
attività quotidiana,
sostituita da scambi di messaggi, post e incontri mediati
dalla Rete.
Nell’affresco che emerge ci sono nuvole di parole e immagini che avvolgono i singoli, quasi a costituire un habitus che indirizza scelte e comportamenti individuali.
«Se l’Europa non ci dà ascolto, faremo da soli» ha sbruffato Renzi di fronte alle crescenti chiusure dei governi dell’Unione, che non vogliono farsi carico dei migranti in fuga da guerre e miseria. Ma come faremo da soli, noi, abitanti di una penisola in mezzo al Mediterraneo, che non ha frontiere se non tra le valli delle Alpi? Eppure in questa espressione di sfida si può limpidamente scorgere la differenza che corre tra uno statista, figura quasi scomparsa, che guida il proprio paese con lungimiranza strategica e un qualunque rappresentante del ceto politico. Vale a dire quella figura oggi prevalente di professionista, perennemente in campagna elettorale, che usa le leve del potere pubblico per affermare e conservare il proprio. Uno sguardo ai membri dei governi europei ci offre un campionario desolatamente esaustivo. Il moto di Renzi, naturalmente, è un abbaiare dei cani alla luna. Ed è noto che quella solitaria protesta non ha mai cambiato la sorte dei cani sulla Terrai, né il corso dei moti lunari.
Eppure, se Renzi fosse uno statista potrebbe davvero sparigliare le carte, con una mossa che toglierebbe il sonno a non pochi governi. Il ritiro unilaterale e immediato dei nostri soldati, circa 4.500, dai vari teatri di guerra e il disimpegno economico del nostro stato in spese belliche: oltre 29 miliardi di € nell’anno 2015, circa 80 milioni di € al giorno secondo i dati dell’agenzia indipendente Sthockolm International Peace Research (SIPRI).
Nella discussione sul futuro del liceo classico in Italia è molto usato, da parte dei suoi difensori, l’argomento “chi studia il greco e il latino diventa un eccellente professionista in qualunque campo”. A parte il fatto che eccellenti professionisti si formano anche in molti altri modi, non amo molto questo tipo di difesa degli studi classici, perché attribuisce all’apprendimento della lingua greca e latina una funzione ‘ginnica’ e preliminare rispetto a saperi altri, più importanti e con maggiori prospettive di occupazione e appagamento personale. Mi sembra, insomma, che non promettiamo allo studente di liceo classico di diventare direttore del British Museum, o archeologo tra le sabbie d’Egitto, o artista che innova una tradizione solidamente appresa; per rassicurarlo, gli promettiamo piuttosto di diventare avvocato, medico o scienziato. Questa mentalità, diffusa dentro e fuori le aule dei licei classici, offende, mi pare, il valore autonomo della conoscenza storica, per di più in un Paese come il nostro; mi piacerebbe piuttosto che la cultura greco-latina fosse nota al maggior numero possibile di persone, e che quindi anche nelle scuole non liceali gli studenti fossero messi di fronte, seriamente, a quel patrimonio di memoria e identità. Certo, non con la traduzione, per tutti, dei testi scritti in quelle lingue. Il liceo classico deve rimanere l’indirizzo frequentato da chi decide di approfondire e affinare da un lato competenze linguistiche, per mezzo dell’apprendimento dei sistemi chiusi delle cosiddette ‘lingue morte’, dall’altro competenze testuali, per mezzo dell’esercizio di traduzione.
All’inizio furono i buoni uffici di Davide Serra, fondo Algebris e tessera PD, il finanziere che è stato ripagato con un inside trading che ha permesso di guadagnare sul rialzo delle popolari dopo un decreto e sul crollo di Mps dopo una serie di misure interne.
Renzi andava bene sul Financial Times: prometteva di fare la sponda liberista a Cameron, un approdo italiano per i capitali in cerca di affari e di essere un bastione contro l’austerità tedesca (quella che, nella lettura angloamericana della crisi impedisce la proliferazione dei capitali).Insomma, un’Italia dove la città tipo è molto più simile a Manchester che a Pescara. Una apertura di credito, da parte del quotidiano finanziario londinese, di proprietà giapponese, nella speranza di una rottura definitiva con i rigidi assetti di quel blocco di potere che (dalle grandi opere al management bancario, all’amministrazione dello stato, al ceto politico) visto come un’impedimento per un compiuto sbocco della globalizzazione in Italia.
In effetti Matteo, per compiacere quel mondo, di diplomazia ne ha messa tanta. Solo che il renzismo è un veloce movimento di parole, un compulsivo movimento di poteri quanto un immobile movimento politico. Tutta l’innovazione politico-finanziaria si è concretizzata nella richiesta di “flessibilità” a Bruxelles, qualche miliardata di sforamento del deficit per tirare a campare e Cameron, a suo tempo, è stato lasciato solo come uno Tsipras qualsiasi.
Premessa
Il Comune di Roma è sull’orlo della bancarotta mentre la situazione dei trasporti pubblici e dello smaltimento dei rifiuti è tragica. Servono risorse per fare grandi investimenti ma il Comune non può chiedere soldi sul mercato perché nessuno si comprerebbe obbligazioni di fronte ad un debito che si aggira intorno a 13 miliardi di euro e ad un deficit corrente di circa 1 miliardo di euro. In questo quadro, l’unica strada per avere risorse spendibili è quella di liberare euro dal bilancio del Comune attraverso l’emissione di titoli che potrebbero funzionare come una moneta complementare. Più precisamente, si potrebbe creare liquidità cartolarizzando entrate future come le tasse comunali o i proventi che potranno derivare dalla vendita di unità immobiliari del Comune.
Il Piano per Roma
Si potrebbero emettere titoli comunali (1) denominati in euro ma non convertibili in euro, senza interesse, che, dopo due anni dall’emissione, danno il diritto a:
a) ottenere sconti fiscali su imposte/multe/ tariffe da versare al Comune e alle aziende come l’AMA (le entrate tributarie del Comune sono pari a circa 3 miliardi mentre le entrate totali si aggirano intorno a 6,3 miliardi di euro);
Questo è il primo post che fa seguito
alla promessa del libro di approfondirne parti, discutere
critiche e quant’altro. Intenderei cominciare con la vexata
quaestio del
vincolo estero discussa nella quarta lezione del libro. Lo
faccio perché è politicamente oltre che economicamente
centrale.
La questione è posta semplicemente: “E’ la piena sovranità monetaria, vale a dire il possesso di una banca centrale di emissione di una valuta non convertibile, condizione necessaria e sufficiente per l’implementazione di politiche di pieno impiego?”. Questa è la tesi in genere sostenuta dagli esponenti e sostenitori della Modern Monetary Theory (MMT).
La tesi opposta è quella che vede nell’insorgere di squilibri nei conti esteri l’ostacolo principale alla conduzione di politiche di piena occupazione, problema a fronte del quale la piena sovranità monetaria può solo limitatamente essere d’aiuto. Per vincolo estero si intende l’insorgere di squilibri commerciali (e in generale di partite correnti) prima che le politiche fiscali e monetarie abbiano condotto l’economia in piena occupazione. Un MMT, Philip Pilkington (2013), definisce questa tradizione “kaldoriana” dal nome del grande economista eterodosso Nicholas Kaldor (1908-1986). Questo secondo punto di vista è spesso ricondotto anche all’economista britannico Anthony Thirlwall.
Contrordine compagni!
Dunque: finora dovevamo dire che "la liretta, l'Italietta, la carta straccia", e altre consimili scemenze. Sì, insomma, dovevamo, noi "de sinistra", esattamente come gli opinionisti degli organi di stampa del grande capitale, alimentare il mito di una Italia troppo piccola per resistere da sola alle grandi tendenze della globalizzazione. Dovevamo cioè presentare come processo oggettivo, e in quanto tale non gestibile né sindacabile politicamente, il fatto che il popolo italiano dovesse cedere la propria sovranità democratica a beneficio di interessi per definizione esteri (in quanto non nazionali: consultate un dizionario dei contrari).
Perché dovevamo fare, a sinistra, una simile operazione? Bò, questo resta uno dei grandi misteri della storia del nostro paese.
Sospetta è questa corrispondenza di amorosi sensi fra gli intellettuali di sinistra e gli opinionisti del capitale, come ho notato qualche giorno fa. Ed è anche sospetta questa incapacità di comprendere che lo spazio politico ha anche lui un suo horror vacui. Annichilire la sovranità del popolo non significa entrare in uno stato irenico ed edenico: significa solo creare un comodo spazio per la sovranità delle multinazionali, come i fatti stanno dimostrando (e se volete dettagli, vi suggerisco questo post del blog di Nuti, che forse qualcuno dovrebbe tradurre).
Ma per fortuna oggi, grazie alla sagace maieutica dello stesso Nuti e dei suoi coautori, ci siamo lasciati dietro le spalle questo retaggio di un passato subalterno, o, come io amo dire, autorazzista.
L’assemblea
popolare di ieri pomeriggio in Campidoglio ha segnato un punto
di svolta, per diversi motivi. Immaginata come “semplice”
assemblea, ha
travolto le aspettative di tutti e si è trasformata in una
mobilitazione inaspettata. Più di 500 persone hanno occupato
letteralmente la
scalinata antistante l’entrata al Comune, un numero imprevisto
e che infatti ci ha obbligato a trasformare l’assemblea in
manifestazione
pubblica. Il dato numerico è il più eclatante ma forse non il
più rilevante. E’ la composizione sociale dei partecipanti
che ha determinato un salto di qualità, anche questo ricercato
ma per niente scontato in partenza. Non è stata un’assemblea
di
“compagni”, men che meno di militanti. E’ stata una
mobilitazione dei lavoratori delle multiformi vertenze
cittadine; degli abitanti
delle periferie degradate; della miriade di comitati che
lottano contro le devastazioni ambientali territoriali; del
sindacalismo conflittuale; dei
senza casa; dei migranti in lotta. E’ stata una mobilitazione
di classe e di sinistra (le due
cose, ultimamente,
non vanno troppo d’accordo nel mondo), come non si vedeva da
tempo immemore, perché non legata ad una specifica vertenza,
ma
rivendicativa un diritto sociale e politico alla
partecipazione, alla mobilitazione anche contro una
giunta a cui pure erano state fatte
aperture di credito in funzione anti-Pd e anti-liberista.
L’assemblea segna l’inizio di un processo potenzialmente
decisivo:
quello di riavvicinare le ragioni di classe a quelle della
sinistra, mai come oggi distanti e incomunicanti.
Con le vivaci Sei Lezioni di Economia (Imprimatur, agosto 2016) Sergio Cesaratto continua la sua opera di spiegazione dei problemi dell’euro e dell’economia italiana a un pubblico più vasto di quello degli specialisti. Dopo aver curato sull’argomento due importanti raccolte di saggi non accademici ma rivolti pur sempre a lettori con una certa competenza su questioni di economia (con Riccardo Realfonzo, Rive Gauche, Critica della Politica Economica, 2006, ManifestoLibri; con Massimo Pivetti, Oltre l’austerità, ebook, 2012, www.micromega.net), questa volta Cesaratto mira a un pubblico ancora più vasto, di persone interessate ma pressoché senza precedenti studi di economia. Per aiutarle a non accettare il servilismo dei media verso la teoria economica dei ‘pugilatori a pagamento’ che è servita a giustificare la struttura degli accordi sull’euro (servilismo che io ho trovato particolarmente evidente, per fare un esempio, nelle scelte di Repubblica su chi invitare a commentare la politica economica), egli inizia con una introduzione all’approccio teorico classico-keynesiano e a perché esso è scientificamente superiore a quello marginalista o neoclassico che domina libri di testo e discorsi ufficiali. Le prime tre lezioni spiegano la nozione di sovrappiù, come sono stati sormontati i difetti della teoria del valore-lavoro senza rinunciare alle caratteristiche importanti dell’impostazione classica e di Marx, perché l’impostazione marginalista o neoclassica è indifendibile (la critica ‘Sraffiana’), e il principio Keynesiano della domanda effettiva, che supera la legge di Say e permette di combinare l’impostazione classica su prezzi e distribuzione del reddito con una comprensione di crisi e crescita economica quale neppure Marx raggiunse.
Uno dei fantasmi mediatici più accreditati è quello del “grande comunicatore”, un titolo che per la prima volta fu elargito negli anni ‘80 al presidente USA Ronald Reagan. In realtà le pubbliche esibizioni di Reagan erano penose, tali da lasciare annichilito l’uditorio, subissato di barzellette demenziali e di tirate di retorica patriottica prive di riscontro in un’epoca che era già di disincanto. L’omertà giornalistica provvedeva però a far credere che la comunicazione reaganiana fosse superlativa, perciò ciascuno veniva a trovarsi nella condizione della favola dei vestiti dell’imperatore: io non li vedo ma gli altri sì. In Italia il titolo di “grande comunicatore” è stato altrettanto abusivamente affibbiato prima al Buffone di Arcore ed, oggi, a Matteo Renzi. Se poi si considera che il potere, quale che sia, ha una rendita di posizione che gli consente di riscuotere automaticamente consenso, tutti i personaggi citati non sono mai riusciti ad andare oltre il minimo garantito da quella rendita di posizione, perciò per loro, all’appellativo di “grandi comunicatori”, andrebbe preferito quello più consono di “squallidi imbonitori”.
L’omertà mediatica ha però appena stabilito che sia stato Renzi a vincere il confronto televisivo con il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, e ciò appunto per le sue presunte “doti di comunicatore” nei confronti di un avversario sprovveduto in quel campo.
I contenuti generati dagli utenti? Possono essere un bel guaio. Alcune cose che dovete sapere su quell'internet che state usando-creando e che vi usa
Nella immensa scena della comunicazione contemporanea si possono individuare tre grandi famiglie di contenuti:
a) quelli prodotti dagli editori tradizionali e veicolati ai loro utenti soprattutto attraverso stampa, tv e web;
b) quelli prodotti dagli utenti stessi per manifestare il talento, attivare il dialogo con altri utenti, passare il tempo;
c) i contenuti prodotti e veicolati dalla pubblicità.
I contenuti generati dagli utenti sono senza dubbio il nuovo fenomeno.
Ma che cosa erano le "lettere al Direttore"? Gli annunci economici pubblicati dai grandi quotidiani ? I settimanali di compro-vendo quali Porta Portese, Seconda mano, etc ? Le telefonate in diretta alle Radio Private ?
Erano già contenuti generati dagli utenti.
Oggi si chiamano UGC - User Generated Content - e si fa risalire il loro debutto ai social network. In realtà esistevano già nel secolo scorso, ma di certo non erano così importanti.
”E’ ora di dire basta …assieme possiamo convincere Obama, Renzi e tutti i leader internazionali che è ora di rispondere al terrore di Assad e di Putin …che i cittadini di tutto il mondo pretendano una “no fly zone”, una zona dove non possano più volare i bombardieri, per proteggere i civili … stare senza far niente è la cosa peggiore…firma per chiedere subito una “no-fly zone…se ci fossero i nostri figli sotto le bombe cosa vorremmo che facesse il mondo ?”
Avaaz, una delle tante ong dello speculatore finanziario George Soros, esce prontamente allo scoperto proprio quando i jihadisti e con essi gli Stati Uniti sono in gran difficoltà. Una no-fly zone per chi difende l’indipendenza dello stato. Una no-fly zone per permettere ai bombardieri statunitensi ed inglesi di colpire l’esercito siriano e favorire la reazione belluina dei jihadisti. Aleppo est dove i terroristi asserragliati resistono, facendosi forte della popolazione usata come scudo umano, grazie ai massici aiuti in armamenti e vettovaglie che arrivano dagli “amici della Siria”, cioè da coloro che con violenza, terrore e menzogne assediano da più di cinque anni uno stato sovrano.
Anche questo è Impero. Le bufale continuamente proposte e riproposte e continuamente accolte dai media. Tanto più accreditate quando vengono riportate da ong di prestigio.
Pubblichiamo, dopo la lunga pausa estiva, un articolo di Anselm Jappe indispensabile al dibattito decrescita-critica del valore. Dibattito che occuperà ancora le nostre pagine, e presto.
«Decrescenti ancora uno sforzo!», che ho tradotto qualche anno fa con la supervisione di Anselm Jappe e direttamente dalla lezione pubblicata in Francia nella seconda parte del libro Crédit à mort1, circolava in rete, fino ad oggi, in una versione priva di una consistente parte centrale.
La traduzione è già stata pubblicata in appendice al libro «Uscire dall’economia», Mimesis, 2014, curato dal nostro Massimo Maggini. [Riccardo Frola]
Il discorso della
“decrescita” è una fra le rare proposte teoriche un
poco innovative apparse negli ultimi decenni.
La parte del pubblico, ancora molto ristretta, che è attualmente sensibile a questa proposta, sta aumentando incontestabilmente. Questo successo segnala una presa di coscienza di fronte ad un’evidenza: lo sviluppo del capitalismo ci sta trascinando ormai verso una catastrofe ecologica, e non saranno certamente delle automobili meno inquinanti, o qualche filtro in più, a risolvere il problema. Si diffonde una sfiducia nei confronti dell’idea stessa che una crescita economica perpetua sia sempre e comunque desiderabile. Allo stesso tempo, l’insoddisfazione aumenta anche nei confronti di quelle critiche che rimproverano al capitalismo esclusivamente l’ingiusta distribuzione dei suoi frutti, o soltanto i suoi “eccessi”, come le guerre e le violazioni dei “diritti umani”. L’attenzione rivolta al concetto di decrescita, insomma, traduce l’opinione sempre più diffusa che sia l’intera direzione del viaggio intrapreso dalla nostra società ad essere, almeno da qualche decennio, errata e che ci si trovi ormai di fronte ad una “crisi di civilizzazione”, che coinvolge tutti i valori sociali, persino al livello della vita quotidiana (culto del consumo, della velocità, della tecnologia, etc.). Siamo entrati in una crisi che è economica, ecologica ed energetica allo stesso tempo.
Il refrain degli ultimi giorni: Dove sta scritto nella riforma che c’è il rischio di deriva autoritaria?
Renzi a Zagrebelsky:
«Dove
sta scritto nella riforma
che c’è un rischio di deriva
autoritaria?»... Ma è davvero necessario
che sia scritto in modo
esplicito?
A partire dalla sera dell’incontro televisivo Renzi – Zagrebelsky, ogni qual volta parlo di “deriva autoritaria nella riforma” o dico “la riforma cambia la forma di Stato in Premierato” la risposta è: “dove sta scritto”?
Già perché l’esimio costituzionalista Matteo Renzi ha posto questa domanda al Professore.
Probabilmente se avessero ascoltato anche la risposta di Zagrebelsky, i propagandisti #bastaunsi non porrebbero la domanda. O forse non è stato capito il senso della risposta.
L’estratto della conversazione:
RENZI: “Professore, mi dice dove sta
scritto nella riforma che
c’è un rischio di deriva autoritaria?”
ZAGREBELSKY:
“Mi dice chi
scriverà lo statuto delle opposizioni?”
RENZI: “Il
parlamento”
ZAGREBELSKY:
“Eletto con?”
RENZI:
“L’Italicum”
ZAGREBELSKY:
“Quindi sta dicendo che le regole delle opposizioni verranno
scritte da chi governa?”
Nell’androne del palazzo
dove vivo ho trovato un volantino dell’amministrazione
comunale con le istruzioni per la raccolta differenziata
porta-a-porta, in cui si chiama
il cittadino a impegnarsi nell’adempimento dei suoi
diritti/doveri e nel contribuire alla riuscita
dell’operazione.
L’amministrazione a guida Partito Democratico, nel volantino,
tiene a sottolineare che si tratta di una vera e propria
“rivoluzione
culturale”. Niente di strano o di perverso in sé, se non fosse
che lo stesso giorno sentivo la ministra dell’istruzione
Giannini
parlare in termini analoghi, se non identici, a proposito del
concorsone degli insegnanti abilitati per la loro messa in
ruolo: il governo si sarebbe
fatto promotore, a detta della ministra, di un’autentica
rivoluzione culturale il cui fine sarebbe quello di realizzare
l’apice umano
della buona scuola assegnando le cattedre a chi veramente
preparato. Le parole della Giannini, come noto, sono da
intendersi come una risposta
altezzosa di fronte alle numerose e pesanti critiche mossele
da quell’ esercito di riserva degli insegnanti precari delle
scuole medie superiori
che, sebbene abilitati, sono stati respinti ancor prima di
passare alla prova orale – i giornalisti hanno parlato, tra
l’altro, di
“strage degli innocenti”. In particolare, l’anomalia da
segnalare immediatamente per far comprendere la misura del
problema risiede
nel fatto che in molte regioni d’Italia e in molte classi di
concorso, sebbene praticamente tutti i partecipanti avessero
in precedenza
conseguito l’abilitazione (TFA: tirocinio formativo attivo),
già gli ammessi alla prova orale erano ben meno dei posti
dichiarati
disponibili dal ministero – così come del resto, almeno è
l’opinione comune, i posti reali sono ben meno di quelli
precedentemente dichiarati.
Dobbiamo ammetterlo, questa volta il governo ci ha colto di sorpresa pubblicando un dis∫ocial di sua spontanea volontà, dimostrando di non avere ormai nemmeno l’ambizione di assumere le più vaghe sembianze di uno Stato orientato al benessere. Ci riferiamo al recente opuscolo diffuso dal sito investinitaly.com – il portale dell’ICE, l’agenzia per la promozione all’estero e l’internalizzazione delle imprese italiane, in cui compare il logo del Ministero dello Sviluppo Economico – e distribuito a Milano durante la presentazione del piano nazionale Industria 4.0, in cui il governo sfodera tutte le sue migliori carte al fine di attirare capitali e investimenti esteri. Ma quali carte?
Beh, nel mondo c’è chi può garantirsi un posto tra i grandi competitors globali attraverso dei primati tradizionali come le risorse in materie prime, la strategicità della propria posizione geografica, la produzione di sapere, o addirittura puntando sull’innovazione. Allora l’Italia ha dovuto necessariamente trovare degli altri punti di forza, solidi e credibili, per far sì che i capitali del mondo possano intravedere nella penisola degli scorci di «investibilità» al di là di quella serie di catapecchie romane di cui siamo in possesso e che, lo sanno tutti, non serve proprio a nulla se non a impedire di costruire metropolitane più efficienti e ponti sugli stretti. Non è quella la grande bellezza!
Renzi, come Berlusconi, è bravo a vincere, non a governare . Meno spaccone del Cav negli annunci (ma sta migliorando), un filo più efficiente nel gestire, grazie agli avanzi del Pd. Durerà meno, si spera
L’impari confronto televisivo Renzi-Zagrebelsky (ma chi è “la mente” dei Comitati per il NO?) ha avuto il merito di mostrarci un Renzi impacciato nei confronti con arbitro e di farci meglio capire la sua strategia egemonica, quindi di suggerirne una contro-egemonica altrettanto spregiudicata.
Renzi adotta in pieno una logica populista, per cui si serve del referendum quale significante vuoto e contingente per tracciare una linea di divisione immaginaria fra il suo “popolo” plaudente e ansioso di cambiamento e un presunto nemico, impantanato nella conservazione dei privilegi di casta. Si fabbrica un popolo e un nemico nello stesso tempo.
Al significante vuoto si agganciano tutte le possibili catene di equivalenze, per rastrellare e comporre le domande. Annunci, perché non ci sono le risorse per finanziarle e perché devono restare inevase, intercambiabili, segni casuali di una generica volontà di fare, di muoversi, senza ordine di priorità e senza predisposizione di strumenti attuativi. Fare, fare, fare a cazzo. Casa Italia per la prevenzione anti-sismica, Ponte sullo Stretto, Alta velocità e linee per pendolari, taglio delle tasse, revisione di Equitalia, semplificare, togliere vincoli, costruire.
La Colombia ripiomba nell’incertezza dopo la vittoria di strettissima misura (50,2 a 49,8) del NO al referendum per la ratifica degli accordi di pace tra il governo colombiano e la guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC-EP), firmati lo scorso 26 Settembre. Sono passati 52 anni da quando un manipolo di contadini prese le armi per difendersi dalla violenza dei latifondisti e dalla repressione sanguinaria dello Stato al loro servizio e molti di più dall’inizio dell’ accumulazione originaria attraverso la violenza.
Per chi non conosce il Paese, la vera sorpresa di questo voto è stata l’altissima astensione (63%), con un risicato 37% dei colombiani che si è recato alle urne, complice l’uragano Matthew che ha colpito vaste zone del Paese. Ma la maggioranza scettica ha condiviso i dubbi e le incertezze dell’accordo di pace, su cui ha giocato l’estrema destra dell’ ex Presidente Alvaro Uribe.
C’era da aspettarselo, in un Paese altamente polarizzato, profondamente ingiusto, in cui le istituzioni sono a dir poco screditate, dove le elezioni sono truccate ed il voto è storicamente comprato o imposto dai narco-trafficanti, dai latifondisti e dal loro braccio armato paramilitare.
Come è stato possibile che un Paese colpito da più di mezzo secolo di conflitto armato non abbia appoggiato un difficile accordo raggiunto con una delle forze guerrigliere più forti della storia?
Molto si deve alla fama degli Elmetti bianchi siriani, se stanno arrivando in pochi giorni a 1,5 milioni di firme la petizione su Avaaz Protect Aleppo’s children, now! che chiede la no-fly zone (un riuscito cavallo di battaglia per Avaaz anche ai tempi della Libia, sulla base di notizie false).
Pluripremiati e fonte doc
I White Helmets o Elmetti bianchi, autodefinitisi Syria Civil Defense, attivi nelle aree in Siria controllate dall’opposizione armata, hanno da poco ricevuto il Right Livelihood Award, o «Nobel alternativo», normalmente assegnato a partire dal 1990 a persone che hanno davvero aiutato l’umanità – i primi a riceverlo furono un egiziano architetto dei poveri e un’organizzazione per le soluzioni vegetali contro la fame nel mondo. Nelle parole del fondatore, «il premio ha lo scopo di aiutare il Nord a trovare una saggezza che corrisponda alla scienza che possiede, e il Sud a trovare una scienza che corrisponda all'antica saggezza che ha». Ottimi propositi.
I White Helmets siriani sono la «fonte» accreditata di tante delle notizie che arrivano da Aleppo Est – per esempio sull’uso dei «barili bomba» o sui «bombardamenti deliberati degli ospedali» – giorni fa in un twitter hanno messo insieme i due crimini parlando di un vile «attacco a un ospedale con i barili bomba».
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1. Fingiamo per un attimo che
Stiglitz non
sia parte di un establishment USA, storicamente connotato dal
nuovo modo di essere "democrat" (e cioè liberal, ben
radicato nella upper middle class); e fingiamo
pure, per un attimo che Stiglitz non sia il terminale
spendibile, - in un'€uropa sempre più
squassata dal dramma
della disoccupazione e della dottrina ordoliberista al
potere-, di un blocco di potere che, pur
annoverando tra le sue fila, per
l'appunto, persone di oggettivo valore, non riesce a produrre
altro che Hillary Clinton come sua punta di
diamante politica e la
prospettiva, sempre
più concreta, di
una guerra globale nucleare.
Forti (...) di questa "ipotesi" di laboratorio, andiamo dunque a esaminare senza pregiudizi (determinati dal contesto che abbiamo scartato), le interessantissime risposte date da Stiglitz a questa intervista (disponibile fortunatamente in italiano): Referendum, Stiglitz: "Se Renzi perde parte fuga dall'euro".
2. Esaminiamo la prima risposta del Nobel per l'economia, che segue ad una domanda circa la pericolosità (addirittura!) del suo ultimo libro, per aver "fornito munizioni a tutti i populismi", ripiombando l'€uropa nella sue "paure" (cioè la domanda tendeva ad affermare che senza l'euro gli europei non sarebbero capaci di mantenere rapporti civili e cooperativi nei reciproci confronti!!!):
Dodici anni fa, John Perkins ha pubblicato il suo libro “Confessions of an Economic Hit Man” (n.d.T. Confessioni di un sicario dell’economia). Oggi dice che “le cose sono di gran lunga peggiorate.”
Dodici anni fa, John Perkins ha pubblicato il
suo libro, Confessioni di un sicario dell’economia,
che ha
scalato rapidamente la lista dei best-seller del New York
Times. In esso Perkins descrive la sua carriera basata sul
convincere i capi di Stato ad
adottare politiche economiche che hanno impoverito i loro
Paesi e minato le istituzioni democratiche. Queste politiche
hanno contribuito ad arricchire
piccoli gruppi di élite locali, nel mentre imbottivano le
tasche delle multinazionali a base americana.
Perkins è stato reclutato, dice, dalla National Security Agency (NSA), ma ha lavorato per una società di consulenza privata. Il suo lavoro come economista strapagato senza un addestramento adeguato è stato quello di generare report che hanno giustificato lucrosi contratti per le aziende statunitensi, nel mentre le nazioni più vulnerabili venivano immerse nel debito. I Paesi che non hanno collaborato hanno visto le viti serrate sulle loro economie. In Cile, ad esempio, il presidente Richard Nixon ha notoriamente invitato la CIA a “far urlare l’economia” per minare le prospettive del presidente democraticamente eletto, Salvador Allende.
Se la pressione economica e le minacce non hanno funzionato, Perkins dice, gli sciacalli sono stati chiamati sia a rovesciare che ad assassinare i capi di Stato non conformi. Questo è, infatti, quello che è successo a Allende, con l’appoggio della CIA.
Il libro
che avete
tra le mani è una raccolta di interventi con a tema la nuova
natura delle lotte sociali che si sono presentate sulla scena
della più
grande e devastante crisi economica e istituzionale degli
ultimi decenni. Nonostante comincino ad essere numerose le
iniziative editoriali sui
movimenti contro le politiche di austerity, ciò che qui ci
apprestiamo a presentareha una caratteristica piuttosto
singolare: si tratta del
tentativo di leggere come espressioni di una tendenza comune
la variegata costellazione di pratiche sociali che in Europa e
non solo hanno tentato di
resistere allo smantellamento del Welfare State, alla
compressione dei salari, all’aumento della precarizzazione del
lavoro e
dell’impoverimentosociale. Più precisamente, abbiamo provato
ad intendere le pratiche di riappropriazione del reddito e di
autogestione
dei servizi, gli esperimenti di mutualismo così come le nuove
forme di conflitti sul lavoro e per il salario, come
indicatori di un nuovo
fenomeno sindacale. Con l’utilizzo della definizione
di“sindacalismo sociale” si è dunque puntata l’attenzione
su quanto questi conflitti, apparentemente scollegati,
stessero riproponendo ed al contempo radicalmente
riconfigurando, gli assi fondamentali che
hanno caratterizzato l’esperienza storica del sindacalismo: le
forme organizzative della forza lavoro, la pratiche negoziali
e i conflitti sulla
distribuzione del reddito e della ricchezza.
Una risposta a Ernesto Galli della Loggia su bellezza e (diritto alla) città
In un recente editoriale sul Corriere della Sera, intitolato “La bellezza perduta delle nostre città”, Ernesto Galli della Loggia punta l'indice contro il degrado commerciale a cui sono sottoposti i centri storici e le città italiane, saturate dal fluire incontenibile di turisti in qualsiasi stagione dell'anno, snaturate dalla proliferazione di esercizi commerciali pensati unicamente per le esigenze del visitatore mordi & fuggi, negozi di paccottiglia a 1 euro, baretti e tavolini ovunque. È sorprendente, ma pare che la borghesia liberale nostrana cominci ad accorgersi di quello che essa stessa ha prodotto! Inizia a rendersene conto, certo, senza però per questo azzardarsi ad andare alle radici del fenomeno, ormai più che decennale, che ha modificato così radicalmente le nostre città, trasformandole in parchi a tema ad uso e consumo dell'industria turistica. Forse qualche amico si sentirebbe chiamato in causa, non sta bene.
Meglio quindi virare verso il linguaggio del “decoro”, tinteggiato di sfumature razziste, che mira a prendersela fondamentalmente con i kebabbari, con i migranti che gestiscono alimentari notturni, con i venditori abusivi di ogni sorta e con i volgarissimi centurioni, per non parlare dei temibili “caldarrostai bengalesi” (sic!), che degradano e insozzano la “grande bellezza” delle italiche piazze! Contro questo sfacelo, signora mia, manco a dirlo la soluzione è sempre la stessa: più controllo e più polizia, vigili urbani sotto il comando dei carabinieri!
Su Dante e Odifreddi ho già scritto qualche tempo fa (e non so se almeno uno dei due gradirebbe ritrovare così spesso il proprio nome accanto a quello dell’altro). Ma Odifreddi è recidivo e ammette difficilmente di avere torto. Oppure si riscrive senza pensarci troppo. O ha un ghost writer che lo riscrive di continuo. Nel Dizionario della stupidità appena pubblicato da Rizzoli (sottotitolo: Fenomenologia del non-senso della vita), alla voce Dante, si legge infatti (p. 79):
Nel Trattatello in laude di Dante (1360 circa) il Boccaccio racconta che, quando il poeta morì, la Commedia era incompiuta. Mancavano gli ultimi tredici canti, e i figli Iacopo e Pietro furono convinti dagli amici a completarla. Otto mesi dopo la morte il padre apparve però al primo in sogno, lo condusse per mano in una camera e gli indicò una stuoia sul muro, sotto la quale il giorno dopo furono miracolosamente ritrovati gli ammuffiti canti mancanti.
Che cos’è più stupido pensare? Che i figli abbiano completato l’incompiuta opera del padre? O che egli avesse nascosto gli ultimi canti, invece di spedirli a Cangrande della Scala come faceva regolarmente man mano che li finiva, e che essi siano stati ritrovati in seguito a un sogno?
Anche per il Deuteronomio si è stupidamente sostenuto per due millenni che fosse opera di Mosè, ma poi si è dovuto ammettere che invece l’aveva scritto Giosia, inventando il ritrovamento di un perduto rotolo della Torah.
Una riflessione che butto giù così, rispondendo a Peucezio, un commentatore che potremmo definire rispettosamente “reazionario”, il quale scrive:
“Il tradizionalista vuole aggiungere piani all’edificio, il modernista lo vuole ogni volta abbattere e ricostruire in una sorta di attività infinita a vuoto, di non senso permanente.
La modernità in fondo è questo, è distruzione del patrimonio culturale, cioè di ciò che è tramandato, per attingere alle radici biologiche, tornare all’uomo ferino: in fondo l’edonismo e l’anarchia morale e sessuale moderna, lo stesso consumismo è questo, soddisfare gli impulsi più primitivi, scartando tutte le stratificazioni che strutturano la morale e danno un modus, una forma ai comportamenti.
La civiltà industriale e postindustriale è il ritorno all’uomo pre-civile, al bruto.”
Peucezio riassume qui molto bene una forma diffusa di pensiero di Destra.
Credo che ci sia un errore fondamentale nel suo ragionamento, e provo a spiegarlo.
Semplicemente, non ci sono due, ma almeno tre “parti” o meglio tappe: l’Organico, la Modernità e il Flusso Globale, per dare dei nomi un po’ altisonanti.
Il Premio Nobel per la Pace al presidente colombiano Juan Manuel Santos, è di per sé un gesto che lascia senza parole. Noi non crediamo alle nostre orecchie e ci strofiniamo gli occhi: e, così, il merito della firma di un accordo di pace sarebbe solo di uno dei firmatari? Ma dunque a cosa ha pensato il comitato norvegese? Per firmare un accordo, bisogna essere almeno in due e in Colombia, i due firmatari sono stati: Santos e le FARC-EP.
Perché le FARC non hanno ricevuto anch'esse il premio? Per l'accordo di pace in Vietnam, furono Kissinger e Le Duc Tho che a ricevere il premio nel 1973 (il vietnamita lo rifiutò) per l'accordo tra Egitto e Israele, furono Sadat e Begin nel 1978, per l'accordo sudafricano, Mandela e De Klerk nel 1993, per gli accordi di Oslo, furono Arafat, Rabin e Peres nel 1994.
Se ci fosse un uomo che meritava questo premio, era di certo Fidel Castro, perché è a lui che va fondamentalmente il merito per l'accordo di pace in Colombia. E' stato Fidel che ha lavorato instancabilmente nell'ombra per ben vent'anni per raggiungere finalmente i dialoghi di pace dell' Avana. E quello con il minor merito in questo processo, è proprio Santos, che ha perseguito con questi accordi scopi senza nobiltà: contava su di essi per farsi rieleggere nel 2018 e continuare a consegnare la ricchezza di una Colombia pacificata al saccheggio delle multinazionali e dell'oligarchia colombiana.
Discorso tenuto dal professore Raniero La Valle a Messina e Siracusa il 16 e il 17 settembre scorsi. Lo riteniamo utile per una riflessione approfondita in vista del referendum sulla cosiddetta “Riforma Costituzionale”
Cari amici, poiché ho 85 anni
devo dirvi come sono andate le cose. Non sarebbe necessario
essere qui per dirvi come sono andate le cose, se noi ci
trovassimo in una situazione
normale. Ma se guardiamo quello che accade intorno a noi,
vediamo che la situazione non è affatto normale. Che cosa
infatti sta succedendo?
Succede che undici persone al giorno muoiono annegate o
asfissiate nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, davanti
alle meravigliose coste di
Lampedusa, di Pozzallo o di Siracusa dove noi facciamo bagni e
pesca subacquea.
Sessantadue milioni di profughi, di scartati, di perseguitati sono fuggiaschi, gettati nel mondo alla ricerca di una nuova vita, che molti non troveranno. Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni. E l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato. E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo è rasa al suolo, la Siria è dilaniata, l’Iraq è distrutto, l’Afganistan devastato, i palestinesi sono prigionieri da cinquant’anni nella loro terra, Gaza è assediata, la Libia è in guerra, in Africa, in Medio Oriente e anche in Europa si tagliano teste e si allestiscono stragi in nome di Dio. E l’Italia che fa? Toglie lo stipendio ai senatori. Fallisce il G20 ad Hangzhou in Cina.
I grandi della terra, che accumulano armi di distruzione di massa e si combattono nei mercati in tutto il mondo, non sanno che pesci pigliare e il vertice fallisce. Non sanno che fare per i profughi, non sanno che fare per le guerre, non sanno che fare per evitare la catastrofe ambientale, non sanno che fare per promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra, e l’unica cosa che decidono è di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania.
Cosa può ancora dire il pensiero di
Marx sulla crisi che attanaglia il mondo contemporaneo, una
crisi che tende sempre di più a porsi come strumento di
governo capace di
neutralizzare l’insorgere di alternative al modo di vita che
il capitalismo contemporaneo impone al pianeta?
Nell’opera di Marx sono legate all’ insorgere della crisi, alla necessità politica di cogliere le opportunità che essa offre, le accelerazioni della attività teorica, così come la sua concettualizzazione è elemento essenziale della costruzione teorica.
Già negli anni che precedono lo studio intensivo dell’economia politica e della storia economica, cioè gli straordinariamente prolifici anni ’50 dell’esilio londinese, Marx è giunto alla conclusione del carattere strutturale delle ricorrenti crisi capitalistiche, dell’inevitabile sbocco che esse produrranno (Manifesto del partito comunista).
Successivamente, ripresi gli studi economici, affermerà che la crisi commerciale del 1847 è stata la vera madre delle rivoluzioni di febbraio e marzo.
Poi, mentre è impegnato nella stesura della prima bozza del Capitale, auspica ed assiste all’esplodere di una crisi, 1857, che è economica e finanziaria allo stesso tempo. La sua attività si fa febbrile.
L'Occidente punta il dito contro la Russia per il massacro siriano ma le Forze Speciali Statunitensi sanno che le confusionarie politiche degli USA, tese a sostenere i jihadisti, hanno consentito ad Al Qaeda e all'ISIS di distruggere la Siria, spiega l'ex diplomatico britannico
“Sul
campo, nessuno crede in questa missione”, scrive un ex
Berretto Verde a proposito dei programmi segreti di
addestramento e armamento dei ribelli
siriani, “sanno che stiamo addestrando la prossima generazione
di jihadisti, quindi la boicottano perché se ne fregano’”.
“Non voglio sentirmi responsabile quando dei membri di al
Nusra diranno che sono stati addestrati dagli americani”
aggiunge il Berretto
Verde.
In un rapporto dettagliato dal nome Le Forze Speciali statunitensi sabotano le fallimentari Operazioni sotto copertura in Siria, Jack Murphy, anch’egli ex Berretto Verde, racconta che un ex ufficiale CIA gli avrebbe rivelato che “il programma di operazioni segrete in Siria è una creatura del Direttore della CIA John Brennan… È stato Brennan a dare vita alla Syrian Task Force … John Brennan si era innamorato della folle idea di rovesciare il regime.” In sostanza, Murphy sostiene che le Forze Speciali Statunitensi, che stanno armando i gruppi anti-ISIS, rispondevano a un’autorità Presidenziale, mentre la CIA, ossessionata dal pensiero di destituire il Presidente Assad, rispondeva a un’autorità separata e conduceva un programma distinto e parallelo per armare i ribelli.
Il vertice di Bratislava dei capi di Stato e di Governo è stato del tutto inutile rispetto alla possibilità di portare avanti in qualche modo il progetto europeo, o anche di salvaguardarne alcune delle fondamenta
Dunque il vertice di Bratislava dei capi di Stato e di Governo, come abbiamo già ricordato in un precedente articolo apparso su questo stesso sito in data 25 settembre 2016, è stato del tutto inutile rispetto alla possibilità di portare avanti in qualche modo il progetto europeo, o anche semplicemente di salvaguardare alcune delle sue fondamenta; ma si è trattato, per altro verso, soltanto dell’ultimo episodio di una lunga serie di incontri che hanno portato agli stessi inconcludenti risultati. Non mancavano certo i problemi molto seri che dovevano essere affrontati, ma i nostri rappresentanti hanno preferito parlare d’altro. Eppure prima della riunione di Bratislava Jean-Claude Juncker aveva dichiarato che l’Europa attraversa una crisi esistenziale e le dichiarazioni della Merkel (“l’Europa è in una situazione critica”) non sembravano molto diverse.
In un certo senso, i governanti europei fanno pensare da tempo alle conclusioni di un testo relativamente recente di uno storico inglese, volume che, nonostante la sua mole – è lungo circa 700 pagine-, ha avuto un rilevante successo in libreria in vari paesi. Si tratta de I sonnambuli di Christopher Clark, pubblicato nel 2014.
Stiamo contribuendo al controllo su di noi ogni volta che cerchiamo di esercitare le nostre libertà grazie alle reti. Ecco i segreti della nostra 'cibervita'
Yahoo ammette che tre anni fa ignoti le hanno rubato 500 milioni di dati riguardanti i suoi utenti. Si può anche parlare di mezzo miliardo di "corpi digitali" che erano trattenuti in ostaggio nei suoi server e usati per chissà quali scopi. Non c'è da meravigliarsi.
Nonostante il teatrino sulla "difesa della privacy", nessuno difende i nostri corpi digitali.
Tutti siamo incitati a costruirli e metterli a disposizione di ignoti.
Da qualche anno l'accesso a internet a banda larga è diventato un servizio indispensabile, come l'acqua, il gas, l'energia elettrica. Ormai prima di andare in vacanza o addirittura prima di andare al ristorante c'è qualcuno che chiede: "ma c'è l'ADSL ... c'è il Wi-Fi". E se la risposta è negativa commenta: "Eh no! È come non avere la toilette. Non vengo".
Dovunque assistiamo al bizzarro spettacolo di umani intenti a osservare gli schermi dei loro smartphone, dei loro tablet, dei loro PC portatili, che spingono minuscoli tasti e si connettono alla rete. Ormai quasi ogni adolescente e ogni bambino è abbandonato dagli adulti al suo viaggio solitario nella rete.
L’ipocrisia svelata
“I governi di Qatar e Arabia Saudita stanno
fornendo supporto finanziario e logistico clandestino
all’Isis e ad altri
gruppi sunniti radicali nella regione”.
A scriverlo è Hillary Clinton in una mail indirizzata
nell’agosto del 2014 a John Podesta (da sempre uno dei più
stretti collaboratori della famiglia
Clinton ed oggi a capo della sua campagna elettorale).
La mail, rilasciata da Wikileaks, è clamorosa.
Se l’America fosse ancora una democrazia sana e non sottomessa ad un’élite tecnocratica e finanziaria che pilota crisi internazionali e guerre umanitarie (di cui la Clinton è la rappresentante), lo scandalo di questa mail costringerebbe la candidata Presidente al ritiro.
Il motivo è evidente: nonostante fosse a conoscenza dell’appoggio che i regimi del Golfo alleati degli Usa danno all’Isis, la Clinton ha continuato ad accettare milioni di dollari di finanziamento per la sua Fondazione proprio da questi regimi che lei stessa riconosce essere sponsor del terrorismo islamista.
Dell’imbarazzante finanziamento saudita alla signora abbiamo ampiamente parlato in questo articolo dell’agosto scorso che invito a rileggere per sopperire alle “distrazioni” del mainstream democratico occidentale.
Quell'«opaca vicenda bancaria»: la partita del Monte dei Paschi di Siena nelle parole di Ferruccio de Bortoli
Questo sito si è occupato con una discreta continuità della crisi delle banche italiane, ed in particolare della vicenda del Monte dei Paschi di Siena (Mps), che di questa crisi è l'emblema più evidente. In un articolo di inizio agosto (Mps: un "salvatore" di nome JP Morgan?), ipotizzavamo un'operazione a tutto vantaggio di uno dei più importanti avvoltoi della finanza predatoria mondiale: la banca d'affari americana JP Morgan.
Lunedì scorso, un pesante editoriale di Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera ha fornito nuovi elementi su cui vale la pena di spendere qualche parola. Naturalmente il De Bortoli non è un'anima candida. Diciamo che nella partita tra le due sponde dell'Atlantico —entrambe liberiste ed oligarchiche— egli sta (all'opposto di Renzi) con quella europea piuttosto che con quella americana. Sta di fatto che collocandosi in questo modo, ed essendo da sempre del tutto interno ai poteri che contano, l'ex direttore del Corsera è di certo "persona informata dei fatti".
Conviene perciò citare i passaggi fondamentali del suo lungo articolo. Ma prima facciamo un passo indietro, a come concludevamo il nostro pezzo di due mesi fa:
1. È
col cuore grave che sono costretto a prendere atto che dal
giorno 6 ottobre 2016 una guerra tra la
Russia e gli USA è possibile in ogni momento. Una
guerra che può avere devastanti effetti anche per noi. Per
quanto sia orrendo
e penoso parlarne, bisogna farlo, perché i grandi media
nascondono questa serissima eventualità. Non ne parlano perché
vogliono
continuare a farci pensare a una guerra mondiale come a un
videogioco e perché vogliono continuare a convincerci che lo
Zio Sam alla fine
prevarrà, perché è il più forte e perché è nel giusto,
qualsiasi cosa faccia.
Perché un'affermazione così brutale (o catastrofista, come mi vien detto)?
Bene, questo è lo svolgimento del dramma, in tre atti:
Atto 1. A margine dell'Assemblea Generale dell'ONU di qualche giorno fa, il segretario di Stato, John Kerry, si incontra con esponenti dei "ribelli" siriani, i quali sono preoccupati per come stanno andando le cose e soprattutto per il fatto che gli USA non abbiano mai attaccato militarmente Damasco. Kerry farfuglia le cose che potete leggere nell'articolo "Ad Aleppo si gioca il destino del mondo", che per il tema qui riguarda in sintesi suonano così:
Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri questo articolo su Foucault di Paolo Di Remigio. (M.B.)
La sinistra è stata colta di sorpresa
dal neoliberalismo; anziché riconoscerlo come un programma
criticabile,
lo ha scambiato per una svolta storica già accaduta, a cui
rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno prestato i propri
servizi in modo da
averne la piccola ricompensa. Il grande merito delle lezioni
del 1978-79 di Michel Foucault al Collège de France1
è di avere colto la natura di programma del neoliberalismo,
rintracciandone la doppia radice nell'ordo-liberalismo tedesco
della scuola di
Friburgo degli anni ’20 e nel successivo anarco-liberalismo
americano della scuola di Chicago, e narrandone con grande
accuratezza la storia.
Chi leggesse il libro potrebbe riconoscere nelle vecchie idee
ordo-liberali non solo i principi ispiratori dell'Unione
Europea, ma la sua stessa
retorica; l'espressione «economia sociale di mercato», infine
scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là, in
polemica con l'economia keynesiana; l'adorazione ordo-liberale
della concorrenza si è insinuata nel trattato di Lisbona come
definizione della
natura fortemente competitiva dell’Unione Europea2;
la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la
disoccupazione in
occupabilità dei lavoratori ha la sua genesi nella
scuola di Friburgo. Dall'anarco-capitalismo americano è invece
influenzato,
più che il moralismo europeista della competitività, il
capitalismo post-keynesiano in generale, che pretende di fare
dell'individuo,
qualunque sia la sua condizione, un imprenditore, e della sua
attività, qualunque essa sia, un'impresa3.
1.
Si parla molto di “democrazia” (per lo più in relazione alla
sua “crisi”), senza che,
però, gli innumerevoli partecipanti a questo dibattito globale
riescano a proporre un uso univoco e costante della parola.
Certo,
“democrazia” è un termine “grasso”, grasso come la prosa degli
scrittori che non piacevano a Tomasi di Lampedusa, e
questo di per sé agevola, o perfino, rende inevitabile, una
certa ambiguità. Oggi, però, il fenomeno si presenta aggravato
dalla
circostanza che, in linea di massima, dovremmo avere un’idea
di ciò che nominiamo quando parliamo di “democrazia”, dal
momento che, qui, nel mitico “Occidente”, veniamo da una
storia che, sia pure con vicende alterne, si protrae da più di
un secolo
all’insegna, appunto, della democrazia.
L’obiettivo del mio articolo non è certo quello di avanzare una nuova definizione di “democrazia”, e neppure quello di selezionare tutti i modi in cui oggi la parola viene usata (imprese entrambe impossibili o, comunque, al di fuori delle mie capacità): molto più semplicemente, vorrei andare a vedere cosa si nasconde dietro una (presunta) crisi che, ancora prima della cosa, è del nome, di cui si fa un uso che, semplificando al massimo, rimanda ad uno spazio concettuale vuoto (o, almeno, molto povero) una volta per eccesso di regole e difetto di contenuti, una volta per difetto di regole ed eccesso di contenuti.
“Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni”. Ma “la vergogna è già una rivoluzione”.
Così scriveva Marx nella lettera ad Arnold Ruge del 1843, aggiungendo che “se un’intera nazione si vergognasse realmente, diverrebbe simile al leone, che prima di spiccare il balzo si ritrae su se stesso”.
Noi siamo, invece, un paese svergognato, che quindi non ha, per ora, alcuna prospettiva non dico di rivoluzione, neppure di un’ampia ribellione collettiva. Non ci si vergogna per la condizione servile o quasi-schiavile imposta a buona parte della classe operaia, soprattutto (ma non solo) a quella di origine immigrata, né per le morti bianche quotidiane che non fanno più notizia, neppure per i suicidi e gli omicidi istigati o indotti dai padroni delle ferriere: come nel caso di Abdelsalam Ahmed Eldanf, operaio della logistica, ucciso a Piacenza da un camion, durante un sit-in.
E non ci si è vergognati per i lunghi anni di purgatorio inflitti ai 316 operai dello stabilimento Fiat-Fca di Pomigliano, segregati in un reparto-confino del centro logistico di Nola e tenuti inattivi e in cassa integrazione. Né per la vicenda dei cinque più noti per impegno e combattività: dopo la pena del confino per quattro di loro e del licenziamento per il quinto, Mimmo Mignano (poi reintegrato per decisione della magistratura), di nuovo il licenziamento, ma per tutti e cinque, colpevoli di aver osato un’amara satira anti-Marchionne.
La settimana scorsa è accaduto l’inaspettato: nello schieramento progressista si è finalmente aperto un dibattito sull’euro. Lo ha promosso involontariamente Giorgio Lunghini, scrivendo per Il Manifesto un pezzo nel più puro stile catastrofista, quello a cui ci hanno abituato, negli ultimi anni, gli economisti Giannino e Barisoni, prima di avere un problema più urgente di cui occuparsi: il dissesto del gruppo editoriale per il quale lavorano. Sospetta è questa corrispondenza di amorosi sensi fra intellettuali di sinistra e opinionisti organici al capitale, che pure si era manifestata in passato, passando per lo più sotto silenzio. Ma a settembre 2016, è ormai chiaro quanto preconizzavo su queste colonne il 25 giugno scorso parlando di Brexit: certi scenari apocalittici sono destinati a rivelarsi infondati, screditando la scienza economica. Forse per questo sei economisti (Cesaratto, D’Antoni, Giacché, Nuti, Pini e Stirati), con una scelta coraggiosa, hanno replicato dati alla mano per chiarire la totale infondatezza dello scenario di Lunghini, secondo cui l’uscita dell’Italia dall’euro causerebbe un crollo del Pil superiore a quello determinato dal Secondo conflitto mondiale. Si è aggiunto al dibattito Carlo Clericetti, chiedendosi nel suo blog Soldi e potere perché un economista autorevole sia intervenuto “sparando cifre a casaccio”.
In realtà le cose stanno un po’ peggio di così. Il 6 settembre 2011, l’Unione Banche Svizzere (Ubs) emise un documento su “Le conseguenze della rottura dell’euro”.
La crisi genera ansia, preoccupazioni, disagio, desocializzazione, populismo, comunitarismo. Ma questi effetti non discendono solo dalla crisi economica e sociale in atto da ormai quasi dieci anni. Le cause sono altre, più antiche, risalgono al modello economico e sociale (biopolitico, direbbe Foucault) che applichiamo da più di duecento anni. Che ha una sua struttura che si modifica incessantemente pur rimanendo nella realtà sempre uguale; e con una sovrastruttura che si fa invece sempre più pervasiva, biopolitica, religiosa.
Lo ricorda Paolo Godani in questo suo saggio di filosofia degli affetti: La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l’individuo. Un libro strano e insieme intrigante, denso e insieme breve, astratto ma concretissimo; e dove i codici di interpretazione passano dalla filosofia alla fiction, dal teatro alla letteratura, dall’estetica alla sociologia, da Marx a Giorgio Gaber e a molto altro ancora. Un libro che ci porta a ragionare sui luoghi comuni che insidiano la nostra vita e il nostro tempo apparentemente senza più tempo, sulla depressione e l’isolamento (pur nel massimo della connessione in rete), ma anche su ciò che – rovesciando la pessima condizione esistenziale – può contrastare questa nostra condizione umana e il nostro essere senza qualità.
Ma cominciamo dall’inizio e da quelle che comunemente definiamo come preoccupazioni e che sembrano accompagnarci e appesantirci in ogni momento della nostra vita.
La peculiarità della nostra stagione che coincide con il neoliberismo è caratterizzata dal dato che il capitale è reale cioè totale e pertanto è un rapporto sociale globale che occupa tutto il territorio del vivere. Il movimento femminista è movimento di decolonizzazione del quotidiano patriarcale ed è un processo sociale che non può essere ristretto negli steccati dell’emancipazione. E’ un processo che non può essere arrestato né in punto né in una fase storica determinata e per questo è stato conferito alle patriarche e alla socialdemocrazia il compito di deviarlo e rimandarlo.
Il fatto che il movimento femminista debba fare i conti con una lettura falsa e manipolata, con una promozione sociale personale, con una correità di chi questa promozione sociale l’ha ottenuta, non significa che non abbia sempre un progetto sociale implicito.
Il patriarcato attraverso il suo Stato, parcellizza nell’ambito di interessi parziali e corporativi l’esigenza di libertà che è di noi tutte e, con noi di tutti i segmenti della società oppressi.
La sfida per il movimento femminista è di realizzare un progetto antagonista che si misuri con la globalità dell’oppressione di genere e con la critica del vivere quotidiano perché il patriarcato oggi essendo stato assunto in una reciprocità di azioni e di intenti, dal neoliberismo, si è costituito a tutto campo nel suo metabolismo sociale.
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Dal blog Transition, di Domenico Mario Nuti, traduciamo un post ospite sul CETA, l’accordo economico e commerciale tra Canada e UE: se ne è parlato molto meno di quanto si sia parlato del TTIP, si sta silenziosamente avvicinando alla conclusione, e non è meno pericoloso né meno foriero di disastri. Come tutti i trattati di questo tipo, contiene una vera e propria espropriazione della democrazia a favore dello strapotere delle multinazionali. Sono garantite al di sopra di tutto le aspettative di guadagno degli investitori internazionali: e per farlo si schiacciano e impediscono leggi e regolamenti nazionali volti a difendere l’interesse pubblico, i diritti dei lavoratori, la salute e l’ambiente
Ospitiamo questo post
sul CETA –
l’accordo economico e commerciale globale tra l’UE ed il
Canada la cui ratifica è prevista per la fine di ottobre – a
cura di
Peter Rossman, responsabile di marketing e comunicazione
presso l’IUF (International Union of Food, Agricultural,
Hotel, Restaurant, Catering,
Tobacco and Allied Workers’ Associations). L’articolo è
frutto di una accurata lettura del trattato, ed è già
apparso
sul Global
Labour Column edito da CSID
(Corporate Strategy and Industrial Development, University
of the Witwatersrand, Johannesburg). Ringraziamo l’autore
per aver consentito la
riproduzione del suo lavoro in questa sede. Esiste anche un
precedente articolo più approfondito, intitolato “Trade
Deals That Threaten Democracy”.
(DMN)
* * * *
“Le Parti istituiscono un’area di libero scambio…” CETA Articolo 1.4.
“Il commercio, come la religione, è una cosa di cui tutti parlano, ma che pochi capiscono: il concetto stesso è ambiguo, e nella sua comune accezione, non precisato in modo adeguato.” Daniel Defoe, A Plan of the English Commerce (1728).
L’accordo economico e commerciale globale UE-Canada (CETA), come altri mega-trattati che incombono, è uno strumento generale per ampliare la portata degli investimenti transnazionali, riducendo la funzione tipica dei governi nazionali di legiferare nell’interesse pubblico.
Gli eventi in Medio Oriente, in Siria e ad Aleppo sono al centro dell’attenzione globale. Raramente una battaglia è stata così decisiva per l’esito di una guerra e per il destino di centinaia di milioni di persone sparse per il mondo
Nell’ultimo dibattito presidenziale
Hillary Clinton ha invocato ripetutamente la creazione di una
No Fly Zone (NFZ) in Siria. Il concetto, ribadito più volte,
si scontra con le rivelazione
contenute nelle email private dell’ex segretario di
Stato, secondo cui tale impegno comporterebbe un’elevate
quantità di morti tra i civili Siriani. Non solo. In una
recente audizione
presso la commissione del Senato sulle forze armate è stato
chiesto al generale
Breedlove quale
sforzo occorrerebbe alle forze armate USA per imporre una NFZ
sui cieli Siriani. Con evidente imbarazzo il Generale è stato
costretto ad
ammettere che tale richiesta implicherebbe di colpire aerei e
mezzi Russi e Siriani, aprendo le porte ad un confronto
diretto tra Mosca e Washington.
Una decisione ben al di fuori delle competenza del generale. I
vertici militari, da sempre favorevoli ad interventi bellici,
fiutano il pericolo di un
conflitto con Mosca.
Il Cremlino ha pubblicamente ammesso di aver schierato in Siria sistemi avanzati antiaerei e antimissilistici S-400 ed S-300V4. La presenza annunciata del complesso difensivo ha scopi di deterrenza, ed è una strategia più che prevedibile. Il messaggio per Washington è evidente: ogni oggetto non identificato sui cieli Siriani verrà abbattuto . Gli Stati Uniti basano molta della loro forza militare sulla costante necessità di proiettare potere, illudendo l’avversario di possedere capacità che altri non detengono. E' molto improbabile quindi che il Pentagono decida di mostrare al mondo quanto valgano davvero i suoi sistemi stealth e i ‘ leggendari’ missili cruise americani, in un confronto diretto con S-300V4 o S-400. Ancora oggi in Serbia si ricordano del F-117 abbattuto con sistemi sovietici (S-125) risalenti agli anni 60'.
La
diatriba tra lo
scienziato Galilei e il cardinale Bellarmino era sin
dall’inizio impostata male. Basteranno alcune considerazioni
per convincersene.
Che la Bibbia non potesse dir nulla sulla verità razionale degli esperimenti scientifici, laboratoriali, di Galilei, appare oggi pacifico. Solo una concezione integralistica della fede religiosa, che fa della teologia un’imposizione politico-istituzionale, cui un’intera società deve attenersi, poteva sostenere il primato “scientifico” della Bibbia su discipline come la matematica, la fisica e l’astronomia.
Una diatriba del genere non avrebbe mai potuto esserci là dove la Chiesa non pretende di avere un ruolo politico. Senza un tale ruolo, infatti, non si ha neppure la pretesa di egemonizzare la cultura e la scienza. Sotto questo aspetto Galilei avrebbe potuto avere seri problemi anche se avesse avuto a che fare non con la Chiesa romana, profondamente controriformistica, ma semplicemente con uno Stato confessionale (cattolico o protestante che fosse), ivi incluso quello ideologico e ateistico del regime staliniano.
Idee scientifiche così innovative come le sue e, per molti aspetti, chiaramente favorevoli a una visione laica della vita, potevano trovare, a quel tempo, ampi consensi solo se la borghesia si poneva il compito di difenderle. Cosa niente affatto scontata. Copernico, ad es., diede alle stampe le sue analisi rivoluzionarie solo poco prima di morire.
La variante populista
«Si tratta infatti di pagine che segnano una doppia svolta nel mio percorso teorico-politico. La prima (nel terzo capitolo) consiste in una definitiva presa di distanza, non solo dalle teorie post operaiste (il che era già avvenuto in precedenti lavori a proposito di categorie come economia e lavoratori della conoscenza), ma anche dal paradigma operaista originario – presa di distanza che riguarda nozioni fondanti quali il metodo della tendenza, il concetto di composizione di classe (perlomeno nella sua formulazione "classica") e l’interpretazione operaista della categoria marxiana di general intellect. Mossa, quest’ultima, che comporta a sua volta il commiato da alcuni aspetti della stessa teoria marxiana, a partire dall’idea secondo cui la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione conduce necessariamente al superamento del capitalismo».
Finalmente ci siamo.
Dopo due anni abbondanti di lavoro (ho iniziato a ragionarci su poco dopo la pubblicazione di Utopie letali) esce il mio nuovo libro da DeriveApprodi, di cui vedete qui sotto la copertina.
Una biografia intellettuale in forma di saggio scritta da Marcello Musto per Donzelli. In quel tempo, il filosofo di Treviri cominciò a osservare con occhi diversi anche la Russia. Prima era il bastione della reazione, ora ne studiava la lingua e seguiva l’evoluzione sociale del paese
Siamo alla vigilia del centenario della Rivoluzione russa e dell’ottantesimo anniversario della morte di Gramsci. La «rivoluzione contro il Capitale», la celebre espressione gramsciana che lega uno dei massimi eventi politici del Novecento alla interpretazione antideterministica e antieconomicistica del marxismo, torna alla mente leggendo il recente libro di Marcello Musto, L’ultimo Marx 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale (Donzelli, pp. 148, euro 24).
Torna alla mente perché il Marx che esce dalle pagine di questo libro è lontano da quello della Seconda Internazionale, che condannavano la Rivoluzione russa in nome della sua «immaturità» e dalla sua lontananza dal modello stadiale, deterministico ed economicistico, che ravvisava nell’opera di Marx. Musto, profondo conoscitore della figura e dell’opera del Moro (così era soprannominato Marx), unisce con mano felice l’interesse per gli eventi e i fatti significativi della sua biografia con quello per l’evoluzione dei suoi studi negli ultimi tre anni di vita.
La storia dei cinque operai di Pomigliano, licenziati da Marchionne e reintegrati dopo una lunga lotta. Un esempio ed un punto a favore per tutti i lavoratori
La vittoria degli operai di Pomigliano, con la sentenza della corte d’appello di Napoli che ne sancisce il reintegro, segna un punto a favore di tutti gli operai.
Sarebbe interessante ricostruire tutte le vicende che hanno portato al licenziamento, ma ci limiteremo a descriverne sommariamente i tratti essenziali.
La creazione del polo logistico di Nola, mai entrato veramente in funzione, è servito alla Fiat per liberarsi in un sol colpo di una gran fetta degli operai combattivi nello stabilimento madre di Pomigliano, per lo più iscritti ai sindacatini di base. Insieme a questi vengono deportati a Nola numerosi operai RCL, ossia dalle ridotte capacità lavorative. Dopo essere stati logorati da anni di lavoro sulle linee, a mo’ di ringraziamento, Marchionne se ne è sbarazzato utilizzando il più classico dei sistemi aziendali: la deportazione in un reparto fantasma.
I lunghi anni di cassa integrazione a zero ore, condizione condivisa da più di metà degli operai della FCA di Pomigliano, determinano un clima pesantissimo tra i lavoratori di Nola, con parecchi tentativi di suicidio, due dei quali, purtroppo, riusciti.
Intervista allo storico che interviene nel dibattito fra Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky sull'oligarchia
L'oligarchia è la sola forma di governo democratico, come sostiene Eugenio Scalfari? O l'oligarchia è governo dei pochi che curano solo il proprio interesse a danno dell'interesse pubblico, come sostiene Gustavo Zagrebelsky? Mentre su questo giornale si svolge il dibattito sul rapporto tra democrazia e oligarchia, esce nella collana Idòla di Laterza un libro dello storico Emilio Gentile dalla copertina quanto mai pertinente: In democrazia il popolo è sempre sovrano, con accanto un bollino rosso Falso!. Avendo studiato per decenni i regimi totalitari, ora Gentile s'è preso la briga di vedere come funziona veramente la democrazia rappresentativa. Un'indagine storica a tratti sconfortante.
* * * *
Professor Gentile, perché è falso che in democrazia il popolo è sempre sovrano?
"Proprio quando il principio della sovranità popolare è apparso trionfante in gran parte del mondo - "l'era della democrazia", l'ha definita Bobbio - si sono manifestati i sintomi di un malessere. E il più allarmante è la sfiducia del popolo sovrano verso i governanti, le istituzioni democratiche, i partiti. Fino alla convinzione del popolo stesso di non essere sovrano: il crollo dei votanti ne è un segno manifesto".
Nell’epoca postmoderna le grandi narrazioni universali finalistiche e collettive che avevano legittimato il legame sociale non sono più credibili perché hanno tradito le promesse
Imprescindibile
Lyotard, quando si parla di postmodernismo. Ne sono state
date definizioni plurime, ma al filosofo francese si risale
per la prima:
“Semplificando al massimo, possiamo considerare
‘postmoderna’ l’incredulità nei confronti delle
metanarrazioni”,
scrive nel 1979 ne La condizione postmoderna.
Un’epoca che per Lyotard coincide con il capitalismo
avanzato e
l’“informatizzazione della società”, cambiamenti tecnologici
che incidendo fortemente sul processo di ricerca e di
trasmissione delle conoscenze, generano la trasformazione
del Sapere in merce; già l’èra industriale ne aveva fatto
forza
produttiva, questo è un passaggio ulteriore. “Il sapere
viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà
consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di
produzione: in entrambi i casi, per esse-re scambiato. Cessa
di essere fine a se stesso, perde il
proprio ‘valore d’uso’.” (1)
In questa fase storica, le grandi narrazioni universali, finalistiche e collettive che nella precedente epoca moderna avevano legittimato il legame sociale – illuminismo, idealismo e marxismo, ma anche il positivismo scientifico che si è accompagnato al capitalismo, esaltando la tecnologia come motore dello sviluppo economico e del benessere delle società – non sono più credibili, perché hanno tradito le promesse, e l’agire dell’Uomo non appare più quel processo di emancipazione verso una civiltà globale sempre più avanzata, libera ed egualitaria.
Quest'articolo di Maurilio Lima Botelho cerca di affrontare il tema della crisi del lavoro, discutendone le sue tre dimensioni: il ruolo dello sviluppo tecnologico nell'eliminazione di posti di lavoro; la costante trasformazione nei processi produttivi, che crea instabilità nell'occupazione; e l'improduttività progressiva della forza lavoro globale. Queste riflessioni sono la base per una più ampia discussione sulla crisi della società del lavoro, vale a dire, la contraddizione strutturale, con cui oggi ci confrontiamo, di una società in cui il lavoro è il meccanismo alla base della socializzazione, ma che allo stesso tempo mobilità tutti i mezzi per eliminarlo
È da più di un
decennio che, in
Brasile, la discussione a proposito della "crisi della
società del lavoro" è stata relegata nello sgabuzzino della
teoria sociale. La
profonda critica rivolta al ruolo centrale occupato dal
lavoro, sia nella filosofia e nella scienza borghese
(liberalismo, protestantesimo ed economia
politica) che nella teoria socialista (marxismo), è stata
scartata come errore di interpretazione. L'idea della crisi
del lavoro sarebbe
un'impossibilità oggettiva, dal momento che il lavoro
sarebbe la relazione eterna dell'uomo con la natura.
L'ontologia è servita da base
inconfutabile per la rinuncia ad una critica radicale della
società borghese. Ma tale rifiuto non si limita al piano
teorico, poiché le
difficoltà di un mercato del lavoro sempre più ristretto e
selettivo vengono tacciate di essere solamente una falsa
percezione:
l'instabilità del mercato del lavoro sarebbe una costante
nella storia capitalista. In questo modo, le singolarità
stesse della nostra
epoca hanno cominciato ad essere ignorate.
Si arriva adesso alla base storica di questo rifiuto: gli anni dello "spettacolo della crescita" sono serviti da illusione per coloro che ancora confidano nel "paese del futuro" e nello "sviluppo nazionale" - perfino intellettuali critici dell'economia di mercato si sono arresi alle fantasie del breve ciclo di ascesa fittizia, credendo che gli indici manipolati del mercato del lavoro abbiano liquidato questo dibattito.
Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, 25 euro
Con
tre anni di ritardo rispetto alla sua pubblicazione, ci
troviamo a segnalare un interessante testo di Wolfgang
Streeck capitatoci per le mani. Come si
legge nell’introduzione, “Tempo guadagnato” è la versione
ampliata delle lezioni su Adorno tenute dall’autore nel
giugno del 2012 presso l’Istituto di ricerche sociali di
Francoforte. Il libro ha il merito di mettere a tema, anche
se da un punto di vista non
rigidamente marxista, la questione del rapporto tra
capitalismo e democrazia alla luce della rivoluzione
neoliberista e le trasformazioni dello Stato
che ne sono conseguite. La tesi iniziale da cui l’autore
muove, e che ci sentiamo di condividere, è che sia possibile
comprendere la
crisi in cui si dibatte il capitalismo del XXI secolo solo
se la si interpreta come il culmine provvisorio di un
processo più ampio, un
processo che ha avuto inizio alla fine degli anni 60 del
Novecento con la fine dei cosiddetti Trente Glorieuses.
Prima di aggredire il tema
cardine del suo lavoro Streeck fa però i conti con i limiti
mostrati dalla “teoria della crisi” elaborata dalla
cosiddetta
“Scuola di Francoforte” sottolineandone soprattutto
l’incapacità di prevedere la finanziarizzazione. Le ragioni
di tale
incapacità analitica, stando all’autore, sono da ricercare
nel modo con cui anche a sinistra venne di fatto accettata
l’autodescrizione che l’economia capitalista dava di sé come
di un sistema capace di realizzare una crescita stabile e
superare
definitivamente le sue criticità interne. Nelle teorie di
quegli anni le contraddizioni del modo di produzione
capitalistico vennero
così progressivamente relegate a residuo ideologico di un
certo marxismo ortodosso.
«I Grundrisse di Karl Marx. I lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo», a cura di Marcello Musto, edizioni Ets
In quel grande cantiere che è l’opera di Marx, i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (ai quali ci si riferisce di solito con la prima parola del titolo tedesco, Grundrisse) occupano una posizione davvero molto peculiare. Oggi per chiarire il significato di questo testo, i suoi temi principali e, soprattutto, la storia della sua fortuna, possiamo servirci di un corposo volume curato da Marcello Musto (I Grundrisse di Karl Marx.
I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo, Ets) dove le questioni e le vicende di quest’opera marxiana sono ripercorse da molti e diversi punti di vista.
I Grundrisse sono un’opera importante e singolare per diverse ragioni. La principale è che essi costituiscono la prima esposizione del sistema marxiano della critica dell’economia politica. Come è noto, Marx scrisse e riscrisse più volte quello che poi sarebbe diventato Il Capitale. La prima edizione di questo testo, che uscì nel 1867, fu preceduta da un lungo lavoro preparatorio, di cui i Grundrisse, scritti a Londra tra il 1857 e il 1858, sono la prima e decisiva tappa; e fu seguita da una serie di rielaborazioni, alle quali Marx si dedicò per diversi anni della sua vita.
Il primo libro del Capitale fu da lui rimaneggiato nelle edizioni che seguirono alla prima, mentre il secondo e il terzo libro rimasero allo stato di abbozzo, e furono sistemati e completati solo da Engels dopo la morte dell’amico.
Nel 1274, alla fine di un lungo eremitaggio sul Picco di Rana, nell’isola di Maiorca, Ramon Llull concepisce — per rivelazione divina, dice — l’idea di una grande opera che diventa cuore e obiettivo della sua vita: la creazione di un complesso sistema che chiama la sua «Arte», ovvero la Ars Magna. L’«Arte Grande» di Llull è uno strano e complesso sistema in bilico fra metafisica e logica, espresso in forma di tavole, grafici e cerchi mobili di carta che si possono ruotare e sovrapporre per generare combinazioni arbitrarie di concetti elementari fondamentali. Con questo sistema, Ramon Llull intendeva mettere ordine nel mondo e convertire ebrei e musulmani al cristianesimo.
Questi obiettivi, direi, non li ha raggiunti. Ma l’influenza del suo strano sistema è stata vastissima. Giordano Bruno e Montaigne, due fra i pensatori alle radici della modernità, hanno preso ispirazione da lui. Ma è stato sopratutto Leibniz a cogliere il nocciolo dell’Arte Grande di Llull, ripulirla da aspetti medievali e cercare di trarne una lingua razionale universale, ribattezzandola «arte combinatoria», con l’obiettivo di tradurre l’intera razionalità in calcolo. Un’applicazione diretta di questa idea è la prima macchina per calcolare ideata da Gottfried Wilhelm Leibniz, progenitrice riconosciuta di tutti i computer odierni. Ma la stessa idea è alla base degli sviluppi moderni della logica, da Friedrich Ludwig Gottlob Frege al positivismo logico, pensata come grammatica universale della razionalità.
E’ uscito poco fa l’ultimo fascicoletto della Banca d’Italia che illustra l’economia italiana in breve, una lettura obbligata che ha il vantaggio di compiersi velocemente, consistendo in un elenco di grafici e tabelle che descrivono gli andamenti delle variabili macroeconomiche principali del nostro Paese. D’altronde non servono troppe parole per descrivere lo stato della nostra economia. Potremmo dire che, in breve, l’economia italiana non beve.
Se guardiamo all’andamento del Pil e alle principali componenti della domanda, si osserva che l’unica voce che è migliorata rispetto al 2007 – base dell’indice 100 – è l’export, mentre il Pil rimane sotto di quasi dieci punti, e gli investimenti per oltre 25. Non c’è da stupirsi, visto che la produzione e il clima di fiducia delle imprese rimangono traballanti e l’andamento dei giudizi sulle condizioni per investire, frutto di rilevazioni campionarie di Bankitalia, è piatto. Praticamente piatto è anche il tasso di disoccupazione, bloccato fra l’11 e il 12% dalla metà del 2015, pure a fronte di un aumento degli occupati, nello stesso periodo, di circa 400 mila unità.
Se guardiamo al nostro maggior successo, ossia il commercio estero, apprendiamo che in totale, fatto 100 l’indice al quarto trimestre 2007, il valore delle esportazioni ha superato 110, ma la parte del leone l’ha fatto l’export verso i paesi extra Ue, che sfiora 130, mentre quello intra Ue ha da poco superato 100. In sostanza le nostre fortune dipendono dal mondo fuori dall’Ue, e in questo siamo molto diversi dai nostri partner, come ad esempio la Germania.
A mano a mano che la data delle elezioni presidenziali si avvicina, l’impegno dei media americani per garantire la vittoria di Hillary Clinton si fa spasmodico. Benché i sondaggi continuino a dare la campionessa delle lobby finanziarie in netto vantaggio, i suoi sostenitori (cioè tutti i poteri forti dell’establishment statunitense, nessuno escluso) non si fidano, perciò lavorano per eliminare qualsiasi rischio di un esito a sorpresa.
Il più solerte di tutti è, da tale punto di vista, il New York Times che ogni giorno dedica pagine e pagine ad attaccare il nemico pubblico numero uno, Donald Trump, e a incensare la Clinton e le sue virtù. Anche se, a volte, capita che un articolo vada “fuori linea”, come è successo a Nicholas Confessore e Susan Craig, i quali hanno svelato alcuni retroscena delle strettissime relazioni di interesse che legano la famiglia Clinton a Goldman Sachs (il colosso della finanza globale che è fra i maggiori responsabili del crac del 2007/2008 e che, grazie anche ai Clinton, non ha mai pagato il fio delle sue malefatte).
A parte queste gaffe, tuttavia, il quotidiano di New York non perde occasione di bombardare Trump e sostenere la sua avversaria. Una delle ultime “bombe” lanciate contro il magnate repubblicano porta la firma dell’esperto di economia Justin Wolfers il quale, analizzando l’andamento dei mercati finanziari durante l’ultimo dibattito presidenziale, ne deduce che i mercati hanno paura di un’eventuale vittoria di Trump e calcola che, in caso di una sua elezione, subirebbero perdite fino al 16%.
Ottavo cerchio dell’inferno
dantesco
In
fondo a destra, questo è il cammino,
e poi dritto fino al mattino.
Poi la
strada non la trovi
da te,
sprofonda all’inferno, che però non c’è.
Solo un
<buzzurro> {*} come Salvini che nella sua ignoranza
non sa nemmeno l’italiano, giacché “traditore” è chi
consegna libri e pensieri ai loro avversarî e il fellone che
ha commesso tradimento nei confronti della patria;
della
causa,o dei compari di una lotta merita
una dura punizione, fino alla morte, o per dirla con la
severità di Dante
“se le mie parole esser dien seme, che frutti infamia al
traditor ch’i’ rodo”. Ma i libri o i pensieri di Carlo
Azeglio
Ciampi per chi e di chi erano? Certamente non per proletari
e comunisti, ma per banchieri e capitalisti internazionali,
cui semmai gli italiani si
fossero omologati. E parimenti ciò è vero altresì per il
silente <convitato-di-pietra> Giorgio Napolitano, che
qui non
dovrebbe entrare direttamente in gioco (ma che, come si
dirà, <tomo tomo, cacchio cacchio> si è dedicato e
plasmato sugli stessi
padroni e opposto ai medesimi nemici). Quindi è palese
l’ipocrisia del legaiolo – con il suo <cesso di
anima>, per dirla come
il diavolo di Altàn – di manifestare “preghiera e cordoglio”
per la non prematura morte di Ciampi; lo storico e politico
analfabetismo del disumano guitto <ruspista> lombardo
ne delinea le magnifiche sorti, e regressive. Ossia definire
Ciampi “uno dei
traditori dell’Italia e degli italiani, come Napolitano,
Prodi e Monti” non sono “parole choc, a caldo”, di
Matteo Salvini sulla morte del presidente
emerito della repubblica, il quale a dire del legaiolo “si
porta sulla coscienza il
disastro di 50 milioni di italiani, e come per Napolitano è
uno da processare come traditore”.
Vedi anche Il regime europeo del salario #1, Regno Unito e #2, Francia
Guardando
agli ultimi teatrali battibecchi tra i leader europei,
sembrerebbe che vi sia nell’UE una divergenza di vedute
sulle politiche
migratorie. Le lunghe e vivaci discussioni al vertice di
Bratislava parrebbero tradire la fine della coesione tra
Italia, Germania e Francia, mentre a
Est si forma un blocco a 4 che minaccia di dare un volto
ancora più destro all’Unione, specie in fatto di migranti. A
ben vedere, al di
là delle tensioni, una tale sintonia tra i governi in tema
di comando del lavoro e di governo della mobilità non si era
mai vista.
Il tanto osannato modello tedesco,
avviatosi con l’agenda Schröder 2010 e le leggi Hartz – non
a caso fondate sullo
stesso principio del «sostenere ed esigere» («Fordern und
Fördern») che ora Merkel sbandiera come principio cardine
del
governo delle migrazioni – è realmente esemplare in
termini di impoverimento del lavoro e tagli al welfare.
Un modello
esaltato perché avrebbe portato la Germania al tasso di
occupazione maggiore degli ultimi anni. Eppure, ciò che non
si dice è che
questo calo della disoccupazione ha significato un
abbattimento dei salari e un incremento
esponenziale di lavoro
precario. In Germania, come in ogni Stato
europeo, la lotta alla disoccupazione nasconde la logica
secondo cui il lavoro è un
privilegio da accettare a qualsiasi condizione. Imponendosi
come espressione di politiche di respiro quanto meno
europeo, questo modello detta la
linea, fornendo la ricetta perfetta per un regime del
salario fatto di compressione e precarizzazione dei resti di
welfare, sfruttamento dei migranti extraeuropei e
degradazione dello status dei migranti interni.
Su questo blog ci
siamo occupati spesso della
paura come strumento di governo. In Come si
fabbrica un terrorista abbiamo documentato come l'intelligence
interna americana organizzi e finanzi finti attacchi
terroristici
commissionandoli a disadattati che si vanterà in seguito di
avere arrestato. In Dovete parlare di guerra civile
abbiamo abbozzato una
grammatica della paura decostruendo
un'intervista di Enrico Letta, mentre in #facciamocome Israele si è osservato
come
l'esempio dello stato di Israele - il più colpito dal
terrorismo tra le nazioni economicamente avanzate - sia
paradossalmente indicato come un
antidoto al terrorismo alludendo direttamente alla necessità
di vivere nella paura dell'altro e di
riconoscere poteri sempre
più ampi alla sorveglianza di Stato.
Sullo stesso tema ci siamo recentemente imbattuti in una copertina di fine luglio del settimanale Sette. Qui campeggiano il mezzobusto del DJ parigino David Guetta in tuta mimetica e un titolo a caratteri cubitali gialli: "Ma io non ho paura". Più sotto: "Il terrore è parte della nostra vita, è come se non fossimo liberi di essere felici ecc.".
C'è evidentemente un problema: se il terrore è un "sentimento di forte sgomento, di intensa paura" (Garzanti), come può il suo essere "parte della nostra vita" conciliarsi con il fatto di non avere paura? Non può, appunto.
“Una guerra economica”, così il presidente della commissione economica del Parlamento Tedesco, in un’intervista al Welt Am Sonntag ha definito la multa comminata dal Dipartimento della Giustizia statunitense (si parte da 14 miliardi di $ ma le trattative sono in corso) alla Deutsche Bank. E non è certamente l’unica voce “antiamericana” che si è levata dal mondo politico e imprenditoriale teutonico, evidentemente non solo su questa singola questione, se qualche giorno fa la cancelliera Merkel a proposito del contestato trattato commerciale transatlantico (Ttip) ha dovuto mettere in guardia i suoi industriali da atteggiamenti “filo-russi”: “ci deve far riflettere il fatto che se si trattasse di un trattato commerciale con la Russia avremmo probabilmente la metà delle critiche” (https://www.bundesregierung.de/Content/DE/Artikel/2016/10/2016-10-06-merkel-tag-der-deutschen-industrie.html). Già, ci sarebbe da chiedersi perché…
Tornando alla DB, nessuno è tanto ingenuo da pensare che i suoi problemi finanziari nascono con la multa della solerte giustizia yankee. Sottocapitalizzazione per leva eccessiva, esposizione sui derivati, scarsa profittabilità in un contesto di tassi di interesse quasi a zero e soprattutto di stagnazione economica globale da cui non si vede via d’uscita: ce n’è quanto basta, pare. Del resto il crollo dei valori azionari riguarda l’intero comparto bancario europeo (ne sanno qualcosa le banche italiche) tutt’altro che in buona salute, e dura da mesi.
Ci sono partiti che non fanno errori, quanto essere essi stessi un errore, magari perché, pensati per essere una cosa, sono diventata un’altra molto diversa ed indesiderata, o perché hanno mancato l’obiettivo che ci si proponeva per dei difetti di progettazione.
Ad esempio, l’unificazione Psi-Psdi, nel 1966, pensata per costruire una grande socialdemocrazia di massa sul modello di quelle nordiche, in grado di strappare al Pci la leadership della sinistra, dette vita ad un aborto di partito che si scisse solo tre anni dopo. E il difetto era di progettazione perché unificava un vero partito socialista con quello socialdemocratico, che, al di là delle autoproclamazioni, era un partito di destra. E, dopo l’inevitabile sconfitta alle politiche del 1968, che segnò la fine del centro sinistra, fu gioco forza dividersi fra chi cercava una formula di governo più di sinistra e chi ne voleva una più di destra. Ad essere sbagliato non era questo o quel singolo atto, ma il progetto in sé di una sommatoria elettorale che doveva dimostrare che 2 + 2 doveva fare 5 ed invece fece 3. Una pura sommatoria di apparati non basta a sollevare ondate di consensi e spesso ne toglie.
Altro errore storico (ma si trattò di una alleanza elettorale e non propriamente di una fusione organizzativa) fu il Fronte Popolare nel 1948, che fece la fortuna degli scissionisti socialdemocratici e fece a pezzi il Psi.
Pubblichiamo un estratto tratto dall'ultimo libro di Carlo Formenti, La variante populista, edito da DeriveApprodi
Conclusione
Ho sempre avuto problemi con le conclusioni, soprattutto quando devo tirare le somme di un testo articolato e complesso qual è quello che avete appena finito di leggere. Da un lato, si rischia di andare per le lunghe, ripetendo cose già dette e dunque senza offrire «valore aggiunto» al lettore, dall’altro lato, si rischia al contrario di essere troppo sintetici, banalizzando e semplificando il messaggio che il libro intende trasmettere. Fra i due rischi scelgo il secondo, per cui mi azzardo ad affermare che il lavoro che avete in mano dice sostanzialmente tre cose:
1) la guerra di classe dall’alto che il capitale ha condotto negli ultimi decenni – attraverso finanziarizzazione dell’economia, riforme del sistema politico, ristrutturazione tecnologica e battaglie culturali – è stata così efficace che non è solo riuscita a stroncare la resistenza delle classi subordinate: ne ha modificato (almeno in parte, se non del tutto per quanto riguarda gli strati medio alti) l’antropologia;
2) quelle forze politiche che, per motivi imperscrutabili, continuano a dirsi di sinistra – e non parlo solo delle socialdemocrazie, ma anche di buona parte delle cosiddette sinistre radicali e «antagoniste», oltre che della totalità dei «nuovi movimenti» – non si sono semplicemente adattate al contesto sociopolitico e culturale generato dall’offensiva capitalistica,
Ogni tanto occorre fare qualche discorso serio invece di seguire le ben pagate gallinelle che grazie alle loro fedeltà politiche fanno a nostre spese la bella vita in Usa con il solo obbligo di guardare ogni tanto la Cnn e riferirlo male e sommariamente. Perché tutte le volte che si sottolinea una qualche gaffe di Trump, tutte le volte che si accenna alla sua impreparazione o che si punta il dito sulla sua imprevedibilità e sulla sua xenofobia, insomma ogni volta che si soddisfano i tic di certe sub culture personali o molto più spesso quando si commenta per conto terzi, si fa pessima informazione. Infatti più Trump appare inadeguato, più lo si ritiene fuori posto per la presidenza, più aumenta il peso politico ed etico della domanda non fatta: come mai un tipo simile ha vinto le primarie e rischia di andare alla Casa Bianca?
La risposta ovviamente è complessa, ma riguarda comunque da vicino le conseguenze degli assetti di potere attuali e naturalmente non può essere data dentro il recinto del pensiero unico, delle sue frasi fatte, dei suoi pensieri imbalsamati. Così se ne fa una questione di umore e di atmosfera come se tutto questo fosse dato di per sé e non avesse ragioni che la narrazione ufficiale è costretta a nascondere. In nostro aiuto viene però un noto magazine americano di linea critica, “Yes” che ha intervistato John Perkins autore di un best seller “Confessioni di un sicario dell’economia” che fece scalpore una dozzina di anni fa e che in questi giorni è di nuovo in libreria con molte aggiunte e aggiornamenti (il testo originale è qui).
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Nominare
cose e fenomeni è un esercizio delicato. Da come
nomineremo un fatto ne determineremo la percezione e la
categorizzazione con conseguenze seconde su gli atteggiamenti
ed i giudizi che prenderemo nei
suoi confronti. La ricerca del nome da dare alla situazione
internazionale nella quale siamo capitati, va avanti da un po’
di tempo. Si va dalla
nuova guerra fredda 2.0, alla guerra ibrida, alla Terza guerra
mondiale portata avanti a pezzi ma sempre passibile di
precipitare in un unico vortice
fuori controllo dalle conseguenze terrificanti. Le prime parti
di queste definizioni però sembrano concordare sul fatto che
siamo in
guerra. E’ invece proprio questo fatto a dover esser discusso.
Tutte le definizioni summenzionate ed in particolare la seconda che con “ibrida” tenta di relativizzare i significati ben precisi del termine “guerra”, vertono su un concetto di cui poi si cerca di modificare il significato. In questi casi, dove si tenti ripetutamente di forzare un significato dato per allargarne lo spettro, si fa prima a cercare un altro termine, soprattutto se l’esercizio viene condotto sul termine “guerra” il cui significato è inequivoco da qualche migliaia di anni.
Guerra è decisamente ed apertamente confronto armato tra due o più contendenti. Al momento, abbiamo effettivamente una serie di guerre nel pianeta ma quella che potrebbe degenerare in una guerra mondiale è solo una, la Siria mentre in Ucraina c’è uno scontro locale ad intermittente e bassa intensità.
“In Italia
c’è una minaccia populista. E’ per questo che sosteniamo gli
sforzi di Renzi affinché sia un partner forte all’interno
della UE”. A pronunciare queste parole è stato il Commissario
Europeo agli Affari Economici, Pierre Moscovici, in occasione
di una
intervista rilasciata la settimana scorsa all’emittente
Bloomberg . Molti potranno considerare le dichiarazioni di
Mosovici una entrata a gamba
tesa in una questione, quale il referendum costituzionale, che
è una questione meramente di politica interna. Invece la
dichiarazione arriva da
parte di uno di quei poteri, la Commissione Europea, che ha
voluto lo stravolgimento della nostra Carta Costituzionale.
Domande nascono spontanee:
perché la Commissione vuole che la riforma della Costituzione
vada a buon fine tramite la vittoria del Si al Referendum?
Qual è il
fine?
Per dare una risposta a questi due quesiti dobbiamo intraprendere un viaggio che parte dal lontano 2006. Nel 2006 negli Stati Uniti scoppia la bolla dei mutui immobiliari a causa delle facili elargizioni e speculazioni sui tassi di interesse. La bolla scoppia e la crisi ha il suo culmine il 15 settembre 2008 con il crack del colosso Lehman Brothers. Crollano gli Stati Uniti e con lei, tutti i paesi collocati nel suo asse e l’Europa è la prima. Assistiamo per la prima volta al crack del neo liberismo finanziario e assistiamo alla seconda crisi economica più grande dopo quella del 1929.
Nel marzo del 2012, Ernst Lohoff e Norbert
Trenkle, entrambi personaggi
di rilievo del gruppo di critica del valore di Krisis, hanno
presentato quello che finora è il loro ultimo libro, Die
große Entwertung [La grande
svalorizzazione], che ha come
sottotitolo "Perché la speculazione ed il debito
pubblico non sono la causa della
crisi". Il chiaro obiettivo è la presentazione e
l'analisi dei processi di crisi del capitalismo della terza
rivoluzione industriale e
l'eliminazione di preconcetti popolari. Il libro si compone di
tre parti.
Nella prima parte, scritta da Norbert Trenkle, vengono spiegati alcuni concetti di base indispensabili per la comprensione della dinamica storica del capitalismo e dell'auto-contraddizione interna ad esso soggiacente. Sulla base di questa esposizione, si descrive, di seguito, come nel capitalismo della terza rivoluzione industriale una dinamica sviluppatasi a partire dalla contraddizione in processo, fra la riduzione del tempo di lavoro con l'aumento della produttività e la necessaria espansione del tempo di lavoro ai fini della valorizzazione del capitale, porti ad una crisi strutturale fondamentale.
La seconda parte, scritta da Ernst Lohoff, è dedicata ad un'analisi più dettagliata del capitale fittizio, svolta a partire dall'analisi di Marx nel terzo volume del Capitale. Nella sua analisi dei titoli di proprietà che compongono il capitale fittizio, Lohoff li designa come una categoria speciale addizionale delle merci, cosa che è anche oggetto di considerazione critica nella presente recensione.
Si decide tutto il 4 dicembre: quel che di serio ci dice la farsa piddina
Lo diciamo da più di un anno: nell'imbuto del referendum costituzionale finiranno tante cose. Non solo il destino della Carta del 1948, ma quello della legge elettorale. Non solo il futuro di Renzi e del suo governo, ma pure quello del partito di cui è segretario.
Oggi tutto ciò dovrebbe esser chiaro anche ai ciechi. E questo anche senza voler allargare lo sguardo - come sarebbe invece necessario - ad un contesto europeo dove il voto di dicembre verrà letto (giustamente) come l'ennesimo round della rivolta popolare contro le èlite.
Ma limitiamoci all'Italia. Anzi, limitiamoci a quel piccolo spicchio d'Italia che si chiama Direzione del PD. Chi scrive ha visto, sia pure a pezzi e bocconi, l'ennesimo spettacolicchio di quart'ordine che il parlamentino del maggior partito del paese si premura di trasmettere in streaming. A "pezzi e bocconi" sì, perché ogni stomaco ha un limite, ma pur sempre quanto basta per farsi alcune idee che espongo brevemente.
Primo: Renzi è in difficoltà. Non certo per la prevedibile posizione assunta dalla minoranza, quanto per le notizie che devono arrivargli dai sondaggisti di fiducia.
Nei primi quindici anni del secolo, in termini globali, l'ideologia neoliberista ha dominato il discorso politico. Il mantra era: l'unica politica praticabile da parte dei governi e dei movimenti sociali è dare priorità a qualcosa chiamato "il mercato". La resistenza ad una simile credenza è stata minima, in quanto anche i partiti e i movimenti che si consideravano di sinistra - o almeno di centrosinistra - hanno abbandonato la loro tradizionale enfasi relativamente alle misure di welfare ed hanno accettato la validità di questa posizione orientata al mercato. Hanno sostenuto che tutt'al più era solamente possibile mitigare il suo impatto, mantenendo una piccola parte delle reti storiche di sicurezza che gli Stati hanno costruito nel corso di oltre 150 anni.
Le politiche da ciò risultanti hanno ridotto radicalmente la tassazione sui settori più ricchi della popolazione. In tal modo, hanno aumentato il divario fra i molto ricchi e tutti gli altri. Le imprese - soprattutto quelle di grandi dimensioni - hanno potuto aumentare i loro profitti riducendo il numero di posti di lavoro oppure dislocando il lavoro.
La giustificazione offerta da chi aveva proposto tutto questo era che tale politica avrebbe, nel corso del tempo, ricreato i posti di lavoro che erano andati persi; e che il valore addizionale creato, permettendo che il "mercato" prevalesse, avrebbe finito per diffondersi in qualche modo nella società.
Il fratello gemello del TTIP, la CETA, è ormai sul punto di entrare in vigore: il Consiglio UE voterà il 17-18 ottobre la sua applicazione provvisoria a tempo indeterminato, per aggirare lo spinoso processo di ratifica
E’ molto più di un accordo commerciale di libero scambio. Costituisce in realtà una riforma istituzionale nascosta il trattato CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) fra Canada ed UE, che è sul punto di entrare in vigore: il Consiglio UE voterà il 17-18 ottobre la sua applicazione provvisoria a tempo indeterminato, per aggirare lo spinoso processo di ratifica.
Il CETA modifica l’assetto dell’organizzazione collettiva perché subordina la possibilità dell'UE e degli Stati di prendere decisioni nel pubblico interesse al fatto che queste decisioni non comportino la creazione di nuove barriere commerciali col Canada e non limitino l’amplissimo raggio d’azione concesso dal trattato agli investitori canadesi nell’UE. In particolare il trattato:
detta i criteri per il rilascio di permessi e licenze connesse con le attività economiche;
lancia un siluro al principio di precauzione che è incardinato nei trattati europei e che ora evita, fra l'altro, la massiccia importazione nell'UE di cibi OGM (il Canada è uno dei più grandi produttori mondiali di OGM), ed inserisce un cavallo di Troia nelle norme UE relative alla sicurezza alimentare;
Le bocche di fuoco dell’economia, della finanza, dell’impresa, delle tecnocrazie europee, persino i vertici dell’Inps, hanno enfatizzato il significato distruttivo che avrebbe il trionfo del no. Neppure la riesumazione del fantasma della repubblica dei soviet avrebbe ricevuto una delegittimazione così definitiva dalle agenzie del capitale.
Il bello è che i populisti al potere si sbracciano per dire che «con il no nulla cambia». E poi però, proprio alla vittoria dei gufi, attribuiscono dei mutamenti radicali di sistema che abbracciano la politica e l’economia. Gli elettori potrebbero sentirsi tentati dalla liberatoria opportunità di far saltare i brutti giochi dominanti.
A prendere in parola i poteri forti basta un No per dare l’assalto alle oligarchie e sconfiggere i registi dell’esclusione sociale, della contrazione della democrazia. Assaporando il colpo amaro della batosta, Renzi recupera una fissazione di Berlusconi e dice che chi è contro le sue riforme è spinto dal puro sentimento di odio (dovrebbe sapere che «farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe»). C’è spazio per l’odio in politica?
Una delle coppie centrali nella analisi politica di Machiavelli è proprio lo scontro tra l’ambizione e l’odio. Alla volontà di potenza dei capi, che cercano di accumulare il dominio saltando ogni resistenza degli ordini e sfidando l’apertura al consenso, corrisponde una reazione dei molti, che cercano di preservare gli spazi di libertà e le occasioni di iniziativa popolare.
L'odierno
editoriale del professor Giavazzi (Distrazioni pericolose sull'Europa)
contiene alcune intuizioni condivisibili: la prima è che il
vero game changer
degli assetti europei sarà il cambiamento al vero vertice
dell'Unione Europea, cioè la scelta del successore di Draghi
nel 2019; la
seconda è che la costruzione europea è nei fatti affidata
all'opera delle burocrazie del Nord; la terza è che l'unione
monetaria
non è irreversibile, in particolare perché troppo giovane.
Salutiamo con ottimismo l'ingresso della storia nel ragionamento dell'Ing. Prof. Giavazzi, una delle persone che più hanno contribuito alla de-storicizzazione (cioè alla de-umanizzazione) della scienza (sociale) economica. Questa resipiscenza, se non fosse puramente tattica, lascerebbe ben sperare.
Purtroppo la speranza è immediatamente falciata da una raffica di conclusioni affrettate e errori di analisi economica veramente spettacolare, condita con svarioni linguistici estremamente eloquenti.
Cominciamo da questi ultimi: prima il piacere e poi il dovere.
Le forze armate siriane debbono riprendere la parte di Aleppo occupata dai ribelli. Avaaz ha il compito di schierare l’opinione pubblica contro questa operazione militare dipingendola come null’altro che uno sforzo congiunto Russo-Siriano per massacrare i civili, soprattutto bambini. La Siria è vittima di una Associazione a Delinquere che da lungo tempo ha pianificato di distruggerla, dopo aver distrutto l’Iraq nel 2003
Tutti affermano di voler porre fine
alla
guerra in Siria e riportare la pace in Medio Oriente.
Beh, quasi tutti.
“Questa è una situazione tipo playoff in cui è necessario che entrambe le squadre perdano, o almeno non si vuole che una vinca – si preferisce un pareggio”, ha dichiarato al new York Times nel giugno 2013 Alon Pinkas, ex console generale di Israele a New York. “Entrambi devono sanguinare, perdere sangue fino alla morte: questo è il pensiero strategico qui”.
Efraim Inbar, direttore del Centro Begin-Sadat per gli Studi Strategici, ha sottolineato gli stessi punti nel mese di agosto 2016: “L’Occidente dovrebbe perseguire l’ulteriore indebolimento dello Stato Islamico, ma non la sua distruzione… Permettere che i cattivi uccidano i cattivi suona molto cinico, ma è cosa utile e anche etica da farsi se tiene i cattivi occupati e meno in grado di nuocere ai buoni… Inoltre, l’instabilità e le crisi a volte contengono presagi di un cambiamento positivo… l’amministrazione americana non sembra in grado di riconoscere che l’ISIS può essere uno strumento utile per minare l’ambizioso piano di Teheran di dominio sul Medio Oriente”.
Solo negli
ultimi 5 anni l’Italia ha
perso un milione di occupati, di cui 300mila nel settore
metalmeccanico. La piccola risalita fatta registrare l’anno
scorso, pur così
enfatizzata (l’Italia della retorica Renziana che riparte), è
stata del tutto assorbita in quanto drogata dagli sgravi che
il Governo
regalava agli imprenditori che assumevano. Finita la droga si
è tornati a licenziare in scioltezza e si sono gettati al
vento chi dice 10 chi
dice 20 miliardi di Euro. Va così in tutta Europa? Solo in
Spagna si sono verificate perdite di occupati pari a quelle
intervenute in Italia.
In Germania invece si è tornati al livello degli anni
precedenti la crisi e, quindi, mentre l’Italia ha perso, come
si è detto, 1
milione di occupati, la Germania ha aumentato i suoi di 1
milione e mezzo. Pare proprio si sia configurata un’Europa del
Lavoro e
dell’Economia a due velocità. Ed allora la Gran Bretagna ha
pensato bene di salutare questa Europa con il referendum di
giugno. E la Gran
Bretagna non è la Grecia, che è stata calpestata un anno fa, e
va ascoltata. Perché la Brexit ci costringe per davvero a
ragionare sull’esistenza o meno di un’alternativa “allo stato
di cose presenti” che l’assetto economico assunto
dall’UE ci impone, a partire dal lontano trattato di
Maastrich. E quel trattato, impedendo la compressione della
disoccupazione, da allora
considerata “elemento funzionale al mantenimento degli
equilibri interni al sistema economico capitalistico”, negava
anche
l’intervento pubblico in Economia (bloccati gli aiuti di
Stato, eccezion fatta per le Banche ben s’intende) e imponeva
le privatizzazioni.
E un furia privatizzatrice spazzò l’Italia che, con Bersani in
testa, enfatizzava privatizzazioni a “lenzuolate”.
Corruzione, nepotismo, sperpero dei soldi pubblici: ogni tanto qualche figura nota del potere denuncia quello che avviene nelle università, i media ne parlano accanitamente per qualche giorno, poi tutto può finalmente continuare come se nulla fosse. The show must go on. La ricetta è collaudata: gridare astrattamente agli scandali per salvaguardare concretamente un sistema corrotto. C’è chi dice: lo fanno per tagliare ulteriormente i fondi all’università pubblica. È vero. Da qui trae la conclusione: questa università pubblica va difesa in blocco, negando l’esistenza della corruzione. È un tragico errore, anzi di più: vuol dire collocarsi dall’altra parte.
Già, perché le parti nell’università pubblica esistono e sono, potenzialmente se non purtroppo soggettivamente, contrapposte. Chi è la controparte di uno studente e di un precario? Il governo, va bene. I privati che vogliono mettere le mani sull’università – ma in Italia sono davvero poi così tanti, o piuttosto si limitano a un suo utilizzo parassitario? Diciamo una verità lapalissiana: la controparte principale e diretta è costituita dai docenti che tengono in mano le fila dei dipartimenti, che gestiscono la distribuzione dei fondi, che controllano i canali del reclutamento. Questi sono i piccoli Marchionne dell’università pubblica, gli sfruttatori che ogni giorno siedono di fronte a te, dietro la scrivania e la cattedra. E nei governi le cricche della casta accademica hanno un peso rilevante, così il cerchio tra politica e università si chiude.
1. Allora: l'8 aprile 2014, il presidente del consiglio si presenta al Senato della Repubblica italiana e legge la relazione di accompagnamento al testo del disegno di legge (di riforma) costituzionale (la cui intitolazione figura oggi nel quesito referendario). Dopo una breve premessa sulla insufficienza dei mutamenti costituzionali intrapresi negli ultimi anni per delineare in modo sistematico una riforma adeguata alle “potenti trasformazioni” già intervenute nel quadro istituzionale, espone le
"Le ragioni della riforma (neretto aggiunto)
Lo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono di-scesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale; le spinte verso una compiuta attuazione della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione tesa a valorizzare la dimensione delle Autonomie territoriali e, in particolare, la loro autonomia finanziaria (da cui è originato il cosiddetto federalismo fiscale), e l’esigenza di coniugare quest’ultima con le rinnovate esigenze di governo unitario della finanza pubblica connesse anche ad impegni internazionali:
Renzi, lo sappiamo, è un combattente (gli va dato atto) e combatterà sino all’ultimo, come si diceva una volta, “Casa per casa, strada per strada”. Sino all’ultimo proverà a vincere il referendum per sciogliere immediatamente le Camere e (Corte Costituzionale permettendo) andare alle elezioni a febbraio e tentare il “colpaccio” del 40% al primo turno e vincere. E questo è, ancora oggi, il piano A.
Però l’uomo ha senso pratico ed ha capito che il vento che tira non gli è favorevole: lui era sicuro di vincere a mani basse, ma le elezioni amministrative hanno cambiato il vento e da allora non ha fatto che perdere terreno.
La vittoria del No, prima eventualità remota, è oggi costantemente indicata dai sondaggi, anche se di misura e con molti indecisi ma, questo è il sintomo peggiore, gli indecisi che sciolgono la riserva sembrano dirigersi più verso il no che verso il si ed il distacco a favore del No, anche se lentamente cresce. Dunque va presa seriamente in considerazione l’ipotesi che il No vinca. Che fare? E qui si inizia a profilarsi il piano B.
In primo luogo, è prevedibile che Renzi rassegni le dimissioni del governo già il giorno 5 dicembre e prima che glielo chieda chiunque. Facendo così una gran bella figura: in un paese in cui non si dimettono nemmeno i morti e dove nessuno tiene fede alla parola data, un politico che si dimette come aveva promesso ci fa un figurone.
Da sempre la propaganda capitalistica cerca di convincerci dell’idea che l’egoismo dei ricchi faccia bene soprattutto ai poveri, che la rapacità degli imprenditori sia una panacea per i lavoratori, mentre ovviamente non vale il contrario, perché l’egoismo dei poveri farebbe male anche a loro. Negli Stati Uniti i farmaci hanno ormai prezzi così alti che gran parte della popolazione non può permettersi di comprarli, ma le multinazionali farmaceutiche si giustificano affermando che solo con prezzi così alti è possibile finanziare l’innovazione e la ricerca creando un vantaggio per tutto il mondo. Avidità a fin di bene.
Un articolo del settimanale londinese “The Economist” del gennaio 2016 ripropone in grande stile questo tipo di propaganda. È vero che le aziende più impegnate nei progetti di responsabilità sociale sono anche quelle che evadono più tasse, che la “corporate social responsibility” finisce per moltiplicare i profitti e per attirare anche i migliori (e più ingenui?) ricercatori. È vero che eludere il fisco significa sottrarre una ricchezza che dovrebbe aiutare i più deboli. Ma questi sono dettagli del tutto secondari. Dietro l’apparente egoismo delle aziende si cela un cuore generoso: le aziende eludono il fisco, non pagano le tasse e spostano le sedi fiscali in paesi con imposte bassissime o senza imposte, solo perché se pagassero le tasse le amministrazioni pubbliche, inefficienti e burocratizzate, non riuscirebbero a spenderle in programmi efficaci, mentre non pagandole le aziende private possono selezionare le iniziative più mirate per il bene comune, oltre che fornire nuovi posti di lavoro.
Se il problema fosse che il governo italiano è troppo ottimista sul futuro della nostra economia, non sarebbe un problema. L’ottimismo del governo, al contrario, è o dovrebbe essere un viatico per rilanciare gli animal spirit imprenditoriali che nel nostro paese sono fin troppo addomesticati. Il problema invece è un altro: l’ottimismo del governo rischia di rivelarsi disfunzionale rispetto agli obiettivi che lo stesso governo si propone. Questo spiega la tendenza vagamente dilatoria nel rispetto dei nostri obiettivi di bilancio, ad esempio relativamente agli obblighi europei, che rischiano di essere letti come un semplice costume nazionale. Il che giova poco alla fiducia.
Per questa ragione, mentre leggevo la lunga audizione del direttore generale di Bankitalia in Parlamento, dove si discuteva del DEF, il documento economico e finanziario del governo, non era tanto la circostanza – che pure la stampa ha rilanciato in grande spolvero – che le previsioni del governo sulla crescita fossero giudicate ottimistiche che mi preoccupava, quanto il contesto generale, che dalla lettura appare vagamente sgradevole.
Comincio da un prima osservazione che conferma una sensazione ormai consolidata: “Non vi è più evidenza – dice Signorini – che la disponibilità di credito sia un ostacolo rilevante per le scelte di investimento; il credito alle imprese non cresce essenzialmente a causa della debolezza della domanda”.
Pubblichiamo il mio intervento all'incontro organizzato dalla Svimez e dal Centro Sraffa
Anni di alta teoria
Non c’è stato modo di rintracciare con chiarezza quale sia stato il rapporto formale di Garegnani con la Svimez, il che avrebbe implicato un lavoro d’archivio presso l’associazione. Nel saggio “Note su consumi, investimenti e domanda effettiva”, basato sulla prima parte dello “Studio Svimez” (Garegnani 1962), come per brevità lo definiremo qui, e pubblicato in italiano da Economia internazionale nel 1964-65, Garegnani stesso ci informa che lo Studio fu steso nel 1960-61 e pubblicato in forma ciclostilata (“per uso interno degli uffici”) nel 1962. Quello che sappiamo dalle note biografiche di Fabio Petri (2001), per le quali posso immaginare si sarà avvalso di Garegnani, quest’ultimo, conseguito il dottorato a Cambridge, dal 1958 è a Roma assistente di Volrico Travaglini; è visiting al MIT nel 1961-62, e consegue la cattedra nel 1963 a Sassari (dove era stato però assistente nei due anni precedenti). Anni molto intensi dunque. Nel Rapporto Svimez Garegnani non ringrazia nessuno in particolare, mentre in “Note su consumi” egli ringrazia “per i loro commenti ai manoscritti dell’articolo i professori Claudio Napoleoni, Sergio Steve, Paolo Sylos-Labini, Volrico Travaglini” (Garegnani 1979, p. 4). Da un resoconto di Fabrizio Barca, la Svimez di Pasquale Saraceno della seconda metà degli anni cinquanta emerge come un vero e proprio “ufficio studi dei governi che videro Ferrari Aggradi, Vanoni, Campilli e La Malfa alla guida dei principali ministeri economici” (Barca 1997, p. 603).
La democrazia più corrotta, la candidata più depravata, i complici mediatici più turpi
Dal “manifesto”:
“In nome delle aspirazioni… vale la pena di lottare, continuare a marciare in strada e poi andare a votare e dare una chance a Hillary Clinton” . (Giulia D’Agnolo Vallan)
“Proposte costruttive contro fantasie, una politica estera tradizionale contro il ritorno a un’improbabile fortezza Amercia… la seria, credibile, eleggibile Hillary Clinton, contro quella dell’inaffidabile, razzista, xenofobo Donald Trump”. (Fabrizio Tonello)
“Contro Hillary una nuvola tossica mediatica, è vittima di pseudo-fatti diffamatori”. (D’Agnolo Vallan)
“La demonizzazione della Clinton ha rassicurato la base del miliardario, quello zoccolo duro che coltiva un odio, questo sì pastoso e violento, verso Hillary. Il sentimento in cui la misogenia si mescola all’antintellettualismo e al bullismo” (Luca Celada)
“La campagna spietata di Trump finisce col produrre un moto di solidarietà e simpatia per Hillary… Lo scenario peggiore? Una Hillary effettivamente non più in grado di correre”. (Guido Moltedo)
“L’isolazionista Trump, sessista e razzista, il peggio dell’America”. (Tommaso Di Francesco)
“E’ un referendum tra un’America che valorizzi le ragioni dello stare insieme e che, sulla scia di Obama, investa nella sua ‘diversity’ e, al contrario, un’America di tutti contro tutti…”. (Guido Moltedo)
D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma 2016, pp. 384, ISBN 9788843081875
All’interno
della vasta produzione bibliografica di Domenico Losurdo, Un
mondo senza guerre costituisce probabilmente il lavoro
più
‘internazionalistico’ nel percorso di ricerca del filosofo e
storico del marxismo, stimolato dal presagio di “nuove
tempeste
belliche” (p. 17) all’orizzonte. Un’accresciuta percezione
della pericolosità dell’arena internazionale, occasionata
dall’odierno smottamento delle zolle geopolitiche mondiali,
non inibisce ma invita anzi ad una nuova, documentata
riflessione filosofica sui
problemi della guerra e della pace.
Muovendo dalla convenzionale periodizzazione dell’età contemporanea, l’autore ne propone un ripensamento attraverso un percorso storico-filosofico di ricostruzione dei ‘diritti e rovesci’ del grande ideale della pace perpetua, e delle fasi che ne hanno scandito le sue formulazioni filosofiche e le sue disattese storiche. È proprio il bilancio storico di tale ideale a consentire al cultore più irenista una maggiore cautela nella valutazione della sua ‘storia degli effetti’: “la storia grande e terribile dell’età contemporanea è anche lo scontro tra diversi e contrapposti progetti e ideali di pace perpetua” (p. 16). Il bipartitismo ideologico ed epistemologico che ha diviso idealisti e realisti nell’ambito degli studi internazionalistici verrebbe dunque meno: l’ideale della pace perpetua ha piuttosto rappresentato un fine politico anelato e perseguito da entrambe le due fazioni ‘idealtipiche’, al punto da rovesciarsi in una justa causa belli appannaggio dei partiti storici più disparati. In tal senso, le numerose rivendicazioni di una sua realizzazione avrebbero costituito “forse persino la continuazione della guerra con altri mezzi” (p. 17).
Gli studiosi dell'economia globale si stanno occupando di qualcosa che hanno difficoltà a spiegare. Perché i prezzi delle azioni continuano a salire, quando invece quella cosa che viene chiamata "crescita" ristagna? Secondo la teoria economica egemone, non dovrebbe essere così. Se non c'è crescita, i prezzi di mercato dovrebbero cadere, in modo da stimolare la crescita. Poi quando questa si dovesse ristabilire, allora i prezzi di mercato dovrebbero crescere di nuovo.
Quelli che credono in tale teoria, affermano che l'anomalia sarebbe un'aberrazione momentanea. Alcuni addirittura negano che sia reale. Ma altri considerano quest'anomalia un'importante sfida alla teoria ufficiale. E cercano di rivedere la teoria in modo da tenere in conto il fatto che ora tutto questo si chiama "stagnazione secolare". Fra questi critici troviamo pensatori come Amarya Sen, Joseph Stiglitz, Paul Krugman e Stephen Roach.
Anche se ciascuno di questi pensatori ha una linea di argomentazione distinta, tutti loro condividono alcune idee. Tutti loro sono convinti che le politiche statali abbiano un ampio impatto sulla realtà. Tutti ritengono che la situazione attuale non è sana per l'economia nel suo insieme ed ha contribuito ad un significativo aumento delle disuguaglianze di reddito. Tutti credono che si dovrebbe cercare di mobilitare l'opinione pubblica per fare pressione sui governi e spingerli ad agire in maniera differente.
Certamente non siamo suggestionate dalla così detta “democrazia parlamentare”. Sappiamo benissimo che non è altro che l’organizzazione del consenso della borghesia al potere, a corredo della sua organizzazione economico-politica di cui lo Stato è il momento organizzativo su tutti i piani.
Ma è in atto una lotta senza quartiere tra le multinazionali e gli Stati per la ridefinizione dei rapporti di forza all’interno della classe al potere e una lotta all’ultimo sangue con gli oppressi tutti. Una lotta di classe dentro e fuori la classe. Il neoliberismo ne è lo strumento, è un’ideologia vera e propria, si insinua in ogni anfratto della società, è metabolismo sociale.
Si sta formando una borghesia transnazionale o iperborghesia che porta un attacco senza precedenti alle borghesie nazionali e agli Stati Nazione, alle “democrazie parlamentari” così come le abbiamo finora conosciute. E’ il programma neoliberista che vuole trasformare gli Stati nazionali in governatorati, province o colonie a seconda del peso e delle ricchezze. Per attuare questo programma ha messo in atto da diversi anni meccanismi di demonizzazione del fare politico, di affossamento delle strutture di mediazione tra cittadini e Stato, sindacati, partiti, associazioni, attraverso la denuncia strumentale della “mala politica”, delle ruberie e degli scandali, facendo passare il concetto che la “politica è sporca”, che destra e sinistra non esistono più, che sono tutti uguali, demonizzando l’immunità parlamentare e aprendo la strada a quello che è il vero obiettivo: il governo diretto dei potentati economici, delle multinazionali.
Accordo Facebook e Israele per mettere sotto controllo la Rete, mentre le voci della vendita di Twitter scuotono Wall Street
Facebook, Twitter, Amazon, Netflix e Google sono esempi di quel «capitalismo delle piattaforme» considerato la frontiera della produzione della ricchezza. Il loro business è dato dalle informazioni che ogni utente lascia dietro di sé nelle sue navigazioni in Rete. Siti frequentati, contatti attivati, contenuti scaricati. ogni elemento è buono per costruire profili individuali e per accumularli in enormi archivi (i Big Data). All’interno di uno scambio luciferino – uso gratuito di servizi e applicazioni in cambio della cessione della proprietà sui propri dati individuali – è una forma di produzione della ricchezza sfiorata dalla crisi globale.
Finora la discussione è stata un affare per addetti ai lavori o relegata in ambiti di produzione teorica radicali. Ma poi irrompono nella scena mediatica alcune notizie e il nodo del «capitalismo delle piattaforme» torna a turbare i mouse dei «connessi h.24». La prima riguarda Facebook, la seconda Twitter.
Mark Zuckeberg si è presentato davanti alle telecamere con il premier israeliano Benjamin Netanyahu per parlare di un accordo stilato con Israele quasi fosse un capo di stato.
Pubblichiamo l'editoriale di Insurgent Notes tradotto in italiano dalla loro redazione. L'articolo propone un utile punto di vista per comprendere dall'interno lo scenario delle prossime elezioni presidenziali statunitensi. E' in particolare all'interno della complessa geografia delle classi e delle razze nel nordamerica, nel contesto di transizione del sistema produttivo e degli effetti locali del processo di globalizzazione neoliberale, che viene collocata l'ascesa di Trump. Legando il voto di novembre a quanto si sta verificando anche nel continente europeo, l'articolo si conclude mostrando un'altra similitudine che possiamo cogliere alle nostre latitudini. Ossia come quella che oggi si definisce come "sinistra" sia parte dello stesso campo di gioco di cui Trump e il cosiddetto "populismo di destra" non sono che differenti facce di una stessa medaglia. (http://insurgentnotes.com/2016/10/editorial-president-trump/).
* * * *
Potrebbe proprio succedere. Ciò che sembrava, un anno fa, come una candidatura da spettacolo, è ora un vincitore plausibile nell'anno politico più selvaggio dal 1968 (e c'è ancora la prossima "sorpresa di ottobre").
Qualunque cosa accada, il vecchio sistema dei partiti degli Stati Uniti è rotto.
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Hits 2079
Hits 2077
Le piattaforme dei servizi on-demand
–
la cosiddetta gig economy, l’economia dei «lavoretti» – stanno
scoprendo l’esistenza dei lavoratori. Questa estate gli
autisti di Uber in Inghilterra hanno portato l’azienda davanti
al tribunale del lavoro, come i loro colleghi americani. I
bikers di Deliveroo
hanno protestato a Londra e Parigi contro il piano
dell’azienda di spostarli da un pagamento a ora a un altro a
consegna. Nella filiale italiana
della tedesca Foodora a Torino, i fattorini in bicicletta
hanno chiesto un contratto a part-time verticale, il
riconoscimento di un salario minimo
orario più il costo della consegna.
Come per gli autisti di Uber, anche sulle spalle dei riders grava il costo dell’attrezzatura con cui lavorano: nel primo caso le spese per la macchina e l’assicurazione sono a carico degli autisti, nel secondo i fattorini acquistano la bicicletta e pagano le spese dello smartphone. Se cadono, fanno un incidente o si ammalano, non sono coperti. Se non lavorano, non hanno un sussidio di disoccupazione. Se non rispondono a una chiamata, hanno una valutazione negativa dall’algoritmo e possono essere allontanati dalle zone dove c’è richiesta dei clienti, guadagnando ancora meno.
QUESTO MODELLO È LA FRONTIERA del cottimo digitale, un taylorismo 2.0, l’estremizzazione della prestazione job-on call: non si paga per il tempo che dai, ma per i lavori che fai.
Dal 21 al 23 ottobre si svolgerà
a Parigi il secondo meeting della Transnational
Social Strike Platform.
L’incontro avrà luogo a tre settimane di distanza dallo sciopero delle donne polacche contro la
proposta di riforma della legge sull’aborto e a pochi mesi
dalla grande sollevazione
francese contro la loi travail e il suo
mondo. In entrambi i casi lo sciopero è andato ben
oltre la pratica
istituzionalizzata nell’iniziativa sindacale. Esso
è stato politicamente più significativo della momentanea
rottura di un
rapporto di forza nei luoghi di lavoro. I primi grandi
scioperi francesi contro la riforma si sono riversati nelle
strade e nelle piazze coinvolgendo
milioni di persone, rifiutando il brutale dominio sul presente
e sul futuro di intere generazioni. Lo sciopero in Francia è
stato sociale
perché ha connesso segmenti altrimenti separati del lavoro
vivo investiti dalla loi travail e dall’austerità
europea. Le
donne polacche hanno mostrato che la parola d’ordine dello
sciopero mantiene il suo potentissimo richiamo anche al di
fuori dei luoghi di
lavoro. La rivendicazione della libertà di aborto non ha
soltanto prodotto grandi manifestazioni di piazza e la
forzatura dei limiti imposti
dalla legislazione sullo sciopero. Essa ha ridefinito le
posizioni individuali e messo in discussione le gerarchie
sessuali e sociali, stabilendo le
connessioni che hanno portato così tante donne e molti uomini
a esprimersi contro un modo complessivo di governare che non
riguarda solo la
società polacca. Lo sciopero in Polonia non è stato sociale
perché ha difeso un diritto più o meno universale, ma
perché la rivolta di una parte della società ha fatto valere
una differenza contro un ordine complessivo dei rapporti
sociali e
sessuali.
In La vita psichica del potere,
Butler scrive: “Il ricorso all’affermazione che il soggetto
sia attaccato appassionatamente alla propria sottomissione
[viene] invocato
– spesso cinicamente – da coloro che tentano di minimizzare la
portata delle rivendicazioni degli oppressi”[1]. Si tratta di
un’affermazione che
leggo come un modo inequivocabile di stabilire delle
differenze tra i vari modi di invocare quella prospettiva
secondo la quale tra il soggetto e il
potere vi sarebbe una relazione di necessaria, e dialettica,
dipendenza. Di per sé, infatti, potrebbe essere invocata da
chiunque, per
qualunque scopo, e innanzitutto per scopi di giustificazione e
di normalizzazione di ogni forma di “sottomissione” degli
“oppressi”.
Dirimente, al contrario, è osservare che, per poter compiere questa affermazione Butler debba innanzitutto dare per scontata 1) l’idea che il “potere” possa essere “sottomissione”, e che i “soggetti” possano essere “oppressi”; 2) che gli oppressi pongano in essere delle rivendicazioni finalizzate alla liberazione dalla sottomissione; 3) che la portata di quelle rivendicazioni di liberazione degli oppressi dalla sottomissione si trovi a essere minimizzata – “spesso cinicamente” – dalla strumentalizzazione di una teoria secondo la quale gli oppressi sarebbero necessariamente dipendenti o appassionatamente attaccati a quella sottomissione dalla quale pure vorrebbero, vanamente, liberarsi.
Il 4 agosto scorso compare su Bloomberg Businessweek un’intervista a Marissa Mayer (1), amministratore delegato di una delle più grandi corporation al mondo: Yahoo. Senza tanti giri di parole, la Mayer, già fra i primi dipendenti di Google, ci svela la chiave del successo del gigante statunitense e più in generale di ogni grande impresa: “Il segreto della fortuna delle aziende è quello di avere dipendenti che si impegnano duramente. Si può arrivare a una media di 130 ore alla settimana”.
Per anni abbiamo sentito raccontare la storia per cui, nelle grandi società del web 2.0, il lavoro era molto più rilassato: appositi spazi comuni dove prendere una pausa e fare un pisolino, e in Google addirittura la possibilità per i dipendenti di usare un’ora retribuita al giorno (o perfino il 20% del tempo) per dedicarsi a un libero progetto. Ma poi nel 2015 è stata proprio la Mayer a chiarire meglio la faccenda: “I’ve got to tell you the dirty little secret of Google’s 20% time. It’s really 120% time”. Ovvero, quel 20% di tempo era da considerarsi oltre il normale lavoro: straordinari, semplicemente, non retribuiti. Progetti che poi Google valutava ed eventualmente includeva tra quelli ufficiali. Sono gli stessi Page e Brin, fondatori di Google, ad affermare nel 2014: “Noi incoraggiamo i nostri dipendenti, in aggiunta ai loro regolari progetti, a utilizzare il 20% del loro tempo per lavorare su quello che loro pensano possa fare più bene a Google”, tanto che “molti dei nostri avanzamenti sono avvenuti in questa maniera”, da Google News a Gmail e addirittura il sistema che genera la fetta più grande di profitti per il colosso statunitense: AdSense.
Chi si sarebbe aspettato tanto acume? Il “bicameralismo perfetto” diventa “moto perpetuo”. Gli scienziati di tutto il mondo ci invidiano la riforma Boschi-Verdini
Il Senato si riunirebbe davvero un paio di volte al mese?
Quando ho scritto dell’articolo 70 della riforma ho già parlato anche della serie di “materie” che continuerebbero ad essere trattate in regime di bicameralismo perfetto.
In effetti, a quanto scritto in quel post occorrerebbe aggiungere una sorta di “appendice”.
Fra le funzioni indicate nell’articolo 70 in regime di bicameralismo perfetto:
la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea.
L’articolo 55 della riforma costituzionale, però, dice che il Senato:
[…] Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle Pubbliche Amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori […].
Nell'Italia a sovranità zero
di Renzi e del suo tutor Napolitano il segretario generale
della Nato,
Jens
Stoltenberg,
può permettersi di venire a Roma per annunciare in un'intervista,
lui al posto del governo, l'invio di un contingente di
soldati
italiani al confine con la Russia nel 2018. Solo dopo
mezz'ora Pinotti e Gentiloni hanno confermato la notizia che
i nostri militari saranno 150 e
verranno dispiegati in Lettonia. Questa azione è
sconsiderata, è contro gli interessi nazionali,
espone gli italiani a
un pericolo mortale ed è stata intrapresa senza consultare i
cittadini. L'Italia non ci guadagna nulla e ci perde
tantissimo. In termini di
sicurezza nazionale questa missione rischia di esporre il
nostro Paese al dramma della guerra. Ci riporta indietro di
trent'anni ed alza nuovi muri
con la Russia, che per noi è un partner strategico e un
interlocutore per la stabilizzazione del Medio Oriente.
Con la follia delle sanzioni abbiamo perso in due anni 3,6 miliardi di euro: l'export italiano verso la federazione russa, infatti, è passato dai 10,7 miliardi del 2013 ai 7,1 miliardi di euro del 2015 (-34%). Lombardia (-1,18 miliardi), Emilia Romagna (-771 milioni) e Veneto (-688,2 milioni) sono le regioni che con il blocco alle vendite hanno subito gli effetti negativi più pesanti. Una mazzata pesantissima per un Paese che ha 10 milioni di poveri.
Si disvela il giochino elettorale del Governo Renzi. Un giochino vecchio come il mondo. Si presenta una bozza di Ddl di stabilità piena di regali a tutte le categorie sociali: pensionati, dipendenti pubblici, disoccupati, imprese, famiglie. Una strategia totalmente insostenibile, dal momento che occorre ridurre dal 2,4% al 2,3% il rapporto deficit/PIL, in modo oltretutto unilaterale, perché, tramite la nota di aggiornamento al Def che diventa carta straccia, ci si era impegnati a far scendere tale quoziente fino al 2%. Un 2%, peraltro, che era già uno strappo alle regole europee, perché consentiva di spostare il pareggio strutturale di bilancio a dopo il 2019 (ed infatti ad Aprile scorso l’accordo con la Commissione, sancito dal Def, era di un rapporto dell’1,8%). Evidentemente, il governo basa l’intero impianto di questa manovra discutibile su una speranza di incremento del Pil superiore a ciò che oggi è dato osservare, e sulla benevolenza della Commissione Europea in termini di flessibilità per eventi straordinari (terremoto) e riforme. Flessibilità concessa, in realtà, per paura che una caduta referendaria del Governo Renzi apra ad una vittoria dei 5 Stelle.
Ma c’è un ma. Se le coperture possono essere garantite, la Commissione non vuole, e non può, aprire ad un deficit/PIL sostanzialmente identico a quello del 2016. Moscovici qualche giorno fa è stato chiaro su questo punto: “i numeri del Governo italiano non sono quelli che abbiamo in mente (…)ci sono comunque delle regole che vanno rispettate da tutti, affinché restino credibili. Vogliamo il pieno rispetto del Patto di stabilità”.
Renzi è un contafrottole e questo lo sanno tutti. Anche Berlusconi lo è e soprattutto lo era, tanto che molti lo indicano come il suo "padrino". Ma c'è qualcosa di radicalmente perverso nella menzogna seriale renziana: l'assenza di qualsiasi limite.
Vediamo un esempio, che è come sempre anche una dimostrazione di lecchinaggio insopportabile del giornalismo mainstream. Titola per esempio Repubblica (dando le indiscrezioni che escono dalla riunione tra il governo e i sindacati): Pensioni, Ape esteso a edili e maestre, con 35 anni di contributi.
Un lettore disattento capisce che c'è stata una "estensione" a categorie per cui – nelle balle raccontate fin qui – non era prevista la versione "social", ovverossia "gratuita" (un governo italiano che chiama tutto con parole inglesi, già a monte, sta cercando di raggirare il prossimo).
Incuriosito, si mette a leggere l'articolo per capire quanti benefici sta regalando questo povero governo a quei disgraziati di lavoratori che si sono ritrovati a dover andare in pensione solo dopo aver compiuto 66 anni e 7 mesi, ma che ora Renzi invita a lasciare il lavoro "in anticipo" rispetto alla legge Fornero ma pur sempre qualche anno dopo di quanto aveva previsto fino a qualche anno fa.
Diversi
autori si
interrogano, da diverse prospettive, sul futuro del
capitalismo. Fra quelli che mantengono una posizione
scettica riguardo alla sua possibile
sopravvivenza oltre il 21° secolo - o perfino per i prossimi
30 o 40 anni - non si possono dimenticare István Mészáros,
Immanuel Wallerstein e Robert Kurz.
Tuttavia, questo post vuole raccomandare la lettura di Wolfgang Streeck, un interessante sociologo tedesco, che pensa a partire da Karl Marx, ma, soprattutto, a partire da Karl Polanyi. La sua tesi centrale è che il neoliberismo, nello spingere verso la competizione come modo di vita, nel trasformare l'individuo in imprenditore di sé stesso, nel mercificare tutte le sfere della vita sociale, mina inesorabilmente le basi morali e sociali dell'integrazione degli esseri umani nella società. Dal momento che l'esistenza del capitalismo dipende da tali basi - ereditate dalle generazioni passate, ma ora violentemente depredate - il tentativo di salvarlo attraverso l'intensificazione neoliberista, porterà, secondo lui, alla sua progressiva disintegrazione. E questa dissoluzione potrà eventualmente essere accompagnata dalla fine dell'umanità stessa.
Si vuole fornire qui la traduzione di un testo che sintetizza un in intervento di Streeck, del 2010, nel corso dell'incontro annuale della “Society for Advancement of Socio-economics” (SASE), nel corso del quale diversi autori hanno discusso intorno alla domanda chiave: "Il capitalismo ha un futuro?"
* * * *
Il manifesto è attaccato al muro e si trova lì già da un bel po' di tempo; siamo noi che dobbiamo saperlo leggere.
Lo sciopero dei fattorini di Foodora ricorda quanto avvenuto questa estate a Londra, dove a scioperare sono stati i lavoratori di Deliveroo e UberEats. La gig economy, tra riproposizione del “vecchio” e elementi di novità
Sabato 8 ottobre una
cinquantina di lavoratori
di Foodora, impresa attiva nel settore della consegna cibo
tramite fattorini in bicicletta, sono scesi in piazza a Torino
per protestare contro le
condizioni di lavoro imposte dall’azienda. La vicenda ha avuto
molto risalto mediatico e diversi quotidiani hanno parlato
dell’azione dei
lavoratori di Foodora come del primo sciopero in Italia della
cosiddetta sharing economy.
Questa terminologia è però scorretta. Si parla solitamente di sharing economy in riferimento all’attività di aziende come Blablacar o Aibnb, che operano tramite piattaforme online che hanno essenzialmente la funzione di mettere in rete compratori di servizi e venditori che ‘condividono’ un loro bene, come la propria auto o la casa. Diverso è invece il caso di imprese come Foodora o Deliveroo: queste compagnie offrono un servizio di consegna cibo dai ristoranti agli utenti, utilizzando lavoratori che danno la propria disponibilità in precise fasce orarie tramite una applicazione per smartphone. L’unico elemento in comune tra i due tipi di attivitá é il fatto che basano le proprie operazioni su piattaforme digitali, ma la somiglianza finisce qui. L’uso di una app per intermediare la domanda e l’offerta di servizi e consumi e per gestire l’allocazione delle prestazioni lavorative accomuna dunque Foodora e Deliveroo ad altre piattaforme digitali di ‘micro-lavoro’, come Uber, MechanicalTurk o Task Rabbit, che ben poco hanno a che fare con l’idea di ‘condivisione’. In questo caso si tende perciò a parlare di gig economy, o “economia dei lavoretti” (gig).
In questi giorni una sistematica campagna di disinformazione di cui sono protagonisti in particolare USA, Gran Bretagna e Francia, bolla quali «criminali di guerra» Assad e Putin. È la preparazione multimediale dell’ulteriore scalata dell’aggressione contro la Siria a cui mirano Obama (appoggiato e stimolato da Hillary Clinton) e gli alleati e vassalli di Washington. Per chiarire chi sono i veri criminali di guerra riporto (con nuovi sottotitoli) quello che ho scritto in miei due recenti libri (La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, 2014; Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, 2016), basandomi per altro su fonti esclusivamente occidentali. La scalata a cui si prepara l’imperialismo potrebbe avere conseguenze tragiche per la pace mondiale. È per sventare questo pericolo che occorre mobilitarsi sin d’ora (DL)
1. Guerra civile o
aggressione degli
USA (e di Israele)?
Prima di essere travolta dalla catastrofe che continua a infuriare mentre io scrivo, la Siria era considerata un’oasi di pace e di tolleranza religiosa in particolare dai profughi irakeni che a essa approdavano in fuga dal loro paese, investito dagli scontri e dai massacri di carattere religioso e settario nei quali era sfociata l’invasione statunitense. Cos’è avvenuto poi? È scoppiata una guerra civile per cause del tutto endogene? In realtà, prima ancora della seconda guerra del Golfo, i neoconservatori chiamavano a colpire la Siria che ai loro occhi aveva il torto di essere ostile a Israele e di appoggiare la resistenza palestinese (Lobe, Oliveri 2003, pp. 37-39).
Di questo progetto di vecchia data si sono subito ricordati gli analisti più attenti che si sono occupati dei più recenti sviluppi della situazione: già da un pezzo la Siria era stata inserita dai neoconservatori nel novero dei paesi «considerati un ostacolo alla ‘normalizzazione’» del Medio Oriente; «nell’ottica dei neoconservatori, se gli Stati Uniti fossero riusciti a provocare un cambio di regime a Baghdad, Damasco e Teheran, la regione, soggetta ormai all’egemonia congiunta degli Stati Uniti e di Israele, sarebbe stata finalmente ‘pacificata’» (Romano 2015, p. 74). Peraltro, un anno prima che la «Primavera araba» raggiungesse la Siria – ammette o si lascia sfuggire il «New York Times» – «gli USA erano riusciti a penetrare nel Web e nel sistema telefonico» del paese.
La domanda non è se uscire dall’euro è una cattiva opzione ma se è la peggiore. Le politiche monetarie di cui ha bisogno l’Italia si fanno fuori dalla moneta unica
Nella discussione sulla moneta, Giorgio Lunghini (il manifesto, 29 settembre), si chiede, con comprensibile preoccupazione, quali potrebbero essere le conseguenze per il mondo del lavoro di una dissoluzione della moneta unica. Questa domanda non ha risposte facili. Certo, se ad abbandonare l’euro fosse un paese grande come l’Italia vi sarebbero ripercussioni sulla zona euro e fasi di instabilità finanziaria. La domanda, tuttavia, non è se l’uscita dall’euro sia una cattiva opzione, ma se sia necessariamente la peggiore.
Le previsioni di quel che potrebbe avvenire non offrono risposte sicure, il ventaglio degli scenari immaginabili è ampio e gli esiti dipendono moltissimo dai comportamenti delle banche centrali e dalle azioni dei governi.
A chi prospetta scenari negativi si deve rammentare che lo statu quo non ci sta affatto proteggendo dall’instabilità o dal peggioramento delle condizioni economiche e sociali, ma, al contrario, tende ad accentuarli. La vicenda dell’euro ha impresso una tendenza deflazionistica all’economia europea mostrando il suo vero volto nella terribile gestione della crisi, ed è accompagnata dalla sfiducia crescente negli organi di governo dell’Unione europea, dalla crescita dei nazionalismi e di forze reazionarie, dalla chiusura delle frontiere.
Una delle caratteristiche peculiari della terza rivoluzione industriale consiste nel fatto che le tecnologie digitali non si limitano a incrementare l’estrazione di plusvalore relativo – in quanto generano aumenti di produttività che riducono la parte di giornata lavorativa necessaria a produrre il valore dei mezzi di sussistenza del lavoratore – ma, nella misura in cui favoriscono l’estensione illimitata del tempo di lavoro, aumentano anche la produzione di plusvalore assoluto.
L’idea di Marx secondo cui – a causa dello sviluppo delle forze produttive – il profitto capitalistico dipenderà sempre più dall’aumento della produttività del lavoro e sempre meno dall’estensione della giornata lavorativa, non funziona più. Ciò non solo perché le nuove tecnologie hanno consentito il decentramento produttivo nei paesi in via di sviluppo, che offrono, oltre ai bassi salari, la possibilità di imporre orari di lavoro massacranti, ma anche perché nei paesi capitalisti sviluppati il lavoro sta assumendo forme che tendono a cancellare il confine fra tempo di lavoro e tempo di vita, fino a ridefinire lo statuto dell’individuo come «agente economico a tempo pieno», per usare una definizione di Jonathan Crary.
Crary è autore di un libro in cui ipotizza addirittura che il capitalismo digitale si prepari ad andare all’assalto dell’unica barriera naturale che appaia ancora in grado di impedire la colonizzazione dell’intera vita quotidiana da parte del processo di valorizzazione, vale a dire il sonno.
Invito alla lettura di "Carl Gustav Jung. L'opera al rosso" (Feltrinelli, 2016) di Romano Màdera
Esce in questi giorni in libreria un volume interamente dedicato alla figura e al pensiero di Carl Gustav Jung. Il libro, intitolato appunto Carl Gustav Jung. L'opera al rosso, viene pubblicato nella collana Feltrinelli "Gli eredi" diretta da Massimo Recalcati. Il confronto con il padre simbolico è qui sostenuto dal filosofo e psicoanalista Romano Màdera (già autore nel 1998 di un altro studio monografico dedicato al maestro di Zurigo e ideatore di una terapia dell'esistenza che rinnova e trasfigura i contributi della psicoanalisi e delle pratiche filosofiche: l'analisi biografica a orientamento filosofico).
Questo lavoro illustra alcuni dei concetti chiave del pensiero junghiano - individuazione, simbolo, archetipi, tipi psicologici. - senza pretendere di offrire un quadro "oggettivo" delle innovazioni introdotte da Jung nella cultura e nelle clinica del Novecento. Màdera preferisce sondare il nesso che lega strettamente biografia e teoria, partendo dal lascito più misterioso e inquietante dello psichiatra zurighese, quel "Libro Rosso" che raccoglie visioni, pensieri e turbamenti emersi a ridosso della rottura con Sigmund Freud e nell'imminenza della Prima Guerra mondiale.
Qualcuno dovrà prendersi la briga di dire, da sinistra, che il linciaggio politico-mediatico contro Donald Trump è vergognoso. Non perché – è un’ovvietà ma, come dire, repetita juvant – Trump non sia effettivamente uno dei simboli del degrado politico neoliberista; non perché non sia soggettivamente un bifolco sessista; non perché il suo esempio amorale di tycoon evasore non segni l’ennesimo passo indietro culturale del ceto politico liberista. Tutte queste cose al sistema mediatico e politico mainstream non fregano un cazzo: questo il tranello ideologico su cui stanno concentrando l’attenzione media e finanza delle due sponde dell’Atlantico. L’attuale linciaggio è funzionale all’elezione di un presidente impresentabile, innominabile, inadatto, quale è Hillary Clinton, questa si espressione – ben più di Trump – dei famigerati “poteri forti”, come lei stessa d’altronde ammette candidamente. Non è vero neanche che tra Trump e Clinton “non ci siano differenze sostanziali”, come pure prova a ragionare una parte della sinistra in lotta contro la trappola mediatica imposta: Hillary Clinton è peggio di Donald Trump, su questo non possono esserci tentennamenti moralistici. Quello della morale è un terreno da rifiutare a prescindere, perché è il capitalismo dei mercati finanziari, personificato da Hillary Clinton, a costituire la più grande opera di distruzione morale ed etica della storia dell’uomo. Non le avventure di un tragicomico minus habens che ha raccolto il sentimento di delusione e rassegnazione dei ceti popolari nordamericani rivolgendoli in chiave parodistica e regressiva.
Con una decisione gravissima, presa alla chetichella e venuta alla luce solo grazie a fonti giornalistiche, il governo italiano ha deciso di inviare 140 militari in Lettonia, al confine con la Russia. Agirebbero nell'ambito di una forza multinazionale NATO sotto comando canadese - complessivamente tra i 3 e i 4mila uomini sottoposti a rotazione - che sarebbero a difesa delle frontiere esterne con la Russia nelle repubbliche baltiche e nella Polonia orientale, in ottemperanza a quanto deciso dal recente vertice NATO di Varsavia. La notizia, emersa da un'intervista al segretario generale dell'Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, è stata confermata dai ministri Pinotti e Gentiloni.
La presenza dei nostri militari è illegittima, dal momento che si dà in assenza di una decisione del Parlamento italiano, letteralmente bypassato in spregio alla prassi istituzionale che vede la possibilità d’invio all’estero di militari solo a seguito di un voto del Parlamento.
E’ gravissimo che un governo mai eletto, con un premier screditato ed un ministro della Difesa tra i meno influenti nella storia repubblicana utilizzi lo schermo dell’Alleanza Atlantica per scavalcare il Parlamento e, con esso, la sovranità nazionale del nostro Paese. Sembra essere la prova generale di come dovrebbero funzionare Camera e Senato in caso di vittoria dei SI al referendum costituzionale. L’intero arco dell’opposizione, dalla Meloni a Grillo, a SEL, ha duramente protestato per una decisione che appare un inchino alla NATO ed un insulto all’Italia e ai suoi interessi.
1. Il capitale non è
più fattore di crescita ma di distruzione delle forze
produttive della
società
Nella presente fase storica di accumulazione capitalistica la questione centrale non è più soltanto quella della redistribuzione “equa” della ricchezza prodotta, classico tema della politica socialdemocratica, e della redistribuzione del lavoro (riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario), storico cavallo di battaglia del movimento operaio. Il perseguimento di questi due importanti temi, così come quello della inclusione dei migranti nella società europea, non può prescindere dall’affrontare il tema della produzione della ricchezza e quindi dei rapporti di produzione e del rapporto sta Stato e economia, che diventano la priorità e il tema centrale della lotta politica per una sinistra che voglia essere di classe e adeguata alle condizioni della realtà.
La crisi, iniziata nel 2007/2008 e ancora in corso, è di natura e profondità diversa rispetto a quelle che si sono verificate ciclicamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di una crisi che è manifestazione di una sovraccumulazione di capitale (cioè di un eccesso di investimenti di capitale sotto forma di mezzi di produzione) assoluta e senza precedenti. Tale crisi è irrisolvibile nell’ambito dell’attuale quadro di rapporti economici e politici se non mediante massicce distruzioni di capacità produttiva e capacità lavorative, che possono arrivare fino alla guerra. Come ho cercato di spiegare più ampiamente nel mio libro “Globalizzazione e decadenza industriale.
Introduzione
Poco dopo il grande crollo di Wall Street del 2008, un romanzo su degli eventi storici oscuri e remoti ha fornito un inatteso spunto di discussione sulla crisi in corso. Red Plenty ("Abbondanza rossa") di Francis Spufford (2010) ha offerto un resoconto romanzato del fallito tentativo da parte dei cibernetici sovietici degli anni '60 di istituire un sistema completamente computerizzato di programmazione economica. Mescolando personaggi storici – Leonid Kantorovich, inventore delle equazioni della programmazione lineare; Sergei Alexeievich Lebedev, progettista pioniere dei computer sovietici; Nikita Krusciov, Primo Segretario del Partito Comunista – con altri immaginari e mostrandoli in azione tra i corridoi del Cremlino, le comuni rurali, le fabbriche e la città siberiana della scienza di Akademgorodok, Red Plenty riesce nell'improbabile missione di rendere un romanzo sulla pianificazione cibernetica una storia mozzafiato. Ma l'interesse che ha riscosso da parte di economisti, informatici e attivisti politici non è dovuto esclusivamente alla sua narrazione dello sforzo scientifico e degli intrighi politici, ma molto anche al momento in cui è stato pubblicato. Venendo alla luce in un periodo di austerità e disoccupazione, quando il mercato mondiale ancora stava vacillando sull'orlo del collasso, Red Plenty poteva essere interpretato in diversi modi:
A fine anno, con
l’avvicinarsi dell’autunno, inizia ad avviarsi il consueto
balletto per l’approvazione del DEF (Documento di Economia e
Finanza) al
fine di stabilire il saldo e le voci del bilancio pubblico del
paese. Da quando è entrato in vigore l’Euro e la politica
monetaria si
è accentrata nelle mani della BCE, il bilancio nazionale è
oggetto di verifica e approvazione della Commissione Europa su
mandato della
Troika. Un tempo (il secolo scorso), l’arrivo dell’autunno
faceva preludere un possibile aumento della temperatura
sociale, al punto da
essere denominato «Autunno caldo». Oggi invece, l’arrivo della
“finanziaria” di solito prelude a una
«gelata».
È evidente anche dal lessico, come siano cambiati i tempi. Negli anni Settanta la legge finanziaria era nota come Legge di bilancio, con l’obiettivo di definire appunto il bilancio pubblico per l’anno seguente e quindi fissare i paletti per l’azione di politica fiscale del governo. A partire dagli anni Novanta, da quando cioè l’Italia ha accettato il processo di risanamento del debito pubblico per poter ottemperare ai parametri sanciti dal Trattato di Maastricht, si è parlato di Legge finanziaria, e a partire dal 1992 (governo Amato, il governo della finanziaria da 90.000 miliardi di lire, all’indomani del congelamento della scala mobile), tale nome è stato associato a interventi di solito di natura draconiana. Con l’avvento dell’euro e la firma del patto di stabilità, il lessico è di nuovo cambiato. Oggi si parla di Legge di stabilità, ma il contenuto non si è modificato, anzi si è accentuato nell’imporre politiche di contenimento della spesa pubblica in nome dell’austerità.
“Non è la Seconda Guerra Fredda, ma se vince Hillary Clinton, i primi tre mesi del prossimo anno saranno i più pericolosi da quando è crollata l’Unione Sovietica”: così Ian Bremmer, intervistato da Giuseppe Sarcina sulle pagine del Corriere della Sera. La preoccupazione, a mio parere, non è solo fondata, direi che la si può definire addirittura eufemistica. Parlare di rischio di una nuova Guerra Fredda significa infatti non prendere atto del fatto che la Seconda Guerra Fredda è già in atto da tempo, almeno a partire dall’inizio della guerra in Ucraina che vede gli Stati Uniti e l’Europa (ancorché recalcitrante) schierati a fianco del governo fascista di Kiev. Di fatto, come denuncia senza peli sulla lingua Papa Francesco, più che a una Guerra Fredda, siamo di fronte a una vera e propria Terza Guerra Mondiale, come ha appena confermato l’annuncio di Obama di essere pronto a scatenare un attacco informatico contro la Russia, in ritorsione alle presunte interferenze degli hacker russi nelle elezioni presidenziali americane.
Se tali interferenze siano un fatto reale non lo sapremo mai, a meno che un nuovo Snowden abbandoni le fila della Cia e ci racconti come sono andate effettivamente le cose. Il dubbio è più che lecito, visto che la storia antica e recente dell’imperialismo americano è piena di “incidenti” (basti ricordare quello del Golfo del Tonchino che legittimò l’attacco al Vietnam del Nord) creati ad arte per scatenare guerre di aggressione.
Il filosofo francese nacque a Poitiers il 15 ottobre 1926: oggi avrebbe compiuto 90 anni. Maestro, amico, compagno insostituibile: vogliamo ricordarlo con quest'articolo sull'importanza di resistere e ribellarsi. Sempre
«Non si detta legge a chi rischia la vita di fronte a un potere» (1). Così scriveva Michel Foucault in un articolo intitolato Sollevarsi è inutile?, apparso su «Le Monde» nel maggio del 1979. Con questo breve testo il filosofo rispondeva a coloro che, dopo la nascita della Repubblica Islamica e le brutalità perpetrate dal regime khomeinista, avevano rimproverato il suo sostegno alla rivoluzione iraniana.
A queste critiche, Foucault – che nel 1978 si era recato due volte in terra persiana per scrivere su invito del «Corriere della Sera» dei reportage di idee dedicati alle rivolte contro lo scià – replicava in modo tutto sommato semplice, ma estremamente efficace: «Non vi è nulla di vergognoso nel cambiare opinione: ma non c’è nessuna ragione di dire che si cambia quando oggi si è contro le mani tagliate, dopo essere stati, ieri, contro le torture della Savak» (2). E poco più avanti aggiungeva: «Ci si solleva, questo è un fatto; è in questo modo che la soggettività (non quella dei grandi uomini, ma quella di chiunque) si introduce nella storia e le trasmette il suo soffio vitale» (3).
Nel pronunciare tali parole, Foucault fornisce un esempio di quella che lui stesso aveva definito come “ontologia dell’attualità” (4).
Senato elettivo? La legge elettorale supererebbe la rigidità della riforma costituzionale pasticciata? Soluzione inverosimile. Ennesima presa in giro della “minoranza PD”
Per strappare un SÌ sono ormai disposti a sostenere che la luna sta nel pozzo.
Tutti in coro riportano che il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato che assumerà la proposta di legge elettorale Chiti/Fornaro per rendere il Senato elettivo. Il Senato, quindi, verrebbe scelto dai cittadini. Ovviamente parliamo della legge elettorale specifica per la formazione del Senato. L’Italicum non c’entra.
Così, su Facebook, anche un assessore della Giunta Crocetta.
Ora, siccome qualcuno deve spiegarmi come pensano di superare la rigidità di una Costituzione – “riformata” in modo illeggibile – con una legge elettorale, ho chiesto all’assessore:
L’assessore dopo aver cancellato il suo post e il mio commento mi ha gratificato di “risposta dedicata”:
Forte presa di posizione del capogruppo del Movimento 5 Stelle in Commissione Affari Esteri e Comunitari
Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, è colui che pochi mesi fa, a Davos, dichiarava: "Nel lungo periodo, l'organizzazione si potrebbe adattare a seconda della situazione. Si potrebbero affrontare sfide quali la guerra nucleare".
Dobbiamo preparaci ad una guerra nucleare secondo costui.
Jens Stoltemberg è il Segretario di un'organizzazione che sta facendo di tutto per arrivare a questo punto di rottura e a questo scenario. Il livello di esercitazioni militari e di accerchiamento della Russia ad est è senza precedenti. La cosiddetta "Trident Juncture 2015" (TRJE15) tenutasi in Italia è stata la maggiore esercitazione dalla caduta del Muro di Berlino ad oggi. Oltre ad un aumento della Forza di risposta della Nato (NRF) "da 13mila a 30mila soldati" e alla creazione di una forza di intervento rapido di 5 mila uomini e di 5 nuovi basi (non permanenti) dislocate tra la Polonia e le Repubbliche baltiche, la Nato ha aumentato la sua presenza di "collaboratori militari" a Kiev, dopo il colpo di stato del febbraio del 2014.
La NATO, quindi, si prepara alla guerra contro la Russia per forzare l'ingresso dell'Ucraina nell'Organizzazione e per gli interessi egemonici mondiali degli Stati Uniti.
Parliamo di democrazia, urtati dal dibattito Scalfari-Zagrebelsky. Il punto è questo: l’intera tradizione della filosofia politica occidentale, muove il pensiero intorno alle forme della decisione politica. Uno, Pochi, Molti ovvero la nota tripartizione di cui esistono forme “positive” e forme “negative”. Inoltre, c’è la constatazione di ciò che è ed è sempre o quasi sempre, stato, quasi che lo stato di fatto fosse anche ciò che dovrebbe essere. Le forme del potere della decisione politica però sono solo il riflesso dello stato della distribuzione della capacità di decisione politica. E’ quindi tautologia dire che siccome sono Pochi coloro che sono in grado di prendere la decisione politica sul bene comune, allora l’unica forma di decisione politica concepibile è che siano i Pochi a decidere il bene comune. Per giungere a tale determinazione, non è necessario smuovere l’intelletto, né la filosofia, basta un cultore della tradizione, un semplice conservatore, un sacerdote del “così è stato e sempre così sarà” che officia il rito di ubbidienza alle presunte leggi ferree della società umana.
Aristotele, non in Politica ma in Metafisica, affronta (insuperato) il problema della sostanza, la sostanza è “composto di materia e forma”. Noi, a proposito del dibattito tra Pochi e Molti (oligarchia – democrazia) parliamo solo della forma, dov’è la materia? La democrazia, la forma, non anticipa la materia, la democrazia si adagia sulla materia che trova.
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Che il tema
dell’organizzazione sia tornato ad essere cruciale all’interno
dei movimenti autonomi (e comunisti), dopo il fallimento
dell’esperienza bolscevica e dell’Internazionale comunista e
dopo i processi corruttivi e l’usura che hanno investito le
organizzazioni socialdemocratiche, dopo la compressione
corporativa dell’esperienza sindacale e la rivelazione
dell’equivoca natura delle
ONG – bene, che il tema dell’organizzazione sia centrale per i
movimenti è fuori dubbio. Tema sicuramente di difficile
approccio e
impervia soluzione – eppure centrale. Anche negli anni
’60-’70, quando il dibattito fu vivacissimo, non si giunse
tuttavia ad una
soluzione teorica e tantomeno si realizzarono felici
esperimenti risolutivi di questo problema. Non voglio qui
sicuramente formulare un cervellotico
che fare?: qui vorrei solo soffermarmi su un punto
che mi sembra blocchi il dibattito e che val la pena di
sciogliere per riaprire
eventualmente la discussione sull’organizzazione con maggior
scioltezza.
1. Nel dibattito politico sull’organizzazione che si è svolto nell’ultimo cinquantennio all’interno dei movimenti, è apparso sovente il timore che gli sforzi teorici ingaggiati per la soluzione del problema, si risolvessero nella fissazione di modelli inadeguati alla temporalità ciclica dei movimenti e ad interpretarne le molteplici figure, gli interessi espressi, i bisogni e i desideri mutevoli o costanti che essi rivelavano.
«Dobbiamo avere paura
dell’intelligenza artificiale?», si chiedeva giusto un
anno fa Marco Morello su Panorama.
La sua risposta aveva quantomeno il merito
della chiarezza (ma solo quello per la verità): «Il cinema ci
ha cresciuti suggerendoci che sì, dobbiamo avere paura. E
tanta. Era
diabolica la rete di Skynet che a ritmo esponenziale
apprendeva e, presa coscienza di sé, faceva sfaceli in Terminator.
Erano spietati
assassini gli androidi di Io, robot, indifferenti e
immuni alle sacre (per loro) leggi di Asimov. Persino nel
recente Lei di Spike
Jonze, favola tragica sull’amore che sboccia tra un uomo
solitario e un sistema operativo, un’intelligenza artificiale
genera dolore.
Ferisce il cuore, la mente, oltre che il corpo. Tradisce
l’ubriaco disordine dei sentimenti in nome delle logiche
rigide, infinite e
imperscrutabili dei bit. L’elenco di esempi, in verità, è
sterminato. Tanto quanto i nessi tra grande schermo,
letteratura e mondo
reale sono semplicistici. Ma stavolta il dibattito non è
ozioso, non si riduce a un banale esercizio di stile sulle
probabili derive del
futuro. D’altronde, sulle trappole dello strapotere di
computer burattinai, algidi e crudeli si sono espressi negli
ultimi mesi i principali
artefici della tecnologia che è stata e che verrà». Tuttavia,
è anche possibile che «i principali artefici della
tecnologia che è stata e che verrà» leggano la realtà in modo
distorto, o addirittura «a testa in giù»,
così da restituirci un mondo invertito, tale che lo strapotere
del Capitale ci viene presentato, a noi che abbiamo una
conoscenza
appena superficiale della materia che essi invece maneggiano
con tanta maestria (la cosiddetta Intelligenza
Artificiale), come
«strapotere di computer burattinai».
Il terrorismo è una piaga che l’Europa conosce
da tanti anni. È stato ed è di diverse matrici e
ha periodi di stallo e di improvvisa ripresa. Al momento
stiamo vivendo un suo ritorno di fiamma che probabilmente ci
accompagnerà per molto
tempo, diventando una nota di cronaca della nostra
quotidianità.
Per avere una chance di superamento del tipo specifico di terrorismo col quale oggi abbiamo a che fare è evidentemente necessario comprenderlo nel dettaglio, ma per comprenderlo è preliminarmente necessario porsi nella giusta prospettiva, ovvero in una prospettiva non ideologica.
A tal fine, credo sia superficiale etichettare il terrorismo come l’esito di una ideologia violenta. Pericolosamente superficiale, non solo perché questa definizione è talmente ampia da poter significare tutto e niente, ma soprattutto perché più che un tentativo di comprensione sembra un tentativo di esorcizzazione, ovvero di rimozione dal mondo occidentale di quei due elementi (l’ideologia e la violenza) che invece lo connotano a tutto tondo, attribuendoli a qualcun altro.
Naturalmente, mi riferisco qui al fatto che un’ideologia può essere basata non solo sulla religione; ferita che l’Europa ha già subito con il fondamentalismo cattolico delle crociate e dell’Inquisizione e le varie lotte in senso allo stesso mondo cattolico. Qualsiasi pensiero che parte da premesse inquestionabili, dogmi, è ideologia, e il ruolo del dogma può essere giocato tanto da un dio quanto dal capitalismo, dal consumismo o dalla tecnologia. Quindi, per cercare di vedere le cose da una prospettiva non ideologica è indispensabile partire dalla problematizzazione del nostro punto di vista, da come oggi, sempre più spesso, decifriamo i fenomeni. Possiamo provarci con degli esempi.
Sulla “Repubblica” di domenica scorsa Michele Serra ha ripreso il mio intervento pubblicato su MicroMega dal titolo: “Il vero quesito: approvate il superamento della democrazia parlamentare?”. Egli si mostra d’accordo con la mia “spiegazione” secondo cui la Costituzione renziana è il punto d’arrivo di una restaurazione consistente nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati, concetto da lui definito “folgorante” per quanto è vero. Ma poiché ciò si sarebbe già realizzato da tempo, segnando una sconfitta della sinistra, nella quale lo stesso Serra si annovera, i trenta-quarantenni di oggi non farebbero che prenderne atto.
Secondo questa tesi la riforma Boschi-Renzi non farebbe che tradurre in norme questa nuova realtà, e questa sarebbe la ragione di votare “sì” a questa innocente proposta. Ne verrebbe dunque confermato che il popolo non è più sovrano, sovrani sono i mercati e la nuova Costituzione invece di permettere e promuovere la riconquista della sovranità al popolo, la consegnerebbe, irrevocabile, al Mercato. E poiché le Costituzioni sono destinate a durare, questa è la scelta che noi, sconfitti, lasceremmo a determinare la vita delle generazioni future.
È molto sorprendente che questa posizione (implicita ma negata nella propaganda ufficiale) sia ora resa esplicita e formalizzata sulla pagina più autorevole della “Repubblica”. Certo, non c’è niente di disonorevole in una sconfitta politica.
Ormai da più di un anno il dibattito intorno ai dati sul mercato del lavoro occupa uno spazio notevole sui mezzi d’informazione almeno una volta al mese. Da ultimo, i dati dell’Osservatorio Inps sul precariato sembrano gettare un’ulteriore ombra sugli effetti dell’ultima riforma, il jobs act, che a due anni di distanza dalla legge Fornero è intervenuta per portare più flessibilità nel sistema delle relazioni industriali.
Secondo l’Inps, il numero di contratti nei primi otto mesi del 2016 è complessivamente di 703.384, di cui appena 53.303 ascrivibili ai contratti a tempo indeterminato, incluse le stabilizzazioni di contratti a termine e apprendistato.
Se considerassimo invece solo i nuovi rapporti a tempo indeterminato, quelli che così nascono, senza passare per altre forme precarie prima della stabilizzazione, allora si nota un calo netto (-201.363) dovuto a un arresto delle assunzioni da parte delle imprese, più che alle interruzioni dei rapporti di lavoro che tuttavia, come vedremo, forniscono informazioni interessanti.
I sostenitori del jobs act hanno tuttavia puntualizzato che il dato sui contratti a tempo indeterminato è comunque positivo, una volta tenuto conto delle stabilizzazioni. Vero, peccato però che in questi otto mesi le trasformazioni siano diminuite non solo rispetto al 2015, ma anche rispetto al 2014, quando vigeva ancora l’articolo 18 e la decontribuzione sul costo del lavoro non era ancora stata approvata.
Sono letteralmente cascati dalle nuvole o forse semplicemente dal pero dove sono saliti grazie alle liane dell’arroganza, dall’incapacità di vedere al di là del proprio naso e del mito americano: i ricercatori in immunologia di tutti gli States raccolti a congresso dall’Economist a Boston per esaminare lo stato della ricerca contro il cancro, hanno scoperto quello che mai avrebbero immaginato e mai hanno voluto sapere: che Cuba nel campo dell’immunologia, è più avanti di loro, oltre ad avere 1200 brevetti farmaceutici internazionali, ad aver dato un contributo fondamentale nella sconfitta del virus Ebola e a produrre farmaci unici nel loro genere tra cui il solo in grado di evitare l’amputazione nei casi del “piede diabetico” (quello di cui soffriva Craxi, per fare un esempio) che gode di 21 licenze sanitarie e 3o brevetti, ma che fino a ieri non poteva essere usato negli Usa per evitare le 70 mila amputazioni all’anno a causa dell’assedio chiamato eufemesticamente embargo.
Lo ha rivelato all’attonita platea, Kelvin Lee, presidente della sezione di immunologia dell’istituto del Cancro di Roswell Park a Buffalo, il quale del tutto casualmente, a causa di una paziente di origine cubana, è venuto a sapere che il centro di immunologia e biotecnologie di Cuba produceva vaccini innovatori per i tumori polmonari e ha invitato il ricercatore di cui parlava la signora ad una conferenza che gli aperto orizzonti impensati. O meglio orizzonti che la narrazione ufficiale e l’ideologia dominante gli avevano precluso persino di pensare.
Nel suo libro Ripensare l’unione dell’Europa, Giandomenico Majone sorride all’idea che si sia potuto credere di esorcizzare il demone del nazionalismo creando una supernazione europea. Ora che il progetto mostra la corda, l’illogica europea fa un ulteriore passo avanti: “Non possiamo rimediare all’errore compiuto”, ci viene detto, “anzi, dobbiamo perseverare, restando nell’euro, perché se uscissimo nessuno sa cosa succederebbe, ma sarebbe un disastro”. Ora, i casi sono due: o non sai cosa succederà, e allora studi; o sai che sarà un disastro, ma allora devi spiegarci bene il perché.
L’onore della prova infatti cade sui catastrofisti, poiché l’evidenza storica è contro di loro. Lo studio più autorevole sulla dissoluzione di unioni monetarie, condotto da Andrew Rose all’Università della California, chiarisce che nei 69 casi verificatisi nel dopoguerra “non si registrano movimenti macroeconomici violenti prima, durante o dopo un’uscita”. Ripetere “non sappiamo cosa succederà ma sarà un disastro” appare un espediente per sottrarsi alla sfida dei dati. Chi scrive ha deciso di accettare questa sfida, iniziando un percorso di studio insieme agli altri economisti firmatari del Manifesto di solidarietà europea, col quale proponevamo nel 2013 quanto oggi consiglia Joseph Stiglitz: lo smantellamento controllato dell’Eurozona. Sono stati tre anni di studio faticoso, ma che ci consente di mettere a fuoco le effettive criticità di un’uscita.
“Genocidio nell’Eden”, “Popoli di troppo”, “Chi vivrà…Iraq!” e “Un deserto chiamato pace” sono i quattro docufilm che ho dedicato alla mia passione per l’Iraq. Lì dentro, testimone oculare, ho provato a mettere buona parte della lotta rivoluzionaria e antimperialista, dei fenomenali progressi sociali e culturali, della gloria, della sofferenza e dell’incredibile martirio di una grande nazione che, avendo dato i natali alla civiltà del nostro emisfero, non si rassegna a morire.
Dividere tutto ciò che è unito
La parola d’ordine occidentale per questo gigante della storia, della cultura, della modernità e del ruolo nel riscatto arabo, strappatosi a un colonialismo britannico tra i più feroci della storia (Churchill vi sperimentò le prime armi chimiche) fu, fin dal primo giorno dell’indipendenza “frammentazione”. Indipendenza formale, ma sotto tutela britannica, “concessa” nel 1932 a seguito di numerose rivolte di popolo, ma divenuta effettiva soltanto con la rivoluzione del 1958, protagonista il giovane Saddam, che istituì la repubblica. Alle destabilizzazioni innescate dall’ex-potenza coloniale, ora in combutta con gli Usa e ai colpi di Stato reazionari si accompagnò un primo tentativo di mutilazione: la separazione della provincia irachena del Kuwait, decisa da Londra per affidare l’enorme giacimento di petrolio a un satrapo locale.
L’attacco al sogno passa per l’attacco al sonno. Al sogno della vita liberata dal lavoro sotto padrone si risponde impadronendosi del sonno, mettendo la notte al lavoro sotto padrone. Because the night – ricordate? –, because the night belongs to lovers, col cazzo, la notte non è più degli amanti ma del lavoro e del consumo nei supermercati Carrefour H24. Ne è spuntato uno proprio sotto casa mia, inquietante nel buio della notte come un diner di Hopper.
Non è un caso isolato, solo un anello della lunga catena di modificazioni dei tempi di vita e di lavoro che passano attraverso la redistribuzione degli orari su tutta la settimana, invadendo prima il sabato poi la domenica infine la notte, eccedendo sistematicamente, mediante gli straordinari o l’imposizione del nero, la giornata di 8 ore. Di più, al di là dal caso sindacale, è un esempio della tendenza onnipervasiva a estendere illimitatamente l’operatività su tutto l’arco della giornata e della settimana, 24/7, sospendendo il tempo in un presente allucinato senza divenire e mirando a cancellare ogni spazio di riflessione, memoria riposo e recupero.
Una specie di illuminazione totale senza ombre, come scrive in un fortunato libretto J. Crary1, che arriva a individuare proprio nel sonno una specie di riserva di resistenza all’occupazione biopolitica di ogni individuo, corpo e anima.
1. Chi ci legge sa che le
ragioni del "no" che prevalgono nel dibattito referendario
sono in questa sede considerate "periferiche".
PoggioPoggiolini ci aveva dato lo spunto per questa precisazione che sintetizza il punto:
"Le ragioni del NO sono e rimangono un epifenomeno assolutamente equivoco sconfinante nel mainstream di pensiero del "costituzionalismo politico". Basta vedere che molti dei suoi sostenitori si abbandonano:
a) alla promessa di fare una riforma ben più "liberale" e rivoluzionaria, a cui l'attuale sarebbe di ostacolo;
b) all'idea che le oligarchie siano collocate all'interno delle nomenklature dei partiti (!), dimenticando la struttura dei rapporti di forza economica che fa di tali nomenklature solo dei più o meno efficienti esecutori dell'indirizzo politico promanante dall'ordine dei mercati €uropeo (v.dibattito con Bazaar, sopra).
2. Siccome fenomenologicamente i fatti ci danno ragione, il senatore Monti ci fornisce prontamente un'ampia conferma di questo frame, uscendosene con un discorso a favore del "no" che ci ha già dato modo di dibattere nei commenti all'ultimo post.
Eccolo, lo scritto più
misconosciuto,
introvabile e teoricamente rilevante sul «Maggio
strisciante» italiano ed europeo. Pubblicato all'inizio
degli anni ‘80 del
secolo scorso, e apparso come una sorta di lunga postfazione
alla ristampa dell'opuscolo Terrorismo o rivoluzione
di Raoul Vaneigem, esso non
ha goduto delle numerose ristampe più o meno «clandestine»
toccate a quest'ultimo e, col senno di poi, si può dire che
ben
difficilmente poteva essere altrimenti: uscito troppo
presto e condito di tesi troppo spigolose, Teoria
radicale lotta di classe
(e terrorismo) non poteva che risultare indigesto al
pubblico al quale era indirizzato, finendo abbastanza presto
nel dimenticatoio –
non prima di rivelarsi intollerabile anche a colui che ne
era stato l'autore.
Cionondimeno, esso resta l'unico testo apparso in Italia da quarant'anni a questa parte, che abbia realmente tentato un bilancio non politico o, peggio, «culturale», ma schiettamente teorico, del periodo 1968-’77. Certo, l'«offerta editoriale» nostrana, al riguardo, trabocca di proposte, ma è curioso constatare sino a che punto la facciano da padrone due particolari sottogeneri letterari (talvolta sconfinanti l'uno nell'altro): da un lato, la copiosa memorialistica partorita dai cosiddetti «protagonisti dell'epoca», che – al di là delle eventuali pregiudiziali in materia di pentitismo e dissociazione – il più delle volte, non fosse per la marca di autenticità (vera o presunta) delle vicende narrate, non si distinguerebbe in nulla dai tanti romanzetti di formazione sul tema: «ah, che simpatiche canaglie eravamo da giovani!»;
Ebbene sì, lo confesso: sono un convinto
nazionalista! La grande maggioranza dei politici e degli
intellettuali invoca più Europa per
uscire dalla crisi in cui l'Unione Europea è precipitata:
chiede una Europa federale perché teme il ritorno dei
nazionalismi nel vecchio
continente. Per combattere il risorgere degli spettri del
nazionalismo molti (soprattutto a sinistra) chiedono più UE e
più federalismo.
A mio parere la rottura dell'eurozona prima o poi è
inevitabile e la UE dell'euro è entrata in coma politico.
Occorre allora
innanzitutto difendere decisamente l'interesse nazionale. E
introdurre anche forme di autonomia monetaria.
La battaglia contro lo sciovinismo e la xenofobia è sacrosanta e la minaccia è purtroppo tanto reale quanto pericolosa. Credo però che siano proprio le politiche liberiste e neo-colonialiste della UE ad alimentare il peggior nazionalismo, a gettare benzina sul fuoco del populismo. E' la feroce e inutile austerità dell'euro che genera, per reazione difensiva, il nazionalismo esasperato. E quindi penso che occorra contrastare apertamente l'Unione Europea, la moneta unica per 19 diversi Paesi, e l'ideologia federalista che legittima la UE e l'eurozona, la sostiene e la promuove.
Il sogno federalista degli Stati Uniti d'Europa è condiviso in Italia da un ampio schieramento, che va dalla Confindustria ai sindacati, da settori del centro-destra al centro-sinistra e alla sinistra:
Dio benedica il referendum, verrebbe da pensare. Non ci fosse, il tiepido autunno, che vedrà il prossimo fine settimana uno dei principali momenti di conflitto politico e sociale, sarebbe ancora più freddo. Eppure l’ennesimo crollo economico della nostra economia lascia il paese sempre più rassegnato e sempre meno combattivo. Al contrario, siamo in presenza del vero fallimento del renzismo come volto presentabile del liberismo europeista, più di Costituzione, migranti o Unione europea. Sta fallendo l’ennesima soluzione costruita in laboratorio, l’ennesimo “volto nuovo della politica”, l’innovatore, il rottamatore, il “liberista dal volto umano”. Il fallimento di Renzi non porterà alla precoce dipartita solo lui e la sua schiera di yesman finanziari. E’ un intero apparato ideologico che rischia di tracollare. I dati di ieri sullo stato di salute dell’economia italiana in termini di occupazione e disoccupazione, in questo senso, smascherano decenni di retoriche liberiste sul mercato del lavoro italiano. La principale riforma del governo Renzi, il cosiddetto Jobs Act, traduceva in pratica i fondamenti dell’economia politica liberista, basati su una serie di atti di fede, tra i quali: meno garanzie contrattuali producono più mobilità lavorativa e quindi più dinamismo di mercato; libertà di licenziare favorisce l’aumento dell’occupazione; la moderazione salariale consente alle aziende di investire e assumere più facilmente; un mercato del lavoro più “dinamico” porta a un incremento della crescita economica.
Cinquantacinque anni fa, il 17 ottobre 1961, 3 o 400 algerini, su circa 30.000 che manifestavano pacificamente contro le leggi razziste che il governo del presidente Charles De Gaulle aveva imposto - in particolare contro i cittadini di quell’origine e, per estensione, contro ogni cittadino proveniente dal Maghreb - furono “cacciati” e assassinati in piena Parigi dalla polizia del regime.
Sebbene gli eredi della Rivoluzione Francese l’avessero già ferita a morte nelle risaie dell’Indocina, nelle caverne del nord dell’Algeria e nei boschi e nei deserti africani, quella notte, in piena Parigi, le diedero il colpo di grazia.
“Se la prendevano coi più deboli, con quelli che già sanguinavano, fino ad ucciderli, io l’ho visto”
Saad Ouazen
Il fatto più oscuro che si registri nella Ville Lumière fino ad oggi non è mai stato debitamente chiarito e non c’è neppure una lista comprovabile e sicura dei morti e men che meno dell’insieme delle responsabilità.
Il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino, diretto da Mohamed Budiaf e da Ahmed Ben Bella dal 1954, che combatteva una guerra contro la dominazione della Francia, che aveva invaso il suo territorio nel 1830, chiamò le migliaia di algerini che risiedevano allora a Parigi a manifestare pacificamente contro il ‘coprifuoco’ imposto alla popolazione magrebina dal prefetto Maurice Papon,
Accademia di marxismo presso l’Accademia cinese di scienze sociali Associazione politico-culturale Marx XXI Forum Europeo 2016 / La “Via Cinese” e il contesto internazionale Roma, 15 ottobre 2016 Il ruolo di Usa e Nato nel rapporto della Ue con la Cina
Vado subito al nodo della questione. Penso che non si possa parlare di relazioni tra Unione europea e Cina indipendentemente dall’influenza che gli Stati uniti esercitano sull’Unione europea, direttamente e tramite la Nato. Oggi 22 dei 28 paesi della Ue (21 su 27 dopo l’uscita della Gran Bretagna dalla UE), con oltre il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva».
E la Nato è sotto comando Usa: il Comandante supremo alleato in Europa viene sempre nominato dal Presidente degli Stati uniti d’America e sono in mano agli Usa tutti gli altri comandi chiave. La politica estera e militare dell’Unione europea è quindi fondamentalmente subordinata alla strategia statunitense, su cui convergono le maggiori potenze europee. Tale strategia, chiaramente enunciata nei documenti ufficiali, viene tracciata nel momento storico in cui cambia la situazione mondiale in seguito alla disgregazione dell’Urss. Nel 1991 la Casa Bianca dichiara nella National Security Strategy of the United States: «Gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione - politica, economica e militare - realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana».
Nelle ultime settimane una sensazione positiva si è diffusa nel fronte del No al referendum costituzionale. L’impegno parallelo del M5S, della sinistra sociale, di Forza Italia e della Lega Nord contro la riforma invita ad una rassicurante operazione aritmetica: tutta l’opinione pubblica non-renziana è contro, e l’opinione pubblica non-renziana costituisce la larga maggioranza del paese.
Su questo non c’è dubbio. Il Governo gode di un consenso sempre più socialmente limitato a quelle categorie che – bene o male – si stanno salvando dalle conseguenze più pesanti della crisi economica (e che corrispondono in parte al “blocco storico” del Pds-Ds-Pd, con ampi allargamenti al centro). Anche la campagna strumentalmente antipolitica del Pd sta raggiungendo il limite massimo del consenso possibile: condotta dalla forza politica più “sistemica” del paese, serve più a motivare l’elettorato renziano che a conquistare nuovi settori della società.
Il problema è che mentre il Sì sta riuscendo a mobilitare il proprio elettorato potenziale, il No non lo sta facendo. Ed è naturale, in parte: il dissenso verso il Governo si concentra proprio in quei settori della società che più sono portati all’astensione. Ma alla base di questo insuccesso c’è anche l’impostazione generale della campagna del No.
Bob Dylan sta alla musica come Jack Kerouac sta alla letteratura. Non mi viene in mente nessun’altra affermazione (calzante e allo stesso tempo difficile da difendere) con la quale iniziare un articolo dedicato al nuovo premio Nobel per la letteratura. Eppure, l’affermazione ha un intento diverso dal tentare di fare una precaria analogia. Durante gli anni 60 e 70, musica e letteratura si avvicinarono tanto che arrivarono ad incontrarsi, dando luogo a ibridi indissociabili: non si può comprendere “Sulla strada” di Kerouac senza il jazz beebop, e nemmeno si può intendere la letteratura del XX secolo senza i testi di Dylan. Dall’altro lato, Dylan fa parte di un’esperienza reale, che cambiò la concezione della vita di milioni di persone: la letteratura beatnick, le poesie di Allen Ginsberg, la musica, i viaggi lunghi senza destinazione attraverso gli Stati Uniti, le droghe, San Francisco, le vite spezzate, gli hippy, le manifestazioni contro la guerra. Bob Dylan è una figura molto particolare della letteratura; è un autore-personaggio, che costruisce e simbolizza un’epoca per milioni di persone.
Andiamo per punti, esplorando le tensioni e le contraddizioni. Non c’è dubbio che Bob Dylan sia una figura centrale di una generazione e di un immaginario culturale che tentò di cambiare il mondo, ma che non ci riuscì. Pertanto, che nessuno si aspetti da Dylan un gesto simile a quello di Sartre nel 1964.
Gli Stati Uniti
si avviano alla fase terminale dell’esperienza costituita
dall’Amministrazione Obama.
Questa è di per sé una buona notizia. Finalmente si assisterà alla fine del mito obamiano, dell’obamamania, che hanno imperversato sul mainstream nel tentativo di accreditare un imperialismo americano dal volto umano. Tentativo che col tempo è andato progressivamente appannandosi anche per quelle opinioni pubbliche occidentali che erano il target principale di questa vasta campagna di cosmesi politica e travisamento della realtà. Gli eventi degli ultimi mesi sottolineano che molte maschere sono cadute nel corso dei due mandati del presidente “nero”. Gli Usa hanno continuato a condurre con determinazione la corsa agli armamenti, aumentando la pressione su entrambi i fianchi del continente eurasiatico contro i loro antagonisti: Russia e Cina. Hanno legittimato il rovesciamento dei legittimi presidenti di Honduras, Paraguay e Brasile e assistito al suicidio argentino, per tacere dell’impegno profuso nella destabilizzazione del Venezuela. Tasselli che disegnano un tentativo complessivo di rimettere il guinzaglio all’America Latina. Hanno appoggiato un putsch nazista in Ucraina per lacerare i rapporti tra questo stato ex-sovietico e la Russia (e tra la Russia e l’Europa) con un’operazione molto ardita. Un bel colpo.
Questo
articolo è stato scritto nel 2008, al momento
dell’uscita in Italia del testo di Serge Latouche
Breve trattato sulla decrescita serena.
Ho pensato di riproporlo perché trovo sia ancora
attuale, anzi, lo sia forse
più ora di prima. Anche il libro menzionato, che può
essere considerato una sorta di “pamphlet” capace, mi
pare, di
illustrare in maniera esauriente e chiara i capisaldi
del pensiero della decrescita, è un libro tuttora
utilissimo per chi sia veramente
interessata/o ad un confronto “sereno” e possibilmente
produttivo con questa teoria.
La decrescita, talvolta acclamata, viene più spesso ostacolata e avversata, anche e forse soprattutto a sinistra, compresa quella radicale – che dovrebbe, a mio avviso, essere invece il suo referente naturale. I motivi di questa avversione sono molti, ma possono farsi essenzialmente risalire al seguente: la decrescita sarebbe un “pensiero borghese”, o meglio un ultimo colpo di coda di questo pensiero, che prova a recuperare il malcontento e la crisi incanalandoli verso sentieri compatibili col sistema.
Con questo articolo, provo a dimostrare non solo che non è vero, ma che è di fatto impossibile. La decrescita, con il suo insistere sull’assurdità della “crescita” (“accumulazione”, in un altro linguaggio), in favore di una società egualitaria, post-consumista, conviviale, dove si riprenda un rapporto con la natura fondato sull’incanto e la co-appartenza invece che sul disincanto e sull’oggettivazione (presupposti fondamentali, questi ultimi, per la trasformazione in merce della natura in vista del suo sfruttamento economico), può invece rappresentare un efficacissimo grimaldello per mettere in discussione i fondamenti su cui poggia la spaventosa società del capitale – fondamenti che stanno comunque già crollando da soli, lasciando uno sconcerto che ha bisogno di essere compreso e affrontato con una certa urgenza.
Due sono i meriti
maggiori del bel volume che Domenico Moro ha dedicato a quello
che viene oggi presentato come conflitto tra “Occidente” e
“Islam” (La terza guerra mondiale e il fondamentalismo
islamico, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016). Il primo è
quello di
essere un efficace strumento per ricostruire ragioni e forme
del conflitto e per iniziare a comprendere, attraverso le
opportune distinzioni, quel
mondo dell’islamismo che viene quasi sempre descritto come un
compatto blocco di atteggiamenti conservatori e reazionari,
espressione di un
arretratezza economica e politica che l’Occidente è ovviamente
candidato a redimere. Il secondo è quello di ribadire con
nettezza
l’interiorità di questo conflitto alla strategia bellicista
dell’Occidente e la necessità della guerra nel mondo dominato
dal capitali.
Stagnazione secolare, caduta del saggio di profitto, conseguente necessità di trovare nuovi e più remunerativi sbocchi all’esportazione di merci e (soprattutto) di capitale, sono le tendenze economiche generali che stanno alla base delle guerre oggi condotte dall’Occidente: tendenze la cui natura fa dire a Moro che ben presto le proxy wars (ossia le guerre indirette, limitate e per procura) non saranno più sufficienti a garantire quella distruzione di capitale che sarebbe necessaria a far ripartire l’accumulazione, e che quindi “soltanto una guerra dispiegata tra grandi potenze” (p.127) potrà fornire una (presunta) soluzione.
Giorni addietro avevo scritto, con particolare riferimento all'antirenzismo di ceffi come D'alema, che certi appoggi è meglio perderli che guadagnarli. Ora un'altra tegola si abbatte sul fronte del NO, si chiama Mario Monti.
La decisione di votare NO Monti la comunica in un'intervista a cura di Federico Fubini rilasciata proprio oggi al Corriere della Sera. Intervista che va letta per capire perché mai Monti abbia deciso di scendere in campo e mettersi di traverso alla marcia di Renzi verso la sua poco probabile incoronazione.
I fattori che spiegano questo riposizionamento tattico montiano sono diversi, non ultimo quello, meschino, di una vendetta sua e della sua congrega (Letta ad esempio) che Renzi ha effettivamente emarginato dalla stanza dei bottoni.
Ce n'è un secondo, più di sostanza: il NO resta in vantaggio in ogni sondaggio, e Monti e la sua cricca, fiutando la débâcle renziana, vogliono salire sul cavallo vincente, per giocare la partita del dopo-Renzi, di un governo di "larghe intese".
Non si banalizzi, non è solo una squallida lotta di potere, una guerra per bande. Monti spiega bene perché voterà NO. Non è il carattere pasticciato della "riforma" la ragione principale per cui vuole mandare a casa il governo Renzi, sono le sue politiche "populiste" di cattura del consenso elettorale a spese di una rigorosa e austeritaria politica di bilancio.
Come è ampiamente noto, negli ultimi anni si è riaccesa, in concomitanza con la pubblicazione dei suoi "Quaderni neri", la discussione sulla valenza politica della filosofia di Heidegger. Sulla questione è da poco intervenuto anche Jean-Luc Nancy in "Banalità di Heidegger", recentemente tradotto in italiano per Cronopio. Ringraziamo la casa editrice per averci concesso di pubblicarne un estratto
Heidegger avrebbe potuto interrogarsi sulle ragioni e sulla provenienza dell’antisemitismo. Non lo fa. Accoglie come un dato del destino occidentale la banalità che ormai è diventata il discorso carico d’odio e pesantemente grottesco dei Protocolli. Lui che è così bravo a rintracciare le provenienze, che si tratti di quelle della lingua greca o della devastazione moderna (tecnica, democratica, calcolatrice), non si chiede mai da dove provenga l’antisemitismo. È un dato, come abbiamo visto, è una “delle figure più antiche”… (e sebbene tale “figura” non sia biologica, essa ha tuttavia, in assenza di ogni altra analisi, una sorta di andatura “naturale”…).
Era però – ed è ancora – il caso di domandarsi come mai l’ampio consenso moderno – americano-bolscevico, tecno-democratico e soprattutto anglo-franco-europeo – comporti come figura significativa e come protagonista quell’elemento ebraico che tutti gli altri si adoperano già da tempo a coprire di ignominia.
In una recente trasmissione televisiva, Luciano Violante (esponente del Pd troppo noto perché si debba dire chi è) ha giustificato la riforma costituzionale con le necessità del momento: “Nel mondo della globalizzazione la democrazia deve essere decidente”. (Come se qualcuno volesse una democrazia non decidente) sottintendendo con questo che il governo deve avere le mani libere dai troppi impacci del confronto con l’opposizione.
Di passaggio notiamo come questo implicitamente ammetta che la riforma vada nel senso di un rafforzamento del governo ai danni del Parlamento, cosa ostinatamente negata dai sostenitori del Si alla riforma.
Dato che prevedevo sarebbe saltato fuori l’argomento del mondo globale che esige decisioni pronte ed immediate, ho dedicato al tema qualche pagina del mio libro appena uscito (“da Gelli a Renzi”) che vi propongo anche come risposta ad un tema che sentirete usare sempre più spesso dagli ineffabili alfieri della schiera renziana. Spero gradirete:
* * * *
<< Ricordiamo la frase di Renzi per la quale il sistema elettorale deve far sì che gli italiani sappiano “già dalla sera dei risultati” chi governerà nei 5 anni successivi.
Per informare ma anche per chiarire le idee a me stesso, scrivo un resoconto dell’incontro pubblico, svoltosi ieri a Bologna, di presentazione dell’ultimo numero della rivista di geopolitica “Limes”, dedicato alla possibile guerra Nato-Russia. I relatori erano il direttore di Limes Lucio Caracciolo, il console russo a Bologna Igor Pellicciari e il generale già rappresentante dell’Italia nella Nato Giuseppe Cucchi.
Cominciamo col dire che la tesi di fondo di tutto l’incontro si fondava sulla convinzione che vi siano:
a) da parte americana, la volontà di contenere e logorare la Russia per impedirle una saldatura con la Germania e la Cina;
b) da parte russa, una reazione che non si limita più al livello difensivo ma si fonda sul rilanciare nuove ambizioni come, per esempio, il ripristino di basi ex-sovietiche in Egitto;
c) da entrambe le parti, secondo i relatori, non sussisterebbe però una deliberata decisione di arrivare prima o poi allo scontro diretto; questa solida convinzione è stata, a mio parere, la parte più debole della tesi esposta: di fatto non possiamo sapere se, al contrario, lo scenario di guerra aperta non sia sin da adesso pianificato come obiettivo e finalità dalla parte in conflitto ch’è militarmente in posizione di vantaggio, vale a dire gli Stati Uniti.
I segnali sono sempre più numerosi e diffusi. Il terreno è stato dissodato e preparato alla semina. Ora bisogna agire. La Grande Rotazione dalla politica monetaria a quella fiscale è ormai ai nastri di partenza e comincerà, come sempre accade con le novità, dagli Stati Uniti, non appena riusciranno a darsi un’amministrazione. La Fed ha già iniziato a far capire che sulla politica monetaria ormai non c’è più da contarci troppo e le ultime minute pubblicate dalla Fed confermano l’intenzione della banca centrale Usa di procedere sulla via delle normalizzazione monetaria. La Fed già da un anno ha smesso di comprare titoli, e adesso si prepara al secondo rialzo dei tassi, che dovrebbe avvenire già quest’anno, mentre gli analisti ne ipotizzano almeno altri due o il prossimo. Le altre banche centrali come sempre, seguiranno, pure se con i loro tempi. Ma il segnale è chiaro: l’età dello stimolo monetario volge al termine.
Questo non vuol dire che la moneta facile sparirà. Tutt’altro. I tassi bassi sono un strumento essenziale per il secondo capitolo del lungo libro che l’economia internazionale sta scrivendo nel tentativo di rilanciarsi: il capitolo degli stimoli fiscali. Avere tassi bassi servirà almeno a due cose: da un parte a rendere sostenibili i debiti del settore privato e pubblico, ormai esorbitanti, e poi stimolare ulteriormente l’indebitamento per gli investimenti, ancora molto al di sotto rispetto a prima del 2008.
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Recentemente un grande
regista e attento
osservatore dei mutamenti sociali ha dichiarato: “se
non sei arrabbiato, che razza di persona sei?”.
L’interrogativo posto da Ken Loach è di fondamentale
importanza. Coglie,
infatti, l’assoluta centralità della questione della
diffusione tra le masse popolari dello scontento, della
frustrazione e della rabbia
per il progressivo peggioramento delle condizioni di vita:
la generalizzazione della precarietà, la disoccupazione di
massa e le devastanti
politiche di austerità sono gli ingredienti della montante
insoddisfazione.
Di fronte alla insoddisfazione e rabbia popolare, tuttavia, risulta evidente l’assenza nel dibattito pubblico di un’alternativa reale allo stato di cose presente. E sicuramente una prospettiva di cambiamento reale è assente proprio tra coloro che concretamente rischiano di perdere il lavoro, si ritrovano disoccupati o soffrono per la sempre minore disponibilità dei servizi pubblici essenziali. L’obiettivo di queste brevi note non è certo quello di colmare un tale vuoto di elaborazione. Piuttosto cerchiamo di porre l’attenzione – e stimolare un confronto - su alcuni nodi dell’attuale dibattito a sinistra: un utile punto di partenza ci pare essere l’interpretazione da dare al crescente rifiuto verso le istituzioni comunitarie europee. Il tema è insieme particolarmente importante, complesso e spinoso.
Il ruolo
decisivo dell’azione collettiva nell’indebolire l’ideologia
neoliberista e l’attuale potere strutturale del capitalismo.
Un
articolo di Walden Bello, docente alla State University di
New York a Bighamton, senior research fellow al Centro
Studi sul Sudest Asiatico
dell’Università di Kyoto ed ex membro della Camera dei
rappresentanti della Repubblica delle Filippine
Ho ricevuto molte lezioni dalla Battaglia di Seattle, e una di queste è che le poliziotte possono picchiare come un qualunque poliziotto. Sono stato picchiato duramente da una delle migliori di Seattle. Qualche giorno fa ho deciso di ripercorrere il sentiero dei miei ricordi e di visitare la scena del delitto. Ricordo di aver visto Medea Benjamin di Code Pink trattata piuttosto brutalmente e corsi verso di lei per provare a fermare la polizia. A quel punto, una poliziotta si precipitò verso di me e iniziò a picchiarmi col suo manganello, trascinandomi e buttandomi per la strada, con un calcio nel fondo schiena ben assestato come colpo di grazia. Quello non è stato il colpo più forte. Quello lo ha ricevuto il mio ego: meritavo di essere picchiato e preso a calci, ma non di essere arrestato.
Come Cesare, dividerò il mio racconto in tre parti. Innanzitutto, alcune riflessioni su ciò che Seattle significa per il cambiamento delle visioni del mondo. In secondo luogo, una discussione su come, nonostante la crisi del neoliberismo, il capitale finanziario è riuscito a mantenere un potere enorme. In terzo luogo, un appello per una nuova visione complessiva di una società desiderabile.
Il fatto che un alto
numero di rifugiati,
specialmente da paesi che sono stati soggetti negli ultimi
tempi alle devastazioni delle aggressioni e guerre
imperialiste, stiano tentando di entrare
in Europa viene visto quasi esclusivamente in termini
umanitari. Per quanto una tale percezione abbia senza dubbio
la propria validità, vi
è un altro aspetto della questione che è sfuggito del tutto
all’attenzione, ossia che per la prima volta nella
storia
moderna il fenomeno della migrazione potrebbe trovarsi al
di fuori del controllo esclusivo del capitale
metropolitano. Sino ad oggi i flussi
migratori sono stati interamente dettati dalle esigenze del
capitale metropolitano; ora, per la prima volta, le persone
ne stanno violando i dettami,
tentando di dare seguito alle proprie preferenze riguardo a
dove vogliono stabilirsi. In miseria e infelici, e senza
essere coscienti delle
implicazioni delle proprie azioni, questi sventurati stanno
effettivamente votando coi propri piedi contro l’egemonia
del capitale
metropolitano, il quale procede sempre sulla base del
presupposto che le persone si sottometteranno docilmente ai
suoi diktat, anche riguardo a dove
vivere.
L’idea secondo la quale il capitale metropolitano avrebbe fino ad oggi determinato chi dovrebbe rimanere e dove nel mondo, nonché in quali condizioni materiali, potrebbe apparire a prima vista inverosimile. Ciò nondimeno è vera.
Nel giro di una decina di giorni, Renzi ha:
– deciso l’invio di un contingente di 400 uomini in Lituania
– reso visita ed omaggio ad Obama per riceverne la paterna benedizione
– bloccato le nuove sanzioni contro la Russia sostenute dalla Merkel
– sostenuto un vigoroso contrasto con la Ue tanto sulla questione dello sforamento di bilancio quanto sulla questione degli immigrati
– fatto il muso duro con Londra sulla questione della Brexit
– incassato l’appoggio referendario dell’internazionale “socialista”
– preso nettamente le distanze dalla delibera Unesco su Gerusalemme (che in effetti è una vera porcheria)
Un grande attivismo, non c’è che dire, ma vale la pena di spendere qualche parola sul significato di passi la cui coerenza sfugge a prima vista.
Infatti, da un lato ribadisce il tradizionale allineamento con gli amici di Mosca e di Tel Aviv (in perfetta continuità con l’eredità berlusconiana), dall’altro si imbarca nell’avventura militare ai confini della Russia.
Mentre Obama sbaracca, la pacchiana cena di propaganda alla Casa Bianca conclude la sua disastrosa presidenza su una nota particolarmente squallida.
Come Verdini e Alfano anche Obama sostiene la riforma renziana.
L’appoggio del Supercazzaro degli Stati Uniti uscente, anzi
ormai quasi uscito, potrebbe però essere controproducente
per il sì
almeno quanto quelli della Merkel, e della finanza
internazionale.
La riforma renziana, che sapeva chiaramente di
sóla fin
dall’inizio, adesso ha la stessa credibilità d’un farmaco
consigliato da una ditta di pompe funebri.
Non ci sono più
dubbi su chi siano i mandanti di Renzi: abbiamo le
rivendicazioni.
Anche il fronte opposto ha purtroppo qualche Captain Boomerang, Monti, D’Alema, Brunetta, la Suicide Squad del no: un gruppo di bastardi costretti dalle circostanze a combattere dalla parte giusta, contro un bastardo ancora peggiore. Per quanto sia difficile immaginarsi Giorgia Meloni nei panni di Harley Quinn, la vittoria del no rimane comunque più che mai necessaria.
«Soltanto quando apriranno gli archivi, sapremo come è andata davvero nel 2011. Ma credo che Giorgio Napolitano sarà giudicato negativamente dagli storici». Giulio Sapelli, storico ed economista, è sempre stato un feroce critico della stagione dei tecnici, in particolare del ruolo attivo avuto dall'allora presidente della Repubblica nel nominare Mario Monti al posto di Silvio Berlusconi, «senza un voto di sfiducia del Parlamento». Nel 2012 pubblicò fra l'altro un pamphlet intitolato L'inverno di Monti. Cinque anni dopo il cambio alla guida del governo sotto la pressione dei mercati, Sapelli non ha cambiato idea. Rispondendo a Linkiesta ha detto di essere convinto che la caduta di Berlusconi sia stata solo l'atto finale di una ventennale stagione politica, in cui lo stesso leader di Forza Italia ha però fatto degli errori: «Non è stato un politico ed è rimasto vittima di questo paradosso. Lui e il ministro Tremonti, che ritengo fosse il vero avversario dell'Europa, avrebbero dovuto alzare la voce». Secondo Sapelli, l'Italia resta storicamente «un paese a sovranità limitata», ed è per questo che ritiene che anche un voto negativo al referendum costituzionale non darà particolari scossoni al sistema. Però il professore dell'università statale di Milano non vede altro sbocco dopo il 4 dicembre: «Comunque vada, bisogna tornare finalmente a votare. E vinca chi deve vincere».
L’anziano ex consigliere alla sicurezza di
Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, è
sempre sulla cresta dell’onda e
continua ad elaborare analisi politiche, che da un lato
riflettono le intenzioni dei vertici statunitensi,
dall’altro indicano i percorsi da
seguire per difendere il ruolo egemonico della superpotenza.
In particolare, in un articolo di qualche mese fa, egli
riconosce che il dominio
globale degli Stati Uniti è in crisi
a causa del riemergere della Russia quale
attore politico nella
scena mondiale e dell’espansione economica e commerciale
della Cina. A suo parere, pertanto,
bisogna prendere misure adeguate a
contrastare tale declino e a impedire un avvicinamento
dell’Europa alle potenze emergenti (leggi).
Come è noto, Brzezinski si è sempre dilettato di analisi politiche volte a delineare gli scenari internazionali futuri. In questo breve intervento, mi limiterò ad analizzare brevemente un articolo dell’ex-consigliere, pubblicato nel 1968, dal significativo titolo America in the Technetronic Age(leggi), nel quale egli indica i caratteri della società cosiddetta postindustriale o, se volete, postmoderna. E ciò perché in effetti egli coglie nel segno, anche perché descrive le linee politiche adottate dalla classe dirigente mondiale, a cui era ed è strettamente vincolato.
«La ripetizione di un atto che
non
crea valore, non può mai
essere
un
atto creativo di valore.»
(Karl Marx, MEW 42)
«Creazione di valore in euro = costi
di
produzione, meno pagamenti,
meno
ammortamenti, meno imposte indirette,
più
sussidi» (Teoria di Economia
Aziendale)
La creazione di valore nell'economia capitalista è da circa 400 anni una grandezza fissa, ma è anche un tema ricorrente nelle discussioni di tipo economico, politico, sociale, e perfino morale. Quello che ha cominciato ad essere oggetto di studio nei libri e che ha portato sempre a nuovi libri, oggi viene trasportato e comunicato in gran parte su Internet. Ed ecco che così mi sono imbattuto alcuni mesi fa, mentre navigavo, nel concetto di "creazione di valore digitale", ovvero di "catene di creazione di valore digitale". Così, ora anche il valore, o la sua creazione, la sua produzione, sarebbe andato a finire nella digitalizzazione. Come potrebbe essere "digitalizzata" una categoria astratta? Questo non era immediatamente chiaro - perciò ho fatto una piccola ricerca, per chiarire un po' l'origine di questo neologismo - ed ecco qui la sua breve storia!
L’epidemia
Nei primi anni del decennio ’80 vivevo nel lower east di Manhattan. Scrivevo articoli per una rivista milanese. Scrivevo della scena new wave o no wave dei locali after punk, sull’arte di strada su Keith Haring e Rammelzee e Basquiat. Nel 1977 la città di New York aveva dichiarato bancarotta: l’industria che aveva dato lavoro e identità alla città ora se ne andava. Quando arrivai a New York interi quartieri erano cimiteri abbandonati, fabbriche deserte trasferite nella Sunbelt, magazzini vuoti. Ma un sindaco lungimirante che si chiamava Ed Koch ebbe un’idea brillante: invitò gli artisti di ogni paese a venire a New York. E quelli vennero a frotte e si misero a ristrutturare quei locali abbandonati, a trasformarli in laboratori di vita indipendente. Musicisti, graffitisti, poeti, ma anche sperimentatori tecnici e sperimentatori esistenziali, affollarono la città per farne una specie di incubatrice del futuro possibile.
Poi venne l’AIDS. Le cose sono sempre più complicate di come le raccontiamo, ma credo che il nucleo più intimo della mutazione digitale stia qui: nel punto in cui la sindrome acquisita di immunodeficienza stravolse la percezione di noi stessi, sconvolse e poi dissolse la comunità che aveva attraversato due decenni di erotica amicizia egualitaria.
La depressione può essere descritta come una condizione in cui l’organismo cosciente perde la capacità di trovare senso nel mondo che lo circonda.
Festa della neolingua. A Firenze, Petrarca e Boccaccio vanno sulla Maserati di Marchionne, campione dell’italianità con la residenza in Svizzera. La cultura messa al servizio del mercato
«Proporre la qualità Italia è la sfida di fronte a noi: proporre l’umanesimo che deriva dalla nostra cultura, dal modo di vivere, di lavorare». Così Sergio Mattarella, pochi giorni fa a Firenze. Ma il Capo dello Stato si rivolgeva ai cittadini o agli investitori; parlava di cultura, identità, comunità o di mercato, marchio, prodotto?
L’esame del contesto moltiplica l’ambiguità: si trattava di un’occasione apparentemente culturale (la pretenziosa etichetta recitava: «Stati generali della lingua italiana»), ma ad organizzarla non era il ministero dell’Istruzione o quello dei Beni culturali, bensì la Direzione Generale Promozione Sistema Paese (a proposito di italiano!) del ministero degli Esteri.
Più chiaro, come sempre, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, quando aprendo i lavori aveva parlato della necessità «di una gigantesca scommessa culturale sul made in Italy, se vogliamo che l’italiano sia studiato»: una prospettiva davvero incoraggiante, non da ultimo per quell’uso tragicomico dell’inglese.
Lavoro, consumo e rete. In questi tre modi di essere e di vivere di ciascuno di noi, l'emozione – e le relazioni di dipendenza/coinvolgimento che l'emozione sa produrre tra chi produce l'emozione (oggi l'impresa, le merci, la rete: il tecno-capitalismo) e chi le deve vivere in sé – gioca un ruolo crescente, pervasivo e insieme invasivo. Il capitalismo era nato disciplinando gli uomini al lavoro. Michel Foucault ha spiegato (in Sorvegliare e punire), come le discipline siano state determinanti anche per produrre il lavoratore capitalista: subordinato, utile (a produttività crescente) e docile (l'esercizio ripetuto genera routine e automaticità). Ma poi ha affinato sempre più le sue tecniche di potere.
Già Henry Ford, dopo avere introdotto nelle sue fabbriche (nel 1913) la catena di montaggio (ripetitiva, alienante), nel 1914 aveva creato la «Sezione sociologica», un gruppo di consiglieri che avevano il compito di indagare e monitorare il comportamento extra-fabbrica (camera da letto compresa) dei propri dipendenti; e se raggiungevano un certo punteggio – introiettando i valori etici, diremmo psichici, della fabbrica e comportandosi conseguentemente – avevano diritto al raddoppio del salario. Se invece rileggiamo L'organizzazione scientifica del lavoro di Taylor – e quel taylorismo disciplinare che aveva prodotto – troveremo invece non solo l'invito a far fare squadra ai dipendenti, agendo quindi anche sulla loro psicologia (che si replica ancora oggi nel fare gruppo o nella creazione di comunità di lavoro),
Come reagireste se vi dicessero che in piccola parte anche voi siete complici del devastante attacco che ha paralizzato l'Internet di mezzo mondo nell'offensiva più grande della (breve) storia del web? Non si tratta di una campagna di lancio per la nuova stagione di Black Mirror ma, purtroppo, è andata proprio così: ognuno di noi potrebbe aver contribuito a mandare offline le più grandi piattaforme digitali. In parte vi avevamo già avvertito, illustrando i rischi poco noti dell'Internet of Things. Più efficacemente Brian Krebs – uno dei massimi esperti di sicurezza informatica sul pianeta – pochi giorni fa aveva placidamente previsto:
Il codice che alimenta la botnet costruita su Internet of Things è stato appena rilasciato [...], virtualmente garantendo che presto internet sarà inondato di attacchi perpetrati da migliaia di nuovi dispositivi come router, telecamere e video registratori digitali
Ma come è possibile che anche un baby monitor possa fare crollare Facebook?
È un dato di fatto che i veri hacker siano ormai merce rara: oggi bastano un paio di tutorial per creare un gran scompiglio e tutto si basa su pochi concetti basilari, portati all'estremo grazie alla enorme disponibilità di risorse.
Nei giorni scorsi, secondo i grandi mass-media internazionali, il governo statunitense ha allentato il blocco economico contro Cuba. Il presidente Barack Obama ha infatti emesso una Direttiva presidenziale per rendere “irreversibile” l’apertura verso l’isola. Una Direttiva grazie alla quale “consolida” i cambiamenti adottati dal suo governo, nel quadro di una normalizzazione bilaterale che cerca di promuovere un “maggiore impegno” tra i due Paesi.
Secondo la vulgata dominante, la nuova politica vuole migliorare i rapporti tra i due governi, l’espansione del commercio bilaterale ed alleviare le restrizioni sulle rimesse tra le due nazioni, decisione che risponde a necessità umanitarie, di viaggio e di studio. Insieme alla Direttiva presidenziale, il Dipartimento del Tesoro e quello del Commercio hanno annunciato altre misure di flessibilizzazione al blocco, destinate a facilitare la collaborazione scientifica, l’aiuto umanitario ed a rafforzare il commercio bilaterale, compreso quello di sigari e rum, prodotti emblematici di Cuba. Secondo il portale “Usa Today”, i Cubani potranno comprare via internet prodotti statunitensi.
Le misure sono entrate in vigore lo scorso 17 ottobre.
Ma una lettura più attenta del documento, oltre alle luci, ne segnala le ombre.
Tra gli ostacoli che
sbarrano la strada a una
comprensione del nostro presente vi è quella visione
semplificata, quando non caricaturale, del Novecento, che
vediamo condivisa da retoriche
diverse – anche schierate su fronti politici opposti: una
visione che, in estrema sintesi, lo definisce come il secolo
della grande fabbrica,
della quale la società, la politica, il sindacato avrebbero
riprodotto, specie nel trentennio del compromesso
“keynesiano”
(“età dell’oro” nello schema del Secolo breve di
Hobsbawm), sia la capacità di generare prosperità che
la fondamentale rigidità delle strutture. A tale presunta
rigidità ci siamo abituati a sentir contrapporre – e abbiamo
imparato a
diffidarne – l’apparato retorico della flessibilità: del
resto, osservava Vittorio Foa più di trent’anni fa, a
diventare più flessibili, ideologicamente e politicamente,
sono state in primo luogo le classi dominanti, e «proprio
perché il
nemico storico è diventato così flessibile, dobbiamo
riconoscere nella sua flessibilità una serie di finalità di
cui non
abbiamo nemmeno l’idea.»[1]
Per tagliare questa nebbia di luoghi comuni, quale migliore chiave d’accesso che una figura come quella di Foa? Figura complessa, vasta, che si è contraddetta e ha riflettuto con lucidità su queste contraddizioni – in quello sforzo incessante di trasparenza che costituisce la caratteristica ispirazione dei suoi libri di memorie, ma anche dei suoi testi di storia – capace di contenere moltitudini («uomo plurale» s’intitolava il libro dedicatogli nel 2011 da Luigi Falossi e Paolo Giovannini) o almeno a lungo tesa a dar voce alla «classe operaia», di cui in quegli anni il sindacato e i partiti della sinistra andavano costruendo il linguaggio comune su scala nazionale, la forma organizzata di presa di parola (nei suoi testi ricorrono brani, anche lunghi, tratti dagli interventi di operai e delegati, citati accanto a Marx come vere e proprie autorità sulla vita in fabbrica).
Pubblichiamo un estratto dal libro di Marco Mazzeo, Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso (Quodlibet, 2016). Il tema dell’uso è al centro di un dibattito di grande rilievo filosofico ed etico-politico, che nella crisi odierna è parte di un’interrogazione sulle forme di vita e sui nuovi possibili usi della propria esistenza
«Usi quel
sapere per altri fini.
[Del] primo operaismo è un tratto
fondamentale» (Mario Tronti,
2008).
Diversi sono i modi per uccidere l’uso. Mi limito a rammentarne due. Il primo riduce l’uso ad applicazione automatica. A questo modello d’impiccagione ha lavorato con zelo il più autorevole linguista vivente, Noam Chomsky. L’impiego di parole e azioni è semplice performance meccanica, equivalente delle prestazioni organiche di un tubo digerente o di un occhio sensibile a onde luminose. «Uso» significherebbe applicazione di istruzioni genetiche funzionali alla specie, perché gli altri aspetti della questione sono da consegnare al mistero. La nozione fa la figura del cadavere sul tappeto che tutti notano giusto il tempo per schivarne l’ingombro. Si prenda un recente libro-intervista del linguista americano, nonché intellettuale di esplicite simpatie anarchiche. Circa l’uso Wittgenstein avrebbe «evitato il problema»1, poiché si sarebbe concentrato «solo sul modo in cui usiamo il linguaggio [sic!]»2 e non sullo studio dei suoi fondamenti cognitivi e innati. Peccato che poche pagine dopo si affermi che, anche se si trovasse l’operazione ricorsiva fondamentale alla base d’ogni parlare, il problema rimarrebbe: il linguaggio «come viene usato?»3.
Recensione a: Massimo Cacciari, Paolo Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna, 2016, 141 pp., € 14,00 (Scheda libro)
“Utopico”
è un aggettivo oramai con valenza negativa. Qualcosa di
utopico è qualcosa di non realizzabile e quindi non realista
(aggettivo che ha
invece una valenza assiologica positiva). Segno dei tempi?
Eppure, ogni moderno ha sentito su di sé la brezza del
futuro radicalmente altro,
dell’avvenire che si trasforma già sotto i nostri occhi.
Ogni moderno ha percepito, da una parte o dall’altra, dal
reale che gli
stava di fronte o dall’altrove assoluto, un vento forte che
soffiava verso un altro tempo, del tutto differente dal
presente. Chi non ha mai
provato nulla di tutto ciò, non è mai stato moderno.
Riflettere oggi sui temi della profezia e dell’utopia, come
fanno Paolo Prodi
e Massimo Cacciari in Occidente senza utopie, vuol
dire riflettere sulla vicenda della modernità e più in
generale, se si ha il
coraggio di non essere così moderni da pensare
quest’incredibile epoca come inrottura radicale con
il prima,
dell’Occidente tout court. Non vi è Occidente
senza profezia, come non vi è modernità senza utopia. Il
libro
è diviso in due parti: nella prima, Paolo Prodi attraversa
la storia dell’ebraismo e del cristianesimo intrecciandola
con la storia della
modernità dal punto di vista che vi svolgono la profezia e
l’utopia.
E’ naturale che la questione referendaria sia al centro dell’attenzione. Gli esiti influiranno, e non poco, sui modi in cui ci sarà (o meno) «vita a sinistra». Tuttavia una cesura elettorale, per quanto importante, non è né un inizio, né una fine. C’è una storia prima di questa nostra sinistra, ci sarà anche dopo. Quale, in parte, dipende da noi e, in parte, il prima e il dopo si riflettono anche sui modi in cui affrontiamo il referendum.
Non molto tempo fa si è svolta su questo giornale un’interessante discussione sulla «morte della politica» a partire dalle questioni che Alberto Burgio ha argomentato in un articolo (il manifesto, 4 agosto), e poi sviluppato in altri interventi. La discussione ha dimostrato che le capacità analitiche della sinistra non sono morte ma anche le difficoltà di muoversi a partire da un centro argomentativo «radicale». E la sinistra politica «radicale», per lo meno in una sua gran parte, sembra addirittura non riuscire a pensare le «radici» dei problemi economico-sociali che abbiamo di fronte.
Stefano Fassina ha scritto recentemente che Sinistra Italiana è avviata «inerzialmente verso un congresso rituale, senza ragioni fondative adeguate» (il manifesto, 3 settembre). Ebbene, senza ragioni in grado di mettere a fuoco una dimensione analitica diversa rispetto a quella dei partiti establishment, qualsiasi organizzazione politica di sinistra, anche micro, non può che riproporre la consueta ritualità delle manovre di posizionamento dei gruppi dirigenti, la stucchevole misurazione del grado di distanza rispetto al partito cardine dell’establishment: il Pd. Puri e semplici «balletti» come recitava un efficace articolo di Daniela Preziosi.
Vi sono diverse somiglianze fra la crisi economica del 1929 e quella del 2008, ma anche importanti differenze. Una delle più interessanti riguarda gli economisti e la teoria economica. All’indomani della crisi del ‘29 davanti all’incapacità del paradigma economico tradizionale a interpretare le ragioni della crisi e a suggerire le adeguate contromisure, si diffuse in termini relativamente rapidi un profondo cambio di paradigma che non a caso prese il nome di rivoluzione keynesiana. Nulla di paragonabile è avvenuto dopo il 2008. Perché? Una delle ragioni è il conformismo. Per questo il libro di Sergio Cesaratto – Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Edizioni Imprimatur – può essere accolto come una sana boccata di aria fresca.
Come è noto, vi sono diverse somiglianze fra la crisi economica del 1929 e quella più recente del 2008 ma anche importanti differenze. Una delle più interessanti riguarda gli economisti e la teoria economica. All’indomani della crisi del ‘29 davanti all’incapacità del paradigma economico tradizionale a interpretare le ragioni della crisi e a suggerire le adeguate contromisure, si diffuse in termini relativamente rapidi un profondo cambio di paradigma che non a caso prese il nome di rivoluzione keynesiana.
Benchè la crisi del 2008 abbia avuto la stessa natura epocale, nonostante l’identica incapacità dell’approccio neoclassico dominante di prevedere e spiegare la crisi, nulla di paragonabile alla rivoluzione keynesiana è avvenuto.
Sul sito CounterPunch viene esaminato il fenomeno Trump dal punto di vista europeo. Secondo l’autore, fa sorridere vedere la sinistra benpensante orripilata da questo campione estremo del capitalismo – salvo poi difendere a spada tratta i principi del capitalismo stesso, rinominandoli in modo che risultino accettabili. Invece di parteggiare per uno dei due candidati, siano essi sfacciati evasori o guerrafondai con complessi di superiorità, l’Europa dovrebbe cercare di affrancarsi dal modello culturale americano, che è arrivato a produrre una delle campagne elettorali più rivoltanti che la storia possa ricordare
La prima cosa da dire a proposito delle elezioni presidenziali americane, è che sono estremamente antidemocratiche. E non mi sto nemmeno riferendo alle manipolazioni che possono aver permesso alla Clinton di battere Sanders o al fatto che i media mainstream impiegano il loro tempo a deridere un candidato e proteggere l’altro. L’aspetto più fondamentalmente antidemocratico delle elezioni americane è che una piccola porzione dell’umanità può eleggere una persona con una enorme influenza sul resto del mondo, qualcuno che prende decisioni che possono portarci a una guerra generalizzata, o quantomeno aggravare le tensioni con Russia, Iran e Cina, per non menzionare la Siria, tutte cose contrarie agli interessi europei.
Da questo punto di vista, Trump ha un vantaggio sulla Clinton. Intendo dire che Trump dichiara di voler essere Presidente degli Stati Uniti, non del mondo intero, mentre lei insiste nel dire che gli USA debbano esercitare la loro leadership sul mondo.
L’evento più importante degli ultimi 70 anni è il cambiamento dell’ordine internazionale, da un dominio unipolari degli Stati Uniti ad una nuova realtà multipolare. La questione fondamentale risiede nel comprendere come stia avvenendo questa transizione, le sue conseguenze e le cause principali
Il cambiamento dell’ordine internazionale, da multipolare pre-WWI, a Bipolare post-WWII, è costato al mondo una guerra mondiale con milioni di morti. La fase successiva, distinta dalle contrapposizioni tra URSS e USA, terminò con la caduta del muro di Berlino nel 1989 ma senza tragedie belliche. Questa differenza storica fondamentale ha una sua logica intrinseca nel rapporto di forze tra potenze. L’URSS era un paese in declino, incapace di sostenere il prolungamento del suo ruolo sulla scena internazionale come potenza anti-egemonica. Il passaggio da una realtà bipolare ad una unipolare poteva avere conseguenze nucleari ma un accordo tra potenze scongiurò il pericolo. L’epilogo fu una resa incondizionata del URSS con conseguenze catastrofiche in termini economici e culturali per la superpotenza scesa a patti, ma senza l’esplosione di un conflitto su larga scala.
Con la fine del modello bipolare, iniziò però quello che molti storici hanno definito ‘Fine della Storia’: il passaggio da un realtà multipolare (più potenze), ad una bipolare (due potenza) per terminare in una unipolare (una potenza). Dal punto di vista di Washington, la storia era terminata con una sola potenza globale rimasta, concedendo quindi illusoriamente agli Stati Uniti il potere di decidere per tutta la popolazione mondiale.
5 anni fa, il 20 ottobre 2011, veniva barbaramente assassinato il leader della Libia anticolonialista Mu’ammar Gheddafi. Per ricordarlo e a eterna vergogna dei responsabili di questo crimine, da Sarkozy alla signora Clinton, che ora non a caso si appresta a divenire Presidente degli USA, riprendo alcune pagine del mio libro La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma (DL)
L’esultanza della signora Clinton per il crimine
Quante vittime ha provocato una guerra, che peraltro «non ha portato ai libici la “libertà dal tiranno” ma ha creato l’ennesimo Stato fallito, in preda a bande armate» e all’«estremismo islamico» (Panebianco 2013)? Per rispondere a questa domanda diamo la parola a un filosofo di fama internazionale: «Oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale» perpetrata dal regime che la NATO era decisa a rovesciare (Todorov 2012). Occorre aggiungere che la repressione colpiva una rivolta che certo aveva basi anche endogene ma alla quale erano tutt’altro che estranei i servizi segreti occidentali, a cominciare da quelli inviati dal governo di Londra i quali – ha rivelato la stampa britannica più autorevole – già da un pezzo si proponevano di assassinare Gheddafi, ricorrendo a ogni mezzo (infra, cap. 3, § 7).
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Bob Dylan
Nei giorni scorsi (7-8 ottobre) quasi tutti i quotidiani italiani (cartacei e on line) hanno riportato la notizia di uno sciopero attuato dai fattorini torinesi per rivendicare, contro Foodora, un miglioramento delle loro condizioni lavorative. Evidentemente si trattava proprio di una notizia; e in effetti lo è, non solo per l’accaduto in sé stesso, ma soprattutto per le possibili conseguenze future di una protesta che presenta indubbi elementi di grande suggestione simbolica. Non sarà forse stato davvero il primo scontro di classe nell’ambito della sharing economy, e magari la partecipazione attiva non avrà raggiunto percentuali altissime; ma questo non toglie che si tratti dell’esordio inatteso, nella scena della comunicazione, di una schiera del tutto nuova. Questa è la società dello spettacolo, e si è così rappresentata ad uso del pubblico una rivolta; questo allestimento virtuale è un fatto ulteriore che si affianca allo sciopero reale. La cronaca di un fatto ha per fine la costruzione di altri accadimenti.
In fondo Eduard
Bernstein aveva visto
giusto: con l’imperialismo la classe operaia non aveva
bisogno di compiere la rivoluzione; la ricchezza aumentava
per tutti e, con essa, la
democrazia; si poteva arrivare al socialismo anche per via
parlamentare, senza alcuna rivoluzione violenta.
L’acutizzazione dei rapporti
sociali, cioè la radicale polarizzazione delle classi
antagonistiche, prefigurata nel Manifesto del
1848, non era avvenuta: dunque
occorreva un mutamento significativo di strategia politica.
La sinistra doveva diventare riformista. E in Europa
occidentale lo divenne, prima con
Bernstein, poi con Kautsky, infine con tutti gli altri.
Solo i bolscevichi non li seguirono. E loro fecero una rivoluzione radicale, così come l’avrebbero voluta Marx ed Engels, che però, col tempo, si rivelò fallimentare. Non meno drammatico fu il destino dei socialisti riformisti, che finirono col perdere completamente la loro natura socialista.
In che cosa il socialismo ha sbagliato?
Anzitutto non ha capito che il miglioramento delle condizioni di vita, in Europa occidentale, non dipendeva affatto dall’industrializzazione capitalistica, bensì dall’imperialismo, cioè dallo sfruttamento delle colonie. Era in virtù di questo sfruttamento che si poteva corrompere la classe operaia, aumentandole i salari o comunque offrendole migliori condizioni di lavoro, in cambio di un proprio silenzio sul sistema in generale.
Se la classe operaia preferisce le rivendicazioni sindacali alla lotta politica rivoluzionaria, i suoi dirigenti, ad un certo punto, l’asseconderanno. La lotta rivoluzionaria richiede infatti molti rischi e sacrifici, senza i quali non è possibile perseguire ideali elevati.
Da
dove vengono e a cosa mirano le spinte verso le modifiche
istituzionali
Le modifiche alla Costituzione approvate in Parlamento nell’aprile scorso e sottoposte alla conferma referendaria il 4 dicembre, rappresentano solo l’ultima, ma sicuramente non la definitiva, rettifica alla costituzione materiale del paese. Esse infatti sono state precedute non solo da altre modifiche alla carta costituzionale, come il famoso art. 81 fatto approvare dal governo Monti, che introduce l’obbligo del pareggio di bilancio, ma anche da molte altre leggi e trasformazioni che, pur senza andare a toccare il testo della Costituzione, hanno cambiato in maniera peggiorativa il rapporto tra cittadini ed istituzioni. La direzione di marcia è stata univoca: rendere ancora più impermeabili le suddette istituzioni alla volontà degli elettori, centralizzare ulteriormente la gestione del potere politico, attraverso la loro sottomissione ad impersonali leggi di mercato, dietro le mentite spoglie di interessi generali e superiori di tutta la nazione. Sul versante più propriamente politico ed istituzionale abbiamo avuto il progressivo smantellamento del sistema rappresentativo proporzionale, in nome della governabilità, ed un ricorso crescente ai decreti legge e alle deleghe, giustificate con la necessità di dare efficienza e tempestività al sistema politico. Di conseguenza il Parlamento è stato ulteriormente svuotato di ogni possibilità di decisione effettiva e di riflettere la volontà degli elettori.
Sessanta anni fa (il 29 ottobre del 1956) cominciava l’aggressione anglo-franco-israeliana all’Egitto nasseriano, passata alla storia come guerra di Suez o campagna del Sinai.
La guerra del 1956 rappresentò la precipitazione di un lungo braccio di ferro tra l’Egitto e le potenze occidentali. Sin dal colpo di stato militare del 1952 gli Usa avevano tentato di fagocitare il paese arabo nella loro orbita a spese della traballante influenza britannica. Le pressioni per inserire Il Cairo nel sistema di patti militari con cui Washington voleva accerchiare e “contenere” l’URSS non avevano però sortito effetto e il regime degli Ufficiali liberi aveva mostrato con sempre maggior vigore la maturazione di convinzioni che, da un semplice nazionalismo, si coloravano di tinte panarabe e antimperialiste. Inclinazioni che mettevano l’Egitto e l’imperialismo occidentale, nelle sue diverse gradazioni, in rotta di collisione.
Le pressioni per far desistere Nasser dalla strada che aveva intrapreso sortivano sistematicamente l’effetto opposto. Nel 1955, dopo gli scontri di frontiera con Israele nei pressi di Gaza, gli Usa rifiutarono di fornire armi all’Egitto se questi non avesse rivisto la propria politica estera allineandosi all’Occidente. Per tutta risposta Nasser sostenne l’inserimento del suo paese nel blocco afro-asiatico di Bandung e divenne uno dei principali leader del movimento dei non allineati.
La truffa di Equitalia messa in piedi al limitare del referendum sembra un pozzo senza fine, ed è per questo che a costo di annoiare i lettori sono costretto a ritornarci dopo il post di ieri Ho un sogno: Cucù, Renzi non c’è più . Si, perché dentro tutto questo non c’è solo un aspetto propagandistico fasullo che spaccia per strutturali sconti sugli interessi cravattari in vigore solo per tre mesi, a patto che uno paghi subito e rinunci a qualsiasi contestazione, ma vi sono segnali che questa operazione oltre al suo utilizzo in vista delle urne sembra voler chiudere una brutta stagione per aprirne una orribile. Ci sono infatti indizi inequivocabili che il futuro scioglimento di Equitalia per passare alla riscossione diretta da parte dell’Agenzia delle entrate venga gestito con i criteri imposti dal Fondo monetario internazionale e rappresenti uno scasso delle poche tutele che finora avevano i debitori. Insomma esattamente il contrario di vorrebbe far intendere senza però dire nulla di preciso, il pinocchio di Rignano.
E’ singolare che sul sito del ministero dell’economia compaia questo documento traduzione di un rapporto di “assistenza tecnica” dell’Fmi sull’efficacia delle agenzie fiscali in Italia (qui) . E il fatto che si parli di assistenza con quel gergo ipocrita tutto americano al posto di ordini, acquista un significato sinistro. Non la faccio lunga, ma una disanima dell’esistente rivela che il 77% dei crediti vantati da Equitalia sono riferiti a soggetti nullatenenti o morti o falliti, in una parole incapienti, per i quali i provvedimenti coattivi non hanno portato ad alcuna concreta riscossione e il cui inutile “inseguimento” costa molte risorse vive.
…del frantumare la dimensione collettiva frazionando i diritti e quindi, man mano che si vanno sgretolando i diritti dei molti, legittimare i più svariati interessi dei pochi, a danno dei molti, ovviamente…
Il dilagante espandersi della dimensione finanziaria nell’economia va di pari passo con il processo di costante riduzione del costo del lavoro, che sempre più coincide con la sola retribuzione dell’erogazione di forza lavoro comandata da altri. La convergenza di queste due tendenze sta accelerando l’espansione della dimensione di rendita legata alla trasformazione del salario differito in prestazione pensionistica conseguente, in via prioritaria ma non esclusiva, alla cessazione dell’attività lavorativa.
Sotto il profilo normativo i più significativi provvedimenti degli ultimi anni che hanno inciso su questo percorso sono la cessione del quinto della pensione, (introdotta con decreto n. 313 del MEF del dicembre 2006, in attuazione dell’art. 13-bis della legge n. 80/2005) e la sostanziale piena cumulabilità delle pensioni di vecchiaia e di anzianità con i redditi derivanti sia da lavoro autonomo sia da lavoro dipendente (introdotta a gennaio 2009 in seguito alla legge n. 133/2008). Il primo provvedimento è rilevante sia perché attiva un gioco finanziario sulla pensione pubblica, alterandone la precipua funzione di garanzia del reddito successiva alla cessazione della vita lavorativa, sia perché introduce in questo gioco banche, finanziarie e assicurazioni che oggi sono le assolute protagoniste dell’Anticipo Pensionistico (APE) volontario renziano.
Il volume
di Aldo Barba e Massimo Pivetti è
di gran lunga la più importante provocazione intellettuale
alla sinistra degli ultimi anni. Pivetti, il più senior
della coppia e ben
noto economista eterodosso (con fondamentali contributi di
analisi economica), non è certo nuovo a queste provocazioni,
tanto da meritarsi nel
lontano 1976 l’appellativo di “simbionese” (più o meno
sinonimo di “terrorista”) da parte di Giancarlo Pajetta.
La sinistra avrà tre possibilità di fronte a questo libro:
ignorarlo del tutto; criticarlo sulla base degli aspetti più
“coloriti” del volume - quelli in cui gli autori s’indignano
per certe posizioni della sinistra antagonista; discuterlo a
fondo.
E’ facile pronosticare che gran parte della sinistra italiana, troppo intellettualmente pigra o troppo radical-chic per entrare seriamente nel merito, sceglierà le prime due strade (ah, sono solo aridi economisti se non peggio). Ma il volume è ora lì come un macigno a pesare su una sinistra che ha perso, in Italia ma non solo, ogni reale contatto con le classi che rappresentavano un tempo la propria ragione sociale. Una sinistra che non solo ha perduto questo contatto, ma che è ormai da tempo considerata dai ceti popolari come propria nemica. Raccontano gli autori che pare che François Hollande in privato si riferisca ai ceti popolari come agli “sdentati”. Siamo anche convinti che, tuttavia, il volume rappresenterà occasione di dibattito e un randello da usare in ogni occorrenza per quel che resta di una sinistra intellettualmente solida e che delle ragioni di ampi strati della popolazione fa la propria ragion d’essere.
Quando verrà scritta
la storia della
guerra in Afghanistan, il sordido coinvolgimento di
Washington e dei militari della NATO nel traffico di eroina,
e la loro alleanza con i signori
della droga, sarà uno dei capitoli più vergognosi.
Continua sine die la presenza militare e paramilitare, così come continua la produzione industriale di oppio e di eroina. L’Afghanistan, uno dei paesi più poveri al mondo, aveva subito nel 2001 l´aggressione occidentale per impossessarsi del lucroso business dell’oppio e dell’eroina. Due anni dopo toccò all’Irak, aggredito e devastato per impossessarsi del petrolio. La retorica occidentale mainstream ha continuato negli anni a parlare di guerra umanitaria, peace keeping, state building, esportazione della democrazia, enduring freedom-libertà duratura, sostegno risoluto: tutte chiacchiere.
Dal fondo melmoso emerge in tutta evidenza la connivenza delle forze d’occupazione americane e alleate con il business dell’oppio e dell’eroina, in nome di una cinica scelta di realpolitik. Una spregiudicata strategia, orchestrata dalla CIA secondo una pratica operativa attuata fin dalla sua nascita, che ha provocato il boom della produzione di oppio afgano e del traffico internazionale di eroina, con il coinvolgimento degli stessi militari alleati, italiani compresi. *(1)
“Se la riforma costituzionale venisse bocciata il rischio politico aumenterebbe in modo rilevante e alcuni degli sforzi fatti per aumentare la produttività e rafforzare la crescita economica di lungo termine potrebbero subire una battuta d’arresto” (Fitch Ratings, Inc./Ltd., - agenzia internazionale di valutazione del credito e del rating).
Il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci sulla revisione di una parte consistente della Costituzione vigente. Si tratta di un tentativo di riforma che, se avrà successo, ridisegnerà in modo significativo i rapporti fra Stato e mercato nell’economia italiana. In altri termini, è estremamente difficile ritenere che si tratti esclusivamente di un’operazione, per così dire, ‘sovrastrutturale’ che incide esclusivamente sulla sfera della politica e dei rapporti di bilanciamento dei poteri fra camera dei deputati e nuovo senato, fra governo e amministrazioni locali. Detto diversamente, la riforma costituzionale la si può leggere come un provvedimento di politica economica, soprattutto su questi aspetti.
1) La modifica dell’art.81, già fatta due anni fa e mantenuta nel nuovo testo, di fatto stabilisce che le politiche di sostegno della domanda anche solo in funzione anti-ciclica (l’aumento della spesa pubblica in fasi recessive) sono incostituzionali, dal momento che il nuovo articolo – peraltro approvato con pochissima discussione in Parlamento – stabilisce che lo Stato italiano si impegna a mantenere tendenzialmente l’eguaglianza fra spese ed entrate.
Confindustria e Governo sono di nuovo pronte a trattare (alle loro condizioni) coi sindacati (confederali, ovviamente). Il Corriere della Sera lo chiama “il ritorno della concertazione” ed ammonisce che va sì bene purché non si mettano in discussione i motivi che quella concertazione l’avevano messa da parte, cioè il fatto che le imprese decidono ed i sindacati ratificano gli accordi.
Non è un caso che si metta in rilievo come primo passo della rinnovata concertazione la faticosa conclusione del rinnovo del CCNL dei metalmeccanici, dove la concertazione è stata possibile solo al prezzo per cui la FIOM ha accettato di firmare proprio quell’accordo che negli anni precedenti aveva rifiutato sdoganando la stagione degli accordi separati. Insomma, se il modello della “nuova concertazione” è quello dei metalmeccanici stiamo freschi…
Ma perché questa nuova disponibilità a riconoscere il ruolo del sindacato, seppur fortemente depotenziato, da parte di Governo e padroni? Secondo il Corriere il motivo sarebbe l’incertezza sulla ripresa della nostra economia che le ultime stime di Confindustria danno intorno ad un “ragguardevole” +0,5%. A fronte di una ripresa economica incerta e con un consenso fortemente intaccato sia dalle spinte interne (minoranza del PD) che da quelle esterne (il malcelato fastidio con cui l’UE ha accolto le richieste di flessibilità), e con la questione referendaria che potrebbe dare un’ulteriore mazzata al governo, Renzi si è reso conto che forse la stampella dei confederali gli può ancora essere utile.
Se Roma fosse uno zoo, nella mappa colorata che ti darebbero all’ingresso sarebbe indicata un’area a nord della città dedicata alla grande famiglia dei «borghésidi». La scheda informativa direbbe di un insieme di specie umane tra loro differenti, ma strettamente imparentate tramite un ceppo comune chiamato privilegio di classe, la cui origine diversificata ha prodotto risultati, se non identici, abbastanza simili, che vanno ormai sotto il nome generico di «borghesia di Roma Nord».
Questa denominazione zoologica comprenderebbe diverse sotto-specie (in realtà sparse nell’intera città) tra cui, numerosa, la «borghesia progressista», o più propriamente il ceto medio «di sinistra» romanordino. Se la parola «progressista» è troppo vaga e polivalente, la parola «sinistra» (qui scritta sempre tra caporali), pur non avendo un vero significato politico, fornisce ormai, almeno a Roma, un discreto orientamento sociologico. Ceto medio «di sinistra» indica senza troppa precisione il modo di vivere e di non-pensare di un insieme sociale con connessioni trasversali e oblique che attraversano gente di strati diversi, ma tutti toccati, in modo più o meno marcato, oltre che da un sentire politico vicino prima al PCI poi al PDS poi ai DS poi al PD, anche da una forma più o meno accentuata di privilegio per così dire storico.
A metà
degli anni '60, in un celebre comizio, Martin Luther King
annunciò di aver fatto un sogno (I have a dream).
Più di mezzo secolo
dopo a me è capitato di avere invece un incubo: ho sognato
che al referendum costituzionale di dicembre vinceva il Sì
e, in combinato
disposto con la nuova legge elettorale detta “Italicum” che
è già in vigore, andavo a votare (nel 2017 o nel 2018 non
importa) secondo le nuove regole introdotte dagli “ultimi
costituenti”. Ed ecco il mio incubo.
1. Il Senato. Vado al seggio e mi danno una scheda soltanto, quella per la Camera dei Deputati, perché con l'approvazione del referendum è stabilito che «il Governo deve avere la fiducia della sola (ma questa è aggiunta mia) Camera dei Deputati» (art. 94). E' così abolito il dettato precedente che diceva che «il Governo deve avere la fiducia delle due Camere», ma questo è il monocameralismo, bellezza! Si tratta di una trasformazione costituzionale importante che renderà finalmente rapida la nomina del Governo e poi duratura, facendola dipendere soltanto dai Deputati e non anche da quei parrucconi dei Senatori! Ed il primo effetto che mi ritrovo è che il Senato io non lo voto più. Però non è detto che non esista più; semplicemente viene eletto in altra maniera e senza di me.
1. Nel
precedente post abbiamo posto in rilievo la
contraddizione tra il volere la "flessibilità" di
bilancio, o comunque una gestione nazionale più autonoma e
discrezionale del livello
del deficit, magari facendo leva sul "presunto"
incoraggiamento di Obama, e l'atteggiamento
invariabilmente intransigente delle
istituzioni UE a trazione germanica, inserendo,
simultaneamente in Costituzione
"l'obbligo di attuare le politiche europee"
come mission delle Camere e contenuto tipizzato della
funzione legislativa.
Allo stesso modo, oggi, all'interno dei nuovi sviluppi del malcontento ostentato dal nostro presidente del Consiglio, sulla materia dell'immigrazione, verso l'atteggiamento €uropeo ("chiacchiere", porte chiuse e assenza di "civiltà").
In base a una realistica, e giuridicamente corretta, lettura del contenuto dei trattati €uropei e del contesto applicativo che i rapporti di forza, - che non possono più essere ignorati, oggi meno che mai-, quali potranno mai essere queste "politiche dell'Unione"?
La risposta ce la fornisce un documento di interpretazione autentica di provenienza germanica, cioè dallo Stato che ha (stra)vinto la "competizione" (commericiale, liberoscambista) che, come avevamo segnalato, e prima di me il prof.Guarino, si sarebbe instaurata tra gli ordinamenti dei paesi aderenti all'Unione disegnata da Maastricht, e che dunque, come in ogni organizzazione liberoscambista, avrebbe comportato un vincitore imperialista e dei "perdenti" in posizione del tutto analoga a quella dei paesi coloniali.
Il numero di Repubblica in edicola oggi, 24 Ottobre, contiene – come ogni lunedì – l’inserto “Affari e Finanza”: un’occasione speciale per questa testata che proprio nell’occasione compie trent’anni.
E’ stato così dato alle stampe un numero celebrativo nel quale sono contenuti articoli che si occupano delle vicende economiche svoltesi in questo lungo periodo, riferendosi in particolare ai processi di trasformazione che via via si sono verificati nel frattempo.
A questo proposito campeggiano tre interviste con protagonisti dell’epoca: Eugenio Scalfari, fondatore oltre che del quotidiano nel suo insieme anche dell’inserto in questione assieme a Giuseppe Turani (con il quale Scalfari scrisse negli anni ’70 un fortunatissimo saggio sul capitalismo italiano: “La razza padrona”) e a due ex – presidenti del consiglio : Giuliano Amato e Romano Prodi.
La lettura dei tre testi non può che provocare, a giudizio personale, altro che sconcerto considerato l’esito che le politiche messe in atto nel trentennio dai diversi governi, hanno fornito sul piano della qualità della democrazia e della condizione materiale di vita delle cittadine e dei cittadini italiani.
Condizioni di vita complessivamente intese, sia ben chiaro, non soltanto sul piano economico, ma dei diritti, della possibilità di usufruire dello stato sociale, delle infrastrutture, delle condizioni ambientali.
Brevi note su una Legge di Bilancio elettoralistica e confindustriale
«Eppure ieri perfino il serioso Padoan l'ha sparata grossa: o ci danno quel decimale o l'UE rischia la fine. La fine? Interessante Ma non era l'UE il nostro indiscutibile destino? Ecco, la sparata è finalizzata al 4 dicembre, ma che per far ciccia si sia infranto un simile tabù ci conferma comunque due cose che pensiamo da tempo: che il referendum è davvero decisivo, che il tabù non è più tale neppure negli austeri templi della religione eurista. Prendiamone nota».
Elettoralistica. Se guardata con un minimo di onestà intellettuale, è questa la prima e decisiva definizione che viene a chiunque provi ad esaminare la finanziaria 2017, alias Legge di Bilancio. In palio c'è la vittoria al referendum del 4 dicembre, ed ogni mezzuccio è ritenuto lecito per raggranellare voti qua e là alla causa del ducetto "democratico" (nel senso di piddino).
Si lascino dunque da parte, in questo caso, i ragionamenti di più largo respiro. Come abbiamogià scritto, analizzando i numeri della Nota di aggiornamento del DEF (il documento che prepara la legge vera e propria), sull'economia del Paese «l'impatto sarà molto, ma molto vicino a zero. Non c'è infatti alcun vero intervento in grado di rilanciare in maniera significativa la domanda interna.
Il Jobs Act è stato un flop? Al contrario. I veri obiettivi sono stati raggiunti. Il successo del Jobs Act, dice il Ministero dello Sviluppo Economico
Articolo 4 comma 1
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Articolo 36 comma 1
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Articolo 41 commi 1 e 2
L’iniziativa economica privata
è
libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La risposta a questi principi costituzionali è stata data con il Jobs Act.
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Fabio Petri, Recensione (intervento alla presentazione) del libro “Rottamare Maastricht”, di A. Barba, M. D’Angelillo, S. Lehndorff, L. Paggi, A. Somma (Deriveapprodi), Roma, 27 ottobre 2016
Lo scopo del libro, dall’Introduzione
di
Paggi, è aiutare ‘la costruzione di un movimento
anti-Maastricht diverso da quello populista’, sottrarre al
populismo ‘il
monopolio della critica della situazione esistente’;
combattere Maastricht come cultura, concezione del mondo,
proposta di civiltà; a tal
fine aiutare a ‘trasformare la protesta sociale in conflitto
distributivo e in alternativa politica’, aiutare ‘la
costruzione di un
movimento ancora inesistente’, per la qual cosa ‘occorre
mettere sul tappeto il problema di una filosofia di governo
alternativa e di un
programma che indichi, in primo luogo sotto il profilo
concettuale, alcuni punti di scorrimento verso un’Europa
politica della
crescita’.
Il libro non si spinge a proporre esplicitamente questa filosofia di governo alternativa o programma (l’Introduzione si limita a indicare il bisogno di più democrazia più salario più produttività, ma senza entrare nel come raggiungere questi obiettivi); piuttosto fornisce analisi preliminari per dimostrare la necessità di aprire il dibattito; tre messaggi in particolare emergono dai cinque contributi.
Primo messaggio, che emerge dai contributi di Paggi e Somma: la storia di come si arriva a Maastricht è storia di abbandono, e tradimento, dell’idea originaria di una unione politica europea collaborativa, unificante; Maastricht ha di fatto creato con la moneta unica un ostacolo a tale obiettivo, perché aumenta le differenze e i conflitti tra i paesi membri dell’euro, ponendoli in concorrenza l’uno con l’altro.
Da
CounterPunch
traduciamo un azzeccato articolo che descrive, con
sfumature satiriche, l’imponente opera di delegittimazione
del dissenso (ogni genere di
sostanziale dissenso rispetto alla direzione unica indicata
dalle classi dirigenti) svolta quotidianamente dai media.
Non cambia molto che si tratti
di Trump, Sanders, Putin, Le Pen, Brexit, sinistra, destra,
anarchici, wikileaks: i media dell’establishment buttano
tutti nello stesso mucchio
di disdicevoli populisti che non vale la pena ascoltare,
tanto meno confutare. Perfino lo stesso riconoscimento
dell’esistenza
dell'”establishment”, delle “classi dirigenti” e dei loro
interessi in contrapposizione a quelli della gente comune,
tende ad
essere sancito, in questa distopia orwelliana (per ora
morbida), come segno di devianza, di complottismo
patologico.
* * * *
Secondo gli organi di informazione mainstream, nel suo recente discorso a West Palm Beach Donald Trump avrebbe dato definitivamente di matto. Gesticolando furiosamente con le sue piccole mani, alla maniera inconfondibilmente hitleriana, avrebbe sputato fuori una serie di parole in codice innegabilmente inneggianti all’odio antisemita … vale a dire parole tipo “establishment politico”, “élite globali”, ma anche, sì, “banche internazionali”. Si sarebbe addirittura spinto al punto di affermare che le “corporation” [le grandi aziende] e i loro “lobbisti” avrebbero messo in gioco milioni di dollari per queste elezioni, e che stiano cercando di fare applicare il TPP [il “trattato transpacifico per il commercio”] non per il bene dei cittadini americani, ma solamente per arricchire se stessi.
«L’Unesco nega l’identità del
popolo ebraico». «La risoluzione nega il legame
religioso di Israele
con il Muro del Pianto e il Monte del Tempio». «La
decisione di cancellare le radici giudaico-cristiane dei
luoghi santi di
Gerusalemme è “l’inizio della fine”». «L’Unesco
riscrive la storia: il Monte del Tempio e il Muro
del pianto non sono luoghi legati all’ebraismo». Sono
queste le affermazioni catastrofiche con le quali, nelle
ultime due settimane,
è stata descritta dai media una risoluzione approvata
dall’Unesco – l’agenzia dell’Onu che si occupa di patrimonio
culturale ed educazione – intitolata Palestina occupata
e contenente una condanna dell’occupazione israeliana. La
risoluzione,
proposta da sette paesi islamici (Egitto, Algeria, Marocco,
Libano, Oman, Qatar e Sudan), è stata approvata con 24 voti a
favore, 6 contro
(Usa, Germania, Gran Bretagna, Lituania, Estonia, Olanda) e 26
astensioni, tra cui quella dell’Italia, della Francia e della
Spagna.
L’approvazione di questa risoluzione è stata interpretata dal governo israeliano – e, di riflesso, dai media, sempre supini ai poteri dominanti – come un disconoscimento del legame ebraico con Gerusalemme est. Israele ha quindi sospeso la collaborazione con l’Unesco.
In molti, ovviamente, si sono stracciati le vesti anche in Italia.
Recensione del saggio in cui Formenti prova a sostenere la tesi che per far ripartire il conflitto di classe serva un populismo di sinistra
Populismo, un termine che non ci piace. Nell’accezione comune rimanda a quell’atteggiamento politico prettamente demagogico. Caratteristica delle politiche di destra, in particolare, per acquisire consensi di massa. Non ci piace. Eppure bisogna farci i conti, perché fa parte della cultura, o meglio della mentalità comune a molti popoli. Mentalità dominante oggi in Italia. É da lì, dal populismo, che bisogna ripartire, perché potrebbe essere una possibilità per riesumare la lotta di classe nel ventunesimo secolo contro il nemico numero uno: il capitalismo che “va a braccetto” con il neoliberismo. Lo afferma Carlo Formenti, l’autore del saggio “coraggioso La variante populista, lotta di classe nelneoliberismo. Venti anni almeno di populismo in Italia. É stato l’unico modo in cui le classi subalterne sono state indotte ad esprimersi, creando un bacino enorme di consensi a favore delle politiche di destra.
Tutte le forze di sinistra hanno lasciato fare “regalando ai populismi di destra la rappresentanza degli interessi delle classi inferiori”. Bisogna invertire la rotta e ripartire da lì, accettando la sfida di un populismo di sinistra, non per assecondarlo, ma per adeguarlo alle lotte di classe.“Se a egemonizzare la lotta sarà il populismo di destra, trionferà il razzismo e la xenofobia - scrive Formenti
Una rara intervista con il genio maledetto della filosofia politica
Cornelius Noon è considerato il nuovo genio maledetto della filosofia politica. Nato nel 1943 in Irlanda, è professore alla Trans Allegheny University di Weston in West Virginia. Da anni le sue lezioni sono seguitissime, e si dice sia stato consultato da molti capi di Stato e finanzieri. Finora non aveva mai lasciato una sola riga scritta sul suo pensiero, ma qualche mese fa ha cambiato idea e il suo libro Pluricracy stampato in poche copie dalla Hydra Press ha suscitato polemiche feroci e verrà pubblicato dalle maggiori case editrici mondiali. In esclusiva siamo riusciti ad avere questa intervista, impresa non facile, perché Noon è famoso per il suo carattere intrattabile e la sua bizzarria.
* * * *
Il primo capitolo del suo controverso libro si chiama: “Il cadavere delle democrazie”. Un po’ forte, non crede?
«Niente affatto. Le democrazie non esistono più, anche se il pensiero politico si rifiuta di ammetterlo. Per anni, nell’ambitus della differenza tra democrazia e dittatura, è nata e ha prosperato l’illusione di una forma politica “migliore” o “meno peggio” delle altre. L’illusione è caduta, ma la parola democrazia viene ancora abbondantemente usata anche se questa forma di governo, nel senso di “governo del popolo” o di “volontà dei più” non ha più nessun riscontro nella realtà. La pluricrazia è la forma di governo, anzi la forma di occupazione del pianeta che l’ha sostituita. Gli alieni sono scesi sulla terra e siamo noi».
Secondo i dati rilevati dell’Inps, nel 2016 il mercato del lavoro ha offerto meno contratti stabili rispetto a quanto avveniva nel 2014, quando non c’erano incentivi e non c’era il Jobs Act. Non appena è venuto meno il bonus assegnato alle imprese che assumevano, il numero di assunzioni è tornato ai livelli di due anni fa. Molte di queste assunzioni altro non erano che trasformazioni di contratti di lavoro a termine in contratti a tempo indeterminato, un modo per avere diritto agli incentivi governativi. Anche la trasformazione dei contratti è calata del 35,4% nel corso dell’anno. Il Jobs Act inoltre, con l’abolizione dell’articolo 18, ha fatto impennare il numero dei licenziamenti, che sono aumentati del 28, 3% in un anno. E’ cresciuto invece, nei primi otto mesi di quest’anno, il ricorso ai voucher: più 36% rispetto al 2015. Si tratta di buoni destinati al pagamento delle prestazioni accessorie di lavoro del valore nominale di 10 euro. Dovevano servire, secondo la propaganda, a porre fine al lavoro in nero, invece lo hanno in parte legalizzato. Tuttavia non è sufficiente constatare il fatto indubitabile che la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo non ha prodotto risultati positivi. Va anche detto che tale riforma un obiettivo lo ha raggiunto: ha precarizzato ancor di più la condizione dei lavoratori in quanto ha disarticolato il loro potere contrattuale e ha reso più facili i licenziamenti. Per il padronato è stato un successo, per i lavoratori una perdita secca.
L’Italia continua ad essere il paese europeo col tasso più alto di disoccupazione giovanile: il 40% circa, contro una media europea del 22%.
Se vince il no la politica italiana può essere attraversata da diversi scenari. Vediamone alcuni.
Il primo, il più probabile, è che Renzi salga al Colle e rimetta il mandato nelle mani del presidente della Repubblica e questi, che è “creatura” di Renzi, lo rimandi alle Camere per una nuova fiducia. E qui si pone il problema: chi è disposto a dare la fiducia? Se si esclude a priori il M5S, non resta che Forza Italia di Berlusconi-Parisi, ma l’operazione potrebbe essere rischiosa per Forza Italia perché il gruppo che fa riferimento a Brunetta e Toti potrebbe non essere disponibile e potrebbe aprire una crisi in vista di un apparentamento con la Lega e con Fratelli d’Italia. Anche nel Pd, comunque, la fiducia della cosiddetta sinistra non è scontata. Non credo che si vada a una scissione, ma potrebbero prendere corpo un’astensione o addirittura un voto contrario. Ma poi, di fronte a una vittoria del no, Renzi, dopo tutto quello che ha sostenuto, con quale programma potrebbe chiedere la fiducia? È vero che l’uomo è capace di giocare più parti in commedia e con molta disinvoltura promettere mari e monti, ma a tutto c’è un limite. Già in una esternazione che aveva il sapore della verità Renzi ebbe a sostenere le sue dimissioni se il referendum non fosse andato secondo le sue aspettative – e di questo è stato poi ampiamente rimproverato dai suoi – ma a me sembra che una volta tanto abbia detto una cosa giusta e che, di fronte a un risultato negativo, non gli resti che declinare l’invito di Mattarella.
Una volta era richiesto di credere alla favola secondo la quale era naturale stare (da subordinati) in una impresa come se si fosse una una “grande famiglia”. Oggi, all’opposto, vivere in famiglia assomiglia sempre di più a lavorare in una impresa. La competizione, incentivare e “farsi incentivare”, la lotta fra vincenti e perdenti, l’invidia e la frustrazione trasformate in motore dell’economia, l’ossessione per i “beni posizionali”, ecc. ecc.: tutta l’esistenza deve essere pensata sempre più come una impresa. La vita in se stessa è colpita da un furioso riduzionismo: vigono solo i valori funzionali al mercato, i metodi e le parole propri del mondo economico e imprenditoriale: niente di più, niente di altro.
Luigino Bruni, che di mestiere si occupa di economia, ci presenta in questo piccolo libro un catalogo di valori inattuali, extra- e, per tanti versi, anti-economici. Ragionando cinicamente, si potrebbe vedere nella loro inattualità il definitivo disvelamento dell’assurdità di tutto ciò che di solito è definito come valoriale/morale/spirituale: il buono, il bello, il giusto sono ridotti al mondo dei libri, al mondo del passato, alla retorica delle parrocchie e delle accademie.
D’altra parte, forse soltanto per nostalgia o per suggestione, non è facile rassegnarsi al mondo: e anche se, per tanti versi, l’apocalisse è già alle nostre spalle, e rappresenta il nostro orizzonte, proprio quelle parole così antiche, che Bruni riporta alla cultura biblica, hanno ancora qualcosa da dirci. L’autore ci propone una specie di «guida alla speranza» (p. 89). Come a dire: non tutto è perduto!
"La sfida che abbiamo di fronte col referendum è quella di ripensare il potere costituente in termini . Le lotte necessitano di consolidare istituzioni e contropoteri." Un articolo in anteprima da "Alternative per il Socialismo", numero 42: "Sabbia nell'ingranaggio"
L'opposizione alla riforma costituzionale
Renzi-Boschi è, fino in fondo, opposizione alla catastrofe
neoliberale che sta dilaniando
l'Europa. Non occorre essere raffinati
costituzionalisti, infatti, per cogliere tra le righe della
riforma l'obiettivo, inequivocabile, di
cancellare la democrazia parlamentare. In combinazione con l'Italicum,
il «monocameralismo imperfetto» accentra i poteri nelle
mani dell'esecutivo e favorisce la (piena) sostituzione dell'amministrazione
per conto del mercato alla politica in
rappresentanza
del popolo.
Che il meccanismo della rappresentanza, decisivo per la democrazia liberale (moderna), sia da tempo andato in pezzi è cosa nota. Di più: l'abbiamo voluto! L'hanno voluto in questi ultimi decenni i movimenti sociali che, nel segno e nel senso dei contro-poteri, dell'autogoverno e della proliferazione istituzionale, hanno radicalmente criticato il principio (sovrano) di rappresentanza. Il recente fenomeno grillino, poi, se letto a partire dal rilievo della democrazia digitale, è indubbia esemplificazione – carica di difetti, intendiamoci – del rifiuto diffuso per la delega, sia essa (ancora) tradizionalmente partitocratica o, piuttosto, tecnocratica. Ma sappiamo bene che si tratta di processi assai distinti: quello di Renzi è un “golpe del mercato”, secondo il dogma della stabilità/governabilità, contro quel che resta dei contrappesi parlamentari. Flebili quanto si vuole, largamente neutralizzati, nell'ultimo ventennio, dalla legislazione fatta di decreti e voti di fiducia, ma pur sempre presenti.
Sappiamo anche, però, che una semplice difesa di ciò che è stato non basta. Insufficiente per battere Renzi, inadeguata per fare i conti con la trasformazione della costituzione materiale del Paese.
Vi è
qualcosa di apparentemente poco spiegabile nello sviluppo
della scienza e tecnologia occidentale. Al tempo della Grecia
classica, tra i filosofi della
natura, pochissimi tenevano separata la scienza dall’etica; e
anche quando lo facevano (p.es. con Anassagora e Democrito),
era solo per poter
affermare meglio l’indipendenza della natura da qualunque
cosa, cioè i princìpi dell’ateismo. Nella vita privata,
infatti,
questi filosofi-scienziati tenevano un comportamento etico
ineccepibile, mostrando che una professione di ateismo non
comportava affatto la rinuncia
ai valori morali.
La cosa strana è che tenevano unite scienza ed etica all’interno di un contesto sociale, così fortemente caratterizzato dallo schiavismo, che avrebbe invece dovuto indurli a fare il contrario. Nell’ambito dello schiavismo, infatti, il concetto di “persona” è quasi inesistente. Non si riconoscono i cosiddetti “valori umani fondamentali”, quelli inalienabili, che si possiedono in quanto appunto si fa parte del genere umano. Lo schiavismo è la negazione esplicita della libertà della persona, e quindi della possibilità di avere una propria identità, di essere ritenuto responsabile delle proprie azioni. Essere “giuridicamente libero” era in assoluto la cosa più importante di tutte.
Il
giornalista
americano, Edward Bernays, viene spesso descritto come l’uomo
che ha inventato la propaganda moderna.
Nipote di Sigmund Freud, il pioniere della psicanalisi, è stato Bernays che ha coniato il termine “pubbliche relazioni” come eufemismo per “colpo ad effetto” e i suoi inganni.
Nel 1929 persuase le femministe a promuovere l’uso delle sigarette da parte delle donne, fumando nella sfilata per la Pasqua a New York – un comportamento allora considerato eccentrico. Una femminista, Ruth Booth, dichiarò: “Donne, accendete un’altra torcia di libertà! Combattere un altro tabù sessuale!
L’influenza di Bernais si estese molto oltre la pubblicità. Il suo più grande successo fu il ruolo che ebbe nel convincere il pubblico americano a unirsi al massacro della Prima Guerra Mondiale. Il segreto, disse, era “fabbricare il consenso” delle persone allo scopo di “controllarle e irregimentarle secondo la nostra volontà, senza che esse lo sappiano.”
Ha definito questo “il vero potere dominante nella nostra società” e lo chiamava “governo invisibile”.
Mentre l’Italia è devastata da nuove scosse di terremoto, Moscovici, Commissario europeo per gli affari economici, e il ministro Padoan discutono se e in che misura le spese per il terremoto di agosto in Italia centrale possano essere defalcate dal computo del deficit di bilancio. Il punto imprescindibile, per Bruxelles, è, come sempre, rientrare nei limiti di bilancio. Francamente, ciò è ormai intollerabile. È ora di dire basta con il tira e molla tra governo Renzi e Commissione europea per una manciata di milioni per le spese per il terremoto, mentre si prevedono nella legge di bilancio super e iperammortamenti fiscali che andranno a beneficio soltanto delle grandi imprese.
Più che di permessi della Commissione europea a includere nella legge di bilancio cifre non esorbitanti, c'è bisogno di un grande piano di ricostruzione nazionale, che metta in campo risorse adeguate (miliardi e non poche centinaia di milioni) per la messa in sicurezza del territorio italiano da terremoti e alluvioni e per la manutenzione della infrastruttura stradale e ferroviaria. Proprio pochi giorni fa a Lecco è crollato un cavalcavia stradale e, mentre le autostrade, costruite con i soldi pubblici e ora a gestione privata, aumentano le tariffe, le autostrade ancora pubbliche subiscono crolli, come quello che ha interessato l’anno scorso un tratto dell’autostrada Palermo-Catania.
Nel quadro della strategia Usa/Nato - documenta la Casa Bianca - l’Italia si distingue quale «saldo e attivo alleato degli Stati uniti». Lo dimostra il fatto che «l’Italia ospita oltre 30 mila militari e funzionari civili del Dipartimento Usa della difesa in installazioni dislocate in tutto il paese»
Dopo aver chiamato gli italiani a votare Sì al referendum, ingerendosi nella nostra politica nazionale col complice silenzio dell’opposizione parlamentare, il presidente Obama ha confermato al «buon amico Matteo» che con l’Italia gli Usa hanno «patti chiari, amicizia lunga». Non c’è dubbio che i patti siano chiari, anzitutto il Patto atlantico che sottomette l’Italia agli Usa. Il comandante supremo alleato in Europa viene sempre nominato dal presidente degli Stati uniti d’America e sono in mano agli Usa tutti gli altri comandi chiave. Dopo la fine della guerra fredda, in seguito alla disgregazione dell’Urss, Washington affermava la «fondamentale importanza di preservare la Nato quale canale della influenza e partecipazione statunitensi negli affari europei, impedendo la creazione di dispositivi unicamente europei che minerebbero la struttura di comando dell’Alleanza», ossia il comando Usa. Concetto ribadito dal segretario della Nato Stoltenberg nella recente tavola rotonda sulla «grande idea di Europa»: «Dobbiamo assicurare che il rafforzamento della difesa europea non costituisca un duplicato della Nato, non divenga una alternativa alla Nato».
A garanzia di ciò c’è il fatto che 22 dei 28 paesi della Ue (21 su 27 dopo l’uscita della Gran Bretagna) fanno parte della Nato sotto comando Usa, riconosciuta dall’Unione europea quale «fondamento della difesa collettiva».
Daniel Blake, il protagonista dell’omonimo film di Ken Loach, è un carpentiere sessantenne, vedovo e senza figli a cui i medici hanno proibito di lavorare a seguito di un serio infarto che l’ha colpito sul lavoro. Per questo si rivolge allo stato sociale per ricevere l’indennità di malattia, un diritto dei lavoratori conquistato, come Loach stesso ha documentato, negli anni seguenti la seconda guerra mondiale sull’onda non solo di un boom economico ma soprattutto della forza e della sicurezza accumulata dalle classi lavoratrici inglesi durante la guerra. Invece di ricevere la sua indennità di malattia che gli avrebbe permesso di recuperare forze e salute, Blake si trova costretto, come molti britannici e non solo, ad attraversare un inferno burocratico dove macchine e umani, computer e ‘professionisti’ si concatenano per impedirgli l’accesso a quello che è un suo diritto.
La prima scena, mentre ancora scorrono i titoli iniziali e non si vedono i volti, ci fa ascoltare un surreale dialogo dove Blake è costretto a rispondere a un barrage di fuoco di domande da parte di una ‘professionista della sanità’ al soldo di una multinazionale americana a cui il governo inglese ha appaltato questo tipo di servizi – domande che nulla hanno a che fare con la sua certificata condizione medica. Il film non ci mostra la figura di questa professionista che nonostante il certificato medico lo dichiara abile al lavoro (che secondo i medici lo ucciderebbe), ma ci fa sentire tutto il peso della violenza dei protocolli che ormai mediano l’esercizio del potere sui corpi della popolazione.
Le socialdemocratiche e le riformiste sono tutte tese a far passare il concetto che le leggi possano essere strumento di limitazione del potere qualora si riesca ad apportarvi alcuni “miglioramenti”. Ne deriva una richiesta allo Stato di collaborazione tutta indirizzata a fare presenti “buone ragioni” e “ottimi motivi” per cui il potere dovrebbe accogliere istanze di cambiamento.
Dimenticano volutamente che il potere capitalista e patriarcale è assoluto e che la sua limitazione può venire soltanto da un rapporto di forza tale da poter imporre delle regole o di trasformarle.
Il collaborazionismo, invece, rafforza il potere e paradossalmente aggrava le stesse oppressioni che socialdemocratiche e riformiste dicono di voler combattere.
Le Istituzioni sanno benissimo che il legalismo le rafforza e, in un gioco delle parti, tanto subdolo quanto, allo stesso tempo, manifesto e reiterato, danno spazio a chi chiede di rapportarsi con lo Stato fornendogli, attraverso la stampa, i media, l’associazionismo e una pletora di strutture culturali, la patente di antagonista, alternativa, femminista.
L’autonomia femminista ha denunciato sempre l’arbitrarietà delle regole esistenti e la brutalità del rapporto di forza tra generi, classi, etnie.
La Commissione europea è dotata dei poteri di sanzione nei confronti degli Stati “ribelli” o inadempienti. Ma come anche i casi più recenti dimostrano, le sanzioni sono subordinate di fatto a precise scelte politiche
In questi tempi di liti in seno all’Unione europea sulle manovre di bilancio dei Paesi “indisciplinati” – in prima fila il nostro – può risultare interessante andare a vedere cosa prevedono le regole europee e ricordare quali meccanismi e quali sanzioni sono previsti per colpire gli Stati “ribelli” o inadempienti. Come vedremmo sono sanzioni anche pesanti, ma del tutto subordinate di fatto a scelte politiche come illustrano i casi anche più recenti.
Non si procede nei riguardi del surplus della bilancia commerciale tedesca che dal 2007 supera il massimale del 6% previsto dalla Mip (Macroeconomic imbalance procedure), né nei confronti della Francia che ha un deficit superiore al 3% oramai da 8 anni, dal fatidico 2008 ovvero dall’inizio della grande crisi. Sforando tale massimale non di poco se si considera che il deficit francese ha raggiunto il 7,5% nel 2009, l’8% nel 2010 e il 6% nel 2011.
In altre parole, questi meccanismi sanzionatori si potranno applicare di fatto ai Paesi minori, ma non sono stati realmente previsti per i grandi Paesi fondatori della Unione europea.
La sinistra è stata colta di
sorpresa dal neoliberalismo; anziché riconoscerlo come un
programma criticabile, lo ha scambiato per una svolta storica
già accaduta, a
cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno prestato i
propri servizi in modo da averne la piccola ricompensa. Il
grande merito delle lezioni del
1978-79 di Michel Foucault al Collège de France[1] è di
avere colto la natura di programma del neoliberalismo,
rintracciandone la doppia radice nell’ordo-liberalismo tedesco
della scuola di Friburgo
degli anni ’20 e nel successivo anarco-liberalismo americano
della scuola di Chicago, e narrandone con grande accuratezza
la storia. Chi
leggesse il libro potrebbe riconoscere nelle vecchie idee
ordo-liberali non solo i principi ispiratori dell’Unione
Europea, ma la sua stessa
retorica; l’espressione «economia sociale di mercato», infine
scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là,
in polemica con l’economia keynesiana; l’adorazione
ordo-liberale della concorrenza si è insinuata nel trattato di
Lisbona come
definizione della natura fortemente competitiva
dell’Unione Europea[2]; la stessa idea di reddito di
cittadinanza che trasforma la disoccupazione in occupabilità
dei lavoratori ha
la sua genesi nella scuola di Friburgo.
Dall’anarco-capitalismo americano è invece influenzato, più
che il moralismo europeista
della competitività, il capitalismo post-keynesiano in
generale, che pretende di fare dell’individuo, qualunque sia
la sua condizione, un
imprenditore, e della sua attività, qualunque essa sia,
un’impresa[3].
Il vento
tempestoso del populismo soffia a tutte le longitudini e non
risparmia neppure l’Asia, dove il candidato
anti-establishment, Rodrigo Duterte, ha
conquistato lo scorso maggio la presidenza delle Filippine:
con la forza di un ciclone Duterte ha sradicato interessi ed
assetti da tempo consolidati.
La lotta senza quartiere al narcotraffico è coincisa in
politica estera con la clamorosa “separazione” dagli USA e
col parallelo
avvicinamento alla Cina. Per Barack Obama, fautore del
“pivot to Asia”, è l’ennesimo smacco in politica estera. La
repentina
comparsa dell’ISIS e gli attentati con cui si è cercato di
eliminare Duterte non sono casuali: la riconquistata
sovranità delle
Filippine ed il giro di vite sul traffico di stupefacenti
sono duri colpi per l’establishment atlantico.
* * * *
Non poteva concludersi nel mondo peggiore la permanenza di Barack Hussein Obama alla Casa Bianca: il fallimento negli ultimi mesi di mandato dell’unica strategia estera dichiarata, “il pivot to Asia”, ossia il disimpegno dal Medio Oriente e dall’Europa, per una maggiore focalizzazione sul Pacifico e sui Paesi asiatici in tumultuosa crescita.
Dal nuovo ruolo delle Regioni al combinato disposto tra la legge elettorale e nuove norme costituzionali. Un’analisi punto per punto dei contenuti della Riforma voluta da Renzi
Dicono gli oppositori della nuova
Costituzione
che essa è scritta male; e anche molti dei suoi sostenitori lo
ammettono, ma quasi sempre senza spiegare il come e il perché
dell’inadeguata stesura dopo il lungo periodo di gestazione.
Non è un fatto estetico, semplicemente essa non è scritta come
una
costituzione. Contiene troppi rimandi interni, che la rendono
poco leggibile, come lo sono le leggi italiane; contiene
troppi dettagli da legge
ordinaria anziché principi e criteri generali tipici delle
carte costituzionali. Soprattutto è reticente, incompleta e
inconcludente
proprio secondo quella “visione d’insieme” con cui essa veniva
presentata al Parlamento l’8 aprile del 2014. Questo fatto non
può essere casuale; al contrario ci induce a guardare più
esattamente come le singole norme rispondano a un disegno non
dichiarato, ma
reale che si tratta di approvare o respingere il 4 dicembre.
Al di là della pubblicità ingannevole di chi vuol far credere
che ad una
serie di problemi, più o meno utilmente individuati, esistesse
un’unica soluzione, e soprattutto solo la soluzione di
un’ampia
revisione costituzionale, bisogna guardare al nocciolo duro
della rivendicazione dei suoi apologeti: questo testo porta
finalmente a compimento quella
riforma che i partiti italiani non erano riusciti a fare, per
più di trent’anni, almeno dal 1982.1
Ora l’obbiettivo che con trasversale pertinacia tutte
le maggiori forze politiche, una quindicina di governi, e
quasi tutti i presidenti
(dovrebbe mancare all’appello Scalfaro) hanno perseguito è il
presidenzialismo strisciante con cui hanno tentato di
rispondere alla
crescente insoddisfazione, anch’essa trasversale, dei
cittadini nei confronti di ciò che i loro rappresentanti
compivano nelle proprie
funzioni.
Tra le molte derive linguistiche della sinistra rosa, ce n’è una davvero significativa: quella di procedere per “scomunica rossobruna” verso qualsiasi posizione politica dell’universo mondo che non coincida pedissequamente con le proprie teorie post-moderne sull’uomo e il suo destino. Tutto rientrerebbe nel distopico universo online in cui, in genere, prendono vita, divampano e rapidamente muoiono le dispute politiche del XXI secolo. Eppure in questo caso la questione ci sembra leggermente più problematica. Da qualche tempo una fitta(?) schiera di scienziati sociali, twittologi, facebookers, pinterestomani, instagrammofoni, alle prese con lo smascheramento del complotto neofascista mondiale, indaga sulla natura rossobruna di “certa sinistra”.
Siccome la tesi, che condividiamo, è che il “rossobrunismo” non sia altro che neofascismo mascherato, delle due l’una: o i rossubruni sono in tutto e per tutto neofascisti, quindi da combattere con ogni mezzo necessario (come ammette vigorosamente la schiera di neofascistologi), oppure il rossobrunismo è solamente un’accusa morale rivolta al “compagno che sbaglia” o che non è in linea con le posizioni della suddetta sinistra. Propendiamo nettamente per la prima ipotesi, ma a leggere certi dibattiti il dubbio è più che legittimo. Visto che rossobruno e neofascista sono sinonimi, dev’essere in corso un cortocircuito mentale di vaste proporzioni nell’universo internettiano “di sinistra” (“universo” che ha però le dimensioni di un satellite di un pianeta nano, in questo caso).
Secondo la propaganda ufficiale gli attuali contrasti tra la Russia e il cosiddetto Occidente sarebbero dovuti ad evidenti incomprensioni russe sulle reali intenzioni della NATO. I Russi infatti non avrebbero compreso che i missili dislocati dagli USA in Polonia ed in Romania avevano il solo scopo di proteggere l’Europa, Russia compresa, dalla minaccia nucleare iraniana. Allo stesso modo i Russi non avrebbero compreso che cedere le proprie basi navali in Crimea ed in Siria alla NATO sarebbe andato tutto a loro vantaggio. Da parte occidentale forse ci sarebbe dovuta essere più comprensione nei confronti delle paranoie russe. In fondo sono Russi, non possono mica essere perspicaci come noi “Occidentali”.
Al di là degli scenari che si prospettano, di una nuova guerra fredda o di un conflitto aperto, sta di fatto che le sanzioni economiche europee e americane nei confronti della Russia hanno già fatto una vittima certa, cioè l’Italia, l’unico Paese che, con la parziale eccezione dei tentativi del governo Letta, si è dimostrato pienamente succubo alla disciplina sanzionista. I danni per l’import-export italiano sono stati devastanti, ma il governo Renzi, al di là di dichiarazioni generiche, non ha mostrato alcuna velleità di ovviare alla situazione, perciò, allo stato attuale l’unica forza politica che si dichiara contraria in modo deciso alle sanzioni, con accenti addirittura filo-russi, appare la Lega Nord.
Ad essere saltato definitivamente per le sanzioni non è soltanto il volume dello scambio italo-russo, ma anche l’asse ENI-Gazprom.
Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito, esternai le mie perplessità ad un amico che era militante più che ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea. Lui fu sorpreso, ricordando le mie molte polemiche con il Pci (evidentemente poco capite, perché non era certo il nome comunista che mi dava fastidio) e proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”
E ricordò una battura di “Cuore” (l’allora supplemento satirico dell’”Unità”) nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”.
Quella risposta mi illuminò: dunque, c’era un noi che prescindeva dall’identità comunista e che gli era sottostante, un noi che poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che restava uguale a sé stesso. Che il Pci fosse un partito, per così dire, in mutamento ideologico di sempre meno certa connotazione comunista era cosa che noi dell’estrema sinistra sostenevamo (a torto o a ragione) dagli anni settanta, ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità comunista del Pci.
Da tre decenni ormai si parla di intelligenza artificiale e ricordo ancora un convegno internazionale a Milano nel 1986, quando ancora i personal computer erano un oggetto misterioso, in cui si cercava quasi in maniera paranoica di trovare un concetto che la definisse. Ma nel frattempo, mentre sono stati fatti pochi passi in avanti è cresciuta enormemente la stupidità artificiale, ovvero quella degli umani indotta dal pensiero unico. Ma una cosa è certa non ci può essere intelligenza né biologica, né silicea che possa fare a meno di una memoria stabile. Ora, quanta memoria ha un essere umano occidentale nel mondo contemporaneo? Pare pochissima, quasi niente. O meglio la “ram” dedicata alle serie televisive, alle canzonette, al consumo e al suo falso progresso, al look e alla tendenza, alla salute interpretata dal profitto dei produttori e distributori del sano, insomma a qualsiasi cosa purché sia una cazzata è tantissima, ma ne rimane molto poco per il resto, ovvero per vivere e nel contempo progettare e immaginare il futuro che è cosa molto diversa dal “sognare” come ci viene suggerito ogni giorno e ogni momento del vivere quotidiano. Si sogna quando si dorme, non quando si è svegli.
Così, a causa della ram politica, storica e sociale talmente ridotta da dover essere liberata ogni pochi giorni, come se il pianeta fosse popolato da tome di nati ieri, accade che l’uomo occidentale contemporaneo non si accorga che nel giro di pochi mesi gli esecrati taglia teste dell’Isis sono divenuti dei moderati,
In questo periodo di campagna referendaria Renzi le sta tentando tutte pur di guadagnare qualche punto per una battaglia, quella del referendum costituzionale, che si annuncia decisiva per lui (e per noi). L'ultima sparata è l'annuncio della rottamazione dell'odiata Equitalia.
Una
scelta che però, come sempre, nasconde chiari interessi di
classe dal
momento che a beneficiarne non saranno i tanti lavoratori
e disoccupati che non riescono a pagare multe e tasse (i
loro debiti non si cancelleranno),
bensì soltanto i grandi gruppi che non hanno pagato non
perché non potessero ma semplicemente perché evadendo
potevano gonfiare i
loro profitti.
Qui vi proponiamo un attenta analisi dei compagni di Je so' Pazzo.
* * * *
In questi giorni stanno facendo molto discutere gli annunci del Governo Renzi sull’abolizione di Equitalia. Molti cittadini, com’è comprensibile, ne sono entusiasti, perché sperano che la vera e propria persecuzione che quest’ente ha messo in atto ai loro danni possa finire. Tutti i media plaudono all’iniziativa del Governo, che il premier è andato a pubblicizzare ovunque.
I malevoli sottolineano come la mossa di Renzi sia stato il classico coniglio tirato fuori dal cilindro in vista del Referendum del 4 dicembre.
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Il
prossimo 4 dicembre si terrà il referendum costituzionale, ma
il dibattito politico sembra essersi spostato su un tema
diverso e apparentemente
sconnesso da quanto previsto dalla legge di riforma del-la
Costituzione del 15 aprile 2016 (legge Renzi-Boschi): in
particolare, l’attenzione
è rivolta alle modifiche da apportare alla nuova legge
elettorale, il cosiddetto Italicum (1). Si tratta
della solita schizofrenia
italiana oppure i due temi sono strettamente correlati?
Entriamo nel dettaglio delle due leggi per comprendere – e il
lettore scuserà i
tecnicismi, ma non se ne può fare a meno.
Perché un referendum?
L’Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo il seguente quesito referendario:
“Approvate voi il testo della legge costituzionale concernente ‘Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V del-la parte II della Costituzione’ approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?”(2).
Introduzione
La forma valore del prodotto del lavoro è la forma piú astratta, ma anche piú generale, del modo di produzione borghese, che ne risulta caratterizzato come un genere particolare di produzione sociale, e quindi anche storicamente definito.1
[...] Marx era stato chiaro: ciò che contraddistingueva il suo approccio, e che fa di esso una critica piuttosto che una continuazione dell’economia politica, era la sua analisi dell forma valore. Nella sua celebre esposizione di «Il carattere feticistico della merce e il suo segreto» egli scrive:
Ora, l’economia politica ha bensí analizzato, seppure in modo incompleto, il valore, la grandezza di valore, e il contenuto nascosto in tali forme. Ma non si è nemmeno posto il quesito: perché questo contenuto assume quella forma? Perché, dunque, il lavoro si rappresenta nel valore, e la misura del lavoro mediante la sua durata temporale si rappresenta nella grandezza di valore del prodotto del lavoro? Formule che portano scritta in fronte la loro appartenenza ad una formazione sociale in cui il processo di produzione asservisce gli uomini invece di esserne dominato, valgono per la loro coscienza borghese come ovvia necessità naturale quanto lo stesso lavoro produttivo.2
Nonostante affermazioni del genere da parte di Marx, la connessione tra forma valore e feticismo — il rovesciamento perverso all’interno del quale gli uomini sono dominati dai risultati della loro stessa attività — non ha avuto un gran ruolo nell’interpretazione del Capitale fino al 1960.
Ugo Pagano, partendo da un’affermazione di Marcello De Cecco del 2013, riconduce il successo e il successivo declino del modello italiano di piccole imprese al mutamento intervenuto nel contesto in cui viene prodotto, tutelato e utilizzato quel particolare fattore produttivo che è la conoscenza e sostiene che il declino è iniziato quando, in seguito a iniziative del governo americano, la conoscenza da bene pubblico è divenuta, a livello globale, bene privato. Pagano indica anche le implicazioni di policy della sua analisi
In un’intervista a La
Repubblica del 2013 Marcello De Cecco così rispondeva
al giornalista che gli domandava cosa mancasse all’Italia per
essere la
Germania:
Intanto una politica industriale. E quindi, a monte, una classe politica in grado di concepirla. Noi siamo stati a lungo, e incomprensibilmente continuiamo ad essere, orgogliosi di un tessuto industriale parcellizzato, quello delle Pmi. Siamo stati così bravi a venderlo – il “capitalismo dal volto umano” e altre scemenze – che anche Clinton veniva a Modena per studiarlo. Salvo poi continuare, loro, a puntare sulla grande industria. Come si può competere nella globalizzazione con unità produttive da una dozzina di persone? Finché potevamo svalutare la lira ha funzionato…
Per De Cecco svalutazioni della lira e deterioramento della qualità dell’industria italiana erano parte di un circolo vizioso per il quale egli non aveva alcuna nostalgia. Anche per questo, nonostante le sue pungenti critiche alle politiche tedesche, De Cecco rimase sempre dell’idea che l’Italia non dovesse uscire dall’euro e dovesse invece dotarsi di una struttura produttiva adeguata alle sfide globali superando i problemi posti dal nanismo delle sue imprese.
Ma cosa c’è alla radice del declino del modello italiano basato sulle piccole imprese? La tesi che sosterrò è che vi è soprattutto il mutato contesto nel quale viene prodotto, tutelato e utilizzato quel particolare fattore produttivo che è la conoscenza.
Sarebbe probabilmente esagerato dire che per la prima volta c’è la possibilità di leggere l’opera di Marx senza le supervisioni dei comitati centrali, le edizioni orientate dai gruppi dirigenti dei partiti comunisti, le incrostazioni dei marxismi ossificati e la ripetizione di formulette preconfezionate. Certamente esagerato ma con un qualche fondo di verità.
Guardando solo all’ultimo anno si deve registrare che anche in Italia qualcosa si muove. Giovanni Sgrò nel suo recente “MEGA-Marx. Studi sulla edizione e sulla ricezione di Marx in Germania e in Italia” traccia un quadro della seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA²), il progetto di pubblicazione e ripubblicazione delle opere, dei manoscritti, dei lavori preparatori, degli articoli, dei carteggi di Marx, seguendo i criteri della filologia contemporanea, a cura dell’Istituto Internazionale di Storia Sociale di Amsterdam. Un progetto internazionale nato agli inizi degli anni ’90 dopo l’interruzione violenta negli anni ’30 della prima MEGA, il cui direttore David Rjazanov era finito davanti a un plotone di esecuzione stalinista, e il fallimento dei Marx-Engels Werke gestiti dal partito comunista della DDR.
Ritrovare Marx
In Italia, a differenza della Germania dove sono già stati pubblicati parecchi volumi della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx, il progetto di pubblicazione delle Opere complete di Marx-Engels,
Ma è troppo tardi, è sempre stato troppo tardi per inquadrarlo, fissarlo, imbalsamarlo, e giustamente a tutta questa manfrina del Nobel lui non risponde. Come in una sua antica canzone di non-amore, Dylan speaks like silence e ognuno la prenda come vuole, è indifferente. Il copione si ripete ma è una vita che ha sviluppato gli anticorpi, e sa sottrarsi. Dopo tutta una carriera a seminare indizi che nessuno raccoglie, me l’immagino sereno, e – ovvio – beffardo. A metà degli anni sessanta l’avevano incensato, ma per crocifiggerlo, e lui aveva risposto con una capriola, dileguandosi. L’I’m not there di allora rimane la sua bandiera, “è quasi un mantra” e persino adesso che potrebbe essere un vecchio miliardario in pensione se ne resta in giro a latrare le sue canzoni, e a reinventarsi. Se non l’hanno infilzato sulla punta di uno spillo in quella stagione entusiasmante, figuratevi adesso, siamo seri.
Buio a mezzogiorno e ombre nel cucchiaio d’argento, come un tempo, e lui resta sempre così, inafferrabile. Appari e poi scompari, e ti perdi e ti ritrovi, continuamente, e in questo gioco c’è lui, e ci siamo noi. Ma è inevitabile: quando uno scrive o parla di Dylan fa sempre autobiografia, parlando d’altro, e fuori dalle formule e dagli schemi e dai modelli, e contro formule e schemi lui resta lo specchio dei nostri tempi, ma contro il tempo,e quindi è anche il nostro specchio più estremo, e disturbante.
Che l’Fbi decida di riaprire una inchiesta su un candidato alla Casa Bianca a dieci giorni dal voto, non è cosa che abbia precedenti ed è ancor più strana ove si consideri che la cosa colpisce la candidata dell’establishment contro il “populista” Trump. Che succede?L’Fbi, per caso, si è convertita al verbo di Trump?
In effetti il capo dell’Fbi è un repubblicano che ha avuto atteggiamenti poco amichevoli verso la Clinton, però questo accadeva al momento delle primarie, dopo sembrava esserci stata una sorta di tregua. Peraltro, l’intero partito democratico si è stretto a quadrato intorno alla candidata ed ha attaccato il capo dell’Fbi accusandolo di tacere. Ma forse le cose non stanno in modo così semplice.
A quanto pare, Wikileaks (qualcuno indica altri) stava per uscire con nuove rivelazioni sulla questione delle mail della Clinton (le ultime risalgono al 7 ottobre), a quel punto, il passo successivo sarebbe stato quello di accusare l’Fbi di aver cercato di insabbiare tutto e sarebbe stato un doppio scoop. E forse i riflessi per la campagna della Clinton sarebbero stati anche peggiori.
Pubblichiamo un estratto da Leonardo Caffo, La vita di ogni giorno (Einaudi)
La filosofia contemporanea è una questione di vita in periferia. Siamo coscienti del nostro ruolo marginale e abbiamo capito che l’ecologia è molto più importante della nostra metafisica. Allora, in che modo possiamo organizzare il futuro?
Torniamo al mistero della socialità di Homo Sapiens. Il nostro mondo è regolato e regolabile e segue un movimento che abbiamo definito «a stormo», che in fondo ci risulta ancora parzialmente oscuro. In questo continuo e perpetuo agire di tutti all’interno dello spazio comune, la filosofia si insinua come una voce che ci invita a fermarci e a riflettere. La pausa serve a interrompere qualcosa che spesso blocca la nostra libertà e la nostra creatività: la consuetudine.
Per descrivere questo processo di arresto, Deleuze ha parlato di «differenza e ripetizione». Sulla scia del pensiero di Nietzsche, si trattava di concepire la differenza come un’affermazione pura e come un atto creativo per sospendere la prassi continua che la vita quotidiana ci impone: «tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione».
Con il primo numero di “Consecutio
rerum” proseguiamo e approfondiamo il progetto
teorico-politico che ha caratterizzato i primi sette numeri
della precedente rivista
“Consecutio temporum”, da noi realizzata e diretta a partire
dal 2001.
Costretti a interrompere la pubblicazione della precedente rivista per la pretesa della proprietà della testata d’interferire con il nostro programma editoriale, diamo vita alla nuova “Consecutio rerum”, con una variazione di titolo lieve, ma pure significativa nel verso di una radicalizzazione del nostro intento filosofico ed etico-politico iniziale. Giacché il passaggio dalla connessione dei “tempi” a quella delle “cose” stringe il nostro percorso ancor più nella proposizione di un nuovo campo di ricerca e di critica quale vuole essere quello di un “nuovo materialismo”.
Nuovo materialismo, perché riteniamo che il vecchio materialismo, quello più celebre d’ispirazione storica e marxista, sia un paradigma teorico ormai consumato e inutilizzabile. Già lo stesso Marx, in alcune sue pagine, a dir il vero assai poco frequentate, sulle formazione storiche precapitalistiche lo aveva messo, forse inavvertitamente, in discussione. Ma per noi è chiaro che la capacità delle relazioni economiche di farsi princìpi di totalizzazione dell’intera vita, individuale e sociale, vale solo nella modernità capitalistica e che dunque decade ogni pretesa, com’è accaduto con il materialismo storico, di generalizzare la vecchia metafora di struttura materiale e sovrastruttura spirituale all’intero percorso della storia umana.
La vicenda che potrebbe decidere le prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti è una storia a più livelli, che merita di essere raccontata accuratamente
‘Sexting’, Weiner e le
email.
Tutto è iniziato con un’inchiesta dell’FBI in merito ad uno
scandalo di ‘sexting’.
Una ragazza di
15 anni avrebbe ricevuto delle foto compromettenti da Anthony
Weiner, ex marito della top Advisor di Hillary Clinton, Huma
Abedin. La tipica inchiesta
in cui tutti i dispositivi informatici dell’aggressore vengono
revisionati dall’FBI per verificarne il contenuto in cerca di
indizi o
prove.
Il problema è che il PC di Anthony Weiner non è un laptop qualunque, è il PC che condivide con la sua allora compagna Huma Abedin. Dalle poche informazioni trapelate, pare che la divisione Newyorkese dell’FBI, incaricata di indagare sulla vicenda, per molto tempo abbia taciuto dell’enorme archivio di oltre 650,000 email rinvenute, fino a quando, pochi giorni fa il direttore dell’FBI ha rivelato con una lettera al congresso di ritenere questi dati pertinenti per un’altra indagine in corso ai danni di Hillary Clinton. Una rivelazione enorme che ha destato molto clamore, visti i pochi giorni alle elezioni, causando enormi problemi alla campagna elettorale dei democratici.
La domanda più appropriata da farsi è per quale motivo il direttore del FBI Comey abbia deciso di informare il congresso, scatenando un prevedibile fuoco di critiche.
Le analisi che riguardano la crisi che scuote
- in modo strutturale – il sistema capitalista attuale,
risultano essere di una
pietosa sterilità. Menzogne mediatiche, politiche economiche
anti-popolari, ondate di privatizzazioni, guerre economiche
e "umanitarie", flussi
migratori. Il cocktail è esplosivo, la disinformazione è
totale. Le classi dominanti si fregano le mani di fronte a
una situazione che
permette loro di conservare e affermare la loro superiorità.
Proviamo a comprendere qualcosa. Perché la crisi? Quale è la
sua
natura? Quali sono attualmente e quali dovrebbero essere le
risposte dei popoli, delle organizzazioni e dei movimenti
interessati a un mondo di pace e
di giustizia sociale? Intervista con Samir Amin, economista
egiziano e studioso delle relazioni di dominio
(neo)coloniale, presidente del Forum
mondiale delle alternative.
* * * *
Da molti decenni i tuoi scritti e le tue analisi ci consegnano elementi di analisi per decifrare il sistema capitalista, le relazioni della sovranità nord-sud e le risposte dei movimenti di resistenza dei paesi del Sud. Oggi, siamo entrati in una nuova fase della crisi sistemica capitalista. Quale è la natura di questa nuova crisi?
La crisi attuale non è una crisi finanziaria del capitalismo ma una crisi di sistema.
Marco Gatto, Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento, Macerata, Quodlibet, 2016, pp. 191
L’Italia si conferma «paese senza». Oltre che «paese senza eroi», secondo una recente e felice formula, sembra essere anche paese senza teorici. Più precisamente: senza teorici letterari gramsciani. L’ultimo stimolante lavoro di Marco Gatto si intitola Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento. In esso si ricostruiscono cinquant’anni di incontri mancati fra marxismo letterario e pensiero gramsciano. Seguendo una scansione cronologica, che si dispiega dalla fase post-bellica degli anni Cinquanta agli anni Novanta del trionfo postmoderno, vengono passate in rassegna diverse figure di critici ascrivibili all’area marxista tra cui Angelo Romanò, Natalino Sapegno, Carlo Salinari, Carlo Muscetta, Alberto Asor Rosa, Franco Fortini, Romano Luperini, Leone De Castris. La specola attraverso la quale si conduce l’analisi è quella, sempre delicata, dei rapporti fra intellettuali e popolo, fra arte e società. Un nodo teorico che non può essere impostato secondo la vetusta, eppure sempreverde, ottica idealistica dell’autonomia, ma che va inserito più correttamente nell’alveo di un’analisi materialistica della società e delle sue produzioni sovrastrutturali. Per Gramsci conoscere voleva sostanzialmente dire «il perenne modificarsi della teoria in relazione al perenne modificarsi della pratica».
I Romani, quelli antichi ovviamente, la sapevano lunga e da quella saggezza delle cose di governo trassero il detto excusatio non petita, accusatio manifesta, per dire che quando ci si scusa per fatti dei quali non si è stati accusati, significa che da qualche parte c’è una bella coda di paglia nascosta. Così c’è da chiedersi come mai ieri su tv e giornali unificati, compresi anche i siti di neghittosa devozione governativa si sia sviluppata una campagna contro i complottisti della rete dove darebbe stata ritirata fuori la “bufala” del volontario abbassamento della magnitudo dei terremoti sotto la soglia del 6,1 per evitare di pagare i risarcimenti. Per la verità io che sono un assiduo navigatore non mi ero accorto della recrudescenza del complottismo sismico, il quale semmai aveva rifatto capolino il 24 agosto, ma rimanendo sempre contenuto ad ambiti di nicchia. Forse tanta indignazione dei media main stream è stata dovuta soprattutto alla circostanza che la tesi è fatta incautamente propria da una senatrice cinque stelle e dunque tutti come un suol uomo (si fa per dire) contro un twitter.
Ciò che fa impressione è che organi di informazione e disinformazione ufficiale abbiamo pensato di dedicare a questo tema e agli ”avvelenatori della rete” come dice Mentana, avvelenatore da piccolo schermo, una parte notevole di spazio
E' raro ascoltare qualcuno che si definisca "ordoliberale". L'ha fatto Giuliano Amato, nel corso di un convegno in cui si discuteva di un libro che contiene vari saggi di autorevoli studiosi sul rapporto tra Stato e mercato (Il sistema imperfetto, a cura di Pierluigi Ciocca e Ignazio Musu, Luiss University press). L'ordoliberismo, ha aggiunto Amato, non ha nulla a che fare con le teorizzazioni delle politiche di austerità: affermazione su cui si può discutere, ma anche se si sottoscrivesse senza riserve questo non ne farebbe una teoria adatta ad accordarsi con una visione progressista della società.
L'ordoliberismo prende il nome dal gruppo raccolto dall'economista tedesco Walter Eucken attorno alla rivista Ordo da lui fondata. Chi volesse conoscerne meglio le origini e le caratteristiche troverebbe un'analisi approfondita in un saggio di Alessandro Somma dell'Università di Ferrara (La dittatura dello spread, ed. DeriveApprodi). Rispetto ad altre forme di liberismo si caratterizza per il fatto che non auspica uno Stato debole, ma proprio il contrario. Lo Stato deve essere forte per imporre le regole che facciano funzionare correttamente il mercato, in base al principio-cardine della concorrenza. E' forse per questo che Amato, che è stato presidente dell'Antitrust dal '94 al '97, ha sposato questa dottrina, che non ha davvero nulla a che fare con le sue precedenti esperienze politiche di socialista.
Il tema del tradimento della sinistra (genitivo soggettivo) ormai è entrato nel dibattito, tant'è che cominciano a parlarne intellettuali riconoscibili come "de sinistra" dalla sinistra di sinistra. Ci siamo lasciati dietro le spalle quelli che vaneggiavano sulla natura "non politica" della categoria di tradimento, in quanto categoria "soggettiva e non oggettiva"... Poveracci che, volendo fare sfoggio di approfondita cultura politica, mostravano solo di ignorare le basi della cultura occidentale. Una ignoranza tattica, naturalmente, volta solo a evitare quella cosa veramente di sinistra che da tempo sto chiedendo e che ora sembra arrivare, con un pochino di ritardo: l'autocritica (si veda qui il punto 3).
Ma la storia, i cui processi sono, in effetti, oggettivi, non aspetta che le fragili soggettività individuali si rendano conto della necessità di un atto di coraggio, di un'assunzione di responsabilità (come quella fatta da D'Attorre pochi giorni or sono sul Fatto Quotidiano), e tira dritto.
Ed è appunto in questo tirare dritto, nell'oggettività dei processi storici, che si materializza l'oggettività del tradimento.
Mi spiego meglio: vi ricordate di quelli che "la svalutazione schianta la vedova e l'orfano e quindi restiamo dentro l'eurone che ci protegge"? Quanto ho fatto, qui, per far capire la natura stolta e dilettantesca di queste affermazioni! Avevamo cominciato il 25 aprile di quattro anni fa, e poi battuto e ribattuto su questo argomento, ad esempio nella serie delle leggende metropolitane (la trovate elencata in calce a questo post).
La piazza del 22 ottobre era palesemente diversa da una sinistra indistinta ed elettoralista. Si è evidenziata la necessità di tracciare un percorso per l’antagonismo ed il protagonismo sociale
Il 22 ottobre circa 40.000 tra lavoratori, studenti e pensionati sono scesi in piazza. Precari, disoccupati, lavoratori del settore pubblico e del settore privato, donne e uomini, giovani e anziani, immigrati e autoctoni hanno sfilato per le strade di Roma nel No Renzi Day, dopo la giornata di sciopero generale del giorno prima.
Piazza San Giovanni, da dove il corteo è partito per arrivare a Campo dei Fiori, è diventata simbolicamente Piazza Abd Elsalam, per ricordare il lavoratore della Gls rimasto ucciso mentre scioperava per difendere il diritto al lavoro per sé e per tutti. E subito si evidenzia la differenza tra quella Piazza Abd Elsalam e le barricate razziste alzate tre giorni dopo a Gorino, nel ferrarese, contro pochi uomini, donne e bambini in fuga da fame e guerre. In Piazza Abd Elsalam e per le vie di Roma fino a Campo dei Fiori, si respirava quell’aria di unità e solidarietà di tutti lavoratori che dovrebbe essere tra le priorità dell'azione politica e sindacale; unità e solidarietà per cui lavoratori e lavoratrici, di ogni settore, precari e non, immigrati e non, si sentono spinti a lottare insieme per modificare la comune condizione di sfruttamento.
Prima prova editoriale della Campagna Noi Restiamo, pubblicata da Odradek, raccoglie le interviste di dieci economisti – Riccardo Bellofiore, Giorgio Gattei, Joseph Halevi, Simon Mohun, Marco Veronese Passarella, Jan Toporowski, Richard Walker, Luciano Vasapollo, Leonidas Vatikiotis, Giovanna Vertova – sulla crisi
A distanza di otto anni dall’inizio
dell’attuale crisi economica, sono ancora molte le spiegazioni
che si guardano bene dal mettere in luce le contraddizioni
insite nelle economie
di mercato come quella dei Paesi membri dell’Unione Europea.
La maggioranza delle analisi si concentra infatti sul ruolo
del presunto
interventismo da parte dello Stato in economia – rappresentato
dall’elevato debito pubblico – e sulla scarsa competitività
dei Paesi mediterranei – misurata in costi del lavoro troppo
elevati, imposizione fiscale sui profitti asfissiante, alta
rigidità del
mercato del lavoro. Le ricette di politica economica scaturite
da questo tipo di proposte si sono rivelate fallimentari a tal
punto da aggravare la
crisi stessa. L’esempio principe è la così detta “austerità
espansiva”, dimostratasi fallimentare sul piano
teorico ed empirico prima che su quello pratico. [1]
Le dieci interviste ad economisti non allineati raccolte in “Tempesta Perfetta”, edito da Odradek e curato dal collettivo Noi Restiamo, hanno come obiettivo quello di sfatare le analisi della vulgata. Il punto di vista così fornito è realmente critico e foriero di nuove prospettive, pur non mancando di una certa eterogeneità di pensiero e proposte. Ne sono un esempio le risposte alla prima domanda, con la quale si vogliono inquadrare le ragioni della crisi in due spiegazioni: quella sottoconsumistica, secondo la quale il deteriorarsi della quota salari ha comportato un calo generali dei consumi, seppur limitato dal credito esteso praticamente senza garanzie; e quella afferente al sotto-investimento, fenomeno che può essere ricondotto alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto elaborata da Karl Marx.
L’unica cosa che appare pressoché
sicura è che Renzi, (vedi qui
e qui)
appena rientrato dagli Usa e
dopo il duetto con Obama, ha l’appoggio di quest’ultimo per
entrambe le posizioni prese. Tuttavia, sappiamo che in merito
ai due problemi,
gli Stati Uniti sono decisamente contrari all’austerità e alla
rigida posizione della UE (e soprattutto della Germania) in
merito –
così come si era già riscontrato all’epoca della grave crisi
greca – e manifestano una dura contrapposizione alla Russia
sia
per l’Ucraina che per la Siria; per cui, sono favorevoli alle
(anzi sono promotori delle) sanzioni economiche verso Mosca,
considerata
l’aggressore, esattamente come espresso dalla Merkel
(“Chiediamo la fine degli attacchi. Non solo abbiamo detto che
potremmo imporre
sanzioni alla Siria, ma anche sanzioni contro tutti gli
alleati della Siria. Questo si applica alla
Russia”).
Se fossimo affetti da quel rozzo economicismo attribuito, sbagliando di grosso, a Marx, potremmo dire che Renzi è spinto all’attenuazione del suo atteggiamento anti-russo dalla situazione difficile in cui verrebbero a trovarsi alcuni settori produttivi italiani che esportano in Russia. Troppo semplice a mio avviso. Non c’è un solo attore sulla scena politica mondiale che dica effettivamente quel che pensa e il cui gioco persegua gli scopi apparentemente voluti. Questo è abbastanza normale in politica e in ogni tempo; tuttavia, in periodi come questi, data la sempre accentuata subordinazione alla potenza predominante, le manovre dei paesi europei hanno un superiore tasso di ambiguità e autentico inganno.
(Dwight Macdonald, Masscult & Midcult)
Il vaso di Pandora
Mi è capitato di fare qualche piccola ed estemporanea considerazione sull’assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan.
La sensazione che ho provato nell’apprendere questa sorprendente notizia è stata in un primo tempo una sorta di euforia, di felice stupore. Poi all’improvviso sono stato assalito da una vaga tristezza, da un’ombrosa inquietudine.
Come mai? Non si trattava certo di un’offesa alla maestà del Nobel, che è un concetto del tutto estraneo al mio temperamento e alle mie convinzioni. Tanto meno di un dubbio circa il valore estetico dei testi di Bob Dylan, che è indiscutibilmente notevole.
E allora? Ci ho pensato un po’ su, ripercorrendo le fasi della mia giovinezza di ammiratore di Dylan (insieme a molti altri tra cui Woody e Arlo Guthrie, Joan Baez, Pete Seeger, Leonard Cohen eccetera) e finalmente ho capito.
Ieri sono stato alla Prima giornata nazionale di studio sugli effetti sanitari e ambientali del trasporto aereo, organizzata dalla International Society of Doctors for Environment (ISDE).
Un titolo che fa sbadigliare, per raccontarci invece di un fenomeno di enorme importanza, anche perché ci troviamo in un luogo bellissimo della Piana, più o meno esattamente dove – secondo il progetto per il nuovo aeroporto di Firenze – un missile al minuto si staccherà da terra giorno e notte.
Mentre in questo basso mondo, ci preoccupiamo per la piccola gente che si muove precariamente su barchette di gomme, in un’altra dimensione avviene un movimento di proporzioni incredibilmente più grandi, e che cresce incessantemente.
Ciampino, piccola pista militare dentro una periferia densamente abitata, esplosa in pochi anni fino ad arrivare quasi sotto le finestre delle case, per accogliere oltre quattro milioni di passeggeri in un anno.
Ufficialmente sono 162 voli al giorno, ma ai fini del calcolo dell’impatto sulla salute, i voli notturni valgono dieci voli diurni; mentre il Centro Regionale Infrastrutture Sistemi Trasporto Aereo ha certificato che il massimo numero di voli compatibili con la salute dei residenti sia 60. Come quasi sempre, le denunce dei cittadini e anche del sindaco restano prive di effetto.
Nel luglio di quest’anno ricorreva il decennale della morte del mio Maestro francese Bettelheim. Non trovavo più, in effetti, il ricordo di questo scienziato e uomo, cui sono stato legato da affetto e riconoscenza per l’insegnamento impartitomi; un ricordo che scrissi appunto all’epoca della sua morte. Finalmente, sono riuscito a ripescarlo e desidero ripubblicarlo. Non credo proprio di dover aggiungere né cambiare alcunché. I miei sentimenti sono immutati. Si è forse approfondito il distacco rispetto ad un passato morto e, a mio avviso, putrefatto; tuttavia, ritengo che l’approfondimento non tradisca l’insegnamento di quel Maestro, lo prosegua invece nell’abbandonare certe idee ormai ossificate. Ripresento, quindi, le considerazioni che stilai allora. Segnalo per completezza che in wikipedia si possono trovare più ampie informazioni sulla sua vita e attività scientifica.
* * * *
Il 20 luglio è morto a Parigi Charles Bettelheim. Era nato in quella città nel novembre del 1913. E’ stato uno dei 4-5 maggiori economisti marxisti del ‘900. Fu insegnante e Direttore di studi all’Ecole Pratique des Hautes Etudes – poi divenuta Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales – dal 1948 al 1983; e diresse a lungo il Centre d’Etudes des modes d’industrialisation presso la stessa Scuola.
Diamo il giusto peso a cose e parole. Si trattava di dare alloggio (cinque stanze su trenta di un ostello) per quattro mesi – cioè per l’inverno, quando l’attività turistica è inesistente – a dodici donne, una delle quali incinta. Di tutte le parole dette per giustificare l’ostilità della comunità di Gorino, le più disumane, e perciò più rappresentative, sono state: “Queste donne avranno pure degli uomini. E noi donne di Gorino siamo per molte ore sole in casa, perché i nostri uomini fanno i pescatori”.
Tradotto: non è possibile che siano donne dotate di capacità di discernimento perché sono cose, di proprietà di migranti maschi, quindi stupratori. In realtà gli uomini di queste donne fuggite dalla Sierra Leone e dalla Nigeria sono detenuti e torturati nelle carceri, oppure ormai cadaveri sulla strada della fuga nel deserto. Ma tant’è: ai presidianti è bastato far balenare questo argomento, accanto all’altro, quello dell’esproprio delle seconde case, cioè della minaccia alla roba, agli sghei – si sente la cadenza gretta nella parlata di questi valligiani che antepongono la roba alla vita umana. E allora la prima ipocrisia da rimuovere è quella del “non siamo razzisti (ma…)”: razzismo e fascismo non sono etichette vuote, ma conseguenze di comportamenti concreti, e quello che è successo a Gorino è razzismo e fascismo.
Perché sentiamo parlare solo della “crisi umanitaria ad Aleppo” e non di quelle in qualsiasi altra parte della Siria, dove il male che regna a Washington ha scatenato i suoi mercenari dell’ISIS per massacrare il popolo siriano? Perché non sentiamo parlare della crisi umanitaria nello Yemen, dove gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, loro vassallo, stanno massacrando donne e bambini yemeniti? Perché non sentiamo parlare della crisi umanitaria in Libia, dove Washington ha distrutto un paese lasciando solo il caos? Perché non sentiamo della crisi umanitaria in Iraq, in corso da 13 anni, o della crisi umanitaria in Afghanistan, che ormai ha 15 anni?
La risposta è che la crisi ad Aleppo è la crisi di Washington che sta perdendo i suoi mercenari dell’ISIS a causa dell’esercito siriano e delle forze aeree russe. I jihadisti inviati a distruggere la Siria da Obama e dalla bestia assassina Hillary (“Siamo arrivati, abbiamo visto, lui è morto!”) , a loro volta stanno venendo distrutti. Il regime di Obama e la stampa occidentale asservita stanno cercando di salvare i jihadisti coprendoli sotto il manto della “crisi umanitaria”.
Questa ipocrisia rientra nella normale routine di Washington. Se al regime di Obama fosse fregato qualcosa della “crisi umanitaria”, non avrebbe orchestrato crisi umanitarie in Siria, Iraq, Afghanistan, Libia e Yemen.
Amore, follia e surrealismo ci servono per introdurre il commento del giorno sul nuovo scandalo mail della signora Clinton
"Je vous souhaite d'être follement aimée".
Termina così il bel romanzo-autobiografia del papà del movimento surrealista, André Breton "L'Amour fou" (L'amore folle, 1937): - Vi auguro, di essere follemente amata -, un bell'augurio, non c'è che dire.
Amore, follia e surrealismo ci servono per introdurre il commento del giorno sul nuovo scandalo mail della signora Clinton. Pare che Assange e Putin siano dei dilettanti, i professionisti, i duri, quando il gioco si fa duro, entrano in gioco ora e lo fanno sotto le sembianze dell'FBI che ieri annuncia di riaprire il caso mail-Clinton ma non quelle poco importanti di Wikileaks ma altre, trovate dove non dovevano stare. Dove le hanno trovate? Nei computer di due personaggi surreali.
Il primo è A. David Weiner. Deputato democratico liberal di sinistra, David è costretto a dimettersi nel 2011 perché pizzicato a twittare selfie del suo pene ad altra signora che non sua moglie. Ritenta nel 2013 alla carica di sindaco di New York, ma ci ricasca di nuovo con l'esibizionismo sessuale compulsivo telematico nei confronti di una giovane mamma di 22 anni.
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La vittoria di
Trump marca una clamorosa sconfitta della lobby transnazionale
delle élite neoliberiste. Fino a poche ore prima dell’esito
elettorale
siamo stati bombardati dal coro pressoché unanime di governi,
partiti, economisti, manager, star dello show business,
campioni sportivi,
sondaggisti, giornali, televisioni, piattaforme internet che
celebravano la vittoria di Hillary Clinton presentandola come
l’unico esito
possibile dettato dalla “ragione” politica, culturale e
civile.
A parte gli auspici dei governi russo e cinese – preoccupati per le minacce di alzare il livello del conflitto geopolitico globale da parte della Clinton – hanno fatto eccezione quasi solo le forze populiste di destra e le pochissime voci che si sono timidamente alzate a sinistra per ricordare che Hillary Clinton incarna i più feroci e aggressivi interessi del capitale finanziario transnazionale, nonché delle industrie hi tech che dominano il sistema militare industriale e governano un pervasivo sistema di spionaggio globale.
Personalmente sono più volte intervenuto su queste pagine a rimproverare Bernie Sanders per la fallimentare scelta di sponsorizzare come “il minore dei mali” la donna che gli aveva letteralmente “scippato” – con l’appoggio della macchina di partito, dei media e delle élite di sistema – la candidatura democratica all’elezione presidenziale, impedendo a classi medie impoverite, lavoratori bianchi e migranti, studenti , donne, giovani, ambientalisti, ecc. di unirsi attorno a un programma e a un leader politico comuni.
9
novembre 2016: una
data che difficilmente sarà dimenticata negli anni che
verranno. Media europei e giornali di tutto il mondo oggi
osservano con un malcelato
sgomento l’elezione di Donald Trump alla presidenza dello
stato capitalista considerato come il più potente al mondo,
gli Usa.
L’alternativa di Hillary Clinton evidentemente, nonostante la
palese collocazione all’estrema destra del neopresidente –
appoggio
del Kkk, libri con i discorsi di Hitler sul comodino, come
ebbe a dire l’ex moglie – non è stata sufficiente. Considerata
genericamente – e su questo ci riproporremo più avanti di
proporre un approfondimento – come la candidata
dell’establishment, nonostante l’endorsment ricevuto
da tutti i settori della cultura a stelle-e-strisce (e non
solo) la sua sconfitta è sonora e netta, nonostante persino le
previsioni, sempre più inattendibili, la davano per vincente
addirittura
al 90%.
Fiumi di inchiostro e di parole sicuramente anticiperanno l’uscita di questa breve nota che, in forma preliminare, tenterà di fornire un abbozzo di analisi di quali possano essere le ragioni e le prospettive più immediata da una prospettiva di classe. Per questo, e per tanti altri motivi, è opportuno non farsi ammaliare a vacue analisi sociologiche avulse da un contesto più ampio ma altresì tener conto condizioni materiali sia dell’enorme massa che ha eletto Trump e sia dello stato di salute del capitale a base dollaro e di quello internazionale più in generale. Limitare il fenomeno Trump a una scelta democratica in opposizione ad Hillary è evidentemente un modo borghese e limitato di tentare di indagare su una questione che è di portata nettamente più ampia.
Già dalla fine dell’anno 2008, ossia dalle settimane che seguirono il crollo di Lehman Bros., e dunque dai momenti appena successivi alla violenta emersione dell’ultima crisi, in palese controtendenza con l’ottimismo di tanti settori della sinistra di classe, evidenziammo che la concomitanza della crisi più violenta del modo di produzione del capitale e l’assenza di una classe subordinata “per sé”, ossia cosciente del suo ruolo storico, avrebbe potuto generare tendenze del tutto opposte a quelle auspicate.
La
clamorosa ma non imprevedibile vittoria elettorale di
Donald Trump lascia attoniti i faziosi ma offre
infiniti spunti di riflessione
ai laici veri, a quelli che non hanno paura della realtà né di
farsi interrogare da essa. Uno di questi spunti è questo.
Barack Obama lascia la Casa Bianca dopo otto
anni molto discutibili ma che non hanno particolarmente scosso
il suo prestigio
personale. Tutti i sondaggi del 2016, l’anno del suo passo
d’addio, gli hanno regalato risultati non malvagi. Il 57% di
approvazione (con
il 17% di indecisi) secondo Gallupp, il 52% (e 6%)
secondo Rasmussen Reports, il 52% (e 5%) secondo Fox
News e così
via. La candidata del Partito democratico, Hillary
Clinton, aveva lavorato con lui al Dipartimento di
Stato e si presentava in linea
di continuità con la sua politica. Non parliamo, poi,
dell’appoggio offerto alla causa democratica dall’alta
finanza, dal complesso
militar-industriale, dal mondo dello spettacolo, da quasi
tutti i media.
Eppure Trump ha vinto nettamente, e il Partito Repubblicano, che pure dall’ascesa di Trump era stato sconvolto e umiliato, ha ottenuto la maggioranza al Senato (51 seggi contro 47) e alla Camera dei Rappresentanti (236 seggi contro 191). Dopo otto anni di un potere democratico peraltro poi dimezzato (il Congresso Usa era già a maggioranza repubblicana) si passa a un Presidente che ha rivoltato il partito come un calzino al cui fianco ci sarà un Congresso repubblicano.
L'onda lunga che ha portato alla
Brexit
ha sospinto, con la potenza di uno tsunami, Donald Trump alla
Casa Bianca. Un buon auspicio in vista del 4 dicembre.
E' la sanzione, per certi versi spettacolare, che siamo ad un giro di boa della situazione mondiale.
Proprio dal centro dell'impero arriva il de profundis del ciclo della globalizzazione neoliberista. Arriva, questo de profundis, proprio dal luogo da dove esso, con Reagan, iniziò e s'irradiò per tutto il mondo, spazzando via l'Unione Sovietica, concimando la restaurazione del capitalismo in Cina, schiacciando i movimenti politici e sindacali dei lavoratori salariati.
E' già la fine della globalizzazione? E' già la sepoltura del neoliberismo? No, non lo è ancora, contrariamente a certe sentenze frettolose e superficiali che, a sinistra, già leggiamo questa mattina.
Le potentissime forze oligarchiche che hanno tenuto in pugno le sorti del mondo per quattro decenni sono ancora tutte ai loro posti di comando: controllano le borse e le banche sistemiche, sono alla testa dei conglomerai finanziari e dei consigli di amministrazione delle più potenti multinazionali, tirano i fili delle università e dei think tank, spadroneggiano nel mondo della cultura e dell'informazione, hanno infiltrato gli Stati ed i loro apparati coercitivi.
L’impegno a proteggere i perdenti della globalizzazione con la disdetta del Nafta e aliquote fiscali più basse ha portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Ma, al contrario di quanto promesso dal tycoon, l’aumento del deficit pubblico farà salire il disavanzo commerciale Usa
Il malessere americano
che ha fatto vincere
Trump
Donald Trump eredita un paese che cresce stabilmente intorno al 2 per cento annuo e con un tasso di disoccupazione sceso di poco al di sotto del 5 per cento della forza lavoro. È un paese molto diverso da quello che aveva trovato il suo predecessore, Barack Obama, alla fine del 2008. Allora, fallita Lehman Brothers, il Dow Jones era sceso sotto i 9000 punti (dai 13mila di fine 2007) e l’economia era in recessione da quattro trimestri, il che portò la disoccupazione sopra al 9 per cento nei primi mesi del 2009. I numeri che Obama lascia in eredità a Trump sono in tutto simili alle medie secolari che hanno contrassegnato da decenni il buon funzionamento dell’economia americana che, nonostante tutto, è rimasta il motore trainante dello sviluppo mondiale.
Eppure, se Trump ha vinto, è perché in America c’è malessere. Se non ci fosse, un candidato come Bernie Sanders sarebbe stato etichettato come un socialista rétro e non sarebbe certo arrivato a contendere la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti a Hillary Clinton nelle primarie del partito democratico. Se in America non ci fosse malessere, il partito repubblicano non avrebbe indicato come candidato alla Casa Bianca un estremista no-global (anche pieno di scheletri nell’armadio) lontano dalla tradizione liberista del Grand Old Party come Donald Trump.
Vi propongo, di seguito, un bell'articolo di Guido Salerno Aletta, che su Milano Finanza analizza il risultato delle elezioni Usa. Al termine, trovate una bella analisi di Amundi sui possibili riflessi dell'esito elettorale. L'analisi è datata 26 ottobre e considera i diversi scenari alla luce delle successive elezioni Usa
E’ il voto di protesta della classe
media americana, il driver dei risultati elettorali americani,
che indicano un consenso nei confronti di Donald Trump molto
più ampio di quanto
era stato previsto dai sondaggi.
Si conferma invece un dato di fondo, tanto ben presente alla stessa Federal Reserve quanto trascurato da coloro che guardano solo all’andamento degli indici di Borsa: la polarizzazione del lavoro, un dato su cui la Governatrice Janet Yellen ha insistito più volte, è una tendenza assai più preoccupante dell’obiettivo tecnico, già raggiunto da tempo, di ridurre la disoccupazione americana al 5%.
Se all’inizio del suo primo mandato, nel gennaio del 2009, Barack Obama aveva dichiarato che la crisi di Wall Street rappresentava una grande occasione di cambiamento, si deve concludere che questo obiettivo non è stato raggiunto. L’America, all’improvviso, si scoprì povera. Anche oggi lo è.
Sin dalla metà degli anni novanta, la classe media americana aveva azzerato il tasso di risparmio, mentre la crescita dei consumi e del benessere veniva trainata esclusivamente dalle spese finanziate con le carte di credito e dai mutui, spesso sub-prime. Fu il progressivo rialzo dei tassi, deciso per frenare la bolla immobiliare, a mandare in fallimento milioni di famiglie.
Piano B
cercasi disperatamente. Così potrebbe riassumersi la reazione
della stampa mondiale all’elezione di Donald Trump alla
presidenza degli
Stati uniti. L’ansiosa domanda “E adesso?” traspare in tutti
commenti, dall’inevitabile, prevedibile “allarme per
l’inarrestabile avanzata del populismo mondiale”, ai liberals
come Krugman che si strappano i capelli per non aver capito
nulla del paese
in cui vivono, allo “scenario dell’orrore” di cui parla la Süddeutsche
Zeitung, allo sgomento dei mercati finanziari,
all’amara, e sempre più attuale constatazione che è più facile
eleggere un candidato nero piuttosto che una presidente
donna.
L’ansia è mascherata da considerazioni più o meno dotte sulla rivincita dei bianchi maschi senza titolo di studio (ma non dovevano essere un gruppo in fatale declino demografico?), sull’astensione dei neri e degli ispanici che sono venuti a mancare a Hillary Clinton, sulla disaffezione dei giovani progressisti che avevano militato per Bernie Sanders, sull’atteggiamento dei media, che sotto l’ipocrisia della par condicio, o del cerchiobottismo, hanno picchiato molto più su Clinton che su Trump, sulle donne che hanno sì preferito Clinton ma non abbastanza da compensare le perdite nell’altro genere. E così via.
Fine Luglio, Moore fa la sua previsione che anticipa il trionfo di Trump basandosi su cinque considerazioni. Nel frattempo i grandi media sbagliavano tutto
Onore a Michael Moore, evidente
testimonianza
di quando la testa ti funziona bene.
Fine Luglio, Moore fa la sua previsione che anticipa il trionfo di Trump basandosi su cinque considerazioni:
1. Clinton perderà la Rust Belt, la cintura della ruggine a nord dei Grandi Laghi: Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin.
2. Trump è l'ultima speranza per il declino dell'uomo bianco dell'America profonda.
3. Clinton è piena di impresentabilità.
4. La poco meno di metà del partito democratico che ha votato Sanders non sarà elettorato attivo in favore di Clinton.
5. Effetto vaffanculo.
Aggiungerei l'Effetto "Ravenna" per l'élite dominante americana: il riferimento storico va indietro fino al tempo in cui l'élite dell'Impero romano d'Occidente se ne stava protetta dalle paludi ravennati a discettare sul futuro di un impero che non c'era più e su cui il mondo barbaro aveva preso abbondantemente il sopravvento.
Se
c’è una buona notizia nella quasi incredibile vittoria di
Donald Trump è che
all’America e al mondo sarà risparmiata una nuova presidenza
di un membro della famiglia Clinton. Detto questo, l’ingresso
di Trump
alla Casa Bianca aprirà nelle prossime settimane una serie di
scenari e porrà interrogativi a dir poco inquietanti. Le
responsabilità per il successo del candidato Repubblicano sono
in ogni caso da attribuire per intero al Partito Democratico,
alla sua deriva
destrorsa, alle politiche anti-sociali e guerrafondaie
dell’amministrazione Obama e all’incapacità di offrire una
prospettiva
progressista a ciò che resta del proprio elettorato di
riferimento, presentando invece una candidata tra le più
screditate e reazionarie
della storia degli Stati Uniti.
Le reali speranze di successo di Hillary Clinton erano svanite in fretta nelle prime ore della notte italiana, quando il leggero vantaggio registrato in stati considerati decisivi come Florida, North Carolina e Ohio ha ben presto lasciato spazio alla rimonta di Trump. La Florida, in particolare, sembrava poter essere ancora una volta in bilico fino alla fine del conteggio, ma i suoi 29 “voti elettorali” sono stati assegnati alla fine senza incertezze a Trump, in grado di raccogliere circa 130 mila voti in più della rivale.
Uno ad uno, sotto gli occhi increduli degli “anchormen” della CNN e di altri network filo-Democratici, quasi tutti gli “swing states” che Trump era in effetti obbligato a conquistare, e nei quali l’ex segretario di Stato era data in vantaggio, sono finiti nella colonna Repubblicana. Probabilmente, oltre che in Florida, fondamentale è stata la superiorità di Trump in North Carolina e in Ohio, stato quest’ultimo vinto da Obama sia nel 2008 che nel 2012.
La non inaspettata vittoria di
Trump, per chi ha la giusta percezione delle dinamiche sociali
reali, conferma una crisi di egemonia della borghesia in
particolare nei paesi
imperialisti, dagli USA all’Europa, dove il sistema politico
“democratico” non tiene più le profonde contraddizioni che il
capitalismo attuale sta producendo. Lo sviluppo distorto, ma
coerente con il presente modo di produzione, l’idea delle
propria
invincibilità acquisita dopo la vittoria sull’URSS, la crisi
sistemica che significa offuscamento delle prospettive di
crescita e di
emancipazione stanno producendo una situazione inedita
storicamente e che la vulgata di sinistra tende a
rappresentare come populismo, fascismo, ma
che va analizzata in ben altro modo.
In realtà siamo di fronte ad un passaggio storico, uguale per spessore a quello avuto nel ’91 ma di segno politico diverso, che produce la fine formale della globalizzazione ed una vera e propria crisi di egemonia della Borghesia e del Capitale, esattamente nei termini in cui ne parla Gramsci. Una crisi che parte dal dato strutturale e sociale ma che ora si riversa in quello politico istituzionale, dove emerge l’irrazionalità propria del sistema capitalistico; da Trump al M5S, passando per i Pirati in Islanda e la Brexit, è questo che si sta imponendo nei paesi che sono – va detto chiaramente e senza mezze misure – imperialisti, leninisticamente imperialisti.
«La sovranità appartiene al popolo», recita l’articolo 1 della Costituzione più bella del mondo, quella italiana. Al popolo, cioè – in democrazia – al dèmos. Ma chi o cosa è il popolo e come esercita la sua sovranità? E, soprattutto, è davvero sovrano oppure la democrazia è solo una finzione, sia pure ben recitata? E ancora: perché spesso il dèmos sovrano rinuncia alla propria sovranità e si fa assente, indifferente o addirittura nichilista (o sadomasochista) e lascia che oligarchie, élites, supposte classi dirigenti, esperti e tecnici (tecnocrazie) di varia natura e populisti di vario colore, ma soprattutto il mercato e la tecnica, lo spoglino di potere e di sovranità? Dopo La Boétie, opportunamente, si torna a parlare di «servitù volontaria» , ma perché abbiamo paura della libertà (con Kant ed Erich Fromm)? Tendenza del potere economico e tecnico a divenire autopoietico, quindi senza più bisogno di dèmos e di democrazia, l’autopoiesi essendo sovrana per autoregolazione e per autoreferenzialità? Oppure, istinto/bisogno animale di un capobranco/leader che ci liberi del peso delle scelte?
E dunque, siamo ancora in una democrazia, oggi che la democrazia sembra trionfare nel mondo e tutti invocano più democrazia? Oppure si perfezionerà ulteriormente la postdemocrazia, secondo il Colin Crouch che scriveva «anche se le elezioni continueranno a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche della persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi»;
Internet e la (post)modernità, il futuro della rete, l’uomo e le macchine, la rivoluzione tecnologica. Temi centrali e ineludibili della contemporaneità e del futuro prossimo, che Herzog decide di affrontare di petto attraverso un documentario con l’ambizione nientemeno che tratteggiare l’origine della rete, la sua apoteosi, il suo lato oscuro. Non potevamo allora mancare la visione di un’opera nelle premesse così intrigante. Il film è, come detto, un documentario, che attraverso l’apocalittica progressione in dieci capitoli ripercorre la “storia” di internet dalle origini degli anni Sessanta alle mille domande traverse che apre un mondo che ormai sembrerebbe (e qui il condizionale è necessario) sfumare nella virtualità e in una rete di flussi comunicativi anarchici e imprevedibili. Eppure il film si presenta quasi subito come grande occasione mancata. Non è tanto la forma documentaria il problema – sebbene rifletta un approccio equivoco all’arte, è bene ribadirlo – ma sono le domande mancate e il punto di vista che esce fuori da questa “inchiesta” a deludere. C’è un solo modo, oggi, per parlare delle rete internet: quello di sottoporla ad una critica politica, economica e filosofica che ne smascheri l’ideologia di fondo attraverso cui si legittima. La rete viene definita come “flusso”, come luogo “aperto” e “orizzontale”, “virtuale”, “immateriale”, “anarchico”, “democratico”, “reticolare” e via dicendo. Qualsiasi lavoro artistico serio dovrebbe partire dal tentativo di smontare questa autonarrazione.
Sono una
delle
più grandi dinastie degli Stati Uniti. I Clinton
sono sulla scena politica statunitense dagli anni 70, prima
con
Bill e poi anche con Hillary.
E forse è proprio questo che gli ha permesso di costruire una
rete globale di
donatori senza pari.
Ma facciamo un passo indietro. Bill e Hillary hanno fondato – nel 1997 – la Clinton Foundation, una fondazione diversa da qualsiasi altra nella storia. È un impero filantropico globale gestito da un ex presidente degli Stati Uniti, con l’obiettivo di risolvere molti dei problemi più difficili al mondo.
Avviata in modo modesto – e inizialmente focalizzata sulla biblioteca personale di Bill – è via via cresciuta in modo molto ambizioso. Attualmente conta oltre 2000 dipendenti. Più specificatamente, i fondi raccolti dalla fondazione vengono spesi direttamente sui programmi aperti dalla società e non vengono donati ad altre organizzazioni di beneficenza.
Lo stesso ex presidente in passato ha dichiarato al Washington Post: “La fondazione è una macchina geniale che può trasformare qualcosa di intangibile in qualcosa di tangibile: il denaro“.
Paura e delirio negli Usa. Dall’Armageddon finanziario alla presunta rivolta dell’Fbi, al ritorno del terrorismo in caso di vittoria di The Donald. Ma ha senso dipingere Trump come il mostro dell’Apocalisse per far vincere Hillary?
Ora, va bene tutto. Le elezioni
presidenziali
sono un momento ad alta tensione, emozionante, coinvolgente.
Per chi ci crede, possiamo pure dire che sono un passaggio
decisivo per gli assetti della
più grande democrazia del mondo. Ma è possibile che
gli americani, al momento di scegliersi un Presidente, cosa
che in ogni caso
fanno una volta ogni quattro anni e non ogni quattro secoli,
siano così spaventati? Possibile che una nazione
che ha sedici diverse
agenzie diintelligence per le quali, tra il 2001 (Torri
Gemelle) e il 2014 ha speso più di 500 miliardi di dollari,
debba far tremare i propri
cittadini?
Nelle ultime settimane i media americani, fedelmente riprodotti da quelli europei e italiani in particolare, hanno lanciato una serie di allarmi sempre più isterici e incredibili. Almeno tre negli ultimissimi giorni. Si è cominciato con il crollo delle Borse. Appena l'Fbi ha ri-cominciato a indagare su Hillary Clinton, e i sondaggi della signora candidata hanno mostrato qualche segnale di affanno, i giornali come il New York Times, che con la Clinton si sono schierati, hanno preso ad annunciare l'Armageddon finanziario prossimo venturo. Perché? Donald Trump, se eletto Presidente, potrebbe provocare disastri economici? Forse sì. Ma allora perché il tanto stimato Barack Obama, della cui linea politica la Clinton vuol essere l'erede, nei suoi otto anni non ha generato una nuova età dell'oro della finanza? Tra l'altro, invocare sul candidato preferito la benedizione di Wall Street non pare una grande idea. Dal 2008 la piccola e media borghesia americana lotta con i disastri provocati proprio dall'alta finanza e con la politica, così efficacemente messa alla berlina da papa Francesco, di salvare le banche e non la gente.
Oltre a quelli internazionali,
nascono gravi conflitti interni anche in seno alla
Superpotenza, che non è immune dalla crisi sistemica. Primo
segno: queste elezioni USA
La Russia sta cercando in tutti i modi - sia nei negoziati diplomatici sia nel suo appoggio pratico - di unire in un unico dossier tutti i conflitti, dal quello nella Novorussia, a quello in Siria, nell'Iraq a quello nello Yemen e ora anche quello in Libia. Il motivo dovrebbe essere evidente anche: sono tutti legati e parte della stessa strategia.
Una strategia che ha visto tre tappe:
1) decisione nel 2001 (vedi "rivelazioni" del generale Wesley Clark),
2) pianificazione tra il 2006 e il 2008)
3) implementazione a partire dalle "primavere arabe" (benedetta dal discorso al Cairo di Obama). A cui si è aggiunto l'«inserto» ucraino, ad uso e consumo dell'Europa; una sorta di fuori programma offerto dalla coppia Clinton-Nuland.
Il fatto che l'Arabia Saudita sia impresentabile sotto tutti i punti di vista, permette agevolmente di indirizzare gli sforzi dei pacifisti (mi riferisco qui a quelli sinceri, non ai doppiopesisti) su battaglie focalizzate contro di essa [1].
Bisogna capire che lo
scontro in atto in USA
in questo momento è un vero e proprio tornante della storia al
pari dei tragici eventi del Settembre 2001. Questo al di là
dell’antipatia personale o la simpatia per uno dei due
concorrenti principali ed è ancora più chiaro se non ci
si lascia
intossicare dalla terrificante campagna elettorale in corso:
una enorme macchina del fango tesa a screditare l’avversario
con ogni mezzo e con
ogni sorta di notizia manipolata.
In realtà stiamo assistendo ad uno scontro tra due fazioni dell’élite americana che hanno trovato nei due contendenti i loro front-man elettorali.
La posta in gioco è cosa deve essere l’Impero americano nei prossimi decenni e come uscire o almeno stabilizzare la sua evidente crisi. Le visioni in lotta sono le seguenti:
1) I neoconservatives che hanno in Hillary la loro bandiera, vogliono continuare nell’esperienza della “guerra al terrorismo” ovvero nella guerra imperialista tendente a far guadagnare agli USA l’uscita dalla crisi allargando a tutto il mondo la loro sfera d’influenza anche con l’utilizzo delle armi oltre che con le rivoluzioni colorate.
Hillary Clinton o Donald Trump? Una scelta storica, drammatica dell’elettorato statunitense? Malgrado l’ossessiva attenzione dei mass media apatia, astensionismo e il grande filtro del Collegio Elettorale determineranno l’esito della consultazione
Fuga di cervelli: un
amico che ha trovato
impiego alla Columbia University e che sedici anni fa mi era
venuto a trovare a New York mi chiede di accertare se
nell’edificio dove abitavo ci
siano appartamenti in affitto. Chiamo Joe, l’anziano portiere
afro-americano: ci sono tre appartamenti vuoti per via della
crisi economica
– risponde con voce tesa e rabbiosa. Teme l’esito elettorale
di domani? “I don’t give a f… about it” – non
me ne frega niente – qui si parla solo della vittoria dei
Cubs, un disastro.. I Chicago Cubs la squadra di baseball che
non vinceva da 108 anni
ha battuto i favoriti Cleveland Indians trionfando nel
campionato delle World Series: è come se in Italia il Crotone
vincesse il campionato di
serie A e la Champions League.
Gli afro americani come Joe, il 13,3% della popolazione USA di 321 milioni, e cioè 40 milioni circa di abitanti, diserteranno in massa le urne. Non solo per la delusione lasciata loro da Obama, delusione che ha confermato la loro preesistente ostile estraneità allo establishment bianco, ma anche per l’appoggio incondizionato di Hillary e Donald alla polizia che negli ultimi dodici mesi ha ucciso più di duecento neri nelle città americane.
Intervento al Forum “La Via Cinese e il contesto internazionale”, Roma, 15 ottobre 2016
In occasione di un convegno volto a celebrare il 45esimo Anniversario delle Relazioni Diplomatiche Sino-Italiane, svoltosi a Roma il 23 ottobre del 2015, l'Ambasciatore Cinese S.E. Li Ruiyu ebbe a dichiarare: ”La Cina ha sempre sostenuto lo sviluppo dell’Italia: nel momento più duro della crisi finanziaria internazionale, l’allora Presidente cinese, Hu Jintao, effettuò con successo una visita in Italia, e la delegazione di incentivazione per gli investimenti commerciali mandata in Italia dalla Cina ha fornito un aiuto concreto all’Italia nell’affrontare il problema del debito”. Queste parole sono importantissime perché svelano un aspetto per nulla considerato dai media italiani: durante la crisi del debito del 2011, contrariamente ai partner europei, le cui banche vendevano massicciamente titoli di stato italiani, la Cina interveniva per calmare la tempesta finanziaria che stava colpendo l’Italia. Il suo intervento fu finalizzato a stabilizzare i corsi dei titoli di stato italiani e a ridurre lo spread con i bund tedeschi. Per sapere con quali mezzi economici, occorre riportare le parole del Governatore della People’s Bank of China- la banca centrale cinese, Zhu Xiaochuan, il quale il 22 gennaio 2015, in occasione del Forum di Davos, dichiarò: “deteniamo asset italiani, tra azioni e titoli di stato, pari a 100 miliardi di euro e continueremo a comprare”.
Carlo Formenti, La variante populista, DeriveApprodi, 2016, pp. 288, € 20,00
Carlo Formenti torna sui temi già indagati in Utopie letali, ma stavolta l’obiettivo della critica non si ferma alle tare di un pensiero antagonista, il cosiddetto post-operaismo, secondo l’autore ormai sussunto dall’ideologia onnicomprensiva del capitale. Per l’autore, infatti, “a partire dagli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, le culture di sinistra hanno subito una serie di mutazioni sociali, politiche e antropologiche che non ne hanno semplicemente indebolito la capacità di resistenza nei confronti dell’egemonia liberal-liberista, ma le hanno trasformate in soggetti attivamente impegnati nella gestione dei nuovi dispositivi di potere” (pag. 7). Formenti allarga il campo della riflessione partendo da un’intuizione decisiva: nel mondo di oggi le ragioni di classe e quelle della sinistra sono entrate in contraddizione e, addirittura, in opposizione. Oggi la “voce degli esclusi”, delle vittime dei processi di impoverimento e di proletarizzazione crescenti, di un certo proletariato metropolitano autoctono e migrante, sono rappresentate da variegate forme di populismo – reazionario o progressivo – che poco o nulla hanno a che fare con la sinistra classicamente intesa, ridotta al contrario a rappresentante di un ceto medio intellettualizzato sempre meno presente socialmente e sempre più contrapposto a quel rancore sociale prodotto dalla crisi.
Per fortuna abbiamo la Tv e i grandi giornali che nei pochi momenti di intervallo tra pubblicità e servizi dalle zone terremotate in cui i cronisti fanno una gran fatica a scoprire che il mondo è un po’ diverso dal loro universo redazionale, ci informano del recupero di Donald Trump nei sondaggi elettorali e dicono che questo è dovuto alla nuova inchiesta dell’Fbi sulle mail della Clinton, sottintendendo quando non viene esplicitamente detto, che si tratterebbe di una trappola ad orologeria. Tuttavia si guardano bene dallo spiegare in cosa consista effettivamente l’affaire, sia perché questo è l’ordine di scuderia dei poteri forti che detengono ormai l’informazione, sia perché ne verrebbe fuori un’immagine devastante del futuro presidente e di conseguenza dell’America stessa, scoprirebbe il verminaio che si agita appena sotto il velo delle censure e le impalcature che stanno degradando la democrazia.
Quindi il lettore mi scuserà se andando contro la volontà tutta contemporanea di non sapere, cercherò di fare un quadro sintetico della vicenda perché essa rivela non tanto i retroscena di un personaggio, ma segna le tappe finali di un passaggio d’epoca: appena una decina di anni fa non sarebbe stato possibile proporre la Clinton ( e anche Trump se è per quello) come candidato alla presidenza, ma oggi invece l’apparato mediatico è in grado di farlo, di portare alla Casa Bianca uno scheletro nell’armadio vivente, un ostaggio ricattabile a piacere oltre che legato a oscuri interessi che viola qualsiasi mito vero o fasullo con cui viene presentata la democrazia americana.
Alla fine, Unione Europea e Canada hanno firmato l'accordo di libero scambio CETA, dopo che la settimana scorsa c'era stato il rischio che deragliasse per le obiezioni da parte dei belgi francofoni, mostrando così le difficoltà a poter garantire nuovi accordi commerciali globali. Il Trans Pacific Partnershio (TPP), l'accordo fra Asia e Stati Uniti, era stato concordato all'inizio di quest'anno, ma aveva ancora bisogno di essere ratificato dai parlamenti degli Stati firmatari. Ed entrambi i candidati all'elezioni presidenziali degli Stati Uniti sono ora contrari alla ratifica. Il TransAtlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), l'accordo fra Europa e Stati Uniti, rimane al palo con ben poche probabilità di un accordo prevedibile in un futuro ragionevolmente prossimo.
I sostenitori del CETA affermano che l'accordo servirà ad incrementare del 20% il commercio fra Canada ed Unione Europea e a rilanciare l'economia europea per 12 miliardi di euro l'anno, e quella canadese per 12 miliardi di dollari canadesi. Ma si era già sentito parlare di simili benefici provenienti da altri accordi commerciali globali, che hanno sempre poi finito per risultare essere assai meno redditiz , in special modo per il partner più debole in ogni rispettivo accordo.
«Grazie, presidente Obama. L’Italia proseguirà con grande determinazione l’impegno per la sicurezza nucleare»: così scriveva il premier Renzi in uno storico messaggio twitter. Sei mesi dopo, alle Nazioni Unite, Renzi ha votato Sì alle armi nucleari. Accodandosi agli Usa, il governo italiano si è schierato contro la Risoluzione, approvata a grande maggioranza nel primo comitato dell’Assemblea generale, che chiede la convocazione nel 2017 di una conferenza delle Nazioni Unite al fine di «negoziare uno strumento legalmente vincolante per proibire le armi nucleari, che porti verso la loro totale eliminazione». Il governo italiano si è così rimangiato quanto promesso alla Conferenza di Vienna, due anni fa, ai movimenti antinucleari «esigenti», assicurandoli sulla sua volontà di operare per il disarmo nucleare svolgendo un «ruolo di mediazione con pazienza e diplomazia».
Cade così nel vuoto l’appello «Esigiamo il disarmo nucleare totale», in cui si chiede al governo «la prosecuzione coerente dell’impegno e della lotta per la messa al bando delle armi nucleari», in un percorso «umanitario e giuridico verso il disarmo nucleare», nel quale l’Italia potrebbe svolgere «un ruolo più che attivo, possibilmente trainante». Cadono di conseguenza nel vuoto anche le mozioni parlamentari dello stesso tenore.
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La candidatura Clinton era il frutto marcio di un'America stravolta che la crisi sistemica ha reso torva, torbida, ipocrita, feroce e cinica
1. Donald Trump è il
nuovo presidente
degli Stati Uniti d'America
Non esulto. Non gioisco. Sono solo moderatamente meno preoccupato. Per il momento.
La candidatura Clinton era il frutto marcio di un'America stravolta che la crisi sistemica ha reso torva, torbida, ipocrita, feroce e cinica ben più di quanto già fosse quando nel secolo scorso gettò due bombe atomiche sui civili giapponesi e uccise in Vietnam circa 2 milioni di persone.
Le élite che più di duecento anni fa ci hanno donato l'Illuminismo, hanno fatto la Rivoluzione Francese e scritto i Diritti dell'Uomo e del Cittadino, da tempo vogliono sbarazzarsi dei vincoli che i loro stessi vecchi valori impongono alle loro idee e alle loro azioni. Dopo la presa del potere della borghesia quei vincoli furono trasformati in ipocriti simulacri e disattesi con regolarità, ma c'era un ritegno, a volte solo formale, che comunque non permetteva di gettarli esplicitamente a mare. La borghesia come classe che doveva occupare ed egemonizzare lo spazio sociale aveva bisogno di un decente apparato ideologico. Oggi, nell'attuale crisi sistemica questi vincoli per quanto formali essi possano essere sono lo stesso sentiti come un'insopportabile camicia di forza che non permette tutte le sconsiderate azioni che le élite pensano di dover fare per mantenere la loro supremazia.
No,
aspettate, non vorrei ci fosse un equivoco! Non sto parlando
di quei buontemponi dalle divise impeccabili che arrivavano
cavalcando rombanti moto con
sidecar per commettere con la proverbiale efficienza germanica
le efferatezze figlie (oggi ci dicono) del nazionalismobrutto.
Le Schutz-staffeln non
ci sono più, e, se ci fossero, sarebbero per noi meno
distruttive delle nuove SS: le Sinistre Subalterne.
Salto l'ovvia premessa, che, oltre a non essere originale, credo sia familiare e condivisa dai lettori di questo blog e di Orizzonte48: il maggioritario, come mi pare avessero chiarito ex ante tanti politologi (ma io non sono un politologo, quindi non vi saprei dare un riferimento), è un modo per costringere gli elettori a scegliere fra due destre. Qui ci occupiamo della destra che fa finta di essere una sinistra, e che quindi, come ho chiarito fin dal mio primo intervento nel dibattito, e come è del resto piuttosto scontato, è quella che viene regolarmente incaricata di fare il lavoro sporco per il capitale. Ma attenzione: se il problema fosse che il maggioritario serve al capitale per canalizzare il dissenso verso una falsa alternativa, prevenendo la formazione di spazi politici alternativi, forse la soluzione sarebbe relativamente facile. Alla fine, la gente vota anche un po' col portafogli!
La lotta per liberare lo spazio urbano sarà la nuova lotta di classe
Luogo storico dell’emancipazione dai
vincoli oppressivi della tradizione e della comunità chiusa
dell’epoca premoderna, la città, con il capitalismo, è
divenuta
strumento dei suoi processi di alienazione ma anche luogo
della possibilità e della chance rivoluzionaria.
È difficile dire cos’è la città oggi; nonostante alcuni tratti comuni, sono tante le differenze tra quello che accade nel vecchio Occidente e nel resto del mondo, quello in espansione in Asia, Sudamerica, Cina e Africa. Il dato certo è che lo stucchevole dibattito di alcuni ambienti militanti sul contrasto città-campagna è surclassato dalla realtà, per cui l’urbanizzazione, ovvero l’espansione di giganteschi agglomerati abitativi dai confini sempre meno definiti, è una tendenza in atto in tutto il globo.
La Cina è lo specchio dei tempi; nelle sue megalopoli di decine di milioni di abitanti si sperimentano le forme più estreme del cambiamento. Da qualche mese, per esempio, a Pechino è in costruzione un muro che reclude in sterminate periferie circa due milioni di contadini da poco immigrati nella capitale, attratti dal boom economico e dalla possibilità del lavoro di fabbrica. Posti di guardia, telecamere e pattuglie militari controllano gli accessi e i confini tra la città e questi ghetti che rimangono chiusi dalle 23 alle 6 del mattino. Di giorno i reclusi della città-prigione possono entrare e uscire solo con un pass che certifica la loro identità, l’appartenenza etnica, l’occupazione e un numero di telefono.
E così è successo: Hillary non ha vinto! Dico così invece di dire “ha vinto Trump” perché considero la prima affermazione molto più importante della seconda. Come mai? Perché non ho la più pallida idea di che cosa Trump farà dopo. Però, ho un’ottima idea di quello che avrebbe fatto Hillary: la guerra alla Russia. Trump, molto probabilmente non la farà. Infatti lo ha detto a chiare lettere nel suo discorso di accettazione:
Voglio dire alla comunità mondiale che, anche se gli interessi dell’America saranno sempre al primo posto, noi faremo accordi onesti con tutti, tutti i popoli e tutte le altre nazioni. Cercheremo un terreno d’intesa, non l’ostilità, la collaborazione, non il conflitto.
E la risposta di Putin è stata immediata:
Abbiamo ascoltato le dichiarazioni
che ha rilasciato da candidato
alla presidenza, dove esprimeva il desiderio di
ripristinare le relazioni fra le nostre nazioni. Ci
rendiamo conto e capiamo che non sarà un
compito facile, visto quanto in basso sono scese oggi le
nostre relazioni, purtroppo. Ma, come ho già detto prima,
non è colpa della
Russia se le nostre relazioni con gli Stati Uniti sono
arrivate a questo punto.
La Russia è pronta a ricercare un totale ripristino delle relazioni con gli Stati Uniti.
Il «Manuel d’économie critique» del «Monde diplomatique» è nelle edicole francesi. La prima opera di questa raccolta, nel 2014, era dedicata alla storia. Oggi vogliamo chiarire le base e gli aspetti di una disciplina di potere, l’economia, i cui principi governano tanti aspetti della nostra vita. Il saggio si propone di far comprendere per far agire: tutti possono partecipare alla battaglia delle idee, se si dispone di strumenti caratterizzati da scrittura accurata, contenuti rigorosi, senso delle immagini, pedagogia e prospettiva storica. Il nostro manuale vuole essere uno strumento di questo tipo.
Per i liberisti, gli esseri umani in quanto tali sono troppo imprevedibili, mossi da oscure passioni. Così hanno inventato l’individuo neoclassico. Privo di cultura e di affetti, egli non prova sentimenti o emozioni: né amore, né odio, né solidarietà, meno che mai abnegazione. E consente di sfornare sapienti studi di laboratorio sul funzionamento del mondo senza che ci si debba preoccupare della storia, della geografia o delle emozioni.
Un tuffo nel misterioso mondo dell’economia dominante.
Rémi, che vive in questa singolare contrada, adora la pizza. Fin qui, nulla di strano.
La fine dell’anno porterà con sé un rialzo dei tassi Usa, ormai tutti se lo aspettano e i mercati, che infatti si sbriciolano, per primi. Questa circostanza segnerà un deciso orientarsi delle aspettative circa la politica monetaria statunitense verso la sua normalizzazione. Tale circostanza, aggiungendosi alla conclusione della vicenda elettorale Usa, finirà col dare il via al movimento che segnerà lo sviluppo dell’economia internazionale a cominciare dal prossimo anno: la Grande Rotazione dalla politica monetaria a quella fiscale. L’età dello stimolo monetario volge al termine, adesso toccherà ai governi direttamente aprire i cordoni della borsa. Questo non vuol dire che la moneta facile sparirà. Tutt’altro. I tassi bassi sono un strumento essenziale per il secondo capitolo del lungo libro che l’economia internazionale sta scrivendo nel tentativo di rilanciarsi: il capitolo degli stimoli fiscali.
Ormai non si contano più gli appelli a fare spesa pubblica per investimenti produttivi. L’Ocse, il Fmi, l’Ue: praticamente tutti gli organismi internazionali, in questi mesi, hanno esortato i paesi con spazio fiscale, Germania in testa, a usarlo per investire sulle infrastrutture. A seguire, praticamente tutti i governi, direttamente o per il tramite di veicoli speciali, si sono fatti promotori di piani per roboanti investimenti pubblici o stimoli fiscali.
Stiamo entrando nella fase finale e risolutiva che porterà il 4 dicembre (forse) al voto sulla cosiddetta riforma costituzionale. Un voto importante poiché delinerà lo scenario politico e sociale del prossimo futuro. E le condizioni in cui si terranno le elezioni politiche: 2017/18 non ha importanza.
Se a Renzi riuscisse l’abbinata referendum/elezioni, si costruirebbe una solida piattaforma interna. La paginetta sulle modifiche all’italicum varrebbe il costo della carta su cui è stampata. Renzi potrà decidere se azzarderà il tutto per tutto, oppure si invischierà nelle coalizioni. Il quadro internazionale, invece, resterebbe assai problematico. È in difficoltà in Europa rispetto al rinnovato asse franco-tedesco post Brexit. Bisognerà poi vedere chi sarà e che farà: “l’amico/a americano”.
In questo scenario si potrebbe aprire una fase nuova di opposizione di massa contro il governo, e per la riconquista della Costituzione del ’48.
Nel caso di vittoria del No si aprirebbe una fase assai incerta. Cosa farà Renzi? Il capo dello Stato varerà un governo del Presidente per fare la legge elettorale comuque necessaria? Riuscirà, Renzi, a mantenere la presa maggioritaria sul PD?
Negli ultimi anni ad Hollywood echeggia una chiamata alle armi generale. Da quando il fallimento della Lehman Brothers e il sostanziale innesco di una crisi capitalistica strutturale ha reso chiaro a tutti, soprattutto ai cosiddetti poteri forti e alle élites statunitensi, che nessuna retorica, per quanto ben costruita, potrà mai riavvicinare i consensi delle masse alla governance di boards bancari, politici, finanziari ecc., un appello patriottico a difendere il modello del “self made man” e la connessa favola fondatrice della “terra delle opportunità” è stato recapitato a scenografi, registi e produttori. L’ora delle decisioni irrevocabili e del patriottismo militante ha indotto l’industria degli Studios a mettere in moto una sorta di spin-doctoring cinematografico, cercando di rianimare le languenti sorti di un modello capitalistico ormai in disfacimento.
Tre recenti pellicole confermano questa operazione di maquillage retorico: Joy di David Russell, Money Monster di Jodie Foster e The Big Short di Adam McKay.
Comune a questa triade filmica è il desiderio, esplicito piuttosto che latente, di spostare sempre di qualche metro le responsabilità della crisi, della povertà dilagante, della ripartizione sperequativa della ricchezza e del restringimento degli spazi di solidarietà.
«Trump è stato capace di dare una forma nazionalistica, razzista e interclassista agli immaginari e ai discorsi di un gruppo sociale proprio perché nessuno è stato capace di dargli una forma conflittuale». Un primo commento a caldo sul voto USA
“Questo è il prezzo da
pagare per non aver affrontato i costi reali della
deindustrializzazione e della globalizzazione che è avvenuta
negli Stati Uniti negli ultimi
35-40 anni e per non aver capito quanto questa abbia avuto
un impatto sulla vita delle persone e abbia scavato delle
ferite profonde: al punto che la
gente vuole qualcuno che gli dica di avere una soluzione. È
questo quello che fa Trump: dare risposte semplici a
problemi molto complessi.
Risposte sbagliate a problemi molto complessi. E questo può
essere molto seducente”.
Sono le parole non di un analista politico ma di Bruce Springsteen che in un’intervista di qualche settimana fa a Rolling Stone (nella quale poi bollava Trump come un “deficiente” e un “white nationalist”) dava inconsapevolmente la migliore interpretazione ante-litteram di quello che poi sarebbe successo ieri sera con le elezioni presidenziali americane.
Ma la stessa cosa l’aveva scritta anche Sandro Portelli qualche giorno fa su il manifesto (“I lavoratori americani dimenticati dai democratici”, 6 novembre) parlando di come ormai da molto tempo il Partito Democratico americano abbia abbandonato i luoghi dal lavoro e della classe e di come l’America liberal, e il suo messaggio sempre più urbanizzato e sempre più declinato su simboli e consumi “culturali”, consideri la figura del lavoratore bianco, maschio, rurale come “altro da sé” consegnandolo di fatto al discorso reazionario della destra repubblicana.
In ricordo di Luciano Mechelli, giovane filosofo e intellettuale proletario del quartiere di Panìco, a Piazza Navona
1.
Oltre
il blocco heideggeriano
Antropologia e politica appaiono indistricabimente connesse. La loro connessione è la medesima che dire: individuazione e socializzazione fanno tutt’uno. Nel senso che ormai non si può più tornare indietro dalla coscienza definitivamente acquisita della loro congiunta valorizzazione, come due faccie della medesima questione. La politica quale esercizio del potere, quale tecnica della governamentalità, in questa sede non credo possa interessarci. Non può interessarci cioè, in quanto sterile di futuro, la concezione che già Trasimaco esponeva della politica, nel I° libro della Repubblica platonica, come l’utile del più forte, o nel significato contemporaneo di governance, quale tecnica istituzionale di mediazione tra interessi tutti legittimamente presupposti: ossia della regolazione tra poli della cittadinanza tutti legittimati come soggetti presuntivamente autonomi e differenziati da una comune divisione sociale del lavoro.
Politica può significare, a mio avviso, solo politeia, quale partecipazione di tutti i cittadini alla produzione del bene comune e, nell’orizzonte di questo bene comune, destinazione e realizzazione del non-comune, quale affermazione della differenza d’esistenza d’ognuno, quale riconoscimento cioè del più proprio, e irriducibile a quello di altri, progetto di vita.
Come spiegare il fatto che al cospetto del
disastro della Prima guerra mondiale Lenin si sia ritirato
per dedicarsi allo studio
della Logica di Hegel? Si tratta di un
interrogativo che non ha cessato di turbare il marxismo del
primo dopoguerra. Secondo
Stathis Kouvelakis, svelare l’enigma dei Quaderni
filosofici di Lenin, manoscritti frammentari ed
eterogenei, equivale a
pensare questo testo come una rettifica del pensiero del
movimento operaio europeo. Vero e proprio presupposto alla
sua riflessione strategica, la
quale condurrà all’Ottobre 1917, il lavoro di Lenin segna un
rigetto del positivismo, del meccanicismo e del materialismo
volgare della
Seconda internazionale. Tale ritorno a Hegel implica una
rinnovata istanza rispetto alla dimensione pratica della
conoscenza, alla dialettica di salti
e inversioni, o ancora, all’attività in quanto processo
sociale. Di fronte al crollo della socialdemocrazia, alla
necessità
di una ripresa, una deviazione nel campo della teoria si
rende talvolta indispensabile al fine di poter ricominciare.
* * * *
Il disastro
Irruzione del massacro di massa nel cuore dei paesi imperialisti dopo un secolo di relativa «pace» interna, il momento della prima guerra mondiale è anche quello del crollo del suo oppositore storico, il movimento operaio europeo, essenzialmente organizzato nella Seconda internazionale.
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Christian Laval e Pierre Dardot: La crisi è diventata un modo di governo
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Noi Saremo Tutto: La riforma costituzionale e l’Unione Europea
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"Generazione Erasmus o Working Poor Generation? Ce lo chiedevamo a fine giugno qui, in seguito al risultato della Brexit e del dato del voto giovanile (ben diverso da quanto emergeva dai mega titoloni di certa stampa). Ce lo chiediamo di nuovo oggi dopo la vittoria di Trump, continuando a cercare di capire la nostra pancia per conoscere le risposte di cui abbiamo realmente bisogno." [Noi Restiamo]
La disoccupazione ha raggiunto
livelli
senza precedenti in Europa occidentale. I salari sono in
discesa e si intensificano gli attacchi all’organizzazione dei
lavoratori. Nel 2013
quasi un quarto della popolazione europea, circa 92 milioni di
persone, era a rischio povertà o di esclusione sociale. Si
tratta di quasi 8,5
milioni di persone in più rispetto al periodo precedente la
crisi.
La povertà, la deprivazione materiale e il super-sfruttamento tradizionalmente associati al Sud del mondo stanno ritornando anche nei paesi ricchi d’Europa.
La crisi sta minando il “modello sociale europeo”, e con esso l’assunto che l’impiego protegge dalla povertà. Il numero di lavoratori poveri – lavoratori occupati in famiglie con un reddito annuo al di sotto della soglia di povertà – è oggi in aumento, e l’austerità peggiorerà di molto la situazione in futuro.
Alcuni critici sostengono che l’austerità è assurda e contro-producente, ma i leader europei non sono d’accordo. Durante l’ultima tornata di negoziati con la Grecia l’estate scorsa, Angela Merkel ha dichiarato: “Il punto non sono alcuni miliardi di euro – la questione di fondo è come l’Europa può restare competitiva nel mondo.” C’è del vero in tutto questo. Quello che la Merkel non dice è che i lavoratori in Europa, nel Sud dell’Europa in particolare, competono sempre di più con i lavoratori del Sud del mondo.
Elisabetta Teghil,
femminista, da
sempre si occupa dell’intreccio delle oppressioni di
genere/razza/classe con particolare attenzione a come si
rappresentano in questa
società. E' architetto, non architetta perché «se la lingua
[…] e convenzione e istituzione, ma anche biologia ed
evoluzione, ma anche ontologia ed identità, davvero e
sufficiente osservare le raccomandazioni che prescrivono
aggiustamenti grammaticali che
rendano giustizia all’ignorato genere femminile? Oppure e
questa una soluzione tipo “pari opportunità”, quella sorta
di
“leggi speciali” per donne, dove il doverle concepire
significa che si continua ad agire a valle e non a monte.
Cose che effettivamente
cambiano assai poco, modificano l’apparenza ma non la
sostanza» (Dumbes - feminis furlanis libertaris, La
lingua come
istituzione, in Coordinamenta femminista e lesbica, a
cura di, Il personale è politico, il sociale è privato.
Contro la
violenza maschile sulle donne, Roma, 2012, p. 32).
Autrice di Ora e qui. Lettere di una femminista, Bordeaux, 2011; Il sociale è il privato, Bordeaux, 2012 e Coscienza illusoria di sé, Bordeaux, 2013. Scrive abitualmente sul blog coordinamenta.noblogs.org , ed ha una rubrica fissa, La Parentesi di Elisabetta, nell’ambito della trasmissione I nomi delle cose su Radio Onda Rossa.
* * * *
Questo numero di «Zapruder» esplora il complesso rapporto tra capitale e città, quale e secondo te il ruolo che il capitale gioca all’interno delle aree urbane e dei conflitti che in esse si sviluppano?
1. Le due vie
dell’immaginario neoliberale e la loro tensione
La questione dell’immaginario neoliberale si è fatta urgente: se non mancano le analisi critiche del neoliberalismo definito come teoria economica propria della fase attuale del capitalismo mondializzato, resta inesplorata la misurazione dell’efficacia di questa teoria sulle attitudini, le rappresentazioni, le pratiche delle masse dominate e sfruttate che avrebbero «interesse» al cambiamento della loro situazione e che nonostante ciò mantengono gli schemi di pensiero e i modelli di condotta prodotti da questo capitalismo e teorizzati dal neoliberalismo. La ragione è qui paralizzata da una «ragione» opposta che sa rendersi sensibile e farsi desiderare o accettare a dispetto di tutto. Il pensiero neoliberale ha investito l’immaginario e paralizzato in tal modo il pensiero critico togliendogli i mezzi di una sensibilizzazione immaginativa. È difficile far vivere l’idea che un altro mondo in questo mondo sia possibile e ancor più difficile è produrre immagini matrici di questo mondo possibile e sperato. La potenza dell’utopia sembra prosciugata e resa impossibile. In cosa consiste questa efficacia? Quali forme prende questo immaginario? Quali prospettive concrete sono aperte a una critica che ha come criterio l’aumento della potenza di pensare e d’agire di ciascuno considerato allo stesso tempo nella sua singolarità e nei rapporti che lo legano a dei «comuni»?
I Big Data rafforzano diseguaglianze e discriminazioni. Le analisi delle filosofe Cathy O’Neil e Wendy Chun. Il video della ragazza postato in Rete è l’inizio di una valanga di insulti che la portano a suicidarsi. Una matematica scopre che le sue formule fanno cacciare donne e uomini dalle loro case
Nell’ultimo libro di Don DeLillo Zero K (Einaudi, il manifesto del 7 ottobre) il ricchissimo capitalista Ross Lockhart finanzia Convergence un’impresa che si propone di interrompere il processo della morte per un gruppo privilegiato di esseri umani. L’idea è semplice e già adottata in pratica: ibernare i corpi per sospendere la morte in attesa che la tecnologia produca gli strumenti che consentiranno loro di riprendere a vivere, o a un’altra più potente loro proiezione di sopravvivere in eterno. Il freddo oltretomba dove sono contenuti i non-morti, ma non più vivi, è visitato dal figlio dell’imprenditore, Jeff, voce narrante del romanzo, che ne attraversa gli spazi in una discesa agli inferi moderna, descrivendo grandiosità e orrore sprigionati dall’esperienza. Una terra di mezzo tra vita e morte che si prefigge il completo controllo e la prevedibilità di ogni avvenimento, la sottrazione dalla storia e dall’indeterminatezza dell’esistenza con il suo carico di dolore, morte, perdita, incertezza degli accadimenti.
Dal blog Russeurope i commenti a caldo dell’economista francese Jacques Sapir sulla vittoria di Donald Trump alle elezioni americane e le sue conseguenze per gli Stati Uniti e il mondo. Una rivolta delle classi popolari contro le élite e una lezione di realtà per l’intero ceto politico, anche in Europa. I leader europeisti mostrano di vivere in una bolla di illusioni, da dove non comprendono più l’evolversi della storia. Situazione pericolosissima, conclude Sapir, quella in cui le élite culturali e politiche si aggrappano a una realtà superata e smentita dai fatti: ma non è affatto sicuro che questa lezione verrà imparata
La vittoria di Donald Trump ha scosso gli Stati Uniti e ha sorpreso il mondo. Riflette il montare di un’ondata di rabbia della classe popolare contro le cosiddette “elite”. Firma una reazione storica contro la frattura sociale, ma anche ideologica e culturale, degli Stati Uniti, che ha visto lo sviluppo di una politica, ma anche di media, “fuori dal mondo”. Gli stessi media che hanno condotto una campagna isterica in sostegno di Hillary Clinton oggi sono stati brutalmente smentiti. Dovrebbero imparare la lezione; non è sicuro che lo faranno.
Una vittoria, una sconfitta, un rimpianto
Ci sono stati, è evidente, toni razzisti nella campagna elettorale di Donald Trump, ma gli osservatori che si sono attaccati solo a questo e non hanno voluto vedere altro hanno dimenticato l’essenziale: il montare da mesi di una onda di piena contro la “finanza”, contro Wall Street.
Il funerale del mainstream occidentale è stato celebrato ufficialmente ieri con la vittoria campale di Donald Trump. Infatti tutti i commentatori delle grandi catene televisive dell'Occidente (e, di conseguenza, quelli che hanno invaso le reti tv italiane) erano in lutto profondo.
Per settimane, mesi, ci hanno venduto la signora Clinton come futura, inevitabile vincitrice. Tutti i sondaggi l'hanno data sistematicamente in testa. I duelli televisivi con Donald erano tutti vittoriosi per lei.
La demonizzazione di Trump è proseguita, su scala nazionale e internazionale, rilanciata obbedientemente da tutto il mainstream.
E, per aumentare la dose, tutte le catene televisive dell'Occidente hanno pappagallescamente ripetuto (ovviamente senza curarsi di effettuare alcun controllo sulle fonti) che la Russia, Putin in persona, era all'origine della pubblicazione delle mail compromettenti che riguardavano la candidata democratica.
In tal modo si prendevano due piccioni con una fava: si qualificava Trump con un traditore della nazione americana (combutta con il nemico) e si accusava la Russia di interferenza negli affari interni degli Stati Uniti.
La vittoria di Donald Trump è l’effetto della rivolta dell’America profonda contro le élites finanziarie e industriali della costa est e di quella ovest, contro le banche, contro la borsa, contro la globalizzazione che si traduce in prodotti cinesi a basso costo che tolgono pane e lavoro, contro i bugiardi delle televisioni e dei giornali. Ma non è una rivoluzione, anzi. La vittoria di Trump è la rivincita del capitalismo industriale, agricolo, immobiliare duramente colpito dalla crisi del 2007 e soprattutto del 2009 e delle classi sociali che più di tutte hanno sofferto per queste crisi. La middle class americana, che ha interpretato per decenni il ruolo di protagonista del “sogno americano” è svilita, abbattuta, impoverita, impaurita e sconfitta. È anche disgregata al suo interno ed ha perso ogni entusiasmo ed ogni capacità di proporsi come guida del paese. Ma ha avuto il suo colpo di coda ed ha eletto Donald Trump suo alfiere e guida contro coloro che, certamente a ragione, considera i suoi nemici mortali, i banchieri, i gestori dei fondi americani, i cocainomani di Wall Street, l complesso industriale militare, i petrolieri americani e arabi, le grandi multinazionali che hanno portato la produzione all’estero, e il codazzo di intellettuali di televisioni, giornali e riviste che li segue scodinzolando, pronti a dire qualsiasi bugia pur di fargli piacere.
È impressionante lo stupore, spesso scioccamente rabbioso, di tanti media, poltici ed “intellettuali” di fronte alla travolgente vittoria di Trump nelle elezioni americane. Facendo zapping, stanotte, tra più maratone televisive sul voto americano, era un susseguirsi di facce inizialmente certe della vittoria della Clinton sulle quali si dipingeva prima la preoccupazione, poi lo sconcerto, poi tanta rabbia e delusione. ” Ma come?- ho sentito affermare da una commentatrice oramai prossima ad una crisi isterica- Stanno votando ed eleggendo il peggio del peggio. Questa gente che elegge Trump è il peggio del peggio della società americana”. Puro delirio. È la democrazia, cara signora, solo la democrazia con le sue regole spesso sconcertanti e brutali.
Il popolo americano, a grandissima maggioranza, ha eletto il candidato che, in questa difficilissima fase storica per quel paese e per il mondo intero, ha ritenuto più credibile. Ed ha lanciato un messaggio chiarissimo di sfiducia alle elites storiche che lo hanno sinora governato, non solo quelle democratiche, ma anche quelle repubblicane. Queste ultime erano già state ampiamente sconfessate nel corso delle primarie che avevano premiato il candidato meno ossequioso ai credi del partito di Bush o di Reagan. È stato votato un uomo e le sue idee, il suo sogno di un’America capace di tornare protagonista e ricca, terra di opportunità.
Per l’economista la
sconfitta della Clinton segna la crisi di quel modello di
consenso che metteva le macchine elettorali democratiche e
socialiste al servizio degli
interessi della grande finanza. Ma la Trumpnomics
determinerà un imponente trasferimento di reddito a favore
dei ceti più abbienti. E se
Trump continuerà a pretendere dalla FED un rialzo dei tassi
d’interesse, ci saranno pesanti ripercussioni per l’Eurozona
e anche
per la Russia dell’amico Putin.
Come interpretare la storica vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane? Per l’economista Emiliano Brancaccio siamo di fronte alla prima, vera incarnazione di quella nuova onda egemonica che egli ha più volte definito “liberismo xenofobo”, e sulla quale da tempo lancia l’allarme. Con Brancaccio discutiamo dell’esito delle elezioni statunitensi, della carta Sanders che i democratici non hanno voluto giocare, delle ricette economiche di Trump e dei loro possibili effetti sui rapporti tra gli Stati Uniti e il resto del mondo.
* * * *
Professor Brancaccio, Hillary Clinton esce duramente sconfitta dalle presidenziali americane. Il risultato viene interpretato come una disfatta per il partito democratico statunitense, ma anche le forze democratiche e socialiste europee sembrano accusare il colpo. Possiamo parlare della fine di quel “liberismo di sinistra” che era stato inaugurato da Bill Clinton nel 1992 e al quale molti in Europa hanno cercato di ispirarsi?
In the day we sweat it out on the streets of a
runaway American dream
At
night we ride through the mansions of glory in suicide
machines
Sprung
from cages out
on highway nine,
Chrome
wheeled, fuel injected, and steppin’ out over the
line
H-Oh,
Baby this town rips the bones from your back
It’s a
death trap, it’s a suicide rap
We gotta get out while we’re young
‘Cause
tramps like us,
baby we were born to run”
Bruce Springsteeen, Born to run
Sharing Economy, Gig Economy, Big Data Economy, Collaborative Economy, Crowdfunding Economy. Quando ci troviamo di fronte a diverse terminologie per indicare un fenomeno socio-economico, di solito significa che tale fenomeno o è molto complesso o non è ancora classificabile nelle categorie concettuali tradizionali. La complessità sta nel fatto che tali termini si riferiscono ad un insieme di pratiche differenziate che tagliano trasversalmente vari settori produttivi, caratterizzati da modalità organizzative e tecnologiche altrettanto differenti.
1. Da dove partiamo
Nel mondo in cui viviamo gli eventi e le informazioni viaggiano a una velocità sorprendente e non è sempre facile orientarsi. Guerre, caduta delle quotazioni di borsa, rialzo dello spread, cambi di governo, crisi diplomatiche, riforme del mondo del lavoro, disastri naturali, immigrazione, rallentamento della produzione industriale, aumento della disoccupazione: notizie che ci giungono e spesso ci appaiono come sconnesse fra di loro, in quel caotico vortice che sembra essere il presente. Eppure crediamo che sia possibile “venirne a capo”, innanzitutto individuando alcune domande che vadano nella direzione di trovare l’interconnessione fra tutti questi fenomeni: quale è l’origine la situazione attuale? Come si è generata la crisi? Quali sono i soggetti in campo nella gestione della crisi, e per conto di chi? Che effetti provocano le loro scelte nello scenario globale e nel nostro paese? Si tratta certamente di domande che richiedono risposte articolate che non si possono risolvere in poche pagine, ma dalle quali possiamo estrapolare qualche punto fermo per orientarci se vogliamo agire in direzione di un cambiamento e di alternativa da generazione cresciuta dentro questo nuovo contesto.
1.1 Crisi
Dopo la dissoluzione dell’URSS nell’89-’91, sembrava aprirsi uno scenario privo di conflitti e di rilancio dell’economia capitalista.
L'ironia della vittoria (di misura) di Donald Trump nelle elezioni presidenziali consiste nel fatto che chi ha perso è il candidato "sicuro" dei democratici, di Wall Street e degli strateghi del capitale. Ora si ritrovano con una mina vagante che devono cercare di imbrigliare.
Trump ha vinto perché un numero (appena) sufficiente di persone è stufo dello status quo. A quanto pare il 60% dei votanti ha chiesto alle urne che si valuti il fatto che il paese "si trova sul binario sbagliato" e che due terzi sono stanchi e arrabbiati con il governo di Washington - qualcosa che la Clinton personifica.
Come il voto dei britannici per il Brexit, contro ogni aspettativa, un numero sufficiente di votanti in America (soprattutto bianchi, anziani, con piccole attività o lavoratori nelle piccole industrie in via di fallimento nei più piccoli Stati centrali degli Stati Uniti) ha battuto il voto dei giovani, più istruiti e più agiati e residenti nelle grandi città. Ma ricordiamoci che si tratta di circa poco più del 50% degli aventi diritto al voto. Un enorme fetta di persone in America non ha mai votato alle elezioni, e sono quelli che costituiscono una parte considerevole della classe operaia.
Si possono anche ridurre i cori della Leopolda a un eccesso di spirito fazioso. O leggere i toni di Matteo Renzi come un’esagerazione espressiva di un leader che gioca a indossare la maschera del bullo. Così però si evita il cuore della questione, che non riguarda una vampata di calore del pubblico o un’ambigua psicologia del capo.
Esiste un nesso tra l’ideologia originaria del renzismo (la rottamazione) e la recita aggressivo-denigratoria che si ripete con regolarità. Questo collegamento sfugge a Marco Travaglio che, pur essendo uno dei bersagli delle intemperanze (non solo) verbali del premier, tende a salvare il moto primitivo della rottamazione, come pratica ispirata a valori d’innovazione positivi, poi smarriti nella gestione del potere. Non esiste però una bella promessa di rottamazione che poi è andata tradita. Quello che va in scena nei teatri, in parlamento, al Nazareno è precisamente lo spirito inverato della riconduzione del nemico a un ammasso di cose-corpi insignificanti, da annichilire. È insita nell’ideologia della rottamazione la conquista degli spazi di potere in nome dell’energia, della volontà di azzerare ogni residuo di diversità percepito come fattore di disturbo.
Chi agita la rottamazione come simbolo identificante, una volta conquistato lo scettro, rinuncia ad ogni discussione entro gruppi dirigenti plurali.
Gli economisti mondiali stanno lottando con qualcosa che trovano difficile da spiegare. Com'è che i prezzi delle azioni hanno continuato ad aumentare nonostante il fatto che quella cosa chiamata crescita sembri stagnante? Nella teoria economica mainstream, non dovrebbe funzionare così. Se non c'è crescita, i prezzi di mercato dovrebbero declinare, stimolando di conseguenza la crescita. E quando la crescita torna, allora i prezzi di mercato dovrebbero salire di nuovo.
I fedeli di questa teoria dicono che l'anomalia è un'aberrazione momentanea. Alcuni negano addirittura che sia vera. Ma ci sono altri che considerano l'anomalia una sfida importante alle teorie mainstream. Questi cercano di rivisitare le teorie perché tengano conto di quella che molti ora chiamano “stagnazione secolare”. I critici includono varie persone importanti, tra i quali alcuni premi Nobel. Ci sono tra loro pensatori tra loro molto differenti, come Amartya Sen, Joseph Stiglitz, Paul Krugman, e Stephen Roach.
Mentre ciascuna di queste persone ha una linea argomentativa diversa, condivide le stesse convinzioni. Tutti credono che quello che fanno gli stati ha un grosso impatto su quello che succede. Tutti pensano che l'attuale situazione è insana per tutta l'economia e che questo ha contribuito a un significativo aumento della polarizzazione dei redditi reali.
Angelo d’Orsi non ha bisogno di presentazioni. Non per i lettori di MicroMega, rivista con la quale collabora da quasi dodici anni. Professore di Storia del pensiero politico contemporaneo, d’Orsi, lo scorso anno, ha ideato e organizzato a Torino il convegno “Aspettando il Sessantotto”, sotto le insegne della sua rivista «Historia Magistra» e del GRID (Gruppo di ricerca sulle idee politiche) da lui creato in seno al Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino. Da quel convegno sta nascendo un volume, curato da Francesca Chiarotto, per l’Accademia University Press.
* * * *
Il Sessantotto. Una rivoluzione incompiuta?
No. Fu una vera rivoluzione, pur senza aver conquistato il potere politico. Il movimento scardinò ampiamente, benché non completamente, le casematte istituzionali e culturali del “sistema”, per usare l’espressione in voga al tempo. Come tutte le rivoluzioni, anche questa innescava una controrivoluzione che alla lunga ha vinto, senza però riuscire a cancellare tutti i risultati raggiunti dal movimento.
Per alcuni non era altro che un pigro conformismo di massa manovrato dai «ragazzi» della borghesia.
Il Sessantotto, non diversamente da altri eventi epocali di sommovimento, raccolse in sé un po’ di tutto; come in ogni rivoluzione, vi furono i balordi, i confusionari, gli opportunisti, persino i lestofanti, e coloro che seguirono in modo pedissequo i “capi” senza esercitare il minimo senso critico.
Continuo a leggere e rileggere il testo sul quale si sarebbe creato dentro il Pd un accordo per la modifica dell'Italicum, per trovare almeno le ragioni che hanno portato gli autori a partorirlo e a firmarlo. Intendo le ragioni interne al testo. Quelle di contesto mi erano chiare fin dall'inizio. A Renzi serviva qualche cosa che senza impegnarlo nell'immediato in modo cogente, dividesse la minoranza interna al suo partito e comunque portasse voti verso il Sì, visto che la congiunzione tra la revisione costituzionale e l'Italicum è indigeribile ai più.
Al presidente del Consiglio poco importa che l'Italicum è stato votato con tre voti di fiducia. Prassi discutibile già in sé. Ma logica vorrebbe che quella fiducia venga meno se il testo della legge su cui è fondata viene modificato. Ma come sappiamo Renzi è uomo assai disinvolto e per perseguire un obiettivo non guarda per il sottile. Tuttavia il lodo firmato anche da Cuperlo per una parte è generico e fumoso, per un'altra inapplicabile se dovesse venire confermata la legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi, cosa che mi auguro il referendum smentisca.
Vediamo più da vicino. All'inizio si parla di una verifica su premio di lista/premio di coalizione; ballottaggio/turno unico; modalità di espressione della volontà degli elettori sugli eletti.
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Di tutti i temi trattati da Engels,
ormai
centotrenta anni fa, nell’Origine della famiglia, della
proprietà privata e dello Stato, quello
dell’oppressione delle
donne è senza alcun dubbio tra quelli ancora oggi più carichi
di implicazioni. Le femministe più coerenti, in effetti, hanno
sempre ritenuto di doversi appoggiare su una chiara
comprensione delle cause e dei meccanismi di ciò contro cui
lottavano. Ora, dopo la
redazione dell’opera di Engels, le conoscenze allora ancora
balbettanti circa le società primitive e la preistoria sono
avanzate a passi
da gigante, rendendo effimeri non pochi sviluppi. Col presente
scritto, dunque, ci si propone di indicare lungo quali assi
andrebbero aggiornate
le argomentazioni marxiste riguardo questa tematica, alla luce
delle scoperte accumulatesi da allora (1).
Le posizioni marxiste tradizionali
Nel corso della seconda metà del XIX secolo, nel momento in cui l’archeologia e, ancor più l’antropologia, iniziavano a malapena a costituirsi in quanto scienze, una serie di indizi concordanti militavano a favore del’idea secondo la quale il dominio maschile non era sempre esistito. Johann Jacob Bachofen (1861), mobilitando al contempo l’analisi dei miti degli antichi greci e alcuni elementi archeologici, giungeva alla conclusione che, prima delle epoche storiche, note per il regno indiscusso del sesso maschile, le società greche – e al di là di queste, tutte le società umane – avevano attraversato un lungo periodo segnato dal «diritto materno». Era diffusa anche la convinzione secondo la quale tale matriarcato primitivo, prima di venir rovesciato dagli uomini, fosse culminato in una forma suprema e militarizzata, il cosiddetto amazzonato.
Riforme, democrazia,
governabilità e inganni. Ne parliamo con una voce fuori dal
coro, un uomo che per 46 anni
è stato nelle Forze Armate e oggi si definisce molto
progressista. Ci racconta di una legge ‘immaginaria’ e di un
Parlamento
‘defraudato’, di una maggioranza non rappresentativa del
Paese e di una ‘guerra fredda interna’ all’Italia. Di spazi
informativi pubblici a favore del marketing governativo e di
una grande festa della dis-unità a cui, volenti o no, siamo
tutti
invitati.
* * * *
D. Generale Fabio Mini cosa pensa delle riforme costituzionali?
R. Non sono contrario alle riforme costituzionali, ma sono nettamente contrario a questa riforma. Respingo il sillogismo che chi vota “sì” vuole un’Italia “efficiente, stabile e responsabile, e quindi capace di esercitare il suo ruolo in Europa” e chi vota No vuole “un’Italia idiosincratica ed eccentrica, eternamente prigioniera delle proprie ombre”. E’ un sillogismo apodittico che squalifica sul piano intellettuale chi lo propone e offende chi non lo condivide. E’ il primo segnale che la riforma proposta intende dividere gli italiani ed io penso invece che una Costituzione debba unire i cittadini.
D. Il fronte del No è molto variegato e ispirato da ideologie addirittura opposte: come si conciliano?
R. Personalmente, mi schiero con il No proposto da un Movimento di cittadini e non da un partito, mi riconosco negli idealisti e non negli ideologi, nelle persone responsabili che pensano al futuro dell’Italia unita e non in coloro che operano per dividerla ulteriormente e intendono affondare la nave per assumere il comando di una scialuppa.
Sappiamo
che c’è soltanto un valore d’arte e di verità: la “prima
mano”, l’autentica novità di ciò
che si dice, la “piccola musica” con cui la si dice. Sartre
è stato questo per noi (per la generazione che aveva
vent’anni al
momento della Liberazione). Chi seppe dire qualcosa di nuovo
(nouveau) allora, se non Sartre? Chi ci insegnò dei
nuovi modi di
pensare? Per quanto fosse brillante e profonda, l’opera di
Merleau-Ponty era professorale e per molti aspetti dipendeva
da quella di Sartre
[...] I temi nuovi [...], un certo nuovo stile, una nuova
maniera polemica e aggressiva di porre i problemi venivano
da Sartre. Nel disordine e nelle
speranze della Liberazione si scopriva e si riscopriva
tutto: Kafka, il romanzo americano, Husserl e Heidegger, le
infinite riarticolazioni del
marxismo, lo slancio verso un nuovo romanzo [...] Tutto è
passato per Sartre, non solo perché, in quanto filosofo,
aveva il genio della
totalizzazione, ma perché sapeva inventare il nuovo (inventer
le nouveau).
Gilles Deleuze, “È stato il mio maestro”
[...] la negazione non è semplice distruzione della determinazione ma momento subordinato alla libera produzione di qualcosa di completamente “nuovo” (nouveau). Non è la semplice distruzione del marmo per negazione della sua forma data che darà la statua [...] Il momento essenziale è quindi la “creazione”, cioè il momento dell’immaginario e dell’invenzione (invention).
Jean-Paul Sartre, Quaderni per una morale
[...] in talune circostanze, un gruppo in fermento nasce e opera là dove non c’erano che assembramenti e, attraverso tale effimera formazione sociale, ciascuno intravede statuti nuovi (statuts nouveaux) (il Terzo Stato come gruppo con l’aspetto della nazione, la classe come gruppo in quanto produce i suoi apparati di unificazione, ecc.) e più profondi ma “da creare” [...]
Un Senato non-eletto, composto da una cricca di notabili delle regioni. Una Camera ai comandi dei governi, che si scelgono presidenti della repubblica e corti costituzionali. Accentramento di competenze ora regionali, come energia e ambiente. Via gli strumenti di democrazia diretta come i referendum abrogativi. “Governabilita’” insomma.
Governo forte. Forte perche’? E con chi?
C’e’ tanta propaganda sul referendum del 4 dicembre. Renzi mente. Non saranno ridotti i costi della politica, la “semplificazione” non e’ un gesto d’amore verso i cittadini. Sul fronte del no, Berlusconi e D’alema farebbero in realta’ una riforma come quella di Renzi, o peggio. Grillini e Lega si sperticano per il “popolo”, ma non fanno i suoi interessi. Grillini e Lega corteggiano Trump e il leader del movimento di ultra-destra britannica Farage, gente che il “popolo” lo usa e poi lo butta via.
La propaganda fa schifo. Ma noi, lavoratori, giovani, immigrati, dobbiamo capire qual’e’ la posta in gioco con la riforma costituzionale. Perche’ la posta in gioco e’ grande per noi.
Dietro la riforma ci sono dei poteri forti: il governo USA, l’UE, la finanza internazionale.
Due saggi sul ruolo emergente della logistica. La filosofia politica e della Rete alle prese con l’inedito potere costituente della logistica. Giorgio Grappi e Ned Rossiter analizzano come cambiano gli Stati con le «nuove via della seta»
C’è stato un tempo in cui intraprendenti mercanti si mettevano in viaggio per raggiungere posti lontani per poi tornare carichi di merci pregiate da vendere. Nei loro diari, novelli tripadvisor, descrivevano i percorsi, le tappe, i luoghi dove pernottare e mangiare, ma anche le insidie, i pericoli, i pedaggi da pagare. Un lettore de Il milione di Marco Polo ricorda sicuramente che anche il mercante veneziano annotava notizie e commenti sui paesi che scopriva. L’esotismo svolge un ruolo centrale in quel libro, ma rilevanti sono invece le riflessioni politiche, sociali, financo antropologiche che Marco Polo – o chi per lui – fa delle realtà incontrate. Il suo diario è da considerare una vera e propria Odissea della merce. Eppure con quel libro, l’espressione «via della seta» perdeva il sapore esotico che l’accompagnava per diventare l’esempio della prima gestione logistica del territorio che faceva proprie le compatibilità politiche – e la logica di potenza – nei rapporti tra imperi e sovranità non ancora statali.
NEL TEMPO, nonostante guerre, invasioni, l’espressione ha perso il suo fascino per poi essere dimenticata, tag di un passato definitivamente archiviato.
L’esito delle elezioni americane con la vittoria di Trump (nonostante abbia avuto un numero assoluto di voti inferiore a quelli ottenuti da Hillary Clinton – alla faccia della rappresentanza) è stata salutata da molti media di sinistra e di movimento con un misto di indignazione per le posizioni apertamente razziste e misogine del magnate americano e con la conferma che la sinistra, spostandosi al centro e strizzando l’occhiolino ai poteri forti delle multinazionali e di Wall Street, è destinata a soccombere. Il motivo sta nell’incapacità di cogliere il disagio e il rancore crescente di una parte del suo popolo lavoratore, oggi indebolito e impoverito dalla crisi economica. Di fronte al “tradimento” della sinistra “riformista”, il populismo ha gioco facile a insinuarsi nell’elettorato della working class, fomentando posizioni protezionistiche, nazionaliste e xenofobe: un populismo che può, secondo alcuni, farsi interprete potenziale di una nuova lotta di classe. Era già successo con il referendum inglese sulla Brexit: si è ripetuto ora con il voto americano, che ha premiato chi ha tuonato contro gli effetti della globalizzazione e del potere della finanza.
Questa lettura ci pare troppo semplicistica. Fintanto che si rimane, infatti, sulla superficie, tale analisi può apparire verosimile e ragionevole ma se si va un po’ in profondità altri elementi devono essere considerati.
Chi ogni tanto si imbatte nella saggistica americana che riguarda l’Europa si accorge molto presto di come il livello di conoscenza fattuale, non tra i farmers dell’Ohio, ma tra le elites intellettuali è molto scarso: superfici, popolazioni, confini sono molto confusi tra persone abituate a diverse scale di grandezza, educate ad un’autoreferenzialità pervasiva, a una monocoltura linguistica noncurante e dunque quasi mai in grado di accedere alle fonti originali e tutto sommato consapevoli di parlare di un territorio soggetto all’autorità di Washington. Anzi l’ignoranza americana è quasi una tradizione il cui primo esplicito manifestarsi si può far risalire all’ ich bin ein Berliner di Kennedy che detto così significa più che altro sono una salsiccia, incidente linguistico che naturalmente fin da subito fu sottratto anche al sorriso più benevolo e incorporato nella vasta discarica del nascondimento.
Così non c’è nulla di particolarmente strano che Trump abbia definito nel giugno scorso il Belgio “una bellissima città” dimostrando in effetti non conoscere quel Paese altrimenti avrebbe detto che è una tristissima città. Ma questo è bastato a Jean Claude Juncker, presidente della commissione europea e soprattutto geloso custode delle sue cantine, per far esplodere a mesi di distanza dalla quella infelice dichiarazione, la furia delle elites oligarchiche contro lo sgarbo fatto dagli americani non scegliendo la Clinton: “Penso che rischiamo di perdere due anni aspettando che Donald Trump termini di fare il giro del mondo che non conosce“.
Le proposte di abolire o limitare il suffragio universale sono vieppiù crescenti, e con autorevoli quanto sdegnati testimonial.
Tuttavia esse potrebbero andare incontro a un curioso ostacolo: chi può decidere di abolire o limitare il suffragio universale?
Improbabile infatti che la decisione di abolire il suffragio universale venga presa a suffragio universale.
Intanto, difficilmente la proposta passerebbe. Ma se anche passasse, nel caso tale nuova norma nascerebbe gravida di contraddizioni, in quanto a legittimità: sarebbe infatti stata decisa da un soggetto - l'elettorato universale - che si è appena deciso non essere legittimato per decidere. Quindi ciccia.
Esclusa questa possibilità, per la sua doppia debolezza intrinseca, si dovrebbe pensare ad altre strade.
Ad esempio, che uno più robusto degli altri si alzi un mattino e dica: ohi, da oggi non c'è più il suffragio universale, ho deciso io.
Tecnicamente si chiamerebbe "golpe" e non si può dire che sia esattamente una soluzione innovativa, nel mondo, ma ammettiamo che vada così. Che quindi il suffragio universale venga abolito per imposizione di uno più robusto che ha deciso di abolirlo. A questo punto si aprirebbe un ancor più stimolante dibattito: con che cosa sostituirlo, questo suffragio universale appena abolito?
Una
necessaria premessa introduttiva.
Trump, appena eletto, su domanda di un giornalista,
indica, come futuro segretario del
Treasury, Steven
Mnuchin: questi ha lavorato per 17 anni a Goldman&Sachs,
succedendo al padre in una carriera
pluridecennale presso la stessa banca. Tra
le esperienze lavorative di Mnuchin
anche un periodo presso il Soros
Fund Management,
nonchè la produzione di film, anche importanti, come la
serie X-men e Avatar.
Secondo
Zerohedge, l'alternativa a
Mnuchin sarebbe il "JPMorgan CEO Jamie Dimon":
sottolinea il blog che milioni di supporters di Trump
sarebbero delusi da nomine del
genere, e che "l'unica ragione per cui un banchiere diventa
segretario del tesoro è quella di poter vendere tutte le
proprie stock options, al
momento di assumere la carica pubblica, senza dover pagare
alcuna tassa".
Siano indicazioni fondate o meno, quel che è certo è che Trump non parrebbe, allo stato, disporre "delle risorse culturali" sufficienti per svolgere, anche solo in parte, un programma che include la reintroduzione del Glass-Steagall, la monetizzazione del debito (riacquistando quello già emesso), nonché il por fine alla stagione dei grandi trattati liberoscambisti.
E' pur vero che ove neppure tentasse di far ciò entrerebbe in conflitto con la base sociale (la working class) che lo ha eletto: ma, in compenso, come sottolinea Politico, si vedrebbe "riabilitato" da Wall Street e godrebbe di solidi appoggi bi-partisan nelle Camere.
Dunque, che sia lui il liquidatore del globalismo finanziario e il paladino del ritorno a economie nazionali meno aperte, rimane un punto interrogativo, una supposizione tutta da dimostrare.
Come scriveva Jean Baudrillard nel
2002, (Jean
Baudrillard, La violenza del globalein Power
Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a
dare scacco al sistema nel mondo
attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che
non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che
appartengono
sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, per il filosofo,
sociologo e semiologo francese “di uno scontro quasi
antropologico tra una cultura
universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi
campo, conserva qualche tratto di un’alterità irriducibile”.
Anche se queste parole erano state scritte a seguito di una riflessione sull’allarme suscitato dall’attacco alle Twin Towers nel settembre del 2001, col passare del tempo è diventato sempre più evidente che le interpretazioni dei conflitti sociali e di classe date nel corso del ‘900 non sono più in grado di per sé di spiegare le dinamiche sottostanti ai movimenti reali che si oppongono all’attuale modo di produzione e di dominio e, ancor meno, di determinarne tattiche e strategie.
E’ un intero sistema di categorie e di ideologie che è in qualche modo fallito.
Well, she isn’t no singer
And
she isn’t no star
But she
sure talk good
And she move so fast
But the
gal in danger
Yeah, the
gal in chains
But
she keep on pushing
Rolling
Stones, Sweet black angel
Sull’edizione online del New York Times del 3 Novembre scorso, in un articolo intitolato Voters Express Disgust Over U.S. Politics in New Times/CBS Poll Jonathan Martin, Dalia Sussman e Megan Thee-Brenan hanno sostenuto, sulla base di un recente sondaggio della CBS, che la stragrande maggioranza dell’elettorato americano sarebbe stata, letteralmente, disgustata dalla campagna presidenziale. Otto elettori su dieci avrebbero detto che la campagna elettorale è stata di una volgarità respingente e caratterizzata da una crescente tossicità. Ma, soprattutto, è emerso che “Mrs. Clinton, the Democratic candidate, and Mr. Trump, the Republican nominee, are seen as dishonest and viewed unfavorably by a majority of voters” (sia la Clinton, il candidato democratico, che Trump, il candidato repubblicano, sono visti come disonesti e considerati sfavorevolmente dalla maggioranza dei votanti).
Per un quarto di secolo la sinistra perbene, quella sedicente riformista, benpensante, e socialmente garantita, che si era impegnata a costruire un paradiso in terra sulle ceneri del comunismo ha ripetuto a se stessa e a noi tutti, popolo degli elettori progressisti, che il segreto di una vera e vincente strategia politica stava nella conquista del centro. Le elezioni americane mettono una pietra tombale su questa presunzione, se ce n’era ancora bisogno, e suonano come un campanello d’allarme per tutti coloro che non sono convinti che senza una sinistra forte e caratterizzata sia la stessa stabilità della democrazia ad essere messa seriamente in causa.
In Usa Obama passa la mano direttamente a Trump. Ma è davvero così strano e inaudito? A pensarci c’è una logica forte. Per otto anni il presidente nero non ha fatto altro che cumulare sconfitte alternate da piccole insignificanti vittorie. La parola d’ordine con cui era riuscito a farsi eleggere (Yes we can) non poteva conoscere una smentita più clamorosa. Sia in politica interna che in politica estera l’impotenza e l’incoerenza è stato il tratto distintivo di questa presidenza. Ed è proprio la completa disillusione delle grandi attese di cambiamento riposte per otto anni nel presidente democratico che in definitiva ha aperto la strada alla destra. Ad essere sconfitto è stato il tentativo tardivo e un po’ ingenuo di riproporre il tradizionale messaggio progressista americano in un’epoca in cui erano venute meno le condizioni storiche della sua attuazione.
Secondo il presidente della Commissione Europea Juncker, Trump è un ignorante: sfottò di cui agli elettori nulla importa. Più interessante, invece, il timore che il miliardario possa sconvolgere gli equilibri internazionali. Anche perché al primo posto dei pericoli ci sarà il terrorismo islamico. Quindi, perché non tentare un accordo con la Russia di Putin, impegnata in Siria sullo stesso fronte?
Il violento attacco che Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, ha rivolto al neo-eletto presidente degli Usa, non farà un grammo di danno a Donald Trump (che non a caso ha vinto con lo slogan “America first”, prima di tutto l’America) ma potrebbe rendere ancor più difficili i raaporti tra le due rive dell’Atlantico e più precari gli equilibrii interni alla Ue. Juncker, infatti, ha detto due cose. La prima è che Trump è un ignorante, non conosce l’Europa né il mondo. Uno sfottò, un’offesa di cui agli elettori di Trump nulla importa. E poi, ha aggiunto Juncker, l’elezione di Trump può sconvolgere gli equilibrii internazionali.
Qui le cose si fanno più interessanti. Con il Medio Oriente a pezzi, l’Unione Europea sull’orlo della disgregazione, i flussi migratori senza controllo sia all’origine (dove l’Occidente, che molto spende in guerre, è del tutto assente) sia alla fine (manca una politica collettiva di gestione dei flussi), una crisi economica ancora irrisolta e il rapporto con giganti come la Cina e la Russia tra critico e drammatico, ci piacerebbe sapere di quale “equilibrio” il buon Juncker vada parlando.
“Bulgaria della Nato” è la nota e felice espressione con cui è stata stigmatizzata la sudditanza del “nostro” Stato nei confronti degli Stati Uniti. D’altra parte Aberto Sordi e Nino Carosone hanno insegnato a riderci su questa smania degli italiani di sognarsi americani o meglio più americani degli americani. Dopo più di settant’anni di questa sorta di tossicodipendenza è quanto mai difficile interromperla di colpo.
È a questo però che dovrebbe portare la vittoria di Trump. Uno dei suoi maggiori meriti sta infatti nell’ infrangere questo sogno particolarmente diffuso in Italia (ma anche altrimenti presente in Ue e nel mondo) di “fare gli americani”: di prendere a modello il modello della way of life a stelle a strisce.
La cosa più seducente di questo sogno stava nel cullarsi nell’immagine del modello democratico americano visto come regime socio-biologicamente più evoluto di qualunque altro, malgrado le sue evidenti connotazioni di tipo religioso, puritane e calviniste: un regime fatto di più comunità aperte e concorrenti tra loro nel selezionare gli individui più meritevoli, da un lato, dall’altro, nel discriminare e combattere le comunità incompatibili con tale regime.
Da quando i comunisti italiani sono approdati all’atlantismo più ossequioso non è forse questo il regime modello sognato da tutta la sinistra italiana (e forse europea) o quasi?
Le élite USA han scelto di porre Trump alla guida pro-tempore dell'Impero non perché il sistema sia impazzito, ma perché è sembrato il candidato più adatto
La fine del '900
Tra la sequela di sciocchezze proferite nella notte elettorale americana dai commentatori italiani, specchio provinciale ma non deformato del cretinismo dell'intellighenzia globalizzata, una sola frase mi ha colpito: con il 9 novembre 2016 è definitivamente finito il '900. In realtà il '900 finiva il 9 novembre del 1989, ma ne abbiamo preso atto solo ventisette anni dopo.
Lo spirito dell'Impero
Gli Stati Uniti sono una nazione-impero. Nascono con la missione spirituale di realizzare tale obiettivo messianico e le élite che li governano ininterrottamente da secoli sono votate al compimento di questo "destino manifesto".
I tre passi dell'Impero
Il primo passo fu la creazione della Nazione che i Padri fondatori fecondarono sull'ideale della Nuova Gerusalemme:
Una mostra in un museo è l’occasione per fare il punto sulla ricerca scientifica, per aprire nuove ipotesi di lavoro, per guardare al passato e rivolgergli nuove domande, così da avere un quadro d’insieme completamente diverso da quello classico.
È, dunque, meritorio che il Deutsches Historisches Museum abbia allestito una mostra sul colonialismo (Deutscher Kolonialismus – Fragmente seiner Geschichte und Gegenwart), tema che in Germania – anche per la sua durata tutto sommato limitata, visto che dopo la fine della Prima guerra mondiale le potenze europee si divisero i territori oltremare tedeschi – non è mai stato approfondito con la dovuta attenzione.
La mostra dedica ampio spazio anche ai movimenti di liberazione e a una critica incessante del colonialismo stesso. Bene ma, per quanto la mostra sia molto interessante e ben strutturata, l’operazione, così com’è stata realizzata, appare discutibile.
Innanzitutto, si tratta di una critica a senso unico e, cioè, rivolta all’aggressione «europea» nei confronti delle libere terre oltre il mare. In questo modo, il colonialismo (come pure l’imperialismo che ne deriva) è espunto dai suoi presupposti storici, politici ed economici per diventare semplice testimonianza dell’aggressività dell’uomo (bianco).
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Gary Werskey: La critica marxista della scienza capitalistica: una storia in tre movimenti?
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La vecchia classe
operaia è morta, ma
in qualche momento della sua agonia deve aver eletto il
45esimo presidente degli Stati Uniti d’America.
Impossibile concludere
altrimenti dopo aver assistito alla sequela di commenti che
indicano nella white working class la principale
responsabile della resistibile
ascesa di Donald Trump. Ancora più del suo orientamento
elettorale, è questo eterno ritorno della classe operaia che
lascia sbigottiti.
Non era stata spazzata via da automazione e terziario
cognitivo e condannata all’impotenza sociale? E invece eccola
qui: viva, vegeta, votante e
decisiva nel rovesciare quello che era stato il successo di
Obama negli Stati della Rust Belt per consegnarli a
Trump.
Conviene allora guardarla in faccia questa classe operaia maschia e bianca. Sono davvero questi i fascisti, i razzisti e i maschilisti in cui Trump si specchia compiaciuto? Sono almeno sessant’anni che gli intellettuali liberal americani ci mettono in guardia sulle tendenze autoritarie congenite alla classe operaia. Un modo come un altro per risolvere il loro problema teorico e insieme politico: gli operai, dicevano, erano diventati membri della classe media, ma alcuni di loro presentavano il fastidioso inconveniente di non comportarsi come tali. Quando non si davano alla lotta di classe, preferivano inseguire le manie «paranoidi», bigotte e razziste della destra «pseudoconservatrice» di McCarthy prima e Goldwater poi, la sua logica dell’«identità» bianca e cristiana contro quella dell’«interesse», virtù della ragione che per non meglio precisati motivi farebbe votare democratico.
Un importante articolo di Sapir disegna i
processi mondiali ed europei verificatisi negli ultimi
trent’anni: la fine dell’Unione Sovietica e la
preoccupazione per lo strapotere
degli Stati Uniti hanno spinto la Francia ad avviare una
costruzione europea che però è subito andata fuori dal suo
controllo per
diventare preda della globalizzazione e devastare le
economie e le istituzioni del mezzogiorno europeo;
l’impossibilità degli Stati Uniti
di conservare il ruolo di iperpotenza ha infine messo in
crisi la globalizzazione e sta ricreando la situazione
normale di un mondo diviso in Stati
sovrani che, si spera, cerchino e trovino la via della
cooperazione.
* * * *
La nascita dell’euro risale a un periodo in cui si poteva credere, o almeno avere l’illusione, della fine delle Nazioni. Se le possibilità di una moneta unica per i paesi della Comunità economica europea erano state evocate molto presto, dalla fine degli anni ’60 all’inizio degli anni ’70 e in particolare dal «Piano Werner»[1], è nel 1989 che sono state prese le decisioni che miravano a fare dell’Unione economica e monetaria (UEM), e dunque dell’Euro, uno dei pilastri della futura Unione europea generata dall’«Atto unico» del 1984, e di cui il trattato di Maastricht avrebbe scritto il copione [2].
Sei lezioni di
economia (Imprimatur,
Reggio Emilia, 2016, 17 Euro) di Sergio Cesaratto è un libro
importante che esce in un momento di grande confusione d’idee
e di grande
incertezza economica e politica. La lunga ondata di egemonia
neoliberista che ha devastato il mondo negli ultimi 40 anni lo
ha infine fatto naufragare
nella grande crisi da cui non siamo ancora usciti. E ora il
cittadino disorientato si guarda intorno in cerca di nuovi
strumenti di comprensione della
realtà. Questo libro di Cesaratto gli può essere d’aiuto, sia
perché fornisce un’analisi approfondita della crisi in
corso, sia perché lo fa usando strumenti teorici alternativi a
quelli su cui si fonda l’egemonia liberista.
Il libro si divide in due parti. I primi tre capitoli presentano la ricostruzione storica di un sistema teorico di grande prestigio, che la teoria economica dominante però ha cercato di relegare nel sottomondo dell’eterodossia. Il primo capitolo espone l’approccio del sovrappiù sviluppato da Smith, Ricardo e Marx. Il secondo tratta della teoria neoclassica, versione raffinata di quella che Marx chiamava “economia volgare”. Il terzo si concentra sulla rivoluzione keynesiana. Ma non è un libro di storia del pensiero. Cesaratto presenta l’oggetto della sua ricostruzione come materia viva. Rilegge quella storia con gli occhiali di Marx, Keynes e Sraffa, e approda all’esposizione di un sistema teorico che è “se non del tutto giusto quasi per niente sbagliato”. In questo sistema i redditi non di lavoro sono spiegati non come remunerazioni dei contributi produttivi di fantomatici fattori di produzione, ma come un sovrappiù prodotto dai lavoratori.
I. La legittimità
teorica e pratica della critica radicale del
lavoro
Nella filosofia di Hegel (dialettica del padrone e del servo), nella filosofia kantiana (Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolita), e più tardi nella filosofia arendtiana (La crisi della cultura, Condizione dell'uomo moderno), per citare soltanto i tre contributi più importanti nella filosofia moderna del lavoro, il concetto di "lavoro" viene confuso con un puro e semplice "metabolismo con la natura", vale a dire: con l'atto di trasformare il materiale grezzo presente nella natura al fine di sopravvivere.
Ora, questa essenzializzazione della categoria del lavoro, definita pertanto come categoria "trans-storica", si ritrova innanzitutto nei discorsi ideologici degli economisti "borghesi", che hanno tutto l'interesse a naturalizzare le forme strutturanti il sistema capitalistico, per mantenere il pregiudizio secondo cui tale sistema sarebbe insuperabile. Infatti, nel contesto "teorico", presentare il lavoro come una dimensione "arcaica" o "originale" della vita umana "in generale", come una "attività" propria all'essere umano "in generale", come una componente originale di qualsiasi sopravvivenza umana "in generale", è un modo insidioso di presentare la moderna società delle merci, che ha fatto di questo "lavoro" il suo principio di sintesi totalizzante, come se fosse la realizzazione logica del "destino" dell'uomo.
Molti hanno inteso il trionfo di Donald Trump come il punto di arrivo di una rivolta popolare contro un ordine economico e finanziario finito oramai fuori controllo, tanto quanto la reazione ai disastri che ha prodotto. Svolte analoghe si sono del resto già avute, se si pensa agli attuali governi polacco e ungherese, mentre altre sembrano alle porte: prima fra tutte la presa del potere in Francia da parte del Fronte nazionale di Marine le Pen.
Il trumpismo, inteso come sintesi del lepenismo e dei molti “ismi” assimilabili, è vincente in quanto risponderebbe a una pressante domanda di ripoliticizzazione del mercato, di rigetto dei paradigmi tecnocratici utilizzati per sottrarlo al controllo della sovranità popolare. Una domanda, quindi, di contrasto della globalizzazione e di recupero della dimensione nazionale, l’unica capace di restituire terreno alla sovranità popolare e ostacolare la pervasività del capitalismo.
Se così stanno le cose, ci troviamo di fronte a un notevole riscontro di quanto la reazione alla crisi del 2008 ci stia conducendo verso schemi del tutto simili a quelli che hanno fatto seguito alla crisi del 1929. Le due crisi, cioè, non sono accostabili solo per le dimensioni della miseria sociale che hanno provocato, bensì anche per le soluzioni che hanno ispirato: il moto verso l’edificazione di un ordine fascista.
Ciò che sta succedendo in questi mesi o meglio ciò che comincia a vedersi con sempre maggiore chiarezza è l’inizio di una reazione forte contro il liberismo predatorio sovranazionale. Prima il Brexit, poi l’elezione di Trump sono per così dire l’immagine simbolo di qualcosa che però in modo meno clamoroso sta accadendo ovunque: il pendolo liberista ha già raggiunto l’apice e dopo trent’anni di dominio sta cominciando la caduta trascinato non dalla gravità, ma dalle contraddizioni insite nell’idea di uno sviluppo infinito, di disuguaglianza sociale come motore economico, di profitto incondizionato, di mercato come regolatore assoluto, il tutto tenuto insieme da un’antropologia arcaica e in aperta contraddizione con l’idea stessa di democrazia reale.
Le cose sono ovviamente molto complesse, richiederanno ancora molto tempo e gli esiti sono del tutto imprevedibili, legati alla capacità delle persone di strapparsi di dosso i condizionamenti, di capire e di agire: possono essere di tipo autoritario e in questo senso si muoveranno le elite, soprattutto quelle locali, una volta che dovranno prendere atto del fallimento della globalizzazione, oppure verso democrazie sociali che non si limitino a meccanismi di simulazione rituale della rappresentanza. Come andranno le cose verrà determinato dalle scelte che verranno fatte via via, anche su cose e forze che apparentemente non sono legate a questa dinamica.
Il maiale, la soia, il tonno e il pomodoro. Cosa hanno in comune? Il reportage di Stefano Liberti, I signori del cibo, lo spiega in un Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta. Il viaggio comincia in Cina, dove vengono macellati ogni anno 700 milioni di maiali per il fabbisogno interno. Allevati come polli da batteria, rappresentano, uno ogni due abitanti, un indice di benessere irrinunciabile, sconosciuto nel passato. Come vengono nutriti? Con la soia importata dal Brasile, anzi dal Mato Grosso, «un’enorme monocultura […] sette milioni di ettari». La si produce e raccoglie con le macchine, niente contadini in vista. Poi la soia viaggia, prima in camion, quindi nelle navi mercantili, e finisce all’altro capo del mondo. L’industria alimentare globale punta a una produzione e a un consumo da capogiro, senza interrogarsi sulla qualità, e dietro c’è la finanza che in tale mercato ha trovato, cifre alla mano, investimenti redditizi.
Naturalmente rassicurato non è chi si interroga sul futuro dei consumi carnei a prezzi irrisori, dei maiali e degli uomini. E il tonno ? Pesce migratore, viene preso da mega-pescherecci, nei mari africani o ancora più lontano: «Un pesce catturato da una nave taiwanese nella zona economica esclusiva di Tuvalu nel Pacifico può esser trasportato in una fabbrica thailandese da una nave frigorifera battente bandiera panamense attraverso un contratto da una società di brokeraggio con sede negli Stati Uniti e finire poi in una salade niçoise servita in un ristorante di Parigi».
Con nostra sopresa la breve dichiarazione di B. Sanders del 9 novembre (da noi pubblicata tre giorni fa) ha avuto alcune migliaia di lettori, pensiamo sia utile riportare per intero quanto questi ha scritto due giorni dopo sul New York Times.
Sanders non si pente di aver appoggiato la Clinton —dimostrando chi realmente egli sia— ma è di certo più presente a sé stesso di certi SINISTRI personaggi italiani, uno su tutti, Giorgio Napolitano (toh! chi si rivede, quello degli attentati alla Costituzione..) che ha definito la vittoria di Trump "...uno degli eventi più sconvolgenti della storia del suffragio universale". Fabrizio Rondolino, giornalista iper renziano (ex responsabile della comunicazione di Massimo D’Alema ed editorialista di Europa, de il giornale, della Stampa e oggi de l'unità) è giunto addirittura a scrivere: «ll suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale». Bingo!
"Dove vanno di democratici adesso", questo il titolo originale dell'intervento di Sanders, di cui abbiamo pubblicato un sunto.
* * * *
«Milioni di americani martedì scorso hanno espresso un voto di protesta, ribellandosi a un sistema economico e sociale che antepone ai loro interessi quelli dei ricchi e delle grandi imprese.
In un articolo apparso recentemente
sulla rivista Collegamenti Wobbly, Stefano Capello
ha descritto efficacemente lo straordinario sviluppo della
Grande Distribuzione
Organizzata (GDO) in Italia nel periodo precedente alla
“grande crisi” del 2007/2008. Questo sviluppo ha portato
all’esplosione di
un numero sproporzionato, e a volte demenziale, di punti
vendita (ipermercati e centri commerciali) nelle periferie
delle grandi città. Fra le
cause di questa esplosione Capello elenca:
“la liberalizzazione del commercio con la riduzione progressiva di ogni limite di orario di apertura e di tipologia di vendita, i finanziamenti pubblici volti alla riqualificazione delle aree dismesse dell’industria, la comodità per la criminalità organizzata di utilizzare la GDO come lavatrice per il riciclaggio del denaro sporco”. (1)
Per quanto riguarda le amministrazioni comunali, da quando il settore è stato liberalizzato, nel 1999, le licenze edilizie sono state concesse a pioggia, ma ai Comuni fa anche comodo avere i centri commerciali sul proprio territorio : un ipermercato di grandi dimensioni a Milano paga di IMU e tasse per rifiuti qualcosa attorno al milione di euro all’anno. Sulla opportunità offerta alla criminalità organizzata basta segnalare che nel 2015 l’economia sommersa e illegale in Italia (dall’evasione fiscale al traffico di stupefacenti, dal contrabbando al gioco d’azzardo, alla prostituzione ecc.) ammonta a oltre 200 miliardi di euro, secondo il report dell’ISTAT.
Avevo inizialmente pensato di
lanciarmi, come al solito, in una delle mie lunghissime
analisi per riflettere sulle elezioni americane e sulle
ragioni che hanno portato
all’affermazione di Trump.
Poi ci ho ripensato, per due motivi fondamentali. Il primo che è che mi sto esercitando ad essere quanto più possibile sintetico (anche perché sollecitato da molti in tal senso…). Il secondo perché in effetti le ragioni della sconfitta di Clinton e dei “democratici” e del trionfo di Trump sono tutto sommato molto semplici pur, paradossalmente, nella loro complessità, e la cosa più giusta da fare è soltanto quella di cercare di spiegarle nel modo più semplice e chiaro possibile.
La crescita esponenziale delle destre neopopuliste in America e in Europa è la conseguenza inevitabile di un processo storico-politico che, dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, ha visto la “sinistra”, in tutte o quasi le sue declinazioni (ivi compresa la grandissima parte di quella sedicente “antagonista”), diventare del tutto organica politicamente e ideologicamente al sistema dominante, al punto di essere considerata dai “padroni del vapore” più funzionale e adatta (rispetto alla destra) a garantirne la “governance”. Tutto ciò contestualmente alla scomparsa di una Sinistra di classe, adeguata ai tempi, quindi non statica e non dogmatica, capace di interpretare le contraddizioni vecchie (ma tuttora attualissime) e nuove (in questo caso, quando va bene, si brancola nel buio…) prodotte dal sistema capitalista.
Parola del Governo
Aveva le idee chiare chi
ha scritto il
testo con il quale il Governo ha presentato al Senato, l’8
aprile del 2014, la legge di riforma costituzionale [1].
Ecco come sono state spiegate le ragioni della riforma:
“Lo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea […] e alle relative stringenti regole di bilancio […]; le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale; le spinte verso una compiuta attuazione della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione […], e l’esigenza di coniugare quest’ultima con le rinnovate esigenze di governo unitario della finanza pubblica connesse anche ad impegni internazionali: il complesso di questi fattori ha dato luogo ad interventi di revisione costituzionale rilevanti, ancorché circoscritti, che hanno da ultimo interessato gli articoli 81, 97, 117 e 119, della Carta, ma che non sono stati accompagnati da un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione europea, Stato e Autonomie territoriali, entro il quale si dipanano oggi le politiche pubbliche.” [2] Occorre allora “uno sforzo riformatore lungimirante e condiviso, che sappia tenere assieme in modo coerente le riforme costituzionali, elettorali, dei regolamenti parlamentari e i conseguenti ulteriori interventi sul piano istituzionale, regolamentare e amministrativo”. [3]
Ma, si dirà, queste sono solo belle parole.
Intervenendo sulle pagine del New York Times Bernie Sanders compie una lucida analisi delle ragioni della sconfitta di Hillary Clinton. Trump ha vinto perché la sua retorica elettorale ha saputo sfruttare la rabbia di milioni di ex elettori democratici, esasperati dalle élite del loro partito che ne hanno ignorato bisogni e interessi, che se ne sono fregate del fatto che le persone devono lavorare più ore in cambio di salari più bassi, che milioni di posti di lavoro se ne sono andati in Cina, in Messico o in altri Paesi in via di sviluppo, che i manager guadagnano trecento volte più di loro, che non possono più avere accesso a cure decenti per i propri figli né far loro frequentare scuole adeguate, che non trovano più abitazioni ad affitti accessibili, che la pensione è diventata un miraggio, ecc.
Dopodiché si chiede se Trump avrà davvero il coraggio di fare alcune delle cose che ha promesso in campagna elettorale: imporrà controlli severi sulle speculazioni finanziarie? Obbligherà l’industria farmaceutica ad abbassare i prezzi? Promuoverà massicci investimenti per ricostruire le infrastrutture senza preoccuparsi dell’aumento della spesa pubblica e senza tagliare la spesa sociale (come chiedono invece i suoi colleghi di partito)? Non darà il suo consenso a nuovi accordi di liberalizzazione commerciale come il TTIP (e quindi a nuove perdite di posti di lavoro per i cittadini americani)?
Sempre a proposito di com’è strana la gente, vale la pena ascoltare lo sfogo dell’inviata RAI Giovanna Botteri, a proposito delle elezioni che hanno visto, ahilei, la sua adorata Hillary dolorosamente sconfitta.
In preda allo sconcerto più profondo, la Botteri non riesce a capacitarsi di come tanta gente abbia potuto scegliere Trump nonostante l’incondizionato schieramento della totalità dei media a favore della candidata democratica. Le sue considerazioni, che l’amarezza ha evidentemente liberato dai freni inibitori, rivelano senza pudore la vera funzione del mestiere svolto dai giornalisti omologati al potere: che non è quella di produrre informazioni, ma di veicolare il consenso.
Ecco le illuminanti enunciazioni botteriane:
Il mormorio contro la democrazia era cominciato fin dai primi minuti del fatale Brexit, ma adesso con l’elezioni di Trump l’indignazione contro gli elettori è divenuta incontenibile, al punto che Fabrizio Rondolino, noto voltagabbana premium, uomo per ogni stagione e mezza stagione, non si è trattenuto dal twittare la sua ultima corbelleria: “Il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale”. Naturalmente qui non si tratta di dare troppa importanza a un piazzista di giro delle televisioni e dei giornali, ma di testimoniare l’animus di tutta una classe di informatori che in realtà disprezza quelli a cui cercano di fabbricare e vendere opinioni per conto del padrone di turno e sono affetti da una incurabile sindrome del maggiordomo, per cui finiscono per essere più realisti del re.
La pena e il ridicolo sono assicurati come nelle dichiarazione della Botteri la quale dall’alto dello stipendio stratosferico che prende per guardare quando è libera da altri impegni, la Cnn, si lamenta del fatto che lei fa tanto per educare la gente e poi quella vota così. Bisognerebbe commiserare questi falsi democratici che della democrazia non hanno capito nemmeno i fondamentali e che pensano di far parte dell’elite cercando di nascondere i fili, ma che dico, le funi da ormeggio tanto sono grandi, con cui i loro elemosinieri li guidano. Chi più chi meno, perché anche i più celebrati svergognatori di casini e affari occulti alla fine sono appesi ai contratti e come i picciotti ogni tanto devono fare opera di killeraggio.
L’ultima conferenza di vertice sul clima si è caratterizzata
per il suo spietato cinismo, per l’abbandono non più occulto ma manifesto di una
qualsivoglia responsabilità morale dei “grandi della terra”
sul
futuro sociale ed ambientale del pianeta.
Di fronte alla necessità di
urgenti e non più rinviabili misure di intervento per la
riduzione delle
emissioni, come osserva puntualmente “Contropiano”1,
non vengono indicati sistemi di controllo e di sanzione, e a
dimostrare la
totale incuria di questi malviventi ne è testimonianza che
le prime verifiche sono fissate per il 2023, ennesima prova
che i “grandi
della terra” non sono nient’altro che dei burattini tenuti
in vita dalle multinazionali, dalla grande finanza, da
lobbies di malaffare che
potranno continuare impunemente a maramaldeggiare, favorendo
ulteriori avanzamenti delle aree in via di desertificazione
(irreversibile ?) e della
scomparsa di alcune isole del Pacifico, per non parlare
degli sconquassi climatici destinati in tal modo a
peggiorare…
Del resto il Protocollo di Kyoto del 1997 non aveva realmente danneggiato gli interessi dei grandi inquinatori. E’ sufficiente ricordare due strumenti inventati ad hoc: il “Commercio internazionale delle emissioni” e il “Meccanismo per uno sviluppo pulito”, strumenti che spiegano chiaramente come i grandi inquinatori abbiano fin dalle origini condizionato per non dire governato le politiche sulle emissioni e sul clima.
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Come
rovesciare le sorti del conflitto tra i “luoghi in cui vivono
i corpi di coloro che chiedono cibo, casa, lavoro e
affettività” e i
“flussi di segni di valore, merci, servizi, informazioni e
membri delle élite che li governano”? Due volumi di recente
pubblicazione – “La variante populista” di Carlo Formenti e
“Postcapitalismo” di Paul Mason – si interrogano, da
prospettive diverse, sulle modalità di superamento del
capitalismo.
La letteratura di sinistra sui guasti del capitalismo e sul modo di porvi rimedio è oramai sterminata, e comprende inviti sempre più incalzanti a ripristinare il controllo della politica sull’economia attraverso il recupero della dimensione nazionale: la sola dimensione capace di contrastare efficacemente “il potere del denaro”, e per questo vera e propria “condizione dell’esercizio effettivo della sovranità popolare”[1]. Sarebbe in questo modo possibile una sorta di ritorno cosiddetti fantastici trent’anni del capitalismo, l’epoca tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso in cui l’ordine economico venne forzato a convivere con un ordine politico votato a realizzare un’accettabile redistribuzione delle risorse.
Peraltro la fine di quell’epoca ha coinciso con il ritorno a quanto si è definita in termini di normalità capitalistica[2], caratterizzata dall’indisponibilità dell’ordine politico a correggere gli esiti derivanti dal funzionamento dell’ordine economico.
È fuori di dubbio che il testo che sarà sottoposto a referendum il 4 dicembre rappresenti il superamento della “Repubblica fondata sul lavoro” e che corrisponda a una nuova configurazione dei rapporti di potere
Cos’è una costituzione? La
risposta non è affatto ovvia. Secondo un giurista autorevole
come Mario Dogliani, che l’ha scritto sull’ultimo numero di
Democrazia e Diritto è “un potere che sappia unire,
metter pace, suscitare fiducia, rendere tangibile la speranza
di un futuro e
di un benessere comune”. È un’idea di sapore habermasiano, cui
è sotteso nientemeno che il “patriottismo della
costituzione”.
Ognuno fa il suo mestiere. A ragionare in termini di potere, una costituzione è piuttosto, per citare ancora Dogliani, “un potere forte che sappia imporsi”. Che s’impone materialmente, che s’impone simbolicamente, con la precisazione che il potere simbolico, la reputazione è, di tutte le forme di potere, la più irresistibile. Ma sempre di potere si tratta. Le costituzioni sono perciò documenti scritti dai vincitori. Che naturalmente proclamano di porsi dalla parte dell’universale, perché l’universale gode di straordinaria reputazione, ma che in realtà rappresentano il loro punto di vista particolare.
Viste le costituzioni nella prospettiva del potere, i vincitori le scrivono per due ragioni. La prima per risparmiare potere. Sono marchingegni utili a renderlo invisibile, ad automatizzarlo, a farne routine. Più elevata è la reputazione di cui godono le costituzioni, più e meglio funzionano. Per questo sono consacrate da liturgie solenni. Naturalmente, lo schieramento dei vincitori è transeunte, si ridefinisce senza posa, ma le democrazie beneducate hanno l’accortezza di evitare gli sconquassi.
Coloro che scrivono una costituzione dichiareranno che è per sempre.
La vittoria di Donald Trump è
stata colta con sorpresa, infondendo insperato entusiasmo agli
osservatori internazionali. Coloro che si occupano di politica
estera hanno
immediatamente preso nota delle grandi promesse fatte durante
la campagna elettorale. Durante i 18 mesi di rincorsa alla
presidenza, Trump ha evocato
numerose politiche internazionali di distensione e
cooperazione. Rimangono di primaria importanza regioni come
Europa, Medio Oriente ed Asia,
storicamente rilevanti per Washington. Quale potrebbe essere,
realisticamente, una dottrina credibile in politica estera per
Donald Trump?
Donald Trump è stato eletto contro il volere di tutto l’apparato statale, mediatico, militare, spionistico, ma la vera battaglia inizia adesso. Il primo passo per il presidente eletto coinvolge la nomina del suo staff.
E’ un compito difficile e complicato che potrebbe modellare il futuro atteggiamento dell’amministrazione Trump. Il giusto mix imporrebbe al neo presidente un’assegnazione nei ruoli chiave dell'amministrazione di persone ritenute adatte, ma anche in linea con le aspettative dell’establishment. Trump si ritiene una persona di successo soprattutto grazie alla sua capacità di negoziazione, lo ha ribadito ripetutamente durante tutta la campagna elettorale.
Comunque vada, il 4 dicembre non finirà il mondo. Finirà invece una fase politica, quella del renzismo arrembante ma non ancora stabilizzato, e ne inizierà una nuova. Cominciare a parlarne è perciò necessario.
In base a quel che percepiamo in questa campagna elettorale, nella quale siamo pienamente impegnati, noi riteniamo estremamente probabile una chiara affermazione del NO. Questo non solo per il giudizio negativo degli elettori sulla controriforma costituzionale, ma anche per l’onda lunga anti-oligarchica che pervade l’occidente, manifestazione vivente (per quanto contraddittoria) del malessere sociale addensatosi con la crisi sistemica degli ultimi 8 anni.
Il quadro sul quale ragionare è dunque quello immediatamente successivo ad una vittoria del NO. Qualora, invece, le cose dovessero andare diversamente non c’è bisogno di dire che si andrebbe ad un rafforzamento di Renzi e del renzismo, con tutte le conseguenze immaginabili.
Ma cosa succederà dopo la, per noi probabile, vittoria del NO? Quali gli scenari più plausibili? Quale la posizione politica da assumere e proporre a tutte le forze protagoniste della sconfitta renziana?
Un terremoto politico è appena detonato per il mondo. Non vi possono essere dubbi che la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi segni una rottura storica per la politica americana e per l'ordine liberale internazionale fondato all'indomani della Seconda Guerra Mondiale. Semplicemente, da ora in avanti le cose non saranno le stesse. Eppure è cruciale rammentare che questo momento è stato in formazione per lungo tempo.
In anni recenti, i pilastri gemelli del sistema postbellico - mercati globali capitalisti ed istituzioni liberali democratiche - sono andati costantemente in decadenza sotto le tensioni di una crisi della finanziarizzazione strutturale ed una profonda crisi di legittimità dell'establishment politico neoliberale. Il risultato scioccante delle elezioni di ieri [8 Novembre - N.d.T] indica che questa doppia crisi è finalmente arrivata a maturazione. Lo stesso Trump si farà infine da parte, ma la crisi a cui parla si inasprirà e finalmente traboccherà la capacità regolativa dello stato più potente del mondo. Ci stiamo muovendo costantemente verso il tipo di caos sistemico mondiale previsto dai sociologhi Giovanni Arrighi e Beverly Silver al volgere di secolo.
Qui dobbiamo immediatamente sfatare un mito pervasivo e pericoloso: l'ascesa di Trump non può semplicemente essere imputata alle posizioni presuntamente estremiste ed arretrate della classe operaia americana.
Un volume di Pierre Dardot e Christian Laval sull’oligarchia politica europea
È un libro nato su un’emergenza politica, quella dovuta alla crisi dell’assetto istituzionale dell’Unione europa e dall’impossibilità di un ritorno alla sovranità nazionale come argine alle politiche di austerità. Pierre Dardot e Christian Laval vedono in questa crisi il sintomo di una strisciante Guerra alla democrazia, come recita il titolo di questo saggio – da oggi in libreria per DeriveApprodi (pp. 140, euro 15) – che può essere letto come appendice indispensabile alle tesi che i due filosofi francesi hanno sviluppato ne La nuova ragione del mondo e in Del comune, entrambi pubblicati da Deriveapprodi. In quei testi, Dardot e Laval mettevano al centro della loro riflessione l’emergere di una nuova forma delle relazioni sociali incardinate nella figura dell’individuo proprietario e in un rinnovato ruolo dello Stato nell’esercitare una governance sugli stili di vita contemporanei.
SAGGI AMBIZIOSI, dunque, che muovevano dalla convinzione che lo Stato più che dissolto dallo spirito del tempo, cambiava il suo ruolo attraverso un doppio movimento politico e istituzionale. Cedeva parte della sua sovranità a organismi internazionali, ma veniva legittimato da questi ultimi in quanto entità politica preposta al rispetto di compatibilità economiche e sociali definite in un altrove da quello dei parlamenti nazionali.
Alla Duma hanno brindato a champagne per l’elezione di Trump e Putin se ne è detto più che soddisfatto, però, più tardi è apparso più preoccupato. Come mai? A dirla in due parole, Mosca è felice per la sconfitta della Clinton, ma quello che la preoccupa è la vittoria di Trump. Ed a ragione.
In primo luogo, quello fra Donald e Vladimir è stato un breve fidanzamento d’interesse e non certo d’amore: Trump voleva battere la Clinton e gli serviva l’aiuto più o meno sottobanco di Mosca. Putin doveva intanto battere la Clinton, che sulla Siria aveva detto cose inaccettabili e, d’altra parte, il semplice fatto di aver influito sul risultato finale è di per sé un successo di immagine. Però di qui ad aver sottoscritto una alleanza di ferro ne corre.
Per di più Donald non è certo un campione di affidabilità. In primo luogo non ha nessuna strategia, non ha mai visto una carta geografica, ha la cultura di uno scadente studente delle elementari e nel cranio ospita una famigliola di farfalle. Come ho avuto modo di dire in trasmissione a La7, al suo confronto, Berlusconi è stato Camillo Benso conte di Cavour.
In queste condizioni, probabilmente avranno peso due cose: l’apparato della segreteria di Stato, che è quello che poi concretamente tratta i vari dossier sul tavolo, e chi sarà il segretario di Stato.
Carlo Formenti – autore del recente libro "La variante populista" – replica alla critica di Cristina Morini apparsa su Alfabeta2
La
“requisitoria” di Cristina Morini nei confronti di “La
variante populista” apparsa su Alfabeta2
impone una replica.
Sarò sintetico, limitandomi a esaminare le critiche che
giudico palesemente infondate e a ribadire i motivi di
dissenso nei confronti del
paradigma teorico cui Cristina si ispira. In particolare,
affronterò i seguenti temi: evoluzione della stratificazione
del lavoro in relazione
alle mutazioni del modo di produzione; composizione politica;
Gramsci e il populismo; rifiuto delle posizioni “neofrontiste”
assunte da
parte delle sinistre radicali e antagoniste nei confronti del
populismo di destra.
Cristina mi riconosce di essere stato (quando ero ancora “buono”?) fra i primi ad analizzare l’evoluzione delle forme del dominio capitalistico, e della resistenza a tali forme, associate alla rivoluzione digitale. Dopodiché mi rimprovera di essere regredito a una visione “lavorista”, dimenticando tutto quanto avevo teorizzato da La fine del valore d’uso a Cybersoviet. Incasso il riconoscimento anche se associato, come altri che lo hanno preceduto, a un fraintendimento: fin dai tempi di Incantati dalla Rete avevo infatti espresso il mio dissenso nei confronti della tesi sul presunto ruolo rivoluzionario “immanente” al general intellect. In merito a tale tema (e in particolare alle tesi di Negri e Gorz sulla presunta autonomizzazione del lavoro vivo dal capitale) rinvio a quanto scritto nel mio libro e alle opere di Dardot e Laval che, a mio parere, hanno avanzato argomenti definitivi sull’argomento.
Dall’ostilità verso i trattati commerciali alla volontà di tagliare le tasse alle imprese. Una analisi del programma economico del neopresidente Usa
Individuare
con una
certa accuratezza il programma economico che Donald Trump
intende portare avanti appare un esercizio complicato. Questo
per diverse ragioni.
Intanto perché c’è la sostanziale vaghezza di almeno alcuni punti delle sue enunciazioni programmatiche, ciò che appare, peraltro, abbastanza usuale nel caso di molti progetti politici, ma che in questo caso è aggravata dai grandi mutamenti che il neo-eletto preannuncia; di solito poi le azioni effettive dei governanti si scostano quasi sempre, almeno per una parte, dai programmi annunciati all’inizio, sia per ragioni opportunistiche, che per la realtà degli equilibri in gioco e degli interessi con cui ci si deve confrontare ex-post; infine, in particolare in alcuni campi, il presidente Usa ha poteri limitati e molte delle decisioni devono passare per il Congresso, che pur essendo a maggioranza repubblicana, su alcune questioni importanti ha delle idee differenti da quelle di Trump. Questo peraltro non appare certo un elemento consolatorio, visto che gli stessi repubblicani su molti temi hanno idee persino peggiori di quelle pessime del magnate.
Purtuttavia, alcune cose sembrano abbastanza assodate ed appare difficile che il presidente e il congresso tornino sui loro passi su di esse, mentre altre si presentano come più incerte. In queste note cerchiamo così di intravedere almeno alcune delle decisioni che si vanno preparando.
"Crediamo che la
distinzione più
importante della sinistra di oggi si trovi tra coloro che si
attengono ad una politica del senso comune [folk
politics] basata su localismo,
azione diretta ed inesauribile orizzontalismo e coloro che
delineano ciò che deve dovrebbe chiamarsi una politica
accelerazionista, a proprio agio con una modernità
fatta di astrazione, complessità, globalità e tecnologia. I
primi si
ritengono soddisfatti con la creazione di piccoli spazi
temporanei di relazioni sociali non capitalistiche, evitando
i problemi reali connessi a
nemici che sono intrinsecamente non locali, astratti, e
profondamente radicati nelle infrastrutture di tutti i
giorni. Il fallimento di tale politica
è si trova fin dal principio costruito al suo interno. Al
contrario, una politica accelerazionista cerca di preservare
le conquiste del tardo
capitalismo, e allo stesso tempo di andare oltre ciò che il
suo sistema di valore, le sue strutture di governance e le
sue patologie di massa
permettano” [Alex Williams, Nick Srnicek, Manifesto
per una politica
accelerazionista (2013)].
“No HIV-TBC dagli IMMIGRATIS!!! Vitto e alloggio gratis ai TERREMOTATI” [Striscione del sit-in del gruppo “Abano dice no!” 14 Settembre 2016].
1. Cortocircuiti
Certi eventi ci costringono a prendere posizione di fronte alla realtà complessa dei fenomeni politici. Nel territorio dove vivo, la provincia di Padova, è accaduto recentemente un fatto insopportabile, ultimo anello di una catena di piccoli movimenti che si sono accumulati producendo una manifestazione cittadina.
Queste
elezioni americane sono senza alcun dubbio state le più
incredibili da parecchi decenni a questa parte. Quanto di ciò
che
abbiamo visto sia reale e quanto sia invece abile teatro lo
scopriremo solo nel tempo. Le opzioni principali sono due: o
le cose sono come sembrano,
oppure sono come non sembrano.
Iniziamo con la prima opzione.
Trump ha vinto le elezioni americane contro tutti i pronostici, contro tutti i sondaggi, contro il coro di tutti i media occidentali compattamente schierati contro di lui, contro l’opinione univoca e compatta dei ceti “liberal” di cultura medio-alta.
Più che fare un’analisi politica di questo avvenimento, opera in cui al momento si sbizzarriscono tutti, è interessante soffermarsi su alcune considerazioni che attengono più alla sociologia, che alla politica.
Perché i giornalisti e gli intellettuali mainstream in questa faccenda si sono sbagliati tutti e completamente? Prima incapaci di capire che Trump si sarebbe aggiudicato la nomination repubblicana, poi incapaci di capire che avrebbe vinto. E già in precedenza incapaci di prevedere l’esito del Brexit.
Chi risponde ai critici della moneta unica col catastrofismo non vede due cose: il declino a cui ci costringe e la probabilità della sua fine
Il dibattito fra economisti sul Fatto e il Manifesto ha visto la contrapposizione fra quelli dell'euro “reversibile”, che cercano di guardare con freddezza oggettiva a costi e vantaggi dell'uscita, e quelli della “irreversibilità dell'euro” che mancano di proporre un'alternativa alla morte lenta del Paese, limitandosi a funesti allarmismi. “Di doman non v'è certezza” per tutti, ma un'evidenza a favore dei primi è che con l'euro il Paese è andato di male in peggio.
E VI SONO ALTRE certezze a loro favore.
La prima è che l'euro entrerà in crisi se e quando in uno o più Paesi esso si rivelerà politicamente insostenibile.
L'Italia è una candidata naturale. Come in tutti gli eventi catastrofici, un crollo dell'Italia scaturirà dal combinato disposto di varie cause. Per esempio l'impossibilità per un governo privo di una sua Banca centrale di far fronte a una crisi bancaria che, col bail-in, penalizzi milioni di risparmiatori (e all'orizzonte sta scomparendo la prospettiva di un fondo di salvataggio europeo sui depositi se non a condizioni capestro per l'Italia); aggiungiamoci i costi della ricostruzione post-terremoto se non al prezzo di tagli alla sanità e istruzione;
Renzi e La Repubblica stanno facendo aggiotaggio politico sulla Costituzione per venderci quel titolo spazzatura che è la “riforma”: ecco perché le lusinghe sul PIL, la falsa fine dell’austerità e le minacce sullo spread
L’ISTAT annuncia che il PIL dei mesi estivi è salito e che il risultato finale sarà probabilmente un più 0,8 in ragione d’anno. È esattamente quanto previsto dal governo quando ha dimezzato la sua iniziale previsione di crescita dell’1,6. È inutile rammentare che lo stesso ISTAT ci prima ha annunciato che c’è di nuovo la deflazione dei prezzi e che dunque la ripresina estiva è destinata a spegnersi. Basta la conferma dei suoi dati al ribasso per far gridare a Renzi che il bengodi è alle porte. A meno che non vinca il NO al referendum, altrimenti, annuncia il presidente del consiglio, non avremo ripresa e ripartirà lo spread.
Che la speculazione sui titoli del debito pubblico italiano ricomparisse in vista del referendum c’era da aspettarselo. Ma che sia il capo del governo a fare il broker contro il suo paese dovrebbe suscitare scandalo. Anche il quotidiano La Repubblica, organo di casa Renzi, titola sullo spread. Aggiunge anche una notizia davvero unica: che la Unione Europea sarebbe sul punto di revocare le politiche di austerità. Il solo fatto che giustificherebbe questo clamoroso scoop del quotidiano romano è che la UE avrebbe deciso il rinvio al 2017 delle procedure di infrazione.
Ma allora si può uscire dall’euro? La scorsa settimana in queste pagine è stato pubblicato l’articolo “L’uscita dall’euro? Una Lehman Brothers elevata al quadrato”. I sei autori, Leonardo Becchetti, Mauro Gallegati, Guido Iodice, Daniela Palma, Francesco Saraceno e Leonello Tronti (BGIPST) polemizzano con il precedente pezzo di Alberto Bagnai e Jens Nordvig (ABJN) perché “cercano di minimizzare gli effetti (negativi) dell’uscita dall’euro”. L’articolo di BGIPST è basato su argomenta ab auctoritate e, curiosamente, le autorità a cui si appellano sono proprio Bagnai e Nordvig!
L’argomento principale è questo: “Lo studio più autorevole sulla dissoluzione di unioni monetarie, condotto da Andrew Rose all’Università della California, chiarisce che nei 69 casi verificatisi nel dopoguerra non si registrano movimenti macroeconomici violenti prima, durante o dopo un’uscita. Ma… è inutile andare a ripescare i 69 casi di Rose… (perché si tratta di) Paesi irrilevanti a livello globale, dall’Algeria allo Zimbabwe”. E allora? Che differenza fa la dimensione? “Una rottura disordinata dell’euro, ad esempio a seguito dell’uscita unilaterale dell’Italia, causerebbe il congelamento del sistema finanziario internazionale e un’ondata di fallimenti a livello globale”. Dunque non bisogna temere gli effetti diretti sul Paese che esce, ma solo i danni causati agli altri e la terribile ‘onda di ritorno’ che ne deriverebbe?
La sconfitta di Hillary Clinton è anzitutto la sconfitta di Obama che, sceso in campo al suo fianco, vede bocciata la propria presidenza. Conquistata, nella campagna elettorale del 2008, con la promessa che avrebbe sostenuto non solo Wall Street ma anche «Main Street», ossia il cittadino medio.
Da allora la «middle class» ha visto peggiorare la propria condizione, il tasso di povertà è aumentato, mentre i ricchi sono divenuti sempre più ricchi. Ora, presentandosi come paladino della «middle class», conquista la presidenza Donald Trump, l’outsider miliardario.
Che cosa cambia nella politica estera degli Stati uniti con il cambio della guardia alla Casa Bianca?
Certamente non il fondamentale obiettivo strategico di rimanere la potenza globale dominante. Posizione che vacilla sempre più.
Gli Usa stanno perdendo terreno sul piano economico e anche politico rispetto alla Cina, alla Russia e ad altri «paesi emergenti». Per questo gettano la spada sul piatto della bilancia.
Da qui la serie di guerre in cui Hillary Clinton ha svolto un ruolo da protagonista.
Come risulta dalla sua biografia autorizzata, fu lei che in veste di first lady convinse il consorte presidente a demolire la Jugoslavia con la guerra, iniziando la serie degli «interventi umanitari» contro «dittatori» accusati di «genocidio».
Pane e pace, il populismo socialista. Con The Donald la riflessione di oggi, come ai tempi della I Internazionale, dovrebbe ripartire dal controllo del mercato del lavoro
«Ci fu un momento più populista di quello in cui 99 anni fa qualcuno gridò ’pace e pane’»? Si tratta di un’affermazione di Pablo Iglesias, leader di Podemos (Publico.es, 9 novembre). «Trump ha vinto sulla base di due parole d’ordine che fecero il successo dei bolscevichi nel 1917: pace e pane». Così ha scritto su questo giornale (12 novembre) Leonardo Paggi. Mi sembra del tutto evidente che né Iglesias, né Paggi suggeriscano analogie forti tra Trump e Lenin. Entrambi usano l’analogia come iperbole concettuale, in grado di cogliere affinità tra contenuti assai diversi.
Dice ancora Iglesias: «Il populismo non definisce le opzioni politiche, ma i momenti politici». I populismi sono, per eccellenza, parametri di definizione e di svelamento delle crisi, in particolare di quelle di lungo periodo come l’attuale. Il populismo di Trump, e di tante sue varianti europee, ha certamente tratti parafascisti, ovviamente in contesti (e forme) del tutto diversi dal fascismo storico, ma ci mostra con chiarezza che non esistono possibilità di sbocchi della crisi a «sinistra» senza popolo.
È ancora particolarmente attuale la questione che il responsabile esteri del Partito comunista cinese pose a Bertinotti nel dicembre del 2005: «Mi spiegate come mai vista la vostra intelligenza, poi nel vostro Paese, quando andate alle elezioni prendete poco più del 5 per cento?».
Dell’elezione di Trump dovremo parlare ancora diverse volte, perché è evidente che questa presidenza non sarà una delle quarantacinque che si sono succedute, sarà una presidenza di svolta come quelle di Roosevelt o di Nixon o Reagan, probabilmente peggiorerà le cose noi temiamo in peggio, ma comunque sarà una Presidenza di svolta. E già lo dicono le reazioni che ci stanno facendo assistere a cose mai viste prima.
Manifestazioni di protesta, già all’indomani, con tanto di cartelli con scritto “Not my President”, mentre gli uffici immigrazione del Canada registrano una valanga di domande di trasferimento di cittadini americani; Michael Moore (che non rimpiange affatto la Clinton ed attacca da sinistra i democratici) propone misure straordinarie ed invita a preparare sin d’ora l’impeachement.
Dalla guerra di secessione, Trump è il Presidente più divisivo che gli Usa abbiano mai avuto e sin dalla sua elezione. Per la verità lui sta cercando di mettere acqua fredda nel brodo bollente della campagna elettorale: “Sarò il Presidente di tutti, non chiederò l’incriminazione di Hilary, al confine messicano non costruirò proprio un muro ma mi accontenterò di un muretto, lascerò un pezzetto della riforma sanitaria”, ecc.
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Siamo imprigionati all’interno di un
quasi-mercato manipolato ed etero-diretto da conglomerate ed
istituzioni finanziarie il cui obiettivo di fondo è di
appropriarsi di risorse
dell’economia reale, attualmente di proprietà degli Stati,
delle famiglie e delle imprese (vedi mio articolo “Da modelli
di
sviluppo a meccanismi di appropriazione”).
Ma chi tira le fila di questo sistema? Chi sono i burattinai?
L’architrave del sistema poggia su poche grandi conglomerate definibili come “super-entità” per la forza d’urto, per la trasversalità settoriale e la transnazionalità della sfera d’azione. Tra queste, vale la pena citarne almeno quattro.
• BlackRock, posseduta principalmente da Merrill Lynch (al 49,8%), a sua volta posseduta da Barclays, State Street Corporation, Axa, Vanguard Group e altri. BlackRock gestisce direttamente oltre $5.000 miliardi di capitali, pari a quasi la metà del PIL di tutta l’Eurozona (!).
• The Vanguard Group Inc., posseduta per l’86% da hedge funds tra cui Price Associates, BlackRock e Credit Suisse, con $3.000 miliardi di capitali in gestione (il doppio del PIL italiano).
Abbiamo
intervistato
Carlo Formenti, sociologo, giornalista, scrittore e
militante della sinistra radicale, sulle prospettive che
derivano dalle recenti elezioni
presidenziali USA, soffermandoci su alcune delle
particolari tematiche emerse durante il processo
elettorale: dai cambiamenti nel rapporto tra
comunicazione e comportamento elettorale, alla questione
del populismo in salsa Trump, passando per la fase di
messa in discussione dell'appeal del
concetto di "stabilità" e della divaricazione tra
democrazia e capitalismo sempre più affermata a livello
sociale nel mondo occidentale.
Buona lettura.
* * * *
Infoaut: Si è ormai tutti d'accordo nel descrivere le recenti elezioni Usa come contraddistinte da un voto di classe, espresso all'interno di una campagna elettorale dove Clinton e Trump hanno di fatto giocato il ruolo di portavoce delle classi avvantaggiate e svantaggiate dalla globalizzazione. Il giudizio sui costi e i benefici di quest'ultima ha quindi giocato un ruolo decisivo per l'esito del voto. Quanto però secondo te questo voto è stato percepito anche in relazione ad una specifica forma di globalizzazione, quella neoliberista attuale, e ai suoi effetti di lungo periodo sulla popolazione scaturiti negli ultimi quarant'anni?
Per quanto ci siano state diverse analisi sui dati, basate sui numeri relativi oppure sui numeri assoluti, con le valutazioni che possono essere molteplici a seconda dei diversi criteri usati, io credo che se guardato nella sua articolazione per Stati ci sia un dato incontestabile.
Recensione a La variante populista di Carlo Formenti
Qualche
mese
fa Franceschini, degno rappresentante della mediocrità
politica del suo partito, ha detto che oggi lo scontro oggi
non è più tra
destra e sinistra, ma tra sistemisti e populisti. Se perfino
un dirigente del PD arriva a cogliere qualche elemento di
realtà, vuol dire che
esso dovrebbe essere piuttosto lampante. Così non è, se
guardiamo al dibattito che ha preceduto e seguito le elezioni
americane dentro
le sinistre conventicole dell’opinione pubblica nostrana,
infarcita di paura per il fascismo che avanza e stretto
attorno al simulacro
democratico che arriva addirittura ad assumere il mostruoso
volto di Hillary Clinton. Un merito indiscutibile dell’ultimo
libro di Carlo
Formenti, La variante populista (DeriveApprodi,
uscito in ottobre), è di prendere di petto il tema, senza
timore delle accuse e dei
latrati che si alzano dalle rancorose e marginali fila del
frontismo neo-dem. La tesi del volume è infatti nitida: oggi
la lotta di classe nel
neoliberismo avviene innanzitutto sul terreno disegnato dal
populismo. Secondo l’autore bisogna quindi accettarne la
sfida, collocarsi su quel
terreno, lì costruire egemonia in senso gramsciano.
Formenti arriva a sviluppare la sua tesi attraverso un confronto selezionato con autori e posizioni che, come sempre nei suoi testi, vengono sintetizzati in forma estremamente chiara e utile.
1.
Ho trovato molto interessante l’articolo di Dario Fabbri
pubblicato da Limes che analizza il voto americano
ponendolo in rapporto con l’orientamento geopolitico
strategico degli Stati Uniti. Il solo punto debole
dell’articolo mi è parso di
coglierlo nella definizione che l’autore dà della
globalizzazione come «pax americana sotto pseudonimo», cosa
che mi sembra
quantomeno riduttiva. Infatti, anche Paesi come la Germania,
la Cina e il Giappone, per non allungare troppo l’elenco e
fermarmi al vertice
della piramide capitalistica mondiale, hanno partecipato e
partecipano a pieno titolo alla «globalizzazione», concetto
che d’altra
parte sintetizza, almeno nella mia “declinazione”, la naturale
tendenza del Capitale ad annettersi non solo l’intero pianeta
(realizzando la Società-Mondo), come aveva capito
l’anticapitalista di Treviri in anticipo sui tempi, ma anche
l’intera esistenza
degli individui, come hanno dimostrato la psicoanalisi e la
medicina orientata in senso psicosomatico. La definizione di
cui sopra sembra fatta
apposta per eccitare l’anima “antiamericana” di buona parte
dei cosiddetti “antimperialisti”.
Ho sempre considerato un grave errore di prospettiva, fondato soprattutto sul pregiudizio antiamericano che da molto tempo (diciamo pure da un secolo) alberga in una larga parte dell’intellighentia europea (tanto di “destra” quanto di “sinistra”), spiegare la dinamica della competizione interimperialistica del Secondo dopoguerra ricorrendo esclusivamente, e comunque essenzialmente, al confronto politico-ideologico-militare Stati Uniti-Unione Sovietica.
Per quanto formalmente il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci su un quesito che attiene alla riforma di parti importanti della nostra Costituzione, nella sostanza andremo a pronunciarci su un tema di massima rilevanza che attiene alla ridefinizione dei rapporti Stato-mercato in Italia.
In tal senso, al di là della contingenza del dibattito politico, il referendum assume una forte valenza ideologica. Dovrebbe essere ormai chiaro che la riforma Boschi-Renzi non fa altro che accentuare il processo di messa al bando dell’intervento pubblico in economia, già in buona parte realizzato con la revisione dell’articolo 81 della Costituzione e l’introduzione del vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. È vero che nel quesito che ci verrà sottoposto non leggeremo nulla di tutto questo, ma è sufficiente leggere i rapporti delle Istituzioni finanziarie internazionali che vogliono la riforma e i testi preparatori della riforma stessa per convincersi che l’oggetto del contendere è esattamente questo. Vediamo.
1) J.P. Morgan, in un rapporto del 28 maggio 2013, scrive che la crisi dell’Unione Monetaria Europea è anche imputabile al fatto che le costituzioni dei Paesi del Sud d’Europa (e il riferimento è soprattutto alla costituzione italiana) sono fondate su “concezioni socialiste …
Quasi tutti sono sorpresi dalla vittoria di Trump. Si dice che pure Trump sia stupito. E ovviamente ora ognuno spiega come ciò sia potuto accadere, anche se le spiegazioni sono diverse. E ognuno parla delle profonde spaccature che le elezioni hanno creato (o riflesso?) nel corpo politico americano.
Non mi aggiungerò alla già fin troppo lunga lista di analisi generali. Voglio invece concentrarmi su due temi: le conseguenze di questa vittoria di Trump sugli Stati Uniti e quelle sulla potenza americana nel resto del mondo.
Internamente il risultato, non importa come lo si misuri, sposta gli Stati Uniti decisamente a destra. Non importa che Trump abbia effettivamente perso nazionalmente nel voto popolare. E non importa che, se soli 70.000 voti in tre Stati (poco meno dello 0,09% di tutti i voti espressi) fossero mancati a Trump, Hillary Clinton avrebbe vinto.
Quello che importa è che i repubblicani hanno acquisito quello che viene chiamato the trifecta – il controllo della presidenza, di entrambe le Camere del Congresso e della Corte suprema. E mentre i democratici potrebbero riconquistare il Senato, o addirittura la presidenza tra 4 o 8 anni, i repubblicani manterranno la maggioranza nella Corte suprema per un periodo di tempo molto più lungo.
In cosa consiste la sostanza che sta alla base del capitalismo della crisi? Frotte di scienziati sociali – economisti, storici, sociologi, filosofi – provano da anni a rispondere a questa domanda, senza per questo riuscire a convincere nelle risposte. Certo, la caduta tendenziale del saggio di profitto è ancora, almeno ci sembra, la spiegazione che trova le maggiori verifiche empiriche, sul piano economico. Ma non basta. Non è mai stata pensata come spiegazione onnicomprensiva delle trasformazioni del capitale, e per tale ragione non può essere utilizzata come atto di fede nelle riflessioni sul capitalismo della crisi del XXI secolo. Pietro Ichino, sul Corriere del 17 novembre, ci sembra far luce (involontariamente) su di un dato centrale del modello produttivo liberista, in grado di aggiungere un pezzo alla risposta sul perché il capitalismo è in crisi irreversibile. Leggiamo: “nel ’69…fatta 100 la produttività standard di un operaio-tipo, quello che in concreto aveva una produttività inferiore si attestava intorno a quota 90, raramente si arrivava al limite minimo di 80, mentre quello più produttivo poteva arrivare a 130, 140, raramente a 150. In altre parole, il rapporto tra il più e il meno produttivo non arrivava neppure a 2[…]Oggi la situazione è totalmente cambiata. Un’azienda che intenda assumere un addetto a mansioni anche di livello basso…può trovarsi di fronte a risultati che indicano differenze di produttività da 100 a 10.000[…].
Sono quasi passati quindici anni da quando la Cina ha fatto il suo ingresso nel WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio, suggellando così la sua definitiva uscita dalla cortina di ferro e una straordinaria rivoluzione commerciale globale la cui narrazione è stata uno dei filoni portanti della globalizzazione recente. “La sezione 15 del protocollo prevedeva che la Cina potesse essere tratta come una non market economy (NME) nei procedimenti anti dumping se le aziende cinesi non fossero state in grado di provare che operano in condizioni normali di mercato”, ricorda un documento del Parlamento europeo redatto alla fine del 2015. Questo stato di NME era previsto durasse proprio 15 anni al termine dei quali la Cina avrebbe potuto ottenere lo stato di economia di mercato.
Inutile dire che i cinesi se lo aspettano, anzi per loro si tratta di un fatto assolutamente automatico. Un’interpretazione che lo studio del Parlamento Ue ha definito “altamente controversa”. Nel frattempo tuttavia la status MES alla Cina è stato riconosciuto da alcuni paesi, come il Brasile, mentre altri, come l’Australia e il Sud Africa, ne hanno fatto la base per accordi bilaterali. Il succo è chiaro: tutti vogliono fare affari con la Cina come se fosse un paese con un’economia di mercato anche se sanno benissimo che è vero il contrario.
L’Ue si trova esattamente nella stessa posizione.
Da qualche anno prima gli economisti alla Krugman e poi i media hanno cominciato a lanciare l’allarme sulla robotizzazione sempre più avanzata che sottrae lavoro agli uomini, non soltanto nelle fabbriche, ma anche nelle attività terziarie più automatizzate e prossimamente persino nella guida dell’auto. Adesso tocca all’Onu lanciare l’allarme con un documento nel quale si prevede che in un futuro molto prossimo, questione di anni più che di decenni, i robot sostituiranno il 66% del lavoro umano. Le macchine si sa sono più precise e veloci dell’uomo quando si tratta di standard, non si stancano, non sono aggredite dall’alienazione, non accampano diritti, si può produrre giorno e notte senza nemmeno uno scioperino bianco e oltretutto in termini marxiani eliminano la differenza fra capitale fisso e capitale variabile.
In realtà la situazione è meno inedita di quanto non sembri e ha accompagnato tutte le rivoluzioni tecnologiche sia pure in contesti fra loro diversissimi, ma è interessante vedere come la questione viene affrontata oggi. Il documento delle Nazioni Unite, ripreso dal Sole 24 Ore, si limita a proporre un problema secondario, nascondendo ipocritamento quello principale, ossia la possibilità che l’era robotica colpisca a morte i Paesi in via di sviluppo che basano la loro economia sul lavoro a basso costo.
Domande a cura di Aldo Scorrano, Fabio Di Lenola e Christian Dalenz
Lei ha
affermato che «la storia della democrazia è la storia della
capacità delle classi subalterne di fare conflitto, di
lottare, di
riequilibrare i rapporti di forza presenti nella società».
Queste classi lo avrebbero fatto unendosi tra loro sulla
base di idee, di
interessi comuni e di piattaforme politiche avanzate. Questa
unione oggi manca ed è ciò che si dovrebbe ricreare,
soprattutto nel mondo
del lavoro. In buona sostanza bisognerebbe «unire ciò che è
stato diviso». Ma come mettere in moto questo processo e con
quali modalità?
La risposta a questa domanda non esiste. E se qualcuno pretende di averla in tasca per via di qualche formula alla moda – “populismo” e “politiche del comune” sono oggi quelle più reiterate nelle diverse e contrapposte anime della sinistra, ma in passato i nomi erano diversi - ha capito ben poco dei processi storici, per i quali non esistono leggi simili a quelle che ipotizziamo nel mondo naturale e dunque nemmeno manuali delle istruzioni.
Per come siamo messi, credo comunque che la presa di coscienza reale e non meramente verbale della frantumazione in atto e delle sue ragioni, oltre che della necessità di una ricomposizione di un campo politico di resistenza su basi che siano ad un tempo politiche e sociali (e cioè fondate su una analisi che tenga conto di cosa sono diventate oggi le classi sociali rispetto al periodo della Guerra Fredda), sia già un passo in avanti considerevole rispetto alla totale inconsapevolezza o rimozione che caratterizza ciò che rimane da noi della sinistra storica novecentesca.
Proponiamo la
traduzione
dell’intervento tenuto dal filosofo francese Alain Badiou a
Los Angeles, presso la University of California, sulle
elezioni del 9 novembre. A
giorni dall’elezione di Donald Trump, riteniamo che
nell’intervento ci siano degli spunti di analisi utili alla
comprensione del fenomeno
al di là delle prime impressioni e delle facile categorie
dicotomiche tra città-campagna, bianchi-non bianchi, working
class-middle
class. Per quanto siano affrettati alcuni parallelismi tra
le forme politiche del fascismo novecentesco ed i nuovi
populismi, l’analisi di
Badiou coglie perfettamente il carattere globale ed
interconnesso dei populismi, la loro genealogia dalla crisi
delle vecchie oligarchie e della
rappresentanza moderna, la non-contraddizione che ha nei
confronti del capitalismo per quanto sia in aperta
opposizione del neoliberalismo
finanziario. L’assenza di una opzione forte che nasce dal
basso – e non tanto da una figura di un candidato specifico,
nonostante possa
essere utile - e che prefigura un’alternativa, ideale e
pratica, alla distruzione del legame sociale è a nostro
avviso causa del nascere
dei populismi, che riempiono inesorabilmente un vuoto. Qui l'originale.
* * * *
La posizione dello stato oggi è la stessa ovunque. È accettata per legge dal governo francese, dal Partito Comunista cinese, dal potere di Putin in Russia, dallo Stato Islamico in Siria, e naturalmente è anche una legge del Presidente degli Stati Uniti.
L’eurocrisi
ha raggiunto l’ultimo stadio: da crisi delle bilance dei
pagamenti si è trasformata prima, attraverso le politiche di
austerità e
di svalutazione interna, in crisi economica, e poi, in crisi
bancaria, a causa del lievitare delle sofferenze e
dell’inarrestabile fuga dei
capitali dall’europeriferia. Indicatori come il Target 2 e le
condizioni drammatiche in cui versano MPS e, soprattutto,
Unicredit, evidenziano
che il carico di rottura è ormai vicino: dopo che Deutsche
Bank ha sventato l’assalto speculativo di George Soros e
Donald Trump ha vinto
le presidiziali statunitensi, nessuno può più evitare
l’applicazione del “bail in”, costringendo così
l’Italia ad abbondonare l’eurozona.
E crisi bancaria fu
Tutto si può dire dell’eurocrisi, tranne che sia imprevedibile: anzi, è una storia trita e ritrita, il cui finale scontato non è anticipato da politici e media solo perché è interesse di tutti fingere che lo status quo durerà ancora a lungo.
1. Gli studi spinoziani non hanno mancato di rilevare la funzione che la paura della solitudine svolge, dall’Etica al Trattato politico, nella formazione dello stato. Sostituendo il metus solitudinis al metus mortis hobbesiano, Spinoza non si limita soltanto a prendere le distanze dall’idea, formulata in De cive I, 2, secondo cui «hominem ad societatem aptum natum non esse», ripristinando invece l’immagine aristotelico-scolastica dell’uomo come animale sociale (cfr. E IV, 35 sch.; e TP II, 15), ma si libera soprattutto della finzione di un’età precedente alla società, nella quale gli individui avrebbero vissuto nell’isolamento. «Barbari o civilizzati – si spiega in TP I, 7 – dappertutto gli uomini intrecciano relazioni reciproche e danno forma ad una qualche forma civile», dato che essi «per natura desiderano la condizione civile» (TP VI, 1). Per Spinoza, la civitas non si configura come il frutto di un patto tra individui che vivano dapprima isolati in uno stato di natura, bensì come la condizione originaria dell’umanità. Lo stato civile non sopravviene allo stato di natura negandolo, dato che segue invece le medesime leggi di quello; così che la civitas non può essere intesa come uno stato nel quale, con l’istituirsi del potere sovrano, sia abolito l’isolamento degli individui, dato che quell’isolamento, come la potenza e il diritto che gli individui soli portano con sé, non è altro che una finzione: il diritto naturale (jus humanum naturale), quando sia «definito dalla potenza di un singolo» e «proprio di un solo individuo», è infatti «inesistente e frutto di sola e irreale opinione (nullum esse, sed magis opinione quam re constare», così che, «in conclusione, il diritto di natura, proprio del genere umano, si può difficilmente concepire senza leggi comuni che rendano uniti gli uomini (jus naturae, quod humani generis proprium est, vix posse concipi, nisi ubi homines jura habent communia)» (TP II, 15).
In determinati momenti storici il potere economico e finanziario, di fronte alla difficoltà di adeguare alle proprie esigenze un sistema politico divenuto ostacolo alle necessità di espansione dei propri interessi, è costretto ad entrare nel merito delle relazioni politiche che guidano la società. Nella maggioranza dei casi tale contraddizione viene obbligatoriamente affrontata attraverso la tendenza a modificare in senso autoritario le forme del potere esecutivo. In questa prospettiva, caso emblematico può essere considerato quello offerto dalle condizioni che determinarono l'avvento del fascismo, chiamato a risolvere un periodo di impasse politico, generato dallo spettro dell' avanzata del socialismo, ritenuto il principale responsabile dei preoccupanti avvenimenti del " Biennio Rosso"
Di qui la decisione, da parte dei grandi proprietari terrieri e del nascente capitalismo industriale, di facilitare, promuovere e mettere in essere l'ascesa del movimento fascista il quale, nel giro di pochi anni, per l'attuazione degli interessi dei potentati economico -finanziari, realizzò la soppressione delle libertà individuali sacrificate alla centralità e alla sacralità dello stato secondo l'idea portante dell'impianto teorico- ideologico conferito al fascismo, da Giovanni Gentile nel " Manifesto degli intellettuali fascisti.
Da quanto detto appare determinante il contributo dato al fascismo, sin dalla 'inizio, da intellettuali, anche di grande levatura, che aderirono al regime attraverso l'ingresso nell' Accademia d’Italia o nel Ministero della Cultura Popolare o nell' Istituto Treccani.
In un articolo apparso qualche giorno fa sul New York Times Mark Lilla, professore di scienze umane alla Columbia University, scopre l’acqua calda: i progetti politici fondati sull’assemblaggio di un mosaico di culture identitarie – che è esattamente la strategia messa in campo dalle élite liberal americane – sono destinati alla sconfitta. Evidentemente ci voleva la batosta della vittoria di Donald Trump perché lo capissero. In realtà non sembra l’abbiano davvero capito, tanto è vero che – non solo negli Stati Uniti ma anche qui da noi – giornalisti, politici di “sinistra” ed esperti si arrampicano sugli specchi per sminuire la portata della catastrofe (in fondo la Clinton ha avuto più voti popolari, gli americani e gli inglesi si renderanno presto conto degli errori commessi votando Brexit e Trump, ecc.) ed è forse per questo che Lilla ci va giù duro per dargli la sveglia. Riassumo qui di seguito alcuni dei suoi argomenti.
L’ossessione per le differenze identitarie – e la retorica “politicamente corretta” che l’accompagna – che pervade da decenni scuole, media e università americane ha prodotto una generazione di progressisti e liberali “narcisisticamente inconsapevoli delle condizioni dei soggetti esterni ai loro gruppi autocentrati”.
All'inizio mi sono detto: perché dovrei votare come il razzista Salvini, o come D'Alema, l'uomo che ha violato l'articolo 11 della Costituzione bombardando la Serbia per ordine dei suoi compari Bill Clinton e Tony Blair e adesso si presenta come difensore della Costituzione Repubblicana?
Poi vado a vedere chi mi consiglia di votare SI e trovo un signore che in gioventù fu fascista poi si convertì allo stalinismo perché lo stalinismo stava vincendo, e poi si convertì alla NATO perché lo stalinismo era venuto meno, e poi si converti all’europeismo finanziario e come presidente della Repubblica firmò disciplinatamente i decreti di Berlusconi e i diktat del sistema bancario.
Pensavo di astenermi, a quel punto per non trovarmi in un caso come nell’altro in compagnia di ipocriti mascalzoni.
Poi andai al comizio di Landini, un paio di settimane fa, e Landini mi ha convinto a votare NO. Landini fece notare che il governo Renzi, a parte le velleità di riforma costituzionale, si distingue soprattutto per le sue politiche sociali.
E’ il governo del voucher, cioè della totale distruzione dei diritti del lavoratore, anzi per la cancellazione del lavoratore stesso come persona. E’ il governo che propone ai lavoratori anziani di pagarsi un mutuo in banca (magari la Banca Etruria, vero?) per poter avere la pensione, dopo aver pagato una vita di contributi.
Cosa imparerà la sinistra radicale italiana dalla (e)lezione di Donald Trump?
E’ presto detto: quasi certamente nulla. Perché? Semplicemente perché nell’ultimo decennio non ha cambiato nulla del suo approccio teorico, delle sue proposte politiche e del suo linguaggio. Eppure l’ultimo decennio ha visto fatterelli quali: la più grave crisi capitalistica dal 1929, il netto regresso della cosiddetta globalizzazione, l’acuirsi del confronto diretto tra Stati Uniti e Russia (e in prospettiva Cina), l’acuirsi della guerra imperialista agli stati in quanto tali, la crisi delle esperienze progressive latinoamericane, il pieno disvelarsi della natura classista e irriformabile dell’Unione europea e dell’euro, la tragedia della Grecia, la crescente egemonia della destra sulle classi popolari, il sorgere di partiti apparentemente post classisti ed estranei alla dicotomia destra/sinistra (M5S, Podemos). E poi la Brexit. E di fronte a questa serie di catastrofi la sinistra radicale continua avere (quando ne ha) idee simili a quelle che aveva all’epoca della globalizzazione trionfante e dell’illusione di una globalizzazione dal basso: approfittare dell’indebolimento degli stati per rafforzare l’autonomia della società e dei movimenti; servirsi del presunto carattere democratico (!) del capitalismo digitale/reticolare per fare a meno del capitale stesso e costruire da subito la cooperazione orizzontale del lavoro;
Che tipo di pensieri passa per la testa di Bobo?
A giudicare dalle strisce che leggiucchio insofferente su L’Espresso, roba banale, stantia, concetti vacui che rassomigliano ad altrettanti slogan. Ma Bobo è questo, solo questo: un militante imbevuto di uno spettro d’ideologia, cui non importa un fico secco di apparire acuto, curioso e originale. Lui si contenta – si compiace – di essere fedele alla linea, ancorché curva, serpentinata, contorta. La linea, quale che sia, ovunque lo conduca.
Sergio Staino, l’autore, parla, giudica e urla come la sua creatura, anche se di quest’ultima gli difetta la bonarietà, l’aspetto pacioso: fisiognomicamente mi ispira schietta antipatia, per via dello sguardo miope, ma freddo, ostile, corrucciato. In televisione non fa una gran figura, mischiando scomuniche a corbellerie – perché ce lo mandano allora?
La risposta è semplice, disarmante: Bobo Staino parla al pancione del PD, grosso almeno quanto quello di un personaggio che, nei decenni, ha cambiato bandiera senza cambiare casacca. Sarei tentato di aggiungere: si è rincretinito senza invecchiare… ma probabilmente l’analisi è pietosa, perché anche quando stava dalla parte (per me) giusta, Bobo era lì per caso – per imprinting familiare, per disciplina di partito, per abitudine, per incapacità di guardare altrove.
Luigi Ferrajoli: Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
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Una risposta ad Alberto Alesina e a Francesco Giavazzi
Sul Corriere
della Sera del 21 novembre
2016, Alesina e Giavazzi tornano a colpire per ribadire la
necessità di politiche neoliberiste e per dar man forte al
governo Renzi, lodando la
riforma del mercato del lavoro targata Jobs Act.
Lo spunto è di estrema attualità e riguarda lo scarso trend della produttività oraria del lavoro in Italia, soprattutto se comparato a quello degli altri paesi europei e Usa.
Come scrivono i due autori: “In un ventennio la produttività oraria nelle aziende italiane è cresciuta in tutto del 5 per cento. Negli Stati Uniti, nel medesimo periodo, otto volte di più: 40 per cento. In Francia, Gran Bretagna e Germania sei volte di più. Anche Spagna e Portogallo hanno fatto meglio: + 15 per cento in Spagna, tre volte più che noi, e + 25 per cento in Portogallo, cinque volte di più”.
Alesina e Giavazzi forniscono spiegazioni per tale deludente risultato. Un risultato che di per sé, dal momento che la produttività oraria, se riferita al solo fattore produttivo lavoro, è un indicatore del tasso di sfruttamento, non sarebbe del tutto negativo, se fosse derivato da un rallentamento dei ritmi e da migliori condizioni lavorative. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che non è così. Anzi, in Italia negli ultimi anni, lo sfruttamento è aumentato, sino a diventare più pervasivo e ad avvolgere parti crescenti del tempo di vita e non solo quello di lavoro.
Prima la Brexit, poi l'elezione di Trump ci dicono che l'"imprevedibile" può verificarsi, specie quando dilaga lo scontento per politiche economiche a vantaggio solo di pochi. Nel 2017 voteranno due (e forse anche noi) paesi importanti, e tutto può accadere. La crisi dell'euro merita una riflessione laica, aperta a diversi scenari possibili
Dopo la vittoria di
Donald Trump non solo ci
si deve interrogare sulle ragioni del suo imprevisto successo
in America, ma anche su quale lezione se ne possa trarre per
l’Unione europea. Si
tratta evidentemente di situazioni politiche non
sovrapponibili. Eppure, non ostante tutte le differenze, gli
scenari presentano intriganti punti in
comune. Innanzitutto, la crisi economica che in modi diversi
ha toccato le due sponde dell’Atlantico; poi la crisi dei
tradizionali assetti
politici.
Gli stati Uniti e l’Europa sono stati entrambi colpiti dalla Grande recessione. Con una differenza fondamentale. L’America di Barack Obama ha ripreso a crescere in tempi relativamente rapidi e già nel 2014 il reddito nazionale aveva superato quello antecedente alla crisi. La disoccupazione giunta al 10 per cento al culmine della crisi è stata ridotta al 4,9 per cento. Il contrario si è verificato nell’Unione europea e, in particolare, nell’eurozona dove la crisi ha avuto effetti devastanti.
Il confronto fra le politiche adottate per rispondere alla crisi mostra tutta l’assurdità della combinazione di austerità e riforme strutturali adottate nell’Unione europea sotto l’egida della Commissione europea con la complicità degli stati membri dell’eurozona. L’austerità ha bloccato la crescita, portato a livelli esplosivi la disoccupazione e accresciuto il debito pubblico che era finalizzata a ridurre. Le riforme strutturali hanno aggredito le conquiste sociali che avevano caratterizzato la democrazia europea del vituperato Novecento: una politica reazionaria definita, con un’ipocrita torsione del linguaggio politico,“riformista”.
1. Ooops! Fanno una scoperta...
ALLARMISTI PER IL SÌ - Ft: "Se vince il No, Italia fuori da euro". Confindustria: "Si fermano investimenti". Ma per Nyt il problema è un altro
Naturalmente non spiegano bene perché il referendum si colleghi all'uscita dall'euro dell'Italia.
Anzi, dicono che per il New York Times "il problema sarebbe un'altro" (come vedremo): non il referendum in sé, ma le sofferenze creditizie in Italia, cioè, l'Unione bancaria che, (ma si ostinano a non voler unire i puntini), coincide con l'euro.
E ciò in quanto l'Unione bancaria è il meccanismo assicurativo dei Paesi creditori all'interno di un sistema in cui le insolvenze diffuse sono la conseguenza degli strumenti di correzione degli squilibri commerciali determinati dalle svalutazioni competitive tedesche, poste in essere in violazione dei trattati, ma tollerate dalle istituzioni €uropee...
E tollerate, anzi avallate, in quanto soggette all'indirizzo politico imposto dal paese che ha vinto la guerra commerciale che l'euro era programmato ad innescare: secondo la previsione della "economia sociale di mercato fortemente competitiva".
1. Una cosa
appare
certa. Comunque si fissino i confini del populismo, sta di
fatto che le sue manifestazioni si vanno particolarmente
moltiplicando. Come quel mito che
tagliata una testa ne appare un’altra, e un’altra ancora;
oppure come tutti gli incubi della borghesia, quel fantasma
che non si riesce ad
acciuffare e si aggira terrorizzando la pace sociale. Metafore
a parte, di populismo e di partiti populisti, in realtà, si è
ricominciato a parlare all’incirca un trentennio fa, anche se
è con il cronicizzarsi della crisi e con l’indebolimento
dell’Unione Europea che si è imposto come termine più
attentamente monitorato dai media e tema più aspramente
dibattuto
dagli studiosi di scienza politica. E la sua origine e la sua
definizione restano tuttavia un rompicapo irrisolto: se non
ricorrendo a spiegazioni che
non ne sciolgono la questione dei confini. Tanto è vero che
l’etichetta populista viene usata per il Front National di Le
Pen, l’UK
Independence Party di Farage e la Lega di Salvini; un po’ meno
per il Movimento Cinque Stelle, mentre, in altro versante,
viene utilizzata per i
movimenti anti-austerity come Podemos o Syriza.
Quali sono, dunque, i confini del populismo? Che essi siano a geometria variabile, in base al posizionamento, si muovono comunque all’interno di un piano costituzionale.
Questo articolo è composto da due parti, la prima che riguarda il tema del confine tra umano e macchina, di Adriana Perrotta Rabissi, la seconda che riguarda postumanesimo e conflitto sociale di Franco Romanò
Nei tre saggi che compongono il Manifesto Cyborg Donna Haraway indaga il rapporto tra scienza tecnologia e identità di genere. In contrasto con le posizioni essenzialiste di parte del femminismo adotta la metafora del Cyborg come figura in grado di sovvertire l’ordine del discorso patriarcale e mettere in crisi l’epistemologia maschile.
In the three essays composing the Cyborg Manifesto Donna Haraway investigates the relationship between science technology and gender identity. In opposition to the essentialist positions taken by part of the feminist movement,she takes cyborg metaphor as a figure able to subvert the order of speech and consequently putting in crisis male epistemology.
* * * *
di Adriana Perrotta Rabissi
Negli anni Novanta del secolo scorso Donna Haraway, filosofa e biologa statunitense, che si dichiara socialista e femminista, si è interrogata sul rapporto scienza, tecnologie e identità di genere e ha scritto tre saggi pubblicati in italiano nel libro, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie, e biopolitiche del corpo, Introduzione di Rosi Braidotti, Feltrinelli, Milano, 1995.1
Con il dibattito politico dominato dalla questione della “Brexit”, nel quasi silenzio generale il parlamento di Londra settimana scorsa ha approvato in via definitiva una nuova legge, il cosiddetto Investigatory Powers Bill (IPB), che assegna vastissimi poteri di sorveglianza alle forze di polizia e alle agenzie governative di intelligence sulle comunicazioni elettroniche di tutta la popolazione britannica.
Il provvedimento, che dovrà ricevere il cosiddetto “assenso reale” per entrare definitivamente in vigore, nel novembre del 2015 era stato già avanzato dall’attuale primo ministro, Theresa May, quando era ministro dell’Interno nel governo Cameron ed è da tempo noto in Gran Bretagna come “Snoopers’ Charter”, o “Carta degli Spioni”, a riprova delle misure gravemente lesive del diritto alla privacy in esso contenute.
L’IPB sostituirà un’altra legge che regolamentava questo ambito, il Data Retention and Investigatory Powers Act (DRIPA), la cui validità si sarebbe esaurita il prossimo mese di dicembre. Lo scopo della nuova legge è in sostanza quello di razionalizzare regole e norme relative alla sorveglianza governativa e di raccoglierle in un unico testo, il tutto con un’impronta fortemente anti-democratica.
La portata dell’IPB è apparsa evidente dai commenti allarmati anche dei principali giornali britannici. The Independent, ad esempio, in un’analisi pubblicata nei giorni scorsi ha affermato che, “con la giustificazione della lotta al terrorismo, il governo britannico ha ottenuto poteri di sorveglianza da stato totalitario”, ovvero “il sistema [di controllo e sorveglianza] più invasivo della storia di qualsiasi democrazia”.
La Confindustria,
perchè dal governo ha avuto l’abolizione dello Statuto
dei
lavoratori, dell’art. 18, la licenziabilità dei
lavoratori; il regalo di 20 miliardi di incentivi, in cambio
del crollo
dell’occupazione stabile del 33,7%; il lavoro precarizzato,
senza garanzie e tutele.
La vuole la grande finanza, dalla
J.P.Morgan, alla BCE, a
Bankitalia, a Blackrock, alle assicurazioni, ai petrolieri,
alle
multiutility, che grazie allo Sblocca Italia,
le politiche energetiche, il consumo di suolo, le grandi opere
– Tav,
trivellazioni, gasdotti, inceneritori, autostrade, Tibre,
Cispadana, ponte sullo Stretto, acqua, energia, rifiuti,
trasporti - possono
mettere le mani sui beni comuni e lucrare sui bisogni delle
persone.
Questo è il senso della Riforma del Titolo V. Non di garantire un eguale accesso ai diritti, ma di consentire al governo, in forza della legislazione esclusiva su tutela della salute, politiche sociali, energetiche, del lavoro, infrastrutture strategiche, grandi reti di trasporto, istruzione, beni culturali, governo del territorio, nonchè della “clausola di supremazia”, di approvare, senza alcun ostacolo da parte di Regioni e Comuni, speculazioni, cementificazioni, aggressioni all’ambiente; di depotenziare la sanità pubblica, per favorire forme di sanità integrativa privata, offerta dalle compagnie di assicurazioni.
Giuseppe Cotturi, Declino di partito. Il Pci negli anni Ottanta visto da un suo centro studi, prefazione di Maria Luisa Boccia, Roma, Ediesse, 2016
Nel 1979, alla fine della VII legislatura, Pietro Ingrao, che nel luglio del 1976 era stato eletto alla presidenza della Camera con il sostegno consensuale delle principali forze politiche nel quadro della strategia della “solidarietà nazionale”, rifiutava l’offerta di continuare in quel ruolo, ricoperto in uno dei momenti politici più delicati e drammatici della vita del paese.
Il leader della sinistra interna comunista sceglieva invece di entrare nella commissione affari costituzionali del Parlamento e tornava nel contempo a dirigere uno dei centri studi legati al Pci, quel Centro per la riforma dello Stato, di cui era stato primo presidente un altro grande battitore libero del comunismo italiano come Umberto Terracini. Pur privo di grande risorse finanziarie e sicuramente meno noto rispetto ad altre pensatoi del partito, il Centro per la riforma dello Stato divenne sotto l’impulso del primo comunista presidente della Camera uno importante centro di analisi ed elaborazione del delicato passaggio politico tra gli anni Settanta ed Ottanta.
Il libro di Giuseppe Cotturi, che del Crs è stato uno dei direttori proprio in stretta collaborazione con Ingrao, ripercorre ed analizza proprio il lavoro svolto da quel laboratorio culturale e politico sotto la spinta del suo autorevole leader tornato ad immergersi nella vita concreta del partito dopo la parentesi istituzionale.
Non discutere mai con
uno stupido:
la gente potrebbe non notare la differenza.
Ma potrebbe anche prendere sul serio entrambi:
«Finalmente due
persone intelligenti!».
La stupidità è tanto
comune e tanto
potente
che non si può riformarla senza che succeda
un pandemonio (D. Diderot, Il nipote di Rameau).
Bansky si confessa (gratuitamente?) sulle pagine del Washington Post. Chi è Bansky? Si tratta in realtà di un tal «Paul Horner, 38 anni, impresario di un impero di false notizie virali che da anni gli rendono benissimo». Si parla di circa 9.000 euro al mese. Leggiamo (magari pensando, o sperando, che non si parli di noi): «Negli ultimi anni la gente è più stupida, non fa che passarsi roba senza accertare i fatti. Non c’è niente cui la gente non creda.
1.
Populismo o
alternanza nella democrazia oligarchica?
La vittoria di Trump è stata vissuta come uno shock in tutto lo spettro politico. La stragrande maggioranza delle interpretazioni aderiscono alla medesima visione: Trump sarebbe l’espressione statunitense della ventata populista che sta imperversando nei Paesi avanzati e di cui sono esempio anche Brexit e l’affermazione elettorale di partiti e movimenti populisti in tutta Europa. Si va dalle posizioni che paventano l’affermazione di un nuovo fascismo a quelle che vedono nella vittoria di Trump un segno anti-establishment. Secondo questa visione, Trump ha vinto perché avrebbe raccolto il voto degli esclusi mentre la Clinton ha perso perché rappresentante del capitale globalizzato e di Wall Stret.
In primo luogo, va precisato che Trump ha vinto solo in virtù del sistema elettorale spiccatamente maggioritario, basato sul sistema dei grandi elettori e in un contesto in cui vota poco più della metà degli aventi diritto. La Clinton, secondo gli ultimi conteggi, avrebbe un vantaggio, in termini di voto popolare, di oltre 2 milioni di voti1. In secondo luogo, per essere una ipotesi che terrorizzava Wall Street e per essere Clinton la beniamina dei mercati finanziari, come titolava il Sole24ore2, la Borsa di New York ha reagito in modo ben strano alla vittoria di Trump.
La questione del referendum del 4
Dicembre
andrà affrontata sotto diversi aspetti: da un punto di vista
del contenuto più strettamente giuridico, da un punto di vista
più
complessivamente politico e dal punto di vista del rapporto
con l’analisi di classe propria dei comunisti.
Una prima operazione di carattere più generale sarà quella di liquidare una serie di luoghi comuni retorici al riguardo, ovvero che il paese aspettava una riforma da trent’anni, che la costituzione va adeguata ai tempi, che opporsi ad essa significhi essere conservatori. Ebbene a questi luoghi comuni ha risposto anche il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ma credo che basti contro di essi un solo argomento. Quantunque sia vero che ci sia bisogno di una riforma (e anche questo andrebbe argomentato), il problema è che la riforma necessaria potrebbe non essere questa. Dunque la discussione dovrebbe riguardare proprio questo punto e perciò gli argomenti di questo tipo senza una discussione del genere non hanno senso.
Una seconda operazione di carattere preliminare riguarda la tendenza propria di noi comunisti a dire che quella italiana non sia “la costituzione più bella del mondo” e che essa ha comunque permesso la legislazione antisociale degli ultimi anni per cui non vale la pena soffermarsi sulla riforma in sé ma sul contesto politico in cui essa è inserita.
Io non ho
amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero
che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine
a Cuba ci
avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata
perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi
davano
sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio
di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono
difficilissime da
fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è
legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero,
sei sempre
in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla
parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e
l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e
trasformandoti in un portafogli che cammina,
caricaturizzandoti nel cliché dello
straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella
persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio
Cubana de Aviación
e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non
si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un
“buongiorno”.
E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di
cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con
fagioli, un frutto che
non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in
trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse
stato scongelato e
ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia
spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è
la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un
sapore solo.
A poche
ora
dalla morte del Comandante Fidel Castro, rivolgiamo alcune
domande a Luciano Vasapollo, dirigente della Rete dei
Comunisti e da molti anni
responsabile del lavoro di solidarietà con i popoli
dell'America Latina e delle relazioni politiche e
scientifiche con i governi e le forze
rivoluzionarie di 'Nuestramerica'.
* * * *
Rdc – Come potremmo definire in poche parole il Comandante Fidel Castro?
LV – Fidel Castro è una figura che ha fatto la Storia, con la S maiuscola, dell'autodeterminazione dei popoli, combattendo sempre contro quelli che pensavano di poter fare del mondo un loro enorme impero economico.
Grazie alla sua fiducia profonda nella democrazia socialista, Fidel Castro è stato capace di gestire il governo popolare per tutti e 57 gli anni successivi al trionfo della Rivoluzione a Cuba.
Dall'inizio della Rivoluzione, della creazione dello Stato Socialista a Cuba l'isola ha vissuto importanti conquiste rivoluzionarie: la riforma agraria, la redistribuzione delle terre; la nazionalizzazione dei settori strategici come quello della canna da zucchero e delle raffinerie; la riforma culturale a favore dell'istruzione popolare.
Tutto come previsto: il referendum si avvicina e la carta della paura viene ormai giocata con dosi sempre più massicce. Niente di nuovo sotto il sole, vien da dire. Roba già vista con la Brexit e più recentemente negli USA.
Nel caso italiano c'è però un paradosso in più. Si tratta del fatto che mentre il solito spauracchio dei "mercati" viene giocato spudoratamente dal fronte del Sì per provare a risalir la china, quello ben più concreto della crisi bancaria viene invece accuratamente nascosto sotto il tappeto dei media nostrani.
Non si deve infatti parlar troppo di un problema targato Europa (attraverso la sciagurata norma del bail in), figlio di una crisi ormai quasi decennale che il sistema non sa risolvere, aggravato dall'irresponsabilità di una classe dirigente (governi Monti - Letta - Renzi) che ha accettato senza fiatare le regole di un'Unione Bancaria disastrosa per il nostro Paese.
Altro che le oscillazioni dei mercati del 5 dicembre! Qui siamo di fronte ad un disastro annunciato che con il referendum c'entra quanto i cavoli a merenda.
Di cosa si tratta? Proviamo a ricapitolarlo in poche righe: dopo anni di una recessione intervallata da brevi pause di stagnazione le banche italiane si trovano piene di crediti deteriorati (altrimenti detti npl).
Un paio di giorni fa, l’economista Giuliano Cazzola, ospite all’Aria che Tira, a metà fra il serio ed il faceto, ha detto che in caso di vittoria del M5s, i carabinieri dovrebbero fare un colpo di Stato. Certo, si fa presto a dire che è solo una battuta, magari esagerata, però quando iniziano a volare certe parole è bene cominciare a prendere appunti.
Noi non ce lo stiamo dicendo e facciamo finta che la riforma costituzionale di Renzi sia una proposta, avanzata secondo le regole e che riceverà l’approvazione o la disapprovazione finale del popolo. Comunque vada è una decisione democratica che chiude la questione.
E invece le cose non stanno così, questa è solo la rappresentazione formale dello scontro, non l’analisi politica di esso. In primo luogo c’è il peccato di origine di come è nata questa riforma: da parte di un partito che aveva solo il 25% dei voti popolari, magicamente raddoppiati in seggi grazie ad una legge elettorale super truffa dichiarata incostituzionale.
Per di più si noti che la riforma costituzionale (o anche quella elettorale) non facevano parte del programma del Pd, dunque non c’è neppure stata una investitura popolare in questo senso, per quanto minoritaria, anzi Sel, che faceva parte della coalizione si è dissociata dalla riforma ed è passata all’opposizione.
A margine del convegno “Logiche dello sfruttamento” organizzato da Federico Chicchi il 21 ottobre all’università di Bologna, abbiamo intervistato Pierre Dardot, studioso francese negli ultimi anni particolarmente noto in Italia per i libri scritti con Christian Laval, La nuova ragione del mondo e Del comune, entrambi editi da DeriveApprodi, come quello di recente pubblicazione, Guerra alla democrazia.
* * * *
All’ottavo anno di inizio dalla crisi globale, qual è lo stato delle politiche neoliberali in Francia, come si è evoluta la governamentalità e quali sono le prospettive di ulteriore sviluppo di questi dispositivi?
Innanzitutto è necessario sottolineare come non ci sia alcun
rapporto tra la crisi che stiamo vivendo oggi con le politiche
che la
accompagnano e la Grande Crisi del 1929/’30, troppo spesso si
assiste a una comparazione di questi due periodi storici. Tra
coloro i quali hanno
sostenuto questa comparazione c’è Joseph Stiglitz, che nel
2008 ha pubblicato un articolo in cui sosteneva la fine del
neoliberismo,
sbagliandosi completamente a mio avviso, credendo
che avremmo assistito a un ri-orientamento – così come era
accaduto negli anni ’30 negli Stati Uniti – delle politiche
pubbliche a seguito della crisi, cosa che in realtà non si è
verificata.
È necessario sbarazzarsi dell’idea secondo la quale la crisi sia una sospensione di quella che è l’ordinarietà, una sorta di intervallo rispetto a “tempi normali”:
Sul referendum Renzi usa lo spauracchio dello spread. Ma è lui ad avere paura, perché lo spread che sale indica il fallimento della sua politica e la sua prossima sconfitta il 4 dicembre
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi sembra aver sparato praticamente tutte le cartucce a sua disposizione per tentare di avere la maggioranza degli elettori dalla sua parte, il prossimo 4 dicembre. I sondaggi, da tempo, vedono il fronte del No in vantaggio sul Sì al referendum ed a circa due settimane soltanto dal voto, a Renzi cominciano a tremare le vene e i polsi. Perciò non perde occasione per usare lo spread che sale per la sua campagna referendaria: "Con le riforme sale il Pil, senza riforme sale lo spread", ha affermato il presidente del Consiglio in un incontro pubblico a Bergamo. “Non è una minaccia ma è una constatazione", aggiunge Renzi.
Intanto, però, Renzi brandisce lo spread come un’arma politica intimidatoria per raccogliere consensi intorno alla sua controriforma costituzionale. Ma questo atteggiamento è abbastanza indicativo dei timori del presidente del Consiglio di perdere questa importante partita.
Lo spread che sale per l’incertezza politica dovuta al referendum è usato dal governo e dalla sua velina, L’Unità per ripetere una sorta di tormentone elettorale: “I mercati non ragionano per partito preso.
Luigi Ferrajoli: Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
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Questo post consente
due piani di lettura. Il testo principale sviluppa
le argomentazioni in modo - spero - semplice e completo ed è
sufficiente a illustrare la mia posizione. Le parti a sfondo
colorato di
approfondimento, invece, trattano argomenti specifici
entrando nei dettagli tecnici e storici. Purtroppo il
trentennale dibattito istituzionale ha
accumulato tanti equivoci che richiedono una critica
articolata, ma questa rischia di appesantire il discorso
generale. La distinzione permette al
lettore di scegliere il livello di lettura secondo i propri
interessi.
* * * *
Care democratiche e cari democratici,
avverto il dovere di chiarire le ragioni che mi portano a confermare nel referendum il voto contrario già espresso in Senato sulla revisione costituzionale. Ecco alcuni punti che mi stanno a cuore.
La soluzione senza il problema
C’è pieno accordo tra noi sulla esigenza di riforma del bicameralismo, ma forse proprio per il largo consenso sulla soluzione si è smarrito il problema.
Si stava meglio quando c'era Alberoni. I padri saranno anche evaporati, ma il Sorrentino della psicoanalisi è ovunque
Non si può
parlare dell’ultimo
libro di Massimo Recalcati senza interrogarsi sull’ascesa di
Massimo Recalcati. Quindi facciamo qualche passo indietro e
confessiamolo subito:
quando c’era Alberoni era tutto più semplice. I confini erano
chiari, netti, giusti. Introiettata la differenza tra innamoramento
e amore, guardavamo con distacco le raffiche di best
seller con copertine rosa e titoloni in baskerville giallo: Ti
Amo; Il grande
amore erotico che dura, Leader e masse; Le
sorgenti dei sogni. La cosa non ci riguardava. Nulla che
non fosse due dita sotto la
complessità dell’ultimo Battisti. Al massimo, buttavamo un
occhio sui corsivi del Corriere dove, alle soglie di
Tinder, Alberoni
scriveva «fare all’amore». Alberoni ci spiegava il
carisma, l’indebolimento del Super-Io, il capo d’azienda,
l’uomo cacciatore, la donna che fa il nido, la crisi dei
valori e «le miserie degli accoppiamenti nelle orge dei rave
party». Nei
suoi articoli, nelle conferenze o nelle interviste su Grazia
non avrebbe mai ceduto a parole come «forcluso»,
«fagocitante», «ieratico», tantomeno al «balbettio monologante
della lalangue».
Quando c’era Alberoni, i tomi dei seminari di Lacan erano lì dove dovevano essere, nello scaffale più inaccessibile e forcluso della nostra libreria. Poi è arrivato Recalcati. Le copertine non sono più rosa, né fucsia. Titoli ieratici e sottotitoli minacciosi chiamano in causa l’«inesauribile capacità del mito di offrire spunti di riflessione», la «filiazione simbolica», «l’Altro», l’Oltre e l’Ultra.
In un precedente intervento
su
Carmilla ho sostenuto che in Venezuela una
molteplicità di movimenti, sviluppatesi autonomamente, hanno
trovato una
riunificazione nella catena di vicende che parte dal Caracazo
e arriva all’elezione di Chavez. Ci siamo inoltre chiesti come
poter rappresentare
questo processo di unificazione.
Il primo elemento da considerare è l’evento della rivolta popolare che costringe i movimenti a unirsi spontaneamente e immediatamente per contrapporsi alla violenta repressione dello stato. Di fronte al pericolo estremo, sosteneva Sartre nella Critica della ragione dialettica, gli individui atomizzati si uniscono creando un’aggregazione qualitativamente diversa dalla somma dei singoli, il gruppo in fusione, che cementa la solidarietà sostituendola alla reciproca indifferenza. La rivolta rende evidente una frattura sociale, cementa il campo popolare e dischiude un nuovo orizzonte di possibilità. A questa unificazione immediata ne segue una caratterizzata da una processualità consapevole e orientata. E qui ci torna utile Enrique Dussel1 che descrive questo processo come caratterizzato da un’incorporazione analogica tra le diverse rivendicazioni popolari in grado di conservare la distinzione di ciascuno e di trasformare la prassi di liberazione popolare in una nuova proposta politica collettiva. Ciò si ottiene attraverso un processo di “dialogo e traduzione” tra le diverse istanze conflittuali.
Non so a voi ma a me questo referendum mi dà un po’ di angoscia senza esagerare, intendiamoci. La vita mi sorride abbastanza, ma un po’ di angoscia questo referendum me la dà. Le ragioni sono molteplici e cerco di raccontar(me)le. I miei amici litigano fra loro astiosamente, si arriva al punto che qualcuno cancella da Facebook quelli che votano sì, o quelli che votano no. Potrei anche sopportarlo, se si trattasse di una disputa che davvero ci riguarda. Che ne so, se qualcuno votasse a favore del licenziamento degli operai dissenzienti di Pomigliano, se qualcuno votasse a favore della guerra di George Bush e Dick Cheney, beh allora d’accordo, io con un tipo così non ci voglio aver nulla a che fare, che vada a farsi fottere.
Ma qui mi pare che siamo tanto rissosi per la semplice ragione che siamo insicuri, non crediamo davvero a questo referendum a questo sì e a questo no, perciò alziamo tanto la voce, e ci ripetiamo che la costituzione non si tocca oppure che bisogna toccarla eccome.
Chi (come me) vota No non può non sapere che sta votando come Gianfranco Fini, e che se il No è maggioritario si va presto a nuove elezioni in un clima drammatico di collasso finanziario in cui vincitori probabili saranno razzisti ininterrotti come Salvini o razzisti a giorni alterni come Grillo.
Nuove misure legislative per controllare sempre più la formazione dell’alta cultura
Abbiamo già messo in luce in un articolo precedente l’importanza che il sempiterno Brzezinski attribuisce all’università nell’attuale fase postindustriale che stiamo vivendo, e che è caratterizzata dal dominio declinante degli Stati Uniti. Ma dobbiamo aggiungere che tale declino rende ancora più necessaria una capillare strategia ideologica volta al rafforzamento dell’egemonia culturale nelle sue varie manifestazioni; uno dei pilastri di tale supremazia è sicuramente rappresentato dalle università in cui si produce cultura e ideologia, le quali vengono poi volgarizzate e diffuse dall’apparato massmediatico.
In un contesto in cui non ci sono più modelli alternativi in lotta, il docente universitario è chiamato a elaborare risposte pragmatiche ai problemi, proponendo sostanzialmente riaggiustamenti, adeguamenti, pietose illusioni che rendano immaginabile un miglioramento delle disperate condizioni di vita dei più. In questa prospettiva si rende quindi sempre più urgente – anche nel nostro paese - estendere il controllo sul sistema universitario, la cui autonomia è già quasi del tutto inesistente sia per la presenza dei membri privati nei Consigli di amministrazione, per la riduzione del ruolo politico del Senato Accademico che per la preminenza dei Rettori. Ma tutto ciò evidentemente non è sufficiente, giacché si sta profilando all’orizzonte un provvedimento (Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri), che mette in pratica una norma contenuta nella Legge di Stabilità del 2016.
Come S.a.L.E Docks abbiamo deciso di fornire alcuni pareri (non richiesti) in merito a questo articolo, apparso su Art Tribune, in cui 24 protagonisti del mondo dell'arte si schierano per il sì al referendum.
Per i fan della par condicio c'è anche un articolo meno entusiasta che aggrega i contrari ed indecisi, giusto per regalare al NO un accenno di ignavia.
Prima considerazione. Abbasso il bicameralismo perfetto!
Intanto abbiamo capito che per un campione significativo di giovani operatori e meno giovani notabili del mondo dell'arte italiano, il bicameralismo perfetto era proprio un cazzo di problema che era ora che qualcuno la facesse finita. Critici, artisti, editori, collezionisti e curatori, non arrivano a citare Pietro Ingrao e la sua proposta di abolizione del senato in nome della “democrazia di massa”, ma si capisce che 'sto tema lo sentono eccome e lo percepiscono dirimente per il presente del paese. E poco importa se la riforma costituzionale la fa un governo non eletto, se questo governo vuole il TAV e gratta il fondo del barile con il ponte sullo stretto e se il lavoro autonomo è tassato al 50% e se gli altri sono pagati a voucher o non affatto pagati. Anzi...
Ci sono notizie che non compaiono, che rimangono nei cassetti non perché siano di secondo piano, non perché siano poco glamour dal punto di vista delle vendite e dell’audience, ma perché sono pericolose. Specie se vengono dall’altra sponda dell’atlantico dove si sa che le conseguenze delle ideologie liberiste si fanno sentire prima che altrove. La notizia di cui voglio parlare è il collasso del fondo per le pensioni dei pubblici dipendenti di Dallas che ormai può pagare solo il 52% delle prestazioni e che abbisogna di 1,1 miliardi di dollari solo per poter momentaneamente continuare a vivere.
Vabbé se una rondine non fa primavera neanche un diavolo fa l’inferno, ma non è così: anche Filadelfia la quinta città del Paese è in bancarotta con quasi 9 miliardi di debiti e naturalmente con un fortissimo rischio per i fondi pensione del pubblico impiego, ma anche Houston con 1,2 miliardi da trovare e pure Los Angeles dove al pericolo per le pensioni si aggiunge anche quello dei licenziamenti di massa e più o meno lo stesso accade a Baltimora o a New York dove il debito accumulato dai fondi pensione arriva a 14 miliardi, oppure a Oakland, San Diego, Harrisburgh, Newark, Cincinnati, Miami, Chicago, Scranton e altre centinaia di città più piccole, senza parlare di interi stati come il Connecticut, l’Illinois, la California, il New Jersey, il Michigan, per non palare del Minnesota o di Detroit o della colonia portoricana.
Il filo-americanismo presenta sempre risorse insospettate. Come già otto anni fa la vittoria di Obama aveva rilanciato il mito della “più grande democrazia del mondo”, persino l’attuale “trionfo” di Trump ha dato il via ai consueti inni in onore degli USA, capaci di sovvertire quel “pensiero unico” che proprio loro avevano imposto al mondo. Ogni speculazione ed ogni elucubrazione andrebbero peraltro corredate di qualche pezza d’appoggio, che invece manca all’appello.
Hillary Clinton è stata abbandonata da una parte consistente dell’elettorato democratico, riscuotendo oltre sei milioni di voti in meno dello spompato Obama delle elezioni di quattro anni fa. Nonostante abbia spaventato l’elettorato democratico con i suoi toni guerrafondai, Hillary Clinton ha strappato comunque più voti di Trump, ed assolutamente nulla indica che i voti da lei persi siano andati al suo avversario, il quale, in definitiva non è riuscito neppure a raggiungere la percentuale elettorale raggiunta dai precedenti candidati repubblicani, McCain e Romney. Trump è risultato alla fine vincente non per aver trascinato le masse, ma solo per le alchimie elettorali del sistema americano, in altre parole per il velato appoggio di una parte dell’establishment.
Cosa vogliono le lobby che hanno sostenuto Trump? Certamente non solo il protezionismo in sé, che nessun presidente gli aveva fatto mai mancare.
Il sistema capitalistico non è più capace di riprodurre il lavoro e le politiche keynesiane tradizionali non sono in grado di mediare una nuova fase di sviluppo. Serve una rifondazione che non è mai iniziata
Nonostante la
quotidiana narrazione secondo cui l'uscita dalla crisi
sarebbe dietro
l'angolo, anzi sarebbe già iniziata, temiamo che essa
perdurerà ancora per qualche anno e che forse non abbia
ancora espresso il peggio
di sé stessa.
Da militanti comunisti riteniamo che ci sia bisogno di un ulteriore sforzo di analisi sulle sue caratteristiche e che uscirne in positivo – e non con i massacri sociali fin qui perpetrati, che poi, è dimostrato dai fatti, aprono la strada alla destra peggiore – non sia possibile senza profonde trasformazioni sociali.
Fra gli strumenti di contrasto all'involuzione sociale assume grande rilevanza la riduzione dell'orario di lavoro. Questo giornale si propone di focalizzare il tema con una serie di approfondimenti [1].
Abbiamo deciso di parlarne con Giovanni Mazzetti, già professore all'Università della Calabria.
Confrontarci con lui ci è sembrata una via obbligata perché ha dedicato gran parte della sua vita a questo tema, pubblicando numerosi saggi in proposito, e perché è il responsabile del Centro Studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro a parità di salario e per la redistribuzione del lavoro complessivo sociale, sul cui sito [2] è possibile trovare materiali preziosi, anche di carattere formativo per i militanti.
Un ricordo di Marcello de Cecco, economista sempre stato attento a non separare mai i suoi studi sul potere e sull’economia da un impegno civile e, in fondo, patriottico
La notorietà internazionale venne a
Marcello de Cecco dai suoi studi sul sistema monetario
internazionale. Il libro più celebre è Moneta e impero. Il
sistema finanziario
internazionale dal 1890 al 1914 (Einaudi, Torino 1979).
Il volume era in realtà già comparso in una prima versione
dall’editore Laterza, nel 1971, con il titolo Economia e
finanza internazionale dal 1890 al 1914. La
ricerca risaliva al 1968,
ed era stata stimolata dalla svalutazione della sterlina
dell’anno precedente, come anche dalla impressione che
l’autore sempre più
nutriva che il sistema di Bretton Woods, fondato su ‘cambi
fissi ma aggiustabili’, fosse sulla via del collasso. Grazie
alla
partecipazione ad un progetto di Robert Mundell sulle crisi
per la National Science Foundation statunitense de Cecco potè
studiare, a Chicago e
a Londra, la presunta età dell’oro del gold standard, ma anche
la sua interna e crescente fragilità. In un articolo del 1973
comparso, ancora in italiano, nella Rivista internazionale di
storia della banca, de Cecco proseguì il discorso commentando
la crisi bancaria
del 1914, ed impiegando materiali che allora non erano ancora
stati resi noti, in particolare le Crisis Conferences tenute
da Lloyd George in
occasione della crisi del luglio 1914, trascritte dalla moglie
Julia Bamford (professoressa di lingua inglese all’Orientale
di Napoli). Questo
saggio divenne l’ultimo capitolo di una versione ampliata in
lingua inglese: Money and Empire. The International Gold
Standard,
1890-1914, pubblicata da Basil Blackwell nel 1974. Il
volume fu riedito dieci anni dopo da Frances Pinter, con il
titolo invertito (The
International Gold Standard. Money and Empire), una
nuova prefazione e la correzione di una serie di errori
segnalati dai recensori della prima
edizione.
C’è
un tratto poco sottolineato della retorica renziana che
consiste nel ricondurre a necessità storica, quando non a dato
naturale, ciò che
è invece oggetto di scelte politiche soggettive e contingenti.
È un tratto importante, perché sintomatico di una
contraddizione,
e probabilmente di una debolezza, dell’ideologia dell’attuale
classe di governo: l’appello ripetuto alla necessità urta
infatti visibilmente con le pretese decisioniste del
presidente del consiglio e del suo inner circle. Ed è in
compenso del tutto organico
– a onta della missione “rivoluzionaria” che il renzismo si
attribuisce - alla razionalità neoliberale e alla
naturalizzazione dell’esistente che essa sottintende e
persegue.
In questo intervento vorrei cercare di mostrare come questo circolo vizioso fatto di appello alla necessità, naturalizzazione dell’esistente e retorica rivoluzionaria abbia agito e stia agendo nella propaganda della riforma costituzionale.
A un certo punto dell’iter parlamentare della legge che porta il suo nome, la ministra Boschi l’ha glorificata come la riforma che gli Italiani “aspettavano da 70 anni”: ovvero, a essere precisi, da tre anni prima che la Carta del 1948 venisse promulgata. Giova tornare sull’episodio, perché raramente una sola frase riesce a condensare una tale capacità performativa di falsificazione del passato e di manipolazione del presente e, nei programmi della ministra, del futuro.
Hamza
& Ruda: Il tuo lavoro stabilisce una
cruciale
distinzione fra la critica del capitalismo dal punto di
vista del lavoro e la critica del lavoro nel capitalismo. La
prima implica una descrizione
trans-storica del lavoro, mentre la seconda pone il lavoro
come una categoria coerente - capace di "sintesi sociale" -
del modo capitalista di
produzione. Tale distinzione richiede che venga abbandonata
ogni forma di descrizione ontologica del lavoro?
Moishe Postone: Dipende da cosa si intende per spiegazione ontologica del lavoro. Questo ci spinge ad abbandonare l'idea che ci sia, in maniera trans-storica, uno sviluppo progressivo dell'umanità che avviene per mezzo del lavoro, che l'interazione umana con la natura, in quanto mediata dal lavoro, sia un processo continuo che ci porta a continui cambiamenti. E che il lavoro sia, in tal senso, una categoria storica centrale.
Attualmente, questa posizione è più vicina ad Adam Smith che
a Marx. Io penso che la centralità del lavoro rispetto a
qualcosa
che viene chiamato sviluppo storico può essere posta solamente
per il capitalismo e non per qualsiasi altra forma di vita
sociale umana.
D'altra parte, penso che si possa mantenere l'idea che
l'interazione umana con la natura è un processo di
auto-costituzione.
Dobbiamo comprendere che la grave situazione in cui viviamo non è una parentesi. Niente funzionerà più come prima del 2008. È probabile che stiamo entrando in un sistema forse anche peggiore del capitalismo, una sorta di economia della rapina, più simile al modo in cui funzionano le mafie del narcotraffico che ai modelli imprenditoriali che abbiamo conosciuto nella maggior parte del XX secolo. La crisi è stata provocata da los de arriba, quelli che stanno in alto, per continuare a restarvi, a essere classe dominante. Vogliono farlo a spese dell’umanità intera e sono disposti a creare anche un’ecatombe demografica pur di togliere di mezzo o far scomparire tutto quel che limita i loro poteri e intralcia i loro piani. A noi non resta altra strada che organizzare il nostro mondo nei nostri spazi/territori.
* * * *
La crisi continua a rivelare tutto quello che nei periodi di normalità rimaneva celato. Anche i progetti strategici della classe dominante, il suo modo di vedere il mondo, la scommessa principale che fa per continuare a essere classe dominante. È questo, a grandi linee, il suo obiettivo centrale, quello al quale subordina tutto il resto, comprese le forme capitaliste di riproduzione dell’economia.
Si potrebbe pensare che la crisi sia appena una parentesi dopo la quale tutto continuerebbe, più o meno, come funzionava prima.
Bufale di ieri, bufale di oggi. Ce le rifila La Stampa “recensendo” il film di Oliver Stone “Snowden” imperniato sulla vita dell’ex analista CIA che, rinunciando ad una prestigiosa carriera, ha rivelato l’esistenza di una orwelliana rete di sorveglianza. In altri tempi Snowden sarebbe stato incoronato come “Paladino delle libertà” e “Attivista per i diritti umani”; ci ha ricavato, invece, una serie di condanne a morte che lo hanno costretto all’esilio (ultima tappa, Mosca) e articoli come questo de La Stampa.
Articolo che, (il perché di tanto livore chissà da cosa dipende?) comincia infangando il Premio Pulitzer Walter Duranty - per aver messo in dubbio l’esistenza dell’Holodomor e cioè lo sterminio del popolo Ucraino voluto da Stalin (per saperne qualcosa, guardatevi questo bellissimo video) – e Walter Duranty, un altro Premio Pulitzer assegnatogli, ovviamente, da gente come lui: “creduloni faziosi, che detestavano la democrazia ed erano sedotti dall’Uomo Forte".
Segue uno sguaiato attacco al filosofo marxista Slavoj Zizek e, di riflesso, di tutti coloro che non sono disposti a mettere Putin sullo stesso piano dell’ISIS.
Ma il giornalista de La Stampa – che, verosimilmente, come tutti noi, non ha ancora visto Snowden – al di là delle sue amare considerazioni sui giornalisti che vincono il Premio Pulitzer - qualcosa sul film deve pur scriverla.
E dire che era stato proprio lui a prodursi in una lunga intervista, intitolata “Il Silenzio degli intellettuali”, nella quale esplorava quella defezione di quella cerchia di figure storiche che sentono l’obbligo sociale di non limitarsi ad un uso privato o accademico del proprio sapere, ma di metterlo a disposizione in forma militante del destino civile del paese, orientando opinione e atteggiamenti verso scelte partecipi e progressiste.
È che a volte invece il silenzio è d’oro, e quando proprio un intellettuale abituato all’uso di mondo influente, assolto per auto attribuzione, pronuncia con sussiego ineffabili banalità sia pure dettate dal candore e dalla rivendicazione di innocenza di chi sta in enclave riparate, lontano dalle miserie in una torre eburnea, ecco, quando costui casca da quella torre nemmeno fosse un pero, fa più rumore di noi gente comune.
Certo Asor Rosa, che di lui si tratta, ci aveva già stupito per esternazioni altrettanto dolcemente appartenenti alle geografie del luogo comune, del conformismo pop, proferite da esili dorati e remoti nelle campagne toscane, nei quali veniva improvvisamente sorpreso dall’orrenda rivelazione sbalorditiva e imprevedibile che amministratori “rossi” per tradizione promuovessero speculazioni oscene, manomissione del territorio e magari anche che accettassero di buon grado che territori esclusivi venissero minacciati da presenze ingombranti, che dovrebbero invece essere oggetto di negoziazioni con residenti speciali e ospiti eccellenti.
La nostra storia e le sue derive. Di questo dovremmo parlare. Di fronte alla barbarie delle invocazioni di aiuto alle Istituzioni e alle sue articolazioni, il discorso di “Nonunadimeno” si presenta come totalmente altro rispetto alla stagione dei nostri sogni.
Un’iniziativa che tende ad annullare la possibilità che le donne, con il conflitto e la ribellione, non si pieghino rassegnate al dominio della società neoliberista e alla vittoria della merce. E’ la negazione della responsabilità della società attraverso le sue stesse istituzioni a partire dalla dissipazione della libertà e dell’esistenza degli individui che si va compiendo nella curva estrema di questo momento storico.
Chiamando fuori da ogni responsabilità il dominio nelle sue articolazioni, dato che si omette di nominare chi permette la materializzazione del dominio stesso, omissione che non è casuale visto che sono gli stessi che la manifestazione si propone di “sensibilizzare”, viene portata avanti una denuncia tanto generica quanto fuorviante e una modalità, invece, di sostanziale complicità, mostrando al potere assoggettamento e facendo professione di abiura e di pentimento dei valori che hanno connotato le lotte femministe degli anni ’70.
Si dimentica che lo Stato possiede il monopolio della violenza, la esercita attraverso la forza e la considera legittima.
Ci si può rivolgere allo Stato, quindi, per chiedere aiuto, solo e se si ritiene che tutto ciò sia legittimo e si trascina così il femminismo ad un ruolo addomesticato ed ancillare.
Ricordate i preziosi documentari “Debtocracy” (2011), “Catastroika” (2012) e “Fascism Inc” (2014)? Contribuirono in Grecia e in tutta Europa a spiegare ad un vasto pubblico i meccanismi dello strangolamento finanziario dei popoli attraverso la trappola del debito e poi dei memorandum, e a denunciare il ruolo dei fascisti al servizio dei poteri forti, del grande capitale, delle classi dirigenti ‘liberali’, nonostante gli slogan ‘antagonisti’.
Ora il documentarista ellenico Aris Chatzistefanou è tornato proponendo una nuova opera, “This is not a coup” (Questo non è un golpe). Un ritratto senza sconti del voltafaccia del governo di Atene formato da Syriza e dai ‘Greci Indipendenti’ che lo scorso anno decise di chinare la testa di fronte ai ricatti della Troika e di firmare il Terzo Memorandum, il più pesante per una popolazione greca già stremata da anni di commissariamento, di tagli, di licenziamenti, di privatizzazioni.
Tsipras promise il ‘miracolo’, affermando che sarebbe bastato vincere le elezioni e formare un governo alternativo a quelli precedenti per andare a trattare direttamente con Frau Merkel e convincerla così a rinunciare ai suoi diktat e all’austerità; senza bisogno di alcuna rottura con l’Unione Europea, i suoi trattati, i suoi meccanismi coercitivi, senza alcun atto di disobbedienza istituzionale ed economica oltre che popolare.
Luigi Ferrajoli: Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
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La modifica
costituzionale
proposta ( http://www.camera.it/leg17/126?pdl=2613-D
) ha radicali difetti di legittimità e coerenza, propone un
modello di democrazia
lontano da quello
prefigurato dal costituzionalismo democratico in cui sono
iscritte le migliori democrazie occidentali, nate o
perfezionatesi nel secondo dopoguerra.
Insieme alla legge elettorale n. 52 del 2015, l’Italicum,
trasformerebbe il sistema italiano in un premierato forte,
senza garanzie, con una
Camera succube del capo dell’esecutivo.
Lasciare che questo sistema entri in vigore vuol dire consegnare l’Italia a due padroni: i poteri economici e finanziari sovranazionali e il vincitore delle prossime elezioni, chiunque egli sia.
In modo alquanto sintetico elenco i motivi per cui ritengo dovrebbe esser respinto il ddl Boschi-Renzi per rinviare ad un eventuale, non urgente e non indispensabile piccola correzione del sistema istituzionale l’intervento migliorativo della Costituzione del 1947, evitando di stravolgerla nel modo frettoloso e pericoloso che ci propongono gli abusivi “costituenti” del 2016.
* * * *
1. Legittimità di questo ddl costituzionale.
«Il Comitato centrale ha deciso:
poiché il popolo non è d’accordo,
bisogna
nominare un nuovo popolo»
(B. Brecht)
Ora che parte del polverone sollevato dalla vittoria di Trump si sta posando, abbozziamo un’analisi un po’ più fredda del voto e un primo bilancio politico di reazioni e prospettive.
All’immediato, lo sbalordito establishment statunitense, non potendosi cercare un altro “popolo”, sta correndo ai ripari lavorando a “normalizzare” la new entry presidenziale - grazie al personale repubblicano rispettabile che entrerà nello staff e/o affidandosi al tentacolare stato profondo - mentre la cupola finanziaria-militare coadiuvata dall’impero dei media liberal che dirige il partito democratico sta sicuramente pensando a come poter interrompere la corsa imprevista del presidente dei miserabili. Sta di fatto che la presidenza Trump non solo potrebbe innescare processi irreversibili ma, soprattutto, ha scoperchiato un profondo scontro dentro l’establishment statunitense sulle strategie interne e esterne più adatte a preservare l’impero del dollaro a fronte di una crisi sistemica da cui non si riesce a uscire. È alla luce di questo scontro che si tratta di discutere se l’opzione posta sul tavolo da Trump con buon fiuto politico, quella di una rinnovata unità nazional-popolare per rifare grande l’America, non possa paradossalmente rivelarsi un buon investimento per la cupola imperiale yankee negli svolti più duri a venire della crisi globale.
Nel primo dei due capitoli scritti per L’euro est-il mort?, libro pubblicato in Francia che raccoglie i contributi di più autori coordinati dall’economista Jacques Sapir, Alberto Bagnai – ben noto ai nostri lettori per il blog Goofynomics e presidente dell’associazione a/simmetrie – analizza la crisi dell’eurozona con l’aiuto dell’esperienza italiana, particolarmente utile da due punti di vista: perché l’Italia stessa è un’unione monetaria che non è un’area valutaria ottimale e ne ha già sperimentato le conseguenze; e perché le élite italiane hanno dichiarato molto esplicitamente quali erano, dal loro punto di vista, gli obiettivi dell’unione europea: utilizzare il vincolo esterno legato alla moneta unica per orientare il processo democratico e in questo modo la distribuzione del reddito. Senza il “sogno europeo”, il “ce lo chiede l’Europa” e le crisi generate dalla moneta unica non sarebbe stato possibile realizzare il programma di “riforme strutturali” che hanno indebolito e impoverito i lavoratori e in generale le fasce di popolazione più deboli. Il vero successo dell’euro, amaramente, è stato questo
L’euro
e il declino dell’economia
italiana
Adam Smith ce l’aveva ben detto, nel terzo capitolo del primo libro de «La ricchezza delle nazioni»: la divisione del lavoro è limitata dalla dimensione del mercato. Non ci si può aspettare che un produttore privo di sbocchi sul mercato sia spinto ad adottare innovazioni e quindi aumentare la produttività. A che cosa gli servirebbe produrre di più, o produrre a un costo più basso, se non ha qualcuno a cui vendere? La produttività non è una questione puramente esogena o tecnica. Nell’economia classica (Smith), come in quella keynesiana, e, ci permettiamo di aggiungere, nell’economia tout court, la produttività dipende anche dalla domanda.
Che cosa c’entra questo con l’Italia?
L’evento che più salta all’occhio nell’economia italiana degli ultimi trent’anni è senza dubbio l’improvviso arresto del tasso di crescita della produttività del lavoro, che si manifesta poco dopo la metà degli anni 90. Dal 1971 al 1996 la produttività del lavoro era aumentata a un tasso medio annuale del 2.7%, non lontano dal 3.0% della Francia e dal 2.9% della Germania.
Pubblichiamo oggi
con gli interventi
di Gigi Roggero e di Lelio Demichelis la prima parte di
uno speciale che, prendendo spunto da alcuni temi trattati
nel recente volume di Carlo
Formenti La variante populista (già recensito
su alfabeta2 da Cristina
Morini), si propone di affrontare le nuove
declinazioni del cosiddetto populismo. Il dibattito
continuerà sabato 4 dicembre con i
contributi di Franco Berardi Bifo e di Paolo Gerbaudo.
* * * *
Gigi Roggero
In questo contributo non ritorneremo in modo sistematico sulla Variante populista di Carlo Formenti (rimandiamo alla recensione La variante rivoluzionaria, pubblicata su Commonware). Ci concentriamo invece su un paio di questioni che emergono dal libro e forse ancor più dai dibattiti intorno a cui il libro gira.
La prima riguarda l’autonomia del lavoro vivo. Si confrontano due posizioni: da una parte quelli che la vedono già pienamente realizzata nella composizione tecnica di classe, dall’altra quelli che – proprio sulla base della composizione tecnica – ne negano la possibilità. Per motivi speculari, entrambe le posizioni sono secondo noi errate.
Ieri sul Financial Times leggevamo: "Alti funzionari e banchieri dichiarano che fino a otto banche italiane rischiano il fallimento se Renzi perde il referendum costituzionale". Non è indispensabile conoscere i nomi di questi segreti informatori del FT: svariati capitani dell'alta finanza hanno apertamente evocato in questi giorni la minaccia di turbolenze bancarie se domenica i No alla riforma dovessero prevalere. Il motivo, essi dicono, è che un'eventuale sconfitta costringerebbe il Premier e i suoi ministri a dimettersi, con la conseguenza di interrompere i tentativi del governo di stabilizzare il sistema bancario italiano.
Oggi che la borsa è in rosso e che le banche vanno per l'ennesima volta sotto, una pletora di commentatori nostrani rilancia le parole degli alti finanzieri: il pericolo sta nelle urne, nel rischio di una vittoria del No al referendum.
Questa lettura della partita referendaria è del tutto fuorviante, e francamente anche un po' patetica. La ragione è semplice: essa presuppone che le iniziative del governo, dall'istituzione del fondo Atlante alla gestione del dossier Montepaschi, siano in grado di scongiurare una crisi bancaria.
La verità, purtroppo, è che le misure adottate finora dal governo sono state del tutto inadeguate, e persino controproducenti.
Quella sera a Milano era caldo, il bel libro di Marco Grispigni (manifestolibri, 2016) sulla violenza politica nel secondo dopoguerra in Francia e in Italia, arriva al decennio cruciale 1968-1978 dopo un attento confronto dell’uso del conflitto di piazza e della repressione poliziesca in Italia e in Francia, per ridimensionare la retorica allarmistica sugli anni di piombo mostrando di che lacrime grondi, e di che sangue, il periodo della «normalizzazione» post-bellica.
Caddero allora sotto i colpi della polizia decine di lavoratori (specialmente fra il 1947 e il 1954 e poi nel 1960 in Italia, nel 1946-1947 e poi negli anni della guerra d’Algeria, 1954-1962, in Francia). D’altra parte, la cultura del conflitto politico, della rivolta e del servizio d’ordine fece parte dell’identità dei militanti comunisti fino a tutti gli anni Sessanta, senza mai debordare in ideologia del terrorismo e della lotta armata. Violenza e terrorismo vanno ben distinti, tanto nel dopoguerra quanto negli anni Settanta. Nel ‘68 italiano e francese cambia piuttosto la figura del militante, che attinge ad altri strati sociali e sfugge al controllo dei partiti e dei sindacati di sinistra. Le conseguenze si vedranno nelle strade.
Anche da parte della polizia i due paesi presentano un’evoluzione in parte simile.
L’articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della sera del 22 novembre scorso ha portato finalmente alla ribalta nazionale la vicenda, davvero surreale, del progetto di Passante ferroviario Alta Velocità di Firenze. Che cos’è questa infrastruttura, la più grande che si vorrebbe realizzare in città? Sarebbe una linea sotterranea di collegamento tra le tratte AV che, da nord e da sud, arrivano a Firenze; è composta da un doppio tunnel di circa sette km e una stazione interrata 25 metri sotto il livello del suolo, completamente scollegata dal restante trasporto ferroviario. Opera estremamente impattante e dalle difficoltà di realizzazione enormi, tanto che lo scavo dei tunnel non è nemmeno iniziato per il problema di smaltimento delle terre di scavo e dai rischi enormi di cedimenti e danni per parecchie migliaia di appartamenti e alcuni monumenti come la Fortezza da Basso.
Il progetto risale ai tempi del denaro facile. La scelta di scendere con la ferrovia nel sottosuolo non è dovuta agli scarsi spazi in superficie ma ad una decisione presa dalla classe politica toscana per attrarre risorse miliardarie in città. Un primo progetto prevedeva il potenziamento delle linee esistenti, ma nel frattempo a Bologna avevano ottenuto oltre un miliardo di finanziamento per realizzare un sottoattraversamento AV.
Un altro immenso iceberg rischia di entrare in rotta di collisione con la pacifica ed (auspicabilmente) evolutiva convivenza della specie umana sul Pianeta Terra.
Ha la forma di un enorme dilemma: Come distinguere le notizie, e le affermazioni "vere" da quelle "false"?
Ovviamente, se la domanda è posta così, il problema non è risolvibile. Perché? Perché dovunque circolano notizie e affermazioni definibili tanto vere quanto false che arrivano da diverse fonti e osservatorii. E quando questi osservatorii (partiti, parrocchie, clan, lobbies) sono antagonisti fra loro per motivi politici o non conciliabili tradizioni religiose, culturali o altro ... cioè sempre ..., i Capi , i capetti e i loro maggiordomi non trovano di meglio che accusarsi astiosamente e reciprocamente di falso. Talvolta sembra di essere alle scuole elementari... ma in questi casi non ci sono maestrine autorevoli e affettuose in grado di risolvere la questione.
E quindi il tweet contro tweet, il titolo contro titolo, l'editoriale contro editoriale ... insomma il battibecco da pollaio continua ... da sempre.
Ci sono però occasioni molto particolari in cui "il furto della merendina" è molto grosso e mette a rischio i potentati e i capitali. Per esempio l'organizzazione del consenso su guerra e pace o la chiamata al voto nelle plutocrazie travestite da democrazie.
[Pubblico nel seguito una gradita riflessione inviatami dall'avv. Valerio Donato, già collaboratore di questo blog, sul referendum costituzionale del 4 dicembre.
A lungo mi ero riproposto di affrontare personalmente il tema, ma mi tratteneva da un lato il tenore tecnico del tema, dall'altro il disgusto di cimentarmi nel merito di un attentato così volgare e storicamente inaudito. Che un manipolo di mediocri, penosi, raccomandati e intellettualmente sterili posi le mani sul monumento di una guerra e sul prodotto di uno dei rari momenti storici in cui la violenza e la morte hanno costretto i superstiti a progettare una civiltà fondata sulla partecipazione e i diritti di tutti - in parte riuscendoci - è un orrore che dà il segno di una decadenza culturale nella cui contemporaneità chi scrive non si rassegna ancora a riconoscersi.
La nostra Costituzione è certamente perfettibile. Ma per perfezionarla bisognerebbe casomai andare nella stessa direzione dei suoi principi. Non indietro. Se la sovranità appartiene al popolo - perché diversamente apparterrebbe a qualcun altro, e il popolo sarebbe schiavo - limitarla introducendo oligarchie di nominati, procedure indecifrabili aperte a ogni arbitrio e clausole di sottomissione a organismi internazionali che non rispondono alla volontà dei cittadini (anzi la schifano) non è soltanto in contraddizione con la Carta stessa e con la volontà di chi l'ha scritta, ma anche demente.
Ripubblichiamo
l'analisi della
campagna referendaria e degli scenari che si potrebbero
aprire dopo il 4 dicembre scritta dai compagni dell'Ex-OPG
"Je so' pazzo". Dopo una campagna
che è stata caratterizzata dall'attività e dal
protagonismo popolari, si tratta ora di giocarcela fino in
fondo in questi ultimi dieci
giorni e di non lasciare tutto in mano a Renzi, Salvini o
Grillo. Sia che vinca il Sì, sia che vinca il No, dobbiamo
continuare a organizzarci
per costruire un'alternativa.
* * * *
E se noi riuscissimo ad ottenere che tutti o la maggior parte dei comitati, gruppi e circoli locali si unissero attivamente nell’opera comune, potremmo in breve tempo organizzare […] un gigantesco mantice, capace di attizzare ogni scintilla della lotta di classe e dell’indignazione popolare per farne divampare un immenso incendio…
Sulle impalcature di questo cantiere organizzativo comune vedremmo sorgere dei rivoluzionari […] che, alla testa di quell’esercito mobilitato, solleverebbero tutto il popolo contro la vergogna e la maledizione della Russia.
Ecco che cosa bisogna sognare!
Lenin, Che fare?
Mancano 15 giorni al voto del 4 dicembre, siamo ormai entrati nel clou della campagna referendaria.
La vittoria di Trump e l'ascesa dei populismi europei sono dati di fatto. L'antidoto è uno soltanto: ricominciare a immaginare un futuro alternativo a quello che finora è stato
Negli stessi mesi in cui cadono i 500 anni
dall’Utopia di Tommaso Moro, abbiamo capito che ad
andare a gonfie vele è il suo contrario. Voglio dire: viviamo
in tempi che
più distopici non si può, no? Da una parte i viaggi su Marte e
le intelligenze artificiali che ragionano per conto proprio;
dall’altra – per restare alla cronaca di questi mesi – Brexit,
Trump, e un pianeta Terra che entro il 2100 rischia di
assomigliare più a Venere che alla Gaia azzurrina
immortalata dall’Apollo 17. Poi uno dice la fantascienza.
È istruttivo lo slittamento che ha investito la narrazione mainstream negli ultimi diciamo quindici anni. Dalla sbandierata fine della storia in cui lo stesso concetto di “futuro” veniva acriticamente soppiantato da un eterno presente ecumenico e inviolabile, ecco che proprio il futuro torna ad allungare la sua ombra su quel continuum spaziotemporale che nemmeno la crisi del 2008 è riuscita a ridestare da un torpore pluridecennale. Solo che, l’abbiamo capito: è un’ombra molto, molto minacciosa.
L’elezione a presidente di Donald Trump e l’ascesa dei populismi in Europa sanno di presagio ad almeno un decennio di regressione e tragedie, e nel suo consueto stile iperbolico ma efficace, Bifo parla già di una “guerra nella quale poco di ciò che chiamammo civiltà è destinato a sopravvivere”, ricorrendo a un parallelo storico che più sinistro non si può: “come fece nel 1933, la classe operaia [bianca] si vendica di chi l’ha presa per il culo negli ultimi trent’anni”.
La lunga
recensione (quasi un saggio
breve) a "La variante populista" (DeriveApprodi) apparsa su
queste pagine e firmata da Alessandro Somma (che ringrazio
vivamente per
l’attenzione con cui ha letto e analizzato il libro) mi
stimola a compiere alcune precisazioni in merito alle tesi da
me sostenute,
nonché a marcare convergenze e divergenze fra i nostri punti
di vista. L’intervento di Somma si articola in varie sezioni,
ma può
essere sostanzialmente ricondotto a due parti: la prima, in
cui ripercorre la pars destruens delle mie argomentazioni (che
mi pare condivida in larga
misura), la seconda, più breve, in cui analizza le mie
proposte politiche e nella quale si concentrano i dissensi.
Andrò quindi di
fretta sulla prima parte per arrivare al nocciolo della
discussione contenuto nella seconda.
Provo a riassumere così le cose su cui siamo sostanzialmente d’accordo: 1) Somma riprende e articola le mie critiche alle tesi di coloro che vedono nel cosiddetto “capitalismo della conoscenza” il presupposto di una transizione spontanea e indolore a una società postcapitalista – critiche che io muovo a partire soprattutto dai lavori di Antonio Negri e André Gorz (anche seguendo le argomentazioni di Dardot e Laval) e dai teorici della New Economy come Yochai Benkler, mentre lui allarga il campo a Paul Mason e al suo Postcapitalismo; 2) riprende inoltre il tema della non neutralità delle forze produttive (cruciale per superare le visioni “oggettiviste” della transizione al socialismo, presenti nello stesso Marx); 3) riprende infine la mia analisi (che arricchisce in relazione al caso Uber) sulle mistificazioni della sharing economy che, assieme alle nuove forme di “lavoro del consumatore” mediate dai social network, rappresenta un nuovo, formidabile dispositivo di potenziamento delle forme di sfruttamento e controllo del capitale sul lavoro.
Durante l’intera
campagna elettorale delle presidenziali statunitensi i
paragoni tra Donald Trump e l'ex premier italiano Silvio
Berlusconi sono stati molti, e sono
ulteriormente proliferati da quando Trump ha dichiarato la
propria vittoria. Questi paragoni non sono del tutto privi di
senso.
Trump e Berlusconi sono entrambi uomini che hanno raggiunto il potere partendo dal mondo del business e non da quello della politica, ed entrambi hanno presentato la propria estraneità all'establishment politico come segno di purezza. Entrambi hanno insistito sul proprio successo imprenditoriale come prova più evidente della loro capacità di dirigere il paese. Come il tiranno di Platone entrambi hanno esibito un’etica basata sul sogno di una perenne e illimitata jouissance e un eros continuo e tracotante (per quanto Berlusconi preferisca pensare a sé stesso come a un seduttore irresistibile piuttosto che uno stupratore). Entrambi si sono permessi battute misogene e razziste e hanno riformulato il linguaggio pubblico legittimando insulti e scorrettezze politiche ed incarnando un esilarante ritorno del represso. Entrambi si crogiolano nella loro estetica kitsch ed esibiscono un colorito da abbronzatura artificiale. Ed entrambi si sono alleati con l’estrema destra per portare avanti un progetto politico fatto di neoliberismo autoritario e capitalismo sfrenato.
Di sentir parlare del referendum costituzionale, ormai, la maggior parte della gente avrà piene le tasche, quindi non è il caso qui di riprendere daccapo tutto il discorso. Per un giudizio di grande respiro sulla riforma su cui siamo chiamati a votare rinvio a un bell'intervento di Pierre Carniti, con il quale concordo pienamente. Qui vorrei mettere in rilievo un paio di cose, niente affatto trascurabili, che hanno trovato pochissimo spazio nella caterva di interventi e dibattiti che hanno dilagato in tutti i media.
Una l'ha evidenziata il costituzionalista Michele Ainis, e riguarda le Regioni a statuto speciale. Grazie ad un comma (il 13) inserito nel nuovo articolo 39 in seguito a un emendamento di Karl Zeller, presidente del Gruppo per le autonomie, si rendono praticamente immodificabili gli Statuti di quelle Regioni, per cui ci sarà bisogno di una procedura di revisione costituzionale che abbia il consenso delle Regioni stesse. Spiega Ainis:
"Primo: aumenta la forbice tra Regioni ordinarie e speciali, benché in partenza l'idea fosse quella di parificarle. Secondo: gli statuti speciali sono più garantiti della Costituzione medesima, giacché nel loro caso occorre un passaggio in più (l'intesa), con un procedimento ultrarafforzato. Terzo: l'autonomia delle Regioni speciali non verrà mai più ridimensionata, a meno che esse stesse decidano di fare harakiri.
Il panico per l’eventuale sconfitta al referendum ha trasformato Renzi in uno spambot. Da settimane spedisce agli italiani pacchi di junk mail, lettere piene di promesse credibili quanto l’allungamento del pene.
Visto che evidentemente non bastano a spacciare la sua
Cazzariforma autoritaria e truffaldina, Renzi passerà alle
minacce esplicite.
Lettere minatore del tipo “Ricordati che sappiamo dove abiti,
e questa busta lo dimostra”.
Finte cartelle Equitalia che annunciano
un ritorno con una pesante tassa sulla seconda Camera se non
rinunceremo al nostro diritto costituzionale d’essere noi
a
eleggerla.
Mail di phishing con scritto “Se vince il No, la password del
tuo account bancario verrà craccata dagli hacker cinesi.
Clicca qui per
votare Sì”.
Biglietti sul parabrezza che dicono “I know what you did last
summer. Se non voti Sì lo racconto a
tutti”.
Poi passerà alle raffiche di sms e alle telefonate notturne
come uno stalker a tutti gli effetti.
Il Cazzaro suda freddo perché sa che una sconfitta significherebbe quasi certamente la fine del suo governo, perché verrebbe scaricato innanzitutto dai suoi mandanti come sicario inefficiente.
I recenti avvenimenti in Siria hanno dimostrato, ancora una volta, le errate conclusioni che molti avevano tratto in merito al presunto riavvicinamento tra Ankara e Mosca
La corsa verso la città occupata da daesh, Al Bab, strategicamente rilevante per la vicinanza ad Aleppo (40km), vede contrapposto l’esercito turco, assistito dal FSA/AlQaeda all’esercito Siriano assistito dalle forze “curdo-arabe” e protetto dalle forze Aeree e Navali della Federazione Russa.
Al Bab, trovandosi a nord-est di Aleppo, è di vitale importante per i piani di Ankara.
Erdogan, con il pretesto della liberazione della città di al Bab, sotto controllo di daesh (organizzazione collegata direttamente dal MIT —servizi segreti turchi), vorrebbe posizionare le truppe turche a meno di 40 km da Aleppo occupando la città. Obiettivo finale, lanciare un'offensiva su Aleppo in soccorso ai terroristi di alQaeda/alNusra, attualmente circondati dall’esercito Siriano.
La corsa verso Al-Bab è di primaria importanza per Damasco per impedire un tentativo di riapertura delle linee logistiche dirette verso i terroristi ad Aleppo che tengono in ostaggio decine di migliaia di cittadini Siriani nei pochi quartieri rimasti sotto il controllo.
Al momento, dopo le recenti avanzate del SAA, le truppe governative rimangono a soli 3 chilometri dalla città di Al Bab.
Hasta siempre Fidel. Ha lasciato un paese in condizioni migliori di quando lo ha liberato dal dittatore Batista
Con un esempio palese di assoluta discrezione venerdì se ne è andato da questo mondo il Comandante Fidel Castro, l’unico, nel mondo moderno, che abbia fatto una rivoluzione e non l’abbia persa.
L’unico leader che abbia lasciato un paese in condizioni migliori di quando ha rischiato la pelle per liberarlo dalle prepotenze del dittatore Fulgencio Batista, uno che governava sotto braccio alla mafia.
È singolare che queste realtà, inconfutabili per l’America Latina (Piano Condor, desaparecidos) non siano ancora adeguatamente riconosciute e ricordate da una parte del mondo occidentale che pure, in questi ultimi anni, ha toccato tetti inauditi di empietà perseguitando esseri umani come noi e riempiendosi la bocca con le parole «libertà» e «democrazia», quando in realtà il loro unico «merito» era di essere nati nel posto giusto, al momento giusto.
Questa logica invece era stata ben chiara, fin dal tempo delle insurrezioni studentesche, per il giovane avvocato Fidel Castro tanto che, arrestato per le sue sedizioni, si era difeso da solo in tribunale con una frase che avrebbe fatto epoca: «La storia mi assolverà».
Tracciare un profilo storico e politico di un grande personaggio, rivoluzionario e poi capo di stato, che ha contribuito a fare la storia come Fidel Castro, sarebbe troppo complesso. E poi in questi giorni fioccheranno le analisi e le ricostruzioni storiche. Non c’è bisogno, tutto sommato, di aggiungerne un’altra.
Il mio sentimento, in questo momento, è un altro, ed è di questo che vorrei parlare.
Con la scomparsa di Fidel possiamo veramente dire che se ne va, anche simbolicamente, il Novecento. Un secolo è che stato “criminalizzato”, ridotto al secolo del “male assoluto”, all’era del totalitarismo per eccellenza.
E si dimentica, o meglio, si finge di dimenticare, che è stato invece il secolo delle grandi rivoluzioni (fra cui anche quella guidata da Fidel e Guevara), dei grandi movimenti di massa planetari che hanno trasformato la vita di miliardi di persone e liberato tanti paesi e nazioni dal giogo del colonialismo e dell’imperialismo. E’ stato il secolo in cui una parte dell’umanità ha provato ad invertire la Storia. Ma non ci è riuscita. E’ stata sconfitta e ha fallito nel suo intento.
E si sa, la storia la scrivono i vincitori, non i vinti.
Luigi Ferrajoli: Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
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1. Parole
e metafore
Quello che è successo l’8 novembre era in larga misura inevitabile. È accaduto nel centro politico, economico e simbolico della Western way of life, e proprio per questo ci colpisce particolarmente; ma se non fosse accaduto negli Stati Uniti, sarebbe prima o poi successo in un altro grande paese occidentale. È un segno dei tempi e una frattura: occorre capire quanto sia profonda. Se ne possono isolare i tratti specifici e riflettere sull’ascesa delle nuove destre o la si può considerare nel quadro di una metamorfosi più larga che ha cambiato negli ultimi cinque anni l’assetto politico dell’Occidente. La Lega e il Movimento 5 Stelle in Italia, il Front National in Francia, Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, la destra in Olanda, Austria e Germania, il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, l’elezione di Trump negli Stati Uniti sono fenomeni politici molto diversi fra loro e forme di uno stesso evento.
Da quando la crisi ha cominciato ad avere effetti sulla vita quotidiana, una parte crescente delle classi popolari e delle classi medie ha cominciato a votare contro la logica politica ed economica che ha governato l’Europa occidentale e gli Stati Uniti negli ultimi decenni con un consenso largamente maggioritario.
Quelli che seguono sono gli appunti per la relazione introduttiva su cui è stato realizzato il terzo incontro di approfondimento storico-politico (IASP) del Ciclo di incontri sui movimenti delle donne di domenica 13 novembre dal titolo I movimenti delle donne nel mondo contemporaneo. Dalla rivoluzione sessuale alla deriva post-moderna del femminismo introdotto da Giulia
Il primo
incontro si intitolava
Le donne tra due rivoluzioni. Dalla Rivoluzione francese
alla rivoluzione d'Ottobre. Siamo partiti dalla
Rivoluzione francese perché
prima di essa le donne erano apparse sempre e solo
protagoniste passive degli eventi
“[…] la storia è stata solo storia al maschile e per lunghi secoli le donne non sono state raccontate; per meglio dire, non hanno potuto raccontarsi” [1]
Per la prima volta la Rivoluzione francese porta le donne alla ribalta sociale anche se le contraddizioni restano profondissime
“Nella Francia rivoluzionaria infatti andavano via via instaurandosi dei veri e propri Club femministi con posizioni anche molto differenti tra di loro […] L'impegno delle donne fu comunque vano in quanto esse non ottennero nessuno dei diritti rivendicati e fu persino negato loro il diritto di associazione: tutti i Club femminili furono sciolti.
La cosa che colpisce è che questa chiusura avviene proprio all'epoca della Convenzione guidata dai Giacobini, il che mostra la permanenza di grandi limiti sul tema delle donne anche nella borghesia rivoluzionaria” [2]
Con la Rivoluzione industriale di fine ‘700 - inizio ‘800 e la conseguente massiccia introduzione di macchine, donne e fanciulli cominciano a seguire gli uomini nelle fabbriche
In periodi di grande caos
sistemico come quello attuale, capita spesso di leggere
affermazioni che esprimono un plauso incondizionato per una
fideistica osservanza del rispetto
delle regole o delle leggi. Qualunque regola e qualunque
legge, perfino quando essa contraddice in modo palese le
ragioni del buon senso o il senso
della misura. È uno dei molti casi in cui risulterebbe di
grande utilità una pur sommaria rilettura della vicenda del
Mose. Sia chiaro,
non stiamo parlando di una storia di politici corrotti ma del
più grande e complesso sistema di corruzione dell’Italia
repubblicana. Un
sistema tanto efficiente e raffinato da riuscire a corrompere,
tra le altre cose, ogni livello di controllo: Magistrato alle
Acque, Corte dei Conti,
Guardia di Finanza, politica. Ecco, il più eclatante esempio
italiano dell’impossibilità di distinguere con nettezza lo
Stato
dalla criminalità, la più “alta scuola” nostrana di
corruzione, è nato e si è avvalso di una legge votata, con
tutti i crismi, dal parlamento repubblicano, la legge n. 798
del 1984 (la legge speciale bis). Quello del Mose, come
racconta in sole sette parole
chiave questo prezioso articolo, è stato inoltre forse il
primo sistema corruttivo che non ha “investito” semplicemente
per
acquisire un permesso o una commessa, ma per convincere
l’opinione pubblica del proprio operato
Attorno alla laguna di Venezia è stato eretto il più grande e complesso sistema corruttivo della storia repubblicana. Di questo scandalo molto si è detto, ma pensiamo possa valere la pena sottolineare in questa sede alcune parole chiave di quel sistema che, in qualche modo, trascendono la vicenda legata al Consorzio Venezia Nuova (CVN) e alla costruzione delle paratoie mobili erette per difendere Venezia e la sua laguna dalle acque alte.
La percezione di un oggetto dipende
da
ciò che il soggetto ha in mente, come mostrano le figure
gestaltiche. Qui sotto, chi cerca proprio una lepre riesce a
vederla, ma se cambia lo
sguardo si accorge che è una papera.
Tutti gli argomenti portati dal SI nel referendum possono essere visti in modo diverso e perfino opposto.
Rapidità-Lungaggine
Si è promessa una semplificazione, ma si realizza un bicameralismo farraginoso e conflittuale. È il paradosso della revisione costituzionale. Se fosse un vero Senato delle autonomie, i senatori dovrebbero attenersi all'indirizzo della propria Regione. Invece non hanno alcun vincolo di mandato, proprio come i deputati, e di conseguenza si iscrivono ai gruppi di partito anche a Palazzo Madama. Il Senato è prevalentemente un’assemblea politica, e può capitare che abbia una maggioranza ostile a quella della Camera. Infatti, non essendo mai sciolto potrebbe conservare un orientamento politico che invece alle elezioni viene ribaltato nell'altro ramo.
Questo appello per il No al referendum si rivolge a coloro che di solito non votano: o perché considerano truccato il gioco delle istituzioni o perché ritengono la politica un puro spettacolo irrilevante o perché temono di trovarsi in cattiva compagnia. Condividiamo in buona parte la loro diffidenza: tuttavia pensiamo che stavolta si debba votare, sia pure con motivazioni diverse da chi intende puramente e semplicemente difendere la Costituzione attuale.
La crisi del regime democratico-parlamentare che ci ha governato fino all’inizio di questo secolo è sotto gli occhi di tutti ed è probabilmente irreversibile: stiamo assistendo non a un semplice mutamento di governo nell’ambito di regole comunque valide e neanche a una pura ridistribuzione dei rapporti di forza, ma a un cambiamento più sostanziale di forma della politica. Che si debba cambiare la Costituzione è perfino ovvio: solo, in senso opposto a quello che intende seguire la riforma proposta dall’attuale capo del governo. In Italia i cambiamenti, le rivoluzioni, finiscono quasi sempre in «rivoluzioni-restaurazioni» o «rivoluzioni passive» (come le definì Gramsci). Brandelli di sapere critico e insorgente vengono compresi fra le tecnologie di dominio, dopo aver subìto una distorsione del loro significato originario, ripartiti nella legittimazione di contesti opposti.
Siamo al rush finale della campagna sociale per il No. Forte è la percezione che la giornata del 4 dicembre, nel bene o nel male, segni la fine di una stagione politica, aprendone un’altra. In ogni caso le cose nel nostro paese non saranno più le stesse: in gioco non c’è soltanto la modifica costituzionale, la riscrittura pasticciata della seconda parte della Costituzione, ma l’affermazione definitiva della dimensione oligarchica nel campo politico e giuridico. Non andiamo incontro alla fine del mondo, ma è una data che porta con sé delle conseguenze profonde per il futuro prossimo, non solo in Italia ma anche per il resto della Ue. Un fatto politico che segue l’inaspettata Brexit di giugno e precede due appuntamenti altrettanto strategici come le elezioni francesi della prossima primavera e le elezioni tedesche dell’autunno 2017 (senza contare le elezioni austriache di questa stessa domenica). Insomma, quello che è in ballo il 4 travalica i confini e potrebbe incrinare l’assetto europeista.
L’eventuale vittoria del No non apre una fase in discesa per i movimenti di classe, per quello che rimane dei comunisti e per la sinistra in generale, ma una cosa si può dire, senza tema di essere smentiti: la vittoria del No segnerebbe una dura sconfitta, una battuta di arresto della restaurazione liberista nel nostro paese dalla fine degli anni’ 70.
In Italia la parola riforme ha assunto un significato quasi salvifico. E’ una cosa in parte comprensibile, dato lo stato comatoso del nostro sistema politico ed economico. Allo stesso tempo, sono ormai venticinque anni che nel nostro paese si promettono, ed in effetti, si fanno, riforme – se così vogliamo chiamarle. I risultati sono stati normalmente calamitosi.
Non si tratta di un fenomeno solo italiano. Il dogma delle riforme istituzionali è stato il cavallo di battaglia del neo-liberismo negli Anni ’90: dalla Russia post-Sovietica all’Africa fino all’America Latina, World Bank, IMF e il “meglio” dell’accademia anglo-sassone si sono affidati ad una ideologia riformatrice dogmatica, secondo la quale un certo set istituzionale ha effetti a prescindere dal contesto in cui viene implementato. E secondo cui, dunque, basta copiare i modelli istituzionali vincenti per cambiare comportamenti poco virtuosi ed ottenere i risultati voluti.
La teoria delle riforme dall’alto ha sottovalutato, quando non proprio ignorato i percorsi storici, le attitudini culturali, le istituzioni informali e, soprattutto, i rapporti di forza all’interno di un dato contesto politico. Non ha prestato attenzione alle cause del malfunzionamento istituzionale ma si è preoccupato solamente dei risultati insoddisfacenti. Non si è interessato al perché dei problemi ma solamente al come risolverli.
I risultati, neanche a dirlo, sono stati fallimentari: quel contesto politico-economico che doveva essere modificato dalle riforme ha, in realtà, modellato il funzionamento delle istituzioni stesse a proprio piacere.
Quando un contaballe annusa il rischio di essere definitivamente scoperto, ha due strade di fronte a sé: o si defila quatto quatto, oppure si gioca il tutto per tutto e le spara ancora più grossa. Ecco lo stato dell’arte del governo del buffone di Rignano a pochi giorni dal 4 dicembre, sulla via intrapresa non ci sono dubbi. Dal ponte sullo stretto ai quattrini promessi a destra e a sinistra in finanziaria, dalla riduzione dei costi della politica alla ricostruzione dei territori colpiti dal terremoto, dall’aumento dei soldi nella tasca delle partite Iva (gli stessi che vengono sfilati dall’altra tasca) alla defiscalizzazione del lavoro al Sud, la lunga marcia renziana verso il referendum è stata un progressivo crescendo di menzogne, direttamente proporzionali alla paura di perdere la poltrona tanto faticosamente conquistata. Fino ad arrivare all’ultima sparata (anche se non escludiamo che, mentre l’editoriale viene pubblicato, il ducetto non ne abbia già trovate altre ancora più eclatanti): il sì è contro la casta!
Ogni commento sarebbe superfluo e perfino un insulto all’intelligenza di chi legge, se non fosse che sta proprio qui l’architrave retorica del renzismo. A partire dalla rottamazione (che ovviamente non c’è mai stata, basti pensare che il losco figuro che ha governato la transizione è stato il rottame Napolitano, per non parlare dei potenti uomini di industria, banca e finanza che sostengono il governo PD) la neolingua del piccolo fiorentino è fondata su una costante invocazione del nuovo contro il vecchio, dell’accelerazione contro chi vuole tornare indietro.
Se volete votare come persone e non come buoi leggete l'intervento di Salvatore Settis a un convegno sull’erosione delle democrazie promosso al Parlamento Europeo da Barbara Spinelli. Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2016 (p.d.)
Il combinato disposto fra nuova legge elettorale (Italicum) e riforma costituzionale mostra la chiara intenzione di far leva sull’astensionismo per controllare i risultati elettorali, restringendo de facto la possibilità dei cittadini di influire sulla politica. La nuova legge [che è già in vigore - n.d.r] incorre nelle stesse due ragioni di incostituzionalità del defunto Porcellum. Prevede un premio di maggioranza per la lista che superi il 40% dei voti, e ammettiamo pure che sia ragionevole. Ma se nessuna lista raggiunge questa soglia, si prevede il ballottaggio fra le due liste più votate, delle quali chi vince (sia pure per un solo voto) conquista 340 seggi (pari al 54%). Se, poniamo, le prime due liste hanno, rispettivamente, il 21 e il 20%, e al ballottaggio prevale una delle due, a essa toccheranno tutti e 340 i seggi di maggioranza. Inoltre i deputati nominati dai partiti e non scelti dagli elettori potrebbero essere fino a 387 (il 61%). Continuerà dunque l’emorragia degli elettori, sempre meno motivati a votare visto che scelgono sempre meno. Ma questa crescente disaffezione dei cittadini è ormai instrumentum regni: anziché puntare su un recupero alla democrazia rappresentativa dei cittadini che in essa hanno perso ogni fiducia, si tende a far leva sull’astensionismo per meglio pilotare i risultati elettorali.
Stasera a cena, ospiti di una deliziosa coppia di amici, entrambi quotati professionisti (Banca d’Italia ecc.), come sia, come non sia, siamo finiti a parlare del referendum del 4 dicembre. Per fortuna abbiamo evitato di entrare nel merito. Parlare di metodo è più interessante, rivela molte più cose sull’Italia di oggi, al di là delle rispettive posizioni. È giusto che il governo spinga, nel modo in cui lo sta facendo, una riforma di parte del testo fondamentale del nostro stare insieme? Nel 1948, cattolici, liberali, e comunisti non erano forse assai più lontani, in un paese drammaticamente lacerato? Eppure cercarono e trovarono un ampio accordo (88% dei parlamentari, davvero rappresentavano l’88% dei votanti) che portò al ‘miracolo’ italiano! Le Costituzioni, si fanno così.
Ma la legge Boschi è davvero una Costituzione di parte? Per esempio Berlusconi all’inizio non era contrario! Vero. Ma poi, in Parlamento, in 6 votazioni il consenso alla ‘riforma’ non ha mai superato il 58%. Il 58% di cosa? Di un Parlamento eletto con legge maggioritaria (quindi in realtà quel 58% di parlamentari rappresenta meno del 50% dei votanti). Inoltre, i nostri onorevoli non siedono forse in Parlamento in modo illegittimo? No. Abbiamo rapidamente convenuto che l’attuale Parlamento non è illegittimo.
"L'essenza del regime oligarchico non è l'ereditarietà da padre a figlio, ma la persistenza di una certa visione del mondo e di un certo modo di vivere... Un gruppo dirigente è un gruppo dirigente nella misura in cui può nominare i suoi successori... Non conta chi detiene il potere purchè la struttura gerarchica resti sempre la stessa". (George Orwell "1984")
Riproduco qui sotto uno spiritoso, ma anche sagace, commento, divertentemente drammatico, arrivato sul mio blog www.fulviogrimaldicontroblog.info da Marco V. E’ uno dei più convincenti, al di là delle indispensabili analisi del documento di controriforma renzista e della facile demolizione delle scempiaggini sloganiste diffuse dal clan Renzi-Boschi-Verdini, inviti a votare NO il 4 dicembre. Non va sottovalutato come l’operazione di questo grumo massonico-mafioso di servizio alla sua Cupola si inserisca nel disegno globalista dell’élite militar-finanziaria occidentale, con a capo gli Usa delle consorterie di potere che comprendono le grandi famiglie bancarie, le multinazionali di information technology, energia, alimentazione, armamenti-sicurezza, servizi segreti, compresi quelli addetti al terrorismo, e i burattini che, via via, queste consorterie installano nella Casa Bianca.
Ieri ho tenuto l’ultima
lezione del corso di questo anno, al termine della quale, come
al solito ho risposto agli interventi dei miei studenti. Fra
loro uno ha detto di
essere stato convinto a votare No, ma di aver nutrito dubbi da
ieri, dopo che l’azienda per la quale lavora il padre, ha
inviato un sms, nel
quale dice che forse non potrà confermare l’incarico di lavoro
per l’anno prossimo, perché due aziende (una di Abu Dhabi e
l’altra cinese) hanno comunicato di sospendere le rispettive
ordinazioni sino al risultato del referendum per cui, l’ordine
è da
intendersi revocato in caso di vittoria del no. Quanti
altri sms del genere stanno arrivando in queste ore attuando
una campagna
di terrorismo psicologico?
Le ipotesi sono due: o l’imprenditore si è inventato tutto perché è un galoppino del Pd ed, a suo modo, fa così campagna elettorale, oppure la notizia è vera e questo peggiora ancor di più il giudizio sul Pd. Come si ricorderà, tutta la campagna elettorale è stata segnata sin dall’inizio da una martellante serie di appelli delle istituzioni finanziarie europee sui rischi di una vittoria del No simile a quella condotta sul referendum per la Brexit. Quello che è grave è che il governo, lungi dal respingere queste interferenze in difesa dell’indipendenza nazionale e dell’immagine economica del paese, se ne è giovato ed ha soffiato sul fuoco, ingigantendo ulteriormente gli allarmi.
Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale quale fu quello con cui fu approvata la Costituzione del ’48. La Costituzione di Renzi, invece, è una costituzione che divide, non essendo neppure di maggioranza
Le ragioni del No al referendum
sull’aggressione in atto alla nostra Costituzione investono
sia il metodo con cui la riforma è stata approvata, sia i suoi
contenuti.
Anzitutto le ragioni di metodo. Questa riforma, cambiando 47 articoli su 139, non è una “revisione” dell’attuale costituzione, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Ma la nostra Costituzione non consente l’approvazione di una nuova costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dall’articolo 138 della Costituzione è un potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito. Di qui il primo profilo di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
In secondo luogo questa nuova costituzione, per il modo in cui è stata promossa e approvata, è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale quale fu quello con cui fu approvata la Costituzione del ’48. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti.
Globalizzazione?
Il concetto di globalizzazione viene sempre più utilizzato per descrivere vari fenomeni tipici del capitalismo contemporaneo. Lo stesso concetto viene poi declinato all’interno delle diverse correnti politiche onde sostanziare le rispettive letture della realtà.
L’obiettivo di questo breve contributo vorrebbe essere quello di chiarire alcuni aspetti del dibattito a sinistra, partendo dalla lettura del recente testo di Domenico Moro Globalizzazione e decadenza industriale. L'Italia tra delocalizzazioni, «crisi secolare» ed euro (Imprimatur, 2015).
Se vogliamo partire da una definizione accettata comunemente, secondo l’enciclopedia Treccani online per ‘globalizzazione’ s’intende l’insieme di fenomeni che a partire dagli anni Novanta ha stimolato la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo. In economia, per quanto riguarda i mercati, si assiste ad una unificazione a livello mondiale grazie anche alla diffusione delle innovazioni tecnologiche. Scompaiono le differenze nei gusti dei consumatori, che si unificano alle preferenze guidate dalle multinazionali. Le imprese sono in grado di sfruttare meglio le economie di scala nella produzione, distribuzione e marketing, praticando politiche di bassi prezzi per penetrare in tutti mercati.
Spesso il concetto viene usato come sinonimo di liberalizzazione.
Il libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa (Imprimatur, 2016), rappresenta un contributo molto importante alla riflessione sul nostro tempo. Pubblichiamo una bella recensione di Paolo Di Remigio, e ci torneremo (M.B.)
Oltre alla straordinaria padronanza
della
materia, ciò che colpisce nella ‘Scomparsa della sinistra
in Europa’ è la volontà dei suoi autori di
conservare un tono pacato. Proprio per questo la storia che il
libro racconta ha un effetto ancora più inquietante: è la
storia degli
ultimi quarant'anni, in cui la sinistra, la rappresentanza dei
lavoratori, è diventata esecutrice di politiche economiche
contro i lavoratori.
I fautori della svolta neoliberale l'hanno scelta perché i
lavoratori se ne fidavano; il suo nuovo protagonismo era lo
strumento ideale
per paralizzarne le reazioni. Così è stata la sinistra a far
credere che la svolta verso la nuova politica economica,
l'economia dal
lato dell'offerta, avrebbe permesso il superamento della fase
critica degli anni ’70 e avrebbe avviato l'economia mondiale
verso una crescita
stabile. L'economia dal lato dell'offerta non poteva fare però
nulla di tutto questo.
Lo aveva dimostrato proprio il pensatore più importante della sinistra, Karl Marx, distinguendo tra mercato in generale (sistema mercantile semplice) e mercato capitalistico. Il mercato in generale è lo scambio di equivalenti tra proprietari privati, il mercato capitalistico mette insieme lo scambio di equivalenti tra proprietari e lo scambio ineguale tra capitalista e lavoratore.
Del contenuto di questa infelice riforma costituzionale si è detto abbondantemente e non stiamo qui a ripeterci sull’aborto di Senato, sul combinato disposto con la legge elettorale maggioritaria, sul prevaricazione governativa sul potere legislativo, sul carattere puramente propagandistico delle misure in materia di iniziativa popolare o sui tagli ai costi della politica eccetera. Di questo si è detto sin troppo, mentre troppo poco si è detto su un’altra ben più grave cosa: il modo con cui questa riforma si è formata.
Ricordiamo che:
a- essa non faceva parte del programma della coalizione Pd-Sel nelle elezioni politiche scorse
b- essa non è stata deliberata neppure nel congresso del partito nel tardo 2013
c- è stata irritualmente proposta dal Presidente della Repubblica che, poco attento al giuramento di fedeltà alla Costituzione vigente, se ne è fatto principale promotore del mutamento ed arbitro non imparzialissimo della contesa che si apriva.
Già questi punti gettano una luce non favorevolissima sull’accaduto, ma il peggio è altro: ad operare questa riforma è stato chiamato un Parlamento eletto con una legge gravemente distorsiva della volontà popolare e dichiarata per questo incostituzionale.
Sull’Economist leggo due esilaranti lezioni sulla relatività del concetto di povertà e ricchezza. Nel primo il tema è una inedita applicazione della sharing economy come strumento di promozione dell’uguaglianza di status sociale. Posto che una delle differenze che consente di distinguere i “normali” ricchi dai super ricchi è la disponibilità o meno di un jet privato, la società NetJets ha pensato bene di lanciare un servizio di sharing di questi prestigiosi mezzi di trasporto, che consente a chiunque, per la “modica” cifra di 155.000 dollari, di disporre di 25 ore di volo annue su uno dei velivoli della compagnia. Uber e Airbnb, che sono stati gli iniziatori di questo genere di mercato con i loro servizi low cost a una classe media impoverita che può così illudersi di fare parte delle élite, si sono a loro volta inseriti in questa fascia alta offrendo, rispettivamente, la possibilità di disporre temporaneamente di yacht e appartamenti di super lusso. La “morale” è che anche la mega ricchezza, in fondo, è un concetto relativo, nella misura in cui tecnologia e creatività imprenditoriale possono arruolare nella categoria una fascia sociale relativamente estesa.
Il secondo articolo è ancora più spassoso, visto che vi si afferma che chi dispone di poco più di 2000 dollari, anche se non lo sa, è più “ricco” della metà della popolazione mondiale (laddove per stare nel decile superiore occorrono almeno 70.000 dollari e per accedere al mitico 1% la soglia minima è di poco meno di 750.000).
Fa buio. Nel secolo ancora non è mezzanotte, ma quello da poco nato sembra cominciare sotto cattivi auspici: il nazionalismo esacerbato, la xenofobia rivendicata con orgoglio, il fondamentalismo religioso che dichiara guerra, i cui volti più inquietanti assumono la forma di un desiderio di morte, fenomeni che ricordano gli orrori del secolo trascorso nei loro risvolti più tragici.
Nelle diverse varianti del neofascismo contemporaneo, si fanno giorno strane alleanze nelle quali la pressione capitalistica più sfrenata e più criminale si mischia a forme di irredentismo identitario tra le più variegate.
La globalizzazione del neoliberismo, lungi dal partorire un mondo pacificato nel commercio, come pretendeva l’irenico Vangelo dei suoi predicatori, è il terreno fertile di uno scontro sanguinoso tra identità, che fa sembrare il fondamentalismo religioso e il fondamentalismo del mercato come due versioni complementari della reazione postmoderna.
Ritorno alle origini, ripiegamento sulla comunità di appartenenza, sottomissione assoluta alla trascendenza: la grande regressione che abbiamo davanti è portatrice di nuovi disastri, c’è da starne certi.
"Io, Daniel Blake" di Ken Loach rappresenta con crudezza la spietata trasformazione del servizio pubblico in dispositivo volto alla creazione di profitto. Stritolato tra il sacco della previdenza svenduta ai privati e le logiche di austerità, il welfare state universalistico tramonta all’orizzonte del Settentrione d’Inghilterra, mentre il corpo e la salute diventano l’ultimo, definitivo bacino d’estrazione
Non c’è più salvezza davanti al referto autoptico della società inglese. Con Io, Daniel Blake, vincitore della Palma d’Oro a Cannes, Ken Loach sceglie di guardare la Bestia negli occhi, mettendo in scena il termine ultimo dei Trentacinque anni ingloriosi, cominciati con Margaret Thatcher, proseguiti con Tony Blair e divenuti l’incubo in cui sprofonda un falegname di Newcastle che prima perde il lavoro e poi tutto il resto. Se Loach continua – oggi più che mai – a far piovere pietre, Io, Daniel Blake è un diluvio di sassi acuminati che straziano la carne.
Della working class che sapeva “tenere”, non è rimasto niente. L’orgogliosa appartenenza di classe è sprofondata in un abisso di solitudine. Le pratiche di resistenza collettiva sono infrante. E così, anche le storie devono cambiare.
Le elezioni americane possono essere stato uno shock inaspettato per molti, e sono sicuramente un segnale preoccupante per tutti coloro che temono il ritorno prepotente di una destra aggressiva e minacciosa. Sono però, allo stesso tempo, un segnale che verrebbe da dire inequivocabile del declino della liberal-democrazia, un cambiamento di paradigma su cui vale la pena soffermarsi.
Come già largamente argomentato, l’ago della bilancia – e, dunque, il tema principale di queste elezioni – sono state le regioni operaie a forte tradizione democratica che sono passate in blocco a Trump. I dati possono aiutarci a capire meglio: se è vero che la Clinton ha vinto il voto popolare ed preso più voti di Trump tra le fasce di reddito più basse è anche però vero che 1) il trend dei voti a favore dei Repubblicani tra i blue collar è in crescita e, soprattutto 2) Hillary ha perso milioni di voti per strada, che si sono rifugiati nell’astensione – e questo è stato vero in particolare proprio nella cosiddetta rust-belt dove Trump ha vinto le elezioni. Il che equivale a dire, che sono stati soprattutto i democratici a perdere le presidenziali, piuttosto che i repubblicani a vincerle.
La radice di questa sconfitta va ricercata in questioni politiche lasciate irrisolte per molti anni ed esacerbate dalla crisi; ed in marchiani errori tattici che però sono figli proprio di quelle questioni politiche.
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Pierre Dardot e Christian Laval dopo la pubblicazione di La nuova ragione del mondo e Del comune pongono ora alla nostra attenzione Guerra alla democrazia, da poco uscito in italiano per DeriveApprodi. Qui ne pubblichiamo il primo capitolo, per gentile concessione della casa editrice, che ringraziamo
È una
storia greca. Una storia che getta una luce singolarmente viva
sul nostro presente. Più precisamente, è una commedia di
Aristofane
andata in scena nel 388 a.C. e intitolata Pluto.
Colui che viene indicato con questo nome non è nient’altro che
il dio della
ricchezza e del denaro1. Che qui si presenta nelle
sembianze di un vecchio coperto di stracci, accecato da Zeus,
errante per le strade.
Mentre in genere Pluto è raffigurato come un cieco, perché
distribuisce ricchezza in funzione del caso, sui ricchi come
sui poveri, il
personaggio della commedia di Aristofane riserva le proprie
buone azioni solo ai ricchi, preferendo tra questi truffatori
e malfattori. Guarito della
propria infermità dalle cure del dio Asclepio, a tutti
promette abbondanza. Penia (la povertà) ha un bel da fare
nell’obiettare
che se i poveri diventassero ricchi, nessuno più lavorerebbe:
la promessa della ricchezza universale ha comunque la meglio.
Così si
festeggia la guarigione di Pluto e la commedia si chiude con
«un’apoteosi rovesciata»: una processione solenne si reca
all’Acropoli, ritmata da una danza e illuminata dalle torce,
per insediare Pluto nell’abside del tempio di Atena e della
polis.
Oligarchia contro democrazia
Nel trionfo di Pluto la commedia rivela un vero e proprio «mondo a rovescio».
Nella
nostra epoca, quella del tardo-capitalismo,pressoché tutte le
forme dei saperi propriamente scientifici sono stravolte:
l’originaria
“filosofia della natura” coltivata nelle università da piccoli
gruppi di ricercatori, se non da singoli individui, si è via
via dislocata all’interno del complesso militare-industriale,
divenendo appunto “Big Science”: una vera e propria fabbrica
di
innovazioni tecnologiche caratterizzata dai costi immani e da
decine e decine di migliaia di ricercatori che lavorano in un
regime di fabbrica di tipo
fordista.
Si può affermare che il Progetto Manhattan, ovvero la costruzione della bomba atomica americana, costituisca il punto di non ritorno che separa la scienza moderna da quella tardo-moderna, la “Big Science” appunto.
A dispetto di una opinione tanto fallace quanto diffusa, non esiste né può esistere un “capitalismo cognitivo”; semmai v’è,in formazione, un “capitalismo tecnologico”, un modo di produzione che promuove una furiosa applicazione della scienza alla valorizzazione del capitale — applicazione che genera continue innovazioni di processo e di prodotto, ma queste non hanno alcun significativo rapporto con l’accumularsi delle conoscenze.
Infatti, per loro natura, le scoperte scientifiche non possono essere né promosse né tanto meno programmate, perché esse sono in verità risposte a domande mai formulate –come accade nei viaggi o nei giochi.
Oltre che dai presunti «dissidenti» di Miami, la morte di Fidel Castro è stata celebrata in modo scomposto da Roberto Saviano che ha scritto: «Morto Fidel Castro, dittatore. Incarcerò qualsiasi oppositore […] Giustificò ogni violenza». Naturalmente, nulla viene detto dell’interminabile embargo o blocco con cui l’imperialismo ha cercato di condannare alla capitolazione o alla morte per inedia un popolo «oppositore», e nulla viene detto degli innumerevoli tentativi della Cia di assassinare il leader cubano, il dissidente per eccellenza nei confronti dell’Impero. Saviano preferisce identificarsi con gli assassini dando lezioni di democrazia e di nonviolenza alle loro vittime e ai loro bersagli. Ne scaturisce un testo all’insegna del surrealismo, il surrealismo dell’ideologia dominante. È un surrealismo da me denunciato in due libri dai quali riprendo alcuni estratti (ringraziando gli Editori) [D.L.].
Chi coltiva la
violenza?
«Newsweek», riferisce degli innumerevoli tentativi di assassinare Fidel Castro. Vi si sofferma a lungo, concentrandosi soprattutto sui particolari tecnici o sugli aspetti più o meno pittoreschi: gli «agenti tossici» da utilizzare, i «sigari preferiti» dalla vittima, il «fazzoletto trattato con batteri», il ruolo affidato alla «mafia», la somma da versare al sicario. Ma in queste pagine invano si cercherebbe un giudizio di condanna morale sul ricorso all’arma del terrorismo: è il termine stesso ad essere bandito; esso appare chiaramente sconveniente allorché si tratta di definire gli assassini perpetrati o tentati dai servizi segreti statunitensi. Questi, tra gli anni ’50 e ’60, elaborano piani ingegnosi per neutralizzare o eliminare fisicamente Stalin in Unione Sovietica, Arbenz in Guatemala, Lumumba nel Congo, Sukarno in Indonesia, e dirigenti politici e militari di altri paesi. I vertici della Cia partono dal presupposto – riferisce il libro senza alcuna distanza critica – che ogni mezzo è lecito allorché si tratta di sbarazzarsi di «cani rabbiosi» [1].
Nel corso della guerra fredda entrambe le parti si sono impegnate in operazioni, tentativi e progetti che è difficile non definire terroristici.
Riceviamo da Pasquale Cicalese e pubblichiamo come contributo alla discussione sulle prospettive dell'Italia nel contesto di futuri scenari politici ed economici internazionali
Il 2017 potrebbe essere l’anno risolutivo della lunga guerra d’Italia iniziata con Mani Pulite e il referendum per il maggioritario indetto da Mario Segni del 1992. Oggi come allora, ritroviamo quasi gli stessi protagonisti, da una parte la Gran Bretagna, dall’altra l’asse franco tedesco, entrambi protagonisti della perdita di quel minimo di sovranità garantita nella Prima Repubblica.
Ma oggi, sullo sfondo, troviamo la nuova amministrazione Trump, la Russia di Putin e, in maniera defilata, la Cina. Tutti vogliono mettere un alfiere nello scacchiere Italia, portaerei militare e commerciale dell’intero bacino del Mediterraneo, area che da qui a pochi mesi sarà protagonista di una nuova spartizione tra Usa e Russia con una nuova Yalta, che abbraccia Iran, Siria, Israele, Libia, Egitto e, appunto, Italia. Il referendum del 4 dicembre costituisce lo spartiacque come quello promosso da Segni nel 1992. Del resto lo stesso Renzi pochi giorni fa dichiarava che un accordo Trump Putin apriva scenari nuovi per il nostro Paese, assieme alla Brexit.
Paolo Paesani dà conto di un seminario svoltosi alla Facoltà di Economia della Sapienza di Roma in memoria dell’economista Fausto Vicarelli, scomparso 30 anni fa. Le relazioni introduttive, di cui Paesani dà conto, hanno affrontato temi importanti, spaziando dalla metodologia economica a questioni di rilevante attualità, quali la riforma dell’ordine monetario internazionale e il rapporto tra instabilità del capitalismo e mercati finanziari, temi chiave nella riflessione di Vicarelli e nella sua ricostruzione del pensiero di Keynes
“Sono trent’anni che Fausto ci ha lasciato e trent’anni sono un’epoca; un’epoca che segna la storia degli uomini e della società.” Con queste parole di Claudio Gnesutta, già professore di Politica Economica e Economia Monetaria alla Sapienza di Roma, si è aperto, Venerdì 25 Novembre, un convegno in memoria dell’economista Fausto Vicarelli, scomparso nel 1986 all’età di cinquant’anni.
Fausto Vicarelli è stato un importante economista italiano, docente di Economia Politica alla Sapienza e consulente della Banca d’Italia. Ogni dieci anni, i colleghi e gli amici lo ricordano, organizzando un convegno durante il quale si approfondiscono i temi della sua ricerca. Nella riunione di quest’anno, organizzata da Claudio Gnesutta, Pierluigi Ciocca e Paolo Piacentini, con il sostengo della Facoltà di Economia della Sapienza, si è parlato di Keynes.
Sta facendo il giro del mondo, sui media di lingua inglese, il racconto struggente, tragico e a suo modo poetico di un marinaio, Ivan Macfadyen (foto), che ha ripetuto la traversata del Pacifico effettuata dieci anni fa. Allora fra l’Australia e il Giappone bastava buttare la lenza per procurare pranzo e cena succulenti. Stavolta in tutto due sole prede. Dal Giappone alla California, poi, l’oceano è diventato un deserto assoluto formato da acqua e rottami.
Nessun animale. Non un solo richiamo di uccelli marini. Solo il rumore del vento, delle onde e dei grossi detriti che sbattono contro la chiglia. Il racconto di Ivan Macfadyen, vecchio marinaio col cuore spezzato dopo 28 giorni di desolata navigazione nel Pacifico, è stato raccolto dall’australiano The Newcastle Herald ed è stato variamente ripreso da decine e decine di testate, tutte in inglese.
Macfadyen ha navigato con il suo equipaggio a bordo del Funnel Web sulla rotta Melbourne -Osaka – San Francisco. Dice di aver percorso in lungo e in largo gli oceani per moltissimi anni, dice di aver sempre visto uccelli marini che pescavano o che si posavano sulla nave per riposarsi e farsi trasportare. E poi delfini, squali, pesci, tartarughe… Stavolta nulla di tutto ciò: nulla di vivo per oltre 3.000 miglia nautiche.
Unica apparizione, poco a Nord della Nuova Guinea, quella di una flotta per la pesca industriale accanto ad una barriera corallina.
Sul Financial Times, Wolfgang Münchau denuncia la cecità dell’establishment occidentale, che perfino nel momento della più grande minaccia alla sua esistenza non sa far altro che alzare la posta in gioco – e la tensione – proseguendo dritto per la sua strada e offendendo l’elettorato, che a suo dire vota “sbagliato” (cioè contro). Proprio come l’ancien régime della Francia pre-rivoluzionaria, l’élite capitalista globale e i suoi vassalli – osserva Munchau – sembrano completamente staccati dalla realtà.
(E’ qui d’obbligo un omaggio a Il Pedante, che ben prima di Münchau, su Twitter, sbeffeggiava l’atteggiamento da “Maria Antonietta” del nostro establishment politico.)
Alcune rivoluzioni avrebbero potuto essere evitate se la vecchia guardia si fosse semplicemente astenuta dal lanciare provocazioni. Non c’è prova dell’autenticità della battuta “se non hanno il pane, che mangino brioche“, ma è il genere di cose che Maria Antonietta avrebbe effettivamente potuto dire. Suona verosimile. I Borbone erano insuperabili come quintessenza dell’establishment che ha perso il contatto con la realtà.
Ma oggi hanno dei concorrenti.
Il nostro establishment liberal-democratico globale si sta comportando in modo molto simile.
Pubblichiamo un estratto da Andrea Fumagalli, Grateful Dead Economy (Agenzia X)
Le posizioni libertarian
sono
variegate e molteplici. Vi si può trovare un po’ di tutto.
Dalle posizioni che perorano l’abolizione del monopolio di
emissione
della moneta grazie alle nuove opportunità tecnologiche
offerte dalla moneta elettronica (criptocurrency) a
quelle di stampo
neoluddista, che vedono nell’informatica e nella figura del
cyborg il rischio di un sopravvento del macchinico sulla
natura umana (modello
Matrix), fino a quelle cyberpunk. Non ci soffermiamo
sulle prime ma sulla controcultura cyberpunk, che anche in
Italia ha svolto un ruolo
importante all’interno dei movimenti antagonisti dagli anni
ottanta in poi.
Il filone cyberpunk è quello che maggiormente ha raccolto l’eredità politica del movimento hacker seguendo una direzione opposta al naturalismo e alla tecnofobia della generazione precedente (e dei neoluddisti).
Nel manifesto del movimento – l’antologia Mirrorshades pubblicata nel 1986 – Bruce Sterling rivendica una sorta di nuova alleanza tra tecnologie e controculture, mettendo in evidenza quella sorta di eccedenza “fuori controllo” evocata da Kevin Kelly. Nelle parole di Sterling:
La struttura attuale di potere, le istituzioni tradizionali hanno perso il controllo della velocità del cambiamento. E improvvisamente una nuova alleanza sta diventando evidente: un’integrazione di tecnologie e controculture degli anni ottanta. Una Non Santa Alleanza del mondo tecnologico e del mondo del dissenso organizzato: il mondo underground della cultura pop, dell’incostanza visionaria e dell’anarchia da strada.
E poco più avanti:
Pubblichiamo col permesso dell'autore un bell'articolo del prof. Roberto Artoni (originariamente in Riforma del capitalismo e democrazia economica, a cura di L. Pennacchi e R. Sanna, Ediesse 2015). Attualissimo il passo di Guido Carli citato all'inizio: “L’Unione europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi”.
Dopo oltre venti anni non è inopportuno tentare
un bilancio della politica di privatizzazione seguita nel
corso
dell’ultimo decennio del secolo scorso. Si devono cioè
chiarire, sia pure in termini molto sintetici in questa sede,
i presupposti delle
politiche allora intraprese, individuarne i limiti e
delinearne gli effetti che si sono progressivamente
manifestati.
Presupposti
All’origine della drastica riduzione della presenza pubblica nell’economia si può collocare una lettura per così dire strutturale degli effetti del progressivo rafforzamento dell’Unione europea: questo rafforzamento trovava o doveva trovare espressione nella creazione del Mercato unico, che sanciva la libertà di movimento di merci, lavoro e capitali, oltre al perseguimento di un generalizzato contesto concorrenziale. Un’espressione esemplare degli effetti che l’Unione europea avrebbe prodotto sull’economia italiana si ritrova in un intervento di Guido Carli: “L’Unione europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi”[2].
Questo mese sono arrivati due nuovi
libri sul
capitalismo. Il primo è di Wolfgang Streeck ed è intitolato "How
will capitalism end?" (Come
finirà il capitalismo?). Wolfgang Streeck è il direttore
emerito del Max Planck Istitute per la Ricerca Sociale, a
Colonia, ed
è professore di Sociologia all'Università di Colonia. È anche
membro onorario della Society for the Advancement of
Socio-Economics e membro della Berlin Brandenburg Academy of
Sciences oltre che dell'Academia European. Insomma, il punto
di vista di Streeck ha un
qualche peso, sufficiente per essere recensito da Martin Wolf
sul Financial Time.
La tesi di Streeck, come suggerisce il titolo, è quella che il capitalismo è un sistema che sta arrivando alla fine e che la sua scomparsa non è poi così lontana. Il libro comincia riferendosi ad un altro libro, intitolato "Does capitalism have a future?" (Il capitalismo ha un futuro?), in cui viene espresso il punto di vista di altri cinque scienziati sociali; Immanuel Wallenstein, Randall Collins, Michael Mann, Georg Derluguian e Craig Calhoun. Come dice Streeck, tutti questi studiosi concordano sul fatto che il capitalismo si sta dirigendo verso una crisi finale, sebbene ciascuno apporti ragioni diverse.
Wallenstein ritiene che il capitalismo si trovi alla fine di un ciclo di Kondratiev da cui non può più riprendersi (per una molteplicità di ragioni, che hanno a che fare soprattutto col declino dell'ordine mondiale sotto l'egemonia degli Stati Uniti).
Compito immediato: mantenere e sviluppare il patrimonio di impegno e lotta dei comitati a difesa della Costituzione di democrazia economico-sociale
La straordinaria vittoria del NO al referendum costituzionale (59% di NO, con un’alta affluenza alle urne: 68%) è di enorme rilevanza politica, nazionale e internazionale.
Essa è stata ottenuta
- contro un potentissimo apparato mediatico al servizio del governo e del suo “capo”, onnipresente in TV, come mai era avvenuto in una consultazione referendaria costituzionale;
- contro i principali leader dei paesi occidentali, da Obama alla Merkel, accorsi in soccorso di un governo incaricato di mettere in atto le loro direttive politiche;
- contro le grandi banche d’affari e i loro principali giornali;
- contro Confindustria e Marchionne;
Non se ne è andato, è letteralmente fuggito con un’ ultima raffica di retorica fasulla a denti stretti per la rabbia, praticamente identica a quella inalberata dopo la sconfitta con Bersani e di balle su tutte le pessime leggi che ha fatto in mille giorni, praticamente smentendo quella lentezza legislativa con la quale giustificava la manipolazione costituzionale. Ma a mio parere sarebbe fuggito anche se invece di 20 punti di differenza nei risultati della consultazione ce ne ne fossero ;stati solo 2 ;o 0,2, anche se a votargli contro non fossero stati proprio i giovani, anche se la straordinaria affluenza delle urne non avesse dimostrato l’attaccamento degli italiani alla Costituzione e il rifiuto di un ammodernamento che sembrava uscito dalla penna di un babbuino allevato da J.P. Morgan: è ;fuggito ( magari su suggerimento e invito dei suoi burattinai) perché non poteva rimanere così indebolito a subire le conseguenze fallimentari dei suoi mille giorni, che se la vedano i successori con le conseguenze delle malefatte sue e dei suoi padrini continentali che già cominciano a manifestarsi. Rimanere ancorato alla poltrona adesso significherebbe bruciarsi per sempre, mentre andarsene subito da Palazzo Chigi è anche la condizione assolutamente necessaria per mantenere la segreteria del Pd da dove può continuare a tenere le file del partito, del cerchio magico, delle clientele e mantenere su di sé ;l’attenzione di quei poteri, di quelle correnti sotterranee che in definitiva lo hanno creato.
Non coglieremmo il senso di questo
referendum
se restringessimo la visuale su Renzi o la Costituzione. A
dispetto dell’ideologia tecnocratica che vorrebbe disattivare
il significato politico
dei processi rappresentativi – elettorali o meno – ogni elezione
è un’elezione politica, nel suo senso più
profondo e generale. Ogni scontro particolare racchiude una
frattura fra una sinistra e una destra, fra una visione del
mondo e un’altra. La
sconfitta del management renziano piddista non è (solo) una
battuta d’arresto nel processo di revisione istituzionale del
paese, ma
l’ennesimo atto di rifiuto popolare verso il potere liberista,
qualsiasi forma questo prenda e sotto qualsiasi veste questo
si presenti. La
vittoria del No è allora in scia del No al referendum greco
del 2015; della vittoria della Brexit la scorsa estate; della
vittoria di Trump il
mese scorso. E, più in generale, dell’affermazione dei
populismi di destra, come il Front national in Francia; di
“centro”,
come il M5S in Italia; o di “sinistra”, come Podemos in Spagna
o il temporaneo successo di Bernie Sanders negli Usa. E’ un
mondo
della rappresentanza e delle istanze della politica che si sta
trasformando davanti ai nostri occhi, lasciando la sinistra
sempre più spaesata,
succube di riferimenti politici ormai completamente
disattivati. E’ la forza delle masse che hanno reciso ogni
forma “ordinaria”
della partecipazione politica, che si esprimono a volte non
votando, altre mandando un segnale dirompente di rifiuto
dell’establishment
politico-economico, qualsiasi forma questo prenda, di destra o
di “centrosinistra”.
E anche Renzi è
stato rottamato. La vittoria del NO alla controriforma
costituzionale, pur in qualche modo prevista, ha assunto
subito dimensioni straordinarie, tale
da rendere impossibile qualsiasi tentativo di restare al
comando di una compagine governativa che aveva ormai assunto
l'aspetto e i comportamento di
una banda di rapinatori-piazzisti.
Lo stesso discorsetto d'addio ha dipinto plasticamente la nullità del personaggio, che ha ammesso soltanto di non aver saputo vendere il prodotto – la riforma costituzionale – che qualcun altro (Napolitano) aveva malamente confezionato.
Siamo felici di aver attivamente partecipato a questa battaglia vincente con uno sciopero generale riuscito al di là delle pur ambiziose speranze, una manifestazione nazionale – il 22 ottobre – che aveva dato volto e corpo al NO SOCIALE, e poi centinaia di iniziative, volantinaggi, lavoro di strada… Fino al festoso “assedio” di Palazzo Chigi di domenica sera, in cui ha brillato l'assenza dei “Comitati per il NO” ufficiali, rimasti al chiuso delle sedi ad attendere un risultato che non si aspettavano, lontani – come sempre – da chi è costretto a subire le conseguenze delle scelte politiche e antipopolari.
Chi voleva manomettere in profondità la Costituzione è stato pesantemente sconfitto da un grande voto popolare. Prepariamoci a un grande movimento
Il progetto di Renzi fallisce e
viene ripudiato dalla Repubblica Italiana.
Chi voleva manomettere in profondità la Costituzione è stato pesantemente sconfitto da un grande voto popolare. Nella marea di voti che sommerge Matteo Renzi e gli avventuristi che aveva coinvolto in una campagna referendaria estremamente scorretta, i giovani hanno contato in modo trascinante: hanno contributo con più forza a rottamare un arnese già vecchio come il sedicente Rottamatore. Matteo Renzi ha subito una grande sconfitta campale nel suo progetto di rafforzamento del governo come architrave di un nuovo sistema politico. Renzi voleva riorganizzare efficacemente il blocco sociale conservatore dopo che era crollata l'analoga funzione di Berlusconi, e voleva farlo salvaguardando una fetta ancora molto elevata del suo elettorato tradizionale proveniente da sinistra. Una specie di DC 2.0 che si riprendeva le percentuali del PCI nelle regioni rosse, schiacciava l'opposizione a cinque stelle e dunque tentava di dare l'impronta decisiva alla Terza Repubblica, pur presentandosi dinamico e riformatore: cosa che attrae sempre un po' di politicanti cinici nel paese del Gattopardo, oltre a una quota instancabile di "militonti", tetragoni a ogni evidenza.
Renzi ha sopravvalutato la presa degli incantatori di serpenti volgari e ignoranti che aveva mobilitato, assieme alle clientele, per imbrogliare un Paese affezionato alla propria Costituzione.
C’è poco da
interpretare: il risultato parla da solo. Quasi il 60% degli
italiani hanno respinto l’orribile proposta di riforma
costituzionale e, insieme,
hanno bocciato il governo Renzi rottamandolo. La
cosa più rilevante è l’alta (altissima, dati i tempi) soglia
di partecipazione al voto che ha segnato il ritorno di
molti elettori alle urne dall’area
dell’astensione. Come dire “Io non voto, ma se
si tratta di mandare a casa quel cialtrone, ci sono”.
In questo confluiscono molte ragioni: in primo luogo il montare della rivolta elettorale del ceto medio dopo 8 anni di crisi, che ha portato alla vittoria di Brexit e di Trump, il crollo del bluff di Renzi dopo il successo iniziale (che aveva ubriacato il suo protagonista), anche l’attaccamento di una parte degli italiani ad una costituzione non inventata ma prodotta da grandi processi storici e che ha retto questo paese per quasi 70 anni.
Un grazie speciale lo dobbiamo all’elettorato giovanile (quello da 18 a 34 anni) che è quello che ha trainato il risultato con quasi un 70% di No. Da diversi anni ho la sensazione che questa generazione sia molto promettente e valga la pena di spendercisi per farla maturare. E’ l’unica in cui possiamo sperare. Vice versa le generazioni dei sessanta-ottantenni sono state quelle che hanno fatto un ultimo regalo con un 51% del si (a quanto pare): decisamente passano alla storia come le peggiori del secolo, le più spregevoli.
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Hits 1767
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Come si va ormai dicendo da tutti (modestamente: lo avevamo detto dal primo
momento), per votare occorrerà attendere la decisione
della Consulta che, per ora,
ha fissato l’udienza al 24 gennaio. Si badi: l’udienza, non la
sentenza che potrebbe tardare di un po’ di giorni (ma non
tantissimi), dopo, però, occorrerà attendere la pubblicazione
delle motivazioni e, grosso modo, si tratterà di un mesetto.
Ripeto, quindi, che la cosa più probabile è che si
vada a votare fra aprile e Giugno, ma con la possibilità di
slittare a
settembre. Partiamo, quindi, da cosa farà la Corte
Costituzionale.
Prima soluzione: dire che l’Italicum è perfettamente costituzionale, lasciarlo come è e passare la patata bollente al Parlamento. Sarebbe un divertentissimo scherzo da prete, perché costringerebbe le forze politiche ad inventarsi qualcosa per scansare un sistema che farebbe vincere i 5 stelle, però non mi pare probabile che accada ed invece è assai più eventuale che intervenga modificando la legge in modo da renderla costituzionalmente “digeribile”. E qui occorre fare una precisazione, dato che anche in tv si sente dire “Ma la Corte Costituzionale può produrre una nuova legge elettorale?”. Non può: deve farlo.
Per il principio della continuità delle istituzioni, la legge elettorale è parte integrante del dispositivo di attuazione del Parlamento, per cui la legge elettorale deve essere sempre operativa ed immediatamente applicabile (Corte Cost. 29/1987).
Pubblichiamo un
estratto dal nuovo saggio di Dardot e Laval,
«Guerra alla
democrazia, L’offensiva dell’oligarchia
neoliberista», in uscita in questi giorni
per DeriveApprodi
Fa
buio. Nel secolo ancora non è mezzanotte, ma quello da
poco nato sembra cominciare sotto cattivi auspici: il
nazionalismo esacerbato, la
xenofobia rivendicata con orgoglio, il fondamentalismo
religioso che dichiara guerra, i cui volti più
inquietanti assumono la forma di un
desiderio di morte, fenomeni che ricordano gli orrori
del secolo trascorso nei loro risvolti più tragici.
Nelle diverse varianti del neofascismo contemporaneo, si fanno giorno strane alleanze nelle quali la pressione capitalistica più sfrenata e più criminale si mischia a forme di irredentismo identitario tra le più variegate. La globalizzazione del neoliberismo, lungi dal partorire un mondo pacificato nel commercio, come pretendeva l’irenico Vangelo dei suoi predicatori, è il terreno fertile di uno scontro sanguinoso tra identità, che fa sembrare il fondamentalismo religioso e il fondamentalismo del mercato come due versioni complementari della reazione postmoderna.
Ritorno alle origini, ripiegamento sulla comunità di appartenenza, sottomissione assoluta alla trascendenza: la grande regressione che abbiamo davanti è portatrice di nuovi disastri, c’è da starne certi. La paralisi del pensiero di fronte alle forme più mortifere di questa regressione è tale da farci sembrare un’impresa titanica quella di aprire nuovi possibili, come affascinati dallo spettacolo del peggio. Ma non c’è altra scelta. Anzitutto, occorre guardare con lucidità la condizione alla quale siamo ridotti.
Viaggiando per
lavoro in Brasile ed incontrando alcuni
politici ed intellettuali brasiliani, ho posto loro
degli interrogativi e ho avuto risposte diverse e talora
contraddittorie attorno alla crisi
costituzionale in corso ed alla sconfitta del PT (a
livello parlamentare e, da ultimo, nelle elezioni
amministrative). Dalle risposte a quelle
questioni vorrei trarre qualche provvisoria conclusione.
I miei interlocutori erano gente di sinistra, di una
sinistra brasiliana oggi assai
frammentata.
Prima domanda: perché le lotte modello Occupy del 2013-14 sono state represse dal governo PT al punto di rovesciarne il segno e di permettere su di esse la presa egemonica della destra? La risposta che ho avuto da esponenti del PT è stata univoca e terribilmente deludente. Da tutti – questo è un punto davvero grave, da tutti senza un minimo dubbio, senza resipiscenza alcuna (anche se spesso con l’imbarazzo del bugiardo) – ho avuto una sola risposta: questi movimenti minacciavano fin dal loro inizio la tenuta della nostra governance. Vi risparmio ulteriori battute, come quando taluno ha sostenuto che le lotte del 2013 fossero ispirate dalla CIA e questo non solo in Brasile ma anche – nel medesimo ciclo – a Istanbul o a Il Cairo…
Chicco Testa, dopo aver detto che bisognava votare sì (immagino per non votare come quei razzisti dei leghisti), a spoglio ultimato ha implicitamente detto se avete votato no è perché siete terroni:
(salvo poi cancellare il tweet, da vero Riccardo Cuor di Leone da Tastiera; ma ci ha pensato un regazzetto sveglio...).
Rettifica: mi dicono che il tweet è ancora lì, oggetto di esegesi alquanto interessanti. Se vi va, andate a vedere. Grim è stato bloccato...
D'altra parte, si sa, è del piddino non solo il sapere di sapere, ma anche il ritenersi legibus solutus: quello che detto da altri sarebbe hate speech, detto da lui è contenuta espressione di una giusta passione civile, quello che detto da altri sarebbe insinuazione razzista, detto da lui è fine analisi sociologica.
Dilagano le analisi sul referendum, in particolare in rapporto alle differenti collocazioni politiche degli elettori, ma a me il dato che pare più evidente è la ripartizione sociale del voto. Più sale il reddito più crescono i SI, più cala più vince il NO. Questo è il solo dato costante in ogni parte del paese. E la vittoria schiacciante del NO dimostra che per una volta la maggioranza più povera o impoverita del paese non si è fatta irretire dal potere e dagli interessi economici che il potere tutela.
Sono decenni che questo potere fa lotta di classe dall'alto, cioè colpisce e riduce i diritti e l'eguaglianza sociale nel nome del mercato e della competitività. E spesso, grazie alla egemonia culturale e al potere mediatico, questo stesso potere riesce a convincere i poveri che sia loro interesse cambiare, cioè favorire i ricchi.
Questa volta in Italia, come in altri paesi negli ultimi tempi, questo gioco non è riuscito e i poveri hanno per un raro momento vinto un round della lotta di classe.
Ciò che la stampa benpensante chiama scandalizzata "populismo" è prima di tutto questo: la rottura politica che matura tra i poveri e tra gli esclusi dall'arricchimento della globalizzazione, che sono sempre più numerosi.
È piuttosto difficile interrompere la lettura de Il
male oscuro (1964), di Giuseppe
Berto, appena ripubblicato da Neri
Pozza. E’ difficile perché la scrittura
congegnata da Berto per questo libro
non prevede o quasi l’uso della punteggiatura – e il
flusso delle memorie del protagonista corre per pagine e
pagine senza fermarsi; ma
è difficile soprattutto perché sembra – e questo fin da
subito – di trovarsi davanti a un unico, lunghissimo e
lucidissimo
pensiero: un pensiero che raccoglie in sé tutta una
tribolata esistenza, con le sue ragioni, le sue
assurdità, le sue colpe, la sua
ineliminabile disperazione. Sembra quasi – per fare un
paragone semplicistico – di leggere quello che, a detta
di alcuni, accade quando si
sta per morire, e se ne è consapevoli: tutta la vita che
passa davanti agli occhi, ricomposta in una sintesi
affannosa, accelerata, e
dolorosa.
Queste confessioni di un nevrotico, con la ricostruzione
del perché e del percome di una caduta nella nevrosi,
sono appunto una
rincorsa (peraltro mai noiosa) verso una disfatta che
non si sa, fino alla fine, se avrà però una “guarigione”
accettabile.
Giuseppe Berto è riuscito a mostrarci il potere della Paura: paura di tutto (di ammalarsi, di morire, di rimanere soli, di fallire…) e, in particolare – particolare essenziale per il protagonista che è uno scrittore – di non riuscire a finire il libro, il proprio capolavoro (il “romanzo-gloria”) che gli avrebbe permesso di vincere finalmente i dubbi, lo sconforto, la perplessità e la derisione sul proprio talento.
Chi ha mandato a casa Renzi è la stessa società che in questi anni ha subito il Jobs Act, la Buona Scuola, lo Sblocca Italia. La vittoria referendaria può dunque divenire uno spartiacque: l'opinione di Marco Bersani
Le prossime dimissioni di Renzi sono il primo importante risultato di un voto referendario che ha dimostrato come la società italiana abbia sviluppato al proprio interno profondi anticorpi di democrazia, in grado di intervenire di fronte ai tentativi di imporre una svolta autoritaria al Paese.
L’esito referendario è tanto più importante perché la categoria sociale che lo ha determinato con forza è stata la componente giovanile, proprio quella a cui Renzi –dietro l’ideologia della rottamazione, della modernità, delle slides e dei tweet - maggiormente si era rivolto.
Ma la sconfitta di Renzi è solo un primo passo, seppur fondamentale per interrompere un ciclo che solo tre anni fa sembrava inarrestabile.
La società italiana, che con il voto referendario lo ha finalmente mandato a casa, è la stessa che in questi anni ha subito il Jobs Act, la Buona Scuola, lo Sblocca Italia e una cultura politico-economica interamente impostata sulla trappola del debito, sulle politiche monetariste imposte dalla Ue e sulla progressiva consegna dei diritti e dei beni comuni ai grandi interessi delle lobby finanziarie e bancarie.
Voi che elevate geremiadi contro chi ha improvvidamente votato No al RefeRenzum, forse sarebbe il caso di provare a prendere in considerazione alcune cose...
Amici che da un paio di giorni elevate al cielo le vostre geremiadi contro chi ha improvvidamente votato No alle ultime consultazioni referendarie, forse sarebbe il caso di provare a prendere in considerazione alcune cose:
1) Non si può gettare la responsabilità di una sconfitta su chi ha vinto; cioè, non si può se si hanno più di sette anni.
2) Ci sono persone che di fronte all'ennesimo ricatto tra un cambiamento che reputavano peggiorativo o pericoloso e lo spauracchio del "se perdiamo arriva il babau dei grillini" hanno pensato: no, grazie, stavolta non vi seguo.
3) Quelle persone, tante e di diverse estrazioni, ora non hanno nessun onere da onorare, contrariamente a quanto sosteneva il presidente Renzi: vai al ristorante, mangi male, ti lamenti, e il cuoco esce, sbatte la pentola sul tavolo e dice: e allora cucina tu. Ecco, non funziona così.
Il crollo
interminabile
Molti segnali di aggravamento della crisi sociale e di stagnazione irreversibile dell’economia sembrano annunciarlo: il diciassette che viene coinciderà probabilmente con una precipitazione globale. Il ceto finanzista globale ha reagito ai segnali rincarando la dose: l’aggressione golpista contro i governi latino-americani colpevoli di aver resistito al diktat finanziario, l’imposizione violenta del Jobs-act in Francia, la ferrea applicazione del Fiscal compact che ha già strangolato la società greca e sta finendo di strangolare l’Italia, la Spagna e la Francia. Ma il cavallo non beve, la ripresa cento volte annunciata non viene, e un’ondata anti-globalista, anti-europea, implicitamente quando non esplicitamente razzista, è ormai maggioritaria nel mondo bianco: America Europa e Russia unite nella guerra.
In assenza di una soggettività progettuale capace di ricomporre i processi sociali secondo un modello diverso da quello che si sta decomponendo, il crollo del capitalismo può essere interminabile e infinitamente distruttivo. Questa soggettività, che nel ventesimo secolo si riconobbe nel movimento operaio, oggi appare disgregata fino al punto che non riusciamo a intravedere possibili linee di ricomposizione.
Questa mattina Effimera ripropone la
lettura
di una intervista davvero interessante
all’economista Lapo Berti, che ha fatto parte del
collettivo redazionale della rivista Primo Maggio e
dell’area del postoperaismo italiano, realizzata da
Paolo Davoli e Letizia Rustichelli. Ringraziamo il
collettivo di ricerca indipendente Obsolete
Capitalism, di cui i due
autori dell’intervista fanno parte, nonché Obsolete
Free Press e Rizosfera Edizioni per la possibilità
di ripubblicare il testo
(che potete scaricare in pdf qui:Marx_moneta_e_capitale-_intervista_con_Lapo
Berti). Diamo con ciò avvio a una
collaborazione con OC allo scopo di favorire
fruttuosi
scambi di materiali e la loro diffusione.
****
L’intervista con Lapo Berti che qui presentiamo è parte del volume collettivo «Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Guattari, Klossowski» pubblicato per Obsolete Capitalism Free Press lo scorso luglio 2016. La ricerca sulla moneta ha accomunato, certo in modo diverso, gli autori rizosferici francesi degli anni ‘60 e ‘70. Lo strumento «moneta» è stato da loro considerato come il dispositivo centrale utilizzato dalle economie di mercato del capitalismo avanzato per avviare à grande vitesse quella profonda trasformazione del regime produttivo fordista in una nuova forma di produzione altamente tecnologizzata, nonché dislocata, finanziarizzata e internazionalizzata. Non solo la Rizosfera francese ha saputo cogliere chiaramente questo cambio di paradigma economico nello stesso momento in cui si stava compiendo, ma è anche riuscita ad effettuare analisi efficaci e originali dello strumento «moneta» fin dal suo apparire nelle terre anatoliche dell’VIII secolo a.c. e nelle città greche del VII e VI secolo a.c.. La moneta, per i filosofi rizosferici, è dunque il dispositivo «accelerazionista» per eccellenza della politica di «dominio rapido» instaurato dalle nuove economie di mercato mondializzate e finanziarizzate.
1. Tra coloro che
si trovano nella poco
invidiabile condizione espressa nel titolo, c’è un
gruppo di persone che nella loro vita hanno desiderato,
sognato, immaginato un modo di
stare al mondo in cui all’interno dei gruppi umani,
grandi e piccoli, la differenza umana non si ordinasse
attraverso una gerarchia fissa, il
dominio sistematico di alcuni umani su altri. Questo
sentimento sociale che chiamiamo sentimento
d’uguaglianza, ha preso varie forme nella
storia: piccole comunità religiose, produttive,
militari, politiche, guidate dal principio
d’uguaglianza. Nella grandi comunità,
è stato molto più difficile trovare la forma che tende
all’uguaglianza del potere sociale tra individui e la
sua ricerca, ha preso
per lo più la forma della rivolta a qualche odiosa
condizione di sudditanza. Molte di queste rivolte sono
poi state soffocate o normalizzate.
In qualche raro caso, sono arrivate a conseguire il
potere generale della comunità ma purtroppo, hanno poi
subito una trasformazione che le ha
portate a replicare, magari cambiando i segni della
rappresentazione sociale sul solo piano formale, il
potere dei pochi su i molti.
Questo sentimento di uguaglianza è non solo esteso a tutto il tempo umano ma anche a tutto il suo spazio, lo si può dire con cautela su i precisi confini della sua consistenza, forse, un universale. Probabilmente, si basa su un dispositivo di logica individuale naturale.
Quali sono state le principali motivazioni che hanno spinto gli elettori alle urne? E, soprattutto, perché hanno deciso di promuovere o bocciare il progetto di revisione costituzionale del governo Renzi? Quali sono stati gli strati sociali maggiormente favorevoli (o contrari) alla riforma? Per rispondere a tali quesiti, l’Istituto Cattaneo ha analizzato la distribuzione del voto nelle sezioni di Bologna per cercare di capire se i settori dove il disagio sociale è maggiore hanno avuto un comportamento più critico nei confronti del governo e della sua riforma. Un’analisi di questo tipo è resa possibile dall’esistenza di dati socio-demografici della popolazione (età, genere, reddito, presenza di immigrati ecc.), disaggregati a livello di singola sezione elettorale e messi liberamente a disposizione dal comune di Bologna. Il problema del Pd nelle periferie, sia geografiche che “sociali”, era già emerso chiaramente nelle elezioni amministrative del 2016: nel territorio, il partito di Renzi aveva perso progressivamente contatto e consenso negli strati sociali più deboli, appartenenti a quel “ceto medio impoverito” di cui stanno discutendo in questi giorni analisti e commentatori. Il referendum costituzionale di domenica ha rappresentato un nuovo laboratorio d’analisi all’interno del quale verificare se il voto favorevole alla riforma – sostenuto dal Pd – ha “sofferto” in misura maggiore nelle aree di Bologna più disagiate o in difficoltà.
Sono stato in trasmissione a La7 dove ho sentito Chicco testa dire cose che non stanno in piedi: “è vero che Renzi ha perduto, ma ha un 40% che ne fa ancora il partito di maggioranza relativa, mentre il no è solo una confusa mescolanza di cose troppo diverse”. Come se il 40% delle europee fosse restato compatto intorno a Renzi. Cominciamo da questo.
E’ vero che il Pd era la più consistente forza elettorale del Si, ma non l’unica, c’erano verdiniani, alfaniani, un pezzo di Forza Italia e di elettorato M5s che, stando alle analisi del risultato, rappresentano circa un terzo del famoso 40% e non si tratta di cose troppo omogenee fra loro o vi pare che Verdini e Cuperlo, Alfano e Fassino vogliano le stesse cose? La verità è che i cartelli del si e del no, come sempre, si sciolgono la sera stessa dei risultati ed ognuno riprende la sua strada.
Certo, gli elettori pescati in Forza Italia e nel M5s possono restare con il Pd, ma è realistico pensare che si tratterà di meno della metà del totale. Allo stesso modo, quel terzo di elettorato del Pd che è passato al No potrebbe in teorie tornare a votare il partito di provenienza, ma questo non accadrà per diversi motivi: in primo luogo perché la scelta di Renzi ha scavato un fossato che non scompare oggi ed ha toccato uno dei punti chiave dell’identità di sinistra del partito: la difesa della Costituzione che è sempre stato uno dei fondamenti del popolo di sinistra sin dai tempi del Pci.
L’imprevisto è il sale della politica: quello che all’improvviso la costringe a fare il salto da ciò che c’è a ciò che può essere, ridandole per ciò stesso vita e senso. Diciotto e passa punti di scarto fra il no e il sì alla riforma governativa della Costituzione non se li aspettava nessuno, né fra chi aveva scelto il sì né fra chi aveva scelto il no. Che questa sorpresa sia la molla per un salto di immaginazione politica è l’augurio del day after che dobbiamo farci tutti, rispondendo con la fiducia nella democrazia a chi insiste tristemente a vederci un salto nel buio.
Bisogna andare con la memoria molto indietro nel tempo, forse ai referendum sul divorzio e l’aborto, per trovare dei precedenti a un no di tale chiarezza e tale potenziale forza propulsiva. Inutile e nevrotico, invece, leggerlo con in mano il pallottoliere delle sigle di partito, delle minoranze di partito, dei transfughi di partito, dei “fronti” coerenti o incoerenti. E’ un no di popolo che ha respinto lo stravolgimento della costituzione, la retorica da cui è stato accompagnato, il metodo con cui è stato tentato, e non ultimo il coro dell’establishment economico e mediatico che l’ha sostenuto. Soprattutto, è un no che respinge con la pratica della partecipazione una riforma tutta tarata sulla fine della partecipazione. E con il peso di una eclatante maggioranza il tentativo di riscrivere il patto fondamentale in base alle convenienze di una minoranza di governo.
Si discute molto, in questi mesi, dello stato di salute del liceo classico e dei cambiamenti che eventualmente sarebbe opportuno introdurvi, con particolare riguardo alla disciplina che più lo caratterizza (se non altro perché si studia solo lì): il greco antico. Come spesso avviene il dibattito sembra aver preso capo dalla coda, cioè dalla prova scritta dell’esame di Stato, la temuta versione: esercizio che gli uni ritengono tuttora assai valido sul piano intellettuale e culturale, gli altri invece reputano eccessivamente formale e sostanzialmente arido; ugualmente persuasi, i primi e i secondi, che la contesa sulla prova d’esame prospetti rilevanti conseguenze sulla disciplina nel suo complesso, attesa la coerenza che deve sussistere tra i contenuti, la loro didattica e la loro verifica. I difensori della versione apprezzano l’impostazione tradizionale della materia, eminentemente linguistica, che a loro avviso è indispensabile per uno studio serio della letteratura e della civiltà della Grecia antica; i detrattori propugnano una trattazione meno sistematica e approfondita della lingua, fiduciosi che ciò non inficierebbe l’apprendimento degli aspetti più propriamente culturali anzi lo renderebbe meglio praticabile.
Assoluto silenzio finora sulle circostanze di fatto che determinano, in concreto, gravissime e spesso insormontabili difficoltà nel conseguimento dello scopo che l’attuale didattica del greco si prefigge: consentire agli allievi un approccio diretto alla letteratura e alla civiltà greca nelle sue voci originali (scopo che, si vuol credere, non può dispiacere ad alcuno).
«Malinconia di sinistra» del filosofo e storico Enzo Traverso per Feltrinelli. Il 1848, la Comune di Parigi, la Rivoluzione russa del 1905. Tre eventi visti non come fine di una prospettiva di liberazione, ma tappe di un processo in divenire. È con il crollo del Muro che cala il sipario su un secolo iniziato con l’auspicio della rivoluzione sociale. Con la fine del socialismo reale il centro della scena è occupato da opzioni politiche di sinistra nostalgiche del passato
La «fine di un’epoca», così buona parte della stampa mondiale ha commentato la morte di Fidel Castro, l’«ultimo comunista». Che cosa significa la fine di un’epoca? Intanto che ogni linea di continuità è recisa, ogni nesso tra passato e presente negato. Le categorie, le motivazioni e perfino il senso delle parole hanno cambiato di segno. Forse si tornerà a parlare di socialismo, di comunismo, ma questi non somiglieranno ai loro avi novecenteschi più di quanto la democrazia antica non assomigli alla moderna democrazia parlamentare: remota invenzione di una idea a cui si rende l’omaggio dovuto a una ragione originaria, ai primi avventati esploratori di una forma politica ancora irrisolta. E come della democrazia greca si ricorderà esser stata fondata sull’esclusione e sulla schiavitù, del socialismo si dirà, con altrettanta ragione, esser stato edificato sulla trascendenza oppressiva del partito e dello stato.
Ma se da Atene e Sparta ci separa una enorme distanza temporale, così non è per la Russia dei soviet o per la rivoluzione cubana.
Luigi Ferrajoli: Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
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Umberto Galimberti ha risposto, dalle pagine della Repubblica delle Donne, ad una domanda sul suo appoggio all'appello per il sì al referendum costituzionale. In appendice, ci sono la domanda e la risposta di Galimberti. Il "botta e risposta" precede l'esito referendario che ha sancito la sconfitta del sì ma l'argomentazione di Galimberti merita di essere segnalata per la sua inconsistenza
Professor
Galimberti,
la ringrazio per aver risposto alla mia piccola “provocazione” 1 . Mi dispiace tuttavia dover ammettere che le sue parole hanno suscitato in me una certa delusione. Le sue argomentazioni mi sembrano infatti un semplice riassunto della retorica renzista che tante volte abbiamo ascoltato nei salotti televisivi in questi mesi di interminabile campagna elettorale.
Mi pare che il primo difetto di tali argomentazioni consista nel fatto di dare per scontate cose che scontate non sono affatto. Sebbene le sue siano solo verità per Umberto Galimberti, il modo in cui le pone le fa apparire come verità per tutti. Ad un certo punto parla addirittura di fatti che, come si pensa generalmente, dovrebbero essere incontestabili. Ma lei sa meglio di me che fatti e valori sono sempre strettamente correlati e dunque ciò che a lei appare come un fatto positivo (l’approvazione da parte di questo Governo di una serie di misure) a molti italiani può apparire, e in effetti appare, come un fatto negativo. Ed è lecito supporre che ciò possa dipendere dalla differente prospettiva che c’è tra la friggitrice di un McDonald’s e lo scranno baronale.
Comincerei con il dire che è stato proprio il fatto che Renzi abbia caricato sul referendum il peso del proprio destino politico a far venir voglia a molti di cogliere l’ottima occasione per rimandarlo a Rignano sull’Arno.
Dopo
la netta ed
inequivocabile sconfitta referendaria, un 60-40 reso ancora
più doloroso dall’affluenza record, Matteo Renzi ha
annunciato
l’intenzione di dimettersi. Molti commentari ragionano sulle
cause circostanziali del voto referendario: la disfatta del
premier era in
realtà una “necessità storica” e si inquadra nel più ampio
disfacimento della Seconda Repubblica che ha
traghettato l’Italia nella moneta unica. La relativa calma
con cui è stata accolta la vittoria del “no” ed il boom di
Piazza Affari del 6 dicembre indicano che lo scenario di un
governo che termini la legislatura, scongiurando così le
elezioni anticipate,
è sempre più concreto: i problemi che erano sul tavolo il 3
dicembre, sono però ancora lì. Il momento della
verità si avvicina.
Antipatico; saccente; arrogante; spocchioso; vacuo. Le ragioni della sconfitta di Renzi devono essere cercate nel suo carattere? Troppo legato alla sua cerchia di amicizie toscane; troppo intimo delle banche, dei salotti buoni, della Confindustria. È la gestione elitaria dell’esecutivo, la causa della disfatta di Renzi? Troppo distante dalla realtà del Paese; troppo legato alla favola “dell’Italia che riparte”; troppo ossessionato dai “segni più” all’economia.
Partendo dall'analisi di un libro scritto da un gruppo americano, il Critical Art Ensemble, si esplorano le relazioni fra realtà virtuale e vita materiale
Premessa
Leggendo gli interventi delle femministe neo materialiste sulla necessità di mettere in crisi il concetto e l’idea di anthropos, allargando alla zoe il campo di riferimento, mi sono ricordato di un dibattito sorto durante gli anni ’90 dopo la pubblicazione da parte del gruppo americano Critical Art Ensemble, di un pamphlet edito in Italia da Castelvecchi (Sabotaggio elettronico) che parlava della rete informatica come di un Corpo senza Organi asettico e pulito, in grado di spostarsi ovunque, isomorfo e imprendibile; quintessenza, dunque, di una spiritualità assoluta, cui diedero anche il suggestivo appellativo/ossimoro di bunker nomadico. L’espressione usata dal gruppo nordamericano non ha nulla a che vedere con l’uso che della medesima espressione fanno Deleuze e Guattari, sebbene l’accenno che viene fatto nel pamphlet all’opera di Artaud faccia pensare che ne fossero a conoscenza.
Del Critical Art Ensemble mi ero occupato anni fa con un testo rimasto inedito dopo varie vicissitudini e che qui propongo per la prima volta, con pochissime modifiche o ulteriori specificazioni su alcuni esempi che mi sembravano datati. Lo propongo nella rubrica Dopo il Diluvio poiché, pur essendo legato alle problematiche trattate su questo stesso numero nelle altre rubriche, gli esempi prevalenti e il punto di vista che ho scelto per la mia riflessione critica, riguardano la letteratura e le arti.
Il NO espresso in maniera inequivocabile nelle urne domenica 4 dicembre ha avuto almeno un doppio effetto: uno immediato – il respingimento della controriforma costituzionale – e uno di livello politico addirittura superiore – il rifiuto complessivo del governo Renzi e delle politiche portate avanti in questi anni in ossequio alle linee dettate dall’Unione Europea. I due aspetti sono tra loro intimamente collegati; infatti, la tentata forzatura della costituzione mirava proprio a un estremo rafforzamento dell’esecutivo funzionale all’implementazione rapida e incontrastata delle direttive europee. Rafforzamento resosi necessario anche per la sempre più scarsa legittimità politica dei governi, dovuta proprio alla scia di riforme strutturali volute dalla Unione Europea (con il sostegno della classe dirigente nostrana) che negli ultimi anni ha utilizzato la crisi per colpire fasce sempre più consistenti della popolazione. Per questo il NO espresso riguarda il governo Renzi, ma anche il progetto politico complessivo della UE. Nonostante gli strumentali inviti a considerare la riforma semplicemente nel merito (rivolti, purtroppo, da entrambe le parti), come se si potesse poi isolare una riforma di questo tipo dal processo politico da cui deriva, il voto è stato un giudizio estremamente politico, fortemente coerente con il diffuso senso di malcontento sociale e rifiuto verso lo status quo, come stanno analizzando tutti i sondaggi, e in maniera molto simile a quanto già visto a livello internazionale nelle ultime consultazioni elettorali sfociate in voti anti-establishment, come nel caso della Brexit, ma anche della vittoria di Trump negli USA.
No alla «riforma» bellicista
La maggioranza degli italiani, sfidando i poteri forti schierati con Renzi, ha sventato il suo piano di riforma anticostituzionale.
Ma perché ciò possa aprire una nuova via al paese, occorre un altro fondamentale No: quello alla «riforma» bellicista che ha scardinato l’Articolo 11, uno dei pilastri basilari della nostra Costituzione.
Le scelte economiche e politiche interne, tipo quelle del governo Renzi bocciate dalla maggioranza degli italiani, sono infatti indissolubilmente legate a quelle di politica estera e militare. Le une sono funzionali alle altre.
Quando giustamente ci si propone di aumentare la spesa sociale, non si può ignorare che l’Italia brucia nella spesa militare 55 milioni di euro al giorno (cifra fornita dalla Nato, in realtà più alta).
Quando giustamente si chiede che i cittadini abbiano voce nella politica interna, non si può ignorare che essi non hanno alcuna voce nella politica estera, che continua ad essere orientata verso la guerra.
Mentre era in corso la campagna referendaria, è passato sotto quasi totale silenzio l’annuncio fatto agli inizi di novembre dall’ammiraglio Backer della U.S. Navy: «La stazione terrestre del Muos a Niscemi, che copre gran parte dell’Europa e dell’Africa, è operativa».
Tra i vari pregi dell’ultimo libro di Carlo Formenti (La variante populista), ce n’è uno decisivo: il coraggio di affrontare di petto la “questione nazionale” tornando a ragionare sulla sovranità, rimanendo al contempo saldamente nell’alveo della sinistra. Curiosamente, pochi giorni dopo l’uscita del libro, un altro testo – sempre edito da Derive Approdi – torna sull’argomento: Rottamare Maastricht, un libro scritto a più mani e che inquadra la critica dell’economia politica europeista all’interno di una soluzione che punta al recupero di alcuni strumenti di sovranità in grado di ridare senso alla rappresentanza politica. Tra le altre cose, vi si legge:
“poiché la dimensione europea è stata messa in sicurezza e quasi sigillata nei confronti dei rischi della politica, una ripresa di potere democratico si può determinare, anzitutto, solo ritornando dall’atmosfera rarefatta e irrespirabile della governance al terreno corposo e vitale della sovranità nazionale”.
Quindici anni di euro e dieci di crisi economica stanno demolendo anche l’ultimo argomento tabù delle sinistre, quello della “sovranità nazionale”? Più della crisi sembrerebbe il fenomeno populista ad aver avviato un dibattito attorno alla sovranità e ai suoi molteplici significati. Il populismo è categoria incerta, multiforme, incapace di descrivere bene alcuni fenomeni politici dei nostri tempi.
Il Governo più antioperaio degli ultimi 30 anni se ne è andato a casa, sommerso da una valanga di voti come non si vedeva da tanto tempo. Se ne è andato un Premier che ha spacciato per innovazione e modernità il ritorno a rapporti di lavoro ottocenteschi: l'assenza di tutele dal licenziamento ingiustificato, l'individualizzazione del rapporto col padrone, il lavoro minorile dell'alternanza scuola-lavoro, la liberalizzazione dei voucher.
Mentre la crisi inaspriva la concorrenza, la disoccupazione dilagava e l'arroganza dei padroni cresceva, queste misure e i tagli alla spesa sociale hanno portato a un impoverimento di milioni di cittadini. Non solo disoccupati, ma anche lavoratori a rischio di perdere un lavoro che si faceva sempre più precario, logorante, mal pagato, con il miraggio sempre più lontano della pensione.
A questi milioni di persone il Governo ha provato a vendere come innovazione, come "cambiamento", la riforma di quella Costituzione che, almeno a parole, vorrebbe tutelarli. Ha provato ad accusare le regole del gioco per assolvere il gioco stesso e il suo principale interprete: il Governo, appunto, che proprio da questa riforma ne sarebbe uscito rafforzato.
In un tweet di un paio d’anni fa, i Wu Ming scrivevano: “Nello scenario di crisi e austerity, emergono merci politiche sempre più scadenti, dalla rapida obsolescenza”.
L’establishment italiano pensava invece di aver pescato la carta magica, quella che permetteva il bluff perfetto: Matteo Renzi. Uno in grado di esser liberista di stretta osservanza ma di dipingersi come anti-sistema, di legarsi efficacemente ai poteri forti dell’economia italiana ed europea ma di presentarsi come anti-Europa alla Salvini, di fare una riforma Costituzionale accentratrice alla Berlusconi e di presentarla come anti-casta alla maniera di Grillo. E di far tutto questo con il sostanziale appoggio dell’intellighenzia di sinistra e di ciò che rimane del suo radicamento sociale e sindacale (con quello confederale che ancora alla vigilia del referendum firmava accordi peggiorativi con il Governo...).
Un fenomeno, un diversivo perfetto in epoca di crisi per continuare ad andare avanti con le politiche economiche che hanno prodotto la crisi, presentandole come svolte copernicane.
Ci spiace per i poteri forti nostrani, ma era troppo bello (per voi) per essere vero.
Molti ci chiedono cosa accadrà adesso con la
legge elettorale. Sul tema la confusione è pari soltanto alla
chiacchiera in
politichese che gli ruota attorno. Conviene perciò provare a
fare chiarezza, anche al fine di sostenere l'unica linea
efficace contro l'attuale
tentativo di surplace delle èlite: andare subito alle
elezioni.
Prima di spostarsi sul "tecnico" è necessaria una breve premessa per afferrare bene la portata della questione. Dietro ad ogni legge elettorale c'è una precisa visione della democrazia, potremmo dire un diverso tasso di democrazia, generalmente in stretta relazione con i rapporti di forza nella società.
Venendo all'attualità, non abbiamo mai avuto dubbi che nel disegno autoritario di Renzi l'Italicum fosse in un certo senso ancora più importante della stessa modifica della Costituzione. Con quella legge si cambiava infatti la costituzione materiale a tutto vantaggio delle oligarchie dominanti, nonché (ma questo è fin troppo ovvio) a favore del ristretto gruppo di potere renziano.
Con la straordinaria vittoria del NO - di cui noi non abbiamo mai dubitato - i nodi stanno venendo al pettine. Così come la morte della Prima Repubblica fu decretata dal referendum del 18 aprile 1993 che spianò la strada al sistema maggioritario, la fine della Seconda è ben rappresentata dalla sonora sconfitta del blocco dominante di domenica scorsa.
In Germania iniziano a veicolare analisi circa la prossima fine del loro modello di esportazione che ha vinto la globalizzazione. In Italia invece si continua a parlare delle dichiarazioni del politico di turno e di soluzioni autoreferenziali
Nello stesso periodo in cui le
immagini del
Barnum Italia scorrono vivacemente, in Germania
si comincia a pensare a quella che viene chiamata
deglobalizzazione.
Ma prima qualche fermo immagine su, appunto, il Barnum Italia: dopo il 4 dicembre nessuna delle fazioni in campo ha una soluzione per cambiare il paese. Il blocco che ha appoggiato il clan renziano al referendum -un qualcosa cementato dai media generalisti che è composto dal sindacato come da confindustria, le grandi coop, l’asfittica finanza tricolore e ciò che resta delle banche- è disorientato dal caos attuale proprio perchè rappresenta degli interessi concreti non delle opinioni in libertà. Quando poi il blocco protagonista del No, i giovani sotto i 30 anni, all’indomani del voto viene semplicemente ignorato nei commenti da tutti gli attori in campo, il segnale è chiaro. Questa non è crisi della rappresentanza politica, o una mutazione dei soggetti del politico, è l’apogeo dell’autoreferenzialità dei cartelli elettorali.
Del resto, la cosidetta politica istituzionale, è pura, per quanto sgangherata lotta per il potere. Ed è un potere sempre meno efficace, viste le mutazioni della società. Per questo tutti i cartelli elettorali in campo, al netto delle lotte interne, convergono verso una soluzione: cercare di azzeccare la combinazione di legge elettorale che ottimizzi, al meglio, il potere disponibile.
1. La VI tesi di
Marx
Le Tesi su Feuerbach sono un testo con uno statuto assai particolare all’interno della tradizione marxista. Scritte da Marx a Bruxelles nella primavera del ’45 probabilmente per fare il punto sul proprio percorso filosofico, sono state pubblicate per la prima volta da Engels in appendice al Ludwig Feuerbach nel 1888 con una serie di modifiche che avevano lo scopo di facilitarne la lettura e la comprensione e nella versione originaria da Riazanov nel 1925-1926 nel I volume del Marx Engels Archiv. Queste tesi hanno avuto grande peso nella storia del marxismo, nella misura in cui, nella loro sinteticità, sembrano essere il gesto teorico inaugurale di una nuova teoria. Il compito che ci porremo all’interno di questo saggio sarà quello di tracciare un tratto di questa storia limitatamente all’interpretazione della VI tesi, mettendola in tensione tra la lettura di Gramsci e quella di Althusser.
Ma prendiamo in primo luogo in considerazione la VI tesi nella sua materialità linguistica e nella rete di relazioni che stabilisce con le altre tesi. Essa recita:
Feuerbach löst das religiöse Wesen in das menschliche Wesen auf. Aber das menschliche Wesen ist kein dem einzelnen Individuum inwohnendes Abstraktum. In seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse.
Feuerbach, der auf die Kritik dieses wirklichen Wesens nicht eingeht, ist daher gezwungen: 1. von dem geschichtlichen Verlauf zu abstrahieren und das religiöse Gemüt für sich zu fixieren, und ein abstrakt – isoliert – menschliches Individuum vorauszusetzen. 2. Das Wesen kann daher nur als “Gattung”, als innere, stumme, die vielen Individuen natürlich verbindende Allgemeinheit gefaßt werden (Marx 1958: 6).
Nel pubblicare questa tesi Engels ritenne necessario proporre alcune modifiche, che non ne modificano il senso.
Nella serie tv The Revenants, una schiera di morti in circostanze misteriose ritorna sulla terra destabilizzando le vite di quelli che sono rimasti vivi. Per quanto la loro morte non sia stata misteriosa, ma dovuta ad evidenti incapacità di reggere il passo dei tempi e di dimostrarsi credibili, negli scorsi giorni gli zombie del fu centro-sinistra ritornano alla carica. Approfittando della sconfitta di Renzi al referendum per reclamare un posto al tavolo della cricca che verrà.
I prodromi li abbiamo visti nel sorriso di D'Alema nelle prime interviste post-voto, come negli immediati appelli dei sindaci Merola e Zedda per un nuovo cantiere del centro-sinistra da costruire nei mesi a venire. Oggi, con l'intervista dell'ex sindaco arancione Pisapia a la Repubblica e il suo appello alla costruzione del Campo Progressista, vediamo la definitiva emersione del tentativo di soggetti trombati dalla storia e/o dal Parlamento di rifarsi una verginità.
L'obiettivo è quello di unificare lo spazio a sinistra di Renzi, fatto di “associazioni, liste, pezzi di Sel e di Si”. Per poi sedersi di fronte al ducetto fiorentino e proporgli un'alleanza in chiave elettorale che depuri definitivamente il Pd dall'abbraccio con gli Alfano e i Verdini. Il movente è la necessità di rioccupare posti di potere, il metodo è quello di offrire una stampella a Renzi, fino a ieri tanto dileggiato nel confronto pubblico verso il referendum.
A seguito del risultato del referendum Renzi si è dimesso. Ed è subito “toto-nomi”. Ma perché non ripartire proprio da quella Costituzione che abbiamo difeso?
Il SÌ serviva per cambiare? CAVOLATE! Con questa Costituzione non possono andare oltre nella distruzione dello Stato sociale e dei diritti.
Tant’è che già alcune leggi stanno cadendo sotto o colpi della Corte Costituzionale.
Ma con questa Costituzione anche il jobs act, il salvabanche, l’Anticipo Pensionistico, il Prestito Vitalizio Ipotecario, la “Buona Scuola”, le “riforme” della sanità e tutta una serie di “riforme strutturali” sono incostituzionali.
Occorreva allora cambiare la Costituzione per poter continuare. Per fare in assoluta sicurezza altre “riforme strutturali”.
Standard & Poor’s diceva “se vince il SI sarebbe meglio, ma pure col NO non sarebbe un disastro. PURCHÉ SI CONTINUI A FARE LE RIFORME”.
Oggi, dall’Europa arrivano simili prese di posizione.
Wolfgang Schauble:
La guerra al terrorismo è stata una "guerra alla verità". Ora i governi cercano di screditare i 'portatori di verità' che sfidano le loro bugie
La guerra al terrorismo è stata contemporaneamente una "guerra alla verità". Per quindici anni - a partire dall'11 settembre 2001 per arrivare alle "armi di distruzione di massa" di Saddam Hussein, ai "collegamenti con al Qaeda", alle "armi nucleari" in possesso dell'Iran, all'"uso da parte di Assad di armi chimiche", alle infinite bugie su Gheddafi, all'"invasione russa dell'Ucraina" - i governi delle cosiddette democrazie occidentali hanno trovato essenziale allinearsi saldamente a queste menzogne al fine di perseguire i propri programmi politici. Ora questi governi stanno cercando di screditare i "portatori di verità" (truthtellers) che sfidano le loro bugie.
I mezzi di comunicazione russi sono sotto attacco da parte delle "presstitutes" ("prostitute dell'informazione", ndt) dell'Unione Europea e dell'Occidente e sono accusati di essere dei fornitori di notizie false ("fake news" - si veda ad esempio l'articolo: www.globalresearch.ca).
Rispettando gli ordini del suo padrone di Washington, l'Unione Europea ha approvato una risoluzione contro i media russi che non seguono evidentemente la linea di Washington. Il presidente russo Putin ha detto che la risoluzione europea è un "segno visibile del degrado dell'idea che la società occidentale ha della democrazia".
Sebbene molto spesso i numeri non dicano tutto, ci sono delle volte in cui la loro evidenza diventa quasi un pugno allo stomaco. È il caso dell’alta affluenza alle urne al referendum costituzionale e della vittoria del fronte dei No, con il suo schiacciante 60%. «Non credevo che potessero odiarmi così tanto», sembra abbia confessato, secondo il “Corriere della Sera”, il capo del governo (ci si augura ancora per poco) ai suoi più stretti collaboratori. «Un odio distillato, purissimo», continua il quotidiano più letto d’Italia, orchestrato non dagli italiani ma dai suoi avversari politici, interni al Partito democratico. Quella minoranza del Partito, per esempio, che ha fatto in modo che «ora Beppe Grillo si senta già al governo».
Dette da Renzi, rimasto celebre per quel «stai sereno» col quale ha ribaltato e mandato a casa Letta e il suo governo, queste parole suonano, a dir poco, paradossali. E testimoniano della distanza siderale che oramai separa i politici della casta, tutti inquadrati nei loro intrighi di potere e nelle loro imboscate di palazzo, dai problemi delle persone comuni, alle prese con bisogni elementari e fondamentali a cui non riescono più a fare fronte. La mobilitazione massiccia, a favore di Renzi, di tutta la sfera della politica istituzionale e degli apparati mass-mediatici, rispecchia un mondo oramai separato dai problemi quotidiani del paese reale, mentre la sconfitta del fronte del Sì, con il dato numerico roboante che sappiamo, ci parla di una protesta e di una avversione eclatanti nei confronti dell’intera classe dirigente del nostro Paese.
1. L'enorme "pateracchio" istituzionale scaturito dall'esito del referendum fa venire al pettine tutti i nodi dell'anomalia di un sistema politico-parlamentare ormai subordinato non tanto alle transeunti esigenze dell'Esecutivo, quanto alla natura servente di quest'ultimo rispetto ai "obblighi comunitari e internazionali" assunti nella sede europea e al connesso "vincolo dell'equilibrio di bilancio (per usare una formula ormai "cara" alla nostra Corte costituzionale).
Il Presidente della Repubblica opta per un'accettazione delle dimissioni dell'attuale governo subordinata all'approvazione definitiva della legge di stabilità per il 2017.
In realtà, data la non coincidenza tra dimissioni del governo, da un lato, e decreto di scioglimento della camere in vista di nuove elezioni, ovvero incarico ad un nuovo premier per la formazione di un nuovo governo, dall'altro, dall'accettazione immediata delle dimissioni non scaturiva un impedimento costituzionalmente normativo all'approvazione della legge di stabilità entro la fine di dicembre.
2. Ma, si dice, occorre evitare l'esercizio provvisorio di bilancio: ma siamo sicuri? L'esercizio provvisorio, comunque, nonostante quanto con leggerezza diffuso dagli espertoni televisivi, non influisce sull'impegnabilità, liquidazione e pagamento,
Luigi Ferrajoli: Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
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Tra i sintomi che
affliggono le democrazie occidentali, la manipolazione
dell’opinione pubblica e la manipolazione del voto sono i più
noti. E non
c’è consultazione politica e referendaria, con o senza quorum,
che non confermi questo trend. Così, puntualmente,
nell’ultima consultazione la tutela della Costituzione e il
conseguente rigetto di una riforma irresponsabile che non ci
avrebbe protetto da
maggioranze retrograde, populiste e autoritarie, viene
surclassato da altri dati, dotati di scarsa oggettività e più
semplicistici. Non
solo i cittadini avrebbero innanzi tutto votato per dire Sì o
No al Presidente del Consiglio Renzi e al suo governo, ma con
questa scelta,
più che esprimersi sulla sua politica e le sue leggi, si
sarebbero di fatto espressi sull’alternativa Renzi o il
populismo, che è
ovviamente sempre quello degli altri, Salvini e Grillo in
primis.
Sembra quasi superfluo evidenziare che la carente analiticità di questa lettura eleva il populismo a giudizio di secondo grado cui scadono nell’analisi del voto, ma già prima nei modi e nei toni della campagna referendaria, quegli stessi sostenitori che hanno eretto il Pd a partito antipopulista per eccellenza; il quale non cede alla tentazione di dividere ancora una volta l’elettorato nel popolo che interpreta correttamente i propri valori (cambiamento, bellezza, sogno, futuro) dal popolo che al contrario ne sarebbe incapace.
La vittoria del
“NO” al referendum ha avuto una lettura prevalente: è il
successo di Grillo e Salvini e segna il definitivo trionfo del
populismo
in Italia. Così come in Gran Bretagna il Leave e
negli USA Trump hanno certificato un immaginario trionfo del
populismo,
agevolato dal voto operaio, in Italia una maggioranza,
identificata qui come il “ceto medio impoverito” di concerto
con una classe operaia
incanaglita e incapace di comprendere lo spirito, precario,
del tempo, avrebbe trascinato il Paese in una spirale che avrà
come sbocco un
governo Grillo (magari con Salvini, anche se non si capisce
come). Uno sbocco comunque reazionario e questo, dicono, sarà
il prodotto (e la
responsabilità) di chi ancora illude larghi tratti della
popolazione che le garanzie novecentesche, la stabilità del
“secolo del
lavoro” sia ancora possibile. Qualcosa del genere si era visto
appunto dopo l’elezione di Trump e il voto sulla Brexit.
Subito dopo l’imprevista – più o meno – vittoria di Trump alle elezioni statunitensi si è immediatamente alzata la canea diretta verso il solito tradimento della classe operaia, che avrebbe votato l'impresentabile tycoon. Se la maggior parte di queste sbavanti accuse erano – e sono – semplici tentativi di deresponsabilizzazione di quella che incredibilmente viene a volte definita “sinistra” di governo, alcune di esse hanno fatto presa anche su insospettabili e disinteressati commentatori.
In tempi di postumano e “declino dell'Occidente”, tornare a Frank Kermode è un modo per comprendere la complessità delle narrazioni contemporanee
Sono
dovuto arrivare a trentuno anni prima di leggere Frank Kermode
e questo dovrebbe bastare a decretare il fallimento
dell’università
italiana, ma siccome per fortuna l’università è una e il mondo
è molteplice, e la prima è limitata mentre il secondo
non lo è, e la prima è un modello davvero astratto e parziale
del secondo, per tutte queste ragioni la curiosità
intellettuale mi
ha portato laddove non hanno potuto i piani di studio del
Ministero e le mode culturali in voga tra gli accademici: cioè
a leggere Il senso della
fine, il seminale lavoro di Frank Kermode
pubblicato per la prima volta nel 1967 e che, come proverò a
dimostrare nel corso di questo
articolo, dice qualcosa di fondamentale sulle narrazioni
contemporanee.
Kermode basic
Quella descritta sopra è una delle tante maniere possibili per raccontare la mia scoperta di Kermode. È una maniera narrativa: prevede un inizio (la mia ignoranza di ventenne che si attiene ai testi suggeriti nella Guida Dello Studente) e una fine (la lettura dei saggi di Kermode e la conclusione che essi siano in qualche modo importanti nella definizione della fiction contemporanea). È una versione che conferisce senso alla mia scoperta, delinea una progressione, inserisce la lettura del libro e la scrittura di questo articolo e persino voi che lo state leggendo in un orizzonte temporale dotato di significato.
L’euro si può salvare? In un’intervista di Artemis Photiadou e dell’editore di EUROPP Stuart Brown, l’economista vincitore del Premio Nobel e autore di best-seller Joseph Stiglitz discute i problemi strutturali alla radice dell’eurozona, la ragione per cui uno scioglimento consensuale sarebbe preferibile al mantenimento della moneta unica, e come i leader europei dovrebbero reagire al voto del Regno Unito per lasciare l’UE
Il suo nuovo libro – “L’euro minaccia l’Europa” – sottolinea i problemi alla radice dell’euro e i loro effetti sulle economie europee. L’euro si può salvare?
L’idea di base del libro è che è la struttura stessa dell’eurozona, non le azioni dei singoli paesi, che è alla radice del problema. Tutti i paesi fanno errori, ma il vero problema è la struttura dell’eurozona. Un sacco di gente dice che ci sono stati errori di gestione politica – e davvero ce ne sono stati un sacco – ma nemmeno le migliori menti economiche del pianeta sarebbero state capaci di far funzionare l’euro. È fondamentalmente un problema strutturale dell’eurozona.
Quindi, esistono riforme che potrebbero far funzionare l’euro? Sì penso che ce ne siano e nel mio libro parlo di quali dovrebbero essere.
L’analisi di Giuseppe Siciliano di una ipotetica uscita dell’Italia dall’euro a nostro avviso dimostra il contrario di quanto affermato nel titolo (L’uscita dall’euro? Benvenuti all’inferno); cioè che l’uscita è possibile senza catastrofi. Questo perché gli squilibri che ne deriverebbero, individuati dall’autore, sono gli stessi provocati da ogni svalutazione o riallineamento del cambio in regime di cambi fissi. Vi sono, in realtà, alcune difficoltà aggiuntive, ma sono gestibili laddove ci sia la volontà politica di farlo.
I toni apocalittici dell’autore, ripresi dal titolo, si basano in larga misura sull’ipotesi che “i capitali esteri lascerebbero il paese” dopo aver subito “rilevanti perdite” a causa della ridenominazione in lire delle obbligazioni private (bancarie) e pubbliche. Quest’ipotesi non è credibile, sulla base delle seguenti considerazioni giuridiche ed economico-finanziarie.
Nello sciagurato scenario di conversione forzosa, in lire, di tutti i titoli e depositi – prospettato da Siciliano – dal punto di vista giuridico non è vero che eventuali controlli preventivi dei movimenti di capitali non sarebbero attuabili perché “in contrasto con le norme Ue”. L’art. 66 del Trattato sull’Unione europea (versione consolidata) precisa che il Consiglio può limitare i movimenti di capitale, per un periodo non superiore a sei mesi, in caso di circostanze eccezionali. Questo articolo è già stato applicato nel caso di Cipro.
Una direzione PD aberrante. Un Renzi tronfio di boria come avesse trionfato. Occorre andare al voto il prima possibile, ma Mattarella farà di tutto per impedirlo. Lo chiede l’Europa
La direzione PD
Ha parlato solo Renzi. Nessun accenno alla sconfitta al referendum. Nessuna auto critica. Al contrario, ha snocciolato i soliti refrain sulle miracolose riforme realizzate dal suo Governo, a partire dal Jobs Act e dall’abbattimento delle tasse. Miracoli che vede solo Renzi, ovviamente. Il Jobs Act ha prodotto la precarizzazione del lavoro e l’abbattimento delle tasse si scontra con l’aumento del gettito fiscale.
Se aumenta il gettito, è ovvio che le tasse sono aumentate.
Ma allora, secondo Renzi, perché la riforma costituzionale è stata sonoramente bocciata?
Ma semplice: a causa degli italiani gretti, stupidi e arretrati. Alcune “chicche”:
Il quotidiano LA STAMPA,
tra i diversi organi di
regime, è quello che picchia più duro contro il Movimento 5
Stelle — le spocchiose élite torinesi non hanno ancora
digerito
l'espugnazione della loro roccaforte.
Un siluro è sparato anche nell'edizione del 6 dicembre, sia cartacea che elettronica. Il titolo è roboante: "Così Grillo spinge i 5 Stelle a destra". Citando presunte gole profonde si insinua che Beppe Grillo starebbe pensando ad un governo M5S-Lega-Forza Italia (embé?). In verità tutto dipana una deduzione: Grillo avrebbe scoperto che i nuovi poveri prodotti dalla crisi votano per le destre, vedi Brexit e Trump; dunque giusto allearsi con le destre. Al netto della fuffa scandalistica, siamo alle prese con la solita litania anti-populista. Tuttavia LA STAMPA è andata giù più pesante.
Prendendo spunto dal comizio conclusivo della campagna referendaria svolto da Beppe Grillo a Torino la sera del 2 dicembre, su LA STAMPA del 4 dicembre [Beppe Grillo e la mistica della sconfitta], tal Massimiliano Panarari, snocciola erudite quanto capziose considerazioni teoriche per poi sferrare il fendente: grillismo come rossobrunismo.
Molte studiose femministe hanno
avuto,
nel migliore dei casi, un rapporto ambiguo con Marx e il
marxismo. Una delle questioni oggetto di maggiore contesa
riguarda il rapporto
Marx/Engels.
Gli studi di György Lukács, Terrel Carver e altri, hanno mostrato significative differenze tra Marx ed Engels circa la dialettica, così come su molte altre problematiche (1). Basandomi su tali lavori, ho esplorato le loro differenze riguardo alle questioni di genere nonché della famiglia. Ciò è di particolare rilevanza in rapporto ai dibattiti attuali, considerato che un certo numero di studiose femministe hanno criticato Marx ed Engels per quello che considerano il determinismo economico di questi ultimi. Tuttavia, Lukács e Carver indicano proprio nel grado di determinismo economico una notevole differenza tra i due. Entrambi considerano Engels più monistico e scientista di Marx. Raya Dunayevskaya è tra le poche a separare Marx ed Engels riguardo al genere, indicando nel contempo la natura maggiormente monistica e deterministica della posizione di Engels, in contrasto con una comprensione dialetticamente più sfumata delle relazioni di genere da parte di Marx (2).
In anni recenti, vi è stata scarsa discussione intorno agli scritti di Marx su genere e famiglia, ma negli anni Settanta e Ottanta, essi erano oggetto di numerosi dibattiti. In alcuni casi, elementi della più complessiva teoria marxiana andavano a fondersi con la teoria femminista, psicoanalitica o di altra forma, nel lavoro di studiose femministe come Nancy Hartsock e Heidi Hartmann (3). Queste hanno visto la teoria di Marx come primariamente chiusa rispetto alle questioni di genere, insistendo sulla necessità di integrazioni teoriche al fine di comprendere meglio le relazioni di genere.
Falce e cartello,
matrimonio
imperfetto
Si è già visto su questo blog come le politiche reclamate dai grandi detentori di capitali a detrimento della restante umanità spesso coincidano stranamente con quelle auspicate da coloro che dovrebbero esserne i nemici più consapevoli e attrezzati: cioè le sinistre "vere", quelle che si identificano nell'impostazione originaria e più che mai attuale della lotta tra chi lavora e chi specula.
Ripassiamone qualche esempio:
le tasse patrimoniali (ne abbiamo parlato qui) invocate insieme dalle sinistre tsipro-rifondarole e dagli strozzini del FMI;
il reddito di cittadinanza e altre forme di elemosina o trickle-down (v. qui), che mettono d'accordo non solo i miliardari à la Grillo, gli zerbini finanziari à la Renzi a botte di 80 denari e, nell'ultima versione pervenuta, gli affamatori della BCE con l'helicopter money, ma anche i Vendola, i Ferrero e tutta la sinistra compagnia di chi baratterebbe il lavoro per una briciola di capitale;
l'apertura senza limiti all'immigrazione, poco importa se da stipare nei lager o negli agrumeti a 3 euro l'ora, cavallo di battaglia dei pauperisti di sinistra e, insieme, del re degli speculatori George Soros che investe milioni per promuovere lo sversamento del Terzo Mondo in Europa e USA;
Un concentrato di ideologia neoliberista, espresso senza troppi peli sulla lingua, in dispregio del politically correct che era stato imposto – dai neoliberisti in versione ri-educational channel – a tutto il pianeta. Un moto “di pancia” all'indomani del referendum e in rifiuto del suo risultato, un inno disperato alle “magnifiche sorti e progressive” del capitalismo senza freni inibitori, vissuto come destino ineluttabile del mondo e delle genti.
Un concentrato di odio di classe, libero da metafore, in cui chiunque abbia espresso mai un pensiero critico, anche solo momentaneo, verso l'establishment della globalizzazione o le sue conseguenze, viene indicato pubblicamente come un idiota conservatore che non merita il privilegio del voto.
Un'invettiva scagliata come una raffica di mitra contro giovani e anziani, precari e pensionati, impiegati e operai, partite Iva e working poors, meridionali o settentrionali che siano. Tutti Untermenshen privi di intelletto, voglia di fare, di "intraprendere". Un insulto sanguinoso vomitato in faccia a chi lavora senza orario, senza diritti esigibili, in condizioni spesso omicide, per quattro soldi di salario.
Un segno certo della sorpresa con cui – per l'ennesima volta in pochi mesi – i leccapiedi ben retribuiti del capitale multinazionale hanno visto rovesciarsi in catastrofe i loro sogni.
Nel 1977 l’italianista (e allora operaista) Alberto Asor Rosa così titolava un suo saggio sulla crisi politica italiana. Quella frattura, di diversa qualità e ai tempi ancora trattenuta da una miriade di fattori sociali e politici, da qualche anno – complice la crisi economica – è deflagrata dissolvendo tutto un mondo della politica ancora legato – anche in forma critica – al mondo pre-crisi. Chi crede che “la sinistra” (qualsiasi senso voglia darsi a questa logora parola) abbia contato qualcosa nel risultato referendario, sta reiterando le ragioni dell’incomprensione del mondo attuale. E per fortuna, che non ha contato nulla. Altrimenti staremmo commentando l’ennesima sconfitta. E’ stato però un voto di classe, perfettamente sovrapponibile alle elezioni comunali della scorsa estate. Sta tutta qui la tragedia (politica) dei nostri tempi. Se “classe” e “sinistra” avessero solamente preso strade divergenti, il problema non sarebbe neanche tanto grave. Hanno invece preso strade contraddittorie: le scelte della classe sono in contrapposizione alle scelte della sinistra. Bisognerebbe aprire una vasta parentesi su cosa significhi classe oggi, ma non è questo il punto ora. Il punto è che le scelte (elettorali, ma non solo, anche “valoriali”) di milioni di nuovi diseredati sono oggi in diretta contrapposizione con le sinistre “ufficiali”.
In anni che sembrano ormai lontani, quando il sindaco di Firenze, battezzato da Blair e da J.P. Morgan si arrampicava verso Roma, spendeva e spandeva in cene, viaggi, in assurdi tentativi di rintracciare la Battaglia di Anghiari oltre che nello scasso speculativo della città e del contado, dissi nella incredulità di alcuni amici piddini che Renzi avrebbe distrutto il partito. E infatti ora è accaduto. Tanto accaduto che il partitone di Repubblica cerca di prevenire possibili uscite ostili a sinistra dal partito, rispolverando il crossdresser politico Pisapia, con infatuazione renziana incorporata, come possibile leader di un sedicente Campo progressista che faccia tornare al voto “istituzionale” quel terzo abbondante di elettori dem passati al No, per poi allearsi grottescamente al Pd di Renzi che anche nel momento della sconfitta rivendica il Job act, la buona scuola, le spese militari, le trivelle, il massacro delle pensioni. Insomma una sorta di Sel 2 che ripercorra sotto forma di farsa la storia già triste della dissoluzione della sinistra in Italia.
Non viene lasciato nulla di intentato pur di evitare che il potere possa passare in mani non fidate, non disponibili a qualunque massacro sociale, svendita del Paese, umiliazione del lavoro, rifiuto di un bellicismo servile nei confronti della Nato o che pensi di mettere bocca nelle decisioni di Bruxelles sulle vicende italiane.
Alla caduta di Mussolini il filosofo e storico Benedetto Croce profetizzò che in un futuro non troppo lontano alcuni suoi colleghi storici si sarebbero dedicati, pur contro ogni evidenza fattuale, ad una “rivalutazione” (una “rettung” come dicono i Tedeschi) della figura del Duce. Si può altrettanto facilmente prevedere che un’analoga “rettung” verrà tentata a proposito di Matteo Renzi, eroe solitario di una “indipendenza nazionale possibile” contro le eurocrazie esterne ed i passatismi interni, un eroe caduto sul sentiero dell’onore, pugnalato alla schiena dal settimanale “The Economist”, come era già accaduto ad un altro eroe italico, il Buffone di Arcore, peraltro riciclatosi recentemente proprio in funzione anti-renziana. Non mancheranno commentatori pronti a commuoversi sulla misera sorte del povero Renzi, costretto dalla umana ingratitudine del popolo dei voucher (tanto da lui beneficato) a ritirarsi a vita privata, cioè ad accontentarsi di far carriera in qualche multinazionale (Apple? Philip Morris?) o in fondazioni annesse.
Intanto la stampa estera presenta il successo del no come una vittoria del “populismo”, un dato dimostrato inequivocabilmente dalla presenza nello stesso fronte del no di personaggi come D’Alema, Bersani e Monti. Persino la Borsa ha festeggiato la caduta di Renzi, probabilmente nella speranza che ciò significhi fine del “bail-in” e apertura al finanziamento pubblico delle banche.
La ristampa anastatica della rivista che sabato 10 è stata presentata a Roma
Nel giugno 1979 arrivò nelle edicole e vendette subito uno sproposito il primo e molto atteso numero di una nuova rivista. Si chiamava Metropoli ed era redatta, come spiegava il primo editoriale, «da un collettivo di compagni che, nel suo insieme, ha attraversato il ’68, l’autunno caldo delle lotte di fabbrica; poi ancora l’esperienza breve e felice di Potere operaio, l’area dell’autonomia e dintorni; successivamente il movimento del ’77 ed in particolare la sua ala beffarda e creativa». Quando la rivista, in gestazione già da un paio d’anni, vide finalmente la luce molti dei suoi redattori erano in galera oppure inseguiti da mandati di cattura per una quantità di reati sufficienti a riempire mezzo codice penale. Erano stati spiccati il 7 aprile e pochi mesi dopo, il 21 dicembre, una nuova raffica avrebbe colpito quasi tutti i redattori scampati alla prima falcidie. Il secondo numero del giornale sarebbe in effetti uscito quasi un anno più tardi, nell’aprile 1980, pensato e spesso anche scritto nelle patrie galere. Altri 5 fascicoli sarebbero seguito nel 1981, mentre il «caso 7 aprile» continuava a tenere banco sulle prime pagine.
CON UNA BIOGRAFIA del genere era inevitabile che la rivista restasse indebitamente incisa nella memoria come un giornale dal piglio quasi militare, scritto sotto il fischio delle pallottole.
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L'opposizione democratica
– quella dei 5 Stelle e della Sinistra – dovrebbe preparare
urgentemente un piano chiaro sull'euro e sull'Europa. La
situazione italiana
è infatti molto più preoccupante di quanto ci fanno apparire.
È più che grave: è disastrosa (anche se al peggio
purtroppo non c'è fine). La crisi bancaria è serissima, e
quella dell'intero Paese prelude a probabili rotture con
l'Unione Europea e
con i mercati finanziari. In effetti l'Italia è sull'orlo del
baratro: l’esito è incerto, ma senza svolte sicuramente
avanziamo
verso la catastrofe. Il contesto è pessimo: l’euro è una
moneta strutturalmente fragile e perennemente a rischio di
sopravvivenza,
l’eurozona è già in coma, e l'Italia è il punto debole di
questa eurozona malata.
Pochi dati sintetici (fonte: Istat) illustrano la drammatica condizione a cui è giunto il nostro Paese. Dal 2007 al 2015 l'Italia dell'euro ha perso quasi 10 punti di PIL (circa 140 miliardi in meno) e un quarto della produzione industriale. I disoccupati sono passati da un milione e 150 mila unità a quasi tre milioni. Il reddito medio è sceso fino al livello pre-euro (primi anni '90) e 4,6 milioni di famiglie sono ormai entrate in condizione di povertà assoluta. Gli investimenti sono caduti del 30% circa. Con i famigerati tagli alla spesa pubblica, i servizi per i cittadini (sanità, istruzione, trasporti) sono in condizioni di degrado. Al sud l'unico business fiorente e liquido è quello delle mafie. I giovani più bravi vanno all'estero. Paghiamo più tasse di quanto lo stato spende per i servizi pubblici, ma lo stato è ugualmente in deficit perché paga circa 70-80 miliardi all'anno di interessi sul debito agli investitori finanziari.
Abbiamo
assistito al fallimento del movimento per Tsipras in Europa
e il governo greco oggi non fa che perpetrare una politica
di
austerità in continuità con i precedenti governi (in teoria)
più a destra. Podemos sembra non riuscire a
superare l’impronta populista dell’anti-casta in salsa
grillina. Idem in Italia in cui il M5S si accinge,
probabilmente, ad accrescere il
proprio potere, soprattutto se il governo Renzi non riuscirà
a superare il voto referendario. Alcuni segnali positivi
arrivano
dall’Inghilterra, che almeno vede ricompattare una sinistra
attorno a Corbyn. Che percorsi occorre intraprendere in
Italia e in Europa, secondo
te, per costruire un movimento di massa che faccia da
contraltare alle politiche di austerità e che tenti di
superare il potere dei grandi
comitati d’affari europei rappresentati dalle istituzioni UE
e dal blocco franco-tedesco?
Sullo stato attuale di ciò che avrebbe dovuto essere una “sinistra eterna” e di cui ha parlato da qualche parte François Furet (ma che adesso proprio ‘eterna’ non può dirsi), al momento la vedo andare alla deriva per la perdita del doppio ancoraggio alla marxiana critica dell’economia politica e alla pratica della lotta di classe che è stata sostituita da una accozzaglia di “scontri di civiltà”, guerre di religione, conflitti geopolitici e quant’altro. Va però detto che questo fallimento della “sinistra” non è proprio tutto colpa sua, perché come si poteva mantenere “marxista” e “classista” dopo lo squagliamento vergognoso (perché senza nemmeno un gemito) dell’URSS e dopo la dimostrazione logica dell’erroneità di quella “trasformazione dei valori in prezzi di produzione” che avrebbe dovuto confermare che il profitto non è altro che sfruttamento del lavoro altrui?
In margine a una raccolta di scritti di Lukács contro lo stalinismo, che prende nome da una importante intervista del 1971, inedita in italiano. Dal 1930 in poi è presente nella produzione del filosofo ungherese la lotta per la «democratizzazione». Il tema della «trasformazione del lavoro in lavoro socialista». La radicale alterità di Lukács allo stalinismo
Il 28 giugno 1956 le maestranze degli
stabilimenti Zispo di Poznań sono riunite per discutere il
contenuto degli accordi raggiunti tra la propria delegazione
di ritorno da Varsavia e
il governo centrale. Dall’assemblea si stacca un corteo
spontaneo, raggiunge il centro della città ingrossandosi, i
principali edifici
della città sono assaltati. Il bilancio della giornata sarà
drammatico: 38 morti e 270 feriti. La lettura degli eventi di
Poznań
costituisce per la sinistra italiana un primo banco di prova
rispetto a un fenomeno molto complesso, che nell’imminente
autunno ungherese
assumerà dimensioni ben più drammatiche. Al comunicato
pubblicato su l’Unità del 2 luglio in cui Di Vittorio
invita a interrogarsi non solo sui provocatori, ma anche sulle
ragioni del «profondo malcontento» serpeggiante tra gli operai
polacchi,
Togliatti risponderà l’indomani con una dura spalla intitolata
La presenza del nemico. Lo stesso 28 giugno, a
Budapest,
Lukács tiene presso l’Accademia politica del Partito dei
lavoratori la conferenza La lotta tra progresso
e reazione nella cultura d’oggi. Siamo appena
agli inizi di quel lungo periodo di conseguenze innescato dal
XX congresso del Pcus di
febbraio.
Nella sua relazione all’Accademia politica, Lukács espone senza infingimenti la complicata situazione presente, gli errori del passato, le difficili sfide future. Egli presagisce che dal XX Congresso potrebbe benissimo scaturire – come effettivamente sarà – un terremoto che, alla prova dei fatti, non cambierà nulla. La strada che quindi Lukács indica nel giugno 1956 al movimento socialista mondiale è quella di un’uscita culturale e politica da sinistra alla problematica istanza di rinnovamento apertasi con l’ultimo congresso del Pcus. L’uditorio è sollecitato, sopra ogni altra cosa, a scansare la schematica immagine di socialismo e capitalismo quali indistinto campo del progresso il primo e della reazione il secondo. Lukács esorta in tal senso a riprendere lo spirito del VII Congresso del Comintern del 1935, ossia a tradurre la linea dei Fronti popolari nell’odierna lotta politica tra capitalismo e socialismo.
Arriva oggi [13.12, ndr] in Italia il capo del Pentagono Ash Carter che, a nome dell’uscente amministrazione Obama, sta facendo «il giro del mondo per ringraziare le truppe Usa schierate in Asia, Medioriente ed Europa e incontrare importanti partner e alleati».
Il tour è iniziato il 3 dicembre dalla California, dove Carter ha tenuto il discorso di chiusura al «Forum Reagan», che gli ha conferito il premio «La pace attraverso la forza».
Carter si è quindi recato in Giappone, dove ha passato in rasegna le truppe Usa e incontrato il ministro della difesa Inada.
Il Giappone, che contribuisce con 1,6 miliardi di dollari annui alla permanenza di 50mila soldati Usa sul proprio territorio, è particolarmente importante quale base avanzata dei sistemi missilistici Usa schierati contro la Cina a «scopo difensivo» e, precisa il Pentagono, è un alleato «in grado di difendere altri paesi che possano essere attaccati».
Dal Giappone Carter è volato in India, divenuta il secondo acquirente mondiale di armi Usa dopo l’Arabia Saudita: un risultato della strategia di Washington che mira a indebolire i rapporti dell’India con la Russia, minando il gruppo dei Brics attaccato allo stesso tempo attraverso il golpe «istituzionale» in Brasile.
«In questa società,
l'unità
appare come qualcosa
di accidentale, la separazione come
normale.»
- Karl Marx, Teorie sul Plusvalore -
1) Viviamo in un'epoca di crisi sociale che dura ormai da molto tempo e che è fondamentalmente la crisi delle società organizzate in maniera capitalista. Infatti, le relazioni di occupazione che governano la produzione ed il consumo nelle società capitaliste si stanno dissolvendo. Il risultato è stata la ricomparsa di una condizione strutturale che Marx ha chiamato "capitale in eccesso insieme a popolazione in eccesso". Nonostante la stagnazione economica, continuano a verificarsi trasformazioni tecnologiche, che danno così origine ad una situazione in cui ci sono troppo pochi posti di lavoro a fronte di troppe persone. Nel frattempo, enormi riserve di denaro setacciano il pianeta alla ricerca di profitti, portando a periodiche espansione di bolle che poi esplodono massicciamente. L'aumento della insicurezza lavorativa e della disuguaglianza sono sintomi della crescente impossibilità di questo mondo in quanto tale.
2) Nel momento attuale, queste contraddizioni, fin dal principio contenute nelle società capitaliste, sono sul punto di esplodere.
NIMBY – Not in My Back Yard - è la sprezzante sigla con cui i lobbisti definiscono chiunque si opponga alla follia che in un dato momento, il lobbista stesso ritiene indispensabile, oltre che per il proprio profitto, anche per la salvezza dell’umanità.
Il più grande nimbarolo del mondo è un ricco signore del Texas (peraltro un boy scout, come Matteo Renzi), che alcuni anni fa si impegnò in una causa legale (persa) per impedire che venisse costruita una gigantesca torre vicino al ranch dove lui allevava cavalli: una torre che doveva servire, nel già arido Texas, ad accumulare acqua per operazioni di fracking petrolifero: secondo gli avvocati dello scout, la torre avrebbe fatto perdere di valore la proprietà e danneggiato “lo stile di vita rurale di cui il proprietario voleva godere.”
Il signore in questione, curiosamente, era Rex Tillerson, amministratore delegato della ExxonMobil, un’azienda con un giro di affari annuo che supera il PIL della Tailandia.
E che ha appena ottenuto il posto di futuro Segretario di Stato – diciamo ministro degli esteri – della più grande potenza militare e imperiale della storia umana. Gratis, visto che tra i politici che Tillerson paga da anni, non risulta Trump.
Dietro storie come queste, riconosciamo sempre i Magnifici Sette – superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia, certo, come dice il Papa dei cattolici:
Qual è la legge
ultima
dell’essere?”
La lotta!”
(Risposta di Marx a John Swinton)
Un bel testo il libro di Marcello Musto L’ultimo Marx (Donzelli Editore, 2016), che intreccia un piano biografico con uno più strettamente politico di quelli che furono gli ultimi anni di vita del Moro di Treviri. In questi ultimi anni gli studi di Marx furono diretti principalmente all’antropologia e alla storia, ma anche al colonialismo inglese e alle questioni legate allo sviluppo capitalistico fuori dall’Europa occidentale. Un testo che fin da subito mette in evidenza la rottura marxiana con il determinismo storico, o meglio, con quelle teorie del Progresso” egemoni nell’Ottocento, che postulavano che il corso degli eventi segua un percorso già dato, cosa che contribuì non poco a produrre una passività fatalistica in alcuni pezzi del movimento operaio.
Ad esempio alla domanda di Vera Zasulič se la comune rurale russa (obščina) era destinata a seguire lo stesso esito di realtà simili esistite in Europa nei secoli precedenti, dove era avvenuta la transizione dalla società basata sulla proprietà comune alla società basata sulla proprietà privata, la risposta di Marx fu assolutamente no”.
L’ultimo lavoro di Carlo Formenti (La
variante populista, Derive e approdi, Roma, 2016) è
talmente denso di riferimenti e attraversato da così tante
tensioni concettuali
– effetto del passaggio dell’autore da un paradigma teorico ad
un altro – da costringere chi voglia abbozzarne una recensione
ad una
drastica semplificazione che punti direttamente all’essenza
del testo. E l’essenza si può riassumere in tre tesi.
1) La cultura egemone nella sinistra (e nella stessa sinistra radicale) è ormai parte organica dell’ ideologia delle classi dominanti ed ha la funzione di legittimare la globalizzazione, l’Unione europea ed il nuovo capitalismo esaltandone le presunte potenzialità democratiche e libertarie, e salutando l’indebolimento degli stati come un rafforzamento dell’autorganizzazione sociale. Punta di lancia di questa mutazione della sinistra è la cultura postoperaista che si presenta ormai come autoglorificazione di uno strato superiore del lavoro sociale (il lavoro ad alta qualificazione intellettuale) che ha rotto ormai ogni legame con gli strati inferiori.
2) Il soggetto della trasformazione sociale non deve essere cercato nei punti alti dell’organizzazione capitalistica del lavoro, come suggerisce di fare il postoperaismo, ma piuttosto nei punti più bassi o comunque nei luoghi tendenzialmente esterni alla logica della modernizzazione capitalistica: in ogni caso il soggetto non deve essere dedotto da categorie sociologiche, ma deve essere reperito nel corso di un’analisi concreta di ogni fase storicamente determinata della lotta di classe in una fase determinata;
Il testo qui pubblicato è quello
pronunciato da Toni
Negri al festival di DeriveApprodi, a Roma il 25 novembre
scorso. Questo testo riprende parzialmente un paio di
paragrafi di un nuovo libro,
Assembly, di Michael Hardt e Toni Negri, che sarà
presto pubblicato da Oxford University Press.
Dunque, se non fosse stato montato e detto da uno solo, dovrebbe esser firmato da tutti e due
Comincerò dalla critica
dell’autonomia del politico (nazionale) sotto la cui bandiera
si muovono varie posizioni, tutte nostalgiche della sovranità.
“L’autonomia del politico” è infatti oggi da molti concepita come una forza di redenzione per la sinistra – di fatto la ritengo una maledizione dalla quale rifuggire. Uso la frase “autonomia del politico” per designare argomenti che pretendono che il processo decisionale in politica possa e debba essere tenuto al riparo dalle pressioni della vita economica e sociale, dalla realtà dei bisogni sociali
Alcune delle figure contemporanee più intelligenti che propongono l’autonomia del politico lo concepiscono come un mezzo per restaurare il pensiero politico liberal (di sinistra) strappandolo al dominio ideologico del neoliberismo, come antidoto non solo e non tanto alle politiche economiche distruttive del neoliberalismo, ivi comprese privatizzazione e deregulation, ma piuttosto ai modi nei quali il neoliberalismo trasforma e domina il discorso pubblico e politico: il modo nel quale esso impone una razionalità economica sopra il discorso politico e mina ogni ragionamento politico che non obbedisca alla logica di mercato. Laddove la “democrazia liberal” – ci spiega Wendy Brown – mantiene “una modesta separazione etica fra economia e politica”, la razionalità politica neoliberale chiude questa separazione e “sottomette ogni aspetto della vita sociale e politica al calcolo economico”. Secondo questo punto di vista, il neoliberalismo è la faccia discorsiva ed ideologica della “sussunzione reale” della società sotto il capitale ovvero, come si esprime Wendy Brown, “la saturazione delle realtà politiche e sociali da parte del capitale”.
Ripubblichiamo alcune
riflessioni sul potere popolare dei compagni napoletani del
"Ex OPG Je so' Pazzo". Il NO al
referendum è stata una grande e fondamentale vittoria sia
per inceppare l'avanzata del
progetto autoritario dei padroni, sia per dimostrare a noi
stessi che quando ci mettiamo all'altezza della sfida,
quando siamo capaci di entrare nelle
corde dei nostri nessuna vittoria ci è preclusa.
Ma il difficile viene ora, perché i loro si riorganizzaranno, tenteranno di trovare un nuovo Renzi (o di rimettere in sella il vecchio Renzi), cercheranno altre vie per imporre il loro modello di governo che significa più sfruttamento per tutti noi. Per questo non possiamo perdere tempo, non possiamo disperdere l'accumulazione di forze che abbiamo raccolto in questa campagna referendaria: dobbiamo trovare metodi di lotta e di autogoverno che ci diano in reale efficacia di intervento. Qui i compagni, a seguito di una partecipata assemblea, ci danno alcuni spunti: mutualismo, controllo popolare e battaglie nazionali su temi centrali come lavoro, formazione, sanità [ccw].
* * * *
Sabato scorso a Napoli è successo qualcosa di davvero importante.
Di per sé il film non necessita di elaborate riflessioni. E’ semplice, ben fatto, forte, con una sceneggiatura che tiene fino alla fine. Costituisce un ritratto spietato, a tratti verista, del mostro burocratico che infuria nel welfare inglese, o almeno ciò che ne resta, dopo le scorrerie liberiste di Margaret Thatcher. E’ preciso, persino puntiglioso, nel suo impianto “avvocatesco” come l’ha definito Goffredo Fofi.
Daniel Blake è un falegname reduce da un brutto infarto, che l’ha privato anche del sostentamento. Il suo referto medico, infatti, gli impedisce di lavorare. Per cui non gli resta che richiedere l’assegno di invalidità. E qui inizia l’incubo, il viaggio allucinante nei meandri di una burocrazia dominata da moduli da compilare on-line, che per Daniel, un uomo vecchio stampo che non conosce i computer, sono un ulteriore motivo di sofferenza. Si scontra, spesso protestando e indignandosi, con normative che si contraddicono l’una con l’altra, imposte da gelidi funzionari che non hanno nulla di umano, sembrano macchine parlanti. La pensione gli viene negata, dopo una specie di odissea che strappa indignazione ma anche più di una risata allo spettatore, travolto da un mix di ironia e teatro dell’assurdo, che suscita domande tipo: “Ma come sono messi gli inglesi? Peggio di noi!”.
Osservare il governo Gentiloni sarà come guardare la televisione con Renzi che tiene il telecomando. Però – anche se può spegnersi da un momento all’altro – non sottovalutiamo lo spettacolo dell’unico governo nella Galassia in cui il ministro dello Sport nominerà i vertici di Eni, per dirne una. Bizantinismi del potere renziano. Ma quello che è giusto è giusto e bisogna ringraziare il governo Gentiloni di una cosa: nel giro di poche ore ha fatto piazza pulita di tutte le retoriche puttanate che sentiamo da anni a proposito di “premiare il merito”.
Questa annosa questione di “premiare il merito” ci viene recitata in accorate novene, allarmati appelli e invocazioni ad ogni discorso pubblico. Il pippone didattico-darwinista che chi è bravo deve andare avanti, che il talento va premiato, che bisogna battersi con la vita come leoni nella savana, è un classico imperituro di un paese che è molto nepotista e molto ereditario. E’ una specie di regola, per cui più si parla di una cosa e meno la si pratica, vale per lo sport, per il sesso, e pure per il merito. Ora il nuovo governo mette un punto decisivo sulla questione: tutte fregnacce, si può essere molto mediocri ed essere premiati lo stesso. Si può cannare completamente il compito assegnato ed essere promossi con lode. Immaginate lo sconcerto di uno che va a scuola e si ritrova in classe, al primo banco, cocca della prof, quella biondina bocciata l’anno scorso con tutti quattro in pagella.
Nel 1949, nell’ambito della prima edizione completa dei Quaderni del carcere, Einaudi pubblica uno dei testi più famosi e importanti di Antonio Gramsci: Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno. Come noto, i Quaderni determineranno il pensiero e la politica del Pci nel secondo dopoguerra. Molte delle riflessioni contenute sono preziose tutt’oggi: ad esempio, l’atteggiamento comunista nei confronti del populismo. Per tale ragione, riproponiamo qui un breve passo contenuto nel Machiavelli, che quasi novant’anni dopo (i Quaderni furono scritti tra il 1929 e il 1935) ancora chiarisce il rapporto dialettico tra movimento comunista e quei soggetti politici populisti che di volta in volta acquisiscono consensi popolari più delle loro reali capacità di rappresentarli:
“Si potrebbe fare una ricerca sui giudizi emessi a mano a mano che si sviluppavano certi movimenti politici, prendendo come tipo il movimento boulangista (dal 1886 al 1890 circa)[…] Di fronte a questi eventi, l’economismo si pone la domanda: a chi giova immediatamente l’iniziativa in quistione? E risponde con un ragionamento tanto semplicistico quanto paralogistico. Giova immediatamente a una certa frazione del gruppo dominante e per non sbagliare questa scelta cade su quella frazione che evidentemente ha una funzione progressiva e di controllo sull’insieme delle forze economiche. Si può essere sicuri di non sbagliare, perché necessariamente, se il movimento preso in esame andrà al potere, prima o poi la frazione progressiva del gruppo dominante finirà col controllare il nuovo governo e col farsene uno strumento per rivolgere a proprio benefizio l’apparato statale”.
Nel 1972, lo studio noto in Italia come "I Limiti dello Sviluppo" aveva generato lo scenario detto "di base", nel quale il collasso del sistema economico mondiale cominciava all'incirca dal 2020. Ci sono molti sintomi che indicano che questo scenario potrebbe corrispondere alla realtà, anche se non possiamo ancora esserne sicuri. Sembrerebbe, tuttavia, che l'Italia, paese economicamente più debole di altri, potrebbe aver anticipato il "picco" già alcuni anni fa. E non è colpa dell'Euro o della Merkel o dell'Euro; è colpa del graduale esaurimento delle risorse, in particolare quelle energetiche. L'unico politico che sembra aver capito qualcosa su questo argomento - sia pure entro certi limiti - è Beppe Grillo che ha parlato di energia come una priorità nel suo blog
Dopo la vittoria del "No" al referendum, sembrava fosse successo un cataclisma. Invece, non succede gran che, come ci si poteva aspettare. Siamo sempre ai soliti discorsi: grandi chiacchere sulle solite cose: come far ripartire la crescita, le grandi opere, le riforme, gli immigrati, la destra, la sinistra, eccetera.
Ma nessuno si occupa del problema centrale: le risorse. C'è una ragione per la quale questo blog si chiama "Effetto Risorse". La ragione è che un'economia non può esistere senza risorse, e in particolare senza energia. E sappiamo già da quasi 50 anni qualìè l'importanza delle risorse sull'economia.
Luigi Ferrajoli: Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
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Alla fine, le persone hanno iniziato
a dire basta. Lo hanno fatto prima gli inglesi con la
Brexit e poi gli statunitensi con l’elezione di Trump. Un
rifiuto che ha spaccato
come una me-la entrambi i Paesi: 51,9% Leave contro 48,1%
Remain in Gran Bretagna, con un’affluenza del 72,2%; 46,4%
Trump e 47,9% Clinton per
il voto popolare negli Usa, con il 53,9% dei votanti (il
meccanismo dei ‘grandi elettori’ ha poi portato la vittoria al
candidato
Repubblicano). Colpisce la forza del No: 17,4 milioni di
inglesi e 62,2 milioni di americani lo hanno espresso
resistendo alla battente campagna
mediatica degli organi di informazione mainstream, schierati
in blocco per il Sì.
In Gran Bretagna, un’analisi disaggregata del voto pubblicata dal Telegraph (1) mostra come abbiano votato in maggioranza per il Remain solo la Scozia, Londra e l’Irlanda del Nord; nel resto del Paese ha vinto il Leave, con le ex zone manifatturiere Midlands, Yorkshire e Nord-Est, oggi impoverite e disoccupate dopo deindustrializzazioni e delocalizzazioni, che hanno visto le percentuali più alte di rifiuto.
E’ un libro importante e
contraddittorio questo opus magnum uscito nel 2009
in Francia e nel 2013 in Italia, tanto da diventare – come si
legge nella quarta di
copertina – “opera di riferimento nel dibattito
internazionale” sul neoliberismo. E in effetti il corposo
libro (500 pagine) si
presenta come indagine sulla genealogia, le forme e i
contenuti del liberismo dal XVIII secolo ad oggi, attraverso
una vasta ricognizione delle
principali linee teoriche che hanno ispirato l’attuale
“ragione del mondo”, quella razionalità governamentale
liberista (per
usare il tipico lessico foucaultiano) che oggi dispone non
solo i rapporti di produzione, ma la politica e la stessa
antropologia dell’uomo
contemporaneo. Nonostante gli autori scelgano un’impostazione
rigidamente foucaultiana, l’opera riesce a far luce e a
smascherare una
serie di confusi cliché ideologici che ancora
trovano spazio nel dibattito politico sulla natura del
liberismo attuale. Primo e
più deviante dei quali, quello sul ruolo dello Stato. Vulgata
vuole che il liberismo, in una sorta di continuum storico-politico
che
va dall’800 ad oggi, miri costantemente al ridimensionamento
delle funzioni dello Stato, riducendone gli spazi di manovra,
puntando a quello
Stato minimo di smithiana memoria oggi apparentemente
imperante. Niente di più sbagliato, eppure in molti ancora
credono alla favoletta dello
Stato nazionale che scompare abbattuto dalla marea montante
liberista. In realtà, e forse questo è lo specifico più
rilevante
dell’intera opera di Dardot e Laval:
“Le verità vere sono quelle che si
possono inventare”, scriveva Karl Kraus circa un secolo fa. Lo
scrittore e
polemista austriaco, celebre anche per i suoi aforismi, amava
dire che chi esagera ha buone probabilità di venir sospettato
di dire la
verità, e chi inventa addirittura di passare per ben
informato. Più o meno nello stesso periodo, lo scrittore
anarchico statunitense
Ambrose Bierce definiva così il termine verità nel
suo splendido Dizionario del diavolo: “ingegnoso
miscuglio di
apparenze e utopia”. Veritiero nel libro di Bierce
equivale così a “ottuso, stolto, analfabeta”. Con
tutt’altro approccio, nel 1967 Guy Debord scriveva che “nel
mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”.
Il
filosofo Baudrillard, riprendendo il Qōhelet, ci ha informati
invece della scomparsa della realtà, sostituita dalla realtà
dei
simulacri.
Nel corso della nostra lunga storia europea siamo stati messi in guardia più volte sui pericoli della manipolazione del senso comune, delle verità e delle informazioni di qualsiasi tipo. La notizia più recente riguarda però l’elezione di “post-truth” a parola dell’anno per l’Oxford Dictionary: dopo un lungo dibattito la scelta è caduta su post-verità come termine che definisce le circostanze in cui, per la formazione dell’opinione pubblica, i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli all’emozione e alle convinzioni personali. Tra le motivazioni della scelta vi è l’elevata frequenza d’uso del termine nell’ultimo anno, con particolare riferimento al referendum britannico sulla Brexit e alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
L'attentatore di Andrej Gennadovich Karlov, uno degli uomini di punta della diplomazia russa, era un poliziotto in congedo. Non si sa se fosse un "lupo solitario" ma è certo il suo obiettivo
Andrej Gennadovich Karlov, 62 anni, non era un ambasciatore qualunque. Era una diplomatico della vecchia scuola, cresciuto ai tempi dell’Urss e temprato da incarichi “tosti” come i dieci anni trascorsi in Corea, prima quella del Sud e poi quella del Nord. Karlov rappresentava la Federazione russa in Turchia da tre anni e aveva gestito i momenti di crisi (l’abbattimento del caccia russo nel novembre 2015) come la clamorosa riappacificazione tra i due Paesi. Ma nemmeno Mert Altintas, 22 anni, l’uomo che l’ha ucciso sparandogli alla schiena a una mostra d’arte ad Amkara, era un assassino qualunque: diplomato nel 2014 all’accademia di polizia di Smirne, era membro delle squadre turche antisommossa.
I media turchi sostengono che Altintas fosse stato rimosso dall’incarico nella grande “purga” seguita al fallito colpo di Stato contro Erdogan del luglio di quest’anno. E quelli russi aggiungono che proprio per questo aveva presentato documenti falsi per entrare alla mostra. Il che contrasta con quanto invece sostengono altre fonti d’informazione, e cioè che proprio il tesserino della polizia abbia consentito al killer di avvicinare l’ambasciatore che avrebbe ucciso.
La ricetta per «Il contraccolpo assoluto» secondo Slavoj Žižek, nel suo ultimo libro edito da Ponte alle Grazie
In fondo, la ricetta si è rivelata geniale. Slavoj Žižek deve il proprio successo alla riproposizione di qualcosa che potrebbe apparire inesorabilmente datato e demodé, ossia il marxismo, nella sua declinazione leninista. Il pericolo poteva essere quello di essere scambiato per un adepto di Lotta comunista o di qualche gruppuscolo residuale. E allora perché non impacchettare il tutto in una cornice lacaniana, con tanto di reiterati riferimenti al Reale, all’Osceno, alla Forclusione o all’Altro (rigorosamente con la maiuscola) e spingere sull’acceleratore della contaminazione con la cultura pop?
L’impatto è stato notevole, e planetario, accreditando Žižek come il punto di riferimento per un pensiero critico controcorrente rispetto ai canoni ormai consolidati del minimalismo teorico, del narcisismo delle piccole differenze o del sincretismo radical. La produzione del filosofo e non psicoanalista (come spesso si ritiene) sloveno, nel corso del tempo, si è fatta quasi compulsiva.
A TESTI PIÙ DIRETTAMENTE teorici, spesso e volentieri assai massicci per numero di pagine, si alternano volumi più agili che, a cadenze quasi fisse, si interrogano sul senso filosofico e politico dell’attualità spesso assai lucidi nel sottolineare i limiti di un senso comune radical
Coordinamenta femminista e lesbica | A proposito di femminismo. Una risposta ad Antiper
Care compagne
abbiamo letto le vostre osservazioni sui nostri appunti (che ci sono state segnalate da una compagna) e ci tenevamo a precisare alcune cose. Intanto, e sopra ogni cosa, che nel nostro riferimento al vostro nome non era assolutamente implicita alcuna critica del vostro lavoro di militanti femministe e che non abbiamo inteso criticare le vostre idee e i progetti che portate avanti. La nostra era una semplice osservazione sulla scelta del termine "coordinamenta" che ci sembrava utile per porre il problema del linguaggio sessuato.
Ci dispiace se avervi chiamato "attiviste" in luogo di "militanti" vi è parsa una critica politica; onestamente abbiamo usato i due termini come se fossero sinonimi. Non avevamo capito l'importanza che attribuite alla differenza tra "militare" in un collettivo ed "essere attive" al suo interno; di certo, nell'uso della parola "attiviste" non c'era alcuna intenzione di demonizzare il vostro impegno e la vostra militanza politica.
Detto questo, visto che ci siamo, cogliamo l'occasione per "spiegare alcune cose" come avrebbe detto il buon Pablo Neruda.
Uno spettro si aggira per la politica italiana: è quello del Jobs Act.
È un bene, anzi è benissimo che - in questo momento di giochetti di potere, caccia alle poltrone, tattiche di corrente etc - irrompa una questione profondamente politica, nel senso più vero di questa parola.
Cioè una legge che ha impattato sulla vita di milioni di persone, non solo per gli effetti diretti (licenziabilità, demansionamento, telecontrollo, voucher etc) ma anche per quelli indiretti, cioè per il mutamento di rapporti di forza e di clima ovunque, dal manifatturiero al terziario, dalla logistica al digitale.
E quando parlo di mutamento di clima penso - ad esempio - al mio conoscente a cui hanno proposto un contratto di collaborazione capestro e che, al primo tentativo di negoziazione, si è sentito rispondere: "Senti caro, o così o niente, se non ti va ne prendo tre a voucher, al posto tuo, e risparmio pure".
Per capirci.
1) La
lezione non è stata capita
A distanza di una settimana dal voto referendario, credo sia il caso di distogliere l’attenzione dalle cronache della crisi, per fare una valutazione più ampia e di lungo periodo.
Partecipando a diversi dibattiti televisivi, mi sono spesso trovato di fronte a interlocutori che ipotizzavano, chi augurandoselo chi per scongiurarlo, un governo Pd-Forza Italia come esito fatale della vittoria del No, unito alla conformazione tripolare del sistema ed all’indisponibilità del M5s ad alleanze.
Ho risposto che questo presupponeva il mantenimento dell’attuale quadro politico con questi partiti con il peso elettorale attuale (Pd e M5s intorno al 30% e Lega e Fi al 10-15% ciascuno) ma che questo non mi sembra affatto scontato. Infatti, sono convinto che la situazione attuale può riassumersi in una frase: “è un 1993 al quadrato”.
Vorrei motivare questa mia affermazione ed approfondirla meglio di quanto non possa fare nei tempi ristretti del salotto televisivo.
2) Il crollo del sistema del 1992-93
Nel 1992-93, sia per l’emergere della Lega che per l’ondata di scandali tangentizi e per il profilarsi di una notevole perturbazione monetaria, iniziò il crollo della prima repubblica, poi conclamato con il referendum sulla legge proporzionale, che spalancava la porta all’epoca del maggioritario.
L’autore del saggio
che segue adotta un
approccio rigorosamente diacronico. Partendo dalle analisi
di Marx sulla Rivoluzione francese, egli dimostra come gli
scritti di quest’ultimo,
spesso associato a Engels riguardo a tale soggetto, siano
sempre precisamente contestualizzati e legati al tentativo
di comprendere il presente.
È Jean Jaures, con la sua Storia socialista della
Rivoluzione francese, a fornire per primo una lettura
globale degli eventi
rivoluzionari basata sulla griglia interpretativa proposta
da Marx. Una forma di banalizzazione di questa lettura si
produce in seguito, attraverso lo
sviluppo della storia economica e sociale, ad opera di
storici che, senza aver letto troppo Marx, conservano del
suo pensiero l’idea
dell’importanza determinante della realtà economica. Nel
contesto della Guerra fredda, tale interpretazione «sociale»
della
Rivoluzione è oggetto di vigorosi attacchi e condanne, in
quanto espressione di un marxismo riduttivistico. Una
rimessa in causa che prende le
mosse da letture privilegianti il fattore politico, le
quali, tuttavia, si aprono nuovamente, dopo alcuni anni, a
ricerche che ripropongono la
questione delle appartenenze sociali.
* * * *
Pensare il rapporto tra il marxismo e la storiografia della Rivoluzione francese comporta l’affermazione di un’ovvietà e di un paradosso. Lo storico della rivoluzione francese, che sia marxista o meno, non può fare a meno di Marx. Per descrivere le lotte sociali caratteristiche della società di Ancien Régime, comparare l’economia francese della fine del XVIII secolo con quella di altre potenze europee, formulare delle ipotesi circa le origini della Rivoluzione, appare difficile sottrarsi al lessico e alle analisi sviluppati dal filosofo di Treviri in tutta la sua opera.
Con questa pedanteria mi piace
sviluppare una riflessione già avviata ne Lo schiavismo dei
buoni, sui modi in cui concetti verbalmente consegnati a
un passato da deplorare - lo schiavismo e il colonialismo
nell'articolo citato, il
totalitarismo e l'eugenetica nel caso qui rappresentato -
ritornano a sedurre la coscienza delle masse e, in
particolare, di coloro che se ne reputano
i nemici culturalmente ed eticamente più attrezzati.
L'occasione è offerta dalle note reazioni al voto del 23 giugno sull'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea. Una valutazione degli effetti geopolitici dell'evento eccede le competenze di chi scrive, né in fondo è rilevante. La narrazione politico-mediatica che ne è scaturita indica infatti una ben più urgente, tangibile e immediata intolleranza alla democrazia come norma costituente del pensiero e dell'azione in politica che, come si è già scritto su questo blog, si manifesta nella normalizzazione culturale della critica non già alle decisioni (ad rem), ma al metodo democratico (ad medium) e a chi vi partecipa (ad personas).
Complice anche la mancanza pressoché totale di argomenti razionali, all'indomani del voto coloro che speravano nella permanenza degli inglesi nell'Unione si sono esibiti, con la certezza dell'impunità e dell'autogiustificazione che solo il branco sa dare, in un'esercizio di delegittimazione non solo della volontà popolare ma anche del popolo stesso, disprezzato nella sua maggioranza democratica in quanto vecchio, pavido, ignorante e protervo.
La filosofia del linguaggio usata per leggere la crisi. Un sentiero di lettura a partire dal rapporto tra la teoria degli atti enunciativi e i prodotti derivati messo a fuoco ne «Scommettere sulle parole» di Arjun Appadurai (Raffaello Cortina). Mentre la natura linguistica del denaro analizzata da Ferruccio Rossi-Landi è vista come una bussola per orientarsi nel capitalismo postfordista
Ancora non si è insediato alla Casa Bianca e già le parole di Donald Trump su come intende make America great again stanno modificando radicalmente gli equilibri monetari e finanziari globali che in qualche modo si erano venuti normalizzando nel corso degli ultimi anni. Parole enunciate in forma di promessa, come in qualsiasi campagna elettorale, ma parole basate sul nulla che, nel momento stesso in cui Trump ha vinto le elezioni, hanno assunto legittimità e potere, a tal punto da invertire le scelte degli investitori, modificando la grammatica finanziaria che d’ora in poi plasmerà il mondo.
Per rilanciare la crescita economica americana,Trump ha promesso un forte stimolo fiscale con la riduzione delle imposte sugli alti redditi e sul capitale e con l’aumento della spesa pubblica per investimenti infrastrutturali. Queste due misure portano diritti all’aumento dei deficit pubblici e di conseguenza all’aumento dei tassi di interesse.
L’arresto di Raffaele Marra e prima ancora le indagini aperte sull’ex assessore Muraro, sono la conferma delle ombre sulle scelte imposte dalla e alla sindaca Raggi nella formazione dello staff che deve guidare l’amministrazione comunale di Roma. Non sono state un fulmine al ciel sereno.
Nei mesi scorsi erano state numerose, nella città e dentro lo stesso M5S, le opposizioni a nomine o conferme di dirigenti che andavano in tutt’altra direzione rispetto a quella richiesta di discontinuità e cambiamento che ha portato la Raggi e il M5S al governo di Roma.
E’ evidente come dentro gli apparati amministrativi comunali e nelle aziende municipalizzate cerchino di sopravvivere con ogni mezzo cricche di potere interessate solo agli affari. Questi gruppi d’affari hanno trovato nello staff della sindaca Raggi ascolto e protezione, fino all’ultimo.
Ancora prima delle elezioni di giugno, le reti sociali che operano nelle periferie, tra i lavoratori e le lavoratrici, tra gli operatori sociali dei servizi, avevano manifestato con forza, anche in Campidoglio, la volontà di spazzare via gruppi di interesse che hanno portato al degrado la città, agevolato gli interessi privati nella gestione dei servizi pubblici, spolpato le risorse comunali che dovevano essere destinate alle esigenze popolari.
Molto ci si è accalorati in questi giorni, nel dibattito politico e mediatico, in relazione alla nomina del governo Gentiloni (o Renzi bis, o Monti quater), stigmatizzando principalmente i comportamenti di chi, dopo aver bocciato la precedente legge elettorale di Camera e Senato da Giudice costituzionale, da Presidente della Repubblica ne ha prima controfirmata un'altra - con problematiche piuttosto simili - riferita alla sola Camera ed ora ritiene che la stessa, in quanto disomogenea rispetto alla disciplina riferibile al Senato, sia sostanzialmente inapplicabile.
Molto ci si è accalorati, e a ragione. Quello che però è
ancora più interessante, a mio avviso, è che questo
della legge elettorale è soltanto uno dei sintomi di una
malattia che ha affetto gran parte degli atti del non
rimpianto governo Renzi.
L'idea, malata, di poter normare interi settori presupponendo
una riforma costituzionale non ancora
definitivamente approvata.
Si è trattato di ingenuità? Oppure di un velato ricatto, come a voler mettere l'elettorato di fronte al "fatto compiuto"? O, ancora, di scarsa capacità legislativa?
Non lo so e sinceramente mi interessa poco. Mi interessano molto di più i risultati, sconcertanti, di questa idea balzana della gerarchia delle fonti del diritto, ma soprattutto i danni che il Paese ha subito e subirà di conseguenza.
William Davies, The Happiness Industry. How the Government and Big Businnes Sold Us Well-Being, Verso Books, 2016
Non c'è dubbio che ciò che tutti vogliono sia la felicità. L'unico problema è in cosa consista essere felice. un problema su cui i pensatori morali non sono mai stati in grado di mettersi d'accordo, e su cui non lo saranno mai. La felicità è un sentimento puramente soggettivo, oppure può essere in qualche modo misurata? Si può essere felici senza saperlo? Si può essere felici soltanto senza saperlo? Qualcuno potrebbe essere completamente infelice, eppure essere ancora convinto di trovarsi in estasi?
Ai giorni nostri, il concetto di felicità si è spostato dalla sfera privata a quella pubblica. Come riferisce William Davies in questa affascinante ricerca, un numero sempre più crescente di aziende impiega funzionari della felicità, come Google che ha creato la figura del "jolly good fellow". Allo stesso modo, potrebbe accadere che la Bank of England prenda in considerazione la possibilità di assumere un giullare. Consulenti specialisti in felicità danno consigli a chi è stato sfrattato a forza dalla propria abitazione su come deve fare ad andare avanti emotivamente. Due anni fa, la British Airways ha sperimentato un "plaid della felicità", il cui colore passava dal rosso al blu non appena il passeggero si rilassava, in modo che il suo livello di soddisfazione potesse diventare visibile agli assistenti di volo.
I container
Quando il 31 agosto scorso la Hanjin Shipping, gigante sud coreano al settimo posto nella classifica degli operatori della logistica, presentò la sua istanza di fallimento risultò chiaro che il prezzo della deglobalizzazione iniziava ad essere esatto dagli arcigni dei dell’economia internazionale. Improvvisamente si scopriva il senso dei ripetuti allarmi delle organizzazioni internazionali circa l’andamento pigro del commercio internazionale, anche di recente reiterati dall’Ocse nel suo ultimo Global Outlook, dove fra i tanti grafici se ne esibivano un paio molto interessanti.
Il primo mostra l’aumento delle restrizioni commerciali intervenute fra gli stati dal 2008 in poi che risultano notevolmente aumentate. Il secondo misura il peso specifico dell’occupazione nei settori orientati all’export di alcune economie, ossia la quota di lavoratori che in qualche modo sono “incorporati” nella domanda estera, e quindi esposti ai suoi capricci. E non è tanto la circostanza – prevedibile – che sia la Germania quella più esposta alle bizze della domanda internazionale, quanto il fatto che gli Usa sia quelli meno esposti in assoluto. Quindi un calo del commercio internazionale colpisce i lavoratori tedeschi assai più di quelli americani.
E’ utile tenerlo a mente mentre scorriamo un recente studio prodotto dalla DB dedicato proprio alle debolezza della logistica a livello internazionale che ormai si trascina dal 2009 e del quale il crollo della Hanjin è stata solo la punta dell’iceberg.
Luigi Ferrajoli: Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
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1) Tutto peggiora: a) PIL inadeguato; b) disoccupazione incurabile; c) banche sull’orlo del baratro; d) diseguaglianze ingovernabili; e) mercato e commercio mondiale in crisi; 2) Segue: f) gli scandali fiscali; g) la guerra dei tassi bancari; h) l’emigrazione; i) il fallimento del G20 cinese e la debolezza dei poteri forti (e occulti); 3) Gli USA verso la stagnazione; 4) Cina e Giappone: declino senza ritorno; 5) L’Europa e la Brexit. L’inizio della fine; 6) Italia: finisce la farsa del governo Renzi; 7) Crisi economica e crisi politica. Impotenza e dissoluzione delle democrazie occidentali. USA verso un’esplosione socio-politica?
1) Tutto
peggiora: a) PIL inadeguato; b) disoccupazione incurabile;
c) banche sull’orlo del baratro; d) diseguaglianze
ingovernabili; e) mercato e
commercio mondiale in crisi.
A) PIL inadeguato. L’anno scorso la signora Lagarde in un’intervista affermò che la crescita del PIL mondiale era mediocre e tale sarebbe rimasta fino al 2020, dopo non era dato sapere cosa sarebbe accaduto2. Quest’anno l’elegantissima signora ha espresso posizioni analoghe3, di rincalzo la capo economista dell’OCSE, signora Mann, ha detto che siamo prigionieri di una crescita bassa e per il 2016 la previsione è ridotta al 2,9% (precedente 3,1%)4. Non ci si azzarda a parlare di stagnazione secolare come fa Larry Summers (e non solo lui), ma il concetto è sostanzialmente simile, si cresce poco e male: la tabella che segue basata sui dati del FMI, evidenzia come i sette grandi (G7), che hanno nelle loro mani il grosso della produzione mondiale con una frazione modesta della popolazione, siano sostanzialmente al ristagno.
Studi pubblicati dalle principali istituzioni internazionali smentiscono l’idea che le deregolamentazioni del lavoro aiutino a creare occupazione e a ridurre la disoccupazione. La letteratura empirica in materia rivela che la riduzione delle tutele dei lavoratori risulta statisticamente associata non alla crescita degli occupati ma all’aumento delle disuguaglianze
La libertà di licenziamento e le
altre
forme di deregolamentazione del lavoro favoriscono le
assunzioni? Svariati esponenti di governo e del mondo dei
media hanno sostenuto che
l’aumento dell’occupazione che si è registrato negli ultimi
mesi in Italia sarebbe frutto della ulteriore flessibilità dei
contratti sancita dal Jobs Act. Questa tesi, come vedremo, non
trova riscontri nella ricerca prevalente in materia. Un primo
dubbio sulla supposta
relazione tra riforma del lavoro e occupazione sorge mettendo
semplicemente a confronto i dati ufficiali sull’Italia con
quelli relativi agli
altri paesi europei. Dall’entrata in vigore del Jobs Act, la
crescita dell’occupazione dipendente nel nostro paese è stata
molto
più modesta rispetto all’aumento medio degli occupati che si è
registrato nell’eurozona; nello stesso arco di tempo,
inoltre, non si rilevano significativi avvicinamenti
dell’Italia alla media europea (dati Ameco Eurostat). In altre
parole, paesi in cui negli
ultimi due anni non si sono registrati cambiamenti nella
legislazione del lavoro, hanno visto crescere l’occupazione
decisamente più che
in Italia.
L’esito di questa banale comparazione non è casuale. Dopo un ventennio di ricerche dedicate all’argomento, la più influente analisi economica ha escluso l’esistenza di relazioni statistiche significative tra precarizzazione del lavoro e occupazione.
Non si deve a un costituzionalista,
ma a don
Luigi Ciotti, la migliore tra le analisi della riforma
costituzionale su cui gli italiani voteranno il 4 dicembre
2016:
La democrazia, con il suo sistema di pesi e contrappesi, di divisione e di controllo dei poteri, rappresenta un ostacolo per il pragmatismo esibito da certa politica come segno di forza. Le richieste di delega, la sollecitazione a fidarsi delle promesse e degli annunci, l’ottimismo programmatico, così come l’accusa di disfattismo o di malaugurio (il “partito dei gufi”) verso chi critica o solo esprime perplessità, rivelano una concezione paternalistica e decisionista del potere, dove lo Stato rischia di ridursi a una multinazionale gestita da super manager e il bene comune a una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi. Tentazione anche questa non nuova ma a cui la globalizzazione ha offerto inedite opportunità, visto l’asservimento, salvo eccezioni, delle istituzioni politiche alla logica esclusiva del “mercato”, cioè di quel sistema che proprio la politica dovrebbe regolamentare. (L. Ciotti, Dal “no” a un impegno collettivo, in Io dico no, Gruppo Abele, pp. 75-76)
La democrazia come ostacolo. È in fondo questo ciò che dovrebbe essere scritto sulle schede del 4 dicembre: “Siete voi convinti che la democrazia sia un ostacolo al governo?”
Perché la diagnosi cui fa seguito la terapia della riforma è proprio questa: l’Italia sarebbe malata di troppa democrazia. Votiamo troppo, protestiamo troppo, siamo troppo rappresentati e troppo garantiti: i cittadini hanno troppa voce in capitolo, e se vogliamo che il governo decida, è necessario ridurre gli spazi di democrazia.
Tuttavia, un certo numero di intellettuali di sinistra si è schierato per il Sì, pur dichiarando di ritenere la riforma, nel merito, “una schifezza” (così, letteralmente, Massimo Cacciari). Perché lo ha fatto?
Lunedì 12 dicembre, a distanza di pochi giorni dalle dimissioni di Matteo Renzi, si è insediato il nuovo governo presieduto da Gentiloni. Si dice che sia una “fotocopia” di quello precedente e che il premier dimissionario ne tiri i fili: scritta la nuova legge elettorale, Renzi staccherà la spina, portando il Paese verso le elezioni anticipate. È invece sicuro che Paolo Gentiloni punti al 2018, perché “durare” il più a lungo possibile è la missione che gli è stata affidata. L’esecutivo Gentiloni sta alla Seconda Repubblica come la Repubblica di Salò sta al fascismo: è il disperato tentativo di scongiurare la fine, l’ultimo crepuscolare capitolo prima del tragico epilogo. Una serie di fattori, economici e politici, ne rendono l’esistenza drammaticamente incerta e le faide giudiziarie in corso indicano che l’establishment si sta sfaldando.
* * * *
È durato pochi giorni il “vuoto di potere” a Palazzo Chigi: mercoledì 7 dicembre il premier Matteo Renzi ha formalizzato le dimissioni e lunedì 12 il nuovo governo, presieduto dall’ex-ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ha prestato giuramento. Sono tempi inquieti e si vuole evitare che la poltrona di presidente del Consiglio resti vacante: c’è da gestire il dopo-terremoto nel Centro Italia, l’emergenza immigrazione e (meglio non sbandierarlo ai quattro venti, per non spaventare i correntisti) una strisciante crisi bancaria.
Ci sono piccole parole che assumono grandi significati nel contesto in cui sono collocate. Negli accordi sindacali le parole hanno una loro storia, spesso alcune sono il lascito di duri conflitti.
Nel contratto dei metalmeccanici, nell'articolo sul premio di risultato aziendale, era scritto che che quel premio sarebbe stato ANCHE totalmente variabile. Quell'avverbio, anche, era il frutto di una notte di aspre discussioni nella delegazione trattante il rinnovo del contratto nel luglio del 1994. Ricordo che Claudio Sabattini, allora segretario della Fiom, venne in riunione portando un testo nel quale si diceva solamente che il premio aziendale sarebbe stato totalmente variabile. Voleva dire che il salario contrattato nell'impresa sarebbe stato completamente volatile, aleatorio si diceva allora, un giorno c'era, l'altro poteva sparire. Contestai duramente quel testo e inizialmente con Sabattini la discussione tracimò in un pesante litigio. Ma Claudio Sabattini era un grande sindacalista, che usava tutto per alzare il prezzo con la controparte, compresi i dissensi in delegazione. Quindi egli tornò in trattativa e usando spregiudicatamente con la controparte la "rivolta" dei suoi, riuscì a strappare quell'anche. Grazie a quella piccola parola per 22 anni, ovunque fosse possibile, i metalmeccanici hanno strappato alle aziende una quota di aumenti fissi, cioè salario vero che non spariva col cambio di stagione.
L’importanza strategica di Aleppo non la si scopre certo in queste ore: è la capitale economica della Siria, è la seconda città più popolosa del paese, per le forze fedeli al presidente siriano Assad la sua totale riconquista vuol dire poter liberare centinaia di uomini e mezzi da destinare su altri fronti, mentre da un punto di vista prettamente politico prendere Aleppo vuol dire rinforzare sempre di più la permanenza dell’attuale governo a Damasco. Ben quindi si comprende il motivo per cui, nelle ore finali di una battaglia durata quattro anni, l’interesse mediatico è molto forte e si cerca di trascinare l’opinione pubblica europea idealmente nella seconda città siriana. Addirittura a Parigi è stata spenta la Tour Eiffel in segno di ‘solidarietà’ verso Aleppo, sui media circolano diversi video rivelatisi poi degli autentici ‘fake’; l’obiettivo appare essere uno soltanto: continuare a presentare Assad come un efferato dittatore.
E’ bene ripartire proprio dai video apparsi in rete nella serata di lunedì, quando cioè si è appreso che Aleppo era totalmente o quasi sotto il controllo governativo, e dalle dichiarazioni più o meno importanti rilasciate in merito a queste immagini. La prima, su di tutte, è quella di Ban Ki – Moon:
Luigi Ferrajoli: Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
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Il fine settimana scorso si è svolto a Roma un seminario promosso dalla Rete dei Comunisti. Pubblichiamo quello che ci pare il contributo più importante, pienamente condivisibile, quello inviato da Carlo Formenti
Il documento
preparatorio per il forum nazionale del 17/18 dicembre pone
giustamente l’accento sulla necessità di un’approfondita
riflessione
sullo scenario geopolitico.
Si tratta di un tema che ha tradizionalmente ricevuto grande attenzione dai “classici” —Marx e Lenin su tutti—, mentre sembrava quasi sparito negli ultimi decenni, forse perché anche gli intellettuali marxisti, o supposti tali, dopo il crollo dei Paesi socialisti, hanno finito per accreditare la tesi di un mondo unificato dall’egemonia liberal liberista e sostanzialmente “pacificato” e integrato sotto il domino imperiale statunitense. A qualche anno dall’esplosione (non dall’inizio, perché quello risale agli anni 70 del 900) della più grave crisi capitalistica dopo la grande crisi del 29, e mentre la perdita di capacità egemonica degli Stati Uniti si fa sempre più evidente, di quella illusione non resta nulla.
I primi a riconoscerlo sono proprio gli intellettuali liberisti: vedi l’intervista al “Corriere della Sera” rilasciata in data 1 dicembre da Francis Fukuyama, il quale associa il declino dell’egemonia americana a una vera e propria disintegrazione dell’ordine postbellico che minaccia la stessa sopravvivenza della democrazia liberale; vedi anche un recente articolo dell’Economist intitolato “Economists cannot stop Trump, but perhaps they can understand it”, nel quale, da un lato, si ammette che il processo di globalizzazione è la causa fondamentale degli intollerabili livelli di disuguaglianza che hanno favorito la Brexit, il trionfo di Trump e quello del No in Italia, dall’altro si afferma che la risposta al “trumpismo” dev’essere cercata sul piano politico e non su quello economico.
Di “illuminismo” si parla molto, ed è bene che sia così. Ma intorno al suo significato non vi è molta chiarezza. In questo articolo, Paolo Quintili spiega in che direzione bisogna andare se si vuole avere una cognizione più precisa dello stesso. Il testo è stato pubblicato in contemporanea qui
Il dibattito sollevato sulle pagine
del
quotidiano italiano «La Repubblica», nell’ormai lontano 2000 –
dunque prima del 11/09/01 – sull’Illuminismo e la
necessità di «nuovi Lumi» per il nostro tempo ha avuto una
discreta risonanza non sui soli media, portando infine
all’edizione del libretto a cura di E. Scalfari, Attualità
dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza, 2001. Dalla
distanza di
ciò che nel frattempo è storicamente accaduto – Le rivoluzioni
arabe, le nuove guerre in medio oriente, Daech ecc. – il tono
del dibattito, tuttavia, non sembra uscire dal terreno di
vecchi luoghi comuni su un’Età dei Lumi come «Età della
Ragione» a tutto tondo, la cui immagine non tiene presente,
anzitutto, il retaggio del processo storico di formazione
della ratio
illuministica e del suo rapporto al concetto di diritto.
E del diritto dei popoli, in particolare.
Avere comunque iniziato a discutere di questi temi è stato un bene e il sintomo di un bisogno, nella sinistra italiana (e oltre), di fare chiarezza sulla propria provenienza, non solo ideale. Si è parlato di Lumi che «non sono più di moda nel nostro secolo» (E. Scalfari, 8/12/2000) ma da riattivare, magari, chissà? con un’opera di marketing contro-contro-illuministica (eco della «critica della critica critica» di marxiana memoria?). Funzionerà? Ci manca, la bella «Ragione» del secolo decimottavo! da erigere contro integralismi, risorgenze superstiziose, nuovi assoggettamenti, particolarismi.
In der
wirklichen Geschichte
spielen bekanntlich
Eroberung, Unterjochung, Raubmord,
kurz
Gewalt die große Rolle. In der sanften
politischen Ökonomie herrschte von jeder
die Idylle.
K. Marx,
Das Kapital
Das Recht auf Arbeit ist
im bürgerlichen Sinn
ein
Widersinn, ein elender, frommer Wunsch,
aber hinter dem Rechte auf Arbeit steht die Gewalt
über das Kapital […], also die Aufhebung der
Lohnarbeit, des Kapitals und ihres
Wechselverhältnisses.
K. Marx,
Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848 bis
1850
La riflessione intorno alla struttura e alla valutazione della Gewalt ha sempre costituito una questione controversa all’interno del marxismo, a causa delle (apparenti o reali) ambiguità esistenti all’interno del percorso teorico di Marx ed Engels, e a causa della rilevanza delle conseguenze politiche insite in una determinata scelta di campo al riguardo. La trattazione del concetto indicato, da parte di Marx e Engels, si contraddistingue per una sostanziale ambivalenza, presentando quindi una caratterizzazione complessa e articolata, che sembra irriducibile sia alla sua esaltazione in quanto “levatrice della storia”, sia, di converso, alla sua eliminazione sulla base di una conciliazione “irenica” fra marxismo e pacifismo.
Ed è subito terrore. Ancora una volta. Secondo modalità che ritornano sempre invariate, sempre le stesse. Quasi come se si trattasse di un copione già scritto, un orrendo copione da mettere in scena a cadenza regolare. Questa volta è stato il turno di Berlino. Permettetemi, allora, di svolgere alcune considerazioni generalissime sul terrorismo e sulla sua funzione nel quadro storico post 1989.
1) Gli attentati si abbattono sempre e solo sulle masse subalterne, precarizzate, sottopagate e supersfruttate. L’ira delirante dei terroristi non si abbatte mai, curiosamente, sui luoghi reali del potere occidentale: banche, centri della finanza, ecc. I signori mondialisti non vengono mai nemmeno sfiorati. I terroristi avrebbero dichiarato guerra e poi attaccherebbero solo le masse schiavizzate, rendendo – guarda caso – un buon servizio ai signori mondialisti della finanza sradicata: i quali vedono il loro nemico di classe (le masse sottoproletarie, precarizzate e pauperizzate) letteralmente bombardato e fatto esplodere da agenzie terze;
2) Il terrorismo produce un grandioso spostamento dello sguardo dalla contraddizione principale, il nesso di forza classista finanziarizzato. A reti unificate ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano del capitalismo finanziario (guerre imperialistiche, ecatombi di lavoratori, suicidi di piccoli imprenditori, popoli mandati in rovina);
Paolo Paesani dà conto della XVI Lezione “Angelo Costa” tenuta di recente da Dani Rodrik sul rapporto tra disuguaglianza all’interno dei singoli paesi, tra paesi e a livello globale. Paesani ripropone i dati presentati da Rodrik e si sofferma sulle sue considerazioni circa il ruolo della mobilità internazionale del lavoro nell'attenuare la disuguaglianza dei redditi a livello globale e sul rischio che flussi migratori crescenti spingano i paesi sviluppati a ridurre l'offerta di beni pubblici con una ricaduta negativa sull’equità al loro interno
“L’uguaglianza all’interno dei paesi è nemica dell’uguaglianza a livello globale?”. E’ questo il titolo della XVI Lezione “Angelo Costa”, che si è tenuta il 2 Dicembre di quest’ anno presso la sede centrale della Confidustria, con il patrocinio della Rivista di Politica Economica.
Ad affrontare questo argomento di grande attualità, e tema-chiave della sua riflessione e della sua produzione scientifica, è stato Dani Rodrik, professore di Politica Economica Internazionale presso la John F. Kennedy School of Government dell’Università di Harvard e autore di ricerche importanti sugli effetti della globalizzazione sul sistema economico-sociale e sulla politica economica.
All’ inizio della sua lezione, confrontando la fase attuale di globalizzazione dell’attività economica (1950-2008) con la precedente (1820-1910), Rodrik ha messo in evidenza due temi in particolare:
Nonostante la batosta, Renzi ripropone il Mattarellum. In 10 punti perché evitarlo
L'oggetto principale del referendum del 4 dicembre è stato la Costituzione nei suoi contenuti democratici e sociali. Accanto a questo oggetto, per via del cosiddetto “combinato disposto”, c'era il sistema elettorale, questione sempre strettamente attinente alle regole e alle garanzie del sistema istituzionale. Infine, visto il pesante intervento nella campagna referendaria di forti potentati economici e finanziari e visto il taglio che lo stesso Renzi aveva dato alla sua volgare propaganda, c'era un giudizio su di lui, sul suo governo e sulle sue riforme (Jobs Act, Buona Scuola ecc.).
La valanga di No e la sua prevalente dislocazione fra gli strati sociali in maggiore sofferenza, ha quindi respinto l'ipotesi di una democrazia plebiscitaria orientata a portare a compimento la compressione in atto dei diritti e delle tutele sociali, come richiesto da autorevoli agenti internazionali del capitale [1], e con essi della stessa rappresentanza delle classi svantaggiate.
Il sistema elettorale è naturalmente componente essenziale dell'agibilità politica delle masse popolari.
Il sistema proporzionale è quello preferibile perché impedisce che i voti dei cittadini contino in maniera diversa in virtù di meccanismi artificiosi.
La saga della Giunta Raggi non è ancora arrivata alla fine. E' un'impressione, non un'indiscrezione. L'arresto di Raffaele Marra e del palazzinaro del potere – Sergio Scarpellini, detto “er cavallaro” – ha messo in crisi la giunta, l'immagine del movimento e la credibilità della sindaca. Di sicuro, ha ridotto ai minimi termini il “raggio magico”, il gruppo di consigliori più stretti che fin dal primo momento hanno circondato la giovane avvocatessa dalla brevissima esperienza politica (stare all'opposizione della giunta Marino, per due anni, non richiedeva uno sforzo intellettuale particolare, visto che persino il Pd lo voleva morto…). Sopravvive, parzialmente azzoppato, solo Daniele Frongia, che molla la carica di Vice Sindaco e mantiene solo quella di assessore allo sport (curiosamente, come Luca Lotti nel governo Gentiloni, dopo aver accarezzato il sogno della delega per i servizi segreti). Siederà dunque ancora nelle riunioni di giunta, “dando il suo contributo”, seppure da una posizione meno decisiva di quella da vicesindaco. E anche questa tenacia nel difendere gli “scaricandi” la dice lunga sulle capacità di Virginia Raggi nel capire l'aria che tira.
Scartiamo però l'idea che “non capisca”.
Una tesi
fondamentale
per la teoria della storia e della rivoluzione di Marx è che
“Una formazione sociale non perisce finché non si siano
sviluppate
tutte le forze produttive a cui può dare corso” (Per la
Critica dell’economia politica, prefazione). Ora, se il
marxismo
è una scienza, ciò deve essere verificato empiricamente. Ma
questa verifica è importante anche per un altro motivo. Come
dice
Gramsci, “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio
muore e il nuovo non può nascere”. (Quaderni del carcere
,
«Ondata di materialismo» e «crisi di autorità», volume I,
quaderno 3, p. 311, scritto intorno al 1930). La
verifica empirica ci permette anche di capire perché e
soprattutto come il vecchio
muore.
Nella fase storica attuale – e cioè dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi – il capitalismo incontra un limite sempre più insormontabile a causa della contraddizione tra la crescita della forza produttiva del lavoro da una parte e il rapporto di produzione, quello tra lavoro e capitale, dall’altra. Questa contraddizione si sta facendo sempre più dirompete e il capitalismo sta esaurendo le sue capacità di svilupparsi nel contesto di questa fase storica. La forma concreta presa da questa contraddizione, da questa sua crescente incapacità di svilupparsi, sono le crisi sempre più violente.
Relazione introduttiva al Forum "Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere" organizzato dalla Rete dei Comunisti a Roma il 17 e 18 dicembre
Nell’introduzione al forum
di oggi invece di partire dall’alto dell’analisi teorica
scegliamo, diversamente che in altre occasioni, di partire dal
“basso” dei fenomeni politici. La crisi sistemica, che da
tempo come Rete dei Comunisti stiamo cercando di analizzare,
si manifesta come
competizione tra paesi imperialisti e con le altre potenze
economiche, tramite conflitti militari ed enormi
trasformazioni sociali ed oggi sta
sfociando nella dimensione politico istituzionale nelle
“cittadelle” imperialiste”.
I sintomi ormai sono conclamati; sia nei paesi dell’Unione Europea che negli USA è in atto uno inaspettato e sincronizzato scombussolamento politico che porta inevitabilmente a ragionare sui motivi strutturali che hanno portato a questo punto. Certamente l’esempio più eclatante è quello Statunitense dove un outsider come Trump sembra aver trionfato sulla stantia e familista classe dirigente democratica ma anche repubblicana, in quanto parte di questa a cominciare dai Bush si è subito schierata contro la candidatura di Trump.
Associata a questi eventi dai commentatori politici è la Brexit dove l’insubordinazione della vecchia e “diligente” classe operaia laburista al proprio storico partito ha avviato un incerto percorso esterno all’Unione Europea sovraesponendo, nel contempo, le acrobazie tattiche fatte dal partito conservatore e da Camerun. Certamente quello che sta emergendo è l’emergere della “faglia atlantica” tra il mondo anglosassone e l’Europa che manifesta, però, gli stessi acciacchi politici.
D'accordo, bufale e balle imperversano ovunque: ma quale nucleo di verità nascondono? E a questo punto, non sarà il caso di cominciare a prenderle sul serio?
Oh, ma la sapete quella del Prete Gianni? Ve la
racconto velocemente. Tra il 1143 e il 1146 il vescovo Ottone di Frisinga
scrisse una Chronica nella quale – tra un
pistolotto sulla Babele terrena e qualche borbottio sulla
condizione umana –
tenta di tracciare una storia dell’umanità che include la
narrazione della storia a lui contemporanea. Tra le notizie
fornite dalla
Chronica c’è questa curiosa storiella, di cui Ottone
viene a conoscenza a Viterbo tramite intrallazzi papali:
racconta che
esiste un Principe e Prete cristiano, tale Prete Gianni (o
Preteianni o Presbyter Johannes), che vive da qualche parte di
là dal Mediterraneo
– forse in Africa o in Asia – e che, pur essendo nestoriano, desidera
avvicinare se stesso e il suo popolo alla Cattolica Dottrina
di Santa Romana Chiesa, anche in virtù della sua inimicizia
coi limitrofi domini
musulmani. Neanche a dirlo, è pure ricco da far schifo e il
suo regno è pieno di meraviglie. Fin qui tutto bene, sembra. A
parte il
dettaglio che il fatterello è una colossale balla, certo. E
che viene raccontato in una delle più influenti cronache
medievali.
Il risultato è che una bufala di proporzioni bibliche (è il caso di dirlo) conosce una larghissima fortuna nel corso del basso Medioevo: lettere false, tentativi di corrispondenza da parte dei sovrani occidentali, mercanti che identificano il Prete Gianni in tale o talaltro sovrano incrociato lungo la via della seta… Sarà forse Gengis Khan? Oppure un suo avversario?
Prima del 2011 la Siria era un mirabile mosaico di religioni ed etnie che hanno convissuto per secoli in armonia. Nel 2011 l'Unione Europea, varò le sanzioni contro la Siria, presentandole come "sanzioni a personaggi del regime", che imponevano al Paese l'embargo del petrolio, il blocco di ogni transazione finanziaria e il divieto di commerciare moltissimi beni e prodotti. Una misura che dura ancora oggi, anche se, con decisione alquanto inspiegabile, nel 2013 veniva rimosso l'embargo del petrolio dalle aree controllate dall'opposizione armata e jihadista, allo scopo di fornire risorse economiche alle cosiddette "forze rivoluzionarie e dell'opposizione".
In questi cinque anni le sanzioni alla Siria
hanno contribuito a distruggere la società siriana
condannandola alla fame,
alle epidemie, alla miseria, favorendo l'attivismo delle
milizie combattenti integraliste e terroriste che oggi
colpiscono anche in Europa.
Da
oltre cinque anni, quindi, il paese è sotto attacco da bande
di terroristi in una guerra per procura, foraggiata
prevalentemente da Arabia
Saudita, Qatar e Turchia.
I paesi occidentali, con l'Italia tristemente in prima fila grazie al nostro attuale Presidente Gentiloni in veste di Ministro degli Esteri, hanno riproposto la strategia fallimentare usata per la Libia, appoggiando presunti "ribelli moderati", alimentando una guerra che ha già provocato più di 400.000 morti, 6 milioni di sfollati e 4 milioni di profughi (molti dei quali approdati sulle nostre coste).
Sul caso Marra ho già anticipato alcune cose nella trasmissione l’”Aria che tira” di venerdì scorso, ma qui posso articolare meglio quel che penso. Iniziamo dalle responsabilità della Raggi.
Già da settembre molti (ero fra questi) restarono assai perplessi di fronte alla nomina della Muraro e di Marra che sembravano poco coerenti con la promessa di discontinuità che era stata fatta e che lasciavano presagire guai imminenti per la neo nata giunta (dell’avviso di garanzia alla Muraro si ventilava già da luglio, quanto a Marra era chiacchieratissimo da anni), ma la Raggi difese a spada tratta i due, peraltro senza mai spiegare per quali motivi fossero così insostituibili. Poi vennero i casi Frongia e Romeo, il balletto degli assessori, la questione irrisolta del segretario generale e, soprattutto, l’assenza di segnali di svolta nella gestione dei rifiuti e in quella dell’Atac.
Dopo, è iniziata la campagna dell’Espresso che ha rivelato documenti come quelli relativi all’acquisto “scontato “ della casa da parte di Marra. Una semplice visura catastale che avrebbe potuto (e dovuto, sottolineo: dovuto) fare la Raggi che, invece, si intestardiva a difendere Marra, sempre senza spiegare quali fossero le eccelse virtù che lo rendevano insostituibile e nonostante le resistenze nel movimento si infittissero.
Togliere il simbolo dei 5Stelle a Virginia Raggi? Eh no, troppo facile cavarsela così. Se dovessero farlo, non è che con questo dividerebbero la loro responsabilità da quanto è successo e succederà in Campidoglio. Perché Virginia Raggi è stata candidata dai 5Stelle alla carica di sindaco, non è scesa da Venere. Ha avuto i voti di chi ha votato 5Stelle, non quelli di una sua lista civica che ha sbaragliato i concorrenti. Insomma, se la Raggi è lì è perché il Movimento 5Stelle ce l'ha voluta, e adesso sarebbe non solo troppo facile, ma ulteriormente irresponsabile dire semplicemente "ci siamo sbagliati, abbiamo visto che non ci rappresenta e quindi la cacciamo e noi non c'entriamo più niente". Stiamo parlando del sindaco della capitale d'Italia, mica dell'allenatore di una squadra dell'oratorio.
Ci aspetteremmo che i 5Stelle analizzassero quello che è accaduto e facessero sapere ai cittadini che cosa secondo loro non ha funzionato. La guida di Roma era un test decisivo per una forza politica che potrebbe vincere le prossime elezioni e magari andare alla guida del paese. Il test per ora è una catastrofe: se il Movimento non è in grado nemmeno di analizzare il perché, vuol dire che non è nemmeno capace di imparare dai suoi errori, e allora più che di inesperienza si deve parlare di incoscienza.
Hanno speso anni a spiegarci che non esistono i fatti, esistono solo le interpretazioni. Che non c'è oggettività, perché tutto è filtrato dalla percezione del soggetto. Che dobbiamo mettere in discussione tutti i nostri postulati, i nostri a priori, perché non sono verità ma solo costruzioni sociali.
Adesso, pare arrivato il contrordine. Media e politici hanno infatti scoperto che bisogna combattere contro la "post-verità", ossia le "circostanze in cui le credenze contano più dei fatti oggettivi" (Oxford Dictionary). Fatti oggettivi che di colpo sono tornati ad essere perfettamente conoscibili – almeno dall'élite che conduce questa narrazione.
Jakub Goda su Politico Europe sostiene che parte delle colpe dell’avanzata dell’estrema destra in Europa è della piattaforma di Zuckerberg. La questione è però più complicata
Il concetto di “post-verità” non è granché fresco, ma è stato riesumato in queste settimane e riverniciato per adattarlo a una crociata che è essenzialmente politica. Infatti, è in genere inserito nel lemma post-truth politics e non si manca d'affermare che sarebbe alla base della vittoria di Donald Trump.
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I nodi di fondo della crisi bancaria
stanno
venendo al pettine. La vicenda del Monte dei Paschi di Siena
(Mps) ha avuto il pregio di farli emergere tutti assieme: la
debolezza delle banche
italiane a causa di una crisi economica senza fine, la
necessità dell'intervento dello Stato, l'insostenibilità delle
regole europee, i
catastrofici effetti dell'euro.
Su tutto ciò abbiamo scritto a più riprese nell'ultimo anno. Adesso la novità è il decreto "salvabanche" approvato stanotte dal governo Gentiloni. Un decreto pensato in primo luogo per l'ennesimo "salvataggio" di Mps, un passo di fatto annunciato dalla costituzione di un Fondo di 20 miliardi (finanziato in debito), voluto dal governo ed approvato mercoledì scorso dal parlamento.
Al momento non si conosce il testo del decreto, ma solo le anticipazioni date dal governo. Quelle che seguono sono dunque osservazioni basate soltanto sulle scarne informazioni adesso disponibili.
1. Il mercato non ha funzionato (e non poteva funzionare)
Con il decreto predisposto da Padoan, lo Stato garantirà quella ricapitalizzazione di Mps che la banca non è riuscita a concretizzare attraverso il mercato.
L'elezione di D. Trump alla
presidenza degli
Stati Uniti, oltre a tutte le domande che solleva rispetto ai
cambiamenti nella politica americana che potrebbe causare o
meno, ha suscitato a
sinistra un dibattito internazionale il cui interrogativo
centrale può essere riassunto in questo modo: la classe
operaia americana ha
massivamente votato per Trump oppure no? Domanda su cui si
basa la successiva: la classe operaia è reazionaria?
Questa domanda riceve pronta risposta esaminando le statistiche elettorali: no, ovviamente, non è la classe operaia da sola che ha eletto Trump, non ha nemmeno votato in massa per lui. La classe operaia rimane in gran parte la classe dell'astensione. Ma se l'elezione di Trump rimane di gran lunga il risultato di un elettorato repubblicano classico, tuttavia assume una marcata tonalità operaia nei vecchi stati industriali del nord-est, fatto che, insieme alla mancanza di entusiasmo per il voto democratico, probabilmente ha fatto pendere la bilancia elettorale in favore di Trump. Ed è qui che sta forse il problema: in questo residuo insolubile rappresentato dalla presenza decisiva del voto dei lavoratori, che non viene digerito, che appare come un'impurità in questa elezione, come una macchia.
Ciò che non viene digerito, soprattutto in quel che resta della sinistra e dell'estrema sinistra, è in primo luogo che “la” classe operaia è in realtà ampiamente segmentata.
Igor Panarin è un personaggio assai
curioso, qui
il suo wiki abbastanza
completo[1]. Si
tratta di un cervellone russo stante che i russi hanno un
tradizione sistemica tutta loro[2], che non
origina cioè da quella della teoria dei sistemi di L. von
Bertalanffy, è precedente come è precedente la radice da cui
nacque lo
stesso Bertalanffy che da giovane frequentava il Circolo di
Vienna. Questa è un radice che risale all’illuminismo tedesco,
a Kant (in
parte) e prima ancora a Leibniz e che, come tutte le radici,
ha a sua volte radici ancora più antiche ma che lasciamo lì
dove sono
altrimenti andiamo fuori tema. Poiché la cultura tedesca
influì non poco anche su quella russa, ne conseguì la
successiva
biforcazione tra sistemica russa e sistemica dell’austriaco
poi migrato in Canada ed influente sulla cultura americana.
Insomma, Panarin nel 1998 se ne esce con la previsione del crollo dell’impianto economico americano che poi avverrà nel 2008 ed in conseguenza di questo, prevede un processo di secessione interno a gli Stati Uniti d’America.
Il cuore della previsione diceva di una frattura tra l’Ovest che sarebbe entrato nel circuito asiatico – pacifico, un Sud che sarebbe entrato nel circuito ispano-centro americano, un Est che sarebbe entrato nel circuito euro-britannico ed un Nord, felicemente annesso al Canada.
Molti hanno ritenuto che, per le dimensioni
della vittoria del no, l’esito del referendum sulla riforma
costituzionale sia stato
sorprendente. Hanno invece ricalcato un copione già visto gli
avvenimenti che sono seguiti a questa vittoria e in
particolare le reazioni dei
partiti, di quelli risultati vincitori così come di quelli
sconfitti. Ma sono soprattutto le dinamiche politiche
disinnescate dall’esito
referendario, ad essere avviate verso la riproduzione di uno
schema oramai consolidato: quello per cui, dopo avere fatto il
lavoro sporco, le
formazioni progressiste si avviano verso un definitivo e
meritato declino, inevitabilmente seguito dal successo delle
destre.
I vinti insultano i vincitori
Incominciamo dalle reazioni dei vinti, del tutto simili a quelle che hanno accompagnato due momenti fondamentali di quanto è stata chiamata l’avanzata mondiale del populismo: prima la vittoria dei fautori di un’uscita del Regno Unito dall’Unione europea nel referendum sulla Brexit, e poi l’elezione di Donald Trump a nuovo Presidente degli Stati Uniti. In entrambi i casi i vinti hanno disegnato un identikit del vincitore che assomiglia a una sorta di troglodita: incapace di comprendere le virtù della globalizzazione, di cogliere i vantaggi portati dalla libera circolazione delle merci e dei capitali, di accettarli come fatti irreversibili.
Il Mattarellum fu il prodotto accidentale della situazione nel 1993: la Corte Costituzionale, nel 1987, aveva stabilito che, in caso di referendum sulle leggi elettorali, non erano ammessi quesiti abrogativi in toto, ma solo parziali e manipolativi, ma a condizione che la legge residua fosse coerente ed immediatamente applicabile, non essendo ammissibile alcuna sospensione degli organi costituzionali e dei loro dispositivi di attuazione.
L’unica possibilità (per la verità ottenibile con una forzatura di cui la Corte fece finta di non accorgersi) era quella di lasciare la quota proporzionale della legge al Senato (1/4), sganciarla dai collegi uninominali attraverso il meccanismo dello “scorporo” dei voti dei vincenti nei collegi uninominali e calcolando solo i residui per la quota proporzionale. Questa venne assunta come indicazione del corpo elettorale e venne applicata anche alla Camera con un piccolo ritocco (lo scorporo non era pieno ma solo parziale). I listini bloccati furono anche essi una conseguenza di questo meccanismo di formazione della legge: essendoci solo collegi uninominali al Senato, non era possibile introdurre la preferenza attraverso l’intervento manipolativo, ma solo proclamare i migliori non eletti. Questo, alla Camera venne tradotto nel meccanismo della lista bloccata.
Per la giunta pentastellata il rischio di essere abbattuta è in fase di allarme rosso. Disatteso l’audit sul debito e l’inversione di tendenza rispetto ai tagli del Patto di Stabilità promessi in campagna elettorale
Non se ne esce. A Roma un’amministrazione che salvaguardi un welfare sostenibile sembra una lontana realtà. Un disastro metropolitano le ultime tre giunte, sia pure ereditarie di tracolli urbanistici e mal gestione delle risorse delle precedenti amministrazioni. A partire da Alemanno, l’uomo del sale sulla nevicata storica del febbraio 2012 “, l’uomo delle parentopoli in Ama e Atac, l’uomo che ha amplificato l’influenza delle mafie sulla città, a partire dal boss Carminati. Si cambia verso con le amministrative del 2013 e il Campidoglio è affidato all’amministrazione piddina guidata dal “felpato” Ignazio Marino, che di tutto poteva occuparsi tranne che della Suburra romana. Infatti ne viene travolto ben presto, appena prova a scoperchiarla, sfiduciato in palazzo senatorio dagli stessi suoi fiduciari.
Ed è ancora svolta. Roma è sfinita dai misfatti di Carminati e Buzzi e dall’inverecondo sistema delle municipalizzate. Immondizia a gogo (firmata Cerroni) ovunque. Trasporti al tracollo. Dipendenti comunali sull’orlo di una crisi di nervi. Tocca cambiare, di nuovo. Il Pd a Roma, specie dopo le forzate dimissioni di Marino, è fumo negli occhi per tutti. La voragine dovrebbero colmarla i grillini, stavolta.
La battuta d’arresto segnata dal voto popolare anti-Renzi è figlia di una crisi più profonda di quanto potrebbe apparire a prima vista. Una crisi economica con un apice decennale, che ha colpito con particolare forza i paesi del sud Europa, ha mandato in frantumi un orizzonte di stabilità incancrenito almeno dal 1945. Una crisi considerata da alcuni economisti, non solo marxisti, come il dispiegamento di un lungo periodo di stagnazione del modo di produzione capitalistico, delle sue relazioni economiche e sociali, che figura un ancient regime defunto ma tenuto in vita dall’assenza di civiltà alternative ad esso.
Questa trama fondamentale apre importanti e inediti scenari per il futuro. Il primo è che il vecchio mondo capitalistico, figlio dello sviluppo novecentesco, non è più in grado di garantire la tenuta sociale. La governance ordoliberale è la risposta a una crisi di ingovernabilità profonda interna alle classi dirigenti, a uno scollamento sociale tra ceti dirigenti e classi subalterne ancora tutto da maturare e dalle ricadute ancora imprevedibili. La fine storica dell’opzione socialdemocratica, centrata su un sistema sociale di protezione e su una collaudata gestione del consenso attraverso le varie forme della rappresentanza politica, sono un fatto ormai compiuto, dove alla democrazia parlamentare succede un regime di governance oligarchica.
Oggi il campo dell’interazione sociale e il dominio del profitto si sovrappongono. Il capitalismo mette al centro un’immensa massa di dati, dipende dai dati perché attraverso essi genera ricchezza. Combatte per la sua stessa sopravvivenza ed entra così nella nostra vita sociale. Senza cedere a teorie complottiste o a visioni nefaste per il futuro, è fondamentale avviare una riflessione collettiva. Se la connessione è la nostra medicina, ma anche il nostro veleno, bisogna ribaltare il paradigma e rinegoziare la nostra libertà, perché da Google a Facebook è il “click capital” - così definito da Morozov - che conta e che de facto soggettivizza gli attori sociali della rete. Pochi colossi si appropriano dei nostri comportamenti, e dei nostri vizi e piaceri in rete fanno virtù (a beneficio loro).
Il paradigma è l’algoritmo del capitale. La percezione di una minaccia è il nuovo progresso. Nel futuro dove la tecnologia diventa croce dei lavoratori e delizia del capitale, dell’idea stessa di progresso si appropriano in pochi. Siamo all’alba di quella che è stata definita “Quarta rivoluzione industriale” o “rivoluzione industriale 4.0”. Oggi è la porta d’accesso a quella dimensione. E l’unico modo per non rifiutare la tecnologia ed evitare nel contempo che manipoli i nostri giorni a venire, è guardare in faccia i meccanismi che qui e ora alterano già le nostre percezioni.
Da La vita come un algoritmo
1.
«Collettivismo della miseria, della sofferenza»
Com’è noto, la rivoluzione che tiene a battesimo la Russia sovietica e che, contro ogni aspettativa, si verifica in un paese non compreso tra quelli capitalistici più avanzati, è salutata da Gramsci come la «rivoluzione contro Il capitale». Nel farsi beffe del meccanicismo evoluzionistico della Seconda Internazionale, il testo pubblicato su «Avanti!» del 24 dicembre 1917 non esita a prendere le distanze dalle «incrostazioni positivistiche e naturalistiche» presenti anche «in Marx». Sì, «i fatti hanno superato le ideologie», e dunque non è la rivoluzione d’Ottobre che deve presentarsi dinanzi ai custodi del «marxismo» al fine di ottenere la legittimazione; è la teoria di Marx che dev’essere ripensata e approfondita alla luce della svolta storica verificatasi in Russia1. Non c’è dubbio, memorabile è l’inizio di questo articolo, ma ciò non è un motivo per perdere di vista il seguito, che non è meno significativo. Quali saranno le conseguenze della vittoria dei bolscevichi in un paese relativamente arretrato e per di più stremato dalla guerra?:
«Sarà in principio il collettivismo della miseria, della sofferenza. Ma le stesse condizioni di miseria e di sofferenza sarebbero ereditate da un regime borghese. Il capitalismo non potrebbe subito fare in Russia più di quanto potrà fare il collettivismo. Farebbe oggi molto meno, perché avrebbe subito di contro un proletariato scontento, frenetico, incapace ormai di sopportare per altri i dolori e le amarezze che il disagio economico porterebbe […]. La sofferenza che terrà dietro alla pace potrà essere solo sopportata in quanto i proletari sentiranno che sta nella loro volontà, nella loro tenacia al lavoro di sopprimerla nel minor tempo possibile».
“Grateful dead
economy. La psichedelia finanziaria” di Andrea
Fumagalli (AgenziaX, pp. 190, € 15,00) analizza in maniera
innovativa le tre parole-chiave al centro del dibattito
politico del nuovo millennio: il concetto di comune, lo
spirito open-source e il ruolo delle
monete alternative. Il titolo e la copertina sono molto
accattivanti e potrebbero far sembrare il libro una trovata
da subvertising, ma non è
così. Eccentrico, sì, è un libro eccentrico, nel senso
migliore del termine, utilizza la metafora dei Grateful
Dead, non solo per
rendere omaggio a uno dei gruppi musicali che più ha inciso
sulla cultura alternativa, ma per discutere criticamente
l’evoluzione dello
spirito libertario negli Usa, nato negli anni sessanta e
riapparso nelle ultime due decadi nell’ideologia libertarian,
fondata
sull’antistatalismo e il primato dello spirito del self-made
man. Per usare un termine della musica, possiamo
dire che i sei capitoli
son ben mixati, non c’è spaccatura ma conseguenzialità, e lo
spirito del libro va oltre i suoi dichiarati intenti:
infatti
l’incontro di ambiti apparentemente lontani,
l’immaginazione, la sperimentazionee l’innovazione, non
possono che arricchire lo
spirito critico e l’efficacia delle lotte. Un tempo la
psichedelia era sinonimo di creatività e sovversione, ma ora
regnano
l’impotenza e la depressione sociale. Forse è perché la
finanza e la mercificazione economica si sono appropriate
non solo del
corpo ma anche dei cervelli, dei sensi e dell’eros,
costringendoli a vivere una vita di elemosina e precarietà?
Lo abbiamo chiesto
all’autore.
* * * *
Cos’è la psichedelia finanziaria e qual è la relazione tra i Grateful Dead e la proposta della moneta alternativa commoncoin?
I. Nel
gennaio 1868, armato
della consueta mordacità, Marx confessa al sodale di sempre
Friedrich Engels come il «Kerl» di turno, Privatdozent di
filosofia ed economia politica a Berlino Eugen Dühring, abbia
mancato il senso del I libro de Il Capitale. L’«intero
segreto
della concezione critica» – scrive Marx riferendosi proprio
alla sua «Critica dell’economia politica» – sta nel
fatto che «se la merce ha il doppio carattere di valore d’uso
e valore di scambio, allora anche il lavoro rappresentato
nella merce deve
avere carattere doppio». Centrale è quindi la distinzione tra
«lavoro astratto» e «lavoro concreto», sfuggita non
solo a Dühring, ma secondo Marx anche agli stessi fondatori
dell’economia politica: «la semplice analisi fondata sul
lavoro sans
phrase come in Smith, Ricardo ecc. deve sempre andare a
sbattere in questioni inesplicabili»1.
Ricorrendo alla nota immagine della rivoluzione copernicana,
possiamo dire che Marx individua quella da lui
operata nel campo dell’economia politica nella fondamentale
distinzione tra «lavoro astratto» e «lavoro concreto»,
pendant soggettivo della doppia natura del valore già
incorporata nella merce. È proprio sul «concetto di lavoro»
nell’intera opera di uno tra i più celebri filosofi del xx
secolo che si concentra Individuo, lavoro, storia. Il
concetto di lavoro in
Lukács di Antonino Infranca.
Il testo in questione, tuttavia, si colloca su un terreno diverso rispetto al piano «critico» evocato da Marx nella lettera a Engels.
Quando ho scritto che le riforme «ce lo chiede l’Europa» sarebbero cadute come birilli non immaginavo che il processo partisse così presto.
E non immaginavo che potesse partire proprio dal “pareggio di bilancio”.
Eppure il pareggio di bilancio, quello inserito in Costituzione con legge Costituzionale, potrebbe essere incostituzionale.
Il 16 Dicempre 2016 la Corte Costituzionale si è pronunciata su una legge della Regione Abruzzo e gli effetti sono ancora tutti da scrivere.
Il fatto:
La Regione Abruzzo aveva condizionato il contributo per il trasporto degli studenti disabili alle risorse stanziate in bilancio.
Il servizio, quindi subiva le contrazioni stabilite dalle disponibilità economiche, a loro volta vincolate dal pareggio di bilancio.
Il pareggio di bilancio
Con “pareggio di bilancio” si intende la necessità, per Stato e Regioni, di pareggiare le entrate e le uscite di ciascun anno.
Quando anche le strategie informative più massicce cominciano a fare cilecca come avevo argomentato ieri (vedi qui ) non c’è niente di meglio che lasciar perdere la testa e puntare sulla pancia, sull’emotività più istintiva e sulla paura. Aleppo viene liberata dai “liberatori” sotto forma di tagliagole mercenari ed ecco che arrivano nel giro di 24 ore tre attentati: l’assassinio dell’ambasciatore russo in Turchia da parte di un poliziotto appena diplomatosi e salutato in tempo reale come un eroe dal deputato ucraino Volodymyr Parasyuk già fotografato e filmato mentre sparava sulla folla e sui poliziotti in piazza Maidan, il camion polacco contro il mercatino di Natale a Berlino che sembra la replica di Nizza, ma messo in atto da un professionista, la sparatoria a Zurigo.
Non c’è alcun bisogno di collegare questi fatti tra di loro o di fornire una chiave di lettura precisa su ciascuno di essi anche quando e se si avranno informazioni più precise o credibili. Ad eccezione dell’attentato turco dove è presumibile che l’evento sia da addebitare ad ambienti gulenisti, collegati alla strategia Usa di impedire un raccordo fra Ankara, Teheran e Mosca per mantenere in vita la Siria e nel contempo colpire Erdogan, gli altri vengono dal magazzino degli scampoli della paura messo insieme facilmente agendo sul caos mediorientale e il carico di odio che suscita, sulla marginalità, l’esclusione, lo sradicamento.
Renzi ha ufficializzato la posizione del Pd favorevole al ripristino del Mattarellum (a quanto pare, con una variazione: la quota proporzionale non sarà solo del 25% ma del 50%) ed ha lasciato intendere la sua preferenza per il mese di aprile per le elezioni. Le due cose (mattarellum ed aprile) stanno insieme? Difficile, molto difficile. Vi spiego perchè.
Della pretesa bontà del Mattarellum diremo nei prossimi giorni, qui ci limitiamo a parlare della praticabilità in tempi brevi della cosa.
In primo luogo, non basta dire Mattarellum, perché ci sono molti dettagli tecnici da definire anche per poter mettere insieme una maggioranza parlamentare che voti la nuova legge: quanti saranno i seggi per il proporzionale e quanti per il maggioritario uninominale? Ci sarà l’obbligo di presentarsi nell’uninominale per accedere alla quota proporzionale? Saranno ammesse coalizioni? Ci saranno clausole di sbarramento per il proporzionale ed a che livello? E per il proporzionale ci saranno listini distinti o si procederà proclamando i migliori risultati non vincenti nell’uninominale? E, nel caso di liste saranno bloccate o tornerà la preferenza? E che dimensioni avranno le circoscrizioni per il proporzionale? Ci sarà lo scorporo dei voti del vincente nell’uninominale per definire la distribuzione dei seggi proporzionali? Scorporo totale o parziale? E via di questo passo.
Parla la scrittrice, giornalista e intellettuale statunitense: “Hillary Clinton ha perso perché la campagna di Bernie Sanders è stata un grande successo popolare e la sua esclusione ha deluso tanti elettori democratici”
Diana Johnstone è una donna dallo sguardo gentile e i giudizi severi, laureata in letteratura francese all’Università del Minnesota, scrittrice, giornalista, intellettuale, negli anni 60 era in prima linea contro la guerra in Vietnam, esperta di politica estera americana è stata corrispondente in Europa del magazine In These Times e portavoce del gruppo parlamentare verde al Parlamento di Strasburgo dal 1990 al 1996. Residente a Parigi da quasi trent’anni, è una critica tenace della linea « neoimperialista » degli Stati Uniti e dei loro alleati europei inaugurata con la guerra in ex Yugoslavia, un’avventura denunciata nel sulfureo saggio Fools’ Crusade. In Italia per presentare la biografia “ politicamente scorretta” di Hillary Clinton ( Hillary, la Regina del caos Zambon editore), anche lei è rimasta sorpresa dall’elezione di Donald Trump, ma oggi è ancora più sorpresa dalla reazione che il “ sistema” gli sta riservando. « Per la quasi totalità dei media è come se Trump non fosse stato eletto, il “ sistema” non riesce proprio a digerirlo, nel paese c’è una polarizzazione politica e psicologica profonda, una frattura che ricorda la Guerra di secessione, è straordinario » , commenta con un sorriso sarcastico.
* * * *
Eravamo tutti convinti che Hillary Clinton avrebbe trionfato alle elezioni Usa, invece cosa è accaduto?
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Il 2016 si chiude ponendoci un compito
urgentissimo per il 2017.
La sonante vittoria dei No al referendum di dicembre ha finalmente trasformato la palude della politica italiana (che stava ristagnando grazie alla droga della Bce e agli artifici verbali dell’ex premier) in un rapido fiume che corre veloce verso una cascata: le prossime, inevitabili elezioni. E più tardi queste avverranno, più alto sarà il balzo della cascata, più rovinoso l’effetto sul sistema politico italiano.
Faranno certamente di tutto per evitare il patatrac: trucchi elettorali, corruzione di gruppi dirigenti, forse altro ancora. Ma ben difficilmente potranno scongiurare l’affermazione dell’unico attuale antagonista degli equilibri di potere: il M5S. E qui sorge il problema. Perché una vittoria del M5S dovrebbe essere senz’altro essere salutata, allo stato attuale, come un’affermazione ulteriore del fronte del No al PD ed al neoliberismo. Ma significherebbe anche, allo stato attuale, l’apertura di una obiettiva e salutare crisi con l’Unione europea senza che però vi siano le idee sufficientemente chiare, le alleanze sociali sufficientemente salde, le convinzioni politiche sufficientemente forti per gestirne positivamente le conseguenze.
Premessa. Il
presente elaborato non
si propone di contenere tutte le variegate problematiche della
società capitalistica contemporanea. Sceglie di focalizzarsi
sugli elementi, a
nostro parere, prioritari per ricostruire, qui e ora, le basi
di ripartenza del movimento comunista italiano. Il nostro
auspicio è che questo
approccio aiuti a raggiungere, in un contesto molto difficile
e di grave arretramento del partito e dell’insieme del
movimento comunista in
Italia, la necessaria chiarezza sulle scelte da fare,
facilitando la lettura e favorendo una ampia discussione.
L’obiettivo di questo congresso del Partito della Rifondazione comunista è la definizione di una prospettiva socialista valida per il XXI secolo. A questo scopo è necessario definire un progetto adeguato alla fase in corso, che richiede una analisi della nuova fase storica del capitalismo e un chiarimento sul passato del movimento comunista italiano e internazionale. Il movimento comunista nasce dalla rottura con la socialdemocrazia sulla guerra e sull’imperialismo e si consolida con la Rivoluzione d’Ottobre. La Rivoluzione d’Ottobre, di cui quest’anno ricorre il centenario, rappresenta il primo tentativo di successo, nella storia umana, di rovesciare la classe dominante per fondare il potere politico sulle classi subalterne.
1. Introduzione
È un dato di fatto che, nelle sue
diverse declinazioni, il marxismo è stato espunto dai
programmi di insegnamento dei corsi di Economia Politica in
Italia, ed è del tutto
marginale nella ricerca scientifica. È anche un dato di fatto
che il marxismo italiano, nel corso del Novecento, ha fornito
contributi di
massima rilevanza sul piano internazionale e che quella
tradizione può considerarsi, allo stato dei fatti,
sostanzialmente terminata. Per le
motivazioni che verranno presentate a seguire, si è imposto un
nuovo paradigma dominante che, per pura semplicità espositiva,
possiamo
definire neoliberista (si vedrà infra che tale
definizione è alquanto riduttiva, sebbene diffusamente
utilizzata).
In prima approssimazione, potrebbe risultare sorprendente che queste teorie risultino dominanti, a ragione del loro palese fallimento; un fallimento che attiene sia alla diagnosi della crisi e alle fallaci prescrizioni di politica economica che ne derivano, sia alla palese incapacità previsionale (cfr. Sylos Labini, 2016). Tuttavia, una ricerca di Luca De Benedictis e Michele Di Maio, condotta somministrando questionari a economisti accademici italiani, rileva che solo il 3% degli intervistati si dichiara marxista, a fronte del circa 50% di economisti che si dichiara “eclettico” e “neoclassico” e del 20% che non si dichiara affatto, considerandosi verosimilmente un economista nell’accezione di Maffeo Pantaleoni (per il quale esistono due scuole in Economia: chi la conosce e chi non la conosce)1.
Questo saggio si propone di individuare ragionevoli motivazioni che possono essere poste a fondamento di questo “salto paradigmatico”, con due precisazioni preliminari.
Sugli elettori di Trump si è detto tutto e il contrario di tutto: la tesi iniziale (sono stati gli operai bianchi incazzati per gli effetti della globalizzazione sulle loro condizioni di vita) è stata contestata da chi sosteneva che buona parte di quelli che lo hanno votato appartenevano a fasce di reddito medio alte. Poi la tesi iniziale è stata riformulata: non è tanto che gli operai bianchi hanno votato Trump, ma piuttosto che non hanno votato la Clinton, preferendo astenersi piuttosto che scegliere fra il minore di due mali (tesi che a me parrebbe più attendibile ove riferita ai giovani – operai e non – sostenitori di Sanders). Ma su una cosa tutti – soprattutto i media che avevano sostenuto a spada tratta la Clinton – sembrano essere d’accordo: quegli elettori sono sporchi, brutti e cattivi, gente che ha scelto Trump perché ne condivide l’ideologia razzista, sessista e ultraconservatrice.
Ma anche questa convinzione inizia a vacillare a mano a mano che divengono disponibili ricerche più approfondite. A metterla in discussione, in un interessante articolo sul New York Times, è l’analista politico David Paul Kuhn il quale rovescia il punto di vista: Trump non è stato eletto perché ha condotto una campagna sessista, razzista e ultraconservatrice, ma malgrado abbia seguito tale linea politica. La verità è, scrive Kuhn, che se tutti quelli che consideravano Trump un personaggio indecente avessero votato per lei, la Clinton avrebbe vinto a mani basse.
ZeroHedge analizza freddamente il significato delle dichiarazioni del nostro capo dell’antitrust, Pitruzzella, in merito alle “fake news”. Come al solito, dietro una richiesta apparentemente ragionevole, si cela una verità inconfessabile. L’establishment vuole mettere in atto un “Ministero della Verità” orwelliano, una schiera di individui non eletti, ovviamente coordinati da Bruxelles, che non rispondono a nessuno delle loro azioni ma che possono decidere cosa è vero e cosa no. Chi controlla il presente controlla il passato, e chi controlla il passato controlla il futuro (Orwell, 1984)
I primi sono stati gli Stati Uniti, poi la Germania, che ha dato la colpa di quello che non funziona nella società alle “false notizie”, e non, per esempio, a una serie di terribili decisioni prese dai politici. Ora è il turno dell’Italia di chiedere di porre fine alle “false notizie”, cosa che di per sé potrebbe non essere preoccupante. Tuttavia, il modo in cui Giovanni Pitruzzella, capo dell’antitrust italiano, chiede all’Unione Europea di “agire” su quelle che sarebbero “notizie false”, consiste a dir poco in una repressione totale della libertà di espressione e darebbe ai governi la libertà di mettere a tacere qualsiasi fonte che non rispetti la propaganda dell’establishment.
In un’intervista al Financial Times, Pitruzzella ha detto che le regole sulle “false notizie” su internet sarebbero meglio gestite dallo stato piuttosto che dalle società dei social media come Facebook, un approccio già adottato in precedenza dalla Germania,
«Fordismi. Storia politica della produzione di massa» di Bruno Settis per il Mulino
Nel dicembre 1979 nel glorioso stabilimento Ford del River Rouge a Detroit ci fu un’assemblea operaia contro due capi reparto che si dichiaravano membri del Ku Klux Klan e giravano in fabbrica con la classica, tremenda divisa da incappucciati. Quest’episodio mi fu raccontato alcuni mesi dopo il fatto, a Detroit, nell’estate del 1980, da un operaio di quello stabilimento con cui avevo fatto amicizia. Me lo hanno scongelato dalla memoria, dove si era nascosto senza rimedio, l’attuale alzata di scudi dei «suprematisti bianchi» che The Donald ha pensato bene di portarsi a Pennsylvania Avenue e la contemporanea lettura di un libro di Bruno Settis, Fordismi. Storia politica della produzione di massa (il Mulino, pp. 317, euro 29).
Il volantino anti-Klan c’entra col libro di Settis perché nel lavoro del giovane studioso pisano spicca come obiettivo centrale il tentativo di decostruire il monolitico mito fordiano esplorandone i contorni meno visibili. Decostruire cioè l’idea del fordismo come sistema produttivo e sociale quintessenza della modernità, organico, definito una volta per tutte nella testa dell’eroe eponimo Henry Ford e pronto ad accoppiarsi, nell’arco di pochi anni, con l’altra parola magica «keynesismo», per fondare il famoso cosiddetto «compromesso keynesiano».
«E una volta che avete abrogato i voucher, cosa pensate, che tutte quelle forme di lavoro si trasformino magicamente in contratti a tempo indeterminato?».
È questa la domanda che, polemicamente, viene rivolta a quanti hanno firmato il referendum abrogativo e oggi sperano che sui voucher si vada a votare.
No, nessuno si aspetta che il giorno dopo i voucheristi siano assunti con il diritto alla malattia, alle ferie, alla maternità. Ci si aspetta molto di più.
Ci si aspetta cioè che venga ascoltato il messaggio profondo che sta dietro un eventuale voto popolare contro i voucher.
Che cos'è infatti il referendum sui voucher? Che cosa direbbe, una vittoria dei Sì all'abrogazione?
Direbbe che la strada intrapresa due o tre decenni fa è sbagliata e non regge più. Non regge più in termini di sopportazione da parte delle persone, non regge più in termini di tenuta sociale.
Non regge più cioè la direzione presa: quella di una sempre maggiore rarefazione, riduzione, discontinuità e intermittenza del reddito, che riguarda sopprattutto i nuovi adulti ma, per conseguenze indirette, anche le loro famiglie - quindi una larga fetta di italiani.
L'Italia è un paese che da più di 20 anni si fonda sulla scommessa sui fondi speculativi. Con pessimi risultati che si ripercuotono su welfare, diritti e servizi sociali
Non c’è bisogno di fare grandi
astrazioni. Basta guardarsi attorno. L’analisi
specialistica sanitaria che tarda mesi, le prestazioni
pensionistiche congelate, i posti letto in ospedale
scomparsi, la spesa e la qualità del
servizio per educazione e istruzione compresse. Le
infrastrutture decadenti, gli investimenti bloccati.
Per non parlare dell’assenza di
un reddito di cittadinanza di fronte alla disoccupazione
tecnologica (tema che, comunque, ancora oggi viene considerato
una favola) E infine: i comuni
senza reali strumenti di indirizzo economico del territorio.
Stiamo parlando di un percorso cominciato negli anni ’90, con il crollo della lira del 1992 e le politiche dei tagli del governo Amato. Percorso che, oggi, tocca livelli di asfissia sociale e che è destinato, se le cose rimangono queste, a peggiorare. Ci sono molte cause, e molte disclipline critiche con le quali avvicinarsi al problema. In una dimensione di futuro incerto dove il calo degli investimenti, nell’ultimo quinquennio, è palese. E questo specie quando i dati parlano chiaro: l’Italia, strutturalmente spende meno della media degli altri paesi Ue, per spesa sociale. In un contesto dove, nell’ultimo decennio, la percentuale di incidenza della spesa sociale rispetto al Pil è aumentata ma solo perchè il prodotto interno lordo è diminuito a causa della crisi. Non manca certo, come sempre in questi casi, il capro espiatorio: la spesa pensionistica. Indicata come troppo alta, iniqua, improduttiva. Andiamo invece a vedere, per spiegare la contrazione della spesa sociale e degli investimenti di questo paese, due elementi di un fenomeno dai contorni oscuri, un vero buco nero.
Lo scenario politico del dopo referendum ha mostrato un elettorato sempre più instabile e arrabbiato. Tra la scommessa persa del Pd di Renzi e l’avanzata dei populismi di destra, spicca l’assenza della sinistra
1. Le molte ragioni
del
no
Le ragioni del successo del no al referendum dello scorso 4 dicembre sono tante. E tanti i suoi significati. La matassa è ardua da dipanare, tenuto conto che coloro che hanno respinto la riforma Renzi/Boschi non avevano tutti le stesse motivazioni. In più, è presumibile che in molti più motivazioni si intreccino.
C’è chi ha votato no perché la riforma era sgrammaticata. Che fosse sgrammaticata l’hanno ampiamente riconosciuto pure parecchi tra quanti hanno dichiarato che avrebbero votato sì. La sua applicazione avrebbe creato parecchi problemi. Altri hanno votato no perché la riforma squassava il vecchio meccanismo di check and balances senza sostituirlo in maniera accettabile. In mano a forze politiche democraticamente inaffidabili, e il cielo sa se in giro ce ne sono, rischiava (specie intrecciata all’Italicum) di diventare un’arma micidiale. Per altri ancora la riforma non solo stravolgeva la lettera della Costituzione, ma ne rinnegava lo spirito. Ovvero sconfessava il compromesso tra forze politiche d’ispirazione cattolica, socialista e liberale stipulato a dicembre del 1947. Tra l’altro, l’iter di approvazione aveva calpestato una fondamentale regola non scritta dei grandi processi costituenti: la ricerca di un accordo il più ampio possibile. Altri ancora hanno votato no in dissenso con specifiche previsioni della riforma.
Lettera aperta alle persone interessate ad EXIT! nel passaggio al nuovo anno 2017
Anche il 2016 è
stato segnato da tutte le catastrofi riguardo la vita e la
morte dei rifugiati. È venuto così apertamente alla luce del
sole quello
che tanto piace ai mediatori ed alle mediatrici
professionali, da chiunque lavori per i media fino ai
funzionari della pubblica istruzione:
storie personali e destini di vita, che si suppone siano
indispensabili per poter mediare i contesti più complessi.
Sarebbe stato naturale
sommare uno più uno, e farsi venire il sospetto che, con i
rifugiati, gli europei si sono trovati immediatamente di
fronte quella situazione di
crisi globale da cui si erano isolati.
Tuttavia, ancora una volta è stata riscoperta la "lotta contro le cause della fuga". Invece di "rimestare" nei sintomi - questo ci chiedono le voci pacifiche della politica e dei movimenti sociali - bisogna combattere le cause della fuga. Ma quali sono le ragioni per fuggire? Nel numero tematico della rivista "iz3w" [ https://www.iz3w.org/ ] viene discussa tutta una miscellanea di ragioni per la fuga: Il mercato mondiale produce povertà. La politica tedesca di esportazioni di armi sta obbligando le persone a fuggire. Le alterazioni climatiche distruggono i mezzi di vita di molte persone. E la politica dello sviluppo - al contrario di quanto dichiara il suo slogan «combattere le cause della fuga, non i rifugiati!» - con i progetti di infrastrutture, con la politica di liberalizzazione del mercato e con la cooperazione con le élite cleptocratiche, spinge le persone a fuggire.
«Ah, signor filosofo, la miseria è una gran brutta cosa» (Il nipote di Rameau). E proprio a me vieni a raccontarlo?!
«Dio, innamorato di noi, ci attira con la sua tenerezza, nascendo povero e fragile in mezzo a noi, come uno di noi» (Papa Francesco). Un povero Cristo, insomma. Un Dio umano, fin troppo umano, non c’è che dire.
Che fa un povero proletario quando ascolta o legge frasi del tipo: «Il rimedio è la povertà», pronunciate o scritte da chi povero non è affatto? È ovvio: il malmesso corre subito a impugnare la metaforica pistola nell’intento di sparare a bruciapelo bestemmie e insulti contro il filantropo o il demagogo di turno. È facile fare l’apologia della povertà con la miseria degli altri! «Ma povero è davvero bello? Lo chiediamo a Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, che risponde con l’esperienza del sociologo e la saggezza dei suoi 84 anni: “I cantori dei poveri non sono mai i poveri. I poveri non cantano”» (La Repubblica). I poveri, al più, imprecano contro l’altrui ricchezza. Non bisogna essere sociologi di fama internazionale né avere la saggezza del vecchio (pardon, dell’anziano, o del diversamente giovane) per capire come vanno certe cose.
Ma, detto questo, non mi associo neanche un poco a chi oggi sui cosiddetti “social” ridicolizza il cantore della povertà a cinque stelle rinfacciandogli la ricchezza (beato lui!) e le frequentazioni “milionarie” in ville e yacht di lusso (beato lui!):
Le cose starebbero così: Sesto San Giovanni è come Dodge City e il giovane vicesceriffo, da poco nominato, alla prova del fuoco ha fatto fuori il pericoloso ricercato casualmente fermato. Vabbè.
Il neo-ministro agli Attentati Islamici, Domenico Minniti detto Marco, inizia quindi con un gran colpo di “fortuna” il suo mandato, come del resto molti osservatori avevano facilmente previsto, vista la sua “esperienza di servizi segreti”. Col solito compiaciuto provincialismo ci fanno sapere che l’uccisione del tunisino, presunto attentatore di Berlino, avrebbe procurato all’Italia molti apprezzamenti dalla Germania, con una pioggia di tweet di plauso.
Si aspettano invece con trepidazione i tweet del governo tedesco, della BCE e della Commissione Europea sull’operazione di salvataggio pubblico di Monte dei Paschi di Siena, peraltro “inspiegabilmente” contorta. Si aspetta anche la fine dell’operazione per capire chi lucrerà dal passaggio delle obbligazioni in azioni e poi delle stesse azioni in obbligazioni.
Sul quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore” il commentatore, dopo aver illustrato i termini dell’operazione MPS ed aver constatato il prevedibilissimo squagliamento dei tanto decantati “investitori privati”, si chiedeva con finta ingenuità come mai si sia atteso tanto per compiere un salvataggio pubblico che poteva essere attuato alle medesime condizioni sin dall’estate scorsa.
Ogni volta che sento Napolitano ho un moto di ammirazione per Ratzinger. Benedetto XVI si è dimesso, dopo di che si è rinchiuso nel suo silenzioso eremo, diventando quasi invisibile, e se qualche rarissima volta, ha parlato, è stato solo in appoggio al suo successore. Uno stile ed una correttezza che gli vanno riconosciuti. Napolitano, invece, esterna a getto continuo come una condotta dell’acqua scoppiata.
D’accordo: ha diritto di parola come tutti, in più è senatore ed ex presidente, il che lo rende autorevole, ma nessun ex presidente, neppure Cossiga o Saragat, furono afflitti da una simile incontinentia externandi. Ci vuole misura in tutto. Il che, peraltro, la dice lunga sulla neutralità con cui ha esercitato il suo mandato.
Veniamo al merito. Il 22 us Napolitano ha concesso una alluvionale intervista al Messaggero (o anche qui riassunta) sul referendum costituzionale che lo vede fra gli sconfitti, come egli stesso ammette. Il succo della ennesima, lunghissima e non necessaria esternazione è che la colpa della sconfitta è tutta di Renzi. Per la verità, più ancora che di Renzi è del popolo bue che ha votato male e che, su certe materie, dovrebbe votare solo quando a ferragosto cade la neve, ça va sans dire, come aveva già affermato a proposito della Brexit.
Lo scorso 22 dicembre con l’evacuazione delle milizie dai quartieri orientali della città si è chiusa la Battaglia di Aleppo. Una battaglia durata ben 53 mesi. Un lettore mediamente attento, che avesse voluto comprendere le ragioni e gli attori di quella battaglia e più in generale le cause e le conseguenze del conflitto siriano, avrebbe però trovato non poche difficoltà a farsi un’idea leggendo o ascoltando i servizi dei media mainstream. E non per caso. La guerra, è quasi banale sottolinearlo, è sempre atroce, e lo è ancor di più quando è combattuta fra civili che spesso vengono utilizzati da una parte o dall’altra come strumento di pressione o come scudi umani. Ma in una guerra anche l’informazione, è qui forse è un po’ meno banale ricordarlo, si trasforma in un campo di battaglia. Un terreno strategico in cui si gioca una partita non meno importante di quella combattuta con le armi vere e proprie. Siamo convinti, come il Che, che essere capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo sia una delle qualità più belle dei rivoluzionari. Se però si rimane esclusivamente nel campo delle emozioni, suscitate ad arte da chi oggi ne detiene il monopolio, il rischio che si corre è quello di restare eterne vittime di quel “terrorismo multimediale dell’indignazione” con cui l’opinione pubblica mondiale negli ultimi decenni è stata manipolata e piegata ad ogni avventura neocoloniale.
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La demolizione dei templi del neoliberismo,
sconsacrati e delegittimati ma ancora torreggianti sulle
nostre società e sulle nostre politiche, comincia dal pensiero
critico, capace di
risvegliare il mondo «dal sogno che esso sogna su se stesso».
In questo caso, dall’economia eterodossa, declinata in chiave
teorica
e storica da Sergio Cesaratto – nelle sue Sei lezioni di
economia. Conoscenza necessarie per capire la crisi più
lunga (e come
uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016 –, esponente
di una posizione non keynesiana né pikettiana né
«benicomunista», ma sraffiana, e quindi in ultima analisi
compatibile con il marxismo. Nella sua opera di decostruzione
delle logiche
mainstream vengono travolti i fondamenti del
neo-marginalismo dominante: ovvero, che il concetto chiave
dell’economia è la curva
di domanda di un bene; che esistono un tasso d’interesse
naturale, un tasso di disoccupazione naturale, un salario
naturale, e che devono essere
lasciati affermarsi; che c’è equilibrio e armonia fra capitale
e lavoro; che c’è relazione inversa fra salari e occupazione
(e quindi che la piena occupazione esige moderazione
salariale); che il sistema economico raggiunge da solo
l’equilibrio della piena occupazione
se non ci sono ostacoli alla flessibilità del mercato del
lavoro; che il risparmio viene prima degli investimenti; che
la moneta determina i
prezzi; che il nemico da battere è l’inflazione e che a tal
fine si devono implementare politiche deflattive e di
austerità, e
intanto si deve togliere il controllo della moneta alla
politica e conferirlo a una banca indipendente che stabilizza
il tasso
d’inflazione.
Un onore, come si dice. Parlare di
Luciano Gallino, a quasi un anno dalla sua scomparsa (8
novembre 2015) è un onore per me che l’ho conosciuto, anche se
tardi, il mio
primo incontro con lui è avvenuto circa vent’anni fa. Non sono
quindi un suo allievo nel senso classico e
universitario del
termine, ma sicuramente lo sono stato – e tale mi considero -
per le molte cose che ho imparato da lui e che Gallino mi ha
insegnato; lui che,
quindi, è stato per me sicuramente un maestro, e uso
deliberatamente questo termine ormai diventato fuori moda. Maestro
nel senso
di colui che parla, dialoga, suggerisce, propone, critica
anche e corregge, a sua volta apprezzando e incoraggiando le
strade, magari in parte
diverse, intraprese poi dall’allievo. Maestro nel
senso di avere indicato un percorso divenuto poi in gran parte
comune (pur con
alcune differenze), per avere condiviso riflessioni, analisi e
interpretazioni della realtà. Per me, Luciano Gallino è stato
questo
– come maestri per me sono stati, in modi e con
intensità e con forme diverse, Michel Foucault per quanto
riguarda le forme del
potere moderno, Günther Anders per le sue riflessioni sulla
tecnica, e la Scuola di Francoforte per l’analisi
dell’industria
culturale, ancora della tecnica come apparato e delle nuove
forme di alienazione e di omologazione.
Ma c’è anche altro, che mi lega a Gallino: la sua formazione sociologica era iniziata alla Olivetti, come tutti saprete, all’Ufficio studi e relazioni sociali.
1. Il segno distintivo
del
dominio
— Il debito pubblico mondiale è arrivato a 60mila miliardi di dollari. Una formidabile arma politica nelle mani della classe dominante
Secondo il dato aggiornato in tempo reale riportato nel “The global debt clock” presente sul sito dell’Economist [1], nel momento in cui viene scritto questo articolo, il debito pubblico mondiale ammonta a 60.295 miliardi di dollari americani, all’incirca 56.000 miliardi di euro.
L’aumento costante del contatore riesce meglio di qualsiasi parola o confronto numerico, a rendere le dimensioni del fenomeno e la percezione della sua incontrollabilità. Quasi un’entità sovrumana, una divinità non soggetta alle condizioni che regolano l’esistenza di noi mortali.
Tic, tac, tic, tac…e nel frattempo questo Molok ha ingrandito il suo corpo di altri 5 milioni di dollari.
Come per tutte le divinità, anche il debito pubblico ha una sua storia, che in gran parte risente di quello che pensano, sono e fanno i suoi profeti. Molta nebulosità viene sparsa nei suoi dintorni, da chi ha tutto l’interesse a farne materia da iniziati.
La Russia ottiene il cessate-il-fuoco in Siria, dividendo i "ribelli" in due tronconi: 1) quelli che hanno accettato l'accordo, con la Turchia come garante 2) quelli verso i quali continuerà la guerra (ISIS e Al Qaeda). Soprattutto per i "moderati" di Al Qaeda verranno ora guai seri: isolati dagli altri (evidentemente esausti e che staranno "in pace" garantiti dalla Turchia), saranno oggetto delle attenzioni della Russia e dell'esercito Siriano, che potrà concentrarsi su di loro, gli unici ancora militarmente forti. L'accordo riguarda la guerra in Siria, e non la guerra in Kurdistan, che (è ancora necessario dirlo?) sono due guerre diverse.
Chi sono i vincitori? La Russia, garante prima nell'area, e che protegge la Siria di Assad. La Turchia, che ha mollato Al Qaeda (cosa che tristemente la rende meglio degli occidentali) ed è garante degli altri gruppi ribelli a lei fedeli e vicini al suo confine.
Certamente sappiamo chi sono gli sconfitti: gli USA di Obama , Kerry e Clinton, gli Europei (Francia, UK, Germania): clamorosamente esclusi da ogni ruolo. Putin ha detto che Trump, se vorrà, potrà partecipare ai colloqui di pace una volta eletto. Per Obama e i suoi corifei, nessun ruolo: un sonoro ceffone al morente regime "democratico" statunitense, che proprio in questi giorni sta cercando - in maniera frenetica e francamente penosa - di sfruttare gli ultimi giorni di potere e di seminare delle "mine sociali" (sanzioni alla Russia, finto litigio con Israele dopo otto anni di appoggio), così come fece da noi il governo della RSI a ridosso dell'aprile 45.
Come chi ci segue sa bene, sono un critico severo del modo di pensare complottista, dell'ermeneutica dietrologica. Tra le diverse ragioni la prima è questa: che il chiodo fisso di scovare ciò che c'è dietro impedisce di vedere quel che c'è davanti, anche quando salta agli occhi, nella sua autoevidenza.
A volte non è infatti necessario scovare la verità alla spalle dell'apparenza. Non ce n'è bisogno allorché il tutto è nell'apparenza, quando l'essenza è la sua stessa esteriorità. E' il caso del discorso svolto l'altra sera, 31 dicembre, da Beppe Grillo.
In 15 minuti, ne ha dette talmente tante (e su altrettante ha taciuto) che ce n'è abbastanza per capire, ammesso che si voglia davvero capire, con COSA abbiamo a che fare, e dove la COSA pensi di andare a parare. Una cosa infatti noi abbiamo capito dal messaggio di Beppe Grillo, che questa COSA che è il Movimento 5 Stelle, essa per prima non sa dove voglia andare a parare, quale sia il suo telos.
E non lo sa perché questo fine ultimo semplicemente non c'è. E di un soggetto che non abbia uno scopo, non si può dire quale sia la sua essenza.
Un'esegesi puntuale del discorso di Beppe Grillo confermerebbe la prima impressione, che siamo alle prese con un patchwork di idee, di propositi, prima ancora che di posizioni politiche.
Come abbiamo letto sulla stampa, il 13 gennaio prossimo, il tribunale civile di Roma dovrà decidere su un ricorso presentato dall’avv. Venerando Monello per conto delle senatrici Monica Cirinnà e Stella Bianchi (entrambe del Pd) che solleva la questione della legittimità costituzionale del M5s e, di conseguenza, della sua ammissibilità alle elezioni di ogni ordine e grado.
Ciò in riferimento al cd “contratto” che i candidati del M5s dovrebbero sottoscrivere al momento dell’accettazione di candidatura, per il quale si impegnano a rispettare le indicazioni del M5s ed a sottoporre preventivamente le proprie delibere o proposte di delibera all’ufficio legale della Casaleggio associati pena una sanzione non inferiore a 150.000 euro. E pertanto si chiede di dichiarare ineleggibile la Raggi (il divieto di mandato imperativo è sancito anche dall’art 3 comma 3 del regolamento del Comune di Roma) sin dal momento della candidatura.
Ovviamente questo sarebbe solo la premessa di un processo più generale che, per successivi passaggi, dovrebbe portare allo scioglimento del M5s o, quantomeno alla sua esclusione dalle elezioni (il che, per un movimento che non è organizzato sul territorio, sarebbe sostanzialmente la stessa cosa).
Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd e autorevole rappresentante della minoranza del partito, ha diffuso un suo intervento dal titolo "Il centrosinistra deve dare vita a una nuova piattaforma politica. La via seguita finora è sbagliata", che conclude auspicando una discussione. Con questa "lettera aperta" - da semplice cittadino - accolgo l'invito.
* * * *
Caro Bersani,
ho letto con attenzione il tuo intervento che propone una nuova piattaforma politica e vorrei fare alcune osservazioni in proposito, come cittadino che alle prossime elezioni vorrebbe poter votare per un partito orientato a sinistra.
Nonostante che ci siano varie cose che non condivido, considero questo intervento una base di discussione, perché mi sembra ispirato a valori di fondo che sono quelli tradizionali della sinistra, quelli che la finta sinistra dei "nuovisti" considera sorpassati. Ma se quei valori non poggiano su una analisi corretta di quello che è accaduto negli ultimi decenni, non ne può scaturire una strategia adeguata a realizzarli.
Da quello che scrivi emerge che consideri la globalizzazione un fenomeno positivo - perché ha fatto uscire dalla miseria centinaia di milioni di persone - mentre sono negative le "scorie" che ci lascia quello che definisci il suo "ripiegamento".
Questo non è un articolo di fine o inizio d’anno, retoricamente ricco di buoni propositi per il futuro, eccetera, eccetera. Questo è (o vorrebbe essere) un pezzo ad alto tasso di politica, provando a riflettere ancora sulla crisi economica e sociale, sul referendum del 4 dicembre ma anche facendo una chiosa al dibattito sul populismo sviluppatosi su alfabeta2, dopo l’importante libro di Carlo Formenti su La variante populista.
Lo facciamo recuperando tre concetti importanti ma da tempo abbandonati dalla politica (cioè da tutti noi, noi essendo la polis, noi essendo il demos) e in particolare dalla sinistra (altro concetto dimenticato, ma assolutamente da recuperare e riattivare): idea, speranza e responsabilità. Concetti che possono forse permetterci di uscire da questa crisi. Che è economica ma soprattutto politica e antropologica, essendo il compimento in forma necessariamente distopica dell’utopia surreale di von Hayek, di Röpke e di Friedman (meglio: di capitalismo e tecnica). Concetti e buone pratiche – l’idea, la speranza e la responsabilità – che possono forse permetterci di evitare di cadere nel populismo (anche se magari di sinistra), nella nostra ferma convinzione che il populismo sia solo contro e mai per, che costituisca forse (ma solo in apparenza) un popolo in sé ma non per sé e che giochi troppo con la psicologia delle folle secondo Le Bon.
Gli attentati
terroristici di Capodanno a
Istanbul, dove sono state uccise trentanove persone, e del 19
dicembre a Ankara, dove è stato ucciso l’ambasciatore russo
Andrey Karlov,
e a Berlino, dove sono state uccise dodici persone, per quanto
possano essere diversi, hanno qualcosa che li lega. Il
collegamento è
rappresentato da quanto è accaduto in Siria. Qui, la caduta di
Aleppo non ha rappresentato soltanto la caduta della
principale città
siriana nelle mani del fronte jihadista che combatte il
presidente siriano Assad.
Più in generale, rappresenta la sconfitta delle forze jihadiste in Siria, che ora si vendicano nei confronti di chi li aveva appoggiati, cercando di utilizzarli ai propri fini, per poi abbandonarli. Non si tratta di una novità assoluta. L’ex agente dei servizi segreti militari italiani, Nino Arconte, ha rivelato, come ho riportato nel mio libro “La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico”, che alla radice dell’odio contro gli Usa e l’Europa fu il “tradimento” dei governi occidentali, che avevano utilizzato i fondamentalisti islamici contro i governi laici del Medio-Oriente negli anni ’80.
In realtà, la caduta di Aleppo non segna soltanto la sconfitta strategica del fronte jihadista. La guerra civile si è, sin dall’inizio, trasformata in una miniguerra mondiale. Essa è stata il terreno di scontro tra potenze maggiori, cioè tra Usa e Francia, da una parte, e Russia e, sebbene in modo indiretto, Cina, dall’altra.
L'invocazione del direttore del Sole 24 Ore al fantasmatico ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan
Che nei piani alti del potere
economico vi
fosse una certa maretta si sapeva. Adesso però le acque si
fanno agitate, e dalla maretta sembra che si stia per passare
ai marosi.
Il 30 dicembre scorso il direttore del quotidiano di Confindustria, Roberto Napoletano, ha deciso di mandare di traverso il cenone di San Silvestro di Pier Carlo Padoan. Dopo averlo ospitato, due giorni prima, nell'accogliente sede del giornale per un'intervista di ben 3 pagine, Napoletano ha deciso di dirla tutta: se veramente esistete (come governo), se davvero esisti (come ministro dell'Economia) cosa aspetti (e/o aspettate) a darcene prova?
Prima di dedicarci al merito del grido d'allarme di Napoletano, facciamo un passo indietro per dare uno sguardo all'intervista di Padoan. Tre pagine abbiamo detto, ma tre pagine di assoluta banalità. Gli altri media che se ne sono occupati hanno messo in rilievo il riferimento del ministro all'«opacità» della decisione della Bce su Mps. Sai che coraggio!
Il bello, poi, è che questa denuncia di opacità è preceduta da mille rassicurazioni sul fatto che il governo italiano nulla farà per reagire all'affronto subito. All'intervistatore che gli chiede se vi sia intenzione di contestare formalmente la richiesta di ricapitalizzazione giunta da Francoforte, così inizia la risposta di Padoan:
La storia dei modi diversi in cui
viene estorto
all’operaio il lavoro
produttivo, la storia cioè delle varie
forme di produzione del plusvalore,
è la storia della
società capitalistica
dal punto di vista operaio
Mario Tronti, Operai e capitale
Nella storia del Movimento Operaio, la fabbrica ha avuto un ruolo fondamentale e per certi versi epico nel coagulare sia lo sfruttamento degli operai, sia la lotta di questi ultimi contro la loro condizione. Per questo l’apparente scomparsa della fabbrica quale punto avanzato del capitalismo nel mondo così detto sviluppato è stata spesso interpretata come una vera e propria sparizione della classe operaia quale blocco importante della società. Se questa interpretazione segue la realtà della tendenza industriale degli ultimi quaranta anni, ovvero il passaggio dall’egemonia del lavoro materiale a quella del lavoro immateriale, ha anche dato luogo ad una visione della fabbrica come spazio chiuso in se stesso, come luogo specifico della produzione di merci materiali.
Dal sito Airwars, apprendo alcuni dati interessanti sulla campagna di bombardamenti aerei contro il cosiddetto Stato Islamico.
La campagna è in corso da 872 giorni, sono stati buttati quasi 63.000 bombe e missili in oltre 17.000 azioni e si stimano almeno 2.000 civili uccisi. Delle vittime militari non ci viene detto nulla, anche se sarebbero quelle più utili per valutare l’efficacia della campagna.
Morale della favola: lo “Stato Islamico” è ancora saldamente in piedi.
La risposta dello “Stato Islamico” consiste in una serie di azioni, per la maggior parte in Medio Oriente e di cui non ci occuperemo qui; ma anche alcune in “Occidente”.
E’ difficile fare un confronto preciso, comunque nel 2015, secondo l’Europol, nell’Unione Europea, ci sono stati 17 attentati “jihadisti” (riusciti o falliti) con 150 vittime.
Per avere un’idea, lo stesso anno 13,286 persone persero la vita a causa di armi da fuoco nei soli Stati Uniti. E anche se le due cifre non sono perfettamente paragonabili, colpisce l’elegante sproporzione degli attacchi: 17 dell’Isis, 17.000 contro l’Isis.
Argomentazioni difensive quando si parla di voucher:
1. Li hanno fatti i governi precedenti
2. Riguardano una fetta minima di lavoratori
3. Sono nati per far emergere il lavoro nero
4. Quello che conta è punire gli abusi
5. Possono essere migliorati
6. E una volta che li avete aboliti cosa cambia?
1. "Li hanno fatti i governi precedenti".
Sì, in buona parte li hanno fatti i governi precedenti quello di Renzi. Il quale ne ha tuttavia alzato del 40 per cento il tetto, favorendone l'espansione. In ogni caso se si vuol bene al Paese più che alla propria corrente, è poco interessante la suddivisione percentuale di responsabilità tra Sacconi, Monti, Fornero, Letta, Poletti e Renzi.
Il 2016 si chiude nella medesima atmosfera con la quale era iniziato, con una clamorosa bugia della Cnn, costruita a sua volta su una menzogna del clan Clinton Obama, ovvero la presunta intromissione di Putin nella campagna elettorale americana, facendo venire alla luce il verminaio di Hillary: nessuna scuola anglo americana è stata chiusa a Mosca ad onta del fatto che dovrebbero essere chiuse dovunque, a prescindere, come veicolo di infezione imperiale. Né Putin ha espulso americani quale ritorsione per la cacciata di diplomatici russi attuata dal peggior presidente Usa di due secoli, un atto inconsulto e stupido perpetrato al solo scopo di dare credito a una bugia che lui stesso e il suo clan si erano inventati e che persino l’intelligence è restia ad avallare. Anzi il leader russo li ha invitati sulla piazza rossa per festeggiare il capodanno. Ma naturalmente tutta l’informazione occidentale, quella supponente e che fa finta di controllare le notizie, si è bevuta fino in fondo il calice dell’ultima balla dell’anno: ha trasformato in realtà una pura invenzione.
Tuttavia anche se inizio e fine presentano le medesime stigmate, negli ultimi 365 giorni molto è cambiato rispetto all’anno precedente facendo del 2016 un anno di passaggio nel quale il dominio narrativo del pensiero unico è stato messo seriamente in crisi: la Brexit, la vittoria di Trump, il No alla riforma costituzionale in Italia, i guai della della Merkel in Germania,
Il passaggio di fine d’anno è una buona occasione per fare il punto sulla situazione generata dall’ordalia del 4 dicembre. Quali prospettive si sono aperte, quali problemi restano insoluti.
La bocciatura della controriforma costituzionale è stata al tempo stesso sottovalutata e sopravvalutata. Paradossalmente, per la stessa ragione. Se ne è festeggiata la conseguenza immediata, la caduta del primo governo Renzi. Ma si è prontamente sorvolato sui rischi capitali che la Repubblica ha corso, disperdendo la lezione che occorrerebbe trarre. Ci si è fermati giusto sul ciglio di un burrone. Non è la prima volta in questi vent’anni che il paese si consegna all’arbitrio di un ras, sperimentando l’inefficienza dei propri anticorpi.
Che sin qui sia andata bene (nel senso che lo Stato costituzionale sopravvive, almeno in linea di principio) non toglie che si sia corso fino all’ultimo istante un grave pericolo. Il referendum avrebbe potuto essere il battesimo di un incubo perfetto. Avesse vinto il Sì, ci sarebbero toccati cinque anni di incontenibile protagonismo eversivo di un personaggio al quale per anni è stato permesso di stravolgere principi basici dell’ordinamento: non ce n’è abbastanza per meditare su tutta la vicenda?
Per contro non è vero che, vinto il referendum, la nottata sia passata e ci attendano giornate radiose.
Il 2017 è l'anno del
centenario della Rivoluzione di Ottobre. Un anniversario che
le forze comuniste del mondo si apprestano a ricordare. Ma le
commemorazioni si
svolgeranno in un mondo che è attraversato da una profonda
crisi economica di cui ancora non si intravedono le soluzioni
e le possibili vie di
uscita.
Un mondo in cui le forme di resistenza allo sviluppo e all'incremento dello sfruttamento dei lavoratori sono molteplici ma faticano a diventare teoria di un diverso modo di produrre e vivere. Proprio 10 anni fa nel 2007 negli USA si cominciano a vedere gli effetti di quella che scoppierà ufficialmente nel 2008 con il fallimento della banca d'affari Lehman Brothers e che sarà chiamata da tutti la crisi dei titoli subprime. Quel fallimento venne affrontato negli USA attraverso un salvataggio gestito dallo Stato ma la crisi si propagò in tempi rapidissimi in tutto il continente colpendo varie zone del mondo e interessando (in Europa) soprattutto i paesi più deboli (Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia e Italia).
La crisi è stata definita come una crisi finanziaria basandosi sul fatto che era cominciata come tale riguardando l'esplosione della bolla finanziaria di alcune banche importantissime a livello globale. In questi anni molti autori ne hanno studiato le cause e hanno partorito ricette per il suo superamento. Fatto sta che a distanza di quasi un decennio la crisi continua a persistere nonostante le ricette che hanno tentato di arginarla e di sconfiggerla.
Introduzione
Non tutte le riflessioni pubblicate su questo “diario di ricerca” hanno lo stesso peso. Questa che segue, ad esempio, è stata tormentata e riscritta e corretta più volte. Ho preferito pubblicarla in un’unica soluzione anche se è un po’ più lunga del solito. Concettualizza vari enti del pensiero quali la civiltà, la società, i modi di produzione, le forme politiche e le immagini di mondo in un unico ente detto “modo di stare al mondo”. Questo modo s’intende essere un sistema adattivo che ha una sua origine ed una parabola che lo porta a dover lasciare il posto ad una sua successiva versione. Come ogni sistema, ha un ordinatore, un concetto primo che ordina (dà ordine dando disposizioni) e del modo di stare la mondo moderno, s’individua questo ordinatore nel principio di disconnessione. Se il moderno che va a morire si è centrato sulla disconnessione, il complesso che va a venire dovrebbe basarsi sulla ri-connessione? Cominciando da dove?
* * * *
L’immagine è quella della metropolitana o della sala d’aspetto, individui con capo chino su qualche device che li collega al “loro” mondo che non è mai nel qui ed ora ma in un altrove. Non ci si connette col proprio intorno che è un aggregato di disconnessi, ci si connette con altri o altro. Non ci si connette nelle quattro dimensioni ma solo attraverso quella dello scambio di informazione e non lo si fa secondo i complessi codici dell’interrelazione umana ma attraverso quelli delle strettoie codificate della mediazione elettronica.
Mentre sul fronte delle politiche
economico-fiscali (e non a caso, visto che dovremo presto
pensare alle coperture e ai "piani di rientro") domina la
"questione bancaria", cioè
l'insolvenza posta a carico dei risparmiatori-contribuenti in
(più) momenti, sostanzialmente inscindibili (e lo vedremo nel
2017-2018),
l'attività parlamentare e "partitica" appare in una sorta
di stasi che ricorda molto la quiete prima della tempesta.
Formalmente, l'attività politica sembra in stallo perché vige la parola d'ordine che occorre aspettare un paio di pronunciamenti della Corte costituzionale.
Uno è quello, atteso per il 24 gennaio, relativo alla "costituzionalità" della legge elettorale, c.d. Italicum.
L'altro, ancor prima (l'11 gennaio), e ancor più rilevante in termini di valori costituzionalì, - in un Repubblica fondata sul lavoro (art.1) obbligata ad attivarsi per rendere "effettivo" il diritto relativo, con politiche economiche di pieno impiego (artt.3 e 4, comma 2, Cost. in relazione all'intera Costituzione "economica")-, è quello sull'ammissibiltà dei quesiti referendari sul jobs act.
Difficilmente Berlusconi toppa una previsione politica, visto che in gran parte contribuisce a determinarle. Motivo in più per prendere sul serio i pronostici apparsi ieri sul Corriere e che indicano il futuro politico italiano nel breve e nel lungo periodo. Nel breve periodo, l’ex premier sembra certo: “molto difficilmente si voterà prima dell’autunno”. E’ una previsione facile ma non scontata. Facile per vari motivi. Il primo, nessun parlamentare si autolicenzierà prima di raggiungere l’agognato vitalizio. Le disparate alchimie politiche non tengono in dovuto conto l’aspetto più materiale dell’intera vicenda, quello per cui alla fine la sfiducia ad un governo la danno i parlamentari, non i dirigenti di partito. E questi puntano alla pensione garantita.
Il secondo motivo è che, per come stanno messi i partiti in questo momento, gli unici a voler davvero votare sono Lega Nord e M5S. Il Pd ha bisogno di tempo per riorganizzarsi, tamponando la disillusione successiva al 4 dicembre per ricostruirsi un appeal elettorale al momento incerto. Forza Italia ha invece bisogno di organizzarsi daccapo, decidendo alleanze e leader. Il terzo motivo è che non c’è una legge elettorale, e tutto l’arco parlamentare sta escogitando la formula adatta a sconfiggere il movimento grillino. In assenza di tale formula, e dopo le esperienze della Brexit, di Trump e del referendum, nessuno ha voglia di giocare ancora col fuoco.
Massimo D'Alema è ricomparso, nientepopodimeno che per "rifondare la sinistra" italica. Lo ha fatto con un'analisi dal titolo impegnativo e vagamente ammiccante al lessico più familiare agli ex piccisti ("Fondamenti per un programma della sinistra in Europa"), ma senza discostarsi un millimetro dal quadro delle "compatibilità" disegnate dall'Unioe Europea neoliberista.
Sulla credibilità di questa impostazione, che può sollevare speranze solo in chi ha smesso definitivamente di pensare autonomamente (o come soggetto politico dotato di autonomia), lasciamo volentieri la parola a Stefano G. Azzarà, urticante come giusto. Diciamo…
Buoni consigli e cattivo esempio: un'autocritica fittizia che non muove a pietà
La recente "autocritica" di Massimo D'Alema non può essere ritenuta credibile per tre diverse ragioni, a mio avviso.
Anzitutto, perché è assai sommessa e parziale e evita accuratamente di ricostruire la propria genealogia della colpa, limitandosi a pochi titoli frettolosi. Sotto questo aspetto ricorda le autocritiche pelose per le quali andava famoso l'onorevole Bertinotti nei suoi anni ruggenti di arrampicatore sociale: "sono stato troppo buono".
In secondo luogo non è credibile né creduta perché è chi la pronuncia che ha esaurito completamente il proprio capitale di credibilità quando si è trovato di fronte alla prova della storia.
Alla vigilia del passaggio di poteri alla Casa Bianca, il 2017 si apre con la strage terroristica in Turchia, due settimane dopo l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara, compiuto il giorno prima dell’incontro a Mosca tra Russia, Iran e Turchia per un accordo politico sulla Siria. Incontro da cui erano esclusi gli Stati uniti. Impegnati, negli ultimi giorni dell’amministrazione Obama, a creare la massima tensione possibile con la Russia, accusata addirittura di aver sovvertito, con i suoi «maligni» hacker e agenti segreti, l’esito delle elezioni presidenziali che avrebbe dovuto vincere Hillary Clinton. Ciò avrebbe assicurato la prosecuzione della strategia neocon, di cui la Clinton è stata artefice durante l’amministrazione Obama.
Questa termina all’insegna del fallimento dei principali obiettivi strategici: la Russia, messa alle corde dalla nuova guerra fredda scatenata col putsch in Ucraina e dalle conseguenti sanzioni, ha colto Washington di sorpresa intervenendo militarmente a sostegno di Damasco. Ciò ha impedito che lo Stato siriano fosse smantellato come quello libico e ha permesso alle forze governative di liberare vaste aree controllate per anni da Isis, Al Nusra e altri movimenti terroristici funzionali alla strategia Usa/Nato. Riforniti di armi, pagate con miliardi di dollari da Arabia Saudita e altre monarchie, attraverso una rete internazionale della Cia (documentata dal New York Times nel marzo 2013) che le faceva arrivare in Siria attraverso la Turchia, avamposto Nato nella regione.
A quanto pare, dopo il M5s, Sel, il Pci (già Partito dei comunisti italiani) ora anche Berlusconi si pronuncia a favore del reddito di cittadinanza. Tanta convergenza appare un po’ sospetta, vi pare? Magari varrebbe la pena di chiedersi se tutti intendano la stessa cosa. Tutti fanno riferimento “all’Europa” ma in Europa esistono sistemi abbastanza diversi e l’indicazione chiarisce poco. Qui non vogliamo passare in rassegna le diverse soluzioni adottate, ci limiteremo solo ad alcune osservazioni generali.
Partiamo da una premessa: se si sta pensando ad un modello una tantum per venire incontro alle situazioni di sofferenza sociale esistenti, ad esempio un assegno di 5-600 euro per 18 mesi, anche allo scopo di riattivare il mercato interno e permettere a molte aziende di ripartire ed assumere, non avremmo nulla da eccepire, salvo fare i conti per capire dove prendiamo i soldi (ovviamente distraendoli da altre destinazioni attuali). Sin qui tutto bene, ma questo non è il reddito di cittadinanza, reddito garantito o comunque lo si voglia chiamare. Con questa espressione si intende un sussidio stabilmente concesso a chi non raggiunga un certo livello ritenuto necessario alla sopravvivenza. In alcuni casi il contributo è concesso per un certo periodo di tempo (in genere uno o due anni), in altri non prevede particolari limiti di tempo, ma il beneficiario deve accettare le offerte di lavoro che gli vengono fatte (magari con la facoltà di rifiutare le prime due offerte).
Come la mettiamo con i giornali e con le tv che hanno diffuso, con toni epici, una bufala colossale? Seguiamo ancora la logica di Pitruzzella: che facciamo, presidente? Chiudiamo Repubblica, Corriere, i tg Rai eccetera?
Ogni volta che sento qualcuno proporre “agenzie indipendenti” per far rimuovere “false notizie” sul web, rabbrividisco. Tanto più in un’epoca in cui l’establishment sta tentando di accreditare la necessità di censure contro chi pubblica “bufale” e “post-verità”. Il riferimento più immediato è ovviamente alla significativa dichiarazione rilasciata al Financial Times, dal presidente dell’antitrust italiano, Giovanni Pitruzzella, subito denunciata da Beppe Grillo e da un esperto di comunicazione avveduto come Vladimiro Giacché, che vede giustamente rischi di controlli in stile “1984” di Orwell.
Ma la tendenza non è solo italiana; è sempre più forte in molti Paesi occidentali, come la Francia, come gli Stati Uniti. E’ tutto uno strepitare contro la disinformazione online, senza nemmeno una parola contro quello che invece rappresenta il vero problema: la disinformazione autorizzata ovvero le tecniche di spin doctoring che permettono di manipolare notizie e coscienze salvaguardando la forma; perché vengono diffuse dalle stesse istituzioni; approfittando – anzi, abusando – della loro autorevolezza.
Da una quarantina d'anni, il dibattito marxista sulle origini del capitalismo sembra oscillare fra due posizioni antagoniste. Da una parte, le elaborazioni delle teorie del sistema-mondo (Wallerstein, Arrighi, Gunder Frank), dall'altra, quelle del marxismo politico (Brenner, Meiksins Wood, Teschke). A fronte di questa eccessiva polarizzazione del dibattito sull'emergere del capitalismo, Benjamin Bürbaumer mette in evidenza il contributo della teoria dello sviluppo ineguale e combinato (SIC). Lungi dall'essere solamente un'alternativa teorica alle due prime correnti, l'approccio svolto dal SIC apre un vasto cantiere teorico e politico, che mette in gioco la pluralità delle assi di oppressione (genere, razza, imperialismo, ecologia) nella genesi della modernità. Rifuggendo da ogni eurocentrismo e da ogni terzomondismo, lo sviluppo ineguale si rivela un concetto centrale per pensare la dialettica spaziale attraverso la storia, e per riorientare la riflessione strategica anticapitalista
Il dibattito in seno al marxismo
sulle origini
del capitalismo rimanda in larga misura ad una valutazione
dell'evoluzione del pensiero di Marx. Tuttavia, questo
dibattito è ugualmente
determinato dal contesto concreto in cui ha luogo. Ne
L'Ideologia Tedesca e nel Manifesto del Partito Comunista, il
giovane Marx ha presupposto le
origini del capitalismo più che spiegarle [*1]. Il progresso
tecnologico vi gioca un
ruolo centrale in quanto «il regime feudale della proprietà»
viene presentato come carico di «catene» che ostacolano lo
sviluppo delle forze produttive, e dichiara che andrà in pezzi
per questa ragione [*2].
Al contrario, autori come Claudio Katz [*3] ed Ellen
Meiksins Wood sottolineano come il
Marx tardivo dei Grundrisse e del Capitale ponga l'accento
sulle classi e sulle loro lotte, cose che è particolarmente
ben illustrata dalla
sezione sull'accumulazione nel I volume del Capitale. Questo
testo mostra che la questione della proprietà dei mezzi di
produzione si trova al
cuore del capitalismo. Ciò non si riduce ad una semplice
espansione quantitativa del commercio in quanto «al fondo del
sistema
capitalista, c'è la separazione radicale del produttore dai
mezzi di produzione» [*4].
Quaderno Nr. 1/2017
Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Abbiamo
più volte sottolineato, nei nostri precedenti quaderni, che
stiamo attraversando una situazione nella quale prevale uno
stato di confusione
sociale generale. La maggior parte di noi non sa infatti che
cosa sta succedendo, e anche quando ripete continuamente che
“siamo in
crisi”, ne ha un’idea vaga, come quelle dei nostri lontani
antenati sui terremoti e sulle epidemie. Né possiamo far
affidamento sui responsabili della cosa pubblica che, spesso
in coro con i loro stessi oppositori, si ostinano a ripetere
vecchi luoghi comuni validi
in passato . In molti rinunciano così a cercare un senso della
situazione, o si appoggiano sull’ipotesi opportunistica che
tutto dipenda
da comportamenti devianti di individui malvagi, che, cercando
il loro tornaconto, causano un danno agli altri.
Tuttavia questa interpretazione costituisce l’ingenua reazione di chi non sa nulla di come intervengono normalmente le trasformazioni sociali. Coltivando l’erronea convinzione che gli esseri umani sovrastino strutturalmente la propria realtà, credono che normalmente sussista il potere di determinarne l’evoluzione, conformandola alla propria volontà. E se la loro azione non produce gli effetti sperati, ciò può accadere solo perché la volontà di qualcun altro imprime alle cose quella tendenza di cui si soffre. Ora, la volontà è senz’altro una condizione del cambiamento.
“I due massimi ostacoli alla
democrazia negli Usa sono,
primo, la diffusa illusione tra i poveri di vivere in una
democrazia e, secondo, il cronico terrore dei ricchi che
la si possa
realizzare”. (Edward Dowling)
“La verità deve essere ripetuta costantemente , poiché il Falso viene predicato senza posa. E non da pochi, ma da moltitudini. Nella stampa e nelle enciclopedie, nelle scuole e università, il Falso domina e si sente felice e a suo agio nella consapevolezza di avere la maggioranza dalla sua”. (Wolfgang von Goethe)
“Essere ignoranti della propria ignoranza è la malattia dell’ignorante”. (Amos Bronson Alcott)
“Demagogo è uno che
predica
dottrine che sa
essere false a persone che sa essere idioti”.
(H.L. Mencken)
Occhio a chi date ragione
Al superbarbafinta Minniti, passato per stretta logica da fiduciario dei servizi segreti Usa al ministero degli Interni, è bastato che un ragazzo tunisino, pensando alla suocera o al portiere che gli ha parato un rigore, scrivesse “non so se fare il bravo o fare una strage” e avesse nel telefonino un pensiero negativo su Netaniahu, per definirlo terrorista dell’Isis, acchiapparlo, sbatterlo su un aereo e rimandarlo tra i Fratelli Musulmani che governano il suo paese.
La strage di Capodanno nella discoteca di Istanbul, arrivata pochi giorni dopo l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara, dimostra con la brutale efficacia del sangue che certe partite è assai più facile aprirle che chiuderle. E Recep Erdogan, giunto all’apice della parabola politica, leader di una Turchia che peraltro aveva tratto enormi benefici di suoi primi dieci anni di governo, di partite ne aveva aperte molte.
Oltre che nell’eterno braccio di ferro con i curdi, si era impegnato in uno scontro con Israele, nel testa e testa con l’Arabia Saudita per il predominio nel Medio Oriente sunnita, nella liquidazione dell’ex amico siriano Bashar al-Assad. Decisione, quest’ultima, a sua volta gravida di conseguenze: l’impegno militare, l’urto con la Russia (fino a quel momento partner privilegiato e fruttuoso per gli scambi economici), la scomoda alleanza di fatto con i jihadisti, da Erdogan coccolati e riforniti. Per non parlare, infine, del fronte interno, di quella Turchia di cui Erdogan non voleva più esser solo la guida ma il padrone, forse il sovrano.
Come un apprendista stregone, Erdogan ha dovuto presto fare i conti con i propri eccessi, pagando un prezzo assai alto. Il golpe di luglio, con cui i militari volevano estrometterlo, gli ha consentito di stringere la presa sul potere attraverso le epurazioni ma ha minato la sua credibilità internazionale e l’ha costretto a rivedere le alleanze.
La credibilità dei media tradizionali è a pezzi. Si invoca la censura per ridargli potere. Siamo sicuri che sia una buona idea limitare libertà politiche come quella di espressione proprio mentre, grazie all'austerity imposta da Bruxelles, in tutta Europa la destra guadagna consenso?
Cominciamo da qualche dato: secondo il sito infostat.bancaditalia.it il tasso d’interesse sui Bot a 3 mesi nel settembre del 1992 era al 18,05%; in ottobre scese al 15,51%, e un anno dopo (settembre 1993) all’8,86%: un calo di quasi 10 punti in un anno. Il Corriere della Sera del 16 maggio 2012, in un articolo a firma Marvelli e Pagliuca, evoca “il ricordo del 1992, quando il nostro Paese venne costretto ad abbandonare lo Sme”. Avrà ragione la Banca d’Italia, secondo cui dopo la crisi del 1992 i tassi scesero rapidamente, o avrà ragione il Corriere, secondo cui “nel periodo successivo i Bot andarono al 17%”? Secondo il sito dati.istat.it il tasso di disoccupazione era al 6,4% nel 1977 e al 13,5% nel primo trimestre del 2014.
Il 2 aprile 2014 il Corriere della Sera titola in prima pagina: “Tanti disoccupati come nel 1977”. Avrà ragione l’Istat, secondo cui nel 1977 il tasso di disoccupazione era meno della metà che nel 2014, o il Corriere ritenendolo uguale a quello del 2014? Secondo il sito www.imf.org fra il 1980 e il 2015 il tasso di crescita delle esportazioni italiane è stato in media annua del 3,7%, e tale è stato in media anche fra 2005 e 2008.
1. La ricerca del principio primo
Uno dei primi temi affrontati dalla filosofia occidentale fu la ricerca di un elemento unificante, di un “principio primo”, o arché, che costituisse l’origine e il fondamento dei fenomeni variegati e delle sostanze e forme diverse che si presentano in natura. Talete (VII-VI sec. a. C.) indicò il principio primo nell’acqua. Altri filosofi identificarono l’arché in sostanze diverse, dall’aria al fuoco. Pitagora indicò l’arché in un principio astratto, il numero. Se a ‘numero’ si sostituisce ‘informazione’ si passa agevolmente dalla filosofia pitagorica alla filosofia digitale. La ricerca dell’arché continua anche oggi: i fisici si sforzano di dare un quadro unitario della realtà sia cercando la grande unificazione delle quattro forze fondamentali sia cercando di costruire le teorie del tutto. È forse un’esigenza di carattere psicologico che si perpetua nei secoli e obbedisce al nostro bisogno di esorcizzare la complessità del reale riducendola a una congetturale semplicità soggiacente: si tratta di una supposizione di carattere non fisico, bensì metafisico.
2. Il computer macchina filosofica
Il calcolatore elettronico ha inaugurato un’era nuova sotto molti profili.
Nel suo articolo sul Corriere della Sera di oggi il presidente dell'Antitrust Giovanni Pitruzzella torna sulla questione della Rete che «aumenta notevolmente le possibilità che siano diffuse notizie false e bufale», essendo Internet «un sistema decentralizzato in cui chiunque può diventare produttore di informazione». Questo, sostiene Pitruzzella, danneggia i cittadini nel loro «diritto a ricevere un'informazione corretta». Di qui la sua idea di una «istituzione specializzata terza e indipendente che rimuova in tempi rapidi i contenuti che sono palesemente falsi e illegali».
A mio avviso, questa impostazione della questione parte da un grave errore, da cui discendono quelli successivi e la drammatica conclusione, cioè la proposta di una sorta di Tribunale della Verità con poteri censori.
L'errore di partenza è pensare che, a causa di Internet, i cittadini oggi siano vittime passive di notizie false più di prima: più cioé di quando l'informazione non era decentralizzata e pochi soggetti (governi ed editori privati) avevano il controllo dell'informazione.
Nell'era dell'informazione esclusivista le notizie - comprese quelle false, che sono sempre state abbondanti e strumentali agli interessi dei governi o dei proprietari dei media - godevano infatti di una forza di impatto e di una capacità persuasiva molto maggiore di qualsiasi bufala online attuale.
La campagna contro le cosiddette bufale della Rete è la reazione in malafede di tutti i poteri politici, economici, militari, dell'informazione, che temono di perdere il loro monopolio della verità. Certo sulla rete viaggia di tutto, anche invenzioni e fesserie, ma nessuna di queste "bufale" ha mai superato il controllo e la contestazione della rete stessa. Perché nella rete ci sono milioni di persone in carne ed ossa che contribuiscono alla sua funzione critica, a volte pagando di persona proprio per questo.
Al contrario le falsità del palazzo sono sempre state sostenute ed amplificate dal sistema dei mass media e dagli intellettuali complici, con danni drammatici per tutti noi. Ricordate il segretario di Stato di Bush, Colin Powell, mostrare all'ONU, nel febbraio 2003, la fiala che avrebbe dovuto contenere le prove delle armi chimiche di Saddam Hussein? Era un falso voluto dal governo USA per giustificare l'invasione dell'Iraq. Tutti i governi occidentali, tutti i massmedia, tutti i commentatori dei grandi giornali, fecero propria questa colossale menzogna e gli USA scatenarono quella guerra che ancora oggi fa strage ovunque, da ultimo nelle discoteche di Istanbul.
Per anni il regime della grande finanza internazionale ha potuto presentare i suoi più sfacciati interessi e affari come una necessità comune. E questo grazie a quella stessa propaganda che esaltava la guerra come strumento di esportazione della democrazia.
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Comprendere gli obiettivi e le logiche che accompagnano l’espansione di nazioni o imperi è sempre di fondamentale importanza per poter trarre conclusioni importanti per il futuro
Nei seguenti quattro capitoli
intendo gettare le basi per una facile comprensione, molto
approfondita, dei meccanismi che muovono le grandi potenze.
Per riuscirvi occorre
analizzare le teorie geopolitiche che concorrono, da più di un
secolo, a modellare le relazioni tra Washington e le altre
potenze mondiali. In
secondo luogo è importante verificare come i principali
oppositori geopolitici di Washington (Cina, Russia e Iran) si
stiano organizzando da
anni per porre un argine all’azione distruttiva di Washington.
Infine, è importante osservare il cambiamento epocale nella
dottrina di
politica estera americana negli ultimi vent’anni e soprattutto
come la nuova amministrazione Trump intenda cambiare
corso e definire nuovamente
priorità e obiettivi.
Il primo capitolo si concentrerà quindi sull'ordine internazionale, la globalizzazione, le teorie geopolitiche, la loro traduzione in concetti moderni e come sia mutata la nozione con cui si esercita il controllo su una nazione straniera.
Prima di affrontare le teorie geopolitiche che regolano l’ordine internazionale, è importante capire gli effetti della globalizzazione e il mutamento dell’ordine internazionale, conseguenze dirette di una Strategia antica degli Stati Uniti che mira a controllare ogni aspetto del pianeta con mezzi economici, politici, culturali e militari.
Con questo articolo si ripercorrere una tappa fondamentale della storia della storiografia moderna: la reazione contro il positivismo del tardo XIX sec. fino all’elaborazione di nuovi metodi e nuovi oggetti della ricerca storica novecentesca. Si propone un’analisi del dibattito storiografico francese novecentesco, dalla storia totale di Marc Bloch e Lucien Febvre alle riflessioni di Le Goff e altri storici sulla antropologia storica e sulla, tanto celebrata quanto criticata, dilatazione dell’ambito della ricerca storica. Si sostiene la necessità di riscoprire quegli strumenti intellettuali di analisi e di sintesi, ravvisabili certamente nell’opera di Bloch, coi quali elaborare non solo nuove sintesi della conoscenza storica, ma anche una interpretazione complessiva delle nostre società, che è condizione necessaria per il loro miglioramento.
Gli ultimi decenni
del XIX sec. furono caratterizzati da una vera e propria
“rivolta contro il positivismo”;1 come ha scritto
lo studioso italiano
Angelo D’Orsi, dall’«avvento di una nuova epistéme,
ossia l’insieme delle concezioni e dei modi di considerare e
organizzare i processi della conoscenza»,2 ponendo così
le basi per il salto
qualitativo della storiografia novecentesca.
La nuova storia si proponeva di accogliere i migliori risultati della storiografia positivista e le innovazioni metodologiche e interpretative apportate dalle altre scienze sociali. Influenzati dal marxismo, gli storici statunitensi furono i primi a parlare di new history3 e a dare nuova enfasi ai fattori socio-economici nella spiegazione storica. Cominciarono a occuparsi di intellectual history e respinsero le divisioni disciplinari per concentrarsi sui legami che le diverse attività umane intrattengono con la storia delle società. E così, nel corso del Novecento si affermò in Europa e negli Stati Uniti l’attenzione verso la storia della cultura in senso generale, delle idee e delle abitudini mentali degli uomini in una data epoca e in un dato ambiente. Si trattò di una trasformazione complessiva della scienza storica, dei suoi oggetti e del suo metodo, che avrà esiti diversi nei diversi ambienti intellettuali. A questo proposito D'Orsi ha osservato che:
La
«Lezione
Frontale»
Tre aneddoti.
a) Una volta mi è capitato di intercettare casualmente la conversazione di due studenti intorno a due loro insegnanti. Entrambi i colleghi facevano, come si poteva facilmente inferire, una “lezione frontale”. Eppure la loro reputazione presso i due ragazzi era ben diversa: «Ah, quando parla X, capisco la filosofia; invece Y fa una... Lezione Frontale» (smorfia incerta tra noia e senso di sufficienza).
b) Capita (o capitava, qualche decennio fa) di sentire frasi come queste: «la Lezione Frontale è mera trasmissività e ripetizione del sapere!», «la Lezione Frontale veicola il sapere in forme autoritarie!», «esistono alternative alla Lezione Frontale!» (quest'ultima con esiti irresistibilmente comici, perché, nel caso in cui il contesto sia un'aula in cui ci si specializzi per fare gli insegnanti o ci si aggiorni, viene quasi sempre pronunciata nel corso di una... Lezione Frontale).
Grande è il disordine sotto il cielo dei 5 stelle, ma la situazione è tutt’altro che eccellente. Dopo un negoziato tenuto rigorosamente nascosto, è stato annunciato che i deputati del M5s sarebbero passati dal gruppo antieuropeista -con l’Ukip e Afd- al gruppo ultraeuropeista dei liberali.
In quattro e quattr’otto è stata organizzata una consultazione on line (con la partecipazione non oceanica di poco meno di un terzo degli iscritti) che ha approvato con il 78% la decisione. Ma la cosa non è servita a molto, perché, neppure sei ore dopo, erano i liberali a rifiutare di ratificare l’accordo siglato il 6 gennaio dal capogruppo M5s Borrelli e dal capogruppo liberale Guy Verhofstadt e tutto è andato per aria.
Leggendo il testo del “contratto prematrimoniale” (reso pubblico da un redattore di radio radicale e consultabile sill’Hp) si capisce una cosa: che i 5 stelle, il 17 gennaio pv, avrebbero votato per Verhofstadt quale prossimo Presidente del Parlamento europeo ed in cambio sarebbero stati ammessi nel gruppo liberale, ottenendone la vice presidenza e, qualora fosse stato possibile, anche una vice presidenza dell’Assemblea di Strasburgo, oltre alla divisione dei fondi e del personale. Una volta queste cose si chiamavano “mercato delle vacche” in perfetto stile Dc.
Dopo la colossale figura di palta, anziché una letterina di scuse per avere esposto tutto il Movimento 5 Stelle al pubblico ludibrio, a un fallimento politico colossale e avere rovinato irrimediabilmente i rapporti nel Gruppo Politico dove M5S Europa risiede, l’Efdd, arriva questo testo sul blog di beppe grillo:
“L’establishment ha deciso di fermare l’ingresso del MoVimento 5 Stelle nel terzo gruppo più grande del Parlamento Europeo. Questa posizione ci avrebbe consentito di rendere molto più efficace la realizzazione del nostro programma. Tutte le forze possibili si sono mosse contro di noi. Abbiamo fatto tremare il sistema come mai prima. Grazie a tutti coloro che ci hanno supportato e sono stati al nostro fianco. La delegazione del MoVimento 5 Stelle in Parlamento Europeo continuerà la sua attività per creare un gruppo politico autonomo per la prossima legislatura europea: il DDM (Direct Democracy Movement)“.
Per una volta lasciatelo gridare a me: Gombloddoh! (e per scriverne io, ce ne vuole… eh?). I poteri forti non vi hanno permesso di vendervi ai poteri forti! Ma ve l’ha scritto Crozza?
L’establishment ha deciso? Si chiama politica.
In un articolo uscito la vigilia dello scorso Natale su queste pagine scrivevo che non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane, non rallenterà gli sforzi delle élites per de – democratizzare il sistema politico (dal quale, per inciso, decenni di controrivoluzione liberal liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia). Al contrario, argomentavo, gli sforzi in tale direzione si moltiplicheranno perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza.
Nel giro di qualche giorno, questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme. La tesi che i nemici della democrazia difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi” (termine che continua a essere usato in modo propagandistico, senza alcuno sforzo di analisi politologica e senza compiere distinzioni ideologiche, mischiando nello stesso calderone Trump e Sanders, Maduro e Marine Le Pen, Podemos e la Lega, l’M5S e i neonazi tedeschi) sono destinate a durare (l’ipotesi di combattere le cause dell’impoverimento di massa e della disuguaglianza non viene nemmeno presa in considerazione, quasi si trattasse di fenomeni “naturali”),
Sotto il torpore festivo al volgere d’anno la palude italica non cessa di gorgogliare. Le piccole manovre di renziani e non-renziani dentro il Pd, il galleggiamento delle istituzioni e la distrazione di massa sui migranti
Privato della delega ai Servizi, l’infido ex-Lothar dalemiano Minniti (quello che “risolse” il caso Ocalan gettandola in bocca ai turchi) si rifà alla grande scatenando una campagna contro i migranti “clandestini”, ovvero resi tali dal combinato disposto di una legislazione nazionale ed europea assurda sui flussi e sul diritto d’asilo e dalle esigenze del mercato nero del lavoro.
Diciamo subito che si tratta di un’ammuina, inefficace rispetto agli obbiettivi proclamati, ma di un’odiosa ammuina perché legittima istituti nefasti e illegali come i Cie e scatena un’ondata di xenofobia e razzismo che copre altri e ben più gravi problemi del momento, a cominciare dalla crisi bancaria e occupazionale. La collaudata tecnica del capro espiatorio, in “felice” congiunzione con l’allarme terrorismo e la caccia all’islamico.
La presa di possesso del nuovo per quanto dimidiato incarico ha spinto il ministro a iniziative demagogiche che però hanno una base ben precisa, la vigente legge Bossi-Fini (per quanto il riferimento più diretto sia la beneamata Turco-Napolitano che ne aveva gettato le basi)
Il Manifesto che pubblichiamo, netto nella critica puntuale all'euro e all'Unione europea e nell'indicare il ritorno alle sovranità monetarie e politiche degli stati nazionali, è il frutto migliore di quell'area politica che viene identificata come "PIANO B".
Un'area composita, quella del "PIANO B", tutt'altro che un blocco unitario.
Essa include infatti tre componenti.
Da una parte le sinistre che si illudono di potere riformare l'Unione europea dall'interno e non chiedono lo smantellamento della moneta unica (vedi Varoufakis, Podemos in Spagna, in Italia il Prc e Sel).
Dall'altra c'è la componente che ritiene necessario e urgente il superamento dell'euro e il ritorno degli stati nazionali alla loro sovranità monetaria, senza escludere la permanenza nella Ue (vedi Lafontaine in Germania, tutte le sinistre scandinave, Melanchon in Francia). Infine il settore più radicale, composto da quelle sinistre che assieme alla fuoriuscita dalla Unione monetaria chiedono la rottura con l'Unione europea.
Il disastro Monte Paschi di Siena: combinazione perversa tra poteri forti, politica d’accatto, vigilanza latitante, elusione delle regole. Ma, soprattutto, il fallimentare bilancio del processo di privatizzazione del sistema bancario italiano
“Oggi la banca è
risanata, e investire è un affare. Su Monte dei Paschi si è
abbattuta la speculazione ma è un bell’affare, ha
attraversato
vicissitudini pazzesche ma oggi è risanata, è un bel brand”. Matteo
Renzi, Presidente del Consiglio dei Ministri, al
Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016.
Una valutazione ragionata sul disastro Monte Paschi di Siena richiede almeno tre livelli di analisi.
Il primo livello attiene alla questione del “mercato” e del suo evidente fallimento nella soluzione della crisi, non solo del caso specifico e non solo del settore bancario, ma dell’intero sistema economico.
A dire il vero occorre estendere il ragionamento all’intera esperienza della privatizzazione delle banche italiane, per arrivare alla disarmante verità: il privato ha fallito e il pubblico ne deve pagare il prezzo. In estrema sintesi le banche pubbliche, trasformate in spa, privatizzate e quotate a partire dai primi anni ’90, sono diventate aziende come le altre, oggetto di contesa e speculazione, spremute per profitti di breve periodo, allontanate dalla originaria missione del fare credito e finanziare l’economia reale, infine abbandonate al loro triste destino.
La Nova Delphi Libri ha appena pubblicato, in una nuova traduzione di Andrea Aureli, Il tallone di ferro di Jack London (pp. 368, € 14,00). Questa è l'introduzione di Valerio Evangelisti al volume
Ai partigiani italiani, durante la
Resistenza, i comandi suggerivano una serie di letture da fare
nei momenti di pausa, tra un’azione e l’altra. Tra i libri
consigliati non
mancava mai Il tallone di ferro di Jack London,
spesso associato a La madre di Gorki. Una sorta di
scuola quadri letteraria.
E’ solo uno dei segni della straordinaria fortuna del romanzo, fin dal momento della sua pubblicazione, nel 1907. Nel giro di pochi anni era già tradotto in una quantità di lingue, e conosceva ristampe che si sarebbero moltiplicate fino ai giorni nostri. Eppure non è l’opera migliore di London: ha parti fortemente didascaliche, le psicologie sono appena abbozzate, a eccessi di dialoghi dal ritmo di un catechismo incalzante succedono capitoli di frettolosa narrazione dei fatti.
Cosa fa, dunque, de Il tallone di ferro un libro formidabile, capace di passare da generazione a generazione? London lo scrisse, secondo la testimonianza della figlia Joan, dopo la sconfitta della rivoluzione russa del 1905, e perché allarmato dal moderatismo crescente che stava impregnando il Partito socialista americano, cui apparteneva. Intendeva divulgare in forme accessibili i principi fondamentali del marxismo, e specialmente della sua variante rivoluzionaria. Quella a cui aveva aderito nel 1896, quando si era iscritto all’intransigente Socialist Labor Party di Daniel De Leon.
1. La specificità
dell’umano
Nella riflessione hobbesiana la frontiera tra l’animale e l’umano è un confine poroso, che congiunge e separa. Da un lato, Hobbes prende le distanze da una visione dell’umano come una regione della natura separata dalle altre, e include tra i tratti che l’uomo condivide con gli altri animali non solo la sensazione indotta dall’azione dei corpi esterni, l’immaginazione o memoria derivante dall’attenuarsi della sensazione, il «discorso mentale» costituito dalla successione più o meno regolata delle immagini, l’esperienza accumulata attraverso la stratificazione e la connessione delle memorie, ma anche la previsione del futuro a partire dall’esperienza che chiamiamo prudenza, l’immaginazione occasionata da parole o altri segni volontari che chiamiamo intelligenza, e persino quell’avvicendamento di desideri e avversioni che termina nella volontà e determina l’azione, ricevendo perciò il nome di deliberazione[1]. Dall’altro lato, il filosofo non manca di mettere in evidenza differenze relative tanto alla sfera della natura quanto a quella dell’artificio. Sul piano naturale la diversità principale è rappresentata da un particolare tipo di discorso mentale, che parte dall’immaginazione di una cosa per ricercare «tutti i possibili effetti che essa è in grado di produrre», e che a differenza di quello che muove da un effetto dato o desiderato in direzione delle cause o dei mezzi in grado di produrlo non è «comune agli uomini e alle bestie»[2]. In primo luogo, questo percorso mentale che va dall’immaginazione delle cose a quella delle loro conseguenze possibili si collega alla «singolare passione» della curiosità, o «desiderio di conoscere il perché e il come» che distingue «l’uomo […] dagli altri animali»[3].
Ho sentito il dibattito su Radio3 di oggi. Quando ha iniziato a parlare tal Ferrera ho pensato "Ma questo ci tiene a premettere di non essere un economista e poi centra tutto il suo discorso pro Euro su argomenti prettamente economici? Mah, è come dire non so di cosa sto parlando ma voglio dire la mia lo stesso! Spero glielo facciano notare". Poi c'è stata la tua replica, e ho sorriso.
Se posso avrei tre domande:
1) capisco bene che gli USA vogliono un euro più forte per vendere i loro prodotti sul mercato europeo, e che quindi non sono contenti che l'europa (leggi Germania) non rivaluti? Se ho capito bene sorge la domanda
2) Che strumenti di pressione hanno gli USA sulla Germania per ottenere una rivalutazione dell'euro?
3) Se ce la fanno vorrà dire che in Europa per recuperare la competitività perduta in seguito a rivalutazione si dovranno svalutare ancora di più i salari o mi sbaglio?
Ciao e grazie
Massimo
Questo 2016 che ci ha appena lasciato sarà difficile da definire. Forse potrà essere ricordato come l'inizio del tramonto del mainstream. Che ha realizzato le tre più "magre" figure della storia, tutte in un anno solo, in America, in Europa e in Italia, sbagliando le previsioni sul Brexit, sull'elezione del nuovo presidente americano e sul successo del No al referendum italiano.
Che, messe tutte insieme, ci hanno rivelato che i "creatori" delle opinioni pubbliche dell'Occidente, tutti insieme, non sono stati capaci di indovinare il comportamento delle opinioni pubbliche occidentali. Il che crea una divertente situazione di paradossi a catena. Il cui risultato finale è però piuttosto chiaro, ed è questo: il mainstream non è più il "creatore" delle opinioni pubbliche. E cioè non solo non le crea più a suo piacimento, ma non è nemmeno capace di indovinarle. In altri termini il mainstream non è più mainstream.
Buona notizia per chi aveva sempre avuto dei sospetti in merito, cattiva notizia per il mainstream, che ora non sa più dove collocarsi. Forse sulla riva del mainstream. Ma, purtroppo, non ci sono segni reali di ravvedimento. Al contrario: finito il 2016 si preannuncia un 2017 colmo di intenti di rivincita. A Washington, patria del mainstream (fino a che è stato tale) infuria la panzana della cyber-bufera.
L’anno nuovo dei migranti inizia con la svolta securitaria annunciata da un governo nato per portare al voto il paese. Gli annunci dicono che a Bologna come in altre città italiane riapriranno i Cie (uno per ogni regione), mentre il ministro degli Interni e il capo della Polizia promettono una stretta nella politica delle espulsioni: controlli sui luoghi di lavoro per scovare gli irregolari e intensificazione degli accordi bilaterali con i paesi di provenienza per assicurare i rimpatri. L’obiettivo è raddoppiare le espulsioni, che quest’anno si sono fermate a “sole” 5000. La speranza è di raggiungere le 20000 all’anno.
Apparentemente è l’esibizione di forza di un governo che si fa vanto di aver casualmente incontrato in un controllo di routine per le strade di Sesto San Giovanni l’uomo che ha messo a segno la strage di Berlino. Si mettono in mostra i muscoli per convincere i cittadini, a cui il mix di crisi e politiche neoliberali ha sottratto salario e strappato via diritti e welfare, che lo Stato si preoccupa della loro sicurezza. È un risarcimento per chi in questi anni ha perso molto, se non tutto. Perché la sicurezza, come si usa dire negli ambienti di governo, non è un tema della destra, ma riguarda tutti. Per la verità, questo simulacro di sicurezza è l’unica cosa che questo governo può offrire ai cittadini che a breve saranno chiamati alle urne, dato che di fare marcia indietro su Jobs Act, voucher e tutto ciò che ruota attorno a salario e welfare non se ne parla proprio.
"Tu dammi le fotografie e io ti darò la guerra": l'editore William Hearst al suo fotografo Frederick Remington che, nel 1898, non trovava a Cuba nessuna scena di inermi civili uccisi che giustificasse una invasione USA per portare la "democrazia" e il "rispetto dei diritti umani".
È passato più di un secolo, ma le bufale di guerra alimentano sempre le stesse pulsioni. Intanto, bisogna intervenire subito per salvare vittime innocenti. Come i bambini belgi ai quali i soldati tedeschi mozzavano le mani. L'unico intellettuale italiano a protestare contro questa menzogna fu Benedetto Croce; gli altri - insieme a decine di migliaia di indignati socialisti - corsero ad arruolarsi e a morire nelle trincee della Prima guerra mondiale.
Le bufale servono poi a terrorizzare la popolazione: tenebrose "armi di distruzione di massa" in mano al tiranno di turno che deve, quindi, essere abbattuto insieme al suo Stato canaglia. E poi devono trasformare chi si oppone alla guerra (magari, smascherando le bufale) in una quinta colonna del nemico, capace di "intossicare l'informazione" o le reti di computer. Una serpe in seno da soffocare con la censura.
Ma torniamo alle foto chieste da Hearst. L'aspetto più ripugnante delle bufale di guerra è che, quasi sempre, sono attestate da "documentazioni" - come quella dei soldati di Gheddafi che stupravano le bambine utilizzando il viagra o dei cecchini di Assad che si allenavano sparando sul pancione di donne gravide – di una falsità evidente per un qualsiasi giornalista degno di questo nome.
C’è una questione “scabrosa” che voglio affrontare da tempo e di cui in parte ho già trattato in questo articolo.
Per molto tempo, se non da sempre, il capitalismo è stato del tutto sovrapposto al liberalismo. Questa equazione, capitalismo=liberalismo è stata sostenuta più o meno da tutti, sia dai pensatori liberali che da quelli marxisti (ma anche da quelli di altre formazioni filosofiche e ideologiche).
Sia i liberali che i liberisti – oggi del tutto o quasi sovrapposti – hanno ovviamente tutto l’interesse a sostenere questa tesi, per ovvie ragioni. E cioè perché sostenere che il capitalismo è inscindibile dal liberalismo significa sostenere che capitalismo e democrazia (e diritti) marciano assieme. L’affermarsi dei diritti, della libertà e della democrazia marcerebbe di pari passo e sarebbe anzi una diretta conseguenza dell’affermarsi del capitalismo e viceversa. Questo, in estrema sintesi, il pensiero dei liberali e dei liberisti. Questa visione delle cose fa comodo ad entrambi – comunque, come dicevo, molto spesso o quasi sempre sovrapposti (ma sarebbe un errore non prendere nella dovuta considerazione anche quei pensatori liberali ma non liberisti) – perché in questo modo il capitalismo può vantare di essere l’unico sistema economico e sociale in grado di garantire diritti e democrazia.
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In questi giorni si è sollevato un polverone
mediatico sui debitori di Montepaschi. Tutti i giornali, di
destra centro e sinistra, addirittura l'ABI di Patuelli (cioè
del Vice Presidente
dell'epoca Mussari), per non parlare di deputati e
senatori alla ricerca di una commissione di inchiesta, hanno
richiesto a gran voce che fossero
resi noti i cento principali morosi della banca.
Normalmente, quando c'è questa consonanza di amorosi sensi fra giornalisti (compreso il Financial Times), banchieri e politici, la cosa un po' puzza. Nel caso di specie, poi, il giochino è addirittura banale. Dire che Montepaschi è sommerso dagli NPL (cioè dai non performing loans, crediti in sofferenza o incagliati) perché gli affidati non hanno restituito quanto ricevuto non solo è tautologico, o al massimo banale (ove sottintendesse che il frazionamento del rischio di controparte riduce il rischio medesimo), ma ha oggettivamente una funzione di intorbidamento dei termini reali della crisi finanziaria, sistemica, che attanaglia il nostro Paese.
Da un lato vi sono i banchieri, che tentano di ridurre tutto il problema del sistema bancario italiano a qualche cattivo pagatore che - magari continuando a girare in Ferrari, signora mia! - ha messo in difficoltà alcuni Istituti, e is dimenticano totalmente dei loro Comitati crediti, degli uffici di audit, del ruolo che dovrebbe svolgere Banca d'Italia.
Che cosa sta accadendo nella scuola
italiana?
Nel quasi totale silenzio-assenso dell’intellettualità
nazionale e della grande stampa - salvo qualche eccezione, ma
non certo critica,
come quella del Sole 24 ore, e di qualche entusiasta
apologeta - i nostri istituti superiori vengono
progressivamente spinti a
trasformarsi in scuole per l’avviamento al lavoro.
L’applicazione della cosiddetta “alternanza scuola lavoro”,
prevista nelle
sue linee generali dal decreto legislativo del 15 aprile 2005,
sta trovando, con la legge sulla Buona scuola del defunto
governo Renzi, esiti sempre
più chiari. Intanto quest’ultima stabilisce l’obbligo di
dedicare ben 400 ore ad attività lavorative nel corso del
triennio
delle scuole professionali e tecniche, e 200 nel triennio dei
licei. Ore che verranno sottratte allo studio per fare
esperienze pratiche
all’interno di fabbriche, imprese agricole, musei, ospedali,
archivi, ecc.
L’integrazione delle strutture formative nella sfera delle imprese appare ben chiara dall’art. 41: «A decorrere dall’anno scolastico 2015/2016 è istituito presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura il registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro». La scuola italiana diventa un ambito che marcia sempre più in stretta cooperazione con il mondo della produzione, dei servizi e del commercio.
Il silenzio su questo processo di gravissima subordinazione dei processi formativi alle esigenze di breve periodo delle imprese, dipendente da una abborracciata lettura delle tendenze del capitalismo contemporaneo, si può anche comprendere. Da noi è universale la leggenda secondo cui la scuola italiana ”è lontana dalla società” “ i nostri ragazzi escono da scuola senza nessuna esperienza della realtà”, ecc.
Il futuro di Althusser
dura a
lungo
Non è per spirito di provocazione che modifichiamo il titolo della celebre autobiografia che Louis Althusser ha redatto dopo l' uccisione della moglie nel 1980 e dopo il suo ingresso nella notte dei morti viventi. L'epoca della crisi di egemonia del capitalismo mondializzato ha risvegliato lo spettro di Marx, come già il suo amico Jacques Derrida aveva avuto il coraggio di fare in quegli anni (1993). Per il suo percorso tormentato, per la sua attitudine a porre questioni divenute cruciali dopo la sconfitta della rivoluzione comunista, il pensiero di Althusser pretende ancora di fornire armi intellettuali in grado di sfidare i nostri tempi. Questo pensiero non si limita a tornare ma entra in una nuova orbita. In verità, tale orbita è una svolta che si realizza sotto il segno di un doppio lutto delle forme d'esperienza assunte dai movimenti antisistema: innanzitutto il lutto del movimento operaio, l'unico che in tutte le sue varianti, social-democratiche o comuniste, abbia avuto un'esistenza durevole nella modernità; e, legato a questo, il lutto del movimento anticolonialista e anti-imperialista che a sua volta nel comunismo aveva trovato sostegno.
Sono ormai maturi i tempi a che l'opera teorica cardine di Louis Althusser possa uscire da quel silenzio totale che l'ha tenuta rinchiusa nel corso degli anni ‘80-90 e possa essere interrogata per contribuire ad aprire una nuova prospettiva, fornendo così gli elementi indispensabili per quella critica dei tempi che ogni pensiero dell'emancipazione esige.
Bloccati i referendum sui diritti dei lavoratori. A voucher ed appalti ci penserà il governo con una leggina, ad affossare il voto sull'articolo 18 ha provveduto oggi la Corte Costituzionale
Lunga è la storia delle sentenze politiche della Corte Costituzionale in materia referendaria. Inutile perciò stupirsi dello scandaloso pronunciamento di oggi. Scandaloso perché, al di là di appigli giuridici che sempre si possono trovare, la sostanza politica è chiara: sulla vergogna del jobs act lorsignori non consentono di discutere, tantomeno di votare.
La cosa è ancor più grave oggi, considerato quanto il tema della precarietà del lavoro sia sentito in questo momento nella società. Ed è ancor più grave dopo la grande partecipazione del 4 dicembre, che ha mostrato quanto sia forte il desiderio popolare di riappropriarsi dello strumento referendario. Forse è proprio per questo che si è voluto dare un chiaro segnale di chiusura. Insomma, il sistema si blinda.
Non facciamoci adesso ingannare dal fatto che gli altri due quesiti - sui voucher e sugli appalti - siano stati ammessi dalla Consulta. Su questi due temi siamo certi che non si voterà. Troppo facile è la strada di una modifica di facciata, giusto per cancellare il ricorso alle urne. Modifica che potrà avvenire nelle prossime settimane, o magari anche più avanti qualora il tutto venga superato dallo scioglimento delle camere, ma che comunque avverrà.
La Corte Costituzionale ha reso nota la sua decisione e dichiarato inammissibile il referendum in tema di licenziamento.
Amato e Barbera, i due membri della Consulta legati al Partito Democratico, sono riusciti ad imporre al Collegio quanto gli uomini delle larghe intese pretendevano.
Non è una pronunzia di poco rilievo; è piuttosto la conferma di una svolta violentemente autoritaria che viene imposta all’intero paese. Non nascondiamocelo, sarebbe sciocco. Questa è una ferita consapevolmente inferta ai diritti residui, l’imposizione delle direttive provenienti dal complessivo governo europeo. Ci spiace, ma non ci sorprende; lo avevamo messo in conto.
Sia chiaro. Questa pronunzia travolge il precedente orientamento espresso dalla Corte Costituzionale, che nel 2003 aveva dichiarato invece ammissibile il quesito referendario che mirava ad estendere l’applicazione dell’art. 18 (la reintegrazione nel posto di lavoro) a tutti i lavoratori italiani. Ma in quel tempo non era ancora in vigore la lettera-ordine di rimuovere le tutele diretto ai governi nazionali del Sud-Europa; e le forze politiche si erano adoperate, unitariamente, per impedire il raggiungimento del quorum. La Corte Costituzionale aveva concesso il via libera al voto.
"La Russia si sta preparando alla guerra". Questo è il mantra che tutti i comunicati militari ripetono in continuazione. Che equivale a dichiarare che la Nato si prepara sul serio a una guerra con la Russia. Qua e là emerge perfino il luogo dove ci si aspetta, o si pensa, di cominciare. Sarebbe da qualche parte al confine tra Lituania e Russia.
Un esercito intero si sta spostando sui confini baltici della Russia. Se i calcoli approssimativi, basati sui comunicati stampa tedeschi e statunitensi, oltre che estoni, lituani, lettoni, polacchi, sono realistici, si tratta all'incirca di 5000 uomini, e più di 2500 tra carri armati, jeep, autocarri, cannoni trainati, veicoli da combattimento diversi. Senza contare le navi da trasporto, l'organizzazione del movimenti via terra, tutta la logistica, le telecomunicazioni e l'aviazione.
A parte il costo dei materiali (e si tratta di miliardi), si aggiungano i costi del personale e i trasporti. Un bottino splendido per i militari. E sarà una cosa lunga. Secondo il generale Volker Wieker, che si è fatto intervistare dal giornale dell'esercito Bundeswehr Aktuelle, bisognerà raggiungere la "piena capacità operativa" entro sei mesi. A questo servirà anche l'operazione Nato intitolata "Atlantic Resolve".
Perché tutto questo? Perché "la Russia si sta preparando alla guerra"?
“Questo governo non
è il Renzi
bis, è il Monti quater”
Alberto Bagnai,
economista, a Coffee Break
Non è difficile riconoscere nella plumbea sobrietà di Mattarella e Gentiloni la stessa matrice di Monti.
Lo stesso sprezzante classismo del ministro del Lavoro
Poletti, parallelo al classismo razzista del ministro
dell’Interno Minniti.
La
reificazione sistematica degli esseri umani da vendere e
comprare come un pacchetto di sigarette, classificati in base
al loro valore di
mercato, espressa in modo così eloquente dalla
definizione “migranti economici”.
Dopo il crollo rovinoso della facciata posticcia renziana è
di nuovo sotto gli occhi di tutti il volto metallico della
tecnocrazia al
potere.
Quell’oligarchia finanziaria che aveva scelto Renzi come
frontman, sperando che catalizzasse le spinte antisistema per
metterle al servizio del solito piano di smantellamento della
Costituzione antifascista, e sostituzione della Repubblica
democratica con
un’altra struttura più congeniale alle esigenze del mercato.
Gli era quindi stato affidato il volante del PD perché lo guidasse alla vittoria.
Aleppo, 8 gennaio. Lui accetta di farsi filmare, a scanso di equivoci. Però Mahmud Fahrad non è il suo vero nome e la foto non è la sua. Ha paura di vendette, in questa Aleppo coperta di macerie e dove pochi credono che tutti i jihadisti se ne siano davvero andati a Idlib sui pullman forniti da Assad. Perché questo muratore che ha perso il suo lavoro anni fa e si è dovuto arrangiare com moglie e quattro figli, vuol raccontare come si viveva ad Aleppo Est quando c’era la repubblica dei ribelli e dei jihadisti.
“Siamo rimasti intrappolati lì, dice Mahmud, “dal marzo 2012, quando è cominciato tutto. E sono stati quattro anni di orrore. Per esempio, ci facevano fare la fame. In questi anni non ho mai mangiato carne né frutta, quasi solo lenticchie e burghul (grano spezzato). Anche il pane scarseggiava. E intanto loro godevano di ogni ben di Dio e mangiavano tutto ciò che volevano. Avevano depositi pieni e si facevano beffe di noi: quando c’era qualche festività, macellavano pecore e vacche e poi rivendevano i pezzi di scarto, come gli stinchi o le interiora, a 10 mila lire siriane al chilo, il prezzo della carne migliore. I pezzi buoni, invece, costavano 30 mila lire, cioè dieci volte il prezzo normale. Una volta c’è stata una specie di manifestazione per protestare contro questi prezzi: hanno sparato sulla gente e ucciso quattro persone”.
E gli ospedali? Si dice che l’esercito abbia ucciso parecchie persone, bombardandoli…
L'operaismo e la
Teoria critica francofortese
non rappresentano soltanto due dei tentativi più stimolanti
di rilancio del progetto marxiano della «critica
dell'economia
politica» negli anni 1960, ma costituiscono anche le due
fonti d'ispirazione principali del «marxismo autonomo».
Tuttavia, le
divergenze così come i punti di incontro di queste due
tradizioni raramente vengono studiate di per sé. Per Vincent
Chanson e
Frédéric Monferrand, un simile studio va svolto dal punto di
vista di una teoria del capitalismo. Da Adorno a Panzieri
e da
Pollock a Tronti, in effetti si delinea una stessa diagnosi
sul divenire-totalitario del capitale. Ma la questione di
sapere quali pratiche opporre ad
un tale processo, disegna un'alternativa in seno a questa
costellazione: laddove in Negri e nei teorici
post-operaisti, la sussunzione del sociale
sotto il capitale produce di per sé una soggettività
antagonista («l'operaio sociale» o «la moltitudine»). per
Krahl, al contrario, implica un'accresciuta frammentazione
della forza lavoro. E per Chanson e Monferrand, il
riconoscimento di tale frammentazione
costituisce la condizione di ogni ricomposizione politica
del proletariato.
* * * *
Ci proponiamo qui, in quest'articolo, di instaurare un dialogo fra l'operaismo e la Teoria critica della Scuola di Francoforte, due tradizioni che hanno giocato un ruolo di primo piano nello sviluppo delle sinistre extraparlamentari tedesche ed italiane degli anni 1960, e che si sono sforzate di riattivare il senso ed il contesto del concetto di «critica» secondo il quale Marx pensava il suo rapporto con l'economia politica [*1].
Nelle
ultime settimane il dibattito politico sul lavoro è stato
calamitato dal tema
dei voucher, al punto che,
immaginando uno straniero che legge per la prima volta le
notizie del nostro Paese, potrebbe facilmente pensare che la
maggioranza della popolazione
italiana venga oggi retribuita mediante buoni lavoro.
Ma, volendo provare a tracciare alcune delle tematiche che il mondo del lavoro dovrà affrontare nel 2017, la prima affermazione da fare è che quello dei voucher è un piccolo problema, piccolissimo, come ci ha ricordato qualche giorno fa la prima nota congiunta sui dati del lavoro prodotta da Istat, Inps, Ministero del lavoro e Inail: i voucher corrispondono allo 0,23% del costo del lavoro complessivo italiano.
Questo non significa che non vi siano casi di abuso e non vi siano settori che colpevolmente utilizzano questo strumento per ridurre il costo del lavoro e le tutele dei lavoratori, ma di certo non siamo di fronte al problema principale del problematicissimo mercato del lavoro italiano.
Quando intorno
alla metà del secolo scorso l'elite mondialista che di fatto
gestisce le sorti del pianeta e dei suoi abitanti iniziò a
strutturare le
basi per la costruzione di un nuovo ordine mondiale (o
comunque lo si voglia chiamare di una nuova società che
potesse risultare funzionale ai
propri interessi) comprese immediatamente come la
globalizzazione fosse la strada migliore da percorrere per
ottenere il risultato voluto. Le basi di
un progetto di questo genere erano già state poste negli anni
30, quando il Council on Foreign Relations americano concepì
strutture
come la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario internazionale
che nacquero ufficialmente a Bretton Woods nel luglio 1944 ed
ebbero senza dubbio modo di
affinarsi quando a partire dal mese di maggio 1954 iniziarono
le riunioni del gruppo Bilderberg, deputato a fare sintesi e
delineare le
strategie.......
Nello stesso periodo, ad ottobre del 1947 a Ginevra vide la luce il GATT (General Agreement on Tarifs and Trade) composto inizialmente da 18 paesi fra i quali l'Italia (che entrò a farne parte nel 1949) e destinato a comprenderne 37, che si proponeva l'obiettivo di eliminare tutto ciò che potesse in qualche misura ostacolare il commercio internazionale.
A partire dalla vittoria di Trump i mezzi di comunicazione egemonici hanno lanciato una valanga di riferimenti al "protezionismo economico" del futuro governo imperiale e di conseguenza al possibile inizio di un'era di deglobalizzazione.
In realtà l'arrivo di Trump non sarà la causa di questo annunciato superamento della globalizzazione, bensì piuttosto il risultato di un processo che vede la luce con la crisi finanziaria del 2008 e che è accelerato dal 2014, da quando l'Impero è entrato in un percorso di irresistibile discesa.
Dal punto di vista del commercio internazionale la deglobalizzazione progredisce approssimativamente da un lustro. Secondo dati della Banca Mondiale nel decennio 1960 le esportazioni rappresentavano in media il 12,2% del Prodotto Nazionale Lordo, nel decennio seguente passarono al 15,8%, negli anni 80 arrivarono al 18,7%, ma verso la fine di questo periodo il processo accelerò e nel 2008 raggiunse il suo massimo livello arrivando al 30,8%; la crisi di quell'anno segnò l'apice del fenomeno, a partire dal quale iniziò una leggera discesa, che si è aggravata dal 2014-2015 (1). La propaganda sulle economie che si internazionalizzavano sempre più, condannate a esportare porzioni crescenti della propria produzione, fu smentita dalla realtà del 2008 e ora la globalizzazione del commercio comincia a invertirsi.
Digital Labour
È impensabile continuare ad ignorare
l’impatto che la robotizzazione e l’Intelligenza artificiale
produrranno nei
prossimi anni dentro le nostre società. Lavoro, merci,
relazioni, politica, diritti. Tutto è ridescritto ad una
velocità senza
precedenti
Come per molte altre svolte produttive degli ultimi 30 anni, molte persone, molte strutture sindacali, sociali o politiche, si sono concentrate sugli effetti della trasformazione del lavoro avendo nella propria mente ciò che queste trasformazioni avrebbero prodotto all’interno della cosiddetta “fabbrica”. L’effetto delle ricadute – occupazionali, professionali, retributive – venivano misurate sull’occupazione che, con semplificazione, veniva detta “operaia”.
Certo la trasformazione della fabbrica, in questi anni, è stata massiccia e non solo non è ancora terminata, ma rischia di vivere una nuova fase di accelerazione. La produzione di merci è investita da una nuova rivoluzione industriale (in Europa chiamata Industria 4.0) che produrrà effetti non ancora calcolabili dal punto di vista sociale e occupazionale. Il bello è che gli stati europei corrono a finanziare questa destrutturazione incontrollata degli assetti produttivi attuali – con le connesse conseguenze occupazionali – spesso con l’avallo di strutture sindacali che non hanno compreso, fino in fondo,
Chi per anni ha affermato che la verità non esiste, oggi invoca agenzie statali per intercettare le notizie non vere. Il parere di Vladimiro Giacché, autore de “La fabbrica del falso”
L’anno nuovo sembra essersi aperto con una sindrome che sta contagiando diversi ambienti, quella delle cosiddette “fake news”, le notizie false.
Il leader del M5S, Beppe Grillo, invoca la necessità di formare improbabili giurie popolari con il compito di controllare la veridicità delle notizie diffuse da stampa e tv. Facebook ha elaborato un software che avrebbe la capacità di segnalare agli utenti le notizie ritenute inattendibili. C’è poi chi, come il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, propone un’agenzia statale di vigilanza.
Quest’ultima idea ha suscitato diverse critiche. Molti la paragonano a quegli uffici statali, tipici dei totalitarismi, che hanno il compito di controllare ogni pubblicazione e sequestrare quelle potenzialmente pericolose o esplicitamente ostili al potere. Altri ancora, più in vena letteraria, agitano l’accostamento con il ministero della Verità del libro 1984, di George Orwell.
Tra questi c’è Vladimiro Giacchè, economista e filosofo, presidente del Centro Europa Ricerche, autore de La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (nuova ed. aggiornata 2016). ZENIT lo ha intervistato.
* * * *
Cosa non la convince della proposta di Pitruzzella?
Recensione del libro di Francesco M. De Collibus e Raffaele Mauro Hacking Finance. La rivoluzione del bitcoin e della blockchain (Agenzia X, Milano, 2016)
Il Bitcoin[1]è stato largamente mediatizzato ed è mondialmente conosciuto come l’inizio della possibile rivoluzione criptovalutaria. La conoscenza dei meccanismi di base del suo funzionamento, come per esempio l’utilizzo della crittografia asimmetrica, il libro mastro distribuito e la blockchain, è abbastanza limitata come relativamente limitato è il numero reale dei suoi utenti. Il BTC infatti è poco impiegato come moneta di scambio e serve più che altro come valore rifugio in un ambito che è soprattutto di trading e di speculazione finanziaria.
Francesco M. De Collibus e Raffaele Mauro autori di Hacking Finance (Agenzia X, Milano, 2016) fissano il loro obiettivo sin dall’introduzione: “sarà impossibile soddisfare la curiosità di tutti i possibili lettori […] tuttavia ci piace pensare che ogni differente profilo possa trovare qualcosa di interessante o almeno uno spunto per successivi approfondimenti”. Diciamo subito che è un obiettivo centrato: gli autori danno un contributo utile, agile ed interessante per rendere più comprensibili la genesi, l’ambito e le prospettive, non solo del Bitcoin e delle altre criptomonete ma anche dei principi di decentralizzazione e di disintermediazione indissociabili dalla tecnologia della blockchain.
Ma andiamo con ordine: nella prima parte del libro, dopo la divertente prefazione, si viene introdotti nel contesto storico, culturale, sociopolitico ed infine anche tecnologico del Bitcoin.
Zeroconsensus vi propone un interessante articolo di Alberto Negri pubblicato oggi su il Sole24Ore che fa il punto sulla crisi mediorientale e sulla disastrosa assenza di strategia sia della Nato, dell’UE, degli USA e anche dell’Italia
La Sigonella di Erdogan si chiama Incirlik, la base aerea concessa agli Usa per i raid anti-Isis. I turchi minacciano di chiuderla se gli americani non daranno loro soddisfazione, ovvero abbandonare i curdi siriani ritenuti da Ankara come il Pkk un gruppo terroristico e consegnare l’imam Gulen in auto-esilio dal ’99 in America.
Si può definire un ricatto oppure un modo di sventolare la bandiera del nazionalismo dopo aver rinunciato ad abbattere Assad, come è stato proclamato da Ankara per cinque anni. «Stiamo combattendo una nuova guerra di indipendenza», ha dichiarato Erdogan. Il fondatore della patria Ataturk, astuto stratega, si rivolterà nella tomba ma ognuno si salva alla sua maniera.
Come ha condotto Erdogan, fino a qualche tempo fa, la lotta al terrorismo? Ha aperto “l’autostrada dei jihadisti”, poi ha rilanciato la guerra ai curdi, buttando all’aria l’accordo con il Pkk raggiunto dal capo dei servizi Hakan Fidan, e quando ha perso la partita siriana con la caduta di Aleppo si è messo d’accordo con Putin e l’Iran.
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La storiaccia del
Parlamento di Strasburgo ha scatenato nemici vecchi e nuovi
del movimento, che si sono esercitati nell’arte del dileggio.
Un buon esempio è dato dall’articolo di Ezio Mauro su Repubblica il 12 gennaio 2013:
“mancanza di sostanza, di qualità e addirittura di significato politico… Nessuna discussione, nessun dibattito, soprattutto nessuna passione: politica, storica, culturale, […] un movimento perennemente allo stato gassoso che non riesce a consolidare alcunché, perché non avendo storia e tradizione non ha nemmeno saputo costruirsi un deposito culturale di riferimento”
e via di questo passo.
Più raffinato ed intelligente –ma pur sempre ostile- il pezzo di Ferrera sul Corriere, che insiste sulla nota dell’ambiguità irrisolta del movimento fra destra e sinistra. E, sia per l’uno che per l’altro commentatore, le “scivolate” prese a Roma e Strasburgo sono il prodotto inevitabile di questo sottostante.
Personalmente non ho nascosto le mie critiche al M5s né sulla questione del gruppo a Strasburgo né sul disastro, ormai irreparabile, della giunta capitolina e neppure, tornando indietro nel tempo, ho nascosto le mie perplessità sulla scelta dell’apparentamento con l’Ukip, sulle uscite in materia di immigrazione, sulle troppe espulsioni nel primo anno di legislatura, sulla mancanza di trasparenza o di discussione nel movimento.
Se si cerca
in
rete alla voce “Hillary Clinton arrested” compaiono 439.000
occorrenze, per la maggior parte legate a un video
dell’ottobre scorso
presente su YouTube nel quale una voce molto professionale
scandisce quello che si presenta come un comunicato della
polizia di New York che avrebbe
annunciato l’imminente fermo della candidata democratica
perché coinvolta in un giro di pedofilia e tratta di esseri
umani. Una
rete di criminali la cui esistenza sarebbe stata rivelata
dalle famose email di Hillary scambiate con i suoi
collaboratori usando un indirizzo privato
e non quello ufficiale assegnatole dal Dipartimento di Stato.
Naturalmente questa è solo una delle mille storie fantastiche circolate nei mesi precedenti alle elezioni dell’8 novembre, tra cui la bufala che Papa Francesco aveva dato il suo sostegno a Trump (un milione di condivisioni su Facebook) o quella che Obama voleva vietare il giuramento di fedeltà alla bandiera americana (due milioni tra commenti e condivisioni). Da questo a trarre la conclusione che i russi avevano influenzato le elezioni presidenziali americane a vantaggio di Donald Trump non c’era che un passo, allegramente varcato dai grandi media americani ed europei. Scandalo e orrore, seguiti da editoriali a valanga sulla “democrazia inghiottita dalle fake news”.
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 75-91. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/602
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Cercheremo
qui di abbattere i muri che agli occhi di molti impediscono
alla filosofia della prassi di introdursi nel regno del Marx
più
maturo. Il primo di questi muri è stato eretto tra le Tesi
su Feuerbach e la critica dell’economia politica; un
secondo tra il
giovane Marx e il Marx maturo, con la conseguenza della
nascita di una specie di dualismo marxologico; un terzo muro,
infine, è stato costruito
tra la società e la natura.
Se riusciremo a sospendere la quarantena nella quale gli strutturalisti hanno rinchiuso le Tesi su Feuerbach, il sarcasmo di Althusser dovrà cessare e la filosofia della prassi non sarà più «la bella conversazione notturna dei nostri leoni intellettuali da salotto»2. Non si potrà più dire allora, con il filosofo francese, che «il primato della prassi è la prima parola di ogni idealismo». E vacillerà anche l’ultima separazione, quella tra la società, o la cultura, e la natura.
Nella bocca del lupo economico: l’asse metodologico
Althusser arriva alla conclusione per cui le Tesi non possono essere utilizzate come punto di partenza della filosofia marxista. Questa, dice, «dovrà cercare il suo punto di partenza in un altro luogo, […] per poter partecipare da lontano alla trasformazione del mondo. Se si assume ciò, le Tesi su Feuerbach tornano al loro glorioso passato e finalmente si può parlare di un’altra cosa: di Per la critica dell’economia politica, dei Grundrisse, del Capitale».
Francamente chi ha votato i Cinque stelle meritava di meglio: un gruppo dirigente che fosse all’altezza di un progetto in rotta di collisione rispetto quello elitario oligarchico di marca europea, un sistema decisionale adeguato al numero dei voti e ai tempi e non dettato da tecnologi adusi alla fantascienza o semplicemente improvvisati e bislacchi come Grillo, un gruppo parlamentare meno tentato dalle solite ambizioni del potere e dalle divisioni interne . In due parole un movimento giovane, ma adulto e fuori da una perenne adolescenza, indeterminazione, confusione.
Chi ha votato i Cinque stelle non si aspettava certo che all’insaputa di tutti, compresi gli stessi europarlamentari del Movimento, decidesse di uscire dal gruppo euroscettico Efdd, quello in cui è presente anche l’Ukip di Nigel Farage, vincitore del Brexit, per confluire in quello ultra europeista, eurista , elitario e oligarchico dell’ Alde, dove siede anche Mario Monti, invece di pensare semmai all’assai meno compromettente gruppo misto. Inscenando per giunta la solita operazione di democrazia diretta solo a cose fatte visto che l’accordo fra Grillo , il Capogruppo Borrelli e i vertici della Casaleggio con il capo dell’ Alde, il belga Guy Verhofstadt, è stato siglato in segreto il 4 gennaio scorso.
È morto a Leeds, all’età di 91 anni, il sociologo e filosofo polacco
Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia, inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il teorico della società liquida, una tag che accoglieva con divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale da intellettuale del Novecento.
Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo, rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente, che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman, infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda.
L’Italia torna in deflazione per la prima volta dal 1959. Non è un incidente di percorso ma un obiettivo che è stato perseguito con lucidità e coerenza
L’ISTAT ha recentemente certificato che il 2016 è stato per l’Italia il primo anno di deflazione dal 1959.
Nell’anno appena terminato, i prezzi hanno registrato una variazione negativa dello 0,1 per centro rispetto al 2015. Era dal 1959, quando la flessione fu dello 0,4 per cento, che non accadeva.
Ciò che a prima vista potrebbe apparire come una manna dal cielo in tempo di crisi – beni e servizi a prezzi più accessibili, ottimo no? – è invece la cartina di tornasole della crisi profondissima in cui versa il nostro paese, quella che il governatore della Banca d’Italia ha recentemente definito «la recessione più profonda e duratura nella storia d’Italia».
La deflazione – con la quale s’intende una caduta generalizzata dei prezzi – è causata dal crollo della domanda aggregata e in particolar modo dei consumi, che infatti in Italia sono tornati ai livelli di trent’anni fa. A questo le imprese reagiscono riducendo il personale e tagliando i salari nonché, appunto, i prezzi. Il che, ovviamente, non fa che deprimere ulteriormente la domanda. E così via, in una spirale distruttiva da cui, una volta entrati, è molto difficile uscire.
Che assist, che autogol! Staranno ancora ridendo tutte le lingue allenate a battere i tamburi, gaudenti della pessima figura di un pezzo della CGIL. E sì, perché si è scoperto che anche una sezione di una categoria, quella dei pensionati (Spi-Cgil di Bologna) ha utilizzato i voucher. Sicuramente non l’unica, e questo di certo è un problema. Un problema per i lavoratori, innanzitutto.
Ma la questione è più complessa, soprattutto in termini di narrazione. L’attesa per la pronuncia della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti referendari, tra cui l’abolizione tout court dei voucher, quale strumento di regolazione delle prestazioni di lavoro, è frenetica e non meno tesa. Da settimane, o meglio dal 4 dicembre – all’indomani della sconfitta referendaria sulla Costituzione – i megafoni del governo e dell’intero blocco di potere italiano non fanno altro che sfornare interviste e articoli post-verità sui buoni lavoro.
Più volte è stato sottolineato come le argomentazioni edotte siano fallaci alla luce della realtà, sintetizzata dai dati statistici a disposizione. Primo tra tutti, la tesi per cui i voucher sono indispensabili per combattere il lavoro irregolare è semplicemente falsa. Gli strumenti normativi a disposizione delle imprese, dei privati e delle pubbliche amministrazioni per regolare rapporti di lavoro saltuari e di breve durata, anche nell’arco della giornata, esistono e sono antecedenti l’introduzione dei voucher.
Sul codice etico recentemente approvato dal Movimento 5 Stelle è stata prodotta una muraglia di commenti che poco ha a che vedere con due temi centrali. Il primo riguarda la politica istituzionale che, ancora come 25 anni fa, si definisce rispetto all’elettorato per il modo con il quale si comporta quando appare un’inchiesta sulla stampa o in tv. Siccome in un quarto di secolo l’asse della politica è cambiato, e di parecchio, non sarebbe male se emergesse l’interrogativo su cosa oggi è veramente centrale. Lo stesso Grillo subisce questa situazione. Nel messaggio di fine anno cita uno studio su cosa potrebbe essere l’Italia nel 2050, qualche giorno dopo riprende la routine di sempre: le manette, gli avvisi di garanzia, gli onesti etc. Delle due l’una: o si colgono gli scenari di enorme novità, citati dallo stesso Grillo, cominciando a cambiare l’agenda della politica italiana giorno dopo giorno, oppure nel 2042, non lontano dal 2050, la centralità della politica sarà quella di oggi, la stessa del 1992: i mariuoli, le manette, l’occhiuta severità del magistrato, la moralità dei partiti, i costi della politica, i codici etici. Auguri, viene da dire.
Il problema è che il Movimento 5 Stelle è espressione di uno choc mai risolto, proveniente da diverse pulsioni, nell’ideologia italiana.
Dalla religione del lavoro alla Londra post-Brexit, dall'anarchismo individualista alla prospettiva di un'Europa “mediterranea”: una conversazione con Federico Campagna, filosofo, attivista e autore di L'ultima notte
Il sottotitolo è già
una
mappa: Anti-Lavoro, Ateismo, Avventura. E il
movimento, al contrario dei soliti pamphlet pieni di
denuncia, numeri e indignazione,
è tutto in ascesa: si racconta ciò che ci tiene incatenati,
il trionfo di una nuova religione – quella del Lavoro – e
poi si
naviga attraverso una miriade di rotte per uscirne. Non sarà
un viaggio facile. E saranno proprio le convinzioni di noi
gente di sinistra che
verranno messe in crisi.
Ispirato da una serie di articoli pubblicati tra il 2008 e il 2013 sul blog che lui stesso ha contribuito a fondare, L’ultima notte del filosofo e attivista Federico Campagna è tra i casi editoriali più interessanti del panorama saggistico attuale. Pubblicato tre anni fa dalla londinese Zero Books dopo che la bozza – caso più unico che raro – era stata consegnata direttamente in inglese dal suo autore, tradotto in italiano da Postmedia (Milano), il libro ha riscosso il plauso di intellettuali affermati come Simon Critchley, Mark Fisher, Franco Berardi o Saul Newman. Secondo quest’ultimo, “Campagna ha scritto niente di meno che un nuovo L’Unico e la sua proprietà, aggiornato per la nostra contemporaneità neoliberale – un’epoca in cui in teoria l’ego individuale regna libero e supremo ma dove, in realtà, l’individuo è soffocato dall’estasi celestiale della fede e della rinuncia a sé”.
Federico Campagna lo incontro a Londra, nella casa dove ha vissuto negli ultimi otto anni, a New Cross, un quartiere operaio a sud del Tamigi ora invaso da studenti alla moda.
Chi avrebbe mai scommesso sulla
capacità di tenuta delle ricette “neoliberiste” propugnate dal
Washington Consensus a quasi dieci anni dall’inizio della
crisi economica più grave dopo quella del ’29, che tiene
ancora nella morsa gran parte delle economie occidentali? Non
molti, pensiamo,
ma sta di fatto che la crisi è tuttora trattata come un
accidente della storia e che se siamo ancora lontani dalla
piena occupazione è
perché – si dice – il processo di liberalizzazione del mercato
del lavoro da anni intrapreso non è del tutto sufficiente a
consentire un adeguato libero gioco delle forze del mercato.
E, stando sempre a questa narrazione, con l’emersione dei
paesi di nuova
industrializzazione e la pressione concorrenziale esercitata
dai loro molto più bassi livelli salariali, sarebbero
necessari interventi di
liberalizzazione persino più incisivi. Ma questa narrazione è
destinata ad essere messa sempre più in discussione quanto
più si estenderà e si consoliderà lo spazio occupato dai nuovi
protagonisti dello sviluppo mondiale lungo percorsi che con il
Washington Consensus hanno molto poco a che fare, come già
ampiamente dimostra la straordinaria ascesa economica e
politica conseguita dalla
Cina. Ed è questo uno tra i più preziosi contributi che ci
offre Diego Angelo Bertozzi con la recente pubblicazione di Cina,
da“sabbia informe” a potenza globale
[Imprimatur editore, 2016, 346 pp], un lavoro di profondo
scavo nella travagliata
vicenda di un paese che, dismessa agli inizi del ‘900 la veste
feudale del “Celeste impero”, deve trovare il giusto slancio
verso
l’uscita dal sottosviluppo, dovendo contrastare le molte
tendenze disgregatrici interne su cui, all’avvio di questo
processo, fanno leva
le potenze coloniali dell’occidente.
Nell'epoca
della frantumazione e della dispersione del
nostro patrimonio politico e culturale, la moltiplicazione
delle voci in campo non è ricchezza ma sintomo della
debolezza e della confusione
oggettivamente esistenti. Oltretutto, questa frantumazione è
favorita dalla rivoluzione tecnologica digitale, che
estendendo al livello di
massa la possibilità di diventare piccoli produttori
indipendenti di contenuti intellettuali, sollecita
inevitabilmente atteggiamenti e derive
anarchicheggianti.
Più che aggiungere sigle a sigle, riviste a riviste, insomma, bisognerebbe unire ciò che è stato diviso, sulla base di pochi punti minimi che definiscono una piattaforma di resistenza.
Ho chiaro questo problema da diversi anni. Nel momento in cui mi sono posto l'obiettivo di dare nuovamente un punto di riferimento agli studiosi di orientamento marxista e storico-materialista, che si trovano oggi assai isolati nel lavoro accademico, la prima cosa che ho cercato di fare è stata perciò quella di partire dall'esistente, ovvero dalla realtà. E provare in primo luogo a rilanciare ciò che già c'era. Una rivista, in particolare, del cui comitato redazionale facevo parte e che da tempo languiva in una crisi editoriale e politico-culturale che era, a sua volta, specchio di una difficoltà più complessiva.
Proposi pertanto alla redazione e alla proprietà della rivista un progetto di ricostruzione, che passava anche per la fondazione di un Centro studi internazionale e per una serie di iniziative parallele.
Era il 2010, quando ancora esistevano possibilità migliori di quelle odierne. Quella mia proposta incontrò tuttavia le resistenze ottuse dei soggetti interpellati, del tutto indisponibili a perdere il controllo che esercitavano sulla testata (la quale, nelle mie intenzioni, avrebbe dovuto cessare di essere una mera rivista di partito o di battaglia politica per diventare - unica possibilità di salvarla - una rivista scientifica riconosciuta come tale).
La manipolazione dei tassi di riferimento appare come un’azione sistemica da parte del mondo finanziario. Una sinistra capace di pensare all’Europa avrebbe dovuto guidare una battaglia per il risarcimento del maltolto
Dal 2005 al 2009 il tasso Euribor è stato falsificato da quattro banche : Deutsche Bank,Royal Bank of Scotland, Société Général, Barclays. L’Euribor, il tasso a cui sono legati i mutui dei cittadini europei, è stato alterato con accordi tra le quattro banche al fine di avere maggiori utili. Solo in Italia dei trenta miliardi di interessi pagati in quel periodo sui mutui erogati, si stimano che tre non fossero dovuti. Su scala europea il totale ammonterebbe a circa venti miliardi. Le quattro banche hanno pagato complessivamente una multa di 1,7 miliardi di euro. Hanno fatto un buon affare mentre le famiglie sottoscrittrici dei mutui hanno pagato mediamente 1.200 euro più del dovuto.
Dal 2006 al 2012 il tasso di prestito interbancario allo scoperto, il Libor è stato più volte manipolato. Sei banche sono state sanzionate , altre due condonate per aver aiutato le autorità ad aprire le indagini sullo scandalo. Il Libor ha un peso enorme sul mercato dei derivati, si stima che trecentomila miliardi di dollari ne siano regolati, ma il Wall Street Journal parla di ottocentomila miliardi. Inoltre influisce sui mutui, prestiti per la scuola per cifre sempre stimate in migliaia di migliaia di miliardi di dollari.
Non sono passati nemmeno 10 giorni dall’inizio del 2017 che abbiamo già la più bella battuta dell’anno: la Cia che si lamenta delle ingerenze esterne. Dopo 70 anni di intromissioni, interferenze, intrusioni, pressioni, stragi e colpi di stato in tutto il pianeta i poveri spioni americani piangono calde lacrime di coccodrillo, anzi di tirannosauro. Ma come si conviene a un’agenzia di spionaggio piange per qualcosa che non esiste, per una tesi priva di qualsiasi prova messa in piedi per volontà dell’asse Obama – Clinton e poteri grigi nel tentativo in extremis di sbarrare la strada a Trump. Si tratta della famosa accusa a Putin di aver determinato il disastro di Hillary piratando le sue lettere, praticamente in combutta con Trump.
Il piano era di lanciare questa tesi inquietante e stravagante assieme perché essa convincesse gli elettori a non votare il tycoon, ma una volta fallito questo obiettivo si è passati al piano B: insistere su questa tesi delirante per convincere i grandi elettori a tradire il voto ed eleggere comunque la Clinton. Andato in acido anche questo piano, si è passati alla fase C: non demordere dalle posizioni nella speranza che le accuse di ingerenza nelle elezioni a favore di Trump accompagnata da opportune provocazioni come le grandi manovre militari ai confini russi o l’espulsione di 35 diplomatici di Mosca dagli Usa, avrebbero fatto saltare i nervi a Putin dando così inizio a uno scontro frontale e dunque anche a un impeachment intrinseco di Trump come agente del nemico.
Attenzione: lo scontro fra Trump e l’establishment americano ha raggiunto livelli inimmaginabili. Mentre la maggior parte dei media europei in queste ore titolano su Trump che avrebbe riconosciuto che la Russia è dietro gli hacker”, anfatizzando un’ammissione che in realtà è generica e chiaramente recalcitrante ( Trump ha ammesso che anche la Russia ha svolto attività di hacking negli Usa, sai che novità!, cosa ben diversa dall’ammettere che dietro tutte intercettazioni ci fossero i russi allo scopo fosse di farlo vincere), la vera notizia di ieri è la scoperta che le prove dei legami “indecenti” fra il neopresidente e il Cremlino è un falso clamoroso.
Un falso che i servizi segreti americani hanno certificato e trasmesso volontariamente alla stampa, in circostanze degne di un film di Hollywood. Riassumo brevemente.
Ieri il sito buzzfeed ha pubblicato il rapporto Top Secret di 35 pagine che era stato consegnato a Obama e a Trump nei giorni scorsi. La lettura di questo documento è interessante anche perché emerge come Trump abbia rifiutato le lucrative proposte di business formulate dal Cremlino. Ovvero: se davvero c’è stato un tentativo di corruzione non è andato a buon fine per stessa ammissione dei servizi americani. Non è un dettaglio secondario, ma quasi nessuno lo ha evidenziato.
Chissà che Presidente degli Usa sarà Donald Trump. A dispetto di quanto sentiamo da settimane, nessuno può dirlo. Magari sarà un disastro, e non sarebbe il primo, alla Casa Bianca. In quel caso prenderemo atto, e lo stesso faranno gli americani. Nel frattempo, i tifosi travestiti da esperti (gli stessi che trovarono geniale l’idea di invadere l’Iraq nel 2003, esclusero la vittoria della Brexit e diedero per scontato il trionfo di Hillary Clinton) dovrebbero spiegare perché, per dire, Rex Tillerson, amministratore delegato e presidente di ExxonMobil e come tale conoscitore dei politici e della politica mondiale, dovrebbe essere un segretario di Stato peggiore della Clinton o di John Kerry. O perché l’ex generale Michael Flynn, due vite nell’esercito (una come soldato in innumerevoli missioni, l’altra come capo della intelligence militare) dovrebbe essere per Trump un consigliere per la Sicurezza nazionale peggiore di quanto lo sia stata Susan Rice per Obama.
Ma appunto: vedremo e capiremo. Per il momento, però, una cosa è certa: la vittoria di Trump ha fatto impazzire il sistema di potere che ha retto gli Usa negli ultimi decenni. Basta osservare quello che succede. L’Fbi è messa sotto accusa dal Dipartimento di Giustizia per essersi mal comportata, nel pieno della campagna elettorale, annunciando di aver ripreso le indagini su Hillary Clinton. La stessa Fbi che viene citata a sostegno della tesi che la Russia ha lavorato in modo decisivo per far vincere Trump.
Il processo di “governizzazione” del movimento grillino assume oggi tratti talmente plateali da renderlo sospetto. Come volevasi dimostrare, il problema del M5S rispetto alla comunità europea non fu entrare nel gruppo parlamentare insieme all’Ukip, quanto oggi scegliere di uscirne, smascherando la sostanza provocatoria dei suoi (sempre più rari) attacchi all’Unione. Aderendo al gruppo liberale dell’Alde, per giunta (sempre che l’Alde stesso lo voglia, il che è tutto da vedere). La sinistra che sbraitava contro l’ignobile alleanza col nazionalista inglese dovrebbe festeggiare. Al contrario, il passaggio politico di questi giorni segna l’ennesima tappa del Movimento verso il definitivo addomesticamento con le politiche europeiste. Esattamente come Tsipras in Grecia, nel gioco di alleanze anti-euro si fa quello che la realtà consente. L’alleanza con l’Ukip, che significava compromettersi con una forza apertamente conservatrice, nazionalista e xenofoba, portava in dote la possibilità di battagliare contro la Ue dentro lo stesso Parlamento europeo. Farage, in questo senso molto più coerente del suo alter ego italiano, la Brexit l’ha portata a casa. Cosa ha portato a casa Grillo, scegliendo di terminare la sua alleanza nel gruppo Efdd? Nulla, ma con questa scelta si propone come candidato credibile agli occhi e agli interessi di quella borghesia che ha come unico obiettivo quello di cementare la costruzione europeista.
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Il 2017 è
appena iniziato e già sono all'ordine del
giorno due casi piuttosto eclatanti di "risparmio tradito".
Naturalmente, il generico concetto di "risparmio tradito",
oggi assai in voga,
può essere forse discutibile. Nel gran calderone della finanza
finiscono infatti tante diverse categorie di risparmiatori. E,
a parte gli
speculatori più o meno professionali, vi troviamo
inevitabilmente famiglie ricche, benestanti, ma anche
appartenenti ad una fascia di reddito e
di ricchezza piuttosto bassa.
Il tema è dunque complesso, ma proprio per questo vale la pena di addentrarvisi. Per farlo correttamente bisogna partire dai grandi numeri. Secondo Prometeia a fine 2016 le attività finanziarie delle famiglie italiane erano risalite a 4.051 miliardi (md) di euro, ritornando quasi ai valori del 2006 (4.059 md). Questo dopo aver toccato il minimo nel 2011 con 3.469 md.
Già questo incremento di 582 md in cinque anni ci parla di molte cose. Premesso che nell'enorme cifra delle attività finanziarie, pari a circa due volte e mezzo il pil del Paese, c'è ovviamente di tutto; premesso che buona parte di questa ricchezza appartiene ad un'infima minoranza di soggetti, l'aumento di questa massa di denaro è la conseguenza diretta di tre precisi fenomeni.
Recensione al libro La Tempesta perfetta, Odradek, Roma 2016 – Campagna Noi Restiamo
In tutti
gli interventi si riscontrano
interessanti analisi sui diversi aspetti della crisi
nell’accertamento delle cause che l’hanno originata, pur se le
diverse analisi
esprimono ovviamente posizioni contraddittorie non soltanto
tra esse, ma anche all’interno di ciascuna di esse.
Nell’insieme però
la lettura del libro è molto interessante, non solo per avere
un’informazione vasta sui diversi aspetti della crisi e delle
relazioni tra
gli Stati Uniti e l’Unione Europea, bensì perché stimola lo
sviluppo di un profondo dibattito all’interno della sinistra
di
classe. E infatti ho letto su Contropiano on-line
diversi interventi di recensione. Con questo spirito mi
accingo a svolgere le
considerazioni che seguono.
Voglio, però, subito evidenziare che dalla lettura del libro si riscontra, a mio modesto avviso, per il movimento di classe la necessità di costruire una teoria economica per l’attuale fase dello sviluppo capitalistico o se si vuol dire meglio per la fase dell’imperialismo nel XXI secolo. Sia perché, in qualche intervento, le categorie economiche marxiane non sono correttamente approfondite alla luce della nostra fase storica, che è diversa da quella in cui visse Marx, sia perché alcune di esse si giudicano superate, come ad esempio la caduta tendenziale del saggio del profitto. Sia infine perché, nella contraddizione generale evidenziata da Marx per la trasformazione di una formazione sociale, contraddizione come è noto rappresentata dal contrasto tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione,
Étienne
Balibar interverrà al La conferenza di
Roma sul comunismo, il giorno 21 gennaio (ore 16, Esc
Atelier Autogestito) su «Poteri comunisti». Essendo tra i
filosofi marxisti
più noti e autorevoli del dibattito europeo contemporaneo
relativo ai temi della cittadinanza e della democrazia,
abbiamo deciso di
intervistarlo al fine di anticipare alcune delle questioni
più salienti che verranno affrontate durante la conferenza
romana.
* * * *
La rappresentazione che Marx aveva del comunismo era di alternativa al capitalismo, il quale d’altronde ne preparava già le condizioni. Su questo si è aperta una delle grandi questioni del comunismo (centrale nel dibattito marxista novecentesco e nella storia dei paesi socialisti), quella relativa alla nozione stessa di transizione. Lei ha osservato in La filosofia di Marx che lungi dall’esserci in questi una visione evoluzionistica, la “transizione” intravista è invece «una figura politica della “non contemporaneità” del tempo storico a sé, ma che rimane iscritta nel provvisorio». Non è in questo antievoluzionismo e nel suo rinvio all’imprevisto, ad una molteplicità di processi, alla stessa rottura rivoluzionaria a risiedere uno dei punti vitali del comunismo oggi?
L’idea di comunismo ereditata da Marx ha una storia lunga, che attraversa tutta la modernità ed è legata a doppio filo con eresie religiose e rivolte sociali.
L’accordo tra il gruppo liberal-democratico del parlamento europeo ed il Movimento 5 Stelle alla fine è saltato; ma rimane comunque significativo che il tentativo sia stato fatto, che cioè Grillo abbia cercato, con il supporto della consueta farsa della “democrazia sul web”, di far rientrare il suo movimento nei canoni della “rispettabilità” politica. Non è affatto una sorpresa dato che molti commentatori avevano rilevato da tempo il carattere del tutto mistificatorio dell’euroscetticismo del M5S.
La pubblicazione del “codice di comportamento” del M5S ha suscitato scontati commenti su presunte “svolte garantiste” o su “norme salva-Raggi”, ma anche in questo caso l’adesione del grillismo agli schemi della “rispettabilità” politica rimane immutata, poiché esso continua a considerare la condanna nel giudizio di primo grado come discriminante per eventuali dimissioni. Per un movimento che si era presentato come sfida all’establishment, risulta davvero ben strana questa sudditanza morale nei confronti della magistratura, come se questa non facesse parte a sua volta dell’establishment. Per un vero movimento di opposizione sarebbe stato più logico non vincolarsi a questioni di condanna di primo grado o di condanna definitiva, ma valutare caso per caso, proprio perché nessuna sentenza può ritenersi di per sé immune dal sospetto di essere originata da manovre di lobbying.
Paul Craig Roberts ricostruisce sul suo blog Institute for Political Economy l’azione di supporto alla propaganda della CIA svolta dai media negli Usa, concentrandosi sul recente caso delle accuse alla Russia di avere interferito nelle elezioni americane attraverso azioni di hacking. Nella totale mancanza di prove, diventa essenziale il sostegno dei media, che diffondono e rendono credibili le notizie false lanciate dalle agenzie di intelligence: come gli esempi concreti portati dall’autore dimostrano con evidenza in questo caso
Per molte settimane abbiamo assistito allo straordinario attacco contro l’elezione di Donald Trump da parte della CIA e di chi la supporta al Congresso e nei media. In uno sforzo senza precedenti volto a delegittimare l’elezione di Trump come prodotto di un’interferenza russa nelle elezioni americane, la CIA, i media, nonché deputati e senatori hanno tutti all’unisono lanciato accuse spericolate, senza mai portare prove. Il messaggio della CIA a Trump è chiaro: stai in linea con il nostro programma, o ti mettiamo nei guai.
È chiaro che la CIA è in guerra contro Trump. Ma chi sostiene la CIA nei media ha rivoltato la frittata e accusa Trump di avere una visione negativa della CIA.
Prendiamo in considerazione l’articolo di Damian Paletta e Julian E. Barnes sul Wall Street Journal del 4 gennaio, che inizia così:
Il sito di The Guardian riporta una delle grandi interviste della storia.
E’ con Goundo Wandianga, l’ultimo giovane maschio rimasto in un tipico villaggio del Senegal, seduto su un copertone, perfetto simbolo del grande agitarsi del mondo che finisce in discarica.
Indossa jeans con regolamentare buco ad altezza ginocchio e maglietta, sullo sfondo alcune capanne di argilla e paglia.
Nella foto, non si vede l’oggetto più importante: il telefonino con cui si tiene in costante attività planetaria su Facebook.
Tutti gli altri sono partiti, “Barça ou Barzakh”, “Barcellona o Morte”, rischiando la vita per mari e deserti, per poter arrivare in Europa. Paradossalmente, si spende di più per pagare i viaggi dei figli in Europa, di quanto ritorni nei villaggi sotto forme di rimesse (pensiamo alle dimensioni economiche dell’industria delle migrazioni…).
Spiega il responsabile regionale di quello che si chiama pittorescamente lo sviluppo:
“nei villaggi, restano solo gli anziani, le donne e i bambini. Non ci sono giovani, perché non c’è nulla che li trattenga. Non c’è nulla che un giovane maschio possa fare, nemmeno per comprarsi una tazza di tè o una sigaretta. E non c’è una famiglia che voglia che i suoi figli rimangano.
Se ne è andato anche Zygmunt Bauman. Abbiamo perduto un altro protagonista indiscusso del pensiero del Novecento e di questo nuovo scorcio di millennio. Un pensatore, peraltro, noto anche al grande pubblico, data la sua frequentissima presenza a festival letterari e rassegne aperte ai non addetti. Un autore amato dal grande pubblico, l’emblema di una cultura che, gramscianamente, si sedimenta in senso comune.
Contrariamente a quanto a reti unificate hanno ricordato tv giornali e sacerdoti del politicamente corretto, Bauman non è stato solo il teorico della società liquida. Certo, quello è il concetto a cui, a torto o a ragione, è e resterà legato il suo nome. E ciò grazie anche alla sua insistenza maniacale sul tema, divenuto, a dire il vero, una sorta di passepartout, un prodotto reclamizzato dall’industria culturale come chiave ermemeutica onnicomprensiva. Tutto diventa liquido nella tarda modernità, dalla paura all’amore. E così, paradossalmente, la categoria critica di liquidità si capovolge in un dogma rassicurante e cessa di svolgere, appunto, la sua funzione demistificante.
Ma Bauman non è stato solo questo. Per fortuna, aggiungerei. È stato anche il fine analista della coscienza di classe e della “economicizzazione del conflitto”:
Quattrocentodiecimila. Fatevela rotolare in bocca, questa cifra, assaporatela come un buon rosso invecchiato. Sono i ragazzi, i non più ragazzi, i praticamente adulti che si sono iscritti al concorso per ottocento posti di assistenti giudiziari. Ci sono anche i miei figli là in mezzo, anche se la folla, l’1% dei votanti in questo paese, mi impedisce di scorgerli.
E quindi ci sono laureati in legge, con i master in procura o l’abilitazione da avvocati, i borsisti universitari, insieme ai colleghi delle altre facoltà, e ai semplici diplomati. A bramare un piccolo posto da impiegato, perchè questo alla fine è diventato il famoso concorso per cancellieri, un’altra delle milllanterie del Bomba. Ma comunque una base su cui costruire invece che una vita da precari, o da benestanti a carico, una vita da lavoratori poveri, quelli che la fine del mese sarà sempre una conquista, ma le prime tre settimane son garantite. Tra questi quelli come i miei che hanno speso tra iscrizioni, tasse, libri e corsi post laurea circa diecimila euro a testa. Hanno una possibilità su 500. Messa una fiches da 10mila sul 17 nero le possibilità sono un po’ meno del 3% e la vincita sono 350mila euro, più o meno una quindicina di anni dello stipendio netto in palio.
1991-2016
Conclusa la Guerra Fredda, nel 1991 si concludeva anche la parabola settantennale del PCI, giunto allo scioglimento al termine del XX congresso. Grazie all’iniziativa di alcuni esponenti storici di quel partito - Libertini, Salvato, Serri, Garavini, gli ex PdUP Magri e Castellina e diversi altri - ma soprattutto grazie al tempestivo lavoro sotterraneo del leader storico della corrente “filosovietica” Armando Cossutta, nello stesso anno nasceva però il Movimento e poi il Partito della Rifondazione Comunista (PRC). Al primo nucleo dei fondatori, che nonostante la notevole diversità negli orientamenti faceva per lo più riferimento alla Casa Madre di via delle Botteghe Oscure, si sarebbe presto unita una piccola pattuglia proveniente da Democrazia Proletaria.
Non è il caso di ricostruire nei dettagli le vicende di questo partito. Ricordo però le prime riunioni semiclandestine e la concitata campagna per le elezioni regionali siciliane, dove fu per la prima volta presentato il simbolo e dove il PRC raccolse un sorprendente 6%. Ricordo inoltre come nei primi anni esso riuscisse a riscuotere il consenso di quella parte dell’elettorato ex PCI che non aveva condiviso il mutamento di nome e soprattutto la ricollocazione politica della tradizione comunista italiana, raggiungendo percentuali importanti in particolare nel Nord Italia industriale (con dati superiori al 10% in città come Milano e Torino).
Ma per l’Italia è preferibile un governo nel
pieno dei poteri o il vuoto istituzionale? A
giudicare dai primi passi in politica estera del governo
Gentiloni, sembrerebbe più conveniente un esecutivo
vacante: i danni inflitti al Paese
sarebbero minori. Tipico è il caso della Libia, dove il
“governo-fotocopia” di Matteo Renzi, indissolubilmente
legato all’era
di Barack Obama ed incapace di adeguarsi ai mutamenti in
corso, si ostina ad appoggiare l’effimero governo d’unità
nazionale di
Faiez Al-Serraj, un fantoccio angloamericano che controlla
a stento qualche palazzo di Tripoli. L’insediamento di
Trump, isolazionista ed
interessato a trovare un modus vivendi con la Russia,
spianerà al generale Khalifa Haftar che, sostenuto da
Mosca e dal Cairo, si candida a
diventare il nuovo dominus della Libia, relegando così ai
margini l’Italia.
Il 2017, come abbiamo recentemente detto, si profila come un “anno di frattura”, durante cui il vecchio ordine mondiale a guida angloamericana sarà definitivamente seppellito: ci riserviamo di trattate l’argomento in un’analisi ad hoc, ma possiamo anticipare che difficilmente l’Italia sarà un protagonista attivo del 2017.
La mia
immagine della società futura - nella misura in cui
sento di poterne fornire una - è desolante. Pensando alla
società dell'Europa Occidentale e del Nord America - la
regione del
capitalismo avanzato - immagino la continuità di una lunga
tendenza di declino sociale, il quale è già in atto da
decenni:
crescente disuguaglianza, stagnazione economica, aumento
dell'insicurezza, frammentazione politica. Mai come prima
nell'epoca moderna, "noi" abbiamo
perso il controllo su dove è diretto il nostro mondo.
Ringraziamo ancora la nostra fortuna di vivere sotto il
comando di un'utile mano
invisibile che agisce sempre al momento giusto, così come
ringraziamo la nostra capacità di improvvisare, la nostra
resistenza alla
pressione. Tuttavia, in realtà, non sappiamo più fino a che
punto tutto questo reggerà.
Le prospettive sono incerte. Nel linguaggio sociologico, quel che vedo è l'avanzare di una degenerazione continua della capacità del consumismo edonista, che ha svolto il ruolo delle vecchie fonti collettive di legittimità, di unificare la nostra società: sia fornendo integrazione sociale sia proteggendoci dai conflitti derivanti dall'anomia. Non riesco a vedere come nel prossimo futuro tali tendenze possano essere contenute o invertite. In quanto sono tutte in relazione con la rapida espansione dell'economia capitalista su scala globale. Vale a dire, le regole della politica democratica, così come delle altre forze che in passato si sono opposte al capitalismo, ora non possono più arrestare il veloce sviluppo di queste tendenze disgregatrici.
Era nato a Poznan, in Polonia, Zigmunt Bauman, nel 1925, e aveva attraversato il tempo di ferro e di fuoco dell’Europa fra le due guerre, tra nazismo, stalinismo, cattolicesimo oltranzista, antisemitismo: di origine ebraica, si era allontanato dalla sua terra, per sottrarsi proprio a una delle tante ondate di furore antiebraico, che da sempre la animano. Era stato comunista militante, poi allontanatosi dal marxismo canonico, influenzato da correnti eterodosse, senza mai però diventare anticomunista, e conservando un importante fondo storico-materialistico nel suo lavoro. Fondamentale in tal senso la sua “scoperta” di Gramsci, che lo aveva aiutato a leggere il mondo con occhi nuovi, rispetto alla vulgata marxista-leninista, ma anche, naturalmente, dalle scienze sociali accademiche angloamericane.
Aveva studiato Sociologia a Varsavia, con maestri come Ossowski, e, lasciata la Polonia, si era diretto prima in Israele, all’Università di Tel Aviv, per poi trasferirsi a Leeds, in Inghilterra dove insegnò fino al pensionamento Sociologia.
Sarebbe però riduttivo definirlo sociologo, sia per il tipo di sociologia da lui professata e praticata, poco accademica e nient’affatto canonica, sia per la vastità dello sguardo, la larghezza degli interessi, la molteplicità degli approcci.
Sulla sentenza della Cassazione di cui abbiamo parlato nell'articolo precedente due autorevoli economisti hanno inviato questo intervento, che è senza dubbio un contributo molto utile alla comprensione del processo politico, culturale e legislativo che ha condotto a questo esito.
Caro Carlo,
concordiamo con diverse delle tue argomentazioni.
Nella frase-chiave che il tuo articolo riprende, potrebbe
colpire - per chi non è
stato molto attento alle riforme introdotte da Monti e
Fornero - il passo della Corte di Cassazione secondo cui fra
le ragioni che il datore di lavoro
può addurre per licenziare un lavoratore "non è possibile
escludere quelle dirette ad una migliore efficienza
gestionale
ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa".
Vorremmo richiamare alla tua attenzione e quella dei tuoi
lettori quanto scrivevamo
nel 2012 (su Quaderni di Rassegna Sindacale - Lavori, n.2) a
questo proposito:
Barack Obama fu «santo subito»: appena entrato alla Casa Bianca fu insignito preventivamente nel 2009 del Premio Nobel per la pace grazie ai «suoi straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». Mentre la sua amministrazione già preparava segretamente, tramite la segretaria di stato Hillary Clinton, la guerra che due anni dopo avrebbe demolito lo stato libico, estendendosi poi alla Siria e all’Iraq tramite gruppi terroristici funzionali alla strategia Usa/Nato.
Donald Trump è invece «demone subito», ancor prima di entrare alla Casa Bianca. Viene accusato di aver usurpato il posto destinato a Hillary Clinton, grazie a una malefica operazione ordinata dal presidente russo Putin.
Le «prove» sono fornite dalla Cia, la più esperta in materia di infiltrazioni e colpi di stato. Basti ricordare le sue operazioni per provocare e condurre le guerre contro Vietnam, Cambogia, Libano, Somalia, Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria; i suoi colpi di stato in Indonesia, El Salvador, Brasile, Cile, Argentina, Grecia. Milioni di persone imprigionate, torturate e uccise; milioni sradicate dalle loro terre, trasformate in profughi oggetto di una vera e propria tratta degli schiavi. Soprattutto bambine e giovani donne, schiavizzate, violentate, costrette a prostituirsi.
Le prime dichiarazioni del ‘presidente eletto’ degli Stati Uniti lasciavano già presagire un cambiamento netto nella politica interna ed estera degli Stati Uniti che le esternazioni più recenti su diversi argomenti hanno ulteriormente confermato.
D’altronde il tentativo di ‘avvelenare i pozzi’ del suo successore da parte di Obama, che ha firmato vari provvedimenti legislativi miranti a rendere più difficile a Trump dar seguito alle sue affermazioni, rende l’idea di quanto sia reale lo scontro tra le diverse strategie esistenti all’interno dell’establishment di Washington.
Se Obama ha rappresentato il tentativo – oltretutto ambiguo e contraddittorio - da parte della borghesia e della classe dirigente di una superpotenza ormai in declino di perseguire i propri interessi tentando un approccio morbido ed elastico nei confronti della maggior parte dei propri competitori, Europa compresa, la presidenza Trump sembra aprirsi all’insegna di un capovolgimento di fronte su più capitoli. Il miliardario ha promesso molte cose, e non è detto che riesca – o voglia – portarle tutte a casa, ma è anche vero che se rispetterà anche solo metà del suo programma le conseguenze sullo scenario internazionale saranno consistenti.
Trump – e i suoi sponsor – sembra fortemente intenzionato a rimettere in discussione i rapporti con l’Unione Europea, sia dal punto di vista economico sia politico-militare.
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Per comprendere realmente gli eventi
siriani occorre uscire dalla tenebra del quotidiano
e interpretare i fatti in una più ampia prospettiva storica. È
indispensabile tener presenti le ragioni socio-economiche del
conflitto, che rendono possibile interpretare in modo non
ideologico gli aspetti
sovrastrutturali della guerra. È necessario, infine,
inquadrare gli eventi nella dinamica dialettica del
conflitto sociale,
che caratterizza le società in guerra.
Rimanere legati alla narrazione dei fatti del giorno è certo utile a conoscere nuovi particolari del conflitto in corso in Siria, ma rischia di far perdere di vista la complessa, in quanto dialettica e intimamente contraddittoria, contestualizzazione storica in cui i singoli eventi debbono venir ricompresi. Per poter provare a ricostruire tale contesto è necessaria una certa distanza non solo spaziale, ma anche temporale dagli eventi. La riflessione, infatti, non può che essere successiva all’azione storico-politica, per quanto diviene poi decisiva, quale fondamento razionale delle nuove azioni politiche. Inoltre rende necessario uno sguardo di insieme, per così dire dall’alto degli eventi, che consente di comprendere, dopo aver fatto esperienza dei singoli alberi (i diversi eventi di cui sono state piene le cronache di questi anni), che essi sono davvero intellegibili solo all’interno della foresta (la totalità del contesto storico) di cui sono parte costituente. Tanto più che – sino a quando non si assume tale posizione per così dire sopraelevata e, per quanto possibile distaccata – non si può che rimanere prigionieri della logica intrinseca a ogni conflitto, in cui diviene in qualche modo necessario prendere parte, ossia assumere una posizione partigiana e, quindi, parziale che non può che comportare una interpretazione ideologica, funzionale all’azione politica.
Alcune riflessioni intorno alla natura storico-sociale della scienza e della tecnologia, sul concetto di uso capitalistico delle macchine, sul “neoluddismo” e sulla possibilità di una scienza e di una tecnica pienamente – o semplicemente – umane
Dopo
millenni di illuminismo, il panico
torna a calare su di una umanità il
cui
dominio sulla natura, in quanto dominio
sugli
uomini, supera di gran lunga, in fatto
di orrore, tutto
ciò che gli uomini ebbero
mai a temere dalla
natura.
T. W. Adorno, Minima moralia.
Il capitale,
forzando la scienza a servirlo,
costringe sempre alla docilità la mano ribelle
del lavoro (A. Ure, La filosofia delle
manifatture).
E non solo la mano, se posso chiosare.
La miseria viene non
tanto dagli uomini,
quanto dalla potenza delle cose.
E. Buret, Corso di economia politica.
Ma la «potenza
delle cose» non è che la
potenza del Capitale!
La razionalità
tecnica di oggi non
è altro che la razionalità del
dominio.
M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica
dell’illuminismo.
Qui di seguito riprendo parte delle considerazioni che su alcuni aspetti del capitalismo del XXI secolo ho svolto in diversi scritti (1) nel tentativo, non so quanto riuscito, di proiettare un cono di luce soprattutto su un punto del tema da me affrontato, la cui grande rilevanza teorica e politica certamente non sfuggirà al lettore, ossia sull’intima e inscindibile relazione che corre tra l’uso (capitalistico) della tecnologia e della scienza e la loro natura storico-sociale (capitalistica).
Pubblicato su "Materialismo
Storico. Rivista di
filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n°
1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del
Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp.
347-354. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/617
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Roberto Finelli: Un
parricidio compiuto.
Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book,
Milano 2014, pp. 404, ISBN 978-88-1641-286-6.
Il libro di Roberto Finelli, a dieci anni di distanza, completa e conclude Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx (Bollati Boringhieri, Torino 2004), recentemente tradotto per Brill1 e finalista al Deutscher Memorial Prize 20162. I due testi non possono essere letti isolatamente, se non altro perché il secondo si configura come il naturale traguardo teorico preparato dal primo, attraverso una revisione del fallimento a cui Marx perviene – già nel 1843 con la Critica del diritto statuale hegeliano3 – nel suo tentativo di critica alla logica e alla filosofia politica hegeliana.
Nel primo testo veniva esaltata l’originalità e la superiorità teorica del Geist hegeliano di contro l’antropologia giovanil-marxiana, tutta improntata sul modulo feuerbachiano del genere umano e dell’alienazione, ovvero del rovesciamento soggetto/predicato. Un’antropologia fusionale e presupposta al concreto sviluppo storicamente determinato dei rapporti sociali fra gli uomini. Finelli al proposito parlava addirittura di «regressione antropologica» rispetto allo spirito hegeliano che – lungi dall’indicare una dimensione di trascendenza ovvero metafisica – è il risultato di un preciso processo storico culturale di mediazione fra bisogni materiali e bisogni di riconoscimento; fra produzione materiale e produzione simbolica;
Bassezze e scorrettezze fanno parte della quotidianità politica nazionale e, in fondo, ogni Paese si piange le sue. Quando però la voglia di pestare i piedi al tuo successore mette a rischio la stabilità di altri popoli, allora occorre prestare attenzione.
Mi riferisco, in particolare, al Presidente uscente Obama ed al suo patetico addio alla presidenza americana fatto di sgambetti a Trump di cui l'ultimo, però, rischia di essere molto pericoloso per l'Europa tutta.
87 carri armati, obici semoventi e 144 veicoli da combattimento Bradley sono stati scaricati pochi giorni fa nel porto tedesco di Bremerhaven e, nelle prossime settimane, si aggiungeranno oltre 3.500 truppe della 4° Divisione di Fanteria di Fort Carson, una brigata di aviazione da combattimento che "vanta" circa 10 Chinook, 50 elicotteri Black Hawk e 1.800 membri del personale da Fort Drum nonché un battaglione con 24 elicotteri d'attacco Apache e 400 membri del personale da Fort Bliss, tutti destinati all'Est Europa come riporta l'Independent.
Si tratta del più grande trasferimento di armamenti e truppe americane in Europa dalla caduta dell'Unione Sovietica.
L'obbiettivo? Militarizzare l'Europa orientale con lo scopo, dichiarato, di "sostenere un'operazione della NATO per scoraggiare l'aggressione russa", la cosiddetta "Operazione Atlantic Resolve" nata dopo la crisi ucraina.
Con la bocciatura schiacciante del tentativo di snaturare la Costituzione da parte di un Parlamento non legittimato a farlo il popolo ha reclamato un nuovo inizio, ma non sa come tradurre la vittoria in azione politica per incassarne i vantaggi. L’equivoca legalità che caratterizza la situazione attuale ricorda la Repubblica di Weimar
Anche se nel 2006 si proponeva di diventarlo in una forma istituzionalmente compiuta, il berlusconismo non era un regime. E’ rimasto un modello culturale. Una concezione generale del mondo che ha sedotto l’opinione pubblica, condizionando gli stili di vita individuale e collettiva. Su di essa le parentesi prodiane, montiane e lettiane sono state ininfluenti. Il referendum del 4 dicembre invece ha inferto un colpo di scure e segna una profonda discontinuità. Per questo, ha un’importanza storica. Annuncia una svolta e le sue implicazioni sono paragonabili a quelle del referendum istituzionale del 1946, che punì la monarchia per la complicità prestata all’avvento del fascismo e la vile ignavia con cui assistette alla sua fine. L’esito della madre di tutti i referendum, però, è tuttora contestato, perché l’esiguo scarto con cui prevalse l’opzione per la Repubblica non è mai uscito dal cono d’ombra dei sospetti in ordine alla sua veridicità.
« Le trasformazioni rivoluzionarie non possono essere realizzate senza cambiare almeno un poco le nostre idea, abbandonando le convinzioni alle quali siamo affezionati e i pregiudizi, rinunciando alle nostre comodità quotidiane ed ai diritti, sottomettendoci ad un nuovo regime di vita quotidiana, cambiando i nostri ruoli politici e sociali, riconsiderando i nostri diritti, doveri e responsabilità ed alterando i nostri comportamenti in modo da adeguarli meglio ai bisogni collettivi e alla volontà comune. Il mondo intorno a noi - le nostre geofgrafie - dev'essere radicalmente ridisegnato così come la maggior parte delle nostre relazioni sociali, la relazione con la natura e tutti gli altri momenti, nel processo co-rivoluzionario. È comprensibile, in qualche misura, che molti preferiscono una politica di negazione ad una politica di confronto attivo con tutto questo. » - David Harvey, "Organizzare la transizione anticapitalista" -
* * * *
Non appena ho finito di rileggere questo saggio di Harvey, mi è tornato subito in mente quanto siano pieni di merda i radicali keynesiani. Così ho pensato di indirizzare le mie riserve ad uno dei più autorevoli marxisti degli Stati Uniti, David Harvey, il quale quasi dieci anni fa ha scritto a proposito della necessità di un'alternativa rispetto all'attuale sistema...
La censura, la manipolazione e la sovrapproduzione di notizie come strumenti di lotta di classe
Il protrarsi della crisi sta sconvolgendo l’umanità portandola in un vortice di conflitti economici e militari di cui non si vede via d’uscita. Gli attentati sono quasi all’ordine del giorno e lo stato di tensione coinvolge ogni campo dell’attività umana. In questa situazione l’agitazione e la propaganda divengono fondamentali per tutte le parti in conflitto. Per quanto riguarda la prima, la diffusione di internet mette in crisi la forma classica di controllo dell’informazione basata sulla censura operata dai padroni dai mass-media tradizionali (giornali e radio-televisioni) consentendo a voci silenziate, marginalizzate o semplicemente distanti per lingua o geografia di poter raggiungere il grande pubblico globale informatizzato. Il mezzo liberatorio, tuttavia, si converte in un altrettanto potente mezzo di censura a disposizione della classe dominante. I contenuti, una volta sul web, sono canalizzati e ordinati con criteri ignoti e le nuove tecnologie informatiche ne facilitano così tanto la genia da rafforzare la tendenza alla loro sovrapproduzione e adulterazione. A diventare più facile, però, è anche il disvelamento delle informazioni occultate o menzognere, e dato il carattere strutturalmente predatorio del modo di produzione dominante, ciò risulta essere un problema, per lorsignori, di non poco conto.
Il verdetto della
corte costituzionale
sui referendum sociali promossi dalla Cgil ha giudicato
ammissibili i quesiti riguardanti l’abrogazione
dell’istituto dei voucher e
l’introduzione della clausola di responsabilità negli
appalti per le imprese. Ha invece bocciato il quesito sul
ripristino
dell’articolo 18. Tra i due quesiti ammessi, quello che ha
più fatto discutere è sicuramente il primo: i voucher.
L’accanimento contro l’ipotesi di abolizione dei voucher è stato clamoroso. Tuttavia, a un profluvio di interviste a sostegno dei buoni lavoro, agli scoop sull’utilizzo da parte della Cgil, fa da contraltare un mondo del lavoro sempre più povero e precario, delegittimato della sua funzione sociale e da questo bisogna ripartire quando si discute di voucher.
Occorre andare con ordine: capire da un lato la portata, sul sistema economico e delle relazioni industriali, dell’esplosione dei voucher dopo la loro totale liberalizzazione; dall’altro va fatto un ragionamento complessivo sui voucher per rivelare l’ideologia alla base della loro strenua difesa.
Spesso infatti, oltre alle argomentazioni deboli sul piano fattuale (ne parliamo più avanti), l’esistenza dei buoni lavoro viene assunta non solo come inevitabile di fronte a un’economia che conta tre milioni di disoccupati, ma allo stesso tempo come utile a garantire la flessibilità di cui hanno bisogno le imprese per svolgere il proprio compito di creazione di valore e ricchezza.
Foglie di fico sulle
vergogne
Se ne va il peggiore presidente della storia americana, il più sanguinario, il più ipocrita, il più criminale, quello che ha fatto odiare gli Usa nel mondo più di qualunque predecessore. E il “manifesto”, ossimorico quotidiano finto-“comunista” e vero-sorosiano, che ancora qualcuno legge pensandolo onesto e di sinistra, sulle cui oscenità ancora qualcuno traccia con la sua penna foglie di fico, mobilita tutti i suoi embedded e scrive epitaffi che neanche a Che Guevara o Antonio Gramsci.
Un florilegio: “La sua presidenza ha avuto come obiettivo prioritario la costruzione di una democrazia reale… punti che dovrebbero dar corpo all’eccezionalismo americano…conquiste che dovrebbero essere considerate irriversibili sul terreno dei diritti, ma anche quel terreno di relazioni internazionali con paesi che non è più possibile demonizzare e o punire, come è stato fatto prima di Obama (sic !)… Il presidente esce di scena per restare. Per essere un punto di riferimento e di leadership morale… E’ il noi che conta, non l’io, è una scossa a reagire. L’America obamiana non starà alla finestra mentre i repubblicani agitano il piccone… è un leader altro rispetto a una classe politica distante dal popolo… Oggi sembra essere l’unica ripresa di una politica in grado di costruire una prospettiva democratica…” E ci sono firme rispettabili che, pur ridotte a un umiliante lumicino redazionale dalla direzione, ancora si prestano a fornire foglie di fico a queste oscenità.
l testo che segue è tratto da una delle relazioni tenute all’inizio del seminario “Una nuova cultura politica? La sinistra in tempi interessanti. Generazioni a confronto” che si è tenuto venerdì 16 dicembre a Roma presso la Sala di Santa Maria in Aquiro del Senato. Ringraziamo il prof. Biasco per aver accettato di partecipare e di farci pervenire l’intervento seguente
Il disarmo
intellettuale
Quando un partito (o uno schieramento politico) è un “mondo” culturale percorso da elaborazione profonda e storia, la fusione e amalgamazione delle generazioni e dei ceti che in esso si riconoscono è fluida e facilitata. Per lo meno ne è condizione necessaria, visto che della frattura generazionale che si è verificata all’interno della sinistra il crollo intellettuale è certo una delle cause. Una frattura, che ha determinato una perdita in entrambe le direzioni depauperando i canali per la memoria storica, la trasmissione e l’acquisizione di problematiche, le categorie analitiche e la verifica della loro idoneità a interpretare le trasformazioni, nonché la condivisione reciproca di soggettività e di quanto domandato e offerto alla politica. Oggi è un bell’evento [il seminario del 16, NdR] di cui dobbiamo ringraziare Bottos e il gruppo che si riunisce attorno a Pandora, che hanno consentito questo confronto tra una parte più riflessiva e più militante della nuova generazione – che sente questo smarrimento e si chiede quali siano le coordinate della sinistra – e personalità che hanno vissuto altre epoche, ma che si pongono gli stessi problemi, in una ricerca convergente con le loro ansie politiche e intellettuali. Grazie
Se la sinistra “riformista” (da ora in poi “sinistra”) non ha più una decifrabile identità e cultura politica non tutto è ascrivibile a leadership più recenti (che pure hanno abbondantemente messo del proprio e reciso i legami con quel che rimaneva di vitale).
Mai come nel caso della decisione della Corte Costituzionale di bocciare il referendum sull'articolo 18, sarebbe giusto dire che bisogna aspettare di leggere con attenzione le motivazioni della sentenza, quando essa sarà stesa e resa pubblica.
Per farsene o no una ragione. Non certo per quella sciocchezza che si sente dire per cui le sentenze si applicano e non si commentano. Le sentenze, comprese quelle della magistratura ordinaria, si commentano eccome, proprio perché volenti o nolenti si devono applicare. Ma perché la curiosità di sapere a quale appiglio motivazionale la maggioranza dei giudici della Corte si sono aggrappati per esprimere un simile diniego è davvero forte.
L'impressione, per usare un eufemismo, che ora si può avere, in assenza di queste motivazioni, è che si tratti di una sentenza squisitamente politica. Di una sentenza cioè ove le motivazioni di opportunità abbiano fatto ampiamente agio su quelle squisitamente giuridico-costituzionali. I precedenti che la Corte aveva davanti parlavano e tuttora parlano chiaro.
Il più recente che riguarda la stessa materia, l'articolo 18, risale al 2003. Allora i proponenti del referendum, fra i quali chi scrive, chiedevano l'estensione della tutela reale, ovvero del reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamenti illegittimi, in tutti i luoghi di lavoro, senza soglia alcuna.
Federico Chicchi ripercorre il pensiero e la vita di Zygmunt Bauman
Difficile davvero scrivere qualcosa di originale sul sociologo polacco appena scomparso. Tutti i media sembrano presi dalla smania di dirne qualcosa, di celebrarne la sorprendente capacità intuitiva, l’umanità, il coraggio di continuare a portare i panni della trincea intellettuale fino all’ultimo dei suoi giorni. Forse sarebbe meglio lasciarlo scorrere questo fiume in piena e provare a imbastire più tardi un ragionamento a freddo, o meglio ancora, organizzare un campo plurale di riflessioni sulle sue numerose e molto variegate opere. Ma l’urgenza che determina un lutto deve essere ospitata, non può essere evasa e rimossa in un cassetto di carte. Il modo migliore per iniziare ad elaborare un lutto è però quello di non truccarlo con inutili e barocche nostalgie.
Bauman ci mancherà, senza ombra di dubbio. Ci mancherà come colui che testardamente voleva rivendicare per la sociologia una postura critica e scomoda, ma anche e soprattutto schietta nella denuncia delle miserie umane cui il capitalismo ci costringe. Ci mancherà il sociologo di formazione marxista, studioso di Gramsci e nemico inflessibile di ogni determinismo metodologico e ideologico, prima ancora ci mancherà il Bauman, costretto a riparare in Unione Sovietica per sfuggire alle persecuzioni naziste. Il Bauman soldato in guerra contro ogni fascismo, e il Bauman vicino alle storie degli operai polacchi.
Nuovo caso di spionaggio di super vip a Roma e dovremmo averci fatto il callo. Gli ingredienti della perfetta spy story all’italiana ci sono tutti: una agenzia di intercettazioni tenuta da una coppia (questa volta fratello e sorella), lui iscritto alla massoneria, lei nata negli Usa, uno scantinato nel centro di Roma zeppo di materiale raccolto… Ed, ovviamente, le piste investigative più o meno vere (Politica? Affari? Malavita? Di tutto un po?).
Ovviamente è troppo presto per fare ipotesi fondate: pista americana? Si è la più verosimile per gli elementi già presenti: la tecnologia usata, troppo sofisticata per essere a disposizione di chiunque, la nazionalità della ragazza, i precedenti in materia… Tutto vero e la pista americana è la più credibile ma a volte, la pista più ovvia è anche la più falsa. Per cui lasciamo la cosa momentaneamente in sospeso, pur tenendo a mente la pista americana, e concentriamoci sulle poche cose certe, procedendo un passo alla volta.
In primo luogo le proporzioni dell’attività di spionaggio: 18.327 intercettati in un arco di almeno 5 anni (ma probabilmente di più) e per un traffico presumibilmente di centinaia di migliaia di comunicazioni. Infatti, che senso avrebbe intercettare personaggi di quel calibro per poche decine di mail o telefonate?
Invito alla lettura dell'atteso libro di Pierluigi Fagan: Verso un mondo multipolare (Fazi, 2017)
Un caso editoriale, per il senso comune, è quello suscitato da una pubblicazione capace di distinguersi dalle altre in forza del numero di copie vendute e della risonanza mediatica ottenuta. Per noi, invece, un vero caso editoriale è quello rappresentato da un libro capace tanto di colmare un vuoto di sapere quanto di provocare il pensiero di chi legge "obbligandolo" a mettere in discussione le proprie coordinate. Il volume scritto da Pierluigi Fagan per l'editore Fazi, e intitolato Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell'era Trump (in uscita oggi nelle librerie), rientra tra le poche opere degli ultimi anni degna di essere inclusa nel secondo tipo di pubblicazioni appena descritto. Fagan è un intellettuale acuto, ironico e decisamente informato. Le sue analisi geopolitiche, sostenute da una vasta cultura che spazia tra filosofia, politica, storia, geografia e scienze (soft e hard), offrono in tempi inquieti come gli odierni, tentati troppo spesso dalla propensione alla semplificazione, delle buone occasioni per rimettere in moto il pensiero. Questo libro si propone di descrivere, con spirito critico e vocazione costruttiva, la transizione epocale che sta trascinando l'Occidente e il mondo intero verso nuovi assetti prima impensabili.
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Dobbiamo essere
imprevedibili (D. Trump).
L’aspetto politicamente più intrigante di un personaggio “impolitico” (ma si vedrà presto fino a che punto questo cliché potrà reggere) come Donald Trump consiste, a parer mio, nella sua inclinazione a esprimere opinioni e concetti senza badare troppo ai paludati canoni della tradizionale mediazione politico-diplomatica. Il rude linguaggio del nuovo Presidente americano esprime il brutale linguaggio degli interessi, prim’ancora che le sue personali convinzioni sul mondo e su quant’altro. Detto questo, occorre anche dire che molte delle recenti dichiarazioni di Trump, che hanno messo in subbuglio l’establishment politico dell’Unione Europea e della Cina, mentre hanno invece rincuorato “l’amico Putin”, non esprimono un’assoluta originalità di linea politica, neanche rispetto alla sostanza di molti aspetti della politica estera – e in parte anche di quella interna: vedi la politica di contenimento dell’immigrazione ai confini del Messico – praticata dal progressista Premier uscente. Da anni Obama batte sul tasto dei costi della politica di sicurezza dell’Alleanza Atlantica, ribadendo in ogni occasione utile la necessità di riequilibrarli a vantaggio degli USA. Su questo punto rinvio al mio post Gli Stati Uniti tra “isolazionismo” e “internazionalismo”. La novità sta piuttosto nella franchezza del linguaggio politico adoperato da Trump, franchezza che a sua volta segnala un’accelerazione nelle tendenze politico-strategiche degli Stati Uniti, riscontrabile nella seguente dichiarazione: «L’Alleanza Atlantica è obsoleta, perché è stata concepita tanti e tanti anni fa».
Mentre utili idioti e amici del giaguaro marciano contro Trump, Obama avvelena i pozzi in Siria
Molte delle celebrità che dicono di
non andare (all’insediamento)
non erano mai state
invitate. Non voglio le celebrità, voglio il popolo,
è lì che abbiamo le più grandi celebrità”. (Donald
Trump)
E’ stupefacente e anche
un po’
disgustoso vedere
quanti cagnetti profumati da salotto si
sono
messi con il branco di rottweiler a sbranare un
botolo che aveva appena cominciato ad abbaiare”.
(Ernesto
bassotto)
Mercenari professionisti
Titolo spiazzante, anzi scandaloso? Vediamo. A cosa vengono impegnati i jihadisti delle varie formazioni mercenarie impiegate in Medioriente (ora anche in Asia e Africa e individuati come attentatori in Occidente)? A mantenere e allargare il dominio, a fini di controllo e sfruttamento, su zone del mondo ricche di risorse, e/o di importanza strategica, e/o la cui sovranità e autodeterminazione costituiscono ostacolo alla globalizzazione Usa, UE e Israele e rispettivi clienti, a volte collusi a volte collidenti, perché ne spuntano gli strumenti armati e/o economici.
Scrive Zizek, ieri sul Corriere della Sera:
“Donald Trump è un sintomo di Hillary Clinton, nel senso che l’incapacità del partito democratico di svoltare a sinistra ha creato lo spazio occupato da Trump”.
E’ una verità generale, riproducibile negli Usa come in Europa: l’affermazione delle forze populiste non è avvenuta “a scapito” delle sinistre, ma per mano di queste, del loro fallimento, delle macerie che hanno lasciato nella rappresentanza degli interessi popolari. Il dilemma Donald Trump (dei Donald Trump di tutto il mondo, da Le Pen a Grillo) si risolve non accanendosi contro il sintomo, ma svelandone le cause. Ancora Zizek:
“Trump promette negli Usa quel che nessuno, a sinistra, si sognerebbe di proporre: mille miliardi di dollari di grandi lavori pubblici per aumentare l’impiego”.
Ancora una verità generalizzabile: è il populismo che promette resistenza alla globalizzazione liberista. Cosa promettono le sinistre, che Zizek limita a quelle “moderate” e “liberali”, ma che noi estendiamo anche a gran parte di quelle radicali?
Per capire Trump partiamo da una regola sacrosanta in economia e nella vita : tutto ciò che non è sostenibile presto o tardi non sarà sostenuto
Alcune considerazioni sull'intervista che Donald Trump ha concesso al Sunday Times.
L'intervista dell'uomo che a giorni diventerà il 45° presidente degli Stati Uniti è davvero emblematica e per capirla nella sua essenza bisogna partire da una regola sacrosanta in economia - e penso nella vita in generale - : tutto ciò che non è sostenibile presto o tardi non sarà sostenuto.
Trump parla di una "NATO obsoleta" e in effetti gli USA si sobbarcano la difesa dell'Europa (bisognerebbe inoltre domandarsi cos'è l'Europa che viene difesa e da chi eventualmente viene difesa) pagandone le spese in buona parte. Oggi gli USA hanno un rapporto Debito/PIL superiore al 100%, una situazione sociale dove 42,6 milioni di statunitensi sopravvivono con i food stamp (i buoni pasto statali per gli indigenti; da notare che alla fine dell'era Bush Jr. erano 32 milioni) e il tasso di partecipazione al lavoro è sceso dal 65% al 62%, il che significa che l'esercito degli invisibili è aumentato di milioni di persone.
Bastano questi dati per capire che quella di Trump non è una sparata ma un dato di fatto: gli USA non possono pagare la difesa di paesi ricchissimi quali l'Olanda, la Danimarca, la Norvegia, la Germania e l'Austria, giusto per fare qualche nome.
Improvvisamente, nel bel mezzo della crisi, Governo, direzioni sindacali e aziende sembrano aver trovato la pentola magica: un modo per dare a tutti senza scontentare nessuno. E’ il welfare aziendale. Il Governo defiscalizza, il lavoratore incassa, l’azienda concede. E’ veramente così? Tutto il contrario. Il welfare aziendale è una tappa ulteriore nello smantellamento dello stato sociale. Non solo, è anche un attacco al tuo salario. Lentamente, ma inesorabilmente, le quote di welfare aziendale saranno considerate sostitutive degli aumenti salariali. Invece di soldi, riceverai fondi in “benefits”. Non solo si torna al pagamento in natura degli anni ’50, ma vieni legato a doppio filo all’azienda: se perdi il lavoro, perdi quote di servizi e assistenza.
Il welfare aziendale è un vero e proprio mercato dove operano grandi aziende, assicurazioni, una serie di soggetti che riescono a guadagnare da servizi come sanità, scuola, assistenza agli anziani. Com’è possibile che forme di stato sociale diventino improvvisamente così profittevoli? La risposta è semplice. Se c’è qualcuno che riesce a lucrare su queste voci, c’è qualcuno che ci perde. Questo qualcuno sei tu.
La legge di stabilità 2016 del Governo Renzi ha dato ulteriore spinta a questo sistema: “la Legge ha potenziato le agevolazioni fiscali per le aziende che concedono servizi (…); permette l’erogazione di premi di risultato in forma di servizi e welfare (..).
Il 12 gennaio, due giorni dopo il suo discorso di addio, il presidente Obama ha dato il via al più grande schieramento di forze terrestri nell’Europa orientale dalla fine della guerra fredda: un lungo convoglio di carrarmati e altri veicoli corazzati statunitensi, proveniente dalla Germania, è entrato in Polonia.
È la 3a Brigata corazzata, trasferita in Europa da Fort Carson in Colorado: composta da circa 4.000 uomini, 87 carrarmati, 18 obici semoventi, 144 veicoli da combattimento Bradley e centinaia di Humvees. L’intero armamento viene trasportato in Polonia sia su strada, sia con 900 carri ferroviari. Alla cerimonia di benvenuto svoltasi nella città polacca di Zagan, l’ambasciatore Usa Jones ha detto che «man mano che cresce la minaccia, cresce lo spiegamento militare Usa in Europa».
Quale sia la «minaccia» lo ha chiarito il generale Curtis Scaparrotti, capo del Comando europeo degli Stati uniti e allo stesso tempo Comandante supremo alleato in Europa: «Le nostre forze sono pronte e posizionate nel caso ce ne fosse bisogno per contrastare l’aggressione russa». La 3a Brigata corazzata resterà in una base presso Zagan per nove mesi, fino a quando sarà rimpiazzata da un’altra unità trasferita dagli Usa.
Nelle ultime settimane si sono scritti fiumi di parole sul salvataggio di MPS ed effettivamente anche noi avremmo avuto non poche cose da dire, ma prima di esprimerci abbiamo preferito leggere il testo del decreto che proprio in queste ore è approdato in parlamento per la conversione.
Ebbene ora, dopo aver letto attentamente le carte, possiamo affermare con certezza che si tratta di una vera e propria truffa ai danni di tutti noi e sopratutto che dietro la presunta tutela dei risparmiatori si cela l'ulteriore arricchimento di pochi.
Salvare una banca vuol dire in concreto socializzarne
le perdite mentre tutti gli utili fatti in
precedenza restano
chiaramente privati. Un evidente ingiustizia che
tra l'altro mostra ancora una volta quanto ipocriti siano
politici, banchieri e padroni che
quando le cose girano bene condannano in ogni modo
l'intervento dello Stato nell'economia e glorificano
l'infallibilità e l'autonomia dei
mercati, mentre quando si trovano in difficoltà non esitano a
pretenderne il tempestivo intervento.
Intervento che chiaramente si deve
limitare a rimettere in sesto la banca che una volta ritornata
profittevole deve essere restituita al mercato come afferma lo
stesso Governo.
Capitale umano, risorse umane,
capitale
sociale, capitale naturale, ottimizzazione, imprenditore di
sè, modello di business. Sono questi i termini che oggi
identificano la forma
neoliberale che il capitalismo ha assunto. Sono termini
espliciti che rimandano a realtà opache e tutt’altro che
definite. Sono parole
entrate entrate nell’uso comune corrente di economisti e
analisti politici, sociologi del lavoro, teorici e critici del
capitalismo, –
termini che sono impiegati per descrivere la crisi del regime
economico imperante a partire dei primi anni Ottanta dello
scorso ‘900.
Queste parole sono parte di un lessico economico-politico centrato sulla cosiddetta “forma d’impresa”, cioè su quell’insieme di pratiche economiche, burocratiche e finanziarie di valorizzazione, accumulazione e sfruttamento privato delle risorse in atto nella quasi totalità dei paesi.
Si tratta dunque di un lessico che distingue una civiltà, che anima processi di “civilizzazione” e di democratizzazione, processi che sono resi possibili dal progressivo scardinamento dello stato sociale novecentesco, dalla distruzione dei servizi sanitario e dell’istruzione, dell’assistenza e della previdenza per mezzo di estese e pervasive privatizzazioni.
Negli Stati Uniti,
il giorno dell’insediamento del Presidente Trump, migliaia di
scrittori esprimeranno la loro indignazione. “Per poter
guarire e andare
avanti…”, si dice al Writer Resist, “vogliamo andare oltre il
discorso politico diretto, e, concentrandoci sul futuro, noi,
come
scrittori, possiamo essere una forza unificatrice per la
tutela della democrazia”.
E ancora: “Esortiamo gli organizzatori e relatori locali ad evitare di chiamare per nome i politici o di usare un linguaggio di contestazione come punto focale per l’evento Writer Resist. È importante garantire che le organizzazioni senza scopo di lucro, a cui sono vietate campagne politiche, si sentano sicure nel partecipare e sponsorizzare questo evento”.
Pertanto, la vera protesta è da evitare, non essendo esentasse.
Confrontiamo queste fesserie con le dichiarazioni del Congresso degli Scrittori Americani, tenutosi alla Carnegie Hall di New York nel 1935, e di nuovo due anni dopo. Erano incontri elettrici, di scrittori che discutevano sul come reagire di fronte ad infauste situazioni in Abissinia, Cina e Spagna. Vi si leggevano telegrammi di Thomas Mann, C. Day Lewis, Upton Sinclair e Albert Einstein, che rispecchiavano la paura che grandi poteri stavano ormai dilagando e che era diventato impossibile discutere di arte e letteratura senza parlare di politica o, addirittura, di azione politica diretta.
Sulle ansie già ben oltre il livello di guardia della classe dirigente europea, nel fine settimana si è abbattuta come un ciclone un’intervista dai toni destabilizzanti rilasciata dal presidente eletto americano, Donald Trump, al Times di Londra e alla Bild tedesca. Il prossimo inquilino della Casa Bianca è sembrato non avere alcuna intenzione di moderare le proprie posizioni sulle questioni di politica estera, ma ha anzi prospettato un burrascoso riassetto delle relazioni transatlantiche in parallelo con l’intenzione espressa da tempo di ricalibrare le priorità strategiche di Washington.
I bersagli principali delle critiche di Trump sono stati significativamente la NATO e la cancelliera tedesca, Angela Merkel, vale a dire rispettivamente uno dei cardini della stabilità interna europea e delle relazioni tra Stati Uniti e vecchio continente e la forza politica ed economica dominante nell’Unione.
Per quanto riguarda l’Alleanza atlantica, Trump è tornato sui temi della campagna elettorale, ribadendo come buona parte dei suoi membri non si faccia carico in maniera sufficiente della propria fetta di spese militari, ma si affidi piuttosto alla copertura garantita proprio dagli USA. Ancora più allarmante per i governi europei è stato il giudizio espresso da Trump sulla NATO, definita “obsoleta” e incapace di contrastare la minaccia del terrorismo.
Complicata la realtà, per chi la scopre aggiornando il proprio diario social. Dannatamente complessa, a giudicare dai sondaggi che certificano il sorpasso del M5S sul Pd come primo partito italiano (col 30,9% dei consensi). Nonostante tutte le presunte gaffe, le boutade immaginarie, i passi falsi apparenti, il movimento grillino aumenta i suoi consensi (almeno quelli elettorali), invece di crollare sotto i colpi della razionalità politica. Il problema è che quelli che “noi” giudichiamo errori, per i Cinque stelle tali non sono, e corrispondono ad una strategia precisa, magari non perfettamente definita, ma che persegue una visione di fondo. Che può non piacerci, che possiamo criticare, ma che dobbiamo capire prima di valutare. Perché ancora molti, almeno a sinistra, giudicano Grillo come “incompetente”, “ingenuo”, “incapace”. Dare dell’incapace a qualcuno che in sette anni ha prima fondato dal niente un movimento politico, poi lo ha portato a vincere le elezioni nella città più importante del paese, e oggi ad essere il primo partito italiano: il tutto non stabilizzando il sistema, ma organizzando elettoralmente la rabbia popolare, certifica solo l’incapacità della suddetta sinistra di leggere la realtà.
Come scrivevamo solo pochi giorni fa, Grillo ha probabilmente capito che il suo movimento, qualsiasi cosa faccia o dica, gode di una rendita di posizione al momento non scalfibile da altri movimenti o partiti.
L’imminente insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti porterà alla Casa Bianca un inquilino fortemente favorevole ad un brusco cambio di rotta delle politiche conte negli ultimi anni da Washington nei confronti della Russia di Vladimir Putin. Più volte, in dichiarazioni d’intenti e interviste, Trump ha infatti espresso apertamente la volontà di superare l’aspra conflittualità geopolitica col Cremlino e di aprire un dialogo tra Stati Uniti e Russia su temi di interesse comune. Nonostante lo stesso Putin non possa non recepire in maniera positiva i segnali distensivi di Trump, nei prossimi mesi l’effettivo reset tra Washington e Mosca si potrà produrre solo se i dialoganti sapranno costruire una piattaforma di fiducia e individuare i temi cruciali attorno ai quali imbastire il loro dialogo.
Gli ostacoli potenzialmente in grado di interrompere la convergenza tra Putin e Trump sono numerosi e di notevole portata. Non va infatti sottovalutato il ruolo che negli Usa potrebbe giocare un’istituzione come il Congresso, i cui componenti sono decisamente ostili al dialogo con la Russia, ritenuta il principale avversario strategico, sulla scia di considerazioni dominanti anche nelle alte sfere del Pentagono e dell’apparato burocratico del Partito Repubblicano. Nominando Rex Tillerson a capo del Dipartimento di Stato, Trump ha voluto mandare un messaggio forte, puntando a riqualificare l’importanza di un centro di potere notevolmente depotenziato nel corso della seconda amministrazione di Barack Obama:
Il noto non è conosciuto. Così diceva Hegel. E non è conosciuto perché lo diamo per scontato o rinunciamo a ragionarvi serenamente, complice la distrazione di massa che regna a ogni latitudine. Lo sappiamo da anni. Anche da prima che ce lo ricordasse Thomas Piketty nel suo studio sul capitalismo nel ventunesimo secolo.
Il mondo post-1989 non è il mondo della libertà, come ripetono i suoi ditirambici cantori: a meno che per libertà non si intenda quella del capitale e dei suoi agenti. Per il 99% della popolazione mondiale il post-1989 è e resta un incubo: un incubo di disuguaglianza e miseria.
Ce l’ha ancora recentemente ricordato Forbes, la Bibbia dei sacerdoti del monoteismo del mercato deregolamentato. Otto super-miliardari – meticolosamente censiti da Forbes – detengono la stessa ricchezza che è riuscita ad accumulare la metà della popolazione più povera del pianeta: 3,6 miliardi di persone. L’1% ha accumulato nel 2016 l’equivalente di quanto sta nelle tasche del restante 99%.
Insomma, ci sia consentito ricordarlo, a beneficio di quanti non l’avessero notato o, più semplicemente, facessero ostinatamente finta di non notarlo: il mondo è sempre più visibilmente diviso tra un’immensa massa di dannati – gli sconfitti della mondializzazione – e una ristrettissima classe di signori apolidi dell’oligarchia finanziaria transnazionale e postmoderna, post-borghese e post-proletaria.
La vibrata e giusta protesta delle toghe nostrane a Milano contro l’arresto di alcuni legali in Turchia non deve farci dimenticare che negli anni della cosiddetta “emergenza terroristica” anche in Italia furono incarcerati parecchi avvocati.
Il primo fu il “caso Senese”, quando il 2 maggio 1977 venne arrestato a Napoli l’avvocato Saverio Senese difensore di alcuni militanti dei Nuclei Armati Proletari, con l’accusa di “partecipazione a banda armata”. Passano pochi giorni e il 12 maggio sempre del 1977 l’autorità giudiziaria di Milano arresta Sergio Spazzali e Giovanni Cappelli, legali di “Soccorso rosso”, l’organizzazione fondata alcuni anni prima tra gli altri da Dario Fo e Franca Rame per la difesa dei tanti militanti di sinistra, e che verranno scarcerati il 28 agosto 1977. Sergio Spazzali era già stato arrestato due anni prima, il 21 novembre del 1975, per una esportazione di armi con alcuni anarchici svizzeri e in carcere a San Vittore aveva subito, unitamente ad altri tre detenuti “politici”, una violenta aggressione, prima di essere scarcerato il 15 aprile 1976. Sempre Sergio Spazzali il 19 aprile 1980 verrà arrestato per la terza volta sulla base delle dichiarazioni del pentito Patrizio Peci e trascorrerà altri 14 mesi di prigione prima di essere assolto in primo grado il 17 giugno del 1981, assoluzione riformata dalla Corte d’Appello che in accoglimento dell’impugnazione della Procura, il 20 marzo 1982 lo condanna a 4 anni.
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Intervento al Seminario internazionale, Europe…What’s Left? organizzato da: transform! europe, transform! italia, Rosa Luxemburg Stiftung e Alternative per il Socialismo, sulle “22 tesi per l’Europa”, 20 gennaio 2017, Casa Internazionale delle Donne, Roma
Farò un discorso
molto franco. Non c’è molto nelle 22 tesi qui discusse (e in
calce riprodotte) con cui mi senta d’accordo. Andando subito
al punto,
si paga un lip service allo Stato nazionale mentre nei
fatti si afferma che nulla di decisivo può essere effettuato a
quel livello. Si
cita a tal riguardo il caso di Syriza che lo dimostrerebbe. Ma
è esattamente l’opposto! Quella tragica vicenda proprio
dimostra che nulla
è possibile a livello europeo e che ci si deve attrezzare a
livello nazionale. Al riguardo ho ascoltato Paolo Ferrero
affermare cose piuttosto
confuse: disubbidire ai Trattati sino alla rottura, dunque
ritorno alla dimensione nazionale, però no perché si rompe per
cambiare le
regole europee. Un po’ di concretezza per favore.
Nel documento c’è scarsa consapevolezza su tre questioni:
(a) Lo Stato nazionale è il terreno in cui storicamente si è sviluppato negli ultimi secoli i conflitto sociale, e dunque la democrazia. I disegni sovranazionali e la globalizzazione sono disegni liberisti volti proprio a smantellare quel terreno di conflitto spostando altrove i centri di potere, liberalizzando i movimenti del capitale e del lavoro. Robert Gilpin – uno dei fondatori della International Political Economy – scrisse chiaramente come due siano le correnti internazionaliste: i liberisti e i marxisti, cui si oppone la tradizione che nasce col mercantilismo, prosegue con List ecc. del Developmental State, del nazionalismo economico volto al riscatto economico e dunque sociale del proprio paese.
“La globalizzazione è stata qualcosa di estremamente importante per i popoli del terzo mondo. Milioni e milioni di persone che attraverso la globalizzazione dei mercati sono state tirate fuori dalla miseria. Credo che anche l’Occidente ci abbia guadagnato molto”.
Non sono parole di economisti liberisti come Von Hayek o Milton Friedman, ma di Toni Negri, filosofo, comunista, padre dell’operaismo degli anni ’60 e ’70, leader dell’area cosiddetta “post-operaista” – come vengono appunto definiti coloro che provengono da quell’esperienza politica – intervistato dal giornalista Gianluigi Paragone a “La Gabbia” pochi giorni fa, in occasione del seminario “Comunismo 17” organizzato a Roma presso l’Atelier Autogestito Esc dal 18 al 22 gennaio:
Interessante notare che nella stessa trasmissione, subito dopo di lui, l’imprenditore e uomo politico di area liberale Franco De benedetti, canterà più o meno le stesse lodi della globalizzazione, aggiungendo che quest’ultima, oltre a migliorare le condizioni di vita di milioni e milioni di persone, ha contribuito anche a portare diritti e democrazia dove non c’erano.
I due, Negri e De Benedetti, partono da approcci diversi e hanno finalità e orizzonti diversi (per lo meno in teoria), ma la direzione di marcia, come vediamo, è esattamente la stessa.
Avvertenza: uso reale, realtà, ecc. per indicare ciò che ritengo esistente nel suo senso più vero e oggettivo, indipendentemente dalle scelte umane. Indico invece con “reale”, “realtà”, ecc. – cioè mettendovi le virgolette – ciò che l’essere umano costruisce con il suo pensiero nel tentativo di rappresentare il realmente esistente
1. Vediamo di chiarire alcuni punti
essenziali di una possibile teorizzazione. Intanto è
necessario vi sia, come sempre o quasi, un postulato, qualcosa
che si ponga quale premessa
impossibile a dimostrarsi; nemmeno ve n’è però la necessità
poiché il postulato assolve una duplice funzione
“pratica”: 1) fornire un punto di partenza per una serie di
argomentazioni che dovranno proseguire fra loro concatenate in
successione,
ognuna delle quali è quindi premessa alla successiva, per cui
vi è bisogno di un inizio senza premessa alcuna; 2) esprimere
la
concezione generale che chi lo pone ha della “realtà” in cui
si “sente” immerso (o se la trova, cioè immagina,
davanti a sé, ecc.).
Il postulato da cui parto afferma la nostra esistenza e il nostro movimento in una “realtà” situata all’esterno di noi e con cui entriamo in interazione, non essendone però parte costitutiva. Probabilmente non è così, probabilmente lo siamo invece, siamo strettamente intrecciati e connessi alla realtà. Tuttavia, si pensa di esserne all’esterno perché è ben difficile immaginare un altro modo di muoversi e agire che non implichi preliminarmente la semplice interazione con un mondo al di fuori di noi. Quest’ultimo viene da me considerato in continuo squilibrio, come fosse un fluire disordinato, casuale, indistinto, privo di forma definita e di parti costitutive.
Luciano Canfora, filologo classico, professore emerito dell’Università di Bari, autore di moltissimi saggi storici – molti dei quali abbracciano anche la contemporaneità – ha scritto un pamphlet di poco più di cento pagine dal titolo “La schiavitù del capitale” (il Mulino, 2017). Canfora ci propone una riflessione di ampio respiro sul “movimento permanente della storia”. Chi sfrutta ha temporaneamente vinto la partita contro chi è sfruttato ed è necessario trovare le forme adatte per capovolgere la temporanea “sentenza della storia”, “nella convinzione, condivisa da ogni essere pensante, che nella storia non esistono sentenze definitive” (p. 9). E’ evidente la critica a qualsiasi teleologia, sia essa di matrice rivoluzionaria o reazionaria. Il brusco risveglio che ha seguito il crollo dell’esperimento socialista alla fine del secolo scorso ha visto, secondo Canfora, il trionfo del modello capitalistico “in tutte le sue proteiformi manifestazioni” sulla gran parte del pianeta. Gli sfruttati si trovano divisi di fronte ad un “capitale internazionalista” che ha ripristinato forme di dipendenza di tipo schiavile, non solo nei mondi dipendenti ma anche all’interno delle aree più avanzate.
Canfora mette in luce la complessità e la mutevolezza della definizione di “Occidente”, facendo riferimento alle riflessioni di diversi autori tra i quali Voltaire, Julius Schvarcz (secondo il quale la democrazia è una prerogativa della “razza bianca”) e Gabriel García Márquez, critico del “fondamentalismo democratico” dell’odierno mondo euro-atlantico.
Fare comizi e governare sono due attività diverse. E molto spesso non coincidono affatto. Ma il discorso di insediamento di Donald Trump, se sarà seguito da un'azione anche solo vagamente somigliante a quanto affermato, cambia radicalmente il ruolo e la funzione degli Stati Uniti d'America nel mondo.
Nei suoi 45 minuti di retorica nazionalista, Trump ha chiuso il lungo periodo in cui gli Usa hanno cercato di governare il pianeta, lo sviluppo economico globale, negli interessi del capitale multinazionale che aveva ed ha negli Stati Uniti il pilastro politico-militare indispensabile per tale compito. In un certo senso, ha segato il ramo su cui gli States erano rimasti vantaggiosamente seduti per 70 anni.
L'America di Trump – nelle intenzioni, certo – è un paese che pensa soltanto o prevalentemente a se stesso, che si impegna a ricostruire una “comunità nazionale” dopo decenni in cui proprio gli Stati Uniti hanno permesso e promosso il “libero mercato”, l'abbattimento dei confini per le merci e i capitali (molto meno per le persone, visto che il “muro con il Messico” già esiste dai tempi di Bush junior…). Una lunga fase di globalizzazione che da un lato ha permesso di distruggere l'antagonista storico del '900 – il “socialismo reale” – ma dall'altro ha svuotato l'America della sua capacità produttiva in tutti i comparti della produzione di massa.
Dopo quasi 9 ore di requisitoria interrotta solo da un paio di brevi pause-caffè Michele Ruggiero, il coraggioso Pubblico Ministero che ha processato Fitch e Standard&Poor’s, appariva come un faro che aveva appena illuminato una porzione di mare buio e tempestoso, rivelandone inquietanti verità.
Non è stata una requisitoria come altre perché si è spinta ben oltre l’articolazione delle condotte penali da parte degli imputati e la conseguente richiesta di condanne. Sulle condotte in sé avrebbe potuto limitarsi ad un paio di evidenze inconfutabili, che lo stesso PM ha chiamato “bazooka fumanti”. Ma Michele Ruggiero ha fatto molto di più: ha svelato i meccanismi opachi che regolano il funzionamento interno dei gangli del vero potere finanziario che ha sede nella City di Londra e le interessenze che questo stabilisce con le istituzioni dei Paesi che di sovrano, ormai, hanno solo il debito, e tramite questo finiscono per diventare oggetto dell’altrui governo.
La mole di materiale prodotto e ricostruibile sulla base di tre anni di intensa attività processuale ci ha convinto ad organizzarne la divulgazione per macro-temi che presenteremo a puntate in esclusiva su Pandora TV a partire dalla settimana prossima.
Aggirarsi per i quartieri distrutti di Aleppo Est, come ha fatto per diversi giorni il sottoscritto, può essere un’utile lezione. Umana, naturalmente. E professionale. Le testimonianze di coloro che hanno vissuto per quattro anni nei quartieri occupati da ribelli e jihadisti di Al Nusra, unite all’osservazione di quello che è stato il campo di battaglia e che è tuttora il bersaglio di missili e sparatorie, raccontano una storia molto chiara, che resterà una delle grandi vergogne di questo secolo.
L’esercito regolare di Bashar al-Assad e le truppe russe considerano una grande vittoria la riconquista di quella parte di Aleppo, dov’erano bloccate circa 250 mila persone, contro il milione di abitanti rimasti nella parte Ovest. E in effetti si tratta di un notevole successo. Ma come mai, allora, Palmira è stata riconquistata dall’Isis? E perché l’altra grande città siriana di Deir Ezzor è assediata da quattro anni dall’Isis senza che si riesca a farla uscire dalla morsa e, anzi, rischiando proprio in questi giorni di vederla cadere nelle mani dei tagliagole?
Le testimonianze raccolte ad Aleppo dicono che ribelli e jihadisti sono riusciti a tenere abbastanza agevolmente le posizioni fino a quando, all’inizio dell’inverno, la Turchia ha chiuso il confine, che dista solo una novantina di chilometri da Aleppo. Decisione che Erdogan ha preso dopo essersi riappacificato con Vladimir Putin.
"....Chi gliele aveva date? Il capo della National Geospatial Intelligence Agency, James Clapper, lo stesso che come direttore della Nsa ha portato le prove dell’interferenza degli hacker russi nelle recenti elezioni presidenziali americane"
È il novembre 2015 quando France 5, canale pubblico di informazione, invia una giornalista a intervistare Ahmad Chalabi, l’uomo politico scelto da Washington per guidare l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003: Time gli dedicò allora una cover story intitolata al “George Washington iracheno”. La parabola politica di Chalabi è nota, un po’ meno chiaro è come contribuì alla guerra e persino la sua fine lascia più di qualche dubbio.
Fu lui fu il grande ispiratore della madre di tutte le bufale: le armi di distruzione di massa irachene.
L’intervista con France 5 si rivela laboriosa. La giornalista alla fine riesce a ottenere il sospirato incontro: è il tardo pomeriggio del 2 novembre del 2015. Le domande sono riferite quasi tutte a una questione. Come fu costruito il dossier americano che imputava a Saddam il possesso di un arsenale chimico e biologico che non fu mai trovato e costituì una delle basi legali all’intervento militare che ha segnato l’inizio della disgregazione del Medio Oriente?
A distanza di cento anni dalla
Rivoluzione d’Ottobre si è da poco conclusa la “Conferenza di
Roma sul comunismo”, evento attesissimo dal titolo eloquente
quanto generico. E proprio questa genericità è stata
rivendicata come punto di forza dagli organizzatori, i quali
hanno sottolineato la
presenza di una grande «varietà di tradizioni teoriche»,
descrivendo la conferenza come «un evento che rompe la
consuetudine
di movimento di organizzare incontri tra simili, interni a
correnti politiche omogenee».1 Nel tentativo di
tracciare un bilancio
tempestivo di questi cinque giorni di intenso dibattito
culturale ciò che emerge in primo luogo è invece la sensazione
di essersi
trovati davanti a un pluralismo soltanto apparente: i
relatori, tutti (o quasi) più o meno vicini alle istanze della
sinistra di movimento,
hanno mostrato una certa conformità di fondo nel modo di porre
i problemi e nelle tematiche affrontate.
L’impressione generale è che il risultato – più o meno intenzionale – di questa conferenza sia stato quello di svuotare di senso il concetto stesso di comunismo, e di traghettarlo verso una nuova (e radicalmente diversa) prospettiva politica: quella del neomunicipalismo e della democrazia diretta. Attraverso una rilettura selettiva di Marx e Lenin viene giustificata la necessità di impegnarsi nella lotta per l’«autogoverno dei beni comuni», come affermano Dardot e Laval, sempre naturalmente al di fuori e contro lo Stato.
La vittoria elettorale di Donald
Trump ha messo in crisi molte certezze sulla comunicazione
politica.
In alcuni casi l'effetto del successo del tycoon repubblicano ha creato una sorta di effetto-panico, soprattutto tra i consulenti politici la cui utilità è stata persino messa in discussione: Trump ha infatti vinto utilizzando un budget più basso rispetto a quello impiegato da Mitt Romney nel 2012 e spendendo un terzo in meno rispetto a Hillary Clinton.
Inoltre, per lunghi mesi, si è teorizzato che Clinton avesse una comunicazione e un'organizzazione della campagna elettorale molto scientifica, mentre Trump fosse invece il campione della mossa a effetto e dell'improvvisazione: in realtà, come è stato ampiamente dimostrato, la capacità del neo-presidente degli Stati Uniti di utilizzare i dati laddove era davvero necessario farlo (cioè vincendo negli Stati in bilico, in particolare nel Michigan, Wisconsin, Pennsylvania e Florida, necessari per ottenere la maggioranza dei grandi elettori senza ottenere la maggioranza assoluta dei voti) si è rivelata superiore a quella dei ben più accreditati avversari.
In altri casi invece la sfida che il modello-Trump ha lanciato al giornalismo e alla comunicazione politica per come è stato immaginato sinora è grande e gli effetti di questa sfida sono ancora tutti da decifrare.
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[Mesi fa, il collettivo politico
di Esc
ci chiese di partecipare, con una breve relazione, alla
Conferenza sul comunismo – C17
– per celebrare
l’anniversario della Rivoluzione. Come direbbe Wu Ming, si
trattava di sconfinare abbondantemente dalle nostre “zone di
comfort”,
tanto politiche quanto culturali. Molte cose, potete
immaginare, ci distanziano da *quel* modo di celebrare
l’Ottobre. Eppure abbiamo aderito
senza problemi. Per due ragioni fondamentali. La prima, coi
compagni di Esc c’è (molta) differenza ma c’è altrettanto
“riconoscimento” politico. Tra compagni, insomma, ci si
confronta apertamente, su tutto, nella condivisione come
nello scontro dialettico.
La seconda ragione fondamentale è data dalla convinzione che
il marxismo ha la forza di confrontarsi con tutto il
pensiero umano, non solo con
chi ne condivide le premesse. Il marxismo è un pensiero
della totalità: non ha paura a confrontarsi col grande
pensiero borghese,
così come non ha paura di discutere con forme di operaismo
post-moderno. Anzi, preferiamo di gran lunga discutere con
chi non la pensa come
noi, piuttosto che darci ragione a vicenda in sterili
dibattiti improduttivi. Il problema non era tanto, allora,
“dove” e “con
chi” discutere di comunismo, ma “come” essere efficaci in un
contesto di reciproca diffidenza. Nel ristrettissimo spazio
di dieci
minuti (questo il tempo consentito ai relatori) sapersi fare
ascoltare diveniva il problema centrale. Speriamo con questa
relazione di esserne venuti
a capo. Buona lettura].
* * * *
Fra le tante sciagure connesse alla crisi economica, almeno una conseguenza positiva: dal novero delle teorie politiche comprensibili, non trovano più posto le derive culturali tipiche di certo marxismo post-moderno.
Sono quelle donne e quegli uomini
che aprono
le forme della vita alla liberazione dal lavoro e sviluppano
le condizioni di una lotta rivoluzionaria continua a questo
fine e così inventano
e costruiscono istituzioni radicalmente democratiche – che
possiamo chiamare istituzioni del comune.
Meglio detto, i comunisti sono coloro che uniscono rivoluzione politica e liberazione dal lavoro, istituzione comune ed emancipazione della produzione della vita dal comando capitalista.
Prima di argomentare questa definizione lasciatemi fare qualche precisazione a proposito di alcune tesi che si pretendono rifondatrici di un discorso comunista, mentre invece – a mio parere – tolgono la stessa possibilità di parlare di comunismo.
1. Ci sono in primo luogo tesi che destoricizzano e dematerializzano, unitamente all’idea del potere, quella di comunismo.
Sono spesso concezioni abbarbicate al passato, all’ideologia del “socialismo reale” e non riconoscono quanto il mondo del capitale e le lotte di liberazione siano oggi mutati. Altre volte poi ci sono compagni che, pur riconoscendo il mutamento, nella contemporaneità, della composizione tecnica del lavoro vivo (rispetto a quella dell’industrialismo) rifiutano tuttavia di tradurla in un’idea adeguata di composizione e di organizzazione politiche.
Alcune riflessioni intorno alla natura storico-sociale della scienza e della tecnologia, sul concetto di uso capitalistico delle macchine, sul “neoluddismo” e sulla possibilità di una scienza e di una tecnica pienamente – o semplicemente – umane [Qui la prima parte]
Prolungate, le
linee conducono
all’intreccio
sociale (T. W. Adorno).
1.
I nuovi sistemi digitali di controllo del lavoro, come quelli basati sulla tecnologia messa a punto dalla Motorola, permettono di calcolare in tempo reale, e con la precisione caratteristica delle nuove tecnologie “intelligenti”, la produttività oraria di ogni lavoratore. La singola ora di lavoro viene “virtualmente” dilatata attraverso un numero discreto di operazioni standardizzate e monitorate da un piccolo tablet che il lavoratore indossa come fosse un braccialetto elettronico. Secondo dopo secondo il lavoratore riceve ordini e informazioni dal tablet, e in ogni momento sa se sta rispettando – al secondo! – la tabella di marcia; egli soprattutto sa che in base ai risultati ottenuti gli verranno assegnati o tolti dei punti. Il cronometro di Frederick Taylor, al confronto, fa sorridere quanto a efficacia e a disumanità. Non mi sorprenderei se a fine giornata il lavoratore odiasse a morte la “macchina intelligente” che lo controlla e lo incalza secondo dopo secondo. «Concepito per un utilizzo continuativo, il tablet Wi-Fi ET1, è predisposto con un accesso protetto da password e può essere condiviso tra più lavoratori in modo immediato. Ogni lavoratore potrà accedere alle sole applicazioni abilitate, secondo il livello di responsabilità. Il manager potrà quindi controllare l’utilizzo e garantire che la produttività sul lavoro non sia compromessa.
Di fronte all’accusa del neoeletto presidente Trump all’amministrazione Obama, perché avrebbe ottenuto poco o niente dagli alleati in cambio della «difesa» che gli Stati uniti assicurano loro, è sceso in campo il New York Times. Ha pubblicato il 16 gennaio una documentazione, basata su dati ufficiali, per dimostrare quanto abbia fatto l’amministrazione Obama per «difendere gli interessi Usa all’estero». Sono stati stipulati con oltre 30 paesi trattati che «contribuiscono a portare stabilità nelle regioni economicamente e politicamente più importanti per gli Stati uniti». A tal fine gli Usa hanno permanentemente dislocati oltremare più di 210 mila militari, soprattutto in zone di «conflitto attivo».
In Europa mantengono circa 80 mila militari, più la Sesta Flotta di stanza in Italia, per «difendere gli alleati Nato» e quale «deterrente contro la Russia». In cambio hanno ottenuto l’impegno degli alleati Nato di «difendere gli Stati uniti» e la possibilità di mantenere proprie basi militari vicine a Russia, Medioriente e Africa, il cui costo è coperto per il 34% dagli alleati. Ciò permette agli Usa di avere la Ue quale maggiore partner commerciale. In Medioriente, gli Stati uniti mantengono 28 mila militari nelle monarchie del Golfo, più la Quinta Flotta di stanza nel Bahrain, per «difendere il libero flusso di petrolio e gas e, allo stesso tempo, gli alleati contro l’Iran».
L’amaca di Michele Serra è finita in cima alla prima pagina di Repubblica, ma questo non ha evidentemente incentivato il giornalista a migliorare la qualità della sua striscia quotidiana, che oggi registra l’ennesimo scivolone figlio d’approssimazione e ignoranza dei temi con i quali il nostro si cimenta. Oggi Serra vuole dirci che il rozzo Trump messo accanto a Obama fa una pessima figura. Conclusione che non è certo una novità o una brillante intuizione originale, così per dare più forza e colore al pezzo s’è avventurato in un assurdo, quanto falso, paragone tra gli avi dei due:
«Si poteva intuire, risalendo per li rami, che il cow-boy trisavolo di Trump, quando entrava nel saloon con lo stuzzicadenti in bocca, non era molto più chic del bisavolo di Obama nei campi di cotone. E almeno gli avi di Obama cantavano il blues e non quel terribile country con la giacca bianca piena di frange.»
Come molti prima lui, Serra qui compie la penosa operazione di costruire una realtà adatta alla conclusione che vuole raggiungere, ma lo fa maldestramente, mettendo in fila una notevole serie di clamorose falsità, fino a costruire una post-verità nella quale tutti i pezzi s’incastrano alla perfezione come desiderato dall’autore.
Corriere e Repubblica del 23 (ieri) hanno entrambi dato notizie di un accordo fra M5s, FdI e Lega, che starebbe bollendo in segreto, per il dopo elezioni, finalizzato a formare una maggioranza per il governo, da contrapporre all’asse Pd-Forza Italia. Non so quanto ci sia di vero, ma propendo a credere che si tratti di esagerazioni giornalistiche, magari qualcosa di vero c’è, ma assai meno di quel che si dice.
Lo penso –e lo auspico- anche perché come si fa a raccontare alla gente che il giorno pari si cerca di far gruppo con gli ultrà euristi dell’Alde ed i giorni pari di allearsi con gli ultrà antieuristi della Lega? E, peraltro, sarebbe una sciocchezza molto pericolosa e priva di scopo.
Entriamo nel merito. Come si sa il M5s si è presentato come l’alternativa alla casta nel suo complesso ed il mantra “né di sinistra né di destra” (tornerò a parlarne, non avendo mai nascosto di essere restato sempre di sinistra pur guardando con simpatia a questo nuovo movimento) precludeva la via ad ogni alleanza.
Per la verità ho sempre trovato eccessivamente rigida questa impostazione, perché, in assoluto non si può escludere da adesso al giudizio universale di potere/dovere allearsi con qualcuno, ma il punto è che, nell’attuale quadro politico, fra le tre forze maggiori (lega, Fi e Pd) non ce ne è una con cui il M5s possa decentemente allearsi, perché sono tutte a pari merito casta.
Francesco Raparelli, Comunismo o il segno del possibile
Franco Berardi Bifo, Stelle granchi astronavi e comunismo
Commento di Ennio Abate
* * * *
Francesco Raparelli
Migliaia di persone, per cinque giorni di fila, hanno letteralmente invaso i dibattiti di C17 – La conferenza di Roma sul comunismo, tanto a Esc quanto alla Galleria Nazionale. In migliaia hanno attraversato la mostra Sensibile comune(presso La Galleria Nazionale), alla conferenza connessa. Un successo straordinario, destinato a lasciare il segno. Successo ancora più potente se si concentra l'attenzione sul tema: il comunismo. Una parola dimenticata, offesa, impronunciabile, maledetta, che ancora non smette di attirare l'odio delle penne forcaiole, d'improvviso riconquista la scena. E la scena esplode di corpi, di controversie e di passioni. Sarebbe accaduta la stessa cosa se si fosse deciso di parlare d'altro? Magari temi radicali, ci mancherebbe, omettendo però la parola comunismo? La risposta è netta: no.
Obiezioni facili, soprattutto per chi parla e scrive prima di vedere o preferisce parlare senza aver visto dal vivo, senza aver toccato l'evento: “una riunione di nostalgici, affollata sì, ma favorita dal centenario”; “la solita sinistra extraparlamentare italiana, tanti ma sconfitti”.
(Piccole storie di ordinario liberismo. Ormai qualsiasi evento naturale, non poi così strano (neve in gennaio...), rischia di far affondare un pezzo del paese. Inutile ripetere cose già dette. Possiamo solo raccogliere l'invito che chiude questo intervento di Paolo Di Remigio, che pubblichiamo volentieri. Davvero, sganciarsi da questa organizzazione sociale folle e decadente sta diventando questione di sopravvivenza. M.B.)
Nella provincia di Teramo inondata dalla neve e martoriata dal terremoto, manca la corrente elettrica ancora a migliaia di abitazioni, perché, si dice, carichi di neve, gli alberi cresciuti vicino ai cavi elettrici sono caduti e li hanno spezzati. Pare che non si conosca neanche dove siano interrotte le linee.
Di fronte a tanto disagio, i responsabili scaricano la responsabilità su altri responsabili: il presidente della regione Abruzzo, in un'intervista televisiva, chiede come mai la rete elettrica abruzzese sia così inefficiente nonostante l’ENEL, divenuta azienda di Stato nel 1962 ma privatizzata nel 1992, abbia dichiarato di aver investito 50 milioni per il suo ammodernamento; durante la stessa intervista un giornalista lancia contro il governatore accuse roventi per il ritardo con cui egli avrebbe lanciato l’allarme. Ma non sono queste le accuse rilevanti. Ogni società, dice Aristotele, sorge perché l’individuo è incapace di soddisfare da solo i propri bisogni.
Ancora una volta i vignettisti satirici – si fa per dire – di Charlie Hebdo hanno perso una splendida occasione per tacere. L’hanno persa, poiché hanno inopportunamente scelto di ironizzare senza pietà sui morti in Abruzzo per via della neve. E hanno, una volta di più, dato prova di infinita volgarità e della più esecrabile disumanità.
Lasciate che vi spieghi in due parole perché i vignettisti di #CharlieHebdo sono dei miserabili nonché degli utili idioti al servizio del potere. Lasciate che vi spieghi perché io non sono stato né mai sarò un “je suis charlie”, ritenendo anzi questi signori vignettisti tra i più gretti prodotti del nichilismo e della barbarie dilaganti. Figli del nulla, nei quali il nulla trova piena espressione. Sono, senza saperlo, l’altra faccia del terrorismo che li ha colpiti.
Un gruppo di sciocchi e utili idioti al servizio della deficienza imperante, della barbarie che avanza e che si esprime tanto nel terrore quanto nelle loro miserabili vignette. La satira, da sempre, si occupa del nesso tra servo e signore, tra sudditi e padroni. Prende impietosamente di mira i padroni, in ciò facendo valere un effetto liberatorio e critico. La vera satira attacca il potere e non chi lo subisce. Schernisce i costumi corrotti dei potenti: ridendo castigant mores.
Sul CorriereEconomia dello
scorso 9 gennaio Marcello Minenna si chiedeva “cosa c’è dietro il successo dell’export tedesco?”,
arrivando alla clamorosa risposta: “il segreto?
Nell’euro debole”. E grazie al cazzo, verrebbe da dire, visto
che da anni parte importante della comunità politica ed
economica, nazionale e internazionale, individua proprio nell’euro il
problema originario della crisi europea. Ma Minenna, sebbene
buon ultimo, ancora non
coglie il problema nella sua ampiezza, che non sta in un “euro
debole”, ma nell’euro in quanto tale. La debolezza altro non è
che l’inevitabile direzione impressa dall’economia tedesca,
visto che se l’euro si apprezzasse proporzionalmente alla sua
produttività, la Germania andrebbe in crisi economica e tutto
il circo europeista crollerebbe un minuto dopo. Ma
nell’articolo si citano
un po’ di dati interessanti:
“il surplus commerciale tedesco per l’anno appena passato raggiungerà il valore stratosferico del 9,2% del Pil, circa 260 miliardi di euro. Il più alto del mondo, superiore a quello della Cina anche in valore assoluto per oltre 30 miliardi di euro […] La Germania dunque da oltre 16 anni continua ad esportare più di quanto importi, accumulando crediti finanziari nei confronti del resto del mondo; in pratica da quando è nata l’Unione monetaria. E non si tratta di una coincidenza”. E no, non si tratta di una coincidenza. La relativa stabilità economica tedesca è garantita unicamente dalle sue esportazioni, visto che la domanda interna è in depressione da anni e solo ultimamente vede una leggerissima ripresa (nell’ordine dell’1%).
Bella scenetta al ristorante "Euro". Mentre è
sempre più chiaro come la moneta unica sia alla frutta, il
gestore di questa trattoria
dai piatti immangiabili prepara il conto nel retrobottega. I
signori vogliono uscire per andarsene a prendere un po' d'aria
fresca? Che prima passino
alla cassa, perché se per molti commensali il pranzo è stato
indigesto, il conto sarà salato proprio per loro.
Di cosa stiamo parlando? Di questa notizia lanciata dalla Reuters e commentata da Tyler Durden. Il succo è in questa frase di Mario Draghi:
«Se un paese dovesse lasciare l’Eurosistema, i crediti o le passività della sua banca centrale nazionale verso la BCE dovrebbero essere risolti in toto».
Davvero un'affermazione interessante, nella quale il capoccia dell'euro ci dice due cose: che l'uscita dall'eurozona di uno o più dei suoi membri è ormai messa nel conto; che la Bce si erge a tutrice degli interessi tedeschi.
Eh, come cambiano i tempi! Finita da quel dì la fila per entrare nella gabbia dall'euro, adesso si annuncia quella per uscirne. E lorsignori si attrezzano.
Christopher Lasch aveva capito
tutto? Chi ha letto i suoi libri se lo sta domandando da
qualche tempo, a mano a mano che in Occidente i partiti di
sinistra hanno perso
appeal sul loro elettorato tradizionale, e
soprattutto dopo che un mese fa Donald Trump, «il demagogo che
afferra le donne per la
fica, che costruisce il muro, che nega il riscaldamento
globale, che abolisce la sanità pubblica, che evade le tasse,
che spande merda dalla
bocca» (Jonathan Pie: non perdetevi il suo video girato la
mattina del 9 novembre), è stato eletto presidente degli Stati
Uniti.
Lasch (1932-1994) è stato uno dei più originali e influenti intellettuali americani della seconda metà del Novecento. Per fissarne il profilo in poche parole si possono usare quelle che un suo coetaneo, il sociologo Neil Postman, ha adoperato per descrivere se stesso:
«Io sono quello che si può chiamare un conservatore. Questa parola, naturalmente, è ambigua, e il significato che le date può essere diverso da quello che le do io. Forse ci capiamo meglio se dico che dal mio punto di vista Ronald Reagan è un radicale. È vero che parla in continuazione dell’importanza della difesa di istituzioni tradizionali come la famiglia, l’infanzia, l’etica lavorativa, il sacrificio personale e la religione.
Marx sosteneva che il capitale tende all’infinito, abbatte muri e barriere e il suo luogo ideale è il mondo, il mercato mondiale. E’ solo lì che tutte le contraddizioni del modo di produzione capitalistico esplodono: Hic Rhodus, Hic salta.
Il mercato mondiale, dopo la prima tornata del Primo Novecento, si è realizzato dopo il 1989 con la caduta del Muro di Berlino e istituzionalizzato nel 1996, quando Clinton diede avvio al multilateralismo.
Sono passati venti anni e da allora le contraddizioni sono esplose. Un’altra pietra miliare fu l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. Fu la contropartita di Bush alla guerra in Afghanistan.
I cinesi dissero: andate a sbattere la testa nel muro dei talebani, nel frattempo noi entriamo nel mercato mondiale. E fu l’invasione delle merci cinesi a basso costo. Il surplus commerciale che ne derivava fu investito in titoli di stato americani al fine di imbrigliare l’amministrazione Usa: si creò quel che Lawrence Summers chiamò l’equilibrio del terrore finanziario.
Arrivò la crisi del 2007 e la Cina, con un maxi piano di investimenti, si sostituì agli americani come domanda mondiale. Da quell’anno ci furono divergenze di politiche economiche.
Se c’è una cosa più ridicola, detestabile e miserevole del discorso d’insediamento di Trump lo scorso 20 gennaio, questa è la prosopopea mediatica sugli “scontri” avvenuti per le strade di Washington lo stesso giorno. A dire la verità, ad essere miserevoli sono stati gli scontri stessi, che hanno riproposto, su scala planetaria, la dicotomia sociale e politica tra un proletariato anestetizzato da Trump e una borghesia che avvia la sua santa alleanza contro il presunto tiranno. E’, in grande, ciò che è avvenuto in Italia con Berlusconi. Individuando il problema politico non nel liberismo trasversale, nel capitalismo, nello sfruttamento, nell’imperialismo statunitense, ma nel leader “antidemocratico”, la versione “progressista” del liberismo ha fagocitato ogni movimento alla sua sinistra in nome del “fronte popolare” contro il nuovo fascismo. Negli Usa si sta producendo – non da oggi – la stessa traiettoria miserevole. Ovviamente il problema non risiede nella “protesta contro Trump”, legittima e anzi necessaria. Risiede altrove, e cioè nella concreta sensazione, anzi l’assodata certezza, che se avesse vinto Hillary Clinton non ci sarebbero stati né scontri né cortei, né donne in marcia né indignazioni mediatiche. Perchè quei cortei, quell’indignazione e quella protesta altro non è che l’assecondamento di una narrazione mediatica imposta e interessata, che niente ha a che vedere con gli interessi popolari contro Trump e il capitalismo anti-globalizzazione che lui vorrebbe rappresentare.
In “Economisti che sbagliano- Le radici culturali della crisi” Alessandro Roncaglia affermava nel 2010 che la crisi economica che stiamo ancora vivendo non è comparabile (come si vorrebbe far credere) a un evento iscritto nell’ “ordine naturale delle cose”, ma il prodotto di valutazioni e di scelte di politica economica guidate da una precisa “visione del mondo” che – come sottolineava lo stesso Schumpeter – “costituisce l’ineliminabile retroterra preanalitico sul quale edificare le costruzioni teoriche”. Con la recente uscita di “Breve storia del pensiero economico” (Laterza, 2016) questo messaggio ne esce rafforzato: Roncaglia rilancia la riflessione sviluppata ne “La ricchezza delle idee” (2001) sul valore metodologico che sottende lo studio dell’economia politica e sull’impatto che le diverse “visioni del mondo” possono avere sul corso degli eventi economici. Riportiamo qui una presentazione del libro a cura dello stesso l’Autore presso l’Accademia nazionale dei Lincei
Questo libro, uscito tre mesi fa, copre sostanzialmente lo stesso campo del mio precedente lavoro, La ricchezza delle idee, pubblicato nel 2001, cioè la storia del pensiero economico dalle origini ai giorni nostri. In sedici anni, La ricchezza delle idee ha avuto varie ristampe in italiano e in inglese, traduzioni in cinese e in spagnolo, e ha circolato ampiamente in edizioni elettroniche pirata scaricabili gratuitamente dal web.
Probabilmente appena un anno fa sarebbe stato difficile se non impossibile immaginare che una platea di ricconi reazionari circondati da una pletora di servitù mediatica e accademica, si sarebbe spellata le mani ad applaudire il leader di un Paese formalmente comunista come la Cina. Ma evidentemente nei 12 mesi trascorsi il progetto oligarchico del neoliberismo ha incontrato tanti e inaspettati ostacoli proprio nelle sue patrie di elezione ovvero in Inghilterra con la Brexit e in Usa con la sconfitta della Clinton, che al Forum di Davos si è cominciato a guardare a Pechino come un faro di stabilità della globalizzazione al posto della tradizionale Casa Bianca. Così lunghi applausi a Xi Jìnpíng che oltre ad essere il presidente della Repubblica popolare è anche il segretario del partito comunista.
“In un mondo in preda all’incertezza ed alla volatilità dei mercati, tutti guardano a Pechino” ha detto lo stesso fondatore della kermesse di Davos e di certo il leader cinese non si è sottratto al compito di apparire come il nuovo campione della globalizzazione, mentre le vecchie assi portanti cominciano a scricchiolare, rose dalle contraddizioni interne e dai pasticci infami che hanno creato a tal punto da indurre la Lagarde, sia pure in quel linguaggio fatuo e ambiguo delle nullità contemporanee, a fare ammenda sullo straordinario aumento delle disuguaglianze.
Sapete chi è uno dei padri del neoliberismo, teoria economica oggi imperante nel mondo occidentale e introdotto per la prima volta nel Cile di Pinochet? Un tale Friedrich August Von Hayek, nato a Vienna l'8 maggio 1899 e deceduto a Friburgo il 23 marzo 1992 a 93 anni, a conferma del detto popolare secondo cui i peggiori se ne vanno sempre per ultimi.Von Hayek sosteneva che il mercato, seppur mai perfettamente in equilibrio per via dei disturbi monetari, è sempre da preferire ad un sistema che distorce la libera concorrenza magari attraverso politiche pubbliche volte alla redistribuzione della ricchezza. Per questo signore, infatti, la giustizia sociale doveva essere considerata un mito da sfatare, una superstizione che non poteva trovare asilo nel pensiero economico.
Da 25 anni circa il suo pensiero domina indisturbato perché manca una forza che lo contrasti seriamente e da 25 anni, a fronte di un imponente crescita dei processi tecnologici, assistiamo a un regresso sociale drammatico che sta allargando sempre più la forbice tra la grande ricchezza e la sempre più diffusa povertà, riportandoci alle condizioni di vita di 100 anni fa.
Ritengo sia assai interessante citare un episodio che accadde nel 1932, prima, però, una breve introduzione: Hayek scrisse un libro intitolato “Prize and production”, pubblicato nel 1931, in cui possiamo leggere le sue analisi sul capitale che prendono le mosse dalla teoria del “periodo medio di produzione” di Bohm-Bawerk.
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Quest’intervista teorico-politica all’autrice di Calibano e la strega e Il punto zero della rivoluzione (1) viene pubblicata in inglese da Salvage (qui il link) ed è stata condotta da George Souvlis (PhD candidate in History, European University Institute, Firenze) e Ankica Čakardic (Dipartimento di Filosofia, Università di Zagabria)
Vuoi parlarci innanzitutto delle esperienze formative (in ambito accademico e politico) che ti hanno maggiormente influenzato?
La prima esperienza formativa della mia vita è stata la seconda guerra mondiale. Sono cresciuta nell’immediato dopoguerra, quando la memoria di un conflitto durato anni, in aggiunta a quella degli anni del fascismo, era ancora molto viva in Italia. In giovanissima età ero già consapevole del fatto d’esser nata in un mondo profondamente diviso, e sanguinario; ero consapevole del fatto che lo stato, lungi dal proteggerci, potrebbe esserci nemico; del fatto che la vita è estremamente precaria e, come dirà poi la canzone di Joan Baez, «there but for fortune go you and I». In questa situazione era difficile non essere politicizzata. Perfino da ragazzina non potevo non sentirmi antifascista, ascoltando tutte le storie che ci raccontavano i miei genitori, e le tirate di mio padre contro il regime fascista. Oltretutto sono cresciuta in una città comunista, dove il primo maggio i lavoratori appuntavano il garofano rosso alla giacca, e ci si svegliava al suono di Bella Ciao; e dove la lotta tra comunisti e fascisti proseguiva, con i fascisti a tentare periodicamente di far saltare per aria il monumento al partigiano e i comunisti ad assaltare per rappresaglia la sede del MSI – Movimento Sociale Italiano – che tutti sapevano essere la continuazione del partito fascista ormai messo al bando.
Faccio un’altra volta contenti i
localisti che biasimavano la mia depravazione professionale di
trascurare il vicino per navigare nel lontano, offrendogli un
bel potpourri, come si
diceva ai tempi del trio Lescano e di Alberto Rabagliati (oggi
“compilation”, e fossimo meno perversamente esterofili,
“raccolta”, “selezione”), di cose nostre e cose altrui (che, a
mio avviso, senza offesa per i localisti, risultano poi sempre
anche nostre). E parto lontanto, da Trump per finire vicino, a
Virginia Raggi, tanto per dimostrare l’assunto.
L’aspetto storicamente più significativo e anche più umoristico è il ballo di San Vito che, all’apparire del fenomeno Trump, ha visto unirsi in frenetica agitazione tutti i vermi e tutte le larve che fino a ieri pasteggiavano sulla carcassa della società capitalista occidentale. Vuoi quelli che del gozzoviglio si vantavano e vuoi coloro che, vergognandosene, masticavano nascosti dal tovagliolo di seta. Spioni Cia, serialkiller Mossad, vampiri bancari, fabbricanti di F35, necrofagi neocon, contorsionisti del menzognificio mediatico, burattinai del terrorismo internazionale e loro cloni in miniatura dei paesi subalterni, in felice sintonia con i loro finti opposti e autentici reggicoda, pacifisti, ambientalisti, femministe, variopinti sinistri, diritto-umanisti, migrantofili, cultori del Genere, tutti appassionatamente uniti a protestare, ululare, armarsi, contro questo imprevisto rompicoglioni che si permette di scuotere la carogna e spolverarne i parassiti.
Proponendoci una riflessione sull’attualità del testo di J.M. Keynes “National Self-Sufficiency”, del 1933 – con la sua tripla esortazione ad adottare politiche protezioniste per motivi economici, politici ed etici – l’economista Jacques Sapir sul suo blog Russeurope smantella definitivamente il mito della superiorità del libero scambio, mostrando come già negli anni 30, dopo la Grande Crisi, i suoi immensi limiti fossero ben chiari a Keynes, soprattutto dal punto di vista degli effetti sociali. Quello che oggi è sotto i nostri occhi – la moltiplicazione dei conflitti, l’accumulo crescente di ricchezza nelle mani di pochi, la crisi della democrazia – conferma la lucidità della visione di Keynes e mostra come le politiche protezioniste di Trump e tanti altri siano molto più sensate di quanto la stampa mainstream ci voglia fare credere. Al contrario, conclude Sapir: è nel protezionismo il nostro futuro
Le recenti dichiarazioni di Donald
Trump, e la
sua politica di pressione sui grandi gruppi industriali
attraverso messaggi inviati via Twitter; ma anche
dichiarazioni “molto francesi”,
come quelle di Arnaud Montebourg sul “produrre francese” hanno
riproposto la questione delle moderne forme di
protezionismo. Nel
dibattito che si apre oggi intorno alla campagna per eleggere
il prossimo Presidente della Repubblica, è chiaro che questo
problema
occuperà una posizione di primo piano. Un certo numero di
candidati dichiarati – o di candidati alla candidatura – hanno
preso
posizione su questo tema. Ma in realtà, questo dibattito c’è
già stato.
Nel 1930, dopo la Grande Depressione, un certo numero di economisti sono passati da posizioni tradizionaliste a favore del “libero scambio” verso una visione più protezionista. John Maynard Keynes era uno di questi, e certamente quello che ha esercitato l’influenza più significativa. Può essere utile quindi tornare a questo dibattito, e alla conversione di un uomo che comunque credeva nel libero scambio, per cercare di capire che cosa gli fece cambiare idea.
L’importanza del contesto
Il saggio di J.M. Keynes sulla necessità di una autosufficienza nazionale di cui vogliamo occuparci è stato pubblicato nel giugno 1933 sulla Yale Review.
L’unica sostanza spinoziana ha infiniti attributi di cui riusciamo a conoscere solo due: estensione e pensiero. Del pari Maria Turchetto, detta il Turco, ha infinite competenze, che possiamo sondare sotto le voci marxismo-economia (estensione) ed epistemologia (pensiero), secondo il raggruppamento tematico della Festschrift che le è stata dedicata al momento del suo pensionamento: Sconfinamenti. Scritti su marxismo, economia ed epistemologia in onore di Maria Turchetto, a cura di É. Balibar. A. Cavazzini e V. Morfino, Mimesis/Althusseriana, 2016.
Il libro si apre con uno squisito omaggio di É. Balibar, che ha giustamente notato come L. Althusser sia stato non soltanto l’oggetto prediletto degli studi di Maria ma anche una figura straordinariamente affine per la capacità di condivisione del lavoro, di cooperazione alla pari con i suoi «allievi«», sviluppando così la prima e più attiva delle Società di studi althusseriani oggi esistenti al mondo. Seguono i contributi dedicati al ruolo di Althusser nel dibattito marxista (L. Pinzolo, Da Freud a Marx e ritorno; F. Raimondi, Althusser: che cos’è una pratica?; V. Morfino, Il concetto di causalità strutturale in Althusser) e ai suoi effetti nelle ricerche di economia politica (M. Cangiani, Appunti sul neoliberismo; G. La Grassa, Riflessioni primarie su teoria e politica; E. De Marchi, Il capitalismo sovietico. Premesse sulla ripresa del dibattito; L. Cavallaro, Umanesimo o stalinismo?).
L’orgoglio italico potrebbe essere soddisfatto, perché il copione già rappresentato nel nostro Paese con il Buffone di Arcore, viene oggi riproposto nel caso di Donald Trump. A distanza di cinque anni ci viene ripresentata persino la replica della manifestazione delle donne contro il super-maschilista di turno. Allora era il febbraio 2011 e la manifestazione si chiamava “se non ora quando?”.
In realtà non c’è di che essere orgogliosi, né da farsi pagare nessun copyright, poiché non si trattava di un copione elaborato in Italia, bensì di una sperimentazione di psywar di cui l’Italia era solo il laboratorio. Tanto per risultare originali, il cialtrone CialTrump è stato anche accusato (ma guarda un po’) di conflitto di interessi, fra l’altro perché i suoi interessi commerciali, finanziari e industriali si estendono in diciotto Paesi del mondo. L’espressione “conflitto di interessi” sembra creata per disturbare surrettiziamente la logica; infatti si tratta di interessi che non confliggono affatto, semmai convergono, come nel caso del Buffone di Arcore. Si tratta in realtà di interessi convergenti, coincidenti, sovrapposti e così via.
Come profetizzava il nostro grande poeta Giuseppe Giusti, “rimarrà come un babbeo/ l’europeo”. Obama è stato un’esca per il babbeo di sinistra ed oggi CialTrump costituisce un’esca per i babbei delle destre “sovraniste”.
È il 22 settembre del 2016 e a New York, nella sede della Missione olandese alle Nazioni Unite, si svolge una riunione riservata; anzi riservatissima. Il Segretario di Stato dell’amministrazione Obama, John Kerry, s’incontra a porte chiuse con un gruppo di dissidenti siriani anti-Assad. Oggetto della discussione: provare a capire i possibili sviluppi della guerra e definire il ruolo degli Stati Uniti. La riunione viene registrata segretamente da uno dei presenti ed il suo contenuto è oggi integralmente reso libero da Wikileaks e accessibile sul web.
In quei giorni Washington e Mosca si erano accordati per un “cessate il fuoco” che avrebbe dovuto consentire interventi umanitari per Aleppo e definire meglio sul terreno la distinzione tra ribelli moderati e combattenti jihadisti. Ma quattro giorni prima di questa riunione, gli aerei americani avevano violato il cessate il fuoco bombardando (ufficialmente “per errore”), le postazioni dell’esercito arabo-siriano a Deir Ezzor, uccidendo 60 soldati di Assad che difendevano con i denti l’accerchiamento della sacca strategica dai mercenari dell’Isis.
Secondo un articolo del New York Times pubblicato il 30 settembre (di cui parleremo in seguito) la riunione vedeva attorno al tavolo circa 20 persone:
La decisione presa da Donald Trump di fare uscire gli Stati Uniti dalla cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP) appena tre giorni dopo il suo insediamento ufficiale alla Casa Bianca è il primo previsto atto volto a implementare un’agenda all’insegna del nazionalismo economico che dovrebbe teoricamente rilanciare il sistema America nei prossimi quattro anni.
Come la sua stessa elezione, la firma di Trump sul decreto che ha cancellato la presenza di Washington nell’accordo di libero scambio tra 12 paesi del continente asiatico e di quello americano ha gettato nel panico i governi che avrebbero dovuto farne parte, tutti costretti con ogni probabilità a fare i conti con l’aggravarsi delle tendenze protezioniste che la nuova amministrazione Repubblicana sembra prospettare per l’immediato futuro.
L’abbandono del TPP da parte di Washington era stato promesso da Trump già durante la campagna elettorale e, dopo l’inaugurazione di venerdì scorso, il neo-presidente ha messo in moto le procedure anche per rinegoziare il Trattato di Libero Scambio Nordamericano (NAFTA), ovvero lo strumento che da oltre due decenni regola i traffici commerciali tra USA, Canada e Messico.
Sulla vittoria elettorale di Trump è stato detto molto, ma non abbastanza, specie sul suo bacino elettorale fatto di popolazione delle zone meno urbanizzate, delle aree perdenti nella globalizzazione, delle fasce di età più elevate. Non si sono risparmiate nemmeno parole sul fatto che Trump, da miliardario, dopo aver preso i voti dell’America profonda ha formato una squadra di governo facendo campagna acquisti da Exxon e da Goldman Sachs. Certo, da questa settimana in poi si potrà cominciare a vedere il profilo di questa amministrazione. Se riuscirà a imporre la sua visione della politica, in parte confusa e in parte determinata come ogni progetto politico. Oppure se si incarterà tra divisioni interne del partito repubblicano, ostacoli del congresso, resistenze dell’amministrazione e, last but not least, l’alta complessità della dimensione globale nella quale si trova ad operare. Di certo Trump propone, ad ogni occasione, un programma che appare l’esatto contrario di quello della presidenza Obama. Ma è il momento della prova dei fatti. Ad esempio sarà interessante vedere l’esito, al Congresso, della legislazione sulle imprese, che prevede bonus fiscali a chi riporta aziende in Usa o riduce la componente di esportazioni del proprio modello di business, promossa dai repubblicani. Anche perché, per adesso, questa legislazione è intesa come alternativa allo stesso modello Trump di imposizione dei dazi. Da proposte di legge come questa si capirà chi è in grado di imporsi nel partito repubblicano.
Anonimo istituzionalista
L’ordine del mondo sta subendo una modifica strutturale, si sta passando da un impianto prettamente economico e finanziario ad uno in cui l’economia e finanza saranno pilotate dalla logica geopolitica. Il cambio che verrà imposto dal giocatore principale ovvero gli Stati Uniti, è motivato da una diversa lettura del come perseguire l’interesse nazionale.
L’interesse nazionale è un concetto che è diventato invisibile negli ultimi decenni ma è più probabile lo sia stato per ragioni narrative che per effettiva sua scomparsa. La narrazione globalista, narrazione inaugurata ai tempi del “Washington consensus” il cui varo risale a venticinque anni fa, ha teso a raccontarci l’esistenza di un “interesse mondo” che scioglieva gli egoismi nazionali in un meta-ente indifferenziato a cui tutti avremo partecipato all’insegna del “poche regole e vinca il migliore”, invito rivolto ad entità private, tanto istituzionali (imprese, banche, fondi, intermediari, reti distributive) che individuali (imprenditori, lavoratori, investitori). Un lento scioglimento dello Stato ne era sia precondizione che l’effetto.
La frenesia per un
imminente mondo senza frontiere, il chiasso por la constante
minimizzazione degli stati-nazionali in nome della libertà
d’impresa e
la quasi religiosa certezza che la società mondiale finirà per
amalgamarsi in un unico spazio economico, finanziario e
culturale
integrato, sono appena crollate di fronte all’ammutolito
stupore delle èlites globalofile del pianeta.
La rinuncia della Gran Bretagna a continuare nell’Unione Europea – il progetto più importante di unificazione statale degli ultimi cento anni – e la vittoria elettorale di Trump – che ha inalberato le bandiere di un ritorno al protezionismo economico, ha annunciato la rinuncia ai trattati di libero commercio e ha promesso la costruzione di mesopotamiche mura di frontiera –, hanno annichilito l’illusione liberista più grande e più di successo dei nostri tempi. E che tutto questo provenga dalle due nazioni che 35 anni fa, protette dalle loro corazze di guerra, annunciavano l’avvento del libero commercio e la globalizzazione come l’inevitabile redenzione dell’umanità, ci parla di un mondo che si è capovolto o, ancor peggio, che ha finito le illusioni che lo hanno mantenuto sveglio per un secolo.
La globalizzazione come meta-racconto, questo è, come orizzonte politico ideologico capace di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, è esplosa in mille pezzi.
È importante distinguere tra moneta e denaro, dato che le monete (e le valute) sono oggetti simbolici di qualcosa di più profondo, di quel sistema di crediti e compensazioni che sono il denaro nella sua essenza
Felix Martin, storico del denaro, ha
scritto
un libro stupendo (Denaro.
La
storia vera: quello che il capitalismo non ha capito,
Utet, Torino, 2014) in cui parla della scoperta della comunità
sull’isola
di Yap nel Pacifico da parte di un antropologo, William H.
Furness, che all’inizio del Novecento ne studiò usi e costumi,
fondamentali
per il pensiero di John M. Keynes e persino dell’ultimo Milton
Friedman. Questa comunità, mai colonizzata nonostante i vari
tentativi di
missionari e britannici – i quali morirono nell’impresa –
disponeva soltanto di tre beni presenti sull’isola: il
merluzzo, il
cocco e il cetriolo di mare. È una classica comunità nella
quale si poteva ipotizzare il baratto, con poche persone che
si scambiano
solo tre merci.
Furness scoprì, invece, che la comunità nell’isola di Yap era dotata di un sistema monetario estremamente sofisticato, basato sulla relazione comunitaria degli scambi che avvenivano attraverso una moneta chiamata fei, costituita da enormi ruote di granito con un buco all’interno – ora esposte tra l’altro anche al British Museum – che fungevano da simboli per gli scambi che sottendevano questa unità di conto. La moneta, massimamente materiale, in realtà era massimamente simbolica, del tutto immateriale: non si spostava, ma fungeva da testimone contabile degli scambi che avvenivano sull’isola.
[Qui l'articolo di Nobile.]
Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, quando la resistenza palestinese emergeva come punto di riferimento a livello internazionale, i maoisti erano sostenitori della tesi che quella resistenza si scontrava con “due contraddizioni: una primaria e una secondaria”. Quella primaria era rappresentata da Israele e quella secondaria dai regimi arabi, tutti inclusi compresi le petromonarchie del Golfo.
Da quell’epoca il mondo, tutto intero e non solo la Palestina e il mondo arabo, si è avviato su una via di arretramento spaventoso che in tutti campi ha avuto come risultato tangibile l’aumento esponenziale dei livelli di violenza. Orientarsi in mezzo a questo mare di sangue è assai difficile perché spesso per riuscirci si cerca un modo per non vedere la sostanza di quel sangue e delle sue conseguenze. Quando era in auge la tesi maoista citata all’inizio, per esempio, si chiudevano gli occhi su una verità imbarazzante: la cosiddetta “contraddizione secondaria” aveva provocato più morti tra i palestinesi di quella primaria. Ma in nome di un malinteso dovere di scelta, quei morti non contavano, o contavano molto meno.
Fa un certo effetto vedere il presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, perorare la causa della globalizzazione e del libero commercio al World Economic Forum di Davos a fronte del neopresidente degli Stati Uniti Donald Trump che, stando alle sue ultime sparate, si presenta al medesimo consesso come il campione dell’isolazionismo, del protezionismo economico, dell’ognuno per sé. Il mondo alla rovescia, come minimo, il che rende il 2017 un anno partricolarmente difficile da interpretare per quanto riguarda i suoi sviluppi economici, per non parlare di quelli geopolitici. Più che di rischi politici o economici, occorre forse parlare di incertezza secondo la definizione che ne diede Frank H. Knight (nel 1921): ciò che accomuna la situazione di rischio e quella d’incertezza è che in entrambi i casi il processo decisionale si trova a fare i conti con esiti ignoti; ma se per il rischio la distribuzione probabilistica di un determinato risultato è già conosciuta in partenza, per l’incertezza la distribuzione probabilistica di un esito casuale è ignota. Come dire che se per il rischio che venga a piovere disponiamo dell’ombrello, per l’incertezza relativa a un determinato evento non disponiamo di nulla che possa in qualche modo anticiparlo e gestirlo.
Proprio in questi giorni si parla della possibilità di un ritorno dell’inflazione (vedi The Economist, “A welcome revival”, 14 gennaio 2017).
Con la fine del mandato di Obama occorre riepilogare le linee
essenziali della sua politica estera, distinguendo le vere
azioni del governo,
estremamente spregiudicate e spietate, dal profluvio di
retorica umanitaria e dal linguaggio orwelliano che le
occultano.
Ogni singola azione
politica, presa di per sé, può sembrare frutto di
improvvisazione o di una scelta irrazionale, ma, se la
s’inquadra nel contesto
generale, si scorgono le linee di un piano imperialista e
liberticida.
Con lo sviluppo della crisi, il governo USA prese atto che le vecchie forme di globalizzazione non reggevano più, e che i vantaggi ottenuti da Washington col crollo dell’URSS si erano esauriti, ma continuò a diffondere una retorica liberista – presa sul serio soprattutto dalle sinistre – – mentre in realtà cercava di escludere dal mercato mondiale due paesi importantissimi, coma la Russia e la Cina, ricorrendo a metodi non proprio liberali, come le sanzioni e le guerre per procura.
Gli strumenti economici di questa politica erano il TTIP e il TPP: il primo doveva impedire il collegamento dell’economia europea, e soprattutto tedesca, ricca di capitali e di alta tecnologia, con quella russa, e la sua immensa riserva di materie prime, la seconda serviva a scavare un baratro tra Giappone, Corea del sud, Vietnam da un lato, e Cina dall’altro.
Se Wall Street sale sul carro della nuova Amministrazione, a Davos si palesa la frattura tra Washington Consensus e Beijing Consensus. Così, a Occidente, comincia a eclissarsi il capitalismo della "rule of law" e della preminenza del diritto privato, dilaniato politicamente da vere e proprie voragini in termini di adesione alle forze conservatrici. Al contrario, a Levante sorge una versione del mercato programmata, non democratica, dove prevale il diritto pubblico e in cui farebbe capolino Adam Smith
L’ultimo appuntamento del World Economic Forum di Davos ha restituito l’immagine plastica di una crisi. I cantori del Washington Consensus e gli alfieri «di una singola economia globale» balbettano, ormai incapaci di recitare dogmi o dispensare ricette davanti alle epocali cesure politiche che dalla Londra della Brexit all’“America First” di Donald Trump, passando per il montare dell’ondata sovranista in Europa, scuotono gli equilibri planetari maturati negli ultimi vent’anni. Mentre a Davos iniziavano i lavori del WEF, Theresa May indicava l’uscita “hard” della Gran Bretagna dal mercato unico continentale. A stretto giro, il nuovo inquilino della Casa Bianca le faceva eco, rivendicando la priorità di ciò che è americano (dalle merci ai lavoratori) e assestando un altro colpo alle fondamenta della cosiddetta “globalizzazione”.
Grande è la confusione sotto il cielo.
Eppure non è sempre stato così.
Il 2016 appena concluso ci lascia in eredità un problema politico sul quale sono già stati spesi fiumi di inchiostro: come spiegare le sorprese elettorali cui abbiamo assistito su entrambe le sponde dell’Atlantico? Come spiegare la Brexit, la vittoria di Trump e la sconfitta del Sì in occasione del referendum sulla riforma costituzionale? La risposta automatica di analisti e commentatori è stata pressoché univoca: si è trattato della vittoria del populismo. Una categoria, però, divenuta talmente generica da accatastare in un unico contenitore partiti e movimenti politici che in comune hanno poco o nulla – come i nazionalisti polacchi e Podemos, Tsipras e Trump, la destra ungherese e il M5s –, se non la tendenza ad appellarsi a un popolo contrapposto alla sua stessa rappresentanza, riconfigurata in “casta”. Per questo, per evitare di rendere la categoria ‘populismo’ tanto vaga da risultare inutilizzabile, sarebbero necessarie alcune precisazioni. Anche perché è facile osservare che l’evocazione del termine serve spesso da pretesto per criticare qualcos’altro: l’avvento della “post-democrazia”, per esempio, cioè un regime politico dove le scelte vengono decise in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élite economiche e finanziarie. Oppure le inadeguatezze della democrazia, la sua incapacità di ridurre, se non di eliminare, le più stridenti diseguaglianze e iniquità sociali.
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Offriamo ai lettori un saggio di Piotr sul contesto della presidenza Trump (il saggio è qui disponibile in formato pdf). Scenari nuovi, inediti, non preventivati
... i fatti che oggi osserviamo
sono il risultato di
eventi la cui origine risiede in un passato molto
distante, così
la soluzione dei problemi che
censiremo, e l’intera ipotesi di
adattamento ai
tempi nuovi che ci riguardano da vicino, non
deve
pretendere che una singola azione, un singolo
attore, un
tempo breve e decisivo possano
risolvere tutto con
immediatezza.1
1. Premessa
Il mangiadischi è forse uno degli oggetti culto del modernariato proposto nei mercatini. Questo oggetto è carico di nostalgia, per chi lo utilizzò quando era una novità. Ad esso associamo un’epoca, un vissuto, di cui la musica riprodotta con quell’oggetto era una colonna sonora. Ma oggi, anche se è vero che il vinile gode di un importante revival, il mangiadischi è stato soppiantato dall’Ipod. Possiamo sbizzarrirci a valutare i pregi e i difetti del mangiadischi, quelli estetici, di ingombro, di fedeltà della riproduzione. Possiamo anche decidere che ci piace di più dell’Ipod.
Ecco che ad
una trumpfobia isterica subentra una trumpmania insensata,
come se un'alternanza politica alla presidenza federale della
seconda più grande democrazia al mondo fosse suscettibile di
produrre un
cambiamento tangibile, positivo o negativo, nella politica di
questo paese. Si evocano prospettive fatali per suscitare
sentimenti di paura o di
speranza.
In primo luogo, si specula a proposito di una guerra commerciale che gli Stati Uniti starebbero dichiarando alla Cina. Tuttavia, quella che di solito viene chiamata guerra commerciale è una competizione commerciale fra due paesi concorrenti, e non una discussione fra un cliente ed il suo fornitore, o fra un debitore ed il suo creditore; schemi questi che servono a definire quali sono le relazione fra gli Stati Uniti e la Cina. A tal proposito, questi due paesi non sono affatto rivali, ma sono complementari; anche se la Cina fa del suo meglio per cercare di ridurre questa interdipendenza.
Gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina in quanto non sono in grado di produrre tutto ciò che consumano (altresì, sono in grado di pagare solo il 20% di ciò che consumano). Di contro, nonostante ciò che gli Stati Uniti vogliono far credere, la Cina non ha bisogno di loro. A partire dal 2008 - anno in cui la Cina ha capito che gli Stati Uniti non avevano alcuna intenzione di tentare di sanare le proprie finanze - in tutti i suoi settori, l'industria cinese produce ormai più per il mercato interno che per l'esportazione. Non solo in materia di beni strumentali - dove la Cina aveva un ritardo, rispetto alle altre potenze economiche, che doveva essere recuperato - ma anche in materia di beni di consumo, il cui sviluppo il governo cinese ha finalmente accettato per disinnescare ogni velleità di cambiamento politico, la soddisfazione dei bisogni della Cina e delle aspirazioni dei cinesi è ora una priorità nazionale.
Nei sistemi finanziari, ciò che guardiamo ci scruta a sua volta. Ciò che usiamo per guardare è oscuro. Ciò che appare più evidente, scontato e pacifico. I dati. I pacchetti di luce che usiamo per capire i sistemi finanziari generano e incorporano oscurità. Sono oscuri. Sono Dark data. Benvenuti in questo viaggio attraverso la cyborg finanza
L’oscurità dà potere. Il potere cerca
l’invisibilità. L’invisibilità conduce alla presunzione. La
presunzione spinge a esporsi. Esporsi porta alla sconfitta. La
sconfitta toglie potere.
Un ciclo ancestrale, quasi inalterabile. Ci insegna che per ottenere potere bisogna occultare. E per occultare non basta creare il buio: bisogna imparare l’arte di modellare la luce. Rifletterla, piegarla. Continuamente.
Alterare le immagini può essere molto più efficace che nasconderle. Perché il potere si basa sulla paura: ciò che temiamo di più è ciò che non riusciamo a vedere. Per questo il potere più grande è celarsi in ciò che vediamo e di cui ci fidiamo. Un potere che non ha bisogno della paura.
I sistemi oscuri sono quelli in cui l’occultamento non lascia tracce. Tutto appare chiaro. Sono quelli in cui l’oscurità stessa è stata oscurata.
La luce che filtra in questi sistemi è proprio il luogo in cui si annida l’oscurità. È una luce che nasconde le cause e gli effetti. Una luce che serve a distrarre, non a distinguere. Quando è necessario, inverte cause ed effetti in un gioco di specchi vuoti.
Esprimiamo piena solidarietà al blogger Claudio Messora (Byoblu) vittima di un gravissimo atto censorio. Come AntiDiplomatico, all’indomani degli attacchi scomposti portati nei nostri confronti da una parte importante del mainstream italiano (La Stampa), avevamo anticipato che il 2017 sarebbe stato l’anno della lotta per la difesa della libera espressione su internet. Così come avevamo denunciato con forza il nuovo maccartismo che avanza, fomentato da chi è conscio di aver perso il controllo delle masse che in sempre più occasioni si esprimono in maniera opposta ai desiderata dell’establishment.
Rilanciamo anche noi, come fatto dal Movimento 5 Stelle attraverso il blog di Beppe Grillo, l’appello di Claudio Messora:
È inutile prendersi in giro. Il mondo sta cambiando. Dal basso. Dopo il referendum sulla Brexit, il Referendum Costituzionale in Italia e, ciliegina sulla torta, l'elezione di Donald Trump in america, la battaglia politica - che se fosse una partita di calcio potremmo chiamare: "Cittadini - Resto del Mondo" -, ha prodotto dei vincitori e dei vinti. Solo che i vinti non ci stanno. Per queste persone la democrazia è buona solo quando appartiene a loro. Se vincono gli altri allora "c'è un problema". Dopo il successo di Obama nel 2009, la rete veniva salutata come uno strumento di libertà democratiche. Dopo la vittoria di Trump, la rete è stata demonizzata come il luogo delle bufale, le cosiddette "fake news", come se i ballisti si trovassero solo sul web e non fossero un fenomeno trasversale che riguarda tutti, dai grandi media mainstream alle istituzioni, fino a qualunque gruppo di amici.
Si è tenuto il 28 gennaio, a via dei Frentani, l’incontro dell’area aggregata da D’Alema in occasione del no referendario. Un incontro di modesto livello culturale e politico, privo di spunti innovativi, sostanzialmente la rimasticazione delle tesi social-liberali che risalgono sin ai vecchi Ds e che sono da sempre il bagaglio politico del dalemismo.
Senza il vento della storia a gonfiare le vele, in una sostanziale bonaccia di analisi, nascondendolo dietro parole d’ordine apparentemente più radicali rispetto al passato, non è emerso altro che un profilo politico e culturale che potrebbe essere accettabile per un qualsiasi esponente del Socialismo Europeo attuale: la globalizzazione è buona ma va regolata ed addolcita, mentre gli Stati nazionali sono l’inferno in cui ribollono gli spiriti totemici della guerra, l’Europa è riformabile perché basta mettere mano alle istituzioni ed ai Trattati, l’immigrazione è buona e va soltanto regolata con accordi europei, facciamo un pochino di redistribuzione et voilà.
Evidentemente manca, a questa ricetta stantia che puzza di anni Novanta, una analisi realistica dei rapporti di forza (come si fa a “regolamentare” qualcosa che, per definizione, ci sfugge via dalle dita, come la globalizzazione, che porta i centri reali di comando lontani dalla politica e dai suoi eletti?) ed una analisi sociale (cosa ne pensano realmente i ceti sociali più svantaggiati dell’immigrazione, dell’Europa, dell’euro?
Il movimento si sta ponendo il problema reale di come muoversi dopo la vittoria del NO al referendum costituzionale. Le lotte sono sempre più variegate: da quelle contro licenziamenti, precarietà, condizioni di lavoro, a quelle contro una scuola sempre più gerarchizzata, meritocratica, autoritaria, privatistica, da quelle per il diritto all’abitare, alla sanità, alla pensione, a quelle contro la devastazione dei territori, contro le installazioni militari…. un elenco senza fine, specchio di una devastazione sociale a tutto campo……..ma c’è una necessità imprescindibile perché tutto questo abbia una possibilità di incidere. Le lotte devono avere connotati, da subito e immediatamente, politici.
Il neoliberismo tende alla spoliticizzazione delle lotte, a ridurle a rivendicazioni corporative e categoriali. Il conflitto capitale lavoro, la strutturale oppressione patriarcale, l’irriducibile conflitto di genere e di classe che si dispiega nella società capitalista/neoliberista, viene spostato in una rivendicazione di diritti lesi, di patrocini da ricercare delegando quindi la propria tutela alle associazioni dei consumatori, alla class action, ai centri antiviolenza…
Esempio di come non può e non deve essere una lotta è lo sciopero delle donne chiamato per l’8 marzo.
E’ interclassista e spoliticizzato ….. non individua l’aggredita e l’aggressore, l’oppresso e l’oppressore, e quindi non individua il nemico …
Usa-Messico. Fu il presidente democratico Bill Clinton a iniziare nel 1994 la costruzione
È il 29 settembre 2006, al Senato degli Stati uniti si vota la legge «Secure Fence Act» presentata dall’amministrazione repubblicana di George W. Bush, che stabilisce la costruzione di 1100 km di «barriere fisiche», fortemente presidiate, al confine col Messico per impedire gli «ingressi illegali» di lavoratori messicani. Dei due senatori democratici dell’Illinois, uno, Richard Durbin, vota «No»; l’altro invece vota «Sì»: il suo nome è Barack Obama, quello che due anni dopo sarà eletto presidente degli Stati uniti. Tra i 26 democratici che votano «Sì», facendo passare la legge, spicca il nome di Hillary Clinton, senatrice dello stato di New York, che due anni dopo diverrà segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Hillary Clinton, nel 2006, è già esperta della barriera anti-migranti, che ha promosso in veste di first lady.
È stato infatti il presidente democratico Bill Clinton a iniziarne la costruzione nel 1994. Nel momento in cui entra in vigore il Nafta, l’Accordo di «libero» commercio nord-americano tra Stati uniti, Canada e Messico. Accordo che apre le porte alla libera circolazione di capitali e capitalisti, ma sbarra l’ingresso di lavoratori messicani negli Stati uniti e in Canada.
Ormai da quasi un anno è disponibile in libreria l’ultima fatica di Domenico Moro, un autore (e compagno) che apprezziamo particolarmente per la semplicità con cui associa al rigore analitico marxista un’attitudine alla divulgazione fuori dalla norma. Prova ne è il capitolo che l’Autore dedica all’analisi materialistica dei fenomeni migratori, poche pagine che però andrebbero lette e imparate a memoria anche da quei (troppi) compagni che nell’affrontare la questione non riescono quasi mai ad emanciparsi da un approccio esclusivamente caritatevole.
La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, questo il titolo del libro edito dai tipi della Imprimatur, mette a fuoco fin dalle prime pagine la stretta correlazione tra la diffusione del radicalismo islamico e il processo di destabilizzazione dell’area mediorientale e nordafricana operato dalle potenze dominanti e più in generale della tendenza alla guerra che caratterizza la nuova fase imperialista. Moro ricorda ai lettori meno attenti come anche l’Italia, al tempo, non abbia disdegnato finanziare ed addestrare le milizie islamiste di Akbar Maghreb per sostituire il presidente Bourghiba con il generale ed ex capo dei servizi segreti Ben Alì, sottraendo così la Tunisia all’influenza francese. Di esempi del genere se ne potrebbero fare decine e nel libro l’autore ne passa in rassegna diversi, dimostrando con i fatti l’ipocrisia di fondo che anima di chi oggi vorrebbe porsi alla testa della guerra al terrore.
In un articolo documentato quanto aspramente ironico, l’antropologo Maximilan Forte annuncia sul suo blog Zeroanthropology il crollo imminente dell’ideologia liberal progressista. E dei Democratici, che all’ideologia progressista hanno legato le loro fortune. Una minuziosa disamina degli errori commessi durante la campagna elettorale della Clinton, delle scomposte reazioni dei Democratici alla sconfitta, della complicità della grande stampa – che crea fake news sostenendo di lottare contro le fake news – e di una classe accademica elitista che si è trasformata in una sorta di nuova aristocrazia. Forte mostra i sedicenti campioni del pensiero progressista come una nuove élite devota alla meritocrazia – e di conseguenza indifferente alla solidarietà – che ha preteso di insegnare al popolo che cosa era buono e giusto, a dispetto di quello che il popolo stesso sperimenta nella propria vita: ed è quindi stata abbandonata dal popolo, che ha votato altrove
Come l’ortodossia, il
professionalismo e politiche
indifferenti hanno definitivamente condannato un progetto
del diciannovesimo secolo
Che spettacolo eccezionale. Questi sono gli ultimi giorni, presto inizierà il conto alla rovescia delle ultime ore per lo sconfitto progetto politico liberal, ereditato dal XIX secolo. Il centro – se ce n’è mai stato uno – alla fine non ha potuto reggere (citazione del “Secondo Avvento” di W.B.Yeats – NdT). Che meraviglia vedere una delle ideologie dominanti, colonna portante del sistema internazionale, portata in trionfo sin dalla fine della Guerra Fredda con una boria e una certezza sconfinate, precipitare a faccia in giù nella pattumiera della storia. È caduta di schianto, come se una folla inferocita l’avesse spinta da dietro, anche se i suoi difensori sosterranno che sono stati semplicemente commessi degli “errori”, come se fossero scivolati sulla più grande buccia di banana della storia. E che spettacolo: chi si sarebbe mai aspettato una simile mancanza di dignità, una così patetica isteria, insulti così infondati, minacce così vuote provenire da coloro che si auto-incensavano come valorosi statisti, che parlavano come se avessero il monopolio della “ragione”. E anche se questa rovinosa caduta avrebbe potuto essere ben peggiore, non sono mancate violenza, minacce, boicottaggi, e persino denunce di tradimento, fatte apposta per delegittimare la scelta degli elettori.
Da C. Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, Derive Approdi 2016
Come il lettore ha avuto modo di constatare,
questo libro è duramente critico nei confronti della visione
postmodernista cui la
maggior parte degli intellettuali della sinistra radicale ha
aderito negli ultimi decenni. Mi riferisco, in particolare,
agli effetti della
«svolta linguistica» delle scienze sociali e all’influenza che
cultural studies, gender studies, teorie del
postcoloniale e la pletora dei post (post industriale, post
materiale, ecc.) proliferati a partire dagli anni Ottanta del
secolo scorso hanno
esercitato sulla cultura dei nuovi movimenti, attribuendo
progressivamente al conflitto politico e sociale il carattere
di una competizione fra
«narrazioni» e fra «processi di soggettivazione». Questa
psicologizzazione del conflitto ha rimpiazzato la lotta di
classe con
una sommatoria di richieste di riconoscimento identitario da
parte di soggetti individuali e collettivi sostanzialmente
privi di qualsiasi riferimento
ai rapporti sociali di produzione, funzionando, di fatto, da
involontario quanto potente alleato del progetto egemonico
neoliberista.
È vero che in queste pagine ho preso anche le distanze da una serie di temi cruciali del marxismo: la tesi che presenta la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione quale ineludibile presupposto della transizione dal capitalismo al socialismo; la convinzione che il progresso tecnologico e scientifico svolgano in ogni caso un ruolo progressivo e l’idea che la storia incorpori un principio evolutivo immanente. Cionondimeno resto convinto del fatto: 1) che la teoria marxista offra strumenti assai più potenti di quelli delle teorie postmoderniste per analizzare e comprendere la realtà economica, sociale e politica in cui viviamo; 2) che nella monumentale opera di Marx esistono spunti che consentono di superare i suoi stessi limiti.
Nel
dicembre 2016, Dino Erba (DE) ha prodotto e fatto
circolare una recensione del secondo numero de «Il Lato
Cattivo», che rendiamo disponibile anche sul nostro blog. DE
è un
compagno che conosciamo da tempo e di cui, nel corso degli
anni, abbiamo apprezzato in più di un'occasione le qualità
umane,
l'attività pubblicistica non priva di interesse delle sue
Edizioni All'Insegna del Gatto Rosso, nonché certe salutari
prese di
posizione, non da ultimo a proposito del dilagante
«pateracchio rossobruno» che – guerra in Siria aiutando –
manifesta oggi,
una volta di più, la crisi della militanza «anticapitalista» e
dei suoi circuiti. Benché la sua recensione sia globalmente
elogiativa, non possiamo astenerci da una replica, nella
misura in cui il documento di DE rivela: a)
dei disaccordi che nessun dibattito
ulteriore (di cui DE, in coda alla sua recensione,
esprime l'auspicio) potrà smussare; b) alcuni
malintesi relativi ai contenuti
del secondo numero della rivista.
Cominciamo da questi ultimi. A ragione, introducendo il proprio ragionamento, DE individua nella questione della classe media (salariata) il «filo conduttore» del testo; e, anche qui a ragione, riconosce che in sostanza nessuno ne parla. Molto bene.
Nonostante alcuni errori di gioventù che in un'epoca di sangue e ferro non gli vennero perdonati, Karl Radek fu uno dei pochi comunisti che negli anni Venti compresero la lezione leninista sul nesso tra questione nazionale e questione sociale.
Proprio la scarsa ricezione della sua linea, in un contesto politico e ideologico ancora fortemente influenzato dal luxemburghismo, spalancò le porte all'egemonia dell'estrema destra sulla piccola borghesia tedesca.
La situazione è completamente diversa, ovviamente, perché oggi anche se avessimo le migliori posizioni soggettive manco esistiamo. Però le sue parole possono essere ancora di utile orientamento.
In un'epoca di grande confusione, i passaggi che parlano del "popolo che fa parte della famiglia dei popoli che lottano per la propria liberazione" e della "libertà di tutti coloro che lavorano e soffrono in Germania" sono quelli decisivi per distinguere l'inter-nazionalismo universalista e il mondialismo anti-imperialistico del leninismo dal mero sovranismo piccolo-borghese.
Sono parole pronunciate tre anni dopo aver stroncato la frazione cosiddetta "nazional-bolscevica" di Amburgo (esecrata da Lenin nell'Estremismo), gli equivalenti di quei rozzobruni che oggi vorrebbero fare il "fronte comune anticapitalista oltre destra e sinistra".
Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana - ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.
Dimenticano, fra le altre cose, di avere scritto e detto che la crisi è un fenomeno eminentemente politico, che si spiega a partire dai rapporti di forza fra classi sociali (e fra nazioni dominanti e nazioni dominate: urge rileggersi Samir Amin), e non dalle “leggi” dell’economia. Perché stupirsi, dunque, se la rottura si manifesta come brusco ritiro del consenso popolare alle élite che sfruttano e opprimono?
La legge elettorale uscita fuori dalla sentenza della Corte Costituzionale è un Italicum amputato “soltanto” del ballottaggio. Quasi un miracolo, vista la quantità di profili di incostituzionalità che erano stati sollevati nei mesi scorsi, anche se non sempre si erano tradotti in “quesiti” ufficialmente posti alla Consulta. E, com'è perfino giusto, i giudici costituzionali non debbono esprimersi su temi per cui non sono stati espressamente interrogati.
Vediamo un attimo il dettaglio della sentenza. L'impianto dell'Italicum è rimasto pressoché immutato perché l'eliminazione del ballottaggio abolisce il secondo turno e nient'altro. L'unica altra norma “corretta” (non abolita) riguarda la facoltà del candidato eletto in più collegi di scegliere quello che più gli aggrada, “punendo” implicitamente un eletto del suo stesso partito magari poco subordinato ai suoi voleri.
In pratica, resta una legge elettorale che è basata sul principio proporzionale quasi puro, con una soglia di sbarramento al 3% e un premio di maggioranza che scatta solo al di sopra del 40%. Un livello considerato in questo momento irraggiungibile secondo tutti i sondaggisti, ma che sembrava a portata di mano – per Renzi e il Pd – quando la soglia era stata pensata. Giustamente, come scrive il costituzionalista Massimo Villone, su il manifesto di oggi, “La distorsione della rappresentatività dell'assemblea elettiva è molto alta, pur con la soglia del 40%. Conta poco che sia difficile per un singolo partito raggiungerla.
C'è stato come un moto diffuso di spaventato stupore, l'altro giorno, nell'apprendere che otto italiani su dieci pensano che il Paese abbia bisogno di un uomo forte. Solo 13 anni fa, a pensarlo era meno della metà degli elettori.
In realtà c'è poco da stupirsi. Tutto il trend mondiale va in quello stesso senso: Trump, Putin, Erdogan, Orbán, Kaczyński. E la Le Pen in testa nei sondaggi francesi. Perfino, in qualche modo, Narendra Modi in India, per non dire di Rodrigo Duterte ancora più a est.
Le ragioni per cui questo avviene sono ormai abbastanza note. Semplificando: la globalizzazione e l'invadenza dei mercati hanno creato un mondo nel quale i cittadini-elettori non hanno più la percezione che i loro leader democraticamente eletti possano decidere e incidere davvero.
Troppe dinamiche esterne li limitano, li circoscrivono, li rendono esecutori di decisioni prese altrove (ad esempio, imposte dai trattati internazionali) o pretese come "inevitabili" dai meccanismi economico-finanziari (ad esempio, la necessità di attrarre investimenti, di onorare debiti pregressi, di non far fuggire capitali etc).
I cittadini vedono che i loro rappresentanti hanno le mani legate dietro la schiena.
In questo post abbiamo visto come la presenza dell’euro (cioè di un’accordo di cambio fisso) abbia impedito il graduale aggiustamento degli squilibri macroeconomici (commerciali e finanziari) tra i paesi dell’eurozona. In questo sistema totalmente rigido, le politiche tedesche di controllo dell’inflazione, per le quali il paese è storicamente famoso, hanno fatto esplodere il surplus commerciale della Germania nei confronti dei partner europei nel periodo 2000-2010 e portato il sistema sull’orlo del collasso. Gli squilibri commerciali, come le vostre buste paga conoscono meglio di voi, sono stati curati con l’austerità ovvero con la distruzione della domanda interna nei paesi del sud.
In questo post non mi dilungherò sulle politiche anti-inflattive (cioè di compressione dei salari) della Germania, piuttosto mi concentrerò sulla crisi della produttività italiana.
Chiarendo questo punto potremo (forse) evitare le solite obiezioni dei commentatori da bar che individuano nella scarsa produttività del nostro paese il solo motivo della stagnazione economica in cui ci troviamo.
Secondo il commentatore produttivista, nonostante quello che ormai si può leggere e sentire quotidianamente persino sulla stampa mainstream, il problema della stagnazione economica italiana sta nel fatto che siamo improduttivi.
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Emanuele: Inizi il
tuo libro ‘Rebel
Cities: From the Right to the City
to the Urban Revolution’ [Città
ribelli: dal diritto alla città alla rivoluzione urbana] descrivendo
la tua esperienza a Parigi negli anni ’70: “Alti edifici
giganti, autostrade, edilizia popolare senz’anima e
mercificazione
monopolizzata nelle strade che minacciano di inghiottire
la vecchia Parigi … Parigi dagli anni ’60 in poi è stata
chiaramente nel
mezzo di una crisi esistenziale”. Nel 1967 Henry Lefebvre
scrisse il suo fondamentale saggio “Del diritto alla
città”. Puoi
parlarci di quel periodo e dell’impulso a scrivere Rebel
Cities?
Harvey: Nel mondo gli anni ’60 sono spesso considerati, storicamente, un periodo di crisi urbana. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli anni ’60 furono un’epoca in cui molte città centrali finirono in fiamme. Ci furono rivolte e semi-rivoluzioni in città come Los Angeles, Detroit e naturalmente dopo l’assassinio del dottor Martin Luther King nel 1968 … più di 120 città statunitensi subirono disordini e azioni di rivolta minori e grandi. Cito questo negli Stati Uniti perché ciò che in effetti stava accadendo era che la città veniva modernizzata. Era modernizzata intorno all’automobile; era modernizzata intorno alle periferie. A quel punto la Città Vecchia, o quello che era stato il centro politico, economico e culturale della città in tutti gli anni ’40 e ’50 era lasciata alle spalle. Ricorda, quelle tendenze avevano luogo in tutto il mondo capitalista avanzato.
Lo so, il sottotitolo sembra roba da
fantapolitica. Ma a volte bisogna
guardare un po' avanti. Di sicuro si sbaglierà qualche
particolare, ma l'importante è cercare di cogliere le
dinamiche di fondo.
Comunque io ci provo, che forse a qualcosa può servire.
Il fatto politico di questi giorni è senz'altro l'annuncio della scissione d'alemiana del Pd. Ora, è vero che la rottura formale ancora non c'è, è vero che la sinistra piddina brilla più che altro per indecisione e vuoto d'idee, è vero anche che non tutti i tasselli sono già al loro posto, ma è altrettanto vero che una retromarcia al punto in cui si è arrivati sembra del tutto improbabile.
Dando perciò per sicura la scissione, proviamo a ragionare sugli effetti che essa avrà non tanto sul Pd, né sui vari pezzi della sinistra sinistrata che ne verranno risucchiati, quanto sull'intero quadro politico nazionale. Perché è questa la scommessa di D'Alema. La sua non è infatti solo una (comprensibile) vendetta nei confronti del Bomba, è anche una ben congegnata «operazione sistemica».
Cosa intendiamo per «operazione sistemica»? Intendiamo un'azione politica volta a garantire il dominio delle oligarchie, favorendo quella che nel linguaggio truffaldino del "politicamente corretto" viene chiamata "governabilità".
Ovviamente, non sto sostenendo che il burattinaio Massimo D'Alema sia egli stesso un burattino mosso semplicemente dai grandi centri del potere economico e finanziario nazionale ed europeo.
I critici di Mao Zedong paragonano spesso gli ultimi anni del Presidente a quelli di Qin Shihuangdi, il primo Imperatore che nell’anno 221 a.C. unificò i vari regni feudali dell’antica Cina in un impero centralizzato sotto la dinastia Qin, la prima in una serie lunga 2000 anni di regimi imperiali. Nella tradizionale storiografia confuciana, il Primo imperatore viene ritratto come l’epitome del governante malvagio e tirannico – non da ultimo perché mise al rogo tanto i libri quanto gli studiosi di tale tradizione. Mao Zedong, negli ultimi anni del suo stesso regno (i Sessanta e i primi Settanta), abbracciò con entusiasmo l’analogia storica, lodando il Primo imperatore e il suo ministro legista Li Si per aver promosso il progresso storico nell’antica Cina, sgravata delle antiquate tradizioni del passato. Mao, inoltre, difese la durezza del governo del Primo imperatore (e implicitamente il proprio governo) quale modello di vigilanza rivoluzionaria necessaria alla soppressione dei reazionari e all’accelerazione del movimento progressivo della storia.
L’immedesimazione di Mao Zedong col Primo imperatore ha rinsaldato una forte tendenza diffusa tra gli storici occidentali ad ipotizzare un’essenziale continuità fra il lungo passato imperiale cinese ed il suo presente comunista. La Repubblica popolare, secondo tale punto di vista, appare come l’ennesima dinastia in una lunga serie che ha caratterizzato la Cina, con Mao Zedong esponente di un’altrettanto lunga serie di imperatori cinesi; la burocrazia comunista quale reincarnazione di quella imperiale; ed il marxismo/pensiero di Mao Zedong, come ideologia ufficiale dello stato, in un ruolo funzionalmente simile a quello del confucianesimo imperiale sotto il vecchio regime (1).
Una guerra fra bande si sta svolgendo davanti ai nostri occhi e c'è perfino chi ritiene opportuno parteggiare per le une o per le altre
Qualcosa sta accadendo, stiamo entrando in una nuova fase della crisi sistemica accelerata dalle logiche ottuse del turbocapitalismo. La globalizzazione economica, per come l'abbiamo conosciuta, sta cambiando pelle. I suoi rappresentanti istituzionali (quelli anglosassoni in particolare) sembrano aver individuato altre strategie per ridefinire le sfere di influenza dei poteri industriali e finanziari. L'elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti è un evento comprensibile all'interno di queste coordinate, i cui vettori principali sono il rilancio della grande industria, un ripensamento parziale del sistema finanziario mondiale e una potente retorica identitaria finalizzata a rispondere alle paure collettive generate dal combinato disposto dell'impoverimento di massa e dell'aumento massiccio dei flussi migratori.
Sbaglia, a mio avviso, e di molto, chi intravede nei fenomeni della Brexit e nella vittoria di Trump un segnale di speranza per le forze progressiste ovvero per i sostenitori di un'emancipazione dell'umano dalle catene dei Mercati. La mia impressione, rafforzata da una prevalente polarizzazione tra globalisti acritici e sovranisti nazionali, è che l'odierno passaggio storico rappresenti un assestamento (ancora incompleto e decisamente turbolento) nei rapporti interni fra le élite dominanti. Una guerra fra bande si sta svolgendo davanti ai nostri occhi e c'è perfino chi ritiene opportuno parteggiare per le une o per le altre.
Mi avete detto che con l’ultimo contropelo mi sono fatto un po’ prendere la mano. Avete ragione per cui ci riprovo, in modo più terra terra. Quando dico, citando Nicola Lagioia, che la sinistra è stata il protagonista secondario di un sogno altrui, voglio segnalare un pericolo e cioè che oggi l’orrore per ciò che Trump è e per ciò che fa la spinga a diventare, scusate a continuare ad essere, un difensore di ciò che c’era prima. Tutta l’energia, la rabbia, il disgusto che Trump o i suoi emuli e predecessori in Europa possono suscitare, e quanto giustamente, dove erano mentre il protagonista secondario taceva, non agiva o ancor peggio agiva in soccorso delle stesse politiche? Dove erano i milioni di manifestanti mentre Obama espelleva o respingeva nel solo 2014 oltre 400mila clandestini, per di più quasi tutti cattolici ispanici? Dove erano i giornali per bene, che ci mettono sotto occhio la lista dei sette paesi discriminati, mentre Obama e i suoi alleati bombardavano anno dopo anno quegli stessi paesi? Perchè tutti sottolineano il mancato bando all’Arabia Saudita e agli Emirati, sottintendendo quindi che il bando sarebbe, nel caso, accettabile, se noi per primi facciamo affari con loro dai grattacieli di MIlano, alle armi, ai Rolex dei ministri in visita? Dove sono state le manifestazioni di piazza per i compagni greci mentre venivano chiusi i loro bancomat, dove i titoli a tutte colonne, come per la legge sulle violenze domestiche russe, per le leggi che tolgono ad Atene il diritto ad essere curati?
Guardiamo questa doppia mappa:
La mappa illustra i due Stati Uniti: quello che ha votato per Trump in alto, quello che ha votato per Hillary Clinton sotto.
La vicenda francese non ci dice che vince la sinistra radicale - cosa tutta da dimostrare - ma lascia pochi dubbi sul fatto che stia sparendo la sinistra liberista.
Sta sparendo cioè la sinistra che si è appiattita sulle ricette di quelli che per quasi tutto il Novecento erano stati i suoi avversari, cioè le destre economiche.
Sta sparendo la sinistra secondo la quale la redistribuzione doveva passare in secondo piano rispetto alla competizione, alle privatizzazioni, ai mercati.
Sta sparendo la sinistra di destra teorizzata dieci anni fa in Italia da un libro di Alesina e Giavazzi e qui da noi esemplificata da diverse leggi fatte dal centrosinistra, dal pacchetto Treu fino al Jobs Act.
Sta sparendo quella roba lì.
È sparita prima che altrove in Grecia, con il Pasok: e non a caso si parla di pasokizzazione per condensare in una sola parola il declino anche degli altri consimili europei.
Poi è entrata in crisi in Spagna, dove dal 1982 al 2008 ha avuto sempre percentuali tra il 34 e il 48, per crollare al 22 per cento alle ultime due elezioni.
Quindi ha collassato in Gran Bretagna, dove l'ascesa di Corbyn ha messo fine a trent'anni di lib-lab inglese.
Dal momento che siamo in guerra con la Russia, o meglio che il giornalismo dei comprati e venduti pensa di dover obbedire a questa criminale chiamata alle armi, non passa giorno che la lingua così attentamente e morbidamente usata per la carriera, diventi improvvisamente guizzante e biforcuta quando si tratta di Mosca. E poiché di schifezze ormai ne accadono assai di più nel mondo dei lotofagi euro amerindi, bisogna fare sforzi di fantasia oppure esercitarsi nell’idiozia svagata e pignola al tempo stesso tipica della neo cultura occidentale. Accade così che una semplice proposta di legge alla Duma per depenalizzare le violenze domestiche quando esse siano lievi, ovvero senza conseguenze e non usuali, viene sbandierata ai quattro venti come la prova che il leader russo approva la violenza sulle donne e i maltrattamenti in famiglia.
Ora disgraziatamente non solo questo non è vero perché in realtà la legge che sarà discussa al parlamento russo serve solo a parificare gli atti di violenza senza lesioni e non ripetitivi da qualunque parte vengano e a superare alcune contraddizioni di una precedente legge, ma soprattutto dimentica che questo tipo di depenalizzazione in occidente è comune e in Italia è presente fin dal 2 gennaio del 2002, giorno nel quale un decreto legislativo, assai meno severo di quello russo, ha stabilito che il reato di percosse lievi non consente il fermo, tanto meno l’arresto o misure cautelari mentre le eventuali ammende, di importo comparabile alle multe stradali, devono essere discusse non in tribunale, ma davanti al giudice di pace.
Sulla vicenda Monte
dei Paschi di Siena
è calato il silenzio. Si dovrebbe pensare che il salvataggio
dell’istituto senese procederà secondo le linee annunciate
dal
governo: ricapitalizzazione preventiva, Stato-azionista,
rimborso degli obbligazionisti subordinati con denaro
pubblico. Ma è davvero
così? La parallela urgenza di ricapitalizzare Unicredit, con
una cifra monstre da 13 €mld, lascia supporre che la vicenda
MPS sia stata
soltanto “congelata”, per impedire che la seconda banca
italiana fallisse la ricapitalizzazione. Nulla lascia
supporre, infatti, che la
Commissione Europea e la Germania abbiano fatto marcia
indietro sul “bail-in” ed aspettino, come nel caso della
legge di bilancio, solo il
momento opportuno per presentare il conto. L’Italia vive il
cruciale 2017 alla giornata, in balia degli eventi esterni.
Ultimo prezzo: 15 €. Variazione: -7%. Data: 22 dicembre 2016.
La quotazione a Piazza Affari del Monte dei Paschi di Siena è eloquente: siamo ormai ai primi di febbraio, eppure la vicenda dell’istituto senese sembra essersi fermata agli ultimi giorni del 2016. Il (presunto) dileguarsi del fondo d’investimento del Qatar, il (prevedibile) fallimento del consorzio privato che avrebbe dovuto garantire l’aumento di capitale da 5,5 €mld, l’improvvisa (e sospetta) richiesta della BCE di iniettare 8,8 €mld per assicurare la sopravvivenza dell’istituto, 3,3 €mld in più di quelli chiesti prima che Renzi si dimettesse.
Negli
ultimi
decenni il mercato del lavoro italiano è stato al centro di
numerosi interventi legislativi, che con tonalità diverse
hanno individuato
nell’eccesso di rigidità della regolamentazione dei rapporti
di lavoro e del sistema di relazioni industriali il freno alla
competitività dell’economia nazionale. Le riforme promosse
negli ultimi 20 anni hanno condiviso l’esigenza di intervenire
sul costo
del lavoro, ritenuto eccessivo e causa dei bassi tassi di
occupazione e della crescita della disoccupazione strutturale.
Tuttavia, la scelta di
perseguire politiche di moderazione salariale, attraverso
interventi di riduzione del cuneo fiscale e di ampliamento dei
margini di
flessibilità per le imprese, ha avuto un impatto minimo sulla
ripresa dell’occupazione e sulla riduzione della
disoccupazione. Non fa
eccezione a questa tendenza di lungo periodo la riforma
promossa dal governo Renzi, nota come Jobs Act. Il
contenimento del costo del lavoro, lungi
dal favorire la dinamica della produttività e la competitività
dell’economia nazionale, ha agito nella direzione di ridurre
ulteriormente lo stimolo agli investimenti privati,
accentuando il ricorso a forme di lavoro precario e a bassa
qualificazione. L’esplosione dei
voucher o “buoni lavoro” si inserisce in questo solco che ha
visto i governi di centrodestra e centro-sinistra convergere
su una politica
di moderazione salariale, favorendo processi di sostituzione
di lavoro stabile con forme di impiego precarie e prive di
tutele.
In questo quadro, un’alternativa alle politiche degli ultimi decenni richiede in primis un rovesciamento di prospettiva, a partire dalla necessità di individuare interventi di stimolo all’occupazione e di contrasto alla precarietà, rimettendo al centro le esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici rispetto a quelle delle imprese.
Pubblicato su "Materialismo
Storico. Rivista di
filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n°
1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del
Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp.
322-330. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/613
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Quattro libri su argomenti diversi
ma interconnessi. Sul TTIP [Transatlantic Trade and
Investment Partnership]1 come dernier
cri della
globalizzazione2. Su Piketty come sostenitore di un
capitalismo dinamico3. Su Polanyi e Nancy Fraser
come analisti
dell’emancipazione4. Sul capitalismo come
concetto-base per la comprensione del nostro mondo politico5.
Una premessa. Ogni studio che si occupi anche per via indiretta di Marx deve rispondere in maniera criticamente differenziata a tre domande, che lo faccia o meno in maniera consapevole, programmatica o esplicita. La prima domanda è la seguente: che cosa accade nel modo in cui viene descritto [da Marx]? La seconda domanda suona: che cosa viene spiegato con ciò? La terza domanda è: che cosa viene previsto in maniera argomentata?
Alla prima domanda (che riguarda la descrizione) Marx ha già risposto a sua volta richiamando fenomeni come la dissoluzione della famiglia, delle piccole e medie imprese e dello Stato come risultato delle dinamiche di mercato. Ha risposto inoltre citando il fenomeno dell’alienazione dell’uomo da se stesso dal momento che è costretto a lavorare come mezzo per gli altri. A queste risposte di Marx viene oggi obiettato il fatto che le piccole e medie imprese continuano senz’altro a esistere nonostante l’accumulazione del capitale e la produzione di plusvalore assoluto.
La campagna elettorale è già aperta: anche se ci sarà ancora qualche resistenza di Mattarella o di Berlusconi, ormai i margini per evitare l’immediato scioglimento delle Camere sono ridotti al lumicino.
Dunque, voto a giugno, in vista del quale già si affilano le armi e, tanto Grillo, quanto Renzi, hanno dichiarato apertamente di puntare al 40%. Quante probabilità hanno di farcela? E’ un calcolo realistico o dietro c’è dell’altro?
Partiamo dal Pd: Renzi ha due punti di riferimento, il 29-30% dei sondaggi (sostanzialmente confermato dai risultati delle amministrative) ed il 40% circa dei SI al referendum. Nel primo caso deve raggranellare un ulteriore 9-10% ed in più, trovare voti che compensino una eventuale scissione di D’Alema-Emiliano e forse anche Rossi e Speranza, dove li trova? E’ ovvio che il bacino più raggiungibile è quello del 40% dei SI al referendum ed è prevedibile sin d’ora che questa sarà la suggestione principale della sua campagna: “Hai votato SI, ora vota Pd”. Ma è realistico che tutti o quasi gli elettori che hanno votato in quel modo, poi votino Pd? Intanto nell’area del SI c’erano anche i centristi (Alfano, Verdini, resti di sc ecc.) e voti di sinistra (Pisapia, Cuperlo) che non è detto che ci siano questa volta. La cosa potrebbe avere una sua consistenza se si facesse una lista che riproduca quello schieramento.
Ma davvero se uscissimo dall'euro dovremmo restituire alla Bce più di 300 miliardi? Così molti osservatori hanno interpretato una frase di Mario Draghi, contenuta in una lettera in cui risponde a due europarlamentari del M5S. C'è una frase che in molti ha provocato un tuffo al cuore: "If a country were to leave the Eurosystem, its national central bank's claims on or liabilities to the ECB would need to be settled in full" (Se un paese volesse lasciare l'Eurosistema, i crediti e debiti della sua banca centrale nazionale con la Bce devono essere estinti totalmente). Il che non sarebbe sorprendente, perché se si esce dall'Eurosistema bisogna mettere in conto che ci chiedano di regolare quei rapporti. La frase, però, era in quella lettera che chiedeva una spiegazione del perché gli sbilanci registrati sul Target2 (la piattaforma attraverso cui passano i movimenti di denaro nell'Eurosistema) stessero crescendo: dunque apparirebbe logico dedurne che si riferisse agli importi di quegli sbilanci, che per l'Italia sono elevatissimi, quasi 360 miliardi lordi e poco più di 310 netti.
Non sempre, però, ciò che appare corrisponde alla realtà. Cerchiamo di spiegare come funziona il Target2. Il signor Brambilla ha deciso di comprarsi una Mercedes, tanto la intesta all'azienda e così può usufruire anche del superammortamento del 140% (che dovrebbe servire per gli investimenti produttivi, ma vabbè, la legge lo consente... ma questo è un altro discorso). Va dal concessionario e gli stacca un assegno di 30.000 euro della sua banca, che è Unicredit. Il concessionario prende l'assegno e va a versarlo nella sua banca, che è la tedesca Commerzbank.
Ondate di carta e debito si abbattono ormai incessantemente sulle economie europee provocando un’implosione controllata del welfare e delle strutture economiche e produttive dei Paesi. Questo processo è stato definito “finanziarizzazione dell’economia”. Di cosa si tratta esattamente, e cosa possiamo fare da subito per invertire la rotta?
Ci sono almeno tre grandi tecniche di finanziarizzazione in atto: i) la trasformazione in carta di attività reali (cartolarizzazione); ii) la creazione di scommesse sul valore di altri strumenti finanziari (derivati); iii) la pervasività del debito ad ogni livello principalmente guidato dai presunti programmi di quantitative-easing della BCE (debito pubblico, delle famiglie, delle imprese).
Per capire la rilevanza del tema, vediamo alcuni dati di trend dal 2000 al 2015 (fonte BIS).
Ciò dimostra chiaramente che l’Euro è stato un acceleratore del processo di finanziarizzazione e di indebitamento dell’economia, ma conferma anche che il problema sussisteva già prima dell’introduzione dell’Euro.
A quanto pare, possiamo smettere di preoccuparci per la Terza
Guerra Mondiale, perché in realtà è già stata combattuta
e vinta.
La cosiddetta rivoluzione Ucraina, le truppe NATO nei
paesi baltici, l’ISIS adoperato come casus belli per
distruggere la Siria, il trattato USA con l’Iran, il fallito
golpe Turco, tutti presumibilmente parte d’una manovra NATO
d’accerchiamento della Russia che ha reagito colpo su colpo,
con ferocia, ma non solo militarmente, perché non sarebbe
bastato.
Putin ha vinto la Terza Guerra Mondiale non con una mossa di
Risiko, ma con una mossa di scacchi.
Ha preso il Re avversario.
Ha stretto un accordo con la lobby protezionista e
isolazionista degli Stati Uniti in nome degli interessi
comuni, e quando l’incazzatura
popolare ha prevedibilmente portato alla presidenza il
candidato che prometteva di fermare il massacro
sociale delle classi
medie (“stop the carnage”) e riportare i posti di
lavoro in patria, cioè il cavallo matto sul quale
astutamente aveva puntato, Putin s’è ritrovato fra i
vincitori.
Non sono stati però i mitologici hacker russi, spauracchio
dei teorici delle Guerre Cyberpunike, ad azzoppare la
sanguinaria imperatrice Democratica,
Domenica 22 gennaio Il Giornale titolava: "Papa Francesco: Trump? Pure Hitler fu eletto". Il riferimento era a un'intervista rilasciata al quotidiano spagnolo El País nello stesso giorno. Ma nell'articolo originale quella frase non appare, è frutto di un maquillage del titolista italiano. Alla domanda su Trump Bergoglio sospendeva anzi il giudizio («No me gusta anticiparme a los acontecimientos. Veremos qué hace») e parlava di Hitler solo più avanti, per spiegare al giornalista come funziona il populismo. Che in Sud America pare sia una cosa bella, addirittura che abbia a che fare col popolo:
Es lo que llaman los populismos. Que es una palabra equívoca porque en América Latina el populismo tiene otro significado. Allí significa el protagonismo de los pueblos, por ejemplo los movimientos populares. Se organizan entre ellos… es otra cosa. Cuando oía populismo acá no entendía mucho, me perdía hasta que me di cuenta de que eran significados distintos según los lugares.
In Europa è invece una cosa bruttissima, il populismo. E il suo archetipo illustre sarebbe - nientemeno - il nazionalsocialismo tedesco:
Claro, las crisis provocan miedos, alertas. Para mí el ejemplo más típico de los populismos en el sentido europeo de la palabra es el 33 alemán. Después de [Paul von] Hindenburg, la crisis del 30, Alemania destrozada, busca levantarse, busca su identidad, busca un líder, alguien que le devuelva la identidad y hay un muchachito que se llama Adolf Hitler y dice “yo puedo, yo puedo”.
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Introduzione al 14° Rapporto sui diritti globali
Da molti punti di vista e su non pochi aspetti, il cambio del secolo sembra aver chiuso fuori dalla porta Storia e storie, memoria individuale e memoria collettiva. Con un congruo anticipo, del resto, un economista conservatore, 1Francis Fukuyama, era arrivato a teorizzare proprio la fine della Storia. Contemporaneamente, i suoi colleghi di università e docenza, i “Chicago boys” di Milton Friedman, fornivano le basi dottrinarie di quel processo neoliberista centrato su privatizzazioni, liberalizzazioni, smantellamento dei sistemi di welfare, deregulation e messa in mora di poteri e controlli pubblici tuttora in corso. Si affermava così la regola del Washington consensus e cominciavano le politiche di “aggiustamento strutturale”, cui la Troika di allora (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Dipartimento del Tesoro USA) assoggettava prima l’America Latina e poi altre aree e Paesi cosiddetti in via di sviluppo, attraverso l’imposizione di Programmi imperniati, appunto, su privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli alla spesa sociale, austerità, limitazione del-la spesa pubblica, obbligo di pareggio di bilancio.
Proprio com’è più di recente successo, e sta succedendo, alla Grecia e ad altri membri dell’Unione, veniva in quel modo messa in discussione la sovranità dei singoli Paesi, obbligati ad aprirsi agli investimenti delle multinazionali e alle loro delocalizzazioni produttive, finalizzate allo sfruttamento di manodopera a basso costo e alla massimizzazione dei profitti. In parallelo e di conseguenza, i diritti sociali, del lavoro, ambientali, ma anche i diritti umani, venivano vulnerati o fortemente ridimensionati, prima in quelle aree geografiche e, successivamente e tuttora, anche in Europa.
Recentemente Mario Draghi ha
parlato di “irreversibilità dell’euro” e, soprattutto, di
“regolare integralmente” le posizioni nei confronti
della BCE. Quale occasione migliore per sganciarsi dalla
moneta unica? Il patrimonio netto di Bankitalia è ampiamente
positivo, il che
significa che esistono attività notevolmente superiori
all’importo delle passività. E due europarlamentari del M5S
sono convinti
si possa fare.
Nelle ultime settimane si è parlato parecchio, su media e social network vari, di uno scambio di lettere tra due europarlamentari italiani, Marco Valli e Marco Zanni, e il presidente della BCE Mario Draghi.
Valli e Zanni sono entrambi stati eletti nelle liste M5S, anche se recentemente Zanni è uscito dal gruppo europarlamentare EFDD, a cui aderisce M5S, per entrare nell’ENF, che ha invece tra le sue componenti la Lega Nord. Qui il testo della loro richiesta di informazioni.
Draghi ha risposto con un’articolata comunicazione che ha suscitato ampio interesse mediatico a causa dell’affermazione finale. Testualmente: “Se un paese lasciasse l’Eurosistema, i crediti e le passività della sua BCN (Banca Centrale Nazionale) nei confronti della BCE dovrebbero essere regolati integralmente”.
Questa frase ha creato molto scalpore, per due motivi differenti.
(Riceviamo e volentieri pubblichiamo. M.B.)
La vicenda
della
scuola pubblica italiana va inserita nella vicenda della
repubblica: l'Italia è uno Stato non ancora emancipato dalla
sconfitta nella seconda
guerra mondiale, dunque a sovranità più o meno strettamente
limitata dalle potenze vincitrici, cioè dagli Stati Uniti e
dalla
Gran Bretagna. Negli anni '90 la sua classe dirigente,
abituata a un'ampiezza di movimento non più compatibile con i
progetti neoconservatori
statunitensi di impero globale, è stata liquidata e sostituita
da avventizi alle dirette dipendenze dei poteri globali, che
hanno occupato
tutti i posti di gestione, dallo Stato alle banche, dai
partiti ai sindacati, dai giornali ai pulpiti. Compito di
questi proconsoli era la rinuncia a
ogni sovranità dello Stato e l'attuazione di politiche
economiche neoliberali; di qui l'adesione cieca alle più folli
geopolitiche
anglo-americane e la partecipazione autolesionistica al
progetto europeo. Nel nome delle regole europee è stata
smantellata l'economia mista;
le imprese pubbliche che avevano portato l'Italia a diventare
una delle maggiore potenze industriali sono state
privatizzate; è stata ridotta
la spesa pubblica; i servizi offerti dallo Stato sono
diventati sempre più inefficienti e costosi per i cittadini;
le pensioni così
ridimensionate da dover essere integrate con la previdenza
privata, le file d'attesa agli ospedali così lunghe da
costringere a ricorrere alla
sanità privata oppure a rinunciare a curarsi, la scuola
pubblica così dequalificata da aprire la prospettiva di
un'offerta di istruzione
privata.
Emiliano Brancaccio, professore associato di Politica economica e docente di Economia politica ed Economia internazionale presso l'Università del Sannio. Nel 2002 è stato relatore della proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall'associazione Attac per l'istituzione di una variante della cosiddetta Tobin tax. Nel 2003 è stato responsabile economico del Comitato promotore del referendum per l'estensione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
E' tra i non molti accademici ad aver declinato varie proposte di candidatura e di incarico amministrativo: nel marzo 2013 ha rifiutato l'incarico di assessore al Bilancio del Comune di Benevento, criticando la "moda" di ricorrere ai cosiddetti "tecnici" nei momenti di crisi politica; nel giugno 2016 ha declinato anche l'invito del nuovo sindaco di Benevento, Clemente Mastella, ad assumere l'assessorato al Bilancio; nel febbraio 2014 ha rifiutato la candidatura alle elezioni europee come capolista della circoscrizione Sud per la lista L'Altra Europa con Tsipras.
* * * *
Il nostro spazio di approfondimento è oggi dedicato
all'economia. Parliamo di Europa, parliamo delle
dichiarazioni di Angela Merkel
che ha ipotizzato un futuro per l'Europa a più velocità. Un
argomento di cui si parla ormai da qualche giorno, in realtà
argomento che trova le sue radici indietro nel tempo.
Cerchiamo di fare un po' di chiarezza con Emiliano
Brancaccio. Grazie per essere con noi,
Emiliano.
Grazie a voi, buongiorno.
Inutile provare a concentrarsi sul dibattito politico degli attuali cartelli elettorali: tra la polizza assicurativa intestata alla Raggi, e le decise indecisioni di Renzi, di politico c’è poco. C’è il tentativo, comune a tutti, di dire qualcosa per rimanere a galla nei sondaggi nella speranza che tutto questo si traduca in voti. E, poi, in semplice rendita di posizione in parlamento visto che, salvo il classico colpo del destino che cambia tutto, difficilmente alle prossime elezioni uscirà una maggioranza. E, altrettanto difficilmente, uscirà un progetto politico.
Qui, infatti, non stiamo parlando di una possibile svolta progressista o reazionaria dietro l’angolo. Ma di forze politiche che stanno al di sotto della linea di complessità del presente. Incapaci quindi di darsi un profilo strategico, qualche che sia. La prova del nove? Tutti i tre partiti principali si sono barcamenati, chi più lentamente chi con maggiore frenesia, tra posizioni eurofile ed euroscettiche. Finendo per non dire nulla sul futuro dell’Unione Europea. Questione che ci riguarda, comunque la si veda, in primissima persona. Lo stesso Renzi ha cominciato il suo mandato, in modo comunque caricaturale, come se fosse il primo eurista del continente per finire a fare l’imitazione di Trump versione tricolore. Inevitabilmente, se la vogliamo fare semplice, chi ha le idee confuse in casa –come i tre cartelli elettorali maggiori- finisce per riversarle, amplificando la propria confusione, in Europa.
C’è un problema però: che dall’Europa, e anche dal mondo, stanno emergendo fenomeni che finiranno per incidere in Italia.
Da qualche settimana, vedo che tutti i media non fanno altro che parlare di quello che fa o dice il signor Donald Trump.
Ora, Donald Trump è semplicemente il presidente degli Stati Uniti, che già non sono uno “stato” in senso europeo, sono cinquanta stati ciascuno con un grado di independenza inimmaginabile da noi.
Poi lui è solo uno dei tre rami ufficiali del potere, e anche uno solo dei mille rami non ufficiali del potere.
Se questo pittoresco speculatore immobiliare è riuscito a farsi strada, è perché ha colto qualcosa di essenziale.
E su questo qualcosa di essenziale, il resto del mondo tace.
Per cui cerchiamo di ribadire ancora una volta una cosa già detta.
La questione fondamentale è urbanistica, cioè riguarda una scelta di sistema di vita che da settant’anni segna la vita statunitense: la suburbia.
La suburbia non esiste nei censimenti (dove l’81% della popolazione risulta “urbana”), eppure è la principale realtà degli Stati Uniti.
Uno studio organizzato da una potente agenzia immobiliare su 2008 intervistati in tutti gli Stati Uniti ha dato un risultato interessante, perché riguarda la percezione che gli intervistati hanno della propria esistenza.
“Il mondo al tempo dei quanti” di Agostinelli e Rizzuto affronta il nodo cruciale del rapporto tra scienza, economia e politica. Tentando di rispondere a una domanda: è possibile, e in che modo, democratizzare oggi tecnica e capitalismo?
Trent’anni di ideologia neoliberista&ordoliberale e di utopie solo tecnologiche dovrebbero averci portato alla consapevolezza di essere a un bivio: decidere se proseguire sul piano inclinato deterministico del tecno-capitalismo e lentamente implodere (o peggio, esplodere); o provare a invertire la rotta o almeno deviarla, riprendendo i comandi della nave – o dell’aereo, secondo la metafora di Zygmunt Bauman, morto nelle scorse settimane, quando scriveva: «I passeggeri dell’aereo ‘capitalismo leggero’ scoprono con orrore che la cabina di pilotaggio è vuota e che non c’è verso di estrarre dalla misteriosa scatola con l’etichetta ‘pilota automatico’ alcuna informazione su dove si stia andando». In realtà, all’orrore ci stiamo abituando, posto che dopo dieci anni di crisi siamo ancora nella palude dell’austerità europea e alla deregolamentazione (e non alla ferrea ri-regolamentazione) dei mercati finanziari (Trump); e che l’unica reazione sembra essere quella di cercare l’uomo forte o il populista o il leader carismatico e visionario, barattando ancora una volta, come scriveva Freud, la possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.
Dunque, il problema vero di questi ultimi decenni è quello del rapporto tra democrazia ed economia&tecnica.
Transparency International – l’organizzazione con sede a Berlino i cui sondaggi sulla “corruzione percepita” non fanno altro che dimostrare come sia efficace la propaganda che dipinge certi paesi come più corrotti di altri – ha condotto uno studio secondo il quale i cosiddetti “populisti” che si aggirano per l’Europa non darebbero abbastanza garanzie di lotta alla corruzione. L’evidente faziosità di questo studio si spiega agilmente guardando alle fonti di finanziamento di questa organizzazione, tra le quali figura uno dei personaggi viventi più pericolosi per la democrazia. Via Russia Today
Mentre le élite UE si sentono minacciate dall’attuale rivolta populista, volta a porre fine a programmi di immigrazione facile ed incontrollata ed a promuovere il nazionalismo al posto della globalizzazione, un autorevole think tank sostiene che – tenetevi forte – il populismo alimenta la corruzione.
Transparency International, ente anti-corruzione con sede a Berlino, nel suo annuale Indice di Percezione della Corruzione mette in guardia contro i presunti pericoli del populismo, quell’animale politico che di tanto in tanto si aggira fra le nazioni, come una forza della natura, per lottare contro gli eccessi di una minoranza elitista che ha perso il contatto con la realtà.
“Il populismo è la cura sbagliata” ha dichiarato il presidente di TI Jose Ugaz, pur senza offrire ricette alternative. “Nei paesi governati da leader populisti o autocratici, si assiste spesso al declino della democrazia e ad un’inquietante frequenza di tentativi di repressione della società civile, di limitazione della libertà di espressione, e di attacchi all’indipendenza della magistratura.”
Fin dal secondo dopoguerra, il default mode dei
media mainstream occidentali verso il presidente degli Stati
Uniti era sempre stato il
classico servo encomio. In diverse gradazioni, con qualche
notabile eccezione per i più sputtanati, e punte d’idolatria
per i più
fotogenici.
L’attuale unanime costernato disprezzo verso Trump è quindi
particolarmente inedito e interessante.
Il coro
mediatico inoltre amplifica ogni manifestazione di dissenso
come mai prima d’ora, dando l’immagine fittizia di un’America
sull’orlo della rivolta popolare contro un odiato dittatore,
che ricorda tanto quelle della cosiddetta Rivoluzione
Ucraina.
In
questi giorni, mentre i social si riempivano di meme, abbiamo
visto persino alcuni dei Tg tradizionalmente più securitari
simpatizzare
coi casseur e coi black bloc, purché anti-Trump.
L’impressione è che chi controlla i media sia molto
preoccupato che Trump possa diventare per gli USA una sorta di
equivalente speculare di Gorbaciov per l’URSS: il liquidatore
dell’Impero.
A cominciare dall’immagine.
Il bando all’immigrazione infatti non è servito soltanto a
sabotare gli accordi con l’Iran graditi a Putin.
Tutto ritorna a ciò che è veramente intero
Tao-Tê-ching
Mary Poppins è una creatura aerea. Il che, tuttavia, non la fa appartenere al cielo più di quanto non appartenga al sottosuolo.
È il Vento dell’Est a portarla nel romanzo d’esordio. Forse lo stesso vento foriero di trasformazioni che avverte Sherlock Holmes in chiusura del racconto “Il suo ultimo saluto”.
Anche in “Mary Poppins ritorna” (Mary Poppins Comes Back, 1936) l’indecifrabile governante entra in scena dall’alto, come un deus ex machina.
A trascinarla giù sembrerebbe l’aquilone dei piccoli Banks, Michele e Giovanna, rimasto impigliato tra le nuvole sopra gli ordinatissimi giardini pubblici.
Ma le cose non stanno proprio così. Mary Poppins ha preso il posto dell’aquilone, si è sostituita ad esso per mezzo di una magica metamorfosi.
Si
surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle
tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta
unica. Il punto di svolta
coinciderà con le presidenziali che si terranno il 23 aprile
ed il 7 maggio in Francia, sempre meno “motore” dell’Unione
Europea e sempre più europeriferia. L’elettorato francese è
in aperta ribellione, come già dimostrato dalle primarie
del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il
“filo-russo” François Fillon. Per scongiurare un
ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen,
l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il
repubblicano con uno scandalo
mediatico e lanciando verso il ballottaggio il “rottamatore”
Emmanuel Macron, ex-banchiere della Rothschild &
Compagnie. La manovra si
basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato e
Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno
“le candidat du
fric”, il candidato dei soldi.
Gli ultimi caotici, folli, mesi dell’Unione Europea si stanno svolgendo senza sorprese, regalando ogni giorno colpi di scena: i falchi tedeschi attaccano Mario Draghi e le sue politiche ultra-accomodanti, il governatore della BCE ricorda “l’irrevocabilità” della moneta unica (ammettendo implicitamente che la sua dissoluzione è nell’ordine delle cose), la cancelliera Angela Merkel ipotizza un’Europa a due velocità per liberarsi dal fardello dell’europeriferia, il governo italiano (forse bluffando, forse alienato dalla realtà) plaude alle proposte di Berlino, come se l’euro-marco non avesse già relegato l’Italia ai margini dell’Europa.
Se vi infastidiscono le elucubrazioni su media e Virginia Raggi, potete saltare subito al capoverso: Dal Campidoglio in coma vigile alla Siria, viva o morta.
Cani fatti killer,
uomini fatti
giornalisti
Da quando avevamo raccolto nei boschi di Teuteburgo quel bassottino selvatico di nome Lumpi (monello) e insieme a lui, nel paese di Dresda, avevamo scansato le mitraglie degli Spitfire britannici, dribblato le bombe dei Mustang statunitensi, mentre magari stavamo raccogliendo ortica lungo i fossi per una cena tra il 1944 e il 1945, ho sempre vissuto con cani, della nobilissima specie dei bassotti a pelo ruvido, specialisti della lotta contro gli altotti, fino a entrarci in simbiosi affettiva e intellettuale, dunque politica. Posso perciò affermare con una certa competenza che tutti i cani, per natura nascendo di branco, cioè inseriti in un collettivo, sono buoni, sociali e socievoli, collaborativi, rispettosi dell’armonia e dell’utile comunitari. Il che li rende la specie animale più vicina a quella umana. Quanto meno a quella umana prima del degrado subito da una sua limitata, ma decisiva, quota.
Addestrati, violentati nella loro identità originaria, educati male, i cani diventano strumenti di umani degenerati che li pretendono delittuosamente, come dio con gli uomini, a loro immagine e somiglianza. E arriviamo ai rottweiler aggressivi, ai pitbull da combattimento, perfino ai jack russell mordaci, interfaccia di poliziotti che picchiano, forze speciali che torturano, energumeni da rissa che inseguono modelli di videogiochi, politici che sterminano, padroni che ingrassano sul dimagrimento dei dipendenti.
Pista: riciclaggio. Pista: lavanderia di mazzette. Pista: “pagamento preventivo per la successiva ipotetica promozione”. Le polizze assicurative di Romeo con beneficiario Virginia Raggi seguono molte piste mediatiche. Nessuna che abbia fondamento
Marco Lillo de “Il Fatto Quotidiano” pare volersi laureare in notizie flop, perché i suoi “scoop” su Virginia Raggi si rivelano sempre “epic fail“.
Voglio ricordare lo scoop sulla “falsa dichiarazione patrimoniale”. La Procura della Repubblica archiviò, ma non era necessario essere competenti in Diritto Amministrativo per prevederlo.
Pur non essendo un “esperto”, immediatamente scrissi che si trattava di una enorme bufala. Bastava leggere (e capire) il D. Lgs 33/2013 per comprendere che il Consigliere comunale deve solo rispondere alle domande poste nel modello.
Se il modello è scritto con i piedi non è colpa di chi lo compila. La procura archiviò per le stesse ragioni espresse da un idiota: IO.
Non sono un fan di Virginia Raggi. L’incomprensibile cocciutaggine rispetto anche ai consigli di Beppe Grillo mi hanno indotto a sospendere il giudizio sul Sindaco di Roma.
La prospettiva dell’Italexit, cioè di una fuoriuscita unilaterale del nostro paese dagli apparati del vincolo esterno come Unione Europea, Eurozona e Nato, necessita ormai di essere declinata con indicazioni sempre meno allusive e sempre più credibili.
Di fattibilità dell’uscita dell’Italia dall’Euro si è occupato recentemente anche un rapporto di Mediobanca, lo ha ventilato Mario Draghi, lo sussurrano ambienti su entrambe le sponde dell’Atlantico. Una buona decostruzione critica e ricca di dati di tutto questo l’abbiamo letta in un recente e ampio servizio de Il Fatto Quotidiano (l’unico che gli ha prestato la dovuta attenzione).
Altri invece ricorrono agli esorcismi, come per allontanare uno spettro che si affaccia con forza nella nuova realtà delle relazioni internazionali. Ma, dopo la Brexit, il fallito golpe in Turchia e l’elezione di Trump, è diventato ormai evidente come “i cigni neri” non siano più una rarità.
Meno attenzione e ancora meno passione sembrano suscitare invece gli aspetti “politici” della rottura con gli apparati del vincolo esterno come Unione Europea e Nato. Due organizzazioni che solo i miopi o i finti tonti possono continuano a scambiare con l’Europa o l’occidente. Eppure anche un osservatore strabico comprende che non si può uscire da un’area monetaria senza rompere anche con la gabbia politica che l’ha costruita.
Nell’assemblea nazionale di Eurostop del 28 gennaio, abbiamo provato a schematizzare un ragionamento sul percorso dell’Italexit che riproponiamo ai nostri lettori che non hanno potuto seguire di persona o in diretta streaming i lavori e la discussione dell’assemblea.
Draghi striglia i governi dell'Unione Monetaria Europea affinchè facciano le riforme e Merkel rompe il tabù dell'unità alle medesime condizioni, parlando di Europa a due “velocità”. Ci sarà una relazione? A fine mese è previsto un incontro a Berlinot fra i due.Il 2 febbraio, lo stesso giorno in cui è uscito l'ultimo bollettino della Banca Centrale Europea, dove si ribadisce che i tassi d'interesse nell'eurozona resteranno ai livelli odierni, se non più bassi, per tutto il 2017 e forse oltre, il Presidente Draghi, a Lubiana per il decimo anniversario dall'ingresso della Slovenia nell'euro, è sembrato voler indirizzare un discorso di conciliazione “politica” ai suoi maggiori critici, i Tedeschi ( non è un caso, forse, come anzidetto, che ieri Angela Merkel abbia dichiarato al vertice di Malta che l'integrazione fra i paesi europei potrebbe proseguire a “velocità diverse”).
Mario Draghi ha pienamente abbracciato, nell'occasione, la narrativa che vede nel mancato controllo dei conti pubblici e nella mancanza di riforme per la competitività, le cause dei guai che continuano ad affliggere l'area dell'euro. Si è trattato, di fatto, di una riproposizione dell'impostazione di analisi che ha lungamente visto attribuire le colpe della crisi nell'eurozona ai paesi “PIGS”, un racconto smentito sul piano fattuale.
La BCE ha fatto tutto quanto era nelle sue possibilità, ha detto il Presidente. Ora spetta alla politica assumere l'iniziativa. Quando i governi dei vari paesi hanno aderito alla moneta unica sapevano cosa avrebbero dovuto fare per adeguarsi ad essa.
1. La crisi dell'ordoliberismo
totalitario €uropeo è, nell'accelerazione delle evidenze
fattuali, avviata ad una sua fase, per molti versi,
finale.
Come avevamo già anticipato il tramonto dell'euro non potrà che essere rabbioso - per il timore di non riuscire a completare in tempo il definitivo ridisegno degli assetti sociali e della stessa "natura umana" che l'oligarchia neo-liberista si era prefisso.
Perciò, questa fase crepuscolare diviene ancora più pericolosa, per le residue vestigia delle democrazie dell'eurozona (e non solo, come testimonia il livore quotidianamente speso contro la Brexit e la ridicola etichetta di "estrema destra xenofoba" affibbiata all'Ungheria di Orban).
2. Che un'organizzazione internazionale dotata di immensi poteri, peraltro acquisiti in violazione delle norme fondamentali della nostra Costituzione (e, naturalmente, non solo), si trovi dinnanzi alla prospettiva di perderli di fronte alla contestazione di fatto da parte del suo substrato sociale (cioè i "popoli" che non riescono più a tollerare il sistematico, intenzionale e programmatico perseguimento della "durezza del vivere", dell'altissima disoccupazione strutturale, della accentuata distruzione del welfare, concretamente e in modo sempre più vasto), conduce ad una naturale reazione autoconservativa.
Manovre politiche: voto subito, voto no per ora,
dopo settembre, al termine naturale della legislatura. E
Renzi, convinto di quanto Lotti
dixit, «40% alle europee, 40% al referendum», mira
«al 40%» e punta alle elezioni quanto prima – occultando il
colpo delle elezioni amministrative e il disastro del
referendum. I suoi lo confermano leader Pd alle elezioni, e,
grazie all’attuale
composizione della Consulta, ha ricevuto un paio di “aiutini”
non da poco: castrato del quesito sul Jobs Act il
referendum della
Cgil (lo avrebbe senza dubbio cassato) e legittimato il premio
di maggioranza (per cui era stato giudicato illegittimo il Porcellum)
per la
lista che consegua (appunto!) il 40% dei voti validi. Ma pur
se “avanti a tutta protervia”, le cose non cambiano: la
“botta”
del 4 dicembre è devastante per Renzi e “tutto” il Pd, e il
prosequio di Renzi con il governo Gentiloni non ne migliora le
sorti,
anzi le logora ancora. E il Pd è a pezzi: l’opposizione
interna, pur sempre à la “re tentenna”, è
rafforzata; D’Alema organizza le forze e agita la scissione
per un’altra formazione (data dal 10 al 14% di consensi);
Emiliano minaccia
ricorsi alla magistratura (senza congresso prima delle
elezioni), altri affilano le armi. L’idea di Renzi di tenere
in pugno il partito con le
ravvicinate elezioni, dando a intendere di vincerle, è
infondata.
La boutade sull’Europa a due velocità ha provocato il coro trasversale della politica nazionale: “è già così”, ci ricorda Angelo Angelino Alfano; “era ora”, rimpalla Enrico staisereno Letta. Eppure l’avventata dichiarazione della Merkel contiene un fondo destabilizzante per l’attuale conformazione europeista. Cosa vuol dire, concretamente, un’“Europa a due velocità”? Troppe cose non sono chiare: 1) è l’“Europa” ad essere immaginata a velocità diseguali, o l’Unione europea? Nel primo caso, infatti, è davvero già così (come da immagine a corredo dell’articolo), ma è l’equivoco ideologico su cui si fonda ogni retorica europeista: scambiare una costruzione politico-economica, la Ue, per un fatto naturale, il continente europeo. L’Europa è tutt’altro che un territorio omologato: ci sono Stati nella Ue e Stati fuori dalla Ue; ci sono Stati nella Ue che hanno l’Euro e Stati nella Ue che non adottano la moneta unica; ci sono Stati dentro la Ue e dentro l’unione doganale di Schengen e Stati che non l’adottano; e così via. L’Europa e la Ue non sono entità sovrapposte, e immaginarne “due” a velocità differenti significherebbe unicamente fotografare una realtà dei fatti sconosciuta solo alla sinistra europeista, che immagina la lotta alla Ue come “lotta all’Europa”.
Dunque, quando parla di “Europa a due velocità” la Merkel intende un’Unione europea a due velocità. E’ bene essere chiari. Ma qui le cose si complicano, perché, 2) l’Unione europea “di serie b” condividerebbe la stessa moneta unica della Ue “di serie a”? Questo è il fatto cruciale, perché se così non fosse ci sarebbe di fatto lo scioglimento del vincolo monetario per l’Europa “inferiore”, dunque la fine dell’Unione europea per quegli Stati espulsi dal processo europeista.
Da quando il grande tenore delle chiacchiere è stato sconfitto al referendum e sostituito da un cantante confidenziale con tendenza alla stonatura, non si fa che ipotizzare e scontarsi sulle elezioni: subito, tra un po’, alla scadenza naturale o forse mai. Si tratta ovviamente di un tema centrale che tuttavia viene affrontato con una scarsa consapevolezza del quadro generale in cui si agita la vicenda italiana: la nascita annunciata di una o due nuove formazioni di sinistra, il muoversi di vari ras provinciali in odore di capipartito come De Luca, la rissa fra destre miste va in scena sul palcoscenico tradizionale e con un copione che sa di vecchio, mentre tutto sta rapidamente cambiando. In Italia innanzitutto dove alla satellizzazione industriale si sta affiancando quella finanziaria e informativa, mettendo in crisi i tradizionali asset di potere e di scambio tra mondo politicante ed economico, facendo finalmente risaltare il non senso di politiche senza politica, di travestimenti inveterati, di scissioni e unificazioni sul nulla, ma anche richiedendo la rapida maturazione delle opposizioni che in questo nuovo mare dovranno passare a una fase propositiva, cosa che è facile da dire, ma arduo da fare.
Questo si inserisce in un panorama globale estremamente complesso e inquietante per tutti noi, nel quale si comincia ad intravvedere la fine della “politica di servizio” nei confronti non dei cittadini, ma del potere effettivo ormai in mano a quella che potremmo chiamare alta finanza.
Giornalisti che fino a ieri lanciavano accuse incendiarie a Killary Clinton e a Obama, ora raccomandano di non partecipare alle manifestazioni contro Trump, perché sarebbero tutte organizzate da Soros.
E’ vero, il vecchio golpista, immerso nella CIA fino al collo, è sempre presente con le sue ONG fasulle, i suoi divi del cinema “progressisti” e con le sue donnine d’avanspettacolo (le Pussy riot candidate alla bronchite, perché devono girare sempre mezze nude anche quando si muore di freddo), ma sarebbe opportuno inalberare cartelli e striscioni contro Obama, Hillary e Soros, meglio con la la protezione di un proprio buon servizio d’ordine. In altre parole, il proletariato non può mai abdicare alla sua indipendenza, accettare una tregua in attesa che il nuovo burattino del capitale dimostri “la sua volontà di cambiare”. E costui cambierà molte cose, accentuerà la frattura all’interno della borghesia, sempre se quelli dell’altra fazione borghese non lo facciano fuori prima, politicamente o fisicamente.
Se il battito delle ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas, l’ascesa di Trump, che non è certo una farfallina, può provocare movimenti tettonici, non solo in Texas, ma anche in Cina. Segnali importanti troviamo in due dichiarazioni, alle quali i media hanno dedicato molto spazio, ma, come al solito, senza collegarle fra di loro e collocarle nel giusto contesto. Si tratta dell’intervento di Xi Jinping a Davos e delle dichiarazioni apparse sul tabloid Global Times, prodotto dal quotidiano ufficiale del Partito Comunista Cinese. E’ finito per sempre il basso profilo mantenuto per decenni dal governo cinese.
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Una lettura del libro di Davide Gallo Lassere Contre la Loi Travail et son Monde Argent, précarité et mouvements sociaux (Eterotopia-France, 2016)
Il bel
libro di
Davide Gallo Lassere mi sembra una buona occasione per una
discussione sui “compiti dei comunisti” in questa fase (penso
al convegno C17,
visto – anche se poco – sul web). Un libro bello perché pone
domande pertinenti. È a partire dalle risposte possibili che
vorrei impostare un dialogo, piuttosto che scrivere una
recensione tradizionale.
Davide si domanda come sia stato possibile, dopo una stagione di vittorie culminate negli anni ‘70, aver subito una sconfitta strategica come quella che ci ha inflitto il neo-liberismo. Aggiungerei che occorre capire quali siano le ragioni delle più recenti sconfitte: quella subita dalle mobilitazioni contro la loi travail non è che l’ultima di una lunga serie.
È proprio dai concetti di “lavoro” e di “produzione” che vorrei partire. In realtà essi non sono concepibili (a partire dalla conquista delle Americhe) senza il lavoro degli schiavi nelle colonie, né senza il lavoro di riproduzione delle donne, cosa che il marxismo ha ignorato o difficilmente integrato politicamente (e comunque mai nella sua teoria del “valore”). Inoltre, mi sembra che le divisioni di classe, di razza e di sesso costituiscano la “natura” non solo economica, ma politica del capitalismo. Le gerarchie di classe, le gerarchie di colore e le gerarchie fondate sull’eterosessualità, comprensibili soltanto dal punto di vista dell’economia-mondo, sono anche quelle su cui si esercita la governamentalità e sulle quali il potere costruisce i suoi modelli di assoggettamento.
La
congiuntura storica che
l’Europa sta attraversando ormai da circa un decennio a questa
parte si presenta nelle vesti di una crisi economica, politica
e sociale, la cui
profondità è tale da non lasciare spazio, almeno per il
momento, ad alternative efficaci in grado di spezzarne il
circolo vizioso. Al
contrario, la crisi sembra ormai essere diventata la
condizione strutturale e permanente delle forme neoliberali di
governo della società.
Siamo cioè di fronte – come da più parti segnalato – alla
«crisi come modalità di governo», un fenomeno
che rende obsolete gran parte delle categorie politiche della
modernità, oggi sottoposte a tensioni e attriti di difficile
decifrazione.
Concetti come democrazia liberale, sovranità,
rappresentanza politica, diritti sociali, la stessa
distinzione tra pubblico e
privato appaiono oggi come contenitori vuoti: li si
può stirare, contorcere, allungare o restringere quanto si
vuole, si ha sempre
l’impressione di maneggiare attrezzi spuntati, usurati, privi
di aderenza alle superfici sulle quali dovrebbero appoggiare.
Viviamo in una sorta
di «interregno» – per dirla con Étienne Balibar – un limbo nel
quale le fondamenta dell’Europa contemporanea
sembrano essere scosse dall’irrompere di fenomeni inediti, che
minano in profondità la possibilità che essa possa reggere
alla
sfida perniciosa dei tempi. Di fronte all’opacità del nostro
tempo, che rivela tratti talvolta inquietanti, il lessico
politico della
modernità fatica ad orientarsi sulla scena, come un attore il
cui copione appaia sfasato rispetto all’ambientazione in cui
pure deve
poter recitare. La crisi è insomma anche linguistica, una
crisi di corrispondenza tra «nomi» e «cose».
Quaderno Nr. 2/2017, Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Presentazione
Se ad un partito comunista con milioni di iscritti e militanti subentra un suo presunto erede, che nell’arco di due generazioni finisce col racimolarne a fatica trecentomila; se il giornale che ne rappresentava la “bandiera” passa da vendite giornaliere superiori al milione o mezzo di copie a settemila, si può tranquillamente riconoscere che è intervenuto un cataclisma sociale. Se si registra questo fatto senza interrogarsi sul suo significato, si finisce però con l’essere come i sismografi che, pur misurando l’energia sprigionata dai terremoti, non sanno nulla della natura del fenomeno che registrano. Se è evidente che i progetti di quel partito, il suo linguaggio e le sue forme di lotta, hanno smarrito ogni presa sulla dinamica della vita sociale, non è limitandosi a prendere atto di questa evoluzione che ci si spiega perché e come tutto ciò sia accaduto.
La parabola discendente è cominciata nella seconda metà degli anni settanta, quando si è innescata la crisi che stiamo attraversando. Allora si pose il problema di capire la natura di quello che stava succedendo, conservando l’insegnamento metodologico più prezioso di Marx: dopo una fase di straordinario sviluppo, come quello di cui abbiamo goduto nel Welfare keynesiano, le forze produttive acquisite entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti.
Uno dei maggiori limiti della sinistra sta nel confondere l’europeismo con l’internazionalismo e pensare che il superamento dell’euro sia deleterio o una proposta di destra. La creazione di un “demos europeo”, mediante una agenda europea dei conflitti e dei movimenti, o la proposta di realizzare un movimento europeo contro l’austerity e il neoliberismo, basato sulla disobbedienza ai trattati, non sono proposte realistiche. Esse non tengono conto del contesto: l’integrazione valutaria europea. L’euro è stato pensato con uno scopo preciso: bloccare ogni capacità di risposta e di resistenza dei salariati alla riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica. La finalità di tale riorganizzazione è semplice: compensare il calo del tasso di profitto tagliando i salari e il welfare e eliminando le imprese e le unità produttive in “eccesso”.
L’euro costringe al rispetto dei Trattati
I meccanismi principali dell’integrazione europea sono due. Il primo riguarda il trasferimento delle decisioni economiche dal livello statale a organismi sovrastatali, come la Commissione europea, il Consiglio europeo, che riunisce i primi ministri, e il Consiglio dell’Unione Europea, che coordina i ministri europei. L’obiettivo non è superare gli stati, ma realizzare la “governabilità”, cioè bypassare i parlamenti e le costituzioni statali, dove i meccanismi della democrazia parlamentare creerebbero, pur nei limiti della democrazia rappresentativa borghese, dei vincoli all’azione delle forze dal capitale.
«Quanto è costituzionale la Corte Costituzionale?». Questo l'incipit del mio commento alla sentenza della Consulta del 25 gennaio scorso sull'Italicum. «Uno schifo di sentenza» scrivemmo due settimane fa. Altri preferirono invece un giudizio sostanzialmente positivo sulle decisione della Corte, ma su costoro è stato già scritto l'essenziale.
Ora sono arrivate le motivazioni (qui il testo completo) di quell'obbrobrio di sentenza. Inutile bearsi dei nobili motivi che hanno condotto all'eliminazione del ballottaggio. In quella decisione non c'è nulla di giuridico, c'è solo la presa d'atto - diremmo "tecnica" - dell'impossibilità di applicare il doppio turno ad un sistema bicamerale. Dunque il ballottaggio renziano l'hanno fatto fuori gli elettori il 4 dicembre non certo i giudici costituzionali, la cui maggioranza l'avrebbe quasi certamente vistato nel caso di una vittoria del "sì".
Ora costoro si fanno belli sul punto, notando che il ballottaggio avrebbe costituito una lesione del principio della rappresentatività. Ma a questa concessione gratuita ai nobili principi, segue l'ignobile motivazione del mantenimento del premio di maggioranza. Secondo la Consulta il premio è legittimo perché il 40% dei voti sarebbe «una soglia di sbarramento non irragionevolmente elevata che non determina, di per sé una sproporzionata distorsione della rappresentatività dell’organo elettivo».
D’Alema ha annunciato che, per ora, non ci sarà nessuna scissione: è una ritirata? Non proprio.
Anzi, da un punto di vista formale, il discorso non fa una piega: nell’assemblea del 28 gennaio, aveva detto che se non ci fosse stato il congresso prima delle politiche, sarebbe scattato il “liberi tutti”, cioè la scissione. A quanto pare le elezioni si stanno allontanando e per Renzi è sempre più complicato evitare il congresso. Gli interventi di Napolitano e della Ue hanno lasciato il segno ed, una volta di più, la sinfonia dello spread condiziona le danze in Italia, ieri per far cadere un governo, oggi per far durare un altro governo.
L’importanza è che il nostro paese faccia quello che dicono Bce e Ue. E “l’Europa” non vuole che si voti in Italia prima che in Germania. Già c’è la grana francese che non si sa come va e, se ad una vittoria della Le Pen, dovesse aggiungersi un terremoto elettorale in Italia, sarebbe compromessa anche la partita tedesca e, con essa, quella dell’“unione europea”.
D’Alema queste cose le sa e, per la verità non era un tifoso delle elezioni subito neppure prima ed il suo annuncio di scissione è stato fra le cose che hanno bagnato le polveri di Renzi ed allontanato le elezioni. Infatti, anche se la sua scissione portasse via solo un 2-3% al Pd, l’effetto sarebbe disastroso per Renzi.
La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i Paesi del nord ed un’altra per i Paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea.
In realtà i Tedeschi sono scontenti dell’UE perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti PIIGS. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei Paesi UE più in difficoltà ed il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.
Ma ciò non accadrà, poiché l’UE non era affatto nata per favorire l’integrazione economica dell’Europa. Gli interessi erano soltanto finanziari e militari. La deflazione causata dall’euro rende più forti i creditori nei confronti dei debitori, e quindi va a favore delle multinazionali finanziarie.
L’insofferenza popolare verso la continuità amministrativa, politica e culturale rappresentata dalla nuova giunta 5 stelle procede nel suo percorso organizzativo. Ieri sera, più di trecento persone hanno affollato l’assemblea promossa dalla Carovana delle Periferie e da Decide Roma, percorso che punta alla costruzione di una manifestazione cittadina contro le politiche della giunta Raggi. Un successo che non vede precedenti recenti, e segna un punto di svolta nel rapporto tra sinistra e società, almeno a Roma. Se lo scorso 4 ottobre quella stessa insofferenza, già palpabile, era in qualche modo “interlocutoria”, quella di ieri ha manifestato il distacco sempre più netto tra le attese delle periferie popolari e quel programma grillino quotidianamente smentito dalla giunta. Non a caso, se il 4 ottobre l’atteggiamento della giunta fu quello di snobbare la mobilitazione, ieri la partecipazione dei consiglieri era particolarmente interessata (ma non interessante). Troppo tardi. Il problema non è questa o quell’inchiesta mediatica organizzata dal partito trasversale di Repubblica&L’Espresso; non è questo o quel discredito fomentato ad arte dalle lobby del potere cittadino, che insistono nel commissariamento metropolitano per veicolare meglio i propri interessi palazzinari; e non è neanche la testimonianza di una posizione ideologica contraria “a prescindere” verso questa giunta, che indebolirebbe tutto il processo. Niente di tutto questo ha caratterizzato l’insofferenza che ieri ha preso parola nella sala della Protomoteca. E’ invece il bilancio approvato dalla giunta e sbandierato come “risultato” da esibire a dimostrazione della propria “efficacia”, il problema politico decisivo di questa insofferenza.
Nel 2016
Donzelli ha pubblicato il libro di Marcello Musto L’ultimo
Marx 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale. Vale
la pena
soffermarcisi.
Come chiarito dal sottotitolo, si tratta di un saggio di biografia intellettuale, che si avvale della gran mole di materiali che negli ultimi anni sono divenuti accessibili e che, secondo Musto, modificano l’immagine del vissuto e del pensiero di Marx fin ora consolidata.
Anzitutto biografia: Musto ci consegna l’immagine di Marx uomo negli ultimi tre anni della sua vita, alle prese con le sofferenze, i dolori e le (poche) gioie che quegli anni gli hanno concesso, ma che conserva la sua umanità nonostante il destino ostile, che lo perseguita financo con un’avversione climatica che fiacca il corpo malato. Marx affronta questo destino con lo spirito tenace di un combattente, che continua a tenere per le vicende più ampie della storia dell’umanità, nonostante viva, soggettivamente e non solo oggettivamente, una condizione di isolamento anche e specialmente nei confronti di quelli che dovrebbero essere i suoi più affini solidali, la frastagliata famiglia del movimento socialista nella penultima decade dell’Ottocento.
Resterebbe deluso chi cercasse in questo libro l’approfondimento teorico delle questioni irrisolte nell’ultima ricerca di Marx.
Victor Serge, Da Lenin a Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita, Prefazione di David Bidussa, Bollati Boringhieri 2017, pp.185, € 15,00
Con la ripubblicazione, a
ottant’anni di distanza dalla sua prima edizione e a
quarantaquattro anni dalla prima edizione italiana,
dell’efficace sintesi di Victor
Serge della storia della rivoluzione bolscevica, dai suoi
esordi alle grandi purghe degli anni Trenta, la casa editrice
Bollati Boringhieri sembra
essersi accollata il merito di inaugurare un anno che molto
probabilmente sarà, nel bene e nel male, ricco di rievocazioni
di un evento
fondamentale per la storia del Novecento.
Anno che correrà il rischio di vedere schierate da un lato le
rievocazioni tardo-nostalgiche e acritiche e dall’altro le
interpretazioni più distruttive e liquidatorie di un
avvenimento rivelatosi determinante sia per la storia del
movimento operaio che per quella
del XX secolo.
Un avvenimento che nel suo catastrofico decorso, dall’avvento
di una speranza concreta in una rivoluzione internazionale al
suo volgersi in elemento fondamentale della controrivoluzione,
ha meritato, merita e meriterà ancora per lungo tempo
un’analisi attenta e
complessa del suo svolgimento, delle sue intime contraddizioni
e dei motivi del capovolgimento finale dei suoi presupposti.
Il testo di Serge, scritto e pubblicato all’estero, mentre quella orrenda trasformazione da faro della rivoluzione proletaria internazionale a mostruosa macchina dittatoriale e controrivoluzionaria era nel pieno della sua attuazione, può ancora costituire un primo, illuminante esempio di tentativo di analisi critica dei fatti che avrebbero coinvolto non solo il destino di centinaia di migliaia di militanti rivoluzionari e di milioni di proletari e contadini russi, ma anche di milioni di operai e militanti e tutti i partiti comunisti del resto del mondo.
Ho già accennato alla questione del trasferimento della city finanziaria a Milano, cogliendo di sorpresa diversi lettori che si sono chiesti su cosa si fondi questa previsione.
Per la verità avevo in mente di scriverne già da metà dicembre, poi ho rinviato e nel frattempo sono usciti diversi pezzi giornalistici ed anche servizi televisivi, tra cui all’interno della trasmissione di Lily Gruber:
Allora, posso confermare non solo che Milano è, con Parigi e Francoforte, candidata a ricevere la City, ma che è in pole position come grande favorita. E questo per diverse buone ragioni.
In primo luogo per ragioni geopolitiche: Germania e Francia sono concorrenti dirette dell’Inghilterra (o di quel che ne resta), per cui un loro rafforzamento (soprattutto della Germania che già ospita la Bce proprio a Francoforte) non è visto di buon occhio dalla parte inglese della City che, come è ovvio, è maggioritaria. La Francia, poi, presente un’altra incognita (destinata, però, a sciogliersi nel giro di qualche mese): il rischio Le Pen che inquieta molto.
Nelle scuole di architettura, passato il biennio propedeutico si arrivava ad affrontare la progettazione di uno stadio. Preliminarmente dovevi saper progettare una gradinata e verificarne la relativa «curva di visibilità», far vedere che dalle tribune nessuno spettatore, sedendosi, coprisse la visuale degli altri. Azzeccare la curva poteva costarti giorni di prova e manciate di fogli strappati. Bisogna vedere bene.
Gli stadi sono «case» speciali abitate da famiglie allargate che lì si ritrovano per vivere un’emozione collettiva. Chi abita questi spazi tende a dilatare i 90 minuti della gara. A far continuare, dopo il triplice fischio, il senso delle cose che assegniamo a queste case collettive. Gli stadi diventano veri e propri individui edilizi solo quando riescono, con le loro forme spaziali, a entrare in rapporto con la città. A parlare.
Lo stadio Olimpico, con l’inserimento di quel catino nella geografia di passaggio tra la zona collinare e il Tevere, ha esaltato quel quadro ambientale con la capacità di accogliere (quasi) 100mila spettatori in un sistema di vuoti graffiati sapientemente nel terreno.
La localizzazione dell’Olimpico è paradossale, individuata, come è stata, da un regolare progetto urbanistico in un periodo (era il 1925) in cui Roma cresceva per parti disordinate e trasformazioni tipologiche (l’invenzione della palazzina) che avrebbero segnato il successivo piano del 1931 e compromesso la città.
Bisogna dar atto a Mario Draghi di essere uno dei pochi decisori europei a mentenere un ancoraggio formale al proprio ruolo istituzionale, evitando qualsiasi dichiarazione non perfettamente meditata. Dote rara, in tempi in cui la “classe dirigente” ama adottare un linguaggio “popolaresco” e toni alti.
Proprio per questo ogni volta che Draghi apre bocca si possono cogliere in controluce i problemi che cerca di risolvere o esorcizzare; anche perché i mezzi concreti sembrano ormai scarseggiare.
Per esempio. Ieri, nel corso dalla rituale audizione davanti al cosiddetto parlamento di Strasburgo (che non è tale, non disponendo del potere legislativo), ha ripetuto dopo anni la frase ormai famosa: l'euro è irreversibile. Erano quasi due anni che non sentiva la necessità di ripeterlo, e non è stata certo la pressione dell'europarlamentare che aveva posto la domanda, Marco Zanni (M5S), a costringerlo. A maggio 2015 si stava discutendo apertamente di Grexit, con il governo Tsipras apparentemente intenzionato a non sottostare ai diktat della Troika, fino ad indire un referendum per il sì o no al “memorandum”. Sappiamo come è finita, due mesi dopo-
Ma quella volta Draghi aggiunse che «l'uscita di uno Stato membro dell'euro non è prevista dai trattati». Ieri invece ha usato una formula molto più dubitativa: “comunque la Bce non ha alcun potere legislativo per obbligare i Paesi membri a restare” nell’unione monetaria.
Finalmente il telefono ha squillato e Gentiloni, dopo una lunga e nervosa attesa, ha potuto ascoltare la voce del nuovo presidente degli Stati uniti, Donald Trump. Al centro della telefonata – informa Palazzo Chigi – la «storica amicizia e collaborazione tra Italia e Usa», nel quadro della «importanza fondamentale della Nato».
Nel comunicato italiano si omette però un particolare reso noto dalla Casa Bianca: nella telefonata a Gentiloni, Trump ha non solo «ribadito l’impegno Usa nella Nato», ma ha «sottolineato l’importanza che tutti gli alleati Nato condividano il carico monetario della spesa per la difesa», ossia la portino ad almeno il 2% del pil, il che significa per l’Italia passare dagli attuali 55 milioni di euro al giorno (questi secondo la Nato, in realtà di più) a 100 milioni di euro al giorno.
Gentiloni e Trump si sono dati appuntamento a maggio per il G7 a presidenza italiana che si svolgerà a Taormina, a poco più di 50 km dalla base Usa/Nato di Sigonella e di 100 km dal Muos di Niscemi. Capisaldi di quella che, nella telefonata, viene definita «collaborazione tra Europa e Stati Uniti per la pace e la stabilità».
Quale sia il risultato lo confermano gli Scienziati atomici statunitensi: la lancetta dell’«Orologio dell’apocalisse», il segnatempo simbolico che sul loro bollettino indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare, è stata spostata in avanti: da 3 a mezzanotte nel 2015 a 2,5 minuti a mezzanotte nel 2017.
Forse arrivo fuori tempo, e quello di Target2 è ormai un cold case, ma forse no se ancora sabato scorso ne parlava Giannino ai Conti della belva, però facendone declinare i dettagli dal prof. Terzi in una maniera che mi è risultata indigesta. Peccato, perché la confusione alimenta solo i dubbi.
Perciò desidero dare anch’io un contributo, dividendo così il mio intervento: per prima una spiegazione generale e astratta di cosa siano i saldi Intra-EuroSistema che costituiscono il c.d.saldo Target2 (T2 d’ora in poi); in seconda battuta chiariremo perciò se e quando questi saldi siano veramente un debito; in ultima, analizzeremo i suoi andamenti dal 2011 ad oggi e relative spiegazioni plausibili.
Target2 e il bilancio delle Banche Centrali
Penso vi sia ormai noto il meccanismo del trasferimento dei soldi dal vostro conto a quello del fornitore tedesco, attraverso il sistema che coinvolge la vostra banca nazionale, il suo conto accentrato presso la propria Banca Centrale (in gergo noto come conto PM), e da questa il riaccredito alla banca centrale del paese esportatore e da essa alla banca e al conto del vostro fornitore.
Lo schema sotto vi potrà aiutare. Questo ed altri successivi sono tutti tratti dal mirabile lavoro del 2012 del prof. Karl Whelan della University College Of Dublin.
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Questo articolo è di taglio storico-politico quindi attiene all’attualità non per richiami contingenti all’Unione europea o all’euro ma perché l’Europa è un sub-continente in cui si pone il problema geopolitico in forme pressanti e decisive, problema da affrontare con una prospettiva temporale larga
Europa-Europe
1. Europa, è considerata espressione geografica ma con alcuni corollari. Il primo corollario è che anche solo “geograficamente”, Europa è un sistema impreciso avendo tre confini certi ed uno -quello orientale- incerto, per lo meno per la piana tra fine degli Urali ed i tre bacini del Mar Nero, del Caspio e il lago d’Aral, che rimane aperta al Centro Asia. Il secondo corollario, è che la stretta vicinanza con Turchia, Medio Oriente e Nord Africa, la rendono molto sensibile alle interrelazioni con ciò che lì succede, Europa non è un sistema isolato. I due corollari, portano al terzo ovvero la constatazione che per quanto attiene alla Russia si ha a che fare con un sistema che geograficamente (anche se non demograficamente) è più asiatico che europeo. Per quanto attiene all’Europa del Sud Est, si ha a che fare con un sistema storicamente molto influito sia dalle migrazioni centro-asiatiche, sia dalla penisola anatolica (impero bizantino e poi ottomano), sia dalle divisioni determinate dalla contrapposizione est-ovest del Novecento. Per quanto attiene la Gran Bretagna, non solo questa deriva da una storia isolana (non isolata ma isolana) ma ha manifestato molta più propensione storico-culturale verso l’America del Nord che non verso l’Europa, almeno dalla fine della Guerra dei Cent’anni in poi (1453).
Il sito CounterPunch pubblica una esauriente critica “da sinistra” all’amministrazione Trump. P. Street, invece di identificare semplicemente Trump col male, contrapposto a Obama, il bene, racconta più onestamente gli orrori imperialisti della politica estera USA, perpetrati da Obama e che Trump sembra voler proseguire. La maniera migliore di disinnescare razzismo, terrorismo, odio e migrazioni di massa, è che gli USA smettano di innescare guerre e violenze nei paesi musulmani, come fanno da almeno più di 20 anni a questa parte
I
giornalisti americani “mainstream” che vogliono conservare i
loro stipendi e il loro prestigio sanno che devono riferire
gli
avvenimenti in modo da non mettere in discussione il tabù
della selvaggia e implacabile criminalità imperialista della
nazione e
del regime di disuguaglianza e oppressione che ne sta alla
base. Questi argomenti sono considerati off-limits, in quanto
travalicano gli angusti
confini delle discussioni considerate educate ed accettabili.
I commentatori e i giornalisti seri hanno il buonsenso –
profondamente
indottrinato – di evitare questi argomenti.
“Abbiamo fatto abbastanza come Nazione”
Un esempio eccellente è un recente report della CNN su come lo stop all’immigrazione musulmana del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump si ripercuote sulla piccola città di Rutland, Vermont.
Un giornalista della CNN ha intervistato due persone di parere opposto sull’accoglienza dei rifugiati siriani a Rutland. Il primo intervistato è stato il sindaco della città, Chris Louras, che sta cercando di fare di Rutland un hub di reinsediamento di rifugiati che nel 2017 dovrebbe accogliere 25 famiglie siriane.
Tempi di cambiamento e di disordine
Il mondo si trova in una fase di cambio e grande disordine. Il modello del capitalismo neoliberista e la ricetta dell’egemonia nelle relazioni internazionali non funzionano da tempo, ma la sua inerzia continua ad essere forte e ci sta portando a schiantarci sugli scogli.
Quest’anno abbiamo avuto tre cambi principali che segnano questa tendenza:
– La sconfitta dell’occidente in Siria (che è il riflesso delle tensioni del passaggio dal disordine egemonico monopolare a quelle del mondo multipolare)
– Il cambio di orientamento degli Stati Uniti, con la direttiva di cambiare da “America World” a “America First” di Trump, che apre la porta a conflitti interni alla prima potenza mondiale e a tutta una serie di altri “first’s” nel mondo (“China First”, “EU first etc.)
– La scomparsa di ogni progetto comune europeo, disastro che porta a cercare nemici (la Russia) e ad incrementare la militarizzazione dell’ “Europa di difesa” (1)
Tutto questo è già molto per un solo anno e spiega abbondantemente il senso di vertigine che c’è nell’aria.
1. In attesa delle elezioni, - non quelle in Italia, dove per definizione le cose, nel breve temine, non possono cambiare in modo sostanziale- c'è una notevole confusione in €uropa: al punto che, all'interno nell'avvicendarsi di notizie, e analisi espertologiche, orwelliane, sfuggono i risvolti di quelle veramente rilevanti.
Prendiamo l'incontro Draghi-Merkel di un paio di giorni fa. La cancelliera aveva parlato di "europa a più velocità" e, in molti, l'avevano fraintesa: in effetti, ciò che contava, in quella dichiarazione, era più un'oscura minaccia a chi non si adeguava all'intensificazione dell'attuale modello mercantilista a trazione germanica che non la prospettiva di una volontà politica di cambiare i trattati. Insomma, contava più quello che non era stato detto: e di sicuro non era stato detto, dalla Merkel, che lei, proprio lei, ipotizzasse un euro a più velocità.
2. Su questo punto, riportiamo la sintesi "ufficiale" dell'incontro fatta dal Corriere della sera:
Non hanno parlato di tassi d’interesse, Angela Merkel e Mario Draghi, nel loro incontro alla cancelleria di Berlino. Hanno però parlato di qualcosa di più: del futuro dell’Europa. E la cancelliera ha chiarito che la sua proposta di diverse velocità d’integrazione non riguarda l’eurozona, da mantenere unita.
Nel 1999 a Bologna si riunirono i ministri dell’istruzione dei paesi europei, e stilarono la Carta di Bologna. Nella città in cui l’università era nata più di nove secoli prima, il ceto politico del centro sinistra europeo si incontrò per sancire la sottomissione del sapere agli interessi del profitto. Da quel momento la scuola e l’università sono stati sottoposti a un’opera sistematica di impoverimento, privatizzazione e imposizione del dogma centrale del mercato: la competizione, il profitto.
I tornelli nella biblioteca della Facoltà in cui ho studiato nel 1968 sono un piccolo ignobile particolare, una conseguenza dell’opera di implacabile sottomissione del sistema educativo al dominio esclusivo della finanza. Questo dominio spietato ha necessariamente risvolti securitari. Perché tutti obbediscano al dogma centrale del mercato è necessario un occhiutissimo sistema di sorveglianza che espella chi non può o non vuole piegarsi a quel dogma. Privatizzazione, sottomissione del sapere agli interessi privati e securizzazione vengono insieme, non si può avere l’uno senza l’altro.
Il predominio del mercato ha prodotto la diffusione massiccia dell’ignoranza, la separazione del sapere tecnico dall’intelligenza dell’umano, e finalmente il fascismo e la guerra.
Provando ad andare oltre uno sguardo superficiale, il ritorno del sovranismo politico potrebbe essere letto non solo e non tanto come l'espressione di una pulsione popolare, ma come il riflesso di processi economici avviati da un po' di tempo. La crisi della globalizzazione non ha solo dato vita a un populismo di stampo nazionale, ma anche al tentativo di autodifesa per le stesse classi dirigenti che della globalizzazione sono state le principali beneficiarie. L'Economist recentemente ha sottolineato come sia in corso una «rimpatrio» delle multinazionali dei paesi più ricchi dai loro avamposti in giro per il mondo. Tale processo non è frutto di un tentativo di mettersi al riparo dai problemi di ordine politico emersi in questi mesi, ma da quelli economici in corso da alcuni anni.
Le multinazionali stanno registrando una crescita più lenta e una minore redditività a vantaggio delle imprese locali, capaci di adattare meglio l'offerta massificata e tecnologicamente innovativa con la domanda legata a culture e abitudini dei loro territori. Persino la loro capacità di pressione su salari e diritti inizia a essere compromessa, come quella di arbitraggio fiscale con le amministrazioni statali. La crescita dei paesi emergenti, per quanto squilibrata, ha cominciato a dar vita a controindicazioni rilevanti. L'Economist afferma che negli ultimi cinque anni i profitti delle multinazionali sono calati del 25%.
Una critica al capitalismo in uno sguardo e una prassi irriducibili a scuole e appartenenze rigidamente identitarie
Prof. Donaggio, lei si interessa da anni di critica al capitalismo partendo da uno sguardo e da una prassi irriducibili a scuole e appartenenze rigidamente identitarie.
Ha infatti sostenuto di non essere mai stato, nei fatti, comunista, socialista, anarchico ecc. Al contempo dimostra una conoscenza approfondita degli orizzonti critici e utopici che hanno segnato la modernità. Il suo non appartenere a una "parrocchia" ben precisa non è forse un'indicazione di metodo sul modo di pensare le alternative possibili al discorso omologante del capitale?
Temo che anche la figura dell'individuo non allineato e privo di appartenenze tribali, partitiche o parrocchiali sia stata da tempo fagocitata e omogenizzata da quello che Lei definisce il "discorso omologante del capitale", che la vende o spaccia come un outsider o un loser di fascino variabile: per un decimo eccentrico o genialoide, per il resto sfigato, pazzoide, disadattato o impotente.
Per cogliere il senso della domanda posta da Carlo Smuraglia, sulla esistenza e sulle forme attuali della insidia fascista, bisogna andare oltre la ricognizione delle espressioni organizzate di una destra radicale che ovunque mostra una certa vitalità e anche una capacità di mobilitazione tra i giovani. Una radiografia quantitativa delle formazioni, spesso ultraminoritarie, che sono diffuse in tutti i paesi europei, e si presentano nelle piazze con i simboli del nazismo o del fascismo, non basta a cogliere l’ampiezza del fenomeno del sovversivismo di destra, che, in certe condizioni di emergenza, può sbriciolare le democrazie.
Bisogna quindi sondare alcune questioni storico-politiche per valutare l’ampiezza dei pericoli effettivi che insidiano le costituzioni novecentesche. La stessa Corte costituzionale tedesca, nel pronunciarsi sul destino delle associazioni neonaziste ramificate in Germania, ha menzionato il modesto dato quantitativo dei movimenti estremistici per escludere che tali gruppi possano costituire la fonte di una consistente opera di sovversione. Con questa rassicurante dichiarazione che l’ordine pubblico non è minacciato dalla violenza squadristica non è però risolta la riflessione sulle opportunità di sviluppa della destra più radicale nel mondo odierno.
Marx suggeriva, nella rilevazione dei fenomeni politici, di tener presente che “il vecchio cerca di ristabilirsi e riaffermarsi nella forma nuova”.
“Unità,
umiltà”. Queste sono le parole che riassumono il congresso di
Podemos che ha sancito una vittoria por
goleada di Pablo Iglesias. Una nuova lezione per la
sinistra nostrana che alla Spagna guarda da sempre con
interesse. El coleta –
come viene definito Iglesias per la sua caratteristica
pettinatura a coda di cavallo - ha trionfato su tutta la
linea. Il partito, che ha compiuto tre
anni di vita lo scorso mese di gennaio, chiude con l'era del
"marketing elettoralistico" e ritorna nelle strade. Lo sguardo
è rivolto, come nei
primi tempi, ai movimenti e alle istanze sociali con una
novità rispetto ad allora, o meglio con una conferma, che fino
all’altro ieri
non era certa: l'alleanza politica con Izquierda Unida (IU),
il tradizionale partito della sinistra iberica.
Iglesias è stato rieletto segretario generale del partito con l’89% dei voti. Non aveva sfidanti, questo è certo, ma il dato parla da sé. E la vittoria riguarda anche tutti gli altri documenti votati a Vistalegre II. Per quanto riguarda il documento politico, la madre di tutte le battaglie, Iglesias ottiene il 56% dei voti. Lo sfidante e numero due del partito Íñigo Errejón si ferma al 33,7%, mentre gli anticapitalisti dell’eurodeputato Miguel Urbán e della líder andalusa Teresa Rodríguez portano a casa il 9%. Simili i risultati anche per quanto riguarda l’elezione del Consejo Ciudadano, il maggior organo del partito: 50,7% per la lista di Iglesias, 33,7% per quella di Errejón e 13,1% per quella degli anticapitalisti.
Questa è la prima bozza di un documento divulgativo che mi è stato richiesto. Pubblico qui per commenti
Wynne Godley, nel 1992, scriveva a
proposito
del progetto dell’Euro:
“la creazione di una moneta unica porterà alla fine delle sovranità nazionali e alla capacità di agire in modo indipendente su questioni di rilievo…. La capacità di stampare moneta, e per il governo di finanziarsi presso la propria Banca centrale, è l’aspetto più importante dell’indipendenza nazionale. … Se vi si rinuncia, ci si trasforma in una autorità locale, o una colonia. … e quando arriva una crisi, se il Paese ha perso la capacità di svalutare e non può beneficiare di trasferimenti fiscali a compensazione, non c’è nulla che possa fermarne il declino, fino all’emigrazione come unica alternativa alla povertà”(1)
Abbiamo voluto l’euro, abbiamo avuto il declino, e ora l’emigrazione e l’aumento della povertà. E il sottoporre le nostre leggi di bilancio alla Commissione Europea è solo una delle dimostrazioni del fatto che il Governo è diventato una “autorità locale”.
Ma allora perché abbiamo adottato l’Euro?
Per lo stesso motivo per cui molti vogliono rimanerci! Era già chiaro, nei dibattiti parlamentari che hanno preceduto la firma dei Trattati, che rinunciare alla politica dei cambi e alla politica monetaria comportava una compressione dei salari.
La differenza di reddito pro capite tra la più ricca delle nazioni industriali, diciamo la Svizzera, e il più povero dei Paesi non industrializzati, il Mozambico, è oggi [nel 2000] di circa 400 a 1; due secoli e mezzo fa questo divario fra [paesi] ricchi e poveri era forse di 5a1 e la differenza fra l’Europa e l’Asia orientale o meridionale (la Cina o l’India) all’incirca di 1,5 o 2a1». (Kenneth Pomeranz, La grande divergenza)
Salario
mondiale e mercato mondiale
Per un’analisi dei livelli e delle dinamiche del salario mondiale occorre tener presente due movimenti, che vanno intesi in riferimento a diversi livelli di astrazione. Da un lato, la tendenza strutturale alla diminuzione del valore della forza-lavoro; dall’altro quella relativa all’aumento dell’industrializzazione e dunque all’inurbamento progressivo della popolazione mondiale.
Secondo la teoria marxiana del valore-lavoro, il valore di una merce dipende dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla; essendo la forza-lavoro una merce, anche il suo valore è determinato allo stesso modo. Se vogliamo esprimere lo stesso concetto facendo riferimento alla forma monetaria del valore, possiamo dire che il valore della forza-lavoro umana è determinato dal valore delle merci di sussistenza necessarie a produrla e riprodurla. L’aumento della forza produttiva del lavoro reso possibile dalle innovazioni tecnologiche riduce il tempo di lavoro necessario a produrre anche le merci di sussistenza, e dunque – per questa via – il valore della forza-lavoro tende necessariamente a ridursi.
Come è noto, non solo questo prezioso elemento di analisi, ma l’intera struttura logica del I libro del Capitale si situano a un livello di astrazione molto alto, nel senso che il metodo di Marx – nel complesso lavoro di scrittura del I volume – era rivolto a concentrarsi sugli elementi e sulle tendenze di fondo del processo di produzione del capitale, prescindendo completamente – e volutamente – dalle “perturbazioni” di un modello costruito sulle sue linee generali, riservando ad altre occasioni il compito di “ridurre” il livello di astrazione dell’analisi, per tener conto di elementi ugualmente importanti ma con un grado inferiore di generalizzazione.
Tra qualche anno chi mai ricorderà le infelicissime frasi con cui un assessore disse a un giornalista che non lo stava intervistando ciò che dicevano financo i gatti del Colosseo? Chi rammenterà che, sì, Berdini Paolo fu un po’ coglione, e sleale verso Raggi Virginia? Nessuno: mentre la ferita alla città, alla natura, alla legalità di Roma sarebbe lì, madornale, per centinaia di anni
Ma davvero il cuore della vicenda Berdini è la monumentale
ingenuità – la coglioneria, come dice lui stesso – del
protagonista suo malgrado? Io non lo credo.
Questo triste passaggio illumina altre nostre ferite.
La prima. Davvero c’entra qualcosa il giornalismo con questa storia? C’era una notizia? Quale? Immaginiamo per un attimo un Paese in cui i giornalisti registrino e trascrivano ogni loro informale conversazione con uomini pubblici: ci rendiamo conto del grottesco inferno cui andremmo incontro? Tutti citano il dettaglio del precariato dell’‘intervistatore’ per dimostrare che Berdini fosse cosciente di parlare con un giornalista. Ma quel dettaglio non ci dice forse qualcosa di un’Italia in cui l’assenza dell’etica professionale è spesso in rapporto diretto con l’assenza della dignità del lavoro? Quale precario (nel giornalismo come nell’università e altrove) può dire «preferirei di no» al capo da cui – letteralmente – dipende la sua stessa vita?
La seconda. Quanto è profondo l’imbarbarimento civile e morale innescato dall’elezione diretta dei sindaci?
Le guerre-lampo non basta annunciarle e predisporle, bisogna anche vincerle in un tempo breve, altrimenti c’è il rischio che si incancreniscano e diventino permanenti.
Il diluvio di ordini esecutivi e di aggressivi tweet “politicamente scorretti”, di queste settimane, della coppia Trump-Bannon hanno lo scopo di non fare assorbire lo shock, alla maggioranza numerica dell’elettorato americano, dell’elezione a Presidente del tycoon newyorkese. Tenere aperta la frattura politica, evidenziata con il voto, è il solo modo che l’amministrazione Trump ha per cercare di consolidarsi. Una strada, si può dire, obbligata quando si dubita della lealtà al Presidente della maggioranza dello stesso partito repubblicano, quando si hanno contro gran parte (non tutto) del partito democratico, quasi tutte le internet company della Silicon Valley, un bel pezzo di Cia, le grandi banche, mezza Wall Street, tutta l’informazione liberal e non solo, importanti multinazionali manifatturiere e dei servizi e la burocrazia di Washington.
Lo stratega Steve Bannon, collocato da Trump nei posti chiave dell’amministrazione, procede a vista e a velocità sostenuta perché consapevole del momento propizio da sfruttare fino in fondo. Così, però, il rischio di andare a sbattere è molto alto, come è già accaduto con l’ordine esecutivo sulla lista nera dei cittadini di sette paesi ai quali si voleva interdire l’ingresso negli Stati Uniti.
“Ha sbagliato tutte le nomine, è un'incapace che tra l'altro sta oscurando i successi a Torino della sindaca Appendino”. Aldo Giannuli non le manda a dire. In effetti, già ad ottobre scorso aveva consigliato a Grillo di scaricare Virginia Raggi: “Sta tradendo le aspettative, nella sua giunta si sono infiltrati poteri forti e uomini di dubbia provenienza”. Storico, saggista, blogger, massimo esperto di servizi segreti e, da ultimo, consulente del M5S Giannuli, classe 1952, è il prototipo di uomo di sinistra che sostiene il movimento di Grillo in mancanza di una reale alternativa a Caste ed establishment. Ma da persona libera ha anche il coraggio di criticare il M5S e di sottolinearne gli errori: “A Roma è necessario un cambio di marcia”.
* * * *
Professore, cosa sta succedendo nella Capitale?
La sindaca Raggi, nella scelta degli uomini, è stata un vero disastro. Ha voluto personaggi che si sono dimessi poco dopo in un vespaio di polemiche. Poi è stato il turno dell'assessora Paola Muraro, la quale ora le se rivolta contro. Poi il turno di Raffaele Marra, che ora è in detenzione cautelare. Poi ancora Salvatore Romeo... Non ha avuto la mano felice nella scelta dei suoi collaboratori. Mi pare evidente.
Ma come dice l'ex assessora all'Ambiente Paola Muraro siamo ad “una guerra tra bande”?
Un po' presto per affermarlo, di certo siamo assistendo ad un effetto domino.
È sempre un balsamo leggere i nuovi libri di Christian Marazzi. Lo dico nei panni di una delle tante lettrici e lettori che, negli anni, sono ritornati alle sue pagine, cercando ogni volta di sgranarle per disfarne la complessità e arrivare ai nodi fondanti della sua analisi. In questo senso l’uscita di Che cos’è il plusvalore? (Edizioni Casagrande, 2016) può, per tanti versi, rallegrare il lettore che più con le sue pagine ha litigato, perché quest’ultima opera ha un tono colloquiale che conduce quasi per mano a percorrere per intero i punti cardini del suo pensiero. Da dove arriva questa crisi? Possiamo attraversare il libro ponendoci questa domanda e lui, burlescamente, risponderà, quasi fosse una cosa banale, dal ritorno del plusvalore.
E qui Christian Marazzi ci porta a ripercorrere una storia antica, ma non per questo meno complicata: il plusvalore è la dismisura, quell’attività mentale, affettiva e corporale che fa da cartina tornasole alla differenza tra lavoro erogato e lavoro pagato. Il problema è che quando pensiamo al denaro pensiamo generalmente in termini di merce – più precisamente ancora, pensiamo al denaro come equivalente generale, ma il plusvalore è espressione stessa dell’assenza di un equivalente monetario per il lavoro comandato. Più che equivalente generale, il denaro è forma del valore, scrive Christian Marazzi, una sorta di tecnologia sociale che funge da comando sul lavoro prima ancora che esistano le merci-salario preposte alla sua retribuzione. «La funzione del denaro come mezzo di pagamento immateriale è precisata dalle condizioni d’acquisto della forza lavoro.
La sfida . Per Errejon la grande crisi è alle spalle ed è ora di negoziare con i partiti e l’Unione europea. Iglesias è a favore di un processo costituente contro l’egemonia di Psoe e Pp
Non è facile capire il dibattito reale in corso all’interno di Podemos, anche se in fondo continua a essere il dibattito che lo ha visto nascere. Provo a spiegarlo. La prima questione importante, è che in Spagna è in corso una crisi di regime. Se c’è qualcosa che negli ultimi 30 anni ha funzionato bene, è stata la stabilità del sistema politico e un consenso sociale molto ampio; entrambi sono stati costruiti attorno alla promessa di crescita economica, benessere sociale e appartenenza all’Ue intesa come destino.
Il Psoe è stato per molti versi il partito del regime: garantiva la modernizzazione capitalista, si allineava agli interessi dei gruppi economici dominanti e otteneva un rilevante consenso tra le classi lavoratrici.
Tutto questo si è rotto nel 2008, con la crescita della disoccupazione, il taglio radicale dei servizi e dei diritti sociali e la radicale messa in discussione dei partiti dominanti da parte dei cittadini, accelerata dall’evidenza della corruzione come fatto sistemico. In secondo luogo, è stata fondamentale la mobilitazione del 15-M (gli Indignados), una mobilitazione senza precedenti – costituita da lavoratori, classi medie in via di proletarizzazione e una frattura generazionale riguardante il futuro e le aspettative dei giovani – che ha chiesto democrazia reale, protezione sociale e difesa delle livertà civili.
Bruno Settis, Fordismi. Storia politica della produzione di massa, Il Mulino, Bologna 2016, 320 pp., 29 euro (Scheda libro)
In un libro
che
“rielabora e prosegue” una tesi specialistica già vincitrice
del Premio Foa, Bruno Settis invita il lettore volenteroso di
seguirlo
a una lunga camminata alla ricerca delle origini e delle
evoluzioni del fordismo. L’escursione non richiede particolare
allenamento, ma
sicuramente determinazione e curiosità: dalle acciaierie di
Betlehem, dove Taylor inizio le sue osservazioni
‘scientifiche’, e
dalla Detroit da cui prese le mosse l’epopea di Ford, il
volume si chiude nella Torino della Fiat. Lungo il percorso,
attraversa gran parte del
mondo industrializzato o in via di industrializzazione a
cavallo tra le due guerre mondiali. Il fordismo –
tradizionalmente considerato il
paradigma alla base della società di massa (se non della
stessa modernità) – non fu però, ci spiega Settis, «un
avvenimento accaduto una volta sola nel mondo, né un fenomeno
unitario». Come ha colto Ferdinando Fasce1,
obiettivo di Settis è decostruire l’idea di un fordismo “come
sistema produttivo e sociale
quintessenza della modernità, organico, definito una volta per
tutte nella testa dell’eroe eponimo Henry Ford”. Piuttosto che
una
sola combinazione ideale di produzione di massa, rivoluzione
dei consumi (sostenuta dalla celeberrima politica degli alti
salari), e istituzioni
pensate per redistribuire i frutti del lavoro e riconciliarne
i conflitti, si è assistito a molti fordismi,
diversi soprattutto nei
rapporti con lo Stato e con le rappresentanze del lavoro.
In calce una prima risposta di Giorgio Cremaschi e una replica di "Il cuneo rosso"
L’assemblea di Eurostop tenutasi a
Roma
il 28 gennaio scorso merita due note di commento. Nulla che
passerà alla storia, intendiamoci. È solo cronaca. Cronaca di
una delle
tante forme, in Europa, di accodamento delle sinistre
alla tematica, imposta dalle destre iper-nazionaliste,
dell’uscita
dall’euro e dall’UE come (falsa) via maestra per risolvere i
gravi problemi sociali creati dalla crisi del sistema
capitalistico. Le tesi
presentate a Casalbruciato erano già state presentate nelle
precedenti iniziative di Eurostop. Però un paio di cose almeno
in parte
nuove, ci sono state. Anzitutto l’estrema nettezza con cui è
emerso il messaggio politico effettivo di
Eurostop,
soprattutto grazie all’ospite d’onore del consesso, il
magistrato Paolo Maddalena. E poi la violenza verbale, il
sarcasmo con cui il mite
Cremaschi si è ritenuto in dovere di attaccare ogni
prospettiva di lotta che sia fondata su basi di classe, quindi
internazionaliste,
anziché, com’è l’Ital-exit, su basi democratiche e popolari, e
quindi nazionali e nazionaliste.
Il documento preparatorio dell’assemblea e l’intervento introduttivo di Cremaschi hanno come loro termine-chiave la rottura. Rottura con che cosa? Con l’euro e l’UE – la Nato, sebbene nominata, è rimasta molto sullo sfondo; si è parlato ben poco delle guerre Nato, e meno ancora del militarismo e dell’imperialismo italiano. Rottura con “la globalizzazione liberista”: è questo il nemico dal cui dominio affrancarsi, in un processo di “liberazione dal capitalismo liberista”.
George Souvlis ha intervistato per Salvage (qui l'intervista in inglese) Warren Montag, professore di Letteratura Inglese e Comparata presso l’Occidental College di Los Angeles, studioso dai forti interessi politici e filosofici che ha scritto tra l’altro su Jonathan Swift, Spinoza, pensatori francesi contemporanei come Althusser e Pierre Macherey e, ultimamente, il fondatore dell’Economia Politica, Adam Smith
Vuoi presentarti cominciando dalle esperienze formative (accademiche e politiche) che ti hanno maggiormente influenzato?
La mia formazione politica e intellettuale è stata governata – e immagino sia stato giusto così - da una ‘logica dell'incontro’: sono stato straordinariamente fortunato, insomma. Se non fossi stato al posto giusto al momento giusto, e vicino alle persone giuste, non avrei mai pensato o scritto come ho pensato e scritto. Nella seconda metà degli anni Settanta a Los Angeles (dov’ero tornato dopo la laurea presa a Berkeley), ho incontrato Geoff Goshgarian e Mike Davis, con i quali abbiamo subito formato una specie di collettivo, comprendente anche qualche altro elemento (in particolare ricordo Samira Haj, che adesso insegna storia alla CUNY, credo). Organizzammo un gruppo di studio per leggere i tre volumi del Capitale, Late Capitalism di Mandel e altri libri.
Attraverso Mike (da poco rientrato dalla Gran Bretagna, dove si era avvicinato all’International Marxist Group) conobbi il trotskismo della Quarta Internazionale (o più precisamente la sua tendenza dominante), cioè quello di Mandel, Krivine, Bensaid, Tariq Ali e gli altri.
Mentre i riflettori mediatici erano puntati su Sanremo, dove si è esibita anche la ministra della Difesa Roberta Pinotti cantando le lodi delle missioni militari che «riportano la pace», il Consiglio dei ministri ha approvato il 10 febbraio il disegno di legge che consentirà l’implementazione del «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, delegando al governo «la revisione del modello operativo delle Forze armate». Revisione, in senso «migliorativo», di quello attuato nelle guerre cui l’Italia ha partecipato dal 1991, violando la propria Costituzione.
Dopo essere passato per 25 anni da un governo all’altro, con la complicità di un parlamento quasi del tutto acconsenziente o inerte che non lo mai discusso in quanto tale, ora sta per diventare legge dello Stato. Un golpe bianco, che sta passando sotto silenzio. Alle Forze armate vengono assegnate quattro missioni, che stravolgono completamente la Costituzione. La difesa della Patria stabilita dall’Art. 52 viene riformulata, nella prima missione, quale difesa degli «interessi vitali del Paese».
Da qui la seconda missione: «contributo alla difesa collettiva dell’Alleanza Atlantica e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo, al fine della tutela degli interessi vitali o strategici del Paese».
Da mesi Paolo Berdini, l’(ex)assessore della giunta Raggi, è vittima della gogna quotidiana da parte delle famigerate radio private romane/romaniste, longa manus popolare dei palazzinari romani, in particolare di quel Caltagirone proprietario del Messaggero e di Tele Radio Stereo, ovvero del principale quotidiano della Capitale e della radio romanista più influente della città (insieme alla trasmissione Te la do io Tokio di Mario Corsi). Solo chi abita a Roma conosce, volente o, il più delle volte, nolente, il peso, l’influenza, la pervasività delle radio private romaniste sulla popolazione romana. Radio usate come clave politiche, in grado di orientare i comportamenti elettorali e sociali di gran parte della cittadinanza, sfruttando la Roma (intesa come passione calcistica) come veicolo di propaganda degli interessi palazzinari. Oggi è la volta dello stadio di Pallotta, ma in questo ventennio abbondante di superfetazione radiofonica sono state utilizzate per ogni losco obiettivo. Sempre mascherato da presunti “interessi trasversali” dei tifosi, ovviamente. Storie note, almeno, ripetiamo, per i romani.
Ma questo indegno linciaggio quotidiano ha travalicato da mesi ogni misura. Il tranello ideologico è tanto elementare quanto efficace: trasformare la vicenda stadio in questione di tifo. Chi è contro la speculazione è contro la Roma e i romanisti.
Renzi non può permettersi che si voti nel 2018, dopo una finanziaria lacrime e sangue come chiede l'UE. Per la sua narrazione fatta di favole e sogni è un rischio troppo grande e allora vuole votare subito dopo aver riscalato il Pd
La capacità banalizzatrice di Matteo Renzi è qualcosa di solare. Sta agli antipodi di quella di Silvio Berlusconi. Il fondatore di Forza Italia era in grado di banalizzare qualsiasi cosa, e in questo non sarebbe certo solo, ma anche di renderla, in questo processo, originale. Renzi per quanto si sforzi di aggrapparsi a libri, citazioni colte, autori riesce solo a svalutare quello che dice. Anche il tipo di ambiguità furba, di quelle che devono cogliere subito l’affare, che porta come tratto caratteriale in Renzi finisce per svalutarsi velocemente.
C’è una frase attribuita a Heidegger su George Trakl, che riguarda la poesia, che parla di “ambiguità ambigua”. Si adatta, svalutandosi, a Renzi. Il quale mostra un’ambiguità talmente ambigua, reiterando in modo industriale le caratteristiche della doppiezza, da svalutarsi, perdendo ogni tratto di originalità persino nell’essere ambiguo. Fuor di metafora: persino su Marte si è capito che Renzi, con le sue finanziarie spot, se vuol restare nel club europeo da presidente del consiglio deve pagare, o meglio farci pagare, il conto: una quarantina di miliardi in due anni, sempre se i tassi di interesse sui buoni del tesoro non si impennano,
Il mondo che verrà. Il saggio di Nick Srnicek «Platform capitalism». Apple, Google, Simens, Roll Royce sono solo alcune delle imprese che hanno la Rete come infrastruttura. Finanza, lavoro precario, bassi salari, evasione fiscale, uso dell'intelligenza artificiale e tendenza al monopolio sono le loro caratteristiche
In tempi dove la fila per dare l’estremo saluto alla globalizzazione si allunga sempre più, vedendo marciare gomito a gomito teorici in odore di marxismo e esponenti della destra populista e nazionalistica, un saggio come quello di Nick Srnicek Platform capitalism (Polity, pp. 171, euro 11,66) è decisamente controcorrente, visto che è scandito dalla convinzione che il capitale abbia una innata vocazione mondiale, «globalista». Tanto esponenti radical che xenofobi sostengono che è tempo di un ritorno alla sovranità nazionale, individuando in essa sia l’unico spazio della trasformazione sociale che il fortino dove salvaguardare identità locali. La crisi economica attesta che l’ideologia neoliberale sul mondo piatto era una perniciosa illusione che ha favorito il capitale finanziario e accentuato all’inverosimile le disuguaglianze sociali. Di fronte a tale critica c’è da sottolinearne la concezione storicista dello sviluppo capitalistico, quasi che la storia sia una linea retta che tende inesorabilmente alla sua fine.
E’ arrivata la motivazione della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale che conferma tutte le riflessioni negative che avevamo avanzato al momento delle pubblicazione del dispositivo: la Corte ha girato intorno al tema senza affrontarlo seriamente ed ha prodotto un pasticcio peggiore di quello che c’era prima. I punti su cui la sentenza fa acqua sono due: quale sia il margine di torsione sostenibile del principio di rappresentanza ed i limiti posti dalla forma di governo al legislatore.
Sul primo dei due, la Corte si limita a stabilire che il premio di maggioranza della essere “ragionevole, che è come dire “fate voi”: ragionevole è solo una parola, ma qui ci vuole un numero. Se non si indica una soglia numerica o un criterio, la parola ragionevole non significa nulla. E’ come se in una causa si lavoro il giudice sancisse che effettivamente il lavoratore ha diritto ad un salario equo, senza quantificare una somma da corrispondere. E tanto peggio se si resta sul vago sull’effetto cumulativo del premio di maggioranza e delle soglie di sbarramento sull’indice complessivo di disrappresentatività. Quindi il problema dei limiti in cui il legislatore deve tenersi per non superare il punto di torsione massimo oltre il quale si viola il principio di rappresentanza è posto, ma non è risolto. Aspettiamo che i supremi giudici si diano a qualche lettura matematica.
Nota preliminare: questo testo costituisce la versione scritta di una presentazione dal titolo «"Vita senza valore". Il feticcio del capitale e l'economia politica della "nuda vita", svoltasi a Lisbona, il 21 febbraio del 2015, nel corso della giornata sull'argomento "Dalla nuda vita alla potenza destituente: il progetto 'Homo sacer' di Giorgio Agamben", organizzata dalla Unipop. In quest'occasione, con un tempo di esposizione limitato, si è trattato soprattutto di cercare di mostrare la critica dell'economia politica come il fondamentale "punto cieco" di concetti quali "homo sacer" e "nuda vita". In un prossimo saggio, tenterò di sviluppare la critica qui svolta, sottolineando soprattutto i vari aspetti problematici dell'opera di Agamben
Riguardo alla recente polemica sul
costo, per
il sistema sanitario portoghese, del trattamento dell'epatite
C, un professore di economia, un certo Mário Amorim Lopes
(2015), ha firmato un
articolo sul giornale digitale "Observador" dal titolo:
«Quanto vale una vita?». Facendo uso della tipica confusione
feticista capitalista
fra "scarsità di risorse" e "scarsità di denaro", la risposta
alla domanda è poco più che un'introduzione cinica
all'economia politica dell'eutanasia. «Sentimentalmente» -
scrive costui - «diremmo tutti che non ha prezzo. Il problema
è
che le cure sanitarie hanno un costo. Ed essendo le risorse
scarse, si pone il problema economico del costo
dell'opportunità: per salvare una
vita, quante ne dobbiamo sacrificare? (...) Queste decisioni,
che riguardano delle vite, richiedono tuttavia un'analisi
economica. E, per farlo,
bisogna valutare il valore di una vita. (...) [E]
nell'economia sanitaria esistono diversi metodi per tentare
una stima [del suo
valore]».
La confusione tra soggettività e
divisione del lavoro è sistematica. L’enfasi sull’eccellenza e
sulla singolarità di un individuo atomico totale coesiste con
la trasformazione dell’individuo in un primate tecnologico
connesso a un’applicazione.
Passaggio paradigmatico” è stato definito il capitalismo digitale dal colosso della consulenza McKinsey. Al World Economic Forum si è consultato il manuale di storia del capitalismo ed è stata formulata l’ipotesi della “quarta rivoluzione industriale”. Non è mancato chi, a sprezzo del ridicolo, ha parlato di un nuovo “Rinascimento” e addirittura di “Illuminismo”. Ma soprattutto questa declinazione del digitale veicola una richiesta politica: un governo trasparente, oggettivo, neutrale dell’innovazione capace di mettere ordine tra le individualità scatenate in competizione. Il capitalismo digitale occupa questo spazio.
Lo ha intuito Matteo Renzi che sfotteva Susanna Camusso in una celebre gag a palazzo Chigi: il sindacato è fermo all’epoca del gettone; il “rottamatore” incarnava l’epoca dell’Iphone. Dopo l’auto-rottamazione del fenomeno di Pontassieve al referendum del 4 dicembre, si è iniziato a parlare di Emmanuel Macron in predicato di diventare il nuovo presidente in Francia.
L'Europa, intesa come Unione Europea,
vive un
drammatico processo di disfacimento. Sia pure in maniera assai
lenta, se ne stanno accorgendo un po' tutti. Anche quelli che
sul radioso futuro
dell'Unione avrebbero di certo scommesso. Tra chi invece resta
lì coi suoi dogmi euristi, degni di un'altra epoca che fu, c'è
da
segnalare senz'altro il Pd ed i pittoreschi cespuglietti di
destra e di "sinistra"
che gli
ruotano attorno.
Costoro non sono però soli. A dargli manforte c'è una parte importante dei commentatori mainstream: quelli che hanno deciso di suonare la solfa del «meno male che Trump c'è», così ci costringerà a far quelle cose che diversamente non avremmo (come UE) mai fatto. Bella questa fissa del «vincolo esterno» come unico motore di quello che secondo loro sarebbe addirittura un «sogno»!
Ma su questo torneremo tra poco. Prima occupiamoci di cose più serie. Come noto la signora Merkel ha parlato a Malta di «Europa a più velocità». Subito dopo il signor Draghi è corso a chiarire che la diversificazione delle velocità non riguardava l'eurozona. Niente euro A ed euro B, insomma, ma «solo» un diverso grado di integrazione, maggiore per i paesi dell'area euro, minore per gli altri. Poi i due si sono incontrati e, almeno secondo i resoconti passati alla stampa, tutto sarebbe finito a tarallucci e vino.
L’assemblea dell’Ambra Jovinelli di Scotto, Furfaro, Smeriglio e soci sancisce di fatto la scissione prima ancora che nasca Sinistra Italiana, e forse ci saranno anche tentativi furbeschi di inviare truppe cammellate al congresso di Rimini di fine settimana, per indebolire il processo costituente di Sinistra Italiana, inquinando i pozzi del dibattito (che comunque non c’è stato nemmeno in SI). Con questa assemblea nasce esplicitamente un raggruppamento eterogeneo, che tiene insieme spezzoni di sinistra che si sono battuti per il No al referendum del 4 dicembre, insieme a componenti del Pd che hanno fatto campagna, seppur in modo sofferente, per il Si. Poiché le due opzioni referendarie disegnavano visioni della società italiana radicalmente diverse, a tenere insieme questa operazione cui ha lavorato per primo Pisapia è il tentativo di sommarsi per arrivare ad una coalizione di governo purchessia, incuranti del fatto di allearsi con un partito, come il Pd, in cui Renzi non è la malattia, ma il sintomo di una degenerazione liberista, a-classista e leaderistica già insita nello spirito del Lingotto. Renzi è il prodotto perfezionato di un partito che nasceva, come diceva Veltroni nel 2007, per “i nuovi italiani”, omogeneizzati dentro un “playing field” di competizione selvaggia fra individui, in cui la politica deve solo curarsi di rimuovere ogni protezione, ed eventualmente offrire caritatevoli strumenti compensativi per chi rimane indietro, lasciandolo ovviamente indietro.
Il Corriere della Sera dello scorso 7 febbraio svela, con un semplice quanto immediato titolo, il senso della vicenda Trump, con buona pace di chi, in buona fede, porta acqua al mulino di quello stesso populismo che vorrebbe combattere. “97 giganti sfidano Trump”, per poi specificare poche righe più in basso:
“è nato un imponente fronte economico, politico e giuridico contro di lui destinato a creargli grossi problemi. Mettendo insieme rivalità e interessi divergenti, 97 aziende tecnologiche sono scese in campo compatte contro una misura che ostacola l’assunzione di “cervelli” stranieri, linfa vitale della loro attività. Tutti i big – da Apple a Facebook, da Google a Microsoft – hanno firmato la petizione a supporto della causa all’esame dei giudici di San Francisco [contro il cosiddetto “Muslim Ban”, N.d.A.]: il decreto Trump danneggia loro e tutta l’economia americana”.
Questa vicenda chiarisce alcuni caratteri dello scontro politico di questi anni:
1) i flussi migratori sono funzionali al capitale, e non contro di esso, e quando questi vengono limitati i primi a preoccuparsene sono quegli agenti economici che prosperano sui migranti stessi. Questo è un fatto centrale della nostra epoca, e implica il fatto che “esaltare” i suddetti flussi, come se corrispondessero a libere scelte di vita, significa supportare ideologicamente gli obiettivi del capitalismo, che si basa proprio su quei flussi.
Incalzato da varie persone ho deciso di scrivere un commento alla "stroncatura" che Michela Murgia ha riservato, nella sua consueta rubrica Quante storie, all'ultimo libro di Diego Fusaro - il noto "filosofo" che avrete tutti visto spesso comparire come opinionista in TV - intitolato Pensare altrimenti (Einaudi, Torino 2017).
Ho deciso di raccogliere le sollecitazioni innanzitutto perché conosco la persona e il pensiero di Diego Fusaro: siamo stati legati da un rapporto di amicizia, ormai ahimè interrotto, a cui devo molto per la mia formazione; in primo luogo, per la presentazione del nostro comune maestro Costanzo Preve. Un altro motivo che mi ha convinto a scrivere questo commento è la stima che nutro nei confronti di Michela Murgia per i suoi progetti politici per l'indipendenza della Sardegna e per i suoi ottimi interventi, anche a sfondo religioso. Ma in questa sede lascerò da parte ogni affezione personale.
Non ho avuto ancora il tempo di leggere il libro di Diego Fusaro appena uscito, ma l'ho sfogliato velocemente; oltre ad alcuni argomenti interessanti sulla storia della dissidenza, mi sembra che la sostanza del libro sia costituita da quello che ripete da sempre in modo monocorde da ormai anni: argomenti mutuati da altri - talvolta nobili - pensatori, spesso rielaborati con un buono stile e coniando formulazioni particolarmente efficaci.
Marcello Musto, L'ultimo Marx. 1881 – 1883. Saggio di biografia intellettuale, Roma, Donzelli editore, 2016, pp. 148, EAN 9788868435035, 24 €
Il 30 marzo 1911, Giolitti dichiarava alla Camera che “Carlo Marx è stato mandato in soffitta”. Da un secolo a questa parte, il vecchio Moro è stato mandato in soffitta più volte. Ultima, finora, in occasione della fine dell'Urss e dei paesi satelliti, tra il 1989 e il 1991, con la quale è stata dichiarata anche la fine del “comunismo”, oltre che, con una certa esagerazione, della storia. Ma evidentemente in quella soffitta Marx non si sente a proprio agio, tanto da esserne ogni volta ridisceso. La recente crisi del capitalismo ha mostrato quanto le analisi del filosofo di Treviri siano necessarie alla comprensione del mondo presente. Il capitalismo del nuovo millennio, nonostante le sue mutazioni, presenta la stessa faccia feroce di quello ottocentesco: sfruttamento della forza lavoro, concorrenza spietata tra Stati, lotta per i mercati, crisi e guerre. Discesa dalla soffitta, la critica corrosiva e scientifica di Marx soffia ancora. Ce lo ricorda, in questo ultimo lavoro, anche Marcello Musto, professore di Sociologia teorica presso la York University di Toronto, studioso da oltre un decennio del pensiero marxista e collaboratore, tra gli altri, della Marx-Engels-Gesamtausgabe 2, l'edizione storico – critica delle opere complete di Marx ed Engels.
Nella fase attuale la socialdemocrazia riformista si fa parte attiva del processo di naturalizzazione del neoliberismo offrendosi come strumento di costruzione del consenso. Da una parte invitando i subalterni/e a sempre maggiori sacrifici in nome della “crisi” e dei presunti sprechi del passato, dall’altra cercando di dirottare e mobilitare il popolo di sinistra in battaglie di opinione a sostegno delle mire imperialiste sul fronte esterno, dall’Afghanistan passando per la Somalia, la Jugoslavia, la Libia e via dicendo per arrivare alla Siria in nome dell’esportazione della democrazia e delle guerre umanitarie e, sul fronte interno, propagandando una necessità di “sicurezza”, “decoro”, legalità, convivenza civile e così detto “rispetto” per il “bene pubblico”, mutuando, tra l’altro, termini come quello di “bene comune” dal lessico di sinistra con un’operazione che è stata ed è lo strumento principe della socialdemocrazia riformista per il coinvolgimento anche della sinistra antagonista.
Con l’affermarsi del neoliberismo per decisione unilaterale è saltata l’alleanza tra la borghesia imperialista o iper borghesia e la borghesia burocratica di Stato e la media e piccola borghesia, un’alleanza che era stata definita nel periodo fascista e che era stata rinnovata nel secondo dopoguerra nella stagione democristiana.
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Premessa
Questo testo vuole essere soprattutto un invito alla ricerca epistemologica sul successo liberista che s’è compiuto grazie anche e talvolta soprattutto grazie alla conversione neo-liberista della “sinistra” in particolare nel campo degli affari militari e di polizia, campo di ricerca troppo spesso trattato superficialmente se non totalmente ignorato anche per ciò che riguarda l’intreccio stretto con altri campi[1].
Con formidabile lucidità nel suo celebre 1984 (del 1949), Orwell scriveva quali principali slogan del regime: “La pace è guerra”, “La libertà è schiavitù”, “L’ignoranza è forza”. Orwell sintetizzava così quanto avevano mostrato il fascismo e il nazismo, e continuavano a praticare lo stalinismo e in generale tutti i regimi che, soprattutto dalla fine del XIX secolo, condussero alla Prima e alla Seconda guerra mondiale e ad altre mostruosità, smentendo le illusioni del progresso pacifico verso il benessere, la democrazia e i diritti umani. Dopo il 1945, ignorando i solenni proclami delle Nazioni unite, del “mai più” quelle aberrazioni, la storia politica del mondo è stata segnata da un coacervo di fatti che solo qualche volta sono andati in direzione della pace e dell’emancipazione dei popoli e dei diritti fondamentali di tutti.
Bisogna
ringraziare
la senatrice Adele Gambaro (di ALA-SCCLP) e i 27 co-firmatari
del disegno di legge, presentato
in conferenza stampa al
Senato il 15 febbraio (non
ancora
assegnato a nessuna commissione), per combattere le
“fake news” – meglio, “prevenire la manipolazione
dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e
incentivare l’alfabetizzazione mediatica”. Il testo, pur se in
bozza (o forse proprio per
quello), è infatti il miglior dizionario attualmente
disponibile per comprendere come un certo establishment
politico (e giornalistico)
concepisca Internet e la sua regolamentazione: come lo
fraintenda, demonizzi, e cerchi di irregimentare così che
diventi un innocuo strumento
di trasmissione del consenso, invece che un libero canale di
espressione del dissenso.
Una vera e propria summa ideologica, dunque, che va ben oltre la sola questione delle bufale online che tanta (immeritata) attenzione ha suscitato da quando il mondo liberal statunitense ha diffuso la “fake news” per cui sarebbe stata la disinformazione online a far vincere Donald Trump.
Nella proposta di legge, sostenuta da rappresentanti di quasi tutto l’arco parlamentare, si sommano infatti questioni arcinote a chi si occupa di libertà di espressione su Internet nel nostro Paese:
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 12-17. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/596
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Beati costoro, che il futuro della
storia e il diritto al
progresso misurano quasi alla stregua di
un certificato
di assicurazione sulla vita! (LABRIOLA 1965, p. 286).
Dove diminuisce il
dolore dell’uomo là
c’è progresso.
Tutto il resto non ha senso. (BROCH
1950, p. 19).
La storia universale è
una storia del
progresso – o forse
anche soltanto del mutamento – nei
mezzi e nei metodi
dell’appropriazione: dalla occupazione
della terra dei
tempi nomadi e agrario-feudali alla conquista dei
mari
del XVI e XVII secolo, fino alla appropriazione
industriale dell’epoca tecnico-industriale e alla sua
differenziazione fra paesi sviluppati e
non-sviluppati,
per finire all’appropriazione dell’aria e dello
spazio dei nostri giorni. (SCHMITT 1972, p. 311).
Si è sempre partiti da una sorta di equazione tra idea del progresso e teorie storicistiche.
I giornali economici titolavano la settimana scorsa “Germania, mai così alto il surplus”: inteso come commerciale, o delle Partite Correnti. In termini macroeconomici è la differenza fra risparmi e investimenti. I tedeschi risparmiano, comprano poco, e vendono tanto (all’estero).
Germania: surplus Partite Correnti, % del PIL
Il resto del mondo non ci sta.
Le politiche di flessibilità accrescono la disoccupazione, indebolendo il potere contrattuale dei lavoratori, mentre – soprattutto nella sfera politica – rendono possibili ulteriori misure di deregolamentazione. Lo dimostrano gli studi empirici
Le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro (anche definite di “flessibilità del lavoro” o, forse più propriamente, di precarizzazione) sono state attuate in Italia con relativo ritardo rispetto ai principali Paesi Ocse (soprattutto anglosassoni) e, tuttavia, sono state attuate con la massima intensità, rispetto a tali Paesi, nel corso degli ultimi anni, a partire in particolare dalla cosiddetta legge Biagi (L.30/2003). Il dibattito accademico è stato dominato dalla convinzione secondo la quale la deregolamentazione del mercato del lavoro è uno strumento di policy necessario per accrescere l’occupazione in un contesto dominato da crescente volatilità della domanda che le imprese fronteggiano.
Solo in anni più recenti, si è fatta strada la convinzione che le misure di deregolamentazione del mercato del lavoro possono avere effetti di segno negativo sull’andamento del tasso di occupazione e costituire un fattore di freno alla crescita economica. Ciò fondamentalmente per due ragioni.
Può sembrare strano, ma in una situazione di crisi economica caratterizzata da insufficienza di domanda aggregata anche “scavare buche per poi riempirle” è di stimolo per la ripresa. Per ammetterlo, occorre però: affrancarsi dalla sbornia ideologica degli ultimi 35 anni; abbandonare l’impostazione che vede nel “paradigma della scarsità”, con annessa (presunta) necessità dei sacrifici, l’unica corrente di pensiero valida e plausibile.
Anzitutto, un chiarimento: a cosa faceva riferimento Keynes quando parlava di buche? Egli dice nella “Teoria generale, del 1936”:
«Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse ad una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti della città, e si lasciasse all’iniziativa privata [..] di scavar fuori di nuovo i biglietti [..], non dovrebbe più esistere disoccupazione e, tenendo conto degli effetti secondari, il reddito reale e anche la ricchezza in capitale della collettività diverrebbero probabilmente assai maggiori di quanto sono attualmente».
Come si vede, si tratta di un tema ben distante rispetto al semplice “scavo di buche per poi riempirle”, qualificabile come una volgarizzazione del pensiero dell’economista Britannico, concepita per screditare le politiche ad egli riconducibili dipingendole come frivole e dissipatrici.
Negli ultimi mesi l’opinione pubblica è stata scossa da un’apparente crescita di decessi per meningite. In rete impazza il dibattito sull’attendibilità o meno delle campagne di profilassi contro il meningococco c, il batterio più presente in questo focolaio che sta interessando soprattutto la regione Toscana. Eminenti e rispettati medici, da anni in prima fila nello studio e nel monitoraggio dei flussi epidemici del meningococco, si espongono pubblicamente contro le bufale che attraversano la rete. Bufale che arrivano fino alla provocazione dei fascisti di Casapound secondo cui il focolaio sarebbe stato prodotto dagli immigrati, tutti portatori sani. Una vera bufala, quest’ultima, semplicemente perché in Africa e in Europa i ceppi di meningococco sono differenti (b e c in Europa, A, W-135 e X in Africa) e gli uni non si riscontrano nei territori degli altri.
Si potrebbe investire molto tempo nello smontare queste argomentazioni, ma non è il compito essenziale di questo articolo. Il problema è un altro: concentrarsi sulla lotta alle bufale non centra il punto.
Se le bufale sono la manifestazione ultima di questa epidemia di diffidenza nei confronti dei vaccini, quali ne sono le cause? Proviamo a evidenziare alcuni punti:
La Commissaria UE alla concorrenza, la danese Margrethe Vestager, nello scorso anno ha inflitto alla multinazionale Apple una multa di tredici miliardi per elusioni fiscali in Irlanda. L’inflessibile virago nordica si è però già piegata accordando alla Apple una dilazione nel pagamento, il tempo necessario alla multinazionale per giungere all’esito del suo ricorso senza sborsare un soldo. Al ricorso della Apple si è accodato infatti il governo irlandese, che ha accusato la Commissione Europea di ingerenza nella propria sovranità. Il governo irlandese rivendica il diritto di scegliere liberamente da chi farsi truffare, offrendo così una personale versione del “sovranismo”. La “Tigre Celtica” può infatti vantare stratosferici incrementi del PIL con il trucco della registrazione in Irlanda dei brevetti delle multinazionali. A questa finta crescita corrisponde una stagnazione dei redditi dei cittadini.
Meno male che Donald c’è. Alla presidenza USA è arrivato il nuovo idolo dei “sovranisti”, CialTrump, l’uomo dei dazi, il castigamatti delle multinazionali che delocalizzano la produzione nei Paesi a costo del lavoro più basso e la sede sociale nel Paese con le tasse più basse. Nello scorso novembre CialTrump ha addirittura “minacciato” la Apple e le altre multinazionali di offrire loro sgravi fiscali (sic!) nel caso tornassero a fare investimenti negli USA.
Nel suo corso al
Collège de
France Sullo Stato (1), Pierre Bourdieu riflette
anche sul tema dell’ufficialità e del discorso pubblico.
Partendo dalla questione
cardine che può essere sintetizzata nella domanda che
cos’è lo Stato? – una serie di principî che
consentono un
dominio, il detentore della violenza legittima sia
fisica che simbolica (riconosciuta come tale, e dunque
basata anche su un consenso dei
cittadini), un’illusione radicata nelle nostre menti, che
dunque esiste essenzialmente perché crediamo che esita… – il
sociologo francese analizza la contrapposizione tra pubblico
e privato e la conseguente natura del concetto di
ufficialità.
Per Bourdieu il pubblico è ciò che si oppone al privato, che è il singolare il particolare il personale ma anche il nascosto e l’invisibile: l’ufficialità porta con sé sia una universalizzazione che una moralizzazione
Sintetizzando il ragionamento, il pubblico è innanzitutto ciò che si oppone al privato, che è il singolare, il particolare, il personale ma anche il nascosto e l’invisibile; il pubblico dunque è il collettivo ma anche ciò che si mostra quando ci si trova davanti agli altri, divenendo ciò che è ufficiale.
“Do not go gentle in that good night / Rage, rage, against the dying of the light”. Ribellarsi al morire della luce. Addentrarsi nell’oscurità profonda come vorrebbe Dylan Thomas fa paura. Forse è la paura. Anche in finanza
Il buio ci circonda.
Sembra vuoto, invece
è pieno di lei. La materia oscura. La Dark
Matter.
Non possiamo vederla, ma non significa che non esiste. Anzi compone l’universo molto più della materia ordinaria.
Possiamo osservarne gli effetti, questo sì. In particolare il modo in cui piega la luce. È l’effetto lente gravitazionale: la deflessione dei raggi di luce causata da una massa posta tra la sorgente luminosa e l’osservatore. La materia oscura agisce sulla luce piegandola e creando effetti visivi anomali. Come gli archi luminosi.
Nella luce si nasconde il segreto per conoscere cosa compone l’oscurità.
Anche i mercati finanziari sono circondati dal buio. E anche lì non c’è il vuoto. Anche quel buio è pieno di materia oscura, materia allo stato liquido. Sono le piscine oscure. Le Dark Pool.
Anche di queste possiamo osservare gli effetti. In particolare il modo in cui agiscono sui dati. Come una lente gravitazionale, agiscono su prezzi e valori delle variabili, creando effetti anomali.
1. In premessa
ringraziamo, per
l'ennesima volta, Arturo che non solo è l'acuto "filologo"
multidisciplinare che continua a segnalare le fonti più
rilevanti che
confermano il discorso qui svolto, ma lo fa da un livello di
comprensione che rischiara la fenomenologia come scienza
cognitiva unificante di ogni
serio approccio alle scienze sociali.
2. In questa occasione cerchiamo di sviluppare una dimostrazione unitaria del filo che lega, in modo consequenziale, la finanziarizzazione delle società (ex) democratiche dell'eurozona con il punto di approdo, solo in apparenza inatteso e, per taluni, sorprendente, della futura (ed imminente) regolazione €uropea dei titoli sovrani come risk weighted assets.
Questa finanziarizzazione passa, come s'è visto, per la sottoposizione istituzionale, per via di trattato internazionale, autoffermatosi al di fuori dei limiti dell'art.11 Cost., dell'attività finanziaria dello Stato, e quindi in definitiva del suo perseguimento dei fini che concretizzano la sovranità costituzionale, ai "mercati".
Quando ancora l’economia si fregiava dell’aggettivo qualificativo “politica” e la comunità scientifica usava dibattere sulle ipotesi di armonia-contraddizioni del mercato, si evidenziarono in Italia alcuni filoni interpretativi che si contrapponevano alla teoria neo-classica muovendo da assunzioni teoriche differenti.
Il lettore che non sia giovanissimo ricorderà, anche, che alla fine degli anni Settanta si sviluppò tra queste “scuole” un dibattito che, per coloro che rimpiangono il silente appiattimento delle scienze sociali anvuriane attuali, sarebbe liberatorio riprendere.
Per chi volesse affidarsi ai nostri ricordi, ci si consenta di ritornare con la mente a “the way we were”… Quella contrapposizione, ci si perdoni la fierezza, era un po’ più “avanzata politicamente” (si diceva allora) di quanto non succeda oggi: a quel tempo, e la distanza non è solo temporale, l’oggetto della critica dell’economia politica era non tanto il mercato autoregolantesi, quanto le spinte riformiste e socialdemocratiche che ambivano a consentire al mercato di funzionare e a evitare effetti distorcenti.
Era l’era del centro-sinistra e della programmazione, i cui policy maker venivano, da Graziani e da Lunghini, in uno storico seminario tenutosi a Pavia, tacciati di essere bricoleurs.
Oggi vi voglio raccontare una storia (vedi nota), una favola, un apologo dei tempi moderni con la speranza che effettivamente il rematore riesca a vendicarsi. Due Università hanno per tradizione una sfida annuale di canottaggio tra equipaggi formati da studenti, ma col tempo e con l’elefantiasi della “società della comunicazione” la gara cambia natura e da evento che poi noi potremmo tradurre in senso specifico come goliardico, diventa mediatico e finisce per coinvolgere il prestigio delle università coinvolte, il loro appeal come calamita per i futuri studenti e per diventare dunque anche una discriminante di immagine per il livello delle rette. Diventa insomma una cosa seria e così dopo due sconfitte consecutive il rettore della Università A decide di applicare alla squadra le tecniche manageriali moderne che vengono insegnate nelle proprie aule. Per questo progetto vengono depistati fondi dedicati alla didattica e viene coinvolta anche una nota società di consulenza che immediatamente si dà da fare per cambiare le cose.
Passa un anno, si arriva alla nuova sfida, ma nonostante le novità l’equipaggio della università A perde per la terza volta consecutiva, anzi va incontro a una vera e propria disfatta visto che arriva con in distacco di un chilometro dal battello dell’ateneo rivale.Così i responsabili si riuniscono per capire a cosa sia stata dovuta una tale sconfitta e per prima cosa mettono insieme una commissione di audit,
QUANDO si ascoltano Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Virginia Raggi promettere che, sì, lo stadio della Roma si farà, viene da pensare che ci sia una maledetta linea d'ombra, nella vita pubblica italiana. Quella linea è l'elezione a una carica pubblica.
Quando la varca, il cittadino subisce una mutazione radicale nel linguaggio, nell'etica, nella scala delle priorità. Perfino nella logica. Non è più un cittadino, ormai: diventa il pezzo di un potere immutabilmente uguale a se stesso, chiunque lo incarni.
La città (non solo Roma) si è disfatta, è diventata invivibile, a tratti mostruosa, perché si è smesso di pensarla e di disegnarla. Si è rotto il legame tra la comunità degli uomini e la città materiale: la prima ha cessato di immaginare e modellare la seconda. Il taglio delle finanze locali, l'ignoranza e la corruzione delle classi dirigenti hanno delegato a pochi grumi di interesse privato (palazzinari e banche, in sostanza) lo sviluppo delle città, secondo questa logica perversa: "io amministratore permetto a te speculatore di prenderti un pezzo di spazio pubblico, se in cambio mi fai quei servizi, quelle urbanizzazioni, quelle infrastrutture necessarie alla comunità che io non ho i soldi per fare, né la voglia di pensare".
È la fine dell'urbanistica, e dunque la fine della città pubblica. Questa abdicazione è stata compiuta indifferentemente da destra e da sinistra.
Lunedì 11 febbraio Il Corriere della Sera ha ospitato un “Appello per il rilancio dell’integrazione europea” lanciato da trecento intellettuali e presentato nella circostanza da sei firme, fra cui spiccavano quelle di Giuliano Amato e Anthony Giddens, esponenti di punta della “Terza via” blairiana e del pensiero unico ordoliberista.
Nel testo in questione: 1) si afferma che oggi la Ue è sotto attacco “sebbene abbia garantito pace, democrazia e benessere per decenni; 2) si esalta la “economia sociale di mercato”, affermando che essa può funzionare solo grazie a una governance multilivello e al principio di sussidiarietà; 3) si rivendica il ruolo di un’Europa “cosmopolita” nella costruzione di una “governance globale democratica ed efficiente”. Il tutto condito dall’invito a legittimare la Ue attraverso elezioni in cui i cittadini del continente possano liberamente sceglierne i vertici.
Proviamo a leggere in trasparenza il senso reale di tali affermazioni, sfruttando il contributo di quegli studiosi che hanno sviscerato i dispositivi della governance ordoliberista (mi riferisco, fra gli altri, ai lavori di Dardot e Laval e al più recente saggio di Giuliana Commisso, “La genealogia della governance”, Asterios editore).
La prima considerazione da fare è che l’affermazione secondo cui l’Europa avrebbe garantito pace, democrazia e benessere è smaccatamente falsa:
Un incontro tra la giunta, il costruttore Parnasi e il direttore generale della A.S. Roma Baldissoni, sembra aver definito l’accordo sulla cementificazione di Tor Di Valle intorno allo Stadio per la Roma. All’incontro non era presente l’assessore all’Urbanistica Berdini che in serata ha annunciato le sue dimissioni irrevocabili. Contro questo scenario si annuncia un referendum nella città.
«Mentre le periferie sprofondano in un degrado senza fine e aumenta l’emergenza abitativa – ha scritto Berdini nella sua lettera – l’unica preoccupazione sembra essere lo stadio della Roma. Dovevamo riportare la città nella piena legalità e trasparenza delle decisioni urbanistiche, invece si continua sulla strada dell’urbanistica contrattata, che come è noto ha provocato immensi danni a Roma. Era mia intenzione servire la città mettendo a disposizione competenze e idee. Prendo atto che sono venute a mancare tutte le condizioni per poter proseguire il mio lavoro. Ringrazio coloro che hanno collaborato con me e le tante persone che mi hanno sostenuto in questi mesi di duro impegno. Da questo momento le mie dimissioni sono irrevocabili».
Secondo il coro unanime dei mass media (gli stessi accusati di fare fino a oggi pomeriggio “killeraggio” contro la giunta del Raggi) l'A.S. Roma ha presentato "una revisione del progetto" sul nuovo stadio a Tor di Valle
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I teorici operaisti italiani di matrice "negriana", che trovano spazio sulle colonne del giornale "Il Manifesto", detestano la sinistra che scommette su quelle lotte popolari che mirano alla riconquista di spazi di autonomia e sovranità, praticando il "delinking". Ma così facendo diventano l'ala sinistra del globalismo capitalistico
Correva
l’anno 1981 quando il Manifesto recensì il mio primo
libro (“Fine del valore d’uso”). Era una
stroncatura che non ne impedì il successo e, alla lunga,
risultò più imbarazzante per il quotidiano che per l’autore.
Quel
breve saggio, uscito nella collana Opuscoli marxisti di
Feltrinelli, analizzava infatti gli effetti delle tecnologie
informatiche
sull’organizzazione capitalistica del lavoro e, fra le altre
cose, prevedeva – cogliendo con notevole anticipo alcune
tendenze di fondo
– che la nuova rivoluzione industriale avrebbe drasticamente
ridotto il peso delle tute blu nei Paesi occidentali,
favorendo i processi di
terziarizzazione del lavoro, e avrebbe consentito un massiccio
decentramento della produzione industriale nei Paesi del Terzo
mondo. Il recensore (di
cui non ricordo il nome) liquidò queste tesi come una ridicola
profezia sulla fine della classe operaia. Sappiamo com’è
andata a
finire…
Si trattò di un incidente di percorso irrilevante rispetto al ruolo che il Manifesto svolgeva a quei tempi, ospitando un confronto alto fra le migliori intelligenze della sinistra italiana (e non solo). Oggi la sua capacità di assolvere a questo compito si è decisamente appannata, eppure una caduta di livello come quella della “recensione” che Marco Bascetta ha dedicato al mio ultimo lavoro (“La variante populista”, DeriveApprodi) fa ugualmente un certo effetto. Ho messo fra virgolette la parola recensione, perché – più che di questo – si tratta di una tirata ideologica contro i populismi - etichettati come protofascisti – che incarna il punto di vista d’una sinistra “globalista” schierata al fianco del liberismo “progressista” contro questo nemico comune.
[Pubblichiamo la traduzione di due articoli della femminista americana Nancy Fraser dal sito della rivista DISSENT. Il primo The end of “progressive neoliberalism” è del 2 gennaio 2017, il secondo Against Progressive Neoliberalism, A New Progressive Populism è stato pubblicato il 28 gennaio ed è una replica a un articolo critico di Johanna Brenner There Was No Such Thing as “Progressive Neoliberalism” del 14 gennaio. Nancy Fraser ha lanciato insieme a Angela Davis e altre femministe americane l'appello per uno sciopero internazionale e militante per l'8 marzo]
L’elezione di Donald Trump
rappresenta una della serie di drammatiche rivolte politiche
che insieme segnalano un crollo dell’egemonia neoliberista.
Queste rivolte
comprendono tra le altre il voto per la Brexit nel Regno
Unito, il rifiuto delle riforme di Renzi in Italia, la
campagna di Bernie Sanders per la
nomination del Partito Democratico negli Stati Uniti e il
sostegno crescente per il Fronte Nazionale in Francia. Anche
se differiscono per
ideologia e obiettivi, questi ammutinamenti elettorali
condividono un bersaglio comune: sono tutti dei rifiuti della
globalizzazione delle
multinazionali, del neoliberismo e delle istituzioni politiche
che li hanno promossi. In ogni caso, gli elettori stanno
dicendo “No!” alla
combinazione letale di austerità, libero commercio, debito
predatorio e lavoro precario mal pagato che caratterizza il
capitalismo
finanziarizzato oggi. I loro voti sono una risposta alla crisi
strutturale di questa forma di capitalismo che si è prima
materializzata con il
quasi crollo dell’ordine finanziario globale nel 2008.
Fino a tempi recenti, però, la risposta principale alla crisi era la protesta sociale – drammatica e vivace, di sicuro, ma in gran parte effimera. I sistemi politici, al contrario, sembravano relativamente immuni, ancora controllati da funzionari di partito e dalle élite dell’establishment, almeno negli stati capitalistici potenti come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania.
In epoca di Trump e “fatti alternativi”, 1984 di George Orwell è tornato a scalare le classifiche di vendita. Ma siamo sicuri che il classico dell'autore britannico sia la distopia più adatta a raccontare il tempo in cui viviamo?
Ho visto milioni di
persone terrorizzate
dall’idea di essere osservate dal Big Brother; le ho viste
alzare lo sguardo al cielo con angoscia, e non trovarci
nessun occhio; le ho viste
abbassare la testa, alquanto rincuorate, e mettersi in coda
per comprare l’ultimo smartphone con videocamera a 16
megapixel e grandangolo a
135°.
Se ci trovassimo in un romanzo paranoide di Philip K. Dick, si potrebbe iniziare il discorso in questi termini. E forse anche finirlo, senza aggiungere altro. Invece siamo nella cosiddetta “realtà”: dobbiamo parlare di “fatti”, dobbiamo partire dalla cronaca, dobbiamo iniziare così:
Da quando Donald Trump ha iniziato il suo mandato presidenziale, il libro 1984 di George Orwell ha conosciuto un boom di vendite, fino addirittura a tornare in classifica. Comprensibile. Una realtà in cui il passato è modificabile a seconda delle convenienze politiche, e in cui una persona può credere vera un’affermazione e la sua smentita, in barba al principio elementare di non contraddizione, ricorda da vicino la distopia orwelliana. Alternative facts, il bipensiero. Eppure. Una società del controllo, oppressiva, violenta, totalitaria: siamo proprio sicuri di essere preoccupati per la distopia giusta?
"La grande speranza della sinistra post comunista, dalla Bolognina in poi, era che la morte dell'ideologia avrebbe reso più viva la politica. Più viva e più libera di abbracciare la realtà", scrive Michele Serra. Alla manifestazione della Bolognina, nel 1989, il segretario del Pci Achille Occhetto dichiarò che erano necessarie "grandi trasformazioni", non escluso il cambiamento del nome, Partito comunista, che avrebbe simboleggiato una svolta radicale.
Lo shock che aveva generato questa svolta era stato la caduta del muro di Berlino, a sua volta simbolo del fallimento e della resa del comunismo sovietico. Ma il fatto stesso che avesse provocato uno shock fu un indice della cattiva coscienza del Pci, che teoricamente aveva abbandonato da tempo l'Urss come "paese guida", aveva dichiarato di non perseguire più quel modello sociale, proclamato la sua scelta di campo per la Nato, teorizzato il "Compromesso storico" e l'Eurocomunismo. Perché, dunque, la sanzione del fallimento del modello sovietico avrebbe dovuto provocare uno shock?
Ma la questione più insidiosa non era "la morte dell'ideologia" che Serra oggi celebra come una liberazione. Era - ed è ancora - il non capire che l'ideologia è la versione pietrificata di una visione del mondo.
Che l'Arabia Saudita sia il co-creatore e il principale finanziatore dell'ISIS, usato per imporre l'egemonia sunnita/saudita sull'intero Medio Oriente e Nord Africa, è da tempo un segreto di Pulcinella. Ora Medea Benjamin rompe il silenzio e denuncia le connivenze, con la Casa Saud, del governo e dell'imprenditoria statunitensi
Il divieto che il presidente Trump ha imposto ai musulmani non è soltanto meschino e, si spera, incostituzionale, ma è del tutto irrazionale perché non include il paese maggiormente responsabile della diffusione del terrorismo in tutto il mondo: l'Arabia Saudita.
Le restrizioni di viaggio per sette paesi a maggioranza musulmana sono state giustificate come mezzo necessario per impedire l'entrata negli Stati Uniti a potenziali terroristi; Trump, infatti, ha motivato il suo ordine esecutivo citando la tragedia dell'11 settembre 2001 e la sparatoria di San Bernardino. Tuttavia, bisogna riconoscere che nessun cittadino proveniente dai sette paesi messi al bando si è mai reso responsabile di una uccisione sul suolo degli Stati Uniti. Invece, risalta in maniera macroscopica l’ omissione dalla lista dell’Arabia Saudita, paese di provenienza di quindici dei diciannove dirottatori dell'11 settembre.
Tutelare ciecamente l'Arabia Saudita in questo modo non è una novità ; è stata la politica degli Stati Uniti fin dagli anni '30, con la scoperta del petrolio nella nazione del deserto.
«Come alla volontà piace», una raccolta di scritti di Antonio Gramsci sulla Rivoluzione d’Ottobre per Castelvecchi
L’agile raccolta di testi gramsciani degli anni 1917- 1918 curata da Guido Liguori (Antonio Gramsci, Come alla volontà piace. Scritti sulla Rivoluzione russa, Roma, Castelvecchi, pp. 144, euro 16,50) giunge per varie ragioni benvenuta. Nell’anno da poco iniziato, caratterizzato dalla doppia ricorrenza dell’ottantesimo della morte di Gramsci e del centenario della rivoluzione, essa ci permette infatti di rivisitare i primissimi momenti di un incontro che segnò in modo definitivo la personalità di un sardo sbarcato a Torino qualche anno prima per studiare filologia moderna, e diventato invece un rivoluzionario. Siamo così messi in diretto contatto con la concitazione di quei mesi compresi tra il marzo e il novembre 1917, concitazione dovuta non solamente alle notizie che venivano dalla Russia, ma ai drammatici avvenimenti italiani, dai moti per il pane a Torino alla rotta di Caporetto. Assistiamo al quotidiano tentativo di decifrare lo svolgersi degli avvenimenti russi e di combattere contro i detrattori di destra e di sinistra del bolscevico «forzare la “via”».
BISOGNA DIRE che Gramsci fu tra i pochi – in Occidente – a sforzarsi di dare una lettura della Rivoluzione che partisse da essa, invece di costringerla dentro qualche schema già pronto.
Le società contemporanee hanno bisogno della massa, ma questa ha costituito un problema sin dal momento della sua apparizione, nelle prime forme di metropoli sviluppatesi durante l’Ottocento. Non a caso scrittori lungimiranti come Poe e Baudelaire, all’epoca, hanno avvertito l’esistenza di tutto ciò. La massa è problematica perché si presenta come un aggregato estremamente ampio di individui, ma privo di organizzazione e composto di soggetti isolati e incapaci di interagire tra loro in modo significativo. Gustave Le Bon, alla fine dell’Ottocento, nel celebre volume Psicologia delle folle (Longanesi), ha interpretato la massa come il risultato di un processo di omologazione: «Quali che siano gli individui che compongono la folla, per simili o diversi che possano essere il loro modo di vita, le loro occupazioni, carattere e intelligenza, il solo fatto di essere trasformati in massa li dota di una sorta di anima collettiva, in virtù della quale essi sentono, pensano e agiscono in modo del tutto diverso da quello in cui ciascuno di essi, preso isolatamente, sentirebbe o penserebbe e agirebbe. Certe idee, certi sentimenti nascono e si trasformano in atti soltanto negli individui costituenti una massa».
La massa inoltre è un’entità in costante cambiamento, all’interno della quale gli individui si trovano insieme provvisoriamente, ma per proseguire poi ciascuno il proprio percorso.
Mark Zuckerberg ha scritto il suo manifesto politico. “To our community”, così inizia il suo compitino tautologico per ammaestrare la massa. Cosa c’è dietro il suo “impegno”? Che cosa si cela dietro l’uso del social network come catapulta del potere? E’ il superamento di Orwell, l’ingresso in un mondo dominato dalla tecnica, dal programmatic advertising, dalla manipolazione della coscienza. Quello che segue è un mio articolo sul tema pubblicato nell’ultimo numero di Prima Comunicazione.
* * * *
Trump ha vinto, ma non vincerà. Trump governa, ma non governerà. Trump è alla Casa Bianca, ma non ci sarà. Il movimento globale del Never Trump ha eletto il presidente della California (Hillary Clinton), fa oceaniche manifestazioni di piazza comandate da Madonna e Michael Moore e ha una visione per il futuro: Mark Zuckerberg presidente degli Stati Uniti nel 2020. I profeti della democrazia ridotti a fare il tifo per Mr. Facebook. I prossimi quattro anni saranno da Trumpennials, ma gli altri – oh, statene certi – saranno proiettati su Facebookland. Che meraviglia, il social network al potere, il superamento del grillismo dove Madison e Hamilton edificarono l’electoral college e la democrazia americana.
I crescenti limiti della democrazia formale borghese, fondata sulla delega, rilanciano l’esigenza della democrazia diretta, imprescindibile per una reale sovranità popolare
Dal
“Rapporto sulla
qualità dello sviluppo in Italia” del 2017, realizzato
da Tecnè e dalla Fondazione Di Vittorio “emerge la fotografia
di
un Paese in cui la ricchezza tende sempre di più a
concentrarsi”, ha osservato la segretaria del maggiore
sindacato italiano. Ciò
che colpisce è che le diseguaglianze, i bassi
salari, la progressiva proletarizzazione
del ceto
medio – che generano scarsa fiducia, anzi paura nel
futuro – vengono presentate e percepite come una “scoperta”,
quasi si trattasse di una novità di quest’anno. Quasi si
trattasse di un’eccezione e non di una
regola, propria del modo di
capitalistico di produzione e per altro già evidenziata
ai suoi albori, dal suo primo
apologeta, Adam Smith, che in un noto
paradosso notava come la ricchezza delle nazioni, prodotta
dalla rivoluzione industriale, si
sviluppava in modo proporzionale all’aumento della miseria
in una parte crescente della popolazione.
Quest’ultima, che già Hegel definiva la plebe moderna, quale caratteristica strutturale e lato cattivo ineliminabile della società capitalista, nell’Italia odierna ha raggiunto quota otto milioni. Senza, ovviamente, contare i milioni di proletari che percepiscono, in cambio della vendita della loro capacità di lavoro, il minimo necessario per riprodursi come massa a disposizione del capitale per valorizzarsi.
La vicenda giudiziaria dei cinque
operai FCA
di Pomigliano, licenziati per aver inscenato il finto suicidio
di Marchionne in segno di protesta contro il reale suicidio di
due loro compagni di
lavoro cassintegrati, continua ad essere una fonte
inesauribile di spunti di riflessione sul diritto e
sull’intero sistema giuridico italiano,
rivelandone il fondamento di classe.
E’ noto che la Corte di Appello di Napoli (sentenza n. 6038/2016 del 27/09/2016)[1] ha ribaltato i due precedenti pronunciamenti del Tribunale di Nola (Decreto di rigetto n. 18203/2015 del 04/06/2015 e Sentenza n. 993/2016 del 05/04/2016)[2], che avevano in un primo momento dichiarato legittimo il licenziamento dei cinque operai. La sentenza dei giudici di appello ha il grande merito di aver smontato punto per punto le argomentazioni dei giudici di primo grado, dimostrando come la protesta messa in atto dagli operai sia stata una legittima manifestazione del diritto di esprimere la propria opinione critica. In questo modo, i giudici hanno dato ragione alla numerosa schiera di intellettuali e giuristi che avevano solidarizzato con la lotta degli operai licenziati in nome della difesa della libertà di critica e di satira[3], che i giudici di Nola avevano inteso invece limitare fortemente per i lavoratori dipendenti.
L'agile volume di David Harvey, Il
capitalismo contro il diritto alla città, riedito per
tipi di Ombre corte nel
2016 (I ed. 2012), raccoglie in centoventiquattro pagine tre
articoli e un'intervista all'autore già pubblicati in inglese
su altrettante
riviste. Nel primo, Il diritto alla città, è
chiarito e analizzato il senso di tale diritto in quanto
"collettivo". Il secondo,
La visione di Henri Lefebvre, è un breve saggio
sull'ormai classico testo, Il diritto alla città,
del filosofo
marxista francese, uscito per la prima volta a Parigi nel 1969
e rieditato in italiano nel 2014 da Ombre corte. Il terzo, Le
radici urbane delle
crisi finanziarie. Restituire la città alla lotta
anticapitalista, è un saggio dove l'autore ripropone in
breve, e in relazione
alle crisi finanziarie come quella recente, le tesi,
strutturate e sviluppate in altri suoi libri, sulla relazione
tra la necessità di
assorbimento della sovraccumulazione di capitale e
l'urbanizzazione, che pone la "città" - la parola è usata da
Harvey per il suo valore
iconico - come luogo centrale delle lotte anticapitaliste
(dunque non più solo la fabbrica come nelle teorie marxiste
tradizionali). Chiude il
libro l'intervista, che verte, appunto, sulle possibilità di
una Rivoluzione urbana.
La giunta Raggi dice sì all’urbanistica del mattone finanziario. Non costruisce solo uno stadio. Di fatto mette in pulito, facendole diventare regole e norme, quello che i padroni della città hanno deciso di compiere. Non è una questione di assessori e di assessori dimissionari. A Roma si gioca intorno quell’ansa del Tevere la grande partita della rendita. Dovremo davvero accettare queste norme? Andiamo a vederle.
Da ieri Roma ha nuove regole urbanistiche. Da ieri sappiamo che scelte di piano e norme non servono a nulla. L’occasione è, naturalmente, rappresentata dallo stadio di Tor Pallotta (copyright affettuoso di uno speaker di Radiosport, la radio dei tifosi giallorossi).
A comunicare l’avvenuto “Ok. Si costruisca” è stato il vicesindaco Luca Bergamo che, per ribadire come si stesse facendo sul serio, ha ringraziato “la Roma per aver risposto alle sollecitazioni dell’Amministrazione capitolina”. Il direttore generale della società, a sua volta, si è detto sicuro dell’apprezzamento del lavoro fatto da parte della Roma. Fin qui cortesie fra ospiti. Seguiranno tavoli tecnici per mettere a posto le carte. Come si è sempre fatto una volta raggiunto l’accordo politico.
Le radici del fallimento del Pd risiedono nelle scelte originarie del Lingotto, a favore di un partito incolore e senza classe. Con la benedizione di Marchionne
Ed è scissione. Con ritardo, si registra un esperimento fallito. E si dice addio a un capo che altri danni presto procurerà alla democrazia in crisi. Nei media c’è chi lascia cadere sulla testa dei ribelli l’accusa di nichilismo. Per screditare i fuggiaschi, alcuni parlano di una scissione senza principi. Eppure al Testaccio gli insorti avevano riscoperto, come in Inghilterra, bandiera rossa.
Non c’entrano però i demoni del ‘900: la foto simbolo, di un evento che pure prospettava una rivoluzione socialista, era quella che riprendeva il Veltroni del Circo Massimo. Confusi pensieri. Nulla del Pd delle origini può aiutare chi vaga alla ricerca di una identità perduta. È il Lingotto l’origine del male, non la soluzione. Allora Veltroni stigmatizzò il conflitto come una brutta malattia, relegandolo nella cassapanca dell’800. Poiché lo scopo del capitale è solo il capitale stesso, senza il conflitto nessuno può sollevare questioni di giustizia per momenti di eguaglianza. Rinunciare al conflitto significa uccidere la politica e regalare il potere alle agenzie del capitale. Ovvero ai demoni del postmoderno.
Le radici del fallimento risiedono nelle scelte originarie del Lingotto in favore di un partito incolore e senza classe.
Sono rimasto piuttosto sorpreso che sia stata ricordata a quarant’anni di distanza la cacciata di Lama dalla Sapienza da cui prese origine il cosiddetto movimento del ’77. Piacevolmente sorpreso da un lato perché pur nella giungla di ideologismi e modewrnismi tra le quali l’informazione si aggira come un predatore, ci sia ancora spazio per queste rimembranze di quando ancora esisteva la storia. Spiacevolmente sorpreso perché a tanti anni di distanza sembra che ancora si abbia reticenza a parlare chiaro, per cui tutto l’effimero dibattito viene condotto con mirabile pressapochismo, evitando di porre domande e a maggior ragione di offrire risposte sensate. Si dice che quel 17 febbraio del 77 si consumò in maniera irreparabile il divorzio tra la sinistra movimentista e il Pci, compresi i suoi apparati di riferimento, ma se ne ignorano moventi, idee, circostanze, conseguenze, se si prescinde dall’aura di salvifica premonizione neoliberista che i chierici della notizia ci elargiscono.
Il problema è però che questo divorzio non solo era nell’aria, era palese e già da qualche anno, quindi non si capisce cosa abbia indotto il leader della Cgil ad entrare nella gabbia del leone, ossia alla Sapienza occupata dagli studenti, per giunta con la tracotanza di un servizio d’ordine formato da un migliaio di persone.
Uomini e donne di ottima volontà. Marciatori e marciatrici. Difensori dei diritti umani. Democratici sdegnati. Pacifisti. Intellettuali della buona causa. Aleppo è andata com’è andata ma comunque è finita e vi trovate un po’ con le mani in mano, con un sacco di energie da investire? Non temete, una ragione per mobilitarsi si trova sempre. Mai sentito parlare di Deir Ezzor?
No? Curioso, perché Deir Ezzor è una città della Siria, non lontana dal confine con l’Iraq, che da due anni e mezzo è assediata dall’Isis. L’Isis quello vero, quello che sgozza la gente all’ombra delle bandiere nere, non i “ribelli moderati”. Da due anni e mezzo, dunque, l’Isis è riuscito a occupare una serie di alture strategiche sul lato della città che ospita l’aeroporto e da lì bombarda e attacca senza sosta. Nell’ultimo mese, poi, i jihadisti hanno addirittura ricevuto rinforzi dall’Iraq (quelli che vanno su e giù nel deserto dell’Iraq, operando contro Palmira e Deir Ezzor senza mai essere visti dagli aerei della coalizione di 67 Paesi messa insieme dagli Usa di Obama e dall’Arabia Saudita di re Salman) e con quelli hanno scatenato un’offensiva che ha aperto un corridoio nelle difese della città.
Del dibattito interno al Pd nulla è interessante. Almeno se si guarda a quel che i protagonisti di questo “scontro” dichiarano ai giornali e alle tv. Chi si affida a questa misera “fonte di disinformazione” difficilmente può farsi un’opinione sensata.
Usciamo quindi dagli insulsi personalismo di “leader” così opachi e minimi da far rimpiangere qualsiasi democristiano di 50 anni fa e cerchiamo di capire intorno a cosa sta avvenendo questa divisione. Se sta avvenendo.
I più informati non sembrano i cronisti della “politica”, ma gli editorialisti che masticano di economia e che seguono l’evoluzione dei dossier sui tavoli del governo, nonché i problemi che incontrano quanto debbono portarli ad approvazione.
Due editoriali a distanza di 24 ore, uno su Il Corriere della Sera, l’altro sul quotidiano di Confindustria, aiutano a capire qualcosa di più. Dario Di Vico, ieri, aveva consegnato le sue preoccupazioni sotto il titolo “Non si guarisce con spese e tasse”; oggi Giorgio Santilli rincara la dose con un più netto “La cattiva politica che insegue il populismo”. Con chi ce l’hanno, questi due campioni degli interessi delle imprese italiane?
I due guardano al governo, alle resistenze mostrate negli ultimi giorni nei confronti di un ulteriore “lenzuolata” di privatizzazioni.
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Qualcuno spinge per spostare la Capitale da Roma a Milano? Possiamo liquidarla come un battuta dell’ex sindaco Pisapia di due anni fa, alla quale replicò con algida indulgenza l’ex sindaco Marino. Spostare la Capitale da Roma a Milano sarebbe invece una questione da non liquidare come l’eterna competizione campanilista tra la capitale storica e quella economica. Per un periodo, fino al 1992, Milano volle fregiarsi anche del titolo di “Capitale morale” del paese fino ad essere travolta dall’inchiesta su Tangentopoli. Per anni dunque non se ne è parlato più. Ma da almeno un paio d’anni, il partito dello spostamento della Capitale a Milano ha ripreso vigore.
Le prime reazioni, come di consueto, sono quelle tese ad ignorare il problema, le seconde quelle tese a deriderlo, le terze sono quelle che mettono in moto il combattimento. A fiuto possiamo dire che siamo in una fase intermedia tra le seconda e la terza. Il motivo? Quello economico innanzitutto, ma c’è anche una narrazione ideologica che ha molto a che fare con i tempi che corrono. Eppure, ad esempio, moltissimi hanno completamente sottovalutato il processo di ristrutturazione istituzionale introdotto con le Città Metropolitane nelle principali città italiane. Gli effetti verranno avvertiti non subito ma neanche troppo in là in termini di poteri decisionali, meccanismi elettivi, gestione delle risorse.
“Geofinanza e Geopolitica” di Fabio Massimo Parenti e Umberto Rosati. EGEA (29 settembre 2016), € 16
Economia reale Vs.
finanziarizzazione
“Se nel 1970 il valore totale dello scambio valutario era circa equivalente al valore del commercio globale (1:1), nel 2007 il rapporto è diventato di 50:1, in altre parole una finanziarizzazione spinta. La globalizzazione finanziaria ha portato allo squilibrio tra creazione di valore reale, ossia la produzione e lo scambio di beni e servizi, e creazione di valore artificiale, ovvero ancorato alla mera circolazione di denaro, spesso solo virtuale, e di titoli derivati. Una dinamica, quest’ultima, che si è incardinata nel sovradimensionamento del settore bancario, soprattutto nei paesi più avanzati dell’Occidente, e nel progressivo indebitamento di paesi, famiglie e individui in giro per il mondo”. Così Fabio Massimo Parenti ci spiega come la finanziarizzazione dell'economia comporti uno scambio valutario che non corrisponde più all’entità del commercio mondiale. I beni e servizi sono aumentati in maniera assai inferiore agli investimenti in beni finanziari non più correlati all'economia reale come era concepita tradizionalmente. Ciò ha portato all'esplosione del settore bancario.
La globalizzazione finanziaria è stata diretta dagli USA a loro beneficio e al limite dei loro alleati. La competizione con questo ordine proviene dai BRICS ma soprattutto dalla Cina che è la più coerente nel portare una sfida a tutto campo.
Luc Boltanski, Arnaud Esquerre, Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 78, € 6,00
A questo libretto o
pamphlet dei sociologi Luc Boltanski e Arnaud
Esquerre – non «uno studio specialistico appesantito di note,
[…] né
un editoriale politico, […] bensì […] un genere discorsivo
trascurato da qualche decennio, ovvero quello dell’analisi
impegnata» (p. 17) – si debbono riconoscere almeno tre meriti:
innanzi tutto quello di essere profondamente immerso nella
materia che
tratta, in quanto scritto tra il febbraio e l’aprile del 2014
“sotto l’urgenza dei fatti”, da intendersi come il dilagare
inarginabile dell’estrema destra francese, di quel Front
National, che un paio di mesi più tardi, nelle elezioni
europee del 24-25
maggio, si sarebbe affermato come primo partito nazionale con
il 25% circa dei consensi. Il secondo merito consiste nel
fatto di considerare la
spaventosa deriva politica francese ed europea verso l’estrema
destra attraverso l’analisi delle parole, dei termini, delle
forme
linguistiche che esprimono concetti dentro ai quali si
addensano grumi di pensiero reazionario e fascista che,
qualche anno fa ripescati dalla loro
condizione di latenza e riemersi attraverso i percorsi carsici
del pensiero politico, ormai imperano, tracotanti e sicuri al
punto da essersi
trasformati in un nuovo “senso comune”, in un «inquietante
spirito del tempo in espansione» (p. 8). Ed infine, non meno
importante è l’intento di contribuire al risveglio di una
sinistra francese (e poi europea) che disorientata e
tramortita non sembra in
grado di resistere all’onda montante di questo nuovo “fascismo
da terzo millennio”. [Per analoghi temi riguardanti l’estrema
destra italiana vedi su Carmilla “Cinghiamattanza”:
pensieri, parole ed opere dei “fascisti del terzo
millennio”].
Nella replica ad una mia critica alle posizioni di Joseph Halevi sul regime siriano degli Assad, lo stesso Halevi e Cinzia Nachira affermano quanto segue:
1. I regimi arabi hanno causato più morti tra i palestinesi che non gli Israeliani.
2. La difesa che si fa degli Assad è retroattiva perché si difendono anche molti episodi in cui l’esercito siriano, spesso con il via libera degli Stati Uniti, di Israele e della Lega Araba ha commesso stragi di massa.
3. Ad Hama nel 1982 l’esercito di Assad padre attaccò la città e furono uccise tra le quindicimila e le ventimila persone, dopo la rivolta dei Fratelli Musulmani che provocò trecento morti. Una rappresaglia in senso classico e assumere questa argomentazione come “spiegazione” di un eccidio (furono rastrellati anche gli ospedali) significa accettare la logica con cui in Europa la destra e l’estrema destra, insieme ai revisionisti e negazionisti di ogni risma, mettono sullo stesso piano la resistenza e le rappresaglie fasciste e naziste.
4. Non è, quindi, una questione legata alle dinamiche innescate dalle rivolte arabe, ma dal fatto che molti, per non dire tutti senza esclusione, sostenitori del clan Assad lo fanno in nome di due cose: la Siria, come l’Iraq e la Libia, erano alleati dell’URSS, che nella regione solo apparentemente era sul fronte opposto rispetto agli Stati Uniti e a Israele.
Il 16 febbraio il parlamento europeo ha approvato una relazione della commissione giuridica per un diritto civile sulla robotica allo scopo di suggerire un percorso per stabilire «principi generali e principi etici relativi allo sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale per uso civile».
Le istituzioni (quanto meno quelle europee) si pongono il problema di essere preparate all'imminente scenario in cui le interazioni tra robot, intelligenze artificiali ed esseri umani sono in continuo aumento e si stanno configurando come un aspetto fondamentale della società contemporanea, dalla vita quotidiana alla produzione industriale passando per medicina e commercio: «La commissione JURI ritiene che i rischi posti da queste nuove interazioni debbano essere affrontati con urgenza, garantendo che una serie di valori fondamentali si applichi in ogni fase del contatto tra i robot, l'intelligenza artificiale e gli esseri umani. In tale processo si dovrebbe accordare un'attenzione particolare alla sicurezza umana, alla privacy, all'integrità, alla dignità e all'autonomia».
Dal punto di vista istituzionale il problema è quello di regolare la responsabilità in caso di incidenti, i diritti di proprietà intellettuale e proprietà dei dati, ma anche affrontare la questione di come rispondere al problema occupazionale che, con il procedere dell'automazione,
DA QUALCHE tempo torna a circolare la parola “sovranità”. Sovranisti si autodefiniscono Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ma anche Nigel Farage e Geert Wilders, per non parlare di Marine Le Pen, che per prima ha tirato la volata a tutti gli altri. Sovranisti si dichiarano partiti di estrema destra come l’Afd tedesco e lo Jobbik (significa “meglio a destra”) ungherese. E insieme a loro, sempre più scalmanati, gli ultranazionalisti rumeni, bulgari, slovacchi. Il loro motto è naturalmente “Europa dei popoli”. Il loro progetto è restituire ai popoli europei piena sovranità territoriale, politica, economica, minacciata da una finanza globale che ricorda, nei loro accenti, la plutocrazia giudaica dei tempi andati. Naturalmente la Brexit e l’elezione di Trump soffia il vento nelle loro bandiere. Se questi può annunciare “America first”, perché anche noi non dovremmo ritirare la sovranità ceduta all’Unione Europea e riprendere in mano i nostri destini? Se Trump costruisce un nuovo muro a sud, perché anche gli Stati europei non dovrebbe blindare le frontiere nazionali che Schengen aveva aperto. Naturalmente per difendere i valori dell’Occidente, minacciati dal contagio dei naufraghi della terra. In difesa dei nostri posti di lavoro, si dice, ma anche, insieme, del nostro patrimonio etnico.
Ora tutta questa paccottiglia ideologica ha davvero qualcosa a che vedere con la categoria di sovranità?
Il PD si spacca sulla data del congresso e delle elezioni; Sinistra Italiana si spacca sull’alleanza con il PD che si spacca sulla data del congresso e delle elezioni; la dirigenza del Prc a congresso ripropone un’aggregazione con quella sinistra che si spacca sull'alleanza col PD che si spacca sulla data del congresso e delle elezioni. Nel frattempo, mentre dal Pd alla sinistra ci si arrovella in questa sorta di “Fiera dell’est”, mentre si aprono tavoli di qua e si chiudono porte di là, mentre qualche esponente politico tenta di riposizionarsi in vista delle prossime elezioni politiche, i lavoratori continuano a subire ricatti nei luoghi di lavoro ed a vivere condizioni che superano il livello della decenza.
Certo, la fatica di lavorare e l’ansia di mantenere un posto di lavoro non devono essere spiegate a chi subisce il ritmo imposto dalla catena di montaggio, o a chi si spacca la schiena in un cantiere; né, tanto meno, a un precario della logistica, a chi lavora in un call center o fa l’insegnante precario in una scuola. Ma a chi oggi pensa che lavoratori, disoccupati, precari, immigrati, abbiano bisogno di un nuovo centrosinistra, come se un’aggregazione politica (politicista), pure al 10-15 per cento, possa rappresentare la via d’uscita dalla precarietà di lavoro e di vita, forse è il caso di spiegare quello che avviene nei luoghi di lavoro.
“I contratti stipulati di recente hanno introdotto alcuni importanti elementi di novità. L’accordo siglato alla fine di novembre per il comparto metalmeccanico – relativo a circa un quinto del monte retributivo del settore privato oltre a non contemplare incrementi sino alla prossima estate (prolungando così alla metà del 2017 la fase di marcata moderazione salariale), stabilisce che gli aumenti successivi siano determinati ex post, con frequenza annuale e in base alla dinamica realizzata dell’indice dei prezzi al consumo (al netto dei beni energetici importati). In tal modo si modifica la regola fissata dall’accordo interconfederale del 2009, che prevedeva aumenti definiti su un orizzonte triennale in funzione dell’andamento atteso dello stesso indice. Una clausola che lega gli incrementi retributivi all’inflazione passata è stata introdotta nel dicembre 2016 anche nel contratto per il settore del legno ed è stata ripresa nella piattaforma presentata dalla parte datoriale del comparto tessile, dove è ancora in corso la trattativa. Rispetto al totale dei contratti, quelli che prevedono meccanismi di indicizzazione ex post (incluso il contratto del comparto tessile tuttora in fase di negoziazione) rappresentano al momento circa un terzo del monte retributivo del settore privato. Il legame delle retribuzioni con l’inflazione passata, anziché con suoi valori previsti o programmati, può tradursi in una maggiore inerzia nell’andamento dell’inflazione stessa (come avveniva con la scala mobile abolita dal protocollo del 1993);
Un esergo adatto a presentare
questo libro di Baudrillard – Il delitto perfetto.
La televisione ha ucciso la realtà? –
cronologicamente
un po’ datato (1995, Èditions Galilèe, Paris; 1996, Raffaello
Cortina Editore, Milano), ma di fatto così attuale da
apparire ora profetico – potrebbe essere rappresentato da
alcuni celebri versi di Leopardi:
Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
non cresce,
anzi si scema (…).
(…) e figurato è il mondo in breve carta;
ecco tutto
è simile, e discoprendo,
solo il
nulla si accresce.
(Ad Angelo Mai, vv. 87-88; 98-100)
Il saggio del filosofo e sociologo francese (1929 – 2007) si compone di due distinte sezioni: la prima, che ripete il titolo dell’opera (Il delitto perfetto), occupa i due terzi del libro ed è di carattere speculativo, mentre la seconda (L’altro versante del delitto) ragiona sulle evidenze del ragionamento teoretico in alcuni aspetti emblematici – psicologici, sociologici, politici – del mondo contemporaneo.
“Se una cosa sembra una papera, cammina come una papera e fa qua-qua, probabilmente è proprio una papera”
Suscitò critiche, due anni fa, il
mio articolo del gennaio 2014: «CHE
COS’È IL FRONT NATIONAL
DI MARINE LE PEN (dedicato a quelli che la dicotomia
destra-sinistra non c’è più)».
Si trattava di un'analisi del programma del Front National — per l’esattezza «MON PROJECT. POUR LA FRANÇE ET LES FRANÇAIS» —, quello sul quale il FN condusse la campagna per le presidenziali del 2012.
Alle porte delle ancor più importanti elezioni presidenziali
imminenti, vale forse la pena tornare sull'argomento,
analizzando l'odierno
programma elettorale del Front National — in particolare le
misure economiche che esso prenderebbe una volta salito al
governo —, dandone
un giudizio di massima, ed anche verificando se vi siano
aggiustamenti rispetto a quello del 2012 e, nel caso, quali
sono ed in quale direzione
vanno.
2012: Stato (poco) keynesiano di poizia
Nel mio pezzo del 2014, mettevo in guardia coloro che guardavano con eccessiva simpatia e/o indulgenza al Front National, segnalando come esso, al netto di numerose proposte di politica economica sostenibili, non solo fosse molto ambiguo sulla questione dell'euro, ma avesse, oltre ad una visione revanscista e imperialista della Francia, una concezione fortemente autoritaria della democrazia, anzi perorasse un tetragono Stato di polizia.
“Passa il tempo / sembra che non
cambi niente.
/ Questa mia generazione / vuole nuovi
valori”.
F. Battiato, Aria di Rivoluzione, 1973
Nessuno ci regalerà niente
Tra pochi giorni si celebrerà a Rimini la nascita di un nuovo soggetto politico della sinistra. Il congresso fondativo di Sinistra Italiana arriva, però, in un momento caratterizzato da contraddizioni tanto generalizzate quanto profonde. Ed è da un punto di vista generazionale che vale la pena guardare a queste contraddizioni, così come all'apertura di uno spazio politico che aspira ad essere nuovo”.
Appena due mesi fa, il referendum costituzionale si rivelava lo strumento con cui l'81% delle persone tra i 18 e i 34 anni tirava un gigantesco schiaffo all'establishment e al grande bluff renziano. Sarebbe però un errore madornale astrarre, mitizzare e semplificare quel voto generazionale. È vero che esso, per le sue proporzioni, ha assunto la fisionomia di una rivolta. Ma non è men vero che le cifre di questa rivolta sono soprattutto la stanchezza, il disincanto, il risentimento. Come scriveva Gesualdo Bufalino, infatti, nell’asfissia del sentire, che a gara con l’altra del respiro ci soffocava le fauci, ogni parola grande stingeva, appariva una truffa di adulti. Anche la libertà, anche la verità”.
Ci sono delle evidenze che definiscono dominanti e dominati prima ancora di qualsiasi indagine sociologica e analisi ideologica.
La definizione positiva è quella che concerne il gruppo o l’individuo costruito come razza e/o sesso, la designazione negativa, ovvero la non-designazione, si applica all’Altro. I bianchi, ad esempio, non fanno parte delle “persone di colore”: il bianco, il referente, non ha colore. Analogamente nella designazione dell’appartenenza di sesso, la categoria differenziale è quella di donna. Non occorre nominare l’uomo, è l’implicito delle categorie sessuali.
Tra uomini e donne storicamente si è sviluppata un’asimmetria, per cui le donne sono differenti dagli uomini, mentre gli uomini non sono differenti. Gli uomini sono.
Ma la differenza sessuale è stigma di un antico rapporto di dominio e di sopraffazione, emblema dell’ideologia naturalizzante dei rapporti sociali tra i sessi.
Quello che definisce l’appartenenza al gruppo dominante è la possibilità indefinita, cioè la possibilità giuridica di non avere interdizioni rispetto alle pratiche del gruppo dominato.
Difficile dire per quale ragioni il Partito Democratico si avvii stancamente alla scissione. Difficile, vogliamo dire, invidividuare ragioni “programmatiche e ideali”, come si sente dire in questi giorni, che distinguano effettivamente il campo renziano (molto scosso anche al proprio interno) dai vecchi tromboni ulivisti. Ovvero da Bersani – che rivendica ancora oggi di esser stato “l’unico ad aver fatto liberalizzazioni” – D’Alema (che ha regalato Telecom alla cordata guidata da Colaninno), il governatore toscano Rossi (che privatizza l’acqua regionale violando il risultato e quindi il vincolo referendario) e via elencando.
Sul piano pratico, sulle cose fatte – che sono poi le uniche che si possano giudicare in politica – l’assemblea nazionale del Pd è composta da una folla indistinguibile di neoliberisti senza se e senza ma. Gente che ha votato la riforma Fornero sulle pensioni, il jobs act, la “buona scuola”, e ancor prima quel “pacchetto Treu” (1997!) che ha aperto le dighe alla precarietà di massa, legalizzata e perenne, in questo paese. E non basta davvero canticchiare qualche strofa di “bandiera rossa” (peraltro epurata della parola “comunismo”), o sbrodolare qualche frase contrita sulle “disuguaglianze intollerabili”, la “precarietà diffusa”, “i giovani”, “i lavoratori”.
Eppure stanno scindendosi.
Di fronte ai sempre più visibili segnali di implosione dell'Unione Europea e dell'euro, la Merkel propone di distinguere i “buoni” dai “cattivi”. Il fine resta la tosatura delle classi subalterne
Per renderci conto che ci si avvicina all'implosione delle istituzioni europee e della moneta unica, basta mettere in fila una serie di fatti.
1. Le regole che governano l'euro stanno provocando una crescente divaricazione fra le condizioni economiche delle diverse nazioni. Mentre i paesi forti, la Germania in primis, stanno registrando forti avanzi delle bilance commerciali con l'estero, cioè esportano più di quanto importano, e le loro esportazioni contribuiscono ad assicurare uno sbocco alla capacità produttiva, i paesi periferici, impossibilitati a compensare con il ricorso alla svalutazione monetaria la loro inferiore competitività, registrano forti disavanzi commerciali e pertanto soffrono molto di più l'impatto della crisi economica mondiale. Anche il rispetto dei parametri in fatto di bilancio pubblico – rapporto debito/Pil e deficit/Pil – è assai difficoltoso per i paesi più deboli. Non così invece per la Germania, anche perché tali parametri sono stati “cuciti addosso” all'economia tedesca.
Nonostante il massiccio intervento della Banca Centrale Europea con la riduzione dei tassi di interesse e il quantitative easing, tale divergenza non accenna a ridursi.
Pubblichiamo qui l'articolo Essere
al livello delle macchine,
ovvero le società della prestazione, recentemente
uscito su Corpi, menti,
macchine per pensare, n4 di viaBorgogna3
Magazine.
Ippolita è un gruppo di ricerca indisciplinare attivo dal 2005. Conduce una riflessione ad ampio raggio sulle 'tecnologie del dominio' e i loro effetti sociali. Pratica scritture conviviali in testi a circolazione trasversale, dal sottobosco delle comunità hacker alle aule universitarie
Le società sembrano esigere un livello di prestazione in costante aumento. A livello di microcosmo, i singoli individui devono esibire un reddito adeguato, ma anche una forma fisica non mediocre; viene loro richiesto di aumentare i consumi personali, anche per il benessere collettivo; sono spinti a migliorare la propria salute, incoraggiati a crearsi nuove opportunità di amicizia, frequentazione, e così via. L'insoddisfazione è una caratteristica strutturale. A livello macro, per rimanere nei parametri fissati da accordi internazionali, gli stati nazionali devono mostrare un continuo miglioramento dei loro risultati complessivi, soprattutto devono esibire una crescita economica senza flessioni, prestazioni finanziarie elevate sui mercati finanziari, bilance commerciali positive e così via. Nessuno di questi prerequisiti sembra essere negoziabile, e sembra riguardare tutte le società contemporanee, a prescindere dalla collocazione geografica.
L’ambivalenza del potere ai tempi della pervasività repressiva, dall’Università all’attivismo. A partire da «Ora e sempre No Tav. Pratiche del movimento valsusino contro l’Alta Velocità», di Roberta Chiroli per Mimesis. La tesi di laurea, che valse a una studentessa una accusa della magistratura, diventa un libro
Quando, all’inizio dell’estate dello scorso anno, il giornale locale La nuova di Venezia pubblicò la notizia della condanna di Roberta Chiroli per i contenuti della sua tesi di laurea sul movimento No Tav discussa all’Università Ca’ Foscari, fu con qualche smarrimento che cominciammo a raccogliere informazioni su quanto era successo.
Nel tempo, abbiamo imparato a conoscere bene i trattamenti che il potere riserva ai dissidenti, a chi ha il coraggio di opporsi ai dogmi e non smette di «dire la verità», a chi non si accontenta di come va il mondo: perseguitati, oltraggiati, messi al margine in ragione di idee e di un agire troppo distante da ciò che viene ufficialmente disposto.
Scomodi, da far sparire oppure da punire per fornire insegnamenti a tutti. Ma, nonostante questa consapevolezza, i due mesi di reclusione comminanti dal tribunale di Torino per una ricerca in antropologia, a partire da una richiesta di sei mesi avanzata dal Pubblico ministero, appaiono un’enormità.
Renato Curcio: Capitalismo digitale
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Si parla ormai correntemente di deglobalizzazione. Bene! Finalmente ci siete arrivati! mi verrebbe da dire. Un'analisi dello splendido saggio di Fagan
Molti di noi, mediamente, vivono immersi in un mondo
di inconsapevolezze arredato per metà con la caverna di
Platone e per l'altra dal
migliore dei mondi possibili di Leibniz-Candide. Veniamo
tenuti apposta in questo mondo estetico ed etico mentre le
nostre élite operano
costantemente nelle segrete, dove torturano la realtà coi
più affilati strumenti e le tecniche più sofisticate. Sia
torturare la
realtà, sia tenercelo nascosto, viene fatto per il "nostro
bene", non reggeremmo allo shock e tutte le nostre sicurezze
ne
risentirebbero.
(Pierluigi Fagan)
1. Il libro di Pierluigi Fagan Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell'era Trump (Fazi, 2017) parla di Stati e di nazioni. Concetti tabù per la sinistra radicale, da non menzionare nemmeno. Dal canto loro, i cultori di destra del Blut und Boden invano vi cercheranno un'esaltazione della Patria e del Re e i seguaci dell'establishment culturale di sinistra avranno il dispiacere di veder messi a nudo il cosmopolitismo progressista e la narrazione della "fine degli stati-nazione", che verranno chiamati col loro nome proprio: imperialismo.
Sono secoli che la sinistra (tutta, in vari gradi e sfumature) ci ricasca - o ci ritenta. E viene sbugiardata.
Ormai da mesi, ogni settimana i
titoli
dei giornali riportano, più o meno allarmati, notizie e dati
sul dilagante utilizzo dei vouchernell’economia italiana. Da
ultimo, a far
parlare del tema è stata la notizia dell’approvazione, l’11
gennaio, da parte della Corte Costituzionale, di un referendum
proposto
dalla Cgil che intende abrogare lo strumento dei voucher
(approvazione, va ricordato, parallela all’accettazione di un
secondo quesito, relativo
agli appalti nella pubblica amministrazione, e alla negazione
di un terzo, che verteva sull’articolo 18 – e quest’ultima
decisione
ha suscitato non poche perplessità, sul piano giuridico prima
ancora che su quello politico [1]).
L’origine dei voucher è nella legge Biagi che ne prevedeva limitazioni temporali ed economiche e parametri di occasionalità e soggetti coinvolti: la loro natura è cambiata con la legge Fornero e poi il Jobs Act
Ora, per capire effettivamente di cosa stiamo parlando, conviene guar-dare alla storia di questo recente protagonista del mercato del lavoro del nostro Paese.
Introduzione
Con questo articolo, ci proponiamo di dimostrare che i bassi prezzi dei beni prodotti nel Sud globale, ed il concomitante modesto contributo delle sue esportazioni al prodotto interno lordo del Nord, occultano la reale dipendenza delle economie di quest’ultimo dal lavoro a basso costo del Sud. Dunque, sosteniamo che la delocalizzazione dell’industria nel Sud globale, nel corso dei tre decenni passati, ha condotto ad un massiccio incremento del valore trasferito al Nord. I principali meccanismi di tale processo consistono nel rimpatrio del plusvalore tramite investimenti diretti esteri, lo scambio ineguale di prodotti incorporanti differenti quantità di valore e l’estorsione per mezzo del servizio del debito.
L’assorbimento di enormi economie del Sud all’interno del sistema capitalistico mondiale, dominato da multinazionali e istituzioni finanziarie con base nel Nord globale, ha posto le prime nella condizione di dipendenze socialmente disarticolate votate all’esportazione. I miseramente bassi livelli dei salari di tali economie trovano fondamento (1) nella pressione imposta dalle loro esportazioni al fine di competere per limitate porzioni del mercato, in larga parte metropolitano, dei consumatori;
In questo breve intervento accolgo le domande che Rino Genovese, lo scorso aprile, ha rivolto invitando tutti gli interessati alla discussione sulla critica e sulla sua possibile funzione oggi.1
Lo stesso Genovese, presentando sul sito de «Il Ponte» la Fondazione per la critica sociale, mette insieme due idee o se vogliamo due speranze: restituire alla critica uno statuto militante e rimettere al centro della discussione il conflitto sociale. Un programma non da poco, la cui difficoltà principale consiste nel fatto che il conflitto sociale al momento non è al centro né del discorso critico né di quello politico in generale. E se, anzi, esso è in qualche modo ravvisabile nell’insoddisfazione latente che accompagna la vita dei “nuovi giovani” e non solo, e potrebbe quindi a volte riuscire a venire alla luce, il suo corrispettivo oggettivo, ovvero il conflitto di classe, è totalmente sparito dall’orizzonte. Lo spostamento del conflitto di classe in conflitto sociale dovrebbe essere forse un punto di partenza di una discussione che si voglia critica. A quale classe o ceto o gruppo economico sociale o genere ognuno di noi appartenga e in nome di cosa e contro chi voglia indirizzare la sua attività intellettuale: sono domande, oggi più che mai, tutt’altro che scontate e che aiutano a considerarci tutti come inseriti dentro il conflitto.
Ciò che parte da premesse false di solito è falso. La Giornata del Ricordo del 10 febbraio parte dalla premessa che la vicenda delle foibe sia stata per decenni oscurata e dimenticata e che occorra restaurare una memoria. Sta di fatto che non è così. I primi processi sulle foibe, con tanto di condanne (peraltro con motivazioni approssimative), furono celebrati a Trieste già nel 1948; ed inoltre sull’argomento vi fu una propaganda a livello internazionale che coinvolse persino l’opinione pubblica statunitense. Il vittimismo fascista si dimostrò funzionale al riciclaggio del personale del vecchio regime in funzione della costituenda NATO: dalla camicia nera alla camicia a stelle e strisce. La propaganda ufficiale omette questi dati incontrovertibili e si ha quindi la sensazione che da ben settanta anni non si stia cercando affatto di restaurare una memoria sulle foibe, bensì di fabbricare un mito.
La questione delle foibe rientrò in quel clima di regolamento di conti interno che cercava di presentare la situazione italiana come dominata da una presunta egemonia comunista e quindi giustificava un clima di eversione dall’interno delle istituzioni; un clima che sarebbe esploso alla fine degli anni ‘60 con una serie di attentati e provocazioni. Sono precedenti che rendono poco credibile il fervore “sovranista” di gran parte dell’attuale destra, tanto più che i precedenti sono confermati dall’attualità.
Un articolo di J. Wight su Counterpunch ci ricorda che, anche dal punto di vista di un “Remainer”, l’intervento nel dibattito di Tony Blair rappresenta un’aberrazione. Quest’uomo, che non ha esitato a svendere i valori della socialdemocrazia alle proprie brame di soldi e potere, passando sopra i cadaveri innocenti di coloro che ha trascinato in una guerra immotivata, non esita oggi a “incitare il popolo” alla sollevazione contro una decisione presa democraticamente.
L’unico posto da cui dovrebbe essergli consentito esprimersi è dal banco degli imputati, per tutti i suoi numerosi crimini contro l’umanità.
Proprio quando cominciavate a sentirvi tranquilli, ecco che ritorna Frankenstein – o quantomeno il suo omologo politico – sotto forma di Tony Blair, l’ex primo ministro britannico ed emblema della venalità, corruzione e opportunismo del liberismo occidentale contemporaneo.
La decisione di Blair di intervenire nell’attuale crisi politica che attanaglia il Regno Unito riguardo alla Brexit, può solamente essere definita offensiva. La sua chiamata alle armi, che incita il popolo britannico a “sollevarsi contro la Brexit”, lanciata dalla rinomata fortezza dei potenti, il quartier generale di Bloomberg nella City di Londra, non farà altro che aumentare i consensi per la Brexit, visto che la permanenza al potere di Blair le ha solo aperto la strada.
Blair è uno sciocco illuso se pensa davvero di avere la credibilità o il potere perché un suo intervento di questo genere sulla scena politica si risolva in qualcosa di diverso da un completo disastro.
I primi a volere un rafforzamento Nato, in funzione anti-Russia, sono in questo momento i governi europei dell'Alleanza. Tsipras compreso...
Ulteriori passi nel «rafforzamento dell'Alleanza» sono stati decisi dai ministri della Difesa della Nato, riuniti a Bruxelles nel Consiglio Nord Atlantico. Anzitutto sul fronte orientale, col dispiegamento di nuove «forze di deterrenza» in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, unito ad una accresciuta presenza Nato in tutta l'Europa orientale con esercitazioni terrestri e navali.
A giugno saranno pienamente operativi quattro battaglioni multinazionali da schierare nella regione. Sarà allo stesso tempo accresciuta la presenza navale Nato nel Mar Nero.
Viene inoltre avviata la creazione di un comando multinazionale delle forze speciali, formato inizialmente da quelle belghe, danesi e olandesi.
Il Consiglio Nord Atlantico loda infine la Georgia per i progressi nel percorso che la farà entrare nella Alleanza, divenendo il terzo paese Nato (insieme a Estonia e Lettonia) direttamente al confine con la Russia.
Pochi giorni fa è apparso su Pagina 99 un articolo, “Sono élite e me ne vanto”, che tenta di far passare la falsa idea di una contrapposizione tra il mondo della cultura e quello della gente comune, dove gli “acculturati” dovrebbero imbarcarsi in una battaglia a difesa dell’élite da loro rappresentata. Ora, se da una parte l’articolo contiene un richiamo condivisibile contro l’anti-intellettualismo reazionario in espansione – che attacca le competenze e l’istruzione gettando discredito verso le forme del sapere, di cui molti di noi hanno fatto esperienza – dall’altra si rivela essere un’accozzaglia fuorviante con diversi passaggi tutt’altro che chiari nella loro logica.
L’autrice, Flavia Gasperetti, stabilisce un’equazione arbitraria tra l’essere un intellettuale e l’essere un salottiero, radical-chic, fighetto, più che benestante se non ricco, un borghese. Poi prosegue rivendicando l’appartenenza all’élite liberale e metropolitana, ma anche ad una qualche eredità comunista – come se le due cose potessero stare insieme così a caso – per poi finire nella constatazione che l’élite progressista vive la propria condizione elitaria come una sconfitta morale, con un senso di colpa verso “gli svantaggiati” (quanto paternalismo) che, tuttavia, andrebbero mandati a quel paese, dato che non capiscono e virano su Trump e la Le Pen.
Mentre le nuove privatizzazioni affannano, ricominciamo a parlare di nazionalizzazioni. Per capire quanto sia necessario diamo uno sguardo alle privatizzazioni del passato, a partire dal caso da manuale del settore elettrico
Nel
governo
qualcuno si è svegliato?
Su La Stampa di ieri campeggiava un titolo all'apparenza bislacco: «Orfini avvisa il governo: “Fiducia sullo ius soli e basta privatizzazioni”». La novità, che segnala pure una divisione nel governo, è tutta in quel «basta privatizzazioni». Ora, Matteo Orfini è un personaggio assolutamente modesto, ma dopo quarant'anni di «viva le privatizzazioni!» a reti unificate anche quel «basta» del neo-reggente del Pd qualcosa ci dice.
Insomma, la crisi del modello e delle politiche neoliberiste è ormai evidente a tutti. Perfino a chi quelle politiche le ha sempre sostenute fino ad oggi. Si pensi alla fallimentare idea renziana sulla «soluzione di mercato» in materia bancaria.
Ma cosa dice esattamente Orfini? Leggiamo:
«Prima di tutto, dobbiamo fare una discussione seria sull’economia. Purtroppo siamo tutti più vecchi e gli anni ’90 sono finiti: riproporre oggi come soluzione a un debito pubblico di oltre 2000 miliardi le privatizzazioni è sbagliato. Abbiamo piuttosto bisogno di rilanciare la funzione delle grandi imprese pubbliche e di capire come usare meglio in questo senso anche Cassa depositi e prestiti. Su questo dobbiamo discutere prima di procedere».
Fin troppo facile rilevare come questo primo segnale di ravvedimento sia del tutto tardivo.
1)
Professor Losurdo, la Sua ultima fatica, appena uscita
per i tipi di Carocci, si intitola Un mondo senza
guerre: è possibile
un mondo senza guerre?
Il mio libro è anche la descrizione del fallimento dei diversi progetti di realizzazione di un mondo senza guerre che storicamente si sono succeduti. Pur accomunati dal fallimento, questi progetti non possono essere messi sullo stesso piano. Storicamente, la «pace perpetua» è stata invocata abbracciando l‘umanità nel suo complesso oppure con lo sguardo rivolto solo ai popoli «civili», escludendo quindi i popoli coloniali nei confronti dei quali erano giustificate la conquista, l’assoggettamento, la schiavizzazione, le guerre di ogni genere comprese quelle di carattere genocida.
L’unico italiano ad aver conseguito il Premio Nobel per la pace è stato nel 1907 Ernesto Teodoro Moneta, che però quattro anni dopo non aveva difficoltà a dare il suo appoggio alla guerra dell’Italia contro la Libia, legittimata e trasfigurata, nonostante i consueti massacri coloniali, quale intervento civilizzatore e benefica operazione di polizia internazionale. Peraltro, nel rivendicare la sua coerenza di «pacifista», egli aveva il merito di esprimersi con chiarezza: ciò che veramente importava era la pace tra le «nazioni civili», tra le quali egli chiaramente non annoverava né la Turchia (che sino a quel momento esercitava la sovranità sulla Libia) né tanto meno i libici.
Recentemente è uscito per Rubbettino «Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti», traduzione in italiano dell'opera incompiuta del prematuramente scomparso Peter Mair, dedicata alla crisi della partecipazione popolare alla vita politica. L'errore dell'autore sta tuttavia nella indebita separazione dell'analisi del livello politico della crisi da quella del livello economico
Peter Mair, politologo irlandese di
fama
mondiale, è scomparso prematuramente nel 2011, quando stava
lavorando a un volume sulla crisi della partecipazione
popolare alla vita
democratica come fenomeno tipico delle società occidentali.
L’opera è rimasta dunque incompiuta, ma è stata integrata con
altri interventi dell’autore e pubblicata su iniziativa della
«New Left Review»: il prestigioso periodico della sinistra
postmarxista che già aveva ospitato un ampio contributo di
Mair anticipatore delle principali tesi poi sviluppate nel
libro[1]. Di
quest’ultimo è da poco uscita una traduzione italiana per i
tipi di Rubbettino[2], la piccola ma vivace casa
editrice nota
soprattutto come amplificatrice del pensiero neoliberale.
Ci si potrebbe stupire di questa curiosa osmosi tra esperienze culturali di matrice non proprio assimilabile, ma a bene vedere il volume di Mair ben può metterle d’accordo entrambe. Compatibile con le opposte visioni postmarxista e neoliberale è infatti la riflessione sulla fine del partito di massa, all’origine del vuoto evocato nel titolo del libro, e in particolare la descrizione di ciò che il partito politico è diventato: un centro di potere sradicato dalla società, proiettato verso lo Stato e il governo, e in ultima analisi incapace di alimentare l’ordine democratico. Il discorso potrebbe a questo punto divenire incompatibile con il punto di vista neoliberale, giacché fon-dativa dell’identità occidentale è la commistione di capitalismo e democrazia, motivo per cui le trasformazioni nella sfera politica difficilmente possono spiegarsi senza riferimenti a quanto avviene nella sfera economica: senza una critica alle teorie e pratiche neoliberali.
La categoria dei taxisti sta notoriamente sulle scatole a tutti - a Roma poi non parliamone, qui abbiamo l'obbligo a bordo di ascoltare assurde radio tifose, percorsi che si allungano verso l'infinito se il tuo accento non è locale, proclami politici che vanno da "quando c'era lui" a "io i negri li rimanderei tutti a casa". E se vedi alcuni dei loro leader, ti viene da scappare per la tua sicurezza personale.
Eppure con un po' di lucidità e lungimiranza oggi potremmo mettere da parte l'antipatia per capire come la campana ora suona per loro ma domani o dopo suonerà per tutti noi - anzi per molti ha già suonato.
Intendo dire: i conducenti di auto bianche sono obsoleti, è evidente. Oggi c'è Uber, c'è Enjoy, c'è Car2go, ci sono pure ZigZag e Scooterino, e tutte o quasi funzionano meglio, a minor prezzo. Tra un po' ci sarà pure l'auto che si guida da sola e buonanotte, il taxista finirà come il casellante, il linotipista, lo spazzacamini. Finito, over, altro che bloccare le piazze.
E noi festeggeremo, perché come consumatori-utenti saremo meglio serviti.
Poi però accadrà che altre tecnologie - altre app, altri sensori, altri robot, altri outsourcing, altre intelligenze artificiali - renderanno altrettanto obsoleto quello che facciamo noi, cioè il nostro modo per portare a casa un reddito.
Quando la propaganda, la retorica, la continua mistificazione, anche una certa dose di disonestà intellettuale, vanno ad incidere non soltanto sulla vita di alcune persone, ma finiscono per corrompere la stessa tenuta del tessuto sociale di un Paese (che dovrebbe essere fatto di solidarietà inter-classe e composizione del conflitto fra le classi), mi arrabbio.
Parliamoci chiaro. La sharing economy non è economia della condivisione. Non è un baratto. Non ha neppure alcun tratto mutualistico o cooperativo. Quello era, forse e sia pure in modo confuso, il principio dei primi siti di scambio peer-to-peer come Napster.
La sharing economy, al contrario, è una cosa vecchissima, cioè la messa a sistema (e in ultima analisi lo sfruttamento) del lavoro e - talvolta - di minime immobilizzazioni proprie di una platea diffusa di persone da parte di chi ha capitali e tecnologie per farlo.
A voler essere buoni, si tratta della stessa dinamica che portò alla proto-industrializzazione inglese, basata su famiglie contadine impoverite che tentavano di incrementare le loro entrate con la manifattura a domicilio. A voler essere forse più obiettivo, di una forma subdola di caporalato, tanto più disgustosa perché - in questo caso - il padrone non ha neppure il coraggio di mandare caporali in carne ed ossa a metterci la faccia.
Ce ne è voluta, ma alla fine è nata Sinistra Italiana dalla confluenza di parte di Sel, di buona parte di quanti erano già usciti dal Pd a fine 2015 e di una delle correnti di Rifondazione Comunista.
È stato un parto travagliato, con il distacco di una componente di Sel, e che forse ha consumato troppo tempo in una discussione inutile perché aveva uno sbocco segnato sin all’inizio, ma, alla fine, la fondazione c’è stata ed ha raccolto i primi segnali positivi, come l’intervento di De Magistris. Pertanto, voglio fare i miei più calorosi auguri ai compagni che hanno avviato questa avventura.
Con la vittoria referendaria del 4 dicembre, il sostanziale ritorno al proporzionale, la crisi del Pd si è aperta una nuova fase politica che segna la fine della Seconda repubblica. Se ne apre una nuova nella quale occorrerà ridefinire l’offerta politica. Lo scrivo dal 5 dicembre: come 25 anni fa, si è aperta una fase di turbolenze, nella quale nasceranno nuovi partiti, ne moriranno di vecchi, se ne scinderanno alcuni, se ne unificheranno altri, compariranno nuovi fenomeni politici e mediatici, spireranno i venti di nuove culture politiche.
In questa situazione, Sinistra Italiana ha spazi molto ampi davanti a sé, se saprà coglierli, perché si avverte da tempo il vuoto di una vera sinistra in Italia e non sono affatto sicuro che gli attuali fuorusciti dal Pd sapranno esserlo: su di loro pesano troppi errori politici, troppa subalternità culturale alla vague neo liberista.
Giuliano Poletti, Ministro del Lavoro (ancora, nonostante tutto) durante l’Assembla Nazionale del Pd sostiene che i populismi non hanno trovato la soluzione a come restituire dignità al lavoro, di fronte alla trasformazione della produzione in atto. Da tre anni Ministro però ha ben dato prova di come nei fatti è possibile ridurre e spesso annientare quella dignità: con il Jobs Act, che ha cancellato la tutela reale cioè l’articolo 18, che ha monetizzato il diritto al lavoro con un indennizzo. Come se quella dignità fosse uno dei tanti beni e servizi che la tecnologia può produrre. L’ha annientata estendendo il tetto massimo all’uso dei voucher, avallando il sistema delle cooperative nel mondo degli appalti e dei subappalti in quei settori dove lo sfruttano della mano d’opera dei lavoratori è feroce. E sono gli stessi settori in cui la risposta alla rivendicazione di maggiore dignità si risponde con i manganelli, con i camion che schiacciano e ammazzano operai in lotta.
Poletti concorda con Bersani secondo cui il ceto medio è in crisi ed è stritolato. E allora fa prima gli esempi del metalmeccanico e del muratore e poi dell’impiegato di banca. Ecco lo stravolgimento culturale è tutto qui. Il metalmeccanico e il muratore non sono ceto medio, sono classe lavoratrice, di matrice operaia. Lo stesso vale per un pezzo dei colletti bianchi, come l’impiegato delle poste o di una filiale di banca.
Il Corriere della Sera del 20/02/2017 titola entusiasticamente “Boom dei prestiti, i consigli per scegliere bene” e continua “per chi li propone sono un affare e le famiglie ne chiedono sempre di più. I tassi medi sono scesi: 9% circa per 5-15 mila euro. Per ora. Le condizioni delle principali banche e la corsa al nuovo affare: la cessione dei quinto dello stipendio”.
Mancava solo di chiudere il pezzo con le parole di Peppino di Capri “Champagne! per brindare a un incontro” e la commedia era completa. E c’è da scommettere che qualcuno abbia persino annuito sorridendo, pensando che ogni tanto una buona notizia ci vuole proprio.
Dunque, tradotto in soldoni, dato che a Gennaio 2016 il totale dei micro-crediti comprendenti sia i prestiti personali che quelli al consumo degli italiani ammontava a 256,9 miliardi di Euro (fonte Centro Studi Unimpresa), se consideriamo il costo medio del 9,0% celebrato dal Corriere otteniamo una spesa totale per interessi pari a 23,12 miliardi di euro che durante il 2015 le famiglie italiane hanno trasferito al settore finanziario per prestiti (senza tener conto dei mutui)!
Questo deve essere sfuggito al Corriere, che del resto non approverebbe il titolo del mio recente articolo “Da modelli di sviluppo a meccanismi di appropriazione” nel quale spiego che siamo immersi in un gigantesco meccanismo di appropriazione indebita di risorse
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La
crisi della globalizzazione neoliberista che si sta
manifestando a diverse latitudini, e che è stata dimostrata in
maniera eclatante dalla
vittoria della campagna per la Brexit nel Regno Unito e dal
successo di Donald Trump nelle presidenziali americane, ha
risuscitato una delle
più antiche e polverose tra tutte le nozioni politiche: l’idea
di sovranità.
Di solito intesa come l’autorità dello Stato di governare sul suo territorio, la sovranità è stata a lungo considerata un residuo del passato in un mondo sempre più globale e interconnesso. Ma oggi questo principio viene invocato in maniera quasi ossessiva dall’insieme di nuove formazioni populiste e dai nuovi leader che sono emersi a sinistra e a destra dell’orizzonte politico a seguito della crisi finanziaria del 2008.
La campagna per la Brexit in Gran Bretagna, con la sua richiesta di “riprendere il controllo”, si è incentrata sulla riconquista della sovranità dall’Unione europea, accusata di privare il Regno Unito del controllo sui propri confini. Nella campagna presidenziale americana Donald Trump ha fatto della sovranità il suo leitmotiv. Ha sostenuto che il suo piano sull’immigrazione e la sua proposta di revisione degli accordi commerciali avrebbero garantito «prosperità, sicurezza e sovranità» al paese.
In questi giorni stiamo assistendo,
perplessi, a grandi manovre di riposizionamento a sinistra,
per cercare di occupare gli spazi vuoti che si sono aperti
dopo il deciso spostamento a
destra del Pd renziano e la sua netta battuta d’arresto a
seguito del referendum del 4 dicembre. Il fatto che persino
gli irriducibili
sostenitori della “ditta”, come Bersani e Speranza, si siano
infine decisi ad abbandonarla alla sua deriva
neo-democristiana, è
certamente un evento da valutare positivamente.
In primo luogo perché mette definitivamente la parola fine all’incubo di un ventennio renziano sotto il segno del Partito della nazione, in realtà già duramente colpito dalla grande mobilitazione contro la “Buona scuola”, dal primo sciopero generale della Cgil contro il governo amico e, infine, dalla disfatta del tentativo di stravolgere la Costituzione.
In secondo luogo perché contribuisce indubbiamente a una maggiore chiarezza del quadro politico e mette la parola fine al tentativo dei liberisti renziani di spacciarsi come di sinistra e, quindi – grazie alla copertura della triplice sindacale e della sinistra interna – di presentarsi al contempo come la più affidabile opposizione. In altri termini un partito sempre più affine nei fatti ai partiti Popolari europei che continua però a spacciarsi come la principale e più credibile alternativa al centro-destra. Tanto più che la scissione del Pd comporta, nei fatti, la rottura del cordone ombelicale che lo legava – coprendolo a sinistra – con la più grande forza sindacale italiana, ovvero la Cgil che mantiene, nonostante tutto, un forte ascendente su ampi settori di lavoratori salariati e della stessa classe operaia.
Il postmodernismo si presenta in maniera confusa, quasi bifronte. Dire -post è filosoficamente un non dire, in quanto la collocazione temporale di una nozione non ne stabilisce il contenuto esplicativo né, tanto meno, veritativo. Per considerare la trasfigurazione tutta profana del modernismo in postmodernismo intendiamo avvalerci del contributo di due studiosi contemporanei di grande statura e, per rimanere nel campo delle anomalie, di antitetica provenienza culturale. Ci riferiamo a Mario Tronti, padre dell’operaismo italiano e fine filosofo politico, e ad Aleksandr Dugin, tradizionalista ed eurasiatista russo
L’eco evoliano di
questo titolo intende, fra il serio e il faceto, evocare un
problema culturale – e, perché no, spirituale – del nostro
evo.
Così come nel secolo scorso un “idealista magico” ha messo in
luce la natura ambivalente degli spiritualismi, forme
degenerate
della spiritualità tradizionale, è oggi opportuno denunciare
la struttura ambigua e sfuggente del postmodernismo, figlio
spurio della
modernità. Filiazione di segno negativo, quella rilevata da
Evola; partenogenesi di segno dubbio, meritevole di un
dibattito, quella del
paradigma politico, culturale ed esistenziale del
postmodernismo. Poiché, sebbene tutti gli -ismi meritino
riserve – e Nietzsche ha
già detto tutto in merito – lo statuto del postmodernismo è
foriero di dinamiche perennemente instabili, scivolose,
chiaroscurali.
A tratti ineffabile, questo Giano bifronte – sulla cui stessa
esistenza autonoma, svincolata dal Moderno, il dibattito
teoretico si sbizzarrisce
– comporta infiniti problemi di definizione. Si staglia come
una chimera, il sogno mostruoso che tutti noi sogniamo nei
momenti di
lucidità e che la veglia della ragione lascia obliato in nome
del sensus communis.
Ecco una piccola storia di ordinario Medio Oriente che di sicuro non avrà l’attenzione che merita. Il Parlamento del Bahrain (il cui vero nome sarebbe Consiglio dei Rappresentanti) ha approvato, con 31 voti contro 1, una legge di modifica costituzionale presentata in prima bozza solo 16 giorni fa. Il risultato della modifica apportata all’articolo 105b della Costituzione (a sua volta approvata solo nel 2000) è questo: d’ora in poi le corti militari potranno processare i civili accusati di “nuocere al pubblico interesse” o sospettati di “terrorismo”, reato che nel Paese ha una definizione larghissima, quasi coincidente con la pura opposizione politica. La legge ora passerà all’esame della Shura, il consiglio politico-religioso, con membri nominati dal re, che non mancherà di mettere il proprio timbro.
Il consigliere di Obama traccia la rotta: salvare la globalizzazione, con ogni mezzo
Alcuni articoli sono rivelatori. Uno di questi lo ha pubblicato La Stampa, lo scorso 15 febbraio, a firma di Charles A. Kupchan. E voi direte: chi è? Semplice: è uno dei principali pensatori dell'establishment americano. Docente di affari internazionali alla Georgetown University e membro del Council on Foreign Relations, dal 2014 al 2017 è stato assistente speciale per la Sicurezza nazionale del presidente Barack Obama. Tanto per intenderci.
Uno dei pochi ad aver colto l'importanza di questo articolo è stato il sito di analisi Piccole Note, secondo cui ci troviamo di fronte a un Manifesto della Controrivoluzione globale. Kupchan, da intellettuale di rango, analizza il successo della Brexit e di Trump, a mio giudizio correttamente.
"In lotta per guadagnare un salario di sussistenza, a disagio con la diversità sociale alimentata dall'immigrazione, e preoccupati per il terrorismo, un numero considerevole di elettori delle democrazie occidentali ha la sensazione di aver tutto da perdere dalla globalizzazione – e vuole abbandonarla. Giusto.
La legittima rabbia di questi elettori rende chiaro che i nostri sistemi politici post-industriali non hanno fatto abbastanza per gestire la globalizzazione e garantire che i suoi benefici fossero condivisi più ampiamente nelle nostre società. Qualunque cosa si pensi di Donald Trump, la sua ascesa rivela che c'è un disperato bisogno di riformulare il patto sociale che sostiene il centrismo democratico e il sostegno popolare a un ordine liberale internazionale".
Il punto, secondo Kupchan, è che Trump e i populisti non sono in grado di rispondere a tale necessità. E dunque occorre porre rimedio alla loro vacuità programmatica onde scongiurare il rischio che la Pax Americana e la Pax Britannica, che hanno fornito le basi dell'attuale mondo globalizzato, naufraghino definitivamente. Già, ma come?
E qui il discorso diventa davvero interessante. "In primo luogo, i centristi di tutte le convinzioni politiche devono unirsi per offrire un nuovo patto sociale che rappresenti un'alternativa credibile alle false promesse economiche dei populisti". Kaplan parla di "nuove iniziative in materia di istruzione, formazione professionale, politica commerciale, politica fiscale e minimi salariali". Sapendo però che "la globalizzazione è destinata a durare. Ma la disomogeneità dei suoi effetti distributivi dev'essere affrontata per il bene della politica democratica". Seguiamo il suo ragionamento e veniamo al secondo punto, leggetelo con attenzione:
"Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l'opinione pubblica e l'attivismo – rappresentano tutti un freno all'autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati".
E tenetevi forte sul terzo:
"Se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l'ordine liberale internazionale, l'Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell'Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l'internazionalismo liberale".
Cosa vuol dire tutto questo? Traduco:
1) L'élite che da quasi 30 anni promuove la globalizzazione ha individuato correttamente le radici del problema ma non ha alcun progetto credibile su come risolverlo. Le idee abbozzate da Kupchan potrebbero essere bollate, a loro volta, come "populiste" per la loro vacuità e nascondono una contraddizione per ora insanabile. In un passaggio, l'ex consigliere di Obama scrive che "i posti di lavoro che stanno diminuendo di numero soprattutto per l'automazione, non a causa del commercio estero". Ma se questo è il problema: come pensano di risolverlo? Mistero.
2) Kupchan invoca le istituzioni. Scusate, ma non capisco: non sono stati proprio gli ambienti transnazionali a promuoverne scientemente lo sradicamento a livello nazionale e, contestualmente, il trasferimento di poteri a quelle sovranazionali? Non è paradossale che a invocare i "contrappesi istituzionali" siano coloro che li hanno screditati e talvolta vanificati?
Ben più significativa è l'affermazione successiva: Cosa vuol dire che "i media, l'opinione pubblica e l'attivismo (...) devono essere pienamente adoperati?" Notate bene che Kapchan non parla di "alcuni media" o di "testate sulle nostre posizioni" ma di media, di opinione pubblica in senso assoluto, e usa il termine "adoperare", come se l'establishment a cui appartiene avesse il potere di orientare l'insieme dei media.
Scusate – si potrebbe e si dovrebbe obiettare – ma non siamo in democrazia? La stampa non è libera? In teoria sì ma di fatto il mainstream è ormai sinonimo di conformismo, che a tratti sfocia nel pensiero unico. Anche in Occidente. Tema che chi legge questo blog conosce bene, obiettivo che si ottiene ricorrendo alle tecniche di spin che descrivo da 10 anni (vedi il saggio "Gli stregoni della notizia Da Kennedy alla guerra in Iraq. Come si fabbrica informazione al servizio dei governi").
La novità è che tali tecniche venivano usate per sostenere i governi, a cominciare dalla Casa Bianca. Ora apprendiamo che possono essere usate anche contro di essa se il presidente, come Trump, non è gradito, sebbene legittimamente eletto.
E lo stesso vale per il riferimento all'attivismo ovvero a quei movimenti delle masse improvvisi e insistenti, che evidentemente non sono frutto di una spontanea presa di coscienza delle folle, ma di attente regie che, sfruttando metodi ben noti agli specialisti, raggiungono l'effetto voluto. Al riguardo segnalo l'ottimo saggio del giornalista del Tg5 Alfredo Macchi Rivoluzioni s.p.a. Chi c'è dietro la primavera araba.
Metodi che finora venivano impiegati fuori dai Paesi occidentali, ad esempio incentivando le Rivoluzioni colorate, ma Kupchan afferma che debbano essere utilizzate anche negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali.
Il messaggio implicito complessivo è inquietante: "Possiamo usare i media e le masse contro i populisti". E lo stanno già facendo.
3) Stupefacente è la terza ammissione. Essendo la Casa Bianca e Downing Street fuori controllo, deve essere l'Unione europea a difendere la globalizzazione. E allora si spiega perché il fidatissimo e duro Shulz si candidi a Berlino, con l'obiettivo di scalzare una Merkel in fase calante, troppo debole. E si capisce perché si suggerisca all'impresentabile presidente della Commissione europea Juncker di farsi da parte per lasciare spazio a un falco come il finlandese Jyrki Katainen.
Ma ancora una volta emerge una contraddizione: l'impopolarità dell'Unione europea, alimentata da politiche così rigide da sfociare nell'ottusità, rappresenta una delle ragioni del successo dei movimenti populisti. Come può un Moloch come la Ue (e sul suo liberalismo sorvoliamo...) costituire il fulcro in difesa degli interessi globalisti e al contempo diventare il promotore del cambiamento per riconquistare una classe media impoverita e arrabbiata?
Insomma, l'analisi è corretta, gli obiettivi sono chiari – vogliono salvare la globalizzazione – ma senza il sostegno di riforme credibili e convincenti. Chiara invece è la determinazione nel voler distruggere l'onda "populista" e di fermare Trump, anche ricorrendo a metodi, che vanno oltre la normale dialettica politica.
Andiamo bene.
A partire dalle considerazioni espresse alla fine del 2016 da Toni Negri al termine del suo viaggio in Brasile, Raúl Zibechi torna sulla perdita di egemonia del Partido dos Trablhadores (PT), che ha poi comportato la riconquista del governo (e delle piazze) da parte delle destre. Non accadeva da molti anni. L’analisi di Negri manifesta grande delusione e ha il pregio di fornire argomenti politici reali, scartando dalle semplificazioni consolatorie della pura cospirazione mediatica e imperialista o dall’illusoria difesa dello stato di diritto. Vale però la pena, scrive Zibechi, di interrogarsi a fondo sulle scelte ispirate da una governabilità da difendere a ogni costo, soprattutto contro le lotte sociali. Dopo un secolo di rivoluzioni fallite, come si può pensare ancora che lo Stato sia uno strumento neutro? In un grande paese capitalista, inoltre, la corruzione non è un’anomalia ma è intrinseca al sistema. Dobbiamo smetterla di pensare di poter governare gli altri andando alla ricerca di salvatori o Messia.
* * * * *
Dopo un viaggio in Brasile nel quale ha incontrato dirigenti del Partito dei Lavoratori (PT), ex alte cariche dei governi di Lula e di Dilma Roussef e membri dei movimenti sociali, (nel dicembre 2016 , ndt) Antonio Negri ha considerato “terribilmente deludente” l’azione della sinistra brasiliana.
Dopo avere letto l'articolo di un giovane lettore su Uber e sharing economy in cui mi si cita, ho voluto aggiungere due parole pedanti sul tema, che propongo nel seguito ai lettori.
***
Il dibattito sulla sharing economy si rappresenta mediaticamente lungo l'asse dialettico vecchio-nuovo, conservazione-rivoluzione, paura-sfida. I critici di questo modello sarebbero arroccati e impauriti, nemici del futuro. L'idea della novità è prima di tutto nel nome, dove un rodato processo di ridenominazione esterofila innesca una percezione di progresso legata al doppio filo della presunta arretratezza nazionale e della presunta modernità angloamericana. È poi nell'elemento telematico, il web che ancora a distanza di vent'anni mantiene viva l'aspettativa di una rivoluzione antropologica di cui non si ha traccia. È infine in una più generale e mai sopita speranza di adattare i modi di produzione alle politiche macroeconomiche in corso, di trovare una quadra che possa avverarne le promesse di benessere e che ci salvi dall'umiliazione di rinnegarle e di rinnegare, con esse, un investimento politico e ideale che ha conquistato i cuori dei più.
Sicché non stupisce che la sharing economy susciti la simpatia dei consumatori.
In queste ore la diaspora del PD sta mettendo sotto accusa, e sta progettando di rovesciare, una buona parte dei provvedimenti chiave del Governo Renzi, che pure aveva votato in Parlamento. Bene, anzi meglio: meglio tardi che mai.
Vorrei però elevare una preghiera: accanto al Jobs Act, alla Buona Scuola, alla soppressione dell'Ici anche per i miliardari, allo Sblocca Italia del cemento non dimenticatevi di ripudiare (e di abrogare, se ne avrete la forza) la cosiddetta riforma Franceschini!
Vi prego di credere non tanto a me o a Salvatore Settis, ma alle centinaia di associazioni e tecnici del patrimonio culturale (molti riuniti nel cartello Emergenza Cultura), o ai cittadini delle zone colpite dal terremoto nell'Italia centrale, che da mesi cercano di bucare il muro del silenzio e della propaganda del potente, eterno Dario Franceschini. Che, se è impegnato nel puntellare il Pd (e nel puntellare soprattutto le sue ambizioni sulla presidenza della Camera, e oltre), è anche impegnatissimo nel far cadere ogni puntello che reggeva il nostro povero patrimonio culturale.
La riforma Franceschini si basa su un principio semplice, anzi brutale: separare la good company dei musei (quelli che rendono qualche soldo), dalla bad company delle odiose soprintendenze, avviate a grandi passi verso l'abolizione.
Abbiamo intervistato il collettivo Ippolita che da anni analizza gli effetti delle nuove tecnologie di rete sulla soggettività, le ricadute sociali dell’innovazione e le pratiche di autodifesa digitale
Partiamo dal vostro
ultimo libro
“Anime elettriche”, che dialoga esplicitamente con
Foucault e affronta il tema della produzione di
soggettività in età
tardo-capitalistica (nel “rumore bianco” della rete).
Questa contiguità tra individuo e tecnologia da una parte
ha innescato un
processo di “smaterializzazione” del corpo biologico degli
utenti, le cui possibilità di relazionarsi diventano
pressoché
illimitate, dall’altra ha prodotto forme ibride di
socializzazione in cui il confine fra “realtà” e “rete”
non
è più distinguibile. Questa ibridazione, che ha investito
in parte anche le pratiche dei movimenti sociali, lungi
dal favorire il
“divenire collettività” - organizzata o meno - dentro la
rete, e nei social network in maniera più specifica,
sembra
piuttosto avere avviato una forma distopica di
ricomposizione nella de-socializzazione e
nell’individualismo, con modalità che sembrano
ricalcare l’individualizzazione della relazione fra
capitale e lavoro. Vorremo iniziare col chiedervi se
ritenete irreversibile questa deriva o
se ci sono nella rete (per come è strutturata) anche le
possibilità di una sua messa in crisi?
Il corpo non si smaterializza. La mente è coestensiva al corpo, il corpo è coestensivo alla mente. Noi siamo ciò che il nostro corpo è.
Negli
ultimi
anni, a partire dal 2008, il mercato è stato inondato da
pubblicazioni che sostengono che la fine del capitalismo non
solo è possibile,
ma è anche probabile. Solo per menzionare alcuni titoli: David
Harvey, "Diciassette contraddizioni e la fine del
capitalismo"
(Feltrinelli, 2014); Wolfgang Streeck,
"Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo
democratico" (Feltrinelli, 2013);
Paul Mason, "Postcapitalismo" (Il
saggiatore, 2016); Ulrike Hermann, " Der
Sieg des Kapitals" (La vittoria del
capitale), 2013; Mark Fisher, "Capitalist
Realism: Is there no alternative?" Winchester: Zero Books,
2009; Fabian
Scheidler, "Das Ende der Megamaschine. Geschichte
einer scheiternden Zivilisation" (La fine della
megamacchina. Storia di una civilizzazione
fallita), Vienna 2015.
A questo proposito Wallerstein ha detto nel 2009 che il capitalismo probabilmente non vivrà per più di 30 anni (Telepolis, 6/2/2009), e Varoufakis ha sostenuto con veemenza che come prima cosa bisognerebbe salvare il capitalismo in modo da poter avere ancora il tempo di pensare a delle alternative, in caso contrario andrà tutto a putt ane (der Freitaf, 16/3/2015). Questa lista non è per niente completa e potrebbe essere facilmente arricchita, ma non è questo il luogo per entrare nel dettaglio di tutte le pubblicazioni.
Prendo spunto
dall'arresto e dalla
scarcerazione di Aldo Milani per affrontare un tema molto
complesso.
Premesso che era da difendere il compagno Aldo Milani come militante comunista da sempre schierato per la causa degli oppressi e sfruttati; premesso ancora che il suo arresto e le motivazioni che stanno dietro sono da ritenere una ignominiosa macchinazione degna di un moderno Stato democratico, veniamo alla questione seria da affrontare, cioè il rapporto tra la militanza rivoluzionaria comunista e il movimento di massa nella doppia relazione: sindacale e politica.
Nella storia del movimento proletario questa questione ha da sempre riscaldato i cuori dei militanti di ogni livello e grado, senza riuscire a venirne a capo. La ragione è molto semplice: siamo stati e siamo tuttora troppo legati all’aspetto formale della rappresentanza, piuttosto che farla derivare dallo stato reale dei rappresentati. Per cercare di farmi capire meglio cito proprio Aldo Milani che disse – a proposito dei lavoratori della Logistica: «sono stati loro che ci hanno cercati e ci hanno chiesto di metterci alla loro testa per organizzarli perché nessuno dava loro ascolto, mentre le loro condizioni di lavoro erano proibitive, non ce la facevano più».
Gli innumerevoli decreti esecutivi della coppia Trump-Bannon stanno trovando non poche difficoltà a essere applicati. Una difficoltà su tutte: non è partita, e non si vedono nemmeno dei segnali di una qualche consistenza, quella mobilitazione sociale che avrebbe dovuto sostenerli, come era nelle intenzioni degli strateghi che oggi hanno gli uffici alla Casa Bianca. Per essere efficaci, le incursioni a tutto campo del Presidente degli Stati Uniti in tema di diritti civili e sociali, sulla politica estera, contro la «casta» stanziata a Washington hanno bisogno di una relazione diretta, riconosciuta e legittimata, tra il Presidente e il suo «popolo». Una condizione necessaria per reggere lo scontro che si è aperto tra potere politico e potere giudiziario, tra potere federale centrale e le amministrazioni delle grandi metropoli delle due coste, tra settori consistenti dell’intelligence civile e militare e la precaria compattezza della squadra messa in campo da The Donald. Nei primi giorni dopo l’investitura, gli incontri con gli amministratori delegati di grandi società, imprese e istituti finanziari sembravano annunciare l’apertura di uno scenario in cui il Presidente stabiliva rapporti diretti, senza mediazioni, con l’élite economico- finanziaria, mentre il suo primo consigliere, Steve Bannon, si occupava di organizzare il sostegno politico a partire dalla galassia xenofoba della cosiddetta destra alternativa.
Mentre le sorti dello stadio della Roma, anzi, di Pallotta, e del relativo business park da 800mila e rotti metri cubi di cemento sono ancora avvolti nella nebbia, di una cosa possiamo essere certi: l’ufficio marketing di Pallotta e Parnasi non teme rivali. Bisogna ammetterlo: sono bravissimi! Tanto di cappello di fronte a chi avrebbe fatto apparire il Minculpop come un’accolita di dilettanti allo sbaraglio. Nel giro di pochi mesi sono infatti riusciti ad arruolare una fetta importante della tifoseria giallorossa, e a trasformarla in un formidabile strumento di pressione politica.
Un’arma capace di aprire falle e contraddizioni perfino nel Movimento Cinque Stelle, che pure si era presentato alle elezioni, vincendole, con un programma esplicitamente contrario alla speculazione di Tor di Valle. Parliamo di migliaia di pasdaran della Eurnova, infervorati dagli hashtag di allenatore e giocatori, che da settimane sciamano sui social ingolfando di insulti i profili di chiunque venga indicato dai media come un ostacolo al progetto “che risolleverebbe le sorti di Roma e della Roma” (leggi). Prima era toccato a Berdini, poi alla Lombardi, quindi è stata la volta della sopraintendente Margherita Eichberg (rea di voler apporre il vincolo dei Beni Culturali alle tribune dell’ex Ippodromo), e ieri è stato il turno di Virginia Raggi, contro cui si sono alzati i cori dell’Olimpico.
Il saggio di Walter Benjamin sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è senza dubbio uno dei testi filosofici più influenti del XX secolo, che ha non soltanto segnato la riflessione estetica sulla fotografia e sul cinema, ma anche rinnovato radicalmente la comprensione dei rapporti tra arte e politica.
Sono rarissimi i casi che hanno potuto evitare di confrontarsi con almeno una delle sue tesi. Tutti conoscono questo saggio o tutti, almeno, potevamo dire di conoscerlo prima di scoprire sino a che punto, nel segreto delle diverse versioni (cinque, per la precisione) scritte da Benjamin tra il 1935 e il 1939, si nascondessero intuizioni e formulazioni che, per i lettori di una qualche versione standard del testo, risultano ancora oggi radicalmente inattese. Negli ultimi decenni, parecchi studiosi hanno lavorato all’edizione critica delle diverse stesure del testo e alla loro traduzione italiana, fornendo un’immagine più precisa di questo classico del Novecento. Per questo diventa necessario tornare a leggerlo alla luce delle recenti acquisizioni, così come hanno iniziato a fare gli studiosi dell’Associazione italiana Walter Benjamin, con un ciclo di seminari dedicati, i cui atti sono ora raccolti nel volume Tecniche di esposizione.
Sul Telegraph, Ambrose Evans-Pritchard discute la silenziosa trasformazione delle passività private in passività pubbliche tramite il quantitative easing della BCE. Nel caso di una sempre più probabile rottura dell’eurozona, l’Italia e gli altri paesi della periferia dovranno, come già specificato nero su bianco da Draghi, ripagare le proprie passività sul sistema Target2. A quel punto, a meno di un default, il peso delle passività accumulate dalle banche sarà stato effettivamente scaricato sui contribuenti
Ampie passività stanno venendo silenziosamente trasferite dalle banche private e dai fondi di investimento ai contribuenti di tutta l’Europa del sud. Si tratta di una variante del tragico caso della Grecia, ma questa volta su scala più ampia, e con implicazioni sistemiche globali.
Non c’è stata alcuna decisione democratica da parte dei Parlamenti di sobbarcarsi questi oneri fiscali, che si stanno rapidamente avvicinando ai mille miliardi di euro. Si tratta degli effetti collaterali del quantitative easing operato dalla Banca Centrale Europea, che è degenerato in un canale per la fuga dei capitali dal Club Med [i paesi mediterranei, NdT] verso la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi.
Questa “socializzazione dei rischi” sta avvenendo in maniera furtiva, come una sorta di effetto meccanico del sistema di pagamenti Target 2 della BCE. Se nel corso dei prossimi mesi uno sconvolgimento politico in Francia o in Italia dovesse dare il via a una crisi esistenziale dell’euro, i cittadini dei paesi dell’eurozona, sia dei paesi debitori che dei creditori, scoprirebbero con orrore ciò che gli è stato fatto.
La crisi del PD è una buona notizia che rende ancora più urgente la necessità di un soggetto politico di classe
Il PD che entra in una crisi che al momento appare irreversibile è una buona notizia. Lo è per la classe lavoratrice del nostro Paese, martoriata dalle politiche economiche e dalle riforme sul lavoro che il partito del dimissionario Matteo Renzi ha portato avanti in questi anni. Ma il PD che entra in crisi non è soltanto quello di Renzi. Entra in crisi il PD come coacervo di posizioni interclassiste, che nella sua supposta neutralità rispetto alla lotta tra le classi rafforza, di fatto, la posizione delle classi dominanti nel rapporto sociale di queste con quelle subalterne.
Il PD è il partito che è andato a braccetto di Marchionne che sanciva la fine delle “contrapposizioni tra capitale e lavoro” mentre tentava di cancellare la contrattazione collettiva nazionale per frantumare ulteriormente i lavoratori, porli in condizione di maggiore ricattabilità ed imporre, senza troppe resistenze, una organizzazione di fabbrica che costringe a ritmi e condizioni di lavoro ad alto tasso di sfruttamento dei lavoratori. Nelle fabbriche si procede da anni verso la “cosiddetta condensazione del tempo di lavoro”, cioè “un fenomeno grazie al quale ogni frazione di tempo viene riempita di lavoro più che in passato e cresce l'intensificazione del lavoro” (Marx).
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Flussi e
piattaforme
Lewis Mumford introduce nel 1967 il concetto di megamacchina1 come complesso sociale e tecnologico che modellizza le grandi organizzazioni e progetti dove gli umani diventano pezzi intercambiabili o servo-unità e lo applica risalendo addirittura alla costruzione delle Piramidi in Egitto.
Mentre Mumford considera che le megamacchine più rappresentative dell’era industriale sono i grandi complessi militari-tecnocratici che gestiscono il potere nucleare noi prendiamo come ipotesi che le grandi Piattaforme del Capitalismo (PdC) siano le megamacchine del Neurocapitalismo.
Possiamo schematicamente ridurre a due le componenti tecniche/funzionali delle piattaforme. La funzione di server centralizzato che nel caso delle PdC è controllato dal proprietario e le interfacce umano-macchina (H2M) e macchina-macchina2 (M2M) che permettono le interazioni fra il centro ed il mondo esterno.
Non bisogna intendere la funzione server come una macchina fisica ma come un insieme di sistemi complessi di software e hardware capaci di gestire i big data e che includono fra l’altro server farm, data center3 e funzioni di cloud. Non a caso Amazon, oltre ad essere la prima piattaforma di commercio online, è anche il leader mondiale dei servizi di cloud computing.
Recensione di l’“Abecedario” di Mario Tronti
La forza
militante della
riflessione teorica non va misurata secondo la radicalità
delle affermazioni ma per la precisione delle domande che
interrogano il pensiero e
per sua la capacità di farsi materia dentro il movimento reale
di classe. Il lavoro di Mario Tronti, in tale prospettiva, si
distende come una
pluridecennale, rigorosa azione di militanza teorico-politica.
Dagli studi gramsciani alla fine degli anni cinquanta fino
agli scritti più
recenti sullo “spirito libero”, Tronti ha svolto l’unico
compito politico possibile: pensare forme e modi di alterità
al
capitale. Come combatterlo? Cosa significa costituire
conflitto sul terreno dell’egemonia globale medio-borghese? L’Abecedario
pubblicato da DeriveApprodi (Roma 2016, euro 20, a cura di
Carlo Formenti con la regia di Uliano Paolozzi Balestrini, 2
dvd) sgrana questi e altri
temi in una video-intervista di circa sette ore che si apre
con amico/nemico e si conclude con tempo (Zeit) passando, tra
le altre voci, per
democrazia, guerra, libertà, Novecento, rivoluzione.
Un abecedario si svolge come una successione di parole-concetti che nella declinazione trontiana si delineano innanzi tutto nella netta distanza dalla semantica degli avversari. Un dizionario di lotta, percorso da un tono politico tutto “di parte” a conferma, a nostro parere, che le svolte che hanno caratterizzato il pensiero di Tronti, spesso oggetto di forti polemiche, non ne spezzano la continuità, ma si caratterizzano come un’incessantemente ridefinizione della “linea di condotta”.
Il prodotto del capitale, risultato di una astuzia o di una frode commerciale, e quasi sempre di uno sfruttamento della forza dei lavoratori, è considerato ancora simile all’accrescimento di una pianta. È tempo di decrescita
Fare della decrescita, come hanno
fatto certi autori, una variante dello sviluppo sostenibile,
costituisce un controsenso
storico, teorico e politico sul significato e sulla portata
del progetto. La necessità, provata da tutta una corrente
dell’ecologia
politica e dei critici dello sviluppo, di rompere con il
linguaggio fasullo dello sviluppo sostenibile, ha portato a
lanciare, quasi per caso, la
parola d’ordine della decrescita. All’inizio, quindi, non si
trattava di un concetto, e in ogni caso di una idea simmetrica
a quella della
crescita, ma di uno
slogan politico di provocazione, il cui
contenuto era soprattutto diretto a
far ritrovare il senso dei limiti; in particolare, la
decrescita non è una recessione e neppure una crescita
negativa. La parola quindi non
deve essere presa in considerazione alla lettera: decrescere
solo per decrescere sarebbe altrettanto assurdo di crescere
soltanto per crescere.
Tuttavia, i decrescenti volevano far crescere la
qualità della vita, dell’aria, dell’acqua e di una pluralità
di
cose che la crescita per la crescita ha distrutto. Per parlare
in modo più rigoroso, si dovrebbe indubbiamente usare il
termine a-crescita, con
l’ «a» privativo greco, come si parla di ateismo. In quanto si
tratta, d’altronde, esattamente di abbandonare una fede e una
religione. È necessario diventare degli atei della crescita e
dell’economia, degli agnostici del progresso e dello sviluppo.
La rottura della
decrescita incide quindi insieme sulle parole e sulle
cose, implica una decolonizzazione
dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo
possibile.
Professor Sini, voglio cominciare domandandole quale ruolo emancipativo immagina possa rivestire la filosofia in questo inizio di secolo segnato dal primato dell'economia di mercato e da una tecnica dominata da logiche meramente autoaccrescitive.
Sin dalla sua nascita socratica la ricerca filosofica si è caratterizzata per la capacità di arrestarsi, di fare un passo indietro o a lato e di riflettere, rendendosi attenti alla presenza di ciò che è. La filosofia procede, per sua natura, in controtendenza e in contrattempo. Essa mira a generare, in sé e negli altri, ciò che io chiamo una attiva paralisi e che Husserl definiva "sospensione del giudizio". Contrariamente a ciò che si potrebbe immaginare, ci vuole moltissima energia attiva per operare in sé questa trasformazione apparentemente statica, che non si lascia trascinare dall'ovvio e dall'urgente, orientandosi piuttosto verso tutt'altro tipo di urgenze e di propositi. Come disse Heidegger, ciò che ci è più vicino è difficile da tematizzare e da vedere: si tende a seguire conformisticamente l'opinione comune. Proprio questo costume condiviso, che accoglie le opinioni di tutti o dei più, nasconde molti segreti e molte verità inconsapevoli. E se è vero che il nostro è il tempo della massima velocità e della quantità sterminata di impulsi e informazioni, tanto più sarà necessario fermarsi e guardarsi attorno, senza pregiudizi e senza preconcetti.
Allora se ne sono proprio andati. La minoranza PD ha sbattuto la porta. La sinistra Dem, dopo molti penultimatum, è infine uscita dal Partito Democratico. Dopo Fassina e D’Attorre, dopo Civati e Cofferati, dopo Mineo e tanti altri, con un certo ritardo anche i bersaniani, o peggio i dalemiani, hanno separato le loro persone dalla Ditta, dal PD di Matteo Renzi. L’orribile parola è stata pronunciata: scissione.
Abbiamo pensato che la maggioranza renziana del PD tirasse un sospiro di sollievo, di soddisfazione riassumibile più o meno elegantemente così: ‘Finalmente si sono tolti dalle palle questi rompicoglioni’! Invece dobbiamo constatare l’opposto che suona più o meno ‘Irresponsabili, una scissione per ritorsione personale contro Renzi, condannano la sinistra a perdere, aprono la strada al populismo’ et coetera et coetera.
Allora vi davano fastidio o no? Intralciavano il sentiero luminoso del guerrigliero Renzi o no? Oppure il partito senza una seria copertura a sinistra è condannato a subire sempre più numerose sconfitte e percio’ la scissione vi dispiace? Dopo aver umiliato e bastonato per anni la sinistra del partito scoprirne ora l’importanza è a dir poco ipocrita. Un po’ di coerenza, signori.
La grande stampa, i più autorevoli commentatori hanno cominciato subito a snocciolare il rosario politico intorno ad un solo concetto: la sinistra non sa far altro che separarsi.
L’attentato è avvenuto ieri nel villaggio di Jaw (a sud di Manama). La tensione resta alta nel Paese dove continua il duro giro di vite di re Hamad contro gli oppositori
Roma, 27 febbraio 2017, Nena News – Non si placano le tensioni nel Bahrain. Ieri quattro poliziotti sono rimasti feriti in un attacco bomba vicino al villaggio di Jaw, a sud della capitale Manama. A riferirlo è stata una nota del ministero degli Interni. Le condizioni degli agenti, si legge in un breve comunicato ufficiale, sarebbero “stabili”. Non è la prima volta che Jaw è teatro di episodi di violenza: a inizio anno alcuni uomini armati hanno attaccato la prigione locale – dove sono detenuti per lo più manifestanti anti-governativi – uccidendo un poliziotto e facendo scappare 10 reclusi.
La tensione è altissima presso la comunità sciita del Paese (la maggioranza in una monarchia però sunnita) da quando lo scorso mese sono stati giustiziati tre oppositori per la presunta uccisione di tre poliziotti. Le loro confessioni, secondo infatti i centri per i diritti umani, sarebbero state estorte con la tortura. A scaldare gli animi è stata anche la recente uccisione in circostanze oscure di quattro ricercati da parte della polizia.
A fomentare le tensioni poi vi sono anche le decisioni delle autorità bahrenite.
Che l’onestà sia una virtù, chi mai lo negherebbe? E che la corruzione in politica sia un problemaccio serio, come se ne potrebbe dubitare? Ci vogliono tempo e costanza e cecità per rendere controproducenti campagne tanto ovvie, dannosa l’invocazione di obiettivi tanto indiscutibili. In Italia è capitato. Da noi la guerra santa contro la corruzione e il vessillo dell’onestà riescono a fare più danno dei ladri e dei corrotti, e sì che ce ne vuole.
Questione di misura, almeno in parte. Intascare mazzette è una cosa, parcheggiare in sosta vietata, dimenticarsi un saldo come capita a chiunque, pagare il pranzo con la carta di credito dell’Ente o dell’azienda, e alzi la mano chi non lo ha mai fatto, tutt’altra. La crociata in nome della legalità ha finito per infilare nello stesso mazzo un po’ di tutto, con risultati che non sfigurerebbero nella più surreale commedia dell’assurdo. Un ministro si dimette per aver accettato che il figlio si tenesse l’orologio di lusso che gli era stato incautamente regalato, un’altra ha fatto appena in tempo a vedere il dicastero prima di abbandonarlo per un pagamento irrisorio dimenticato dal marito. In compenso il sottosegretario Castiglione, coinvolto nel versante più lercio dell’affaire Mafia Capitale, robetta come migranti e C.A.R.A. di Mineo, resiste ottimamente al proprio posto.
Se la discussione su Syriza continua, nonostante e dopo i tanti articoli, le tante tavole rotonde, i molti libri e documentari; se coinvolge molti più di coloro che hanno vissuto traumaticamente il 2015, forse è perché il bilancio riguarda qualcosa di più ampio che non il giudizio sui protagonisti, le conquiste misurabili o i danni tangibili. Il bilancio si fa, oltre che negli anniversari, quando si tratta della fine di un’epoca. E, da questo punto di vista, la discussione che continua su Syriza riguarda proprio l’epoca dopo la fine.
Anche se per adesso possiamo fare soprattutto delle ipotesi, il “dopo” ha lasciato già delle impronte che non si possono ignorare. Mi riferisco alla calma piatta a livello dei movimenti, al ritiro a vita privata di grandi masse di persone, alla frammentazione della Sinistra anti-memorandum e alla sua insufficiente risonanza, all’impennata del “voto indistinto“. E, ancor di più, mi riferisco all’emergere di forme di partito di tipo personalistico, che preferiscono non fare riferimento ad alcuna idea di sinistra.
Invece di creare spazio e possibilità alla sua sinistra, l’“adattamento” del governo sembra aver inaugurato una stagione in cui, nell’immaginario sociale, la Sinistra, in qualunque versione, non significa più nulla, o addirittura significa qualcosa di molto negativo.
Non è certo un mistero: il percorso grazie al quale Syriza è andato al governo non ha riguardato solo la cerchia dei membri di punta e Alexis Tsipras.
Con questo ultimo
articolo di taglio
storico-filosofico[1], si chiude una
ideale trilogia di cui abbiamo già pubblicato una prima (qui)
ed una seconda (qui)
parte. La tesi generale che
abbiamo più ampiamente trattato nel nostro “Verso un mondo
multipolare” ( Fazi editore, 2017)) è che siamo entrati in
una
nuova era, l’era complessa. La geopolitica ovvero la
dinamica politica del tavolo-mondo giocata dai vari soggetti
prevalentemente statali,
diviene il gioco principale, quello che condiziona ogni
altro. Per giocare a questo gioco, gli europei dovrebbero
riflettere sulla propria consistenza
e strategia adattiva, creando soggetti dotati di
intenzionalità politica in grado di agire a livello dei
giocatori più forti e
potenti. Infine, in quest’ultimo scritto, si sostiene
che tali soggetti, dovrebbero progressivamente sottomettere
l’economico al
politico e quest’ultimo al principio di una democrazia
diffusa, un deciso cambio di paradigma senza il quale,
l’adattamento ai tempi nuovi
è fortemente a rischio.
= 0 =
In un poemetto del 1025, Adalberone di Leon, poeta e vescovo francese, dava la prima e più nitida descrizione di quello che poi verrà conosciuto come l’ordine trifunzionale della società medioevale. Lasciamogli direttamente la parola:
“In questa valle di lacrime alcuni pregano, altri combattono, altri ancora lavorano; le tre categorie stanno insieme e non sopportano d’esser disgiunte, di modo che sulla funzione dell’una restano le opere delle altre due, tutte e tre a loro volta assicurando aiuto a ciascuna”[2].
Jacques Le Goff, compagno di medievalistica di George Duby e Marc Bloch in quel della Scuola degli Annales di L. Febvre e F.Braudel, ce la spiega così:
Preambolo
Quest’anno, come noto, cadrà l’anniversario del centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Pensiamo che le celebrazioni fini a se stesse, come tutti i rituali privi di una forza vitale capace di renderli attuali, restino lettera morta e non abbiano alcun significato per chi si ponga come obiettivo la trasformazione rivoluzionaria dell’esistente. Tuttavia siamo convinti che il centenario offra un’occasione importante a chi, come noi, riconosce nel marxismo lo strumento politico fondamentale e nell’esperienza bolscevica, concretizzatasi nella rivoluzione del 1917, una tappa centrale della storia del movimento comunista. Senza aprire una corposa parentesi sul ruolo della memoria nella costruzione delle identità politiche e sulle battaglie ideologiche che inevitabilmente la costruzione della memoria scatena, è facile immaginarsi come il centenario dell’Ottobre susciterà interventi e iniziative da parte di tutte le forze e le correnti politiche. Certamente l’obiettivo ideologico centrale per i nostri nemici – borghesia imperialista insieme a tutti i suoi portaborse opportunisti – sarà quello di dichiarare l’anacronismo scientificamente sancito, la morte, senza resurrezione possibile, dell’idea di rivoluzione politica comunista. Ma non è difficile prevedere come anche nel campo della sinistra il 2017 sarà l’anno degli eventi, dei convegni, delle mostre, delle pubblicazioni legati alla Rivoluzione d’Ottobre. Un appuntamento a cui bene o male tutti sentiranno il bisogno di partecipare e in cui tutti sentiranno il bisogno d’intervenire. Il rischio che percepiamo è che in questo modo l’Ottobre rischierà di essere trasformato in un mito in fondo tranquillizzante e riducibile alle logiche evenemenziali dell’odierna società social, perdendo così qualsiasi mordente politico, qualsiasi attualità. In tal caso, insieme alla materialità della storia, si espellerà il nocciolo dell’esperienza dell’Ottobre: l’assalto al cielo. La rivoluzione d’Ottobre è stata tale in quanto è culminata con la presa del Palazzo d’Inverno: ossia con la presa del potere politico. Per questo, dunque, una “nostra” campagna politica sull’Ottobre è quanto mai urgente e necessaria, tanto quanto occorre riportare al centro del dibattito l’attualità della rivoluzione e del comunismo.
All’inizio di questa
settimana l’ISPI (Istituto per gli studi di politica
internazionale) ha pubblicato un sedicente fact
checking sull’euro che
promette “un’informazione sintetica e il più possibile
fondata su dati oggettivi”. In pratica, sette affermazioni
sull’euro sono state definite “vere” o “false”, con brevi
note esplicative. Quali che fossero le reali intenzioni
degli
estensori, il risultato ha poco a che vedere con un fact
checking e molto più con una semplice esposizione di
opinioni, poco o nulla avvalorata
da dati. Ora, come ha affermato Alberto Bagnai in un articolo
recentemente pubblicato su
questo sito, “l’euro è uno dei più grandi successi della
scienza economica: tutto quello che questa aveva previsto si
è realizzato, ed esattamente nel modo in cui la scienza
economica l’aveva previsto”. Commentando dunque alla luce
dei dati e
di quanto insegna la scienza economica i sette punti
proposti dall’ISPI, Andrea Wollisch, laureato in Economia e
Scienze sociali, giunge a
conclusioni decisamente diverse rispetto a quelle
propagandate dall’Istituto.
* * * *
1 – L’euro ha fatto aumentare i prezzi?
Che in un’Europa dove si combatte la deflazione si tiri nuovamente fuori questa vecchia questione, significa essere ignari del dibattito.
I più spiazzati dalla vittoria di Donald Trump sono stati quelli che più avrebbero dovuto aspettarsela. Ma si sa, gli Dei rendono ciechi coloro che vogliono perdere.
Da quando il fascistone è diventato presidente degli Stati Uniti, quaggiù s’è aperto il talent per la ricerca del “Trump all’italiana”, lo Spaghetti Trump.
Salvini e Grillo sono in pole position da tempo, ma adesso persino il PD ha il suo concorrente: Michele Emiliano.
Nonostante il ruolo di populista di grana grossa che interpreta però, la manovra con la quale il corpulento governatore della Puglia ha accompagnato fuori dal PD quasi tutti gli altri antirenziani, suoi concorrenti diretti, per poi non seguirli è stata di rara sottigliezza.
Adesso Emiliano è l’unico leader dell’opposizione interna al PD (Orlando è solo un proxy di Napolitano) e quando Renzi si sarà schiantato definitivamente, potrà ereditare il partito.
Renzi è un perdente che continuerà a perdere, a maggior ragione adesso che ha esaurito le cazzate da spacciare.
Dopo l’accordo raggiunto venerdi sera tra Giunta Raggi, costruttori e AS Roma, il consiglio comunale di Roma adesso dovrà votare in aula una nuova delibera sullo Stadio che di fatto sostituirà la precedente delibera approvata dell’amministrazione Marino. Ma la battaglia sullo Stadio potrebbe ancora spegnere il sorriso sul volto della sindaca Raggi, dei palazzinari e degli amministratori dell’AS Roma.
Il via libera al documento, che dovrà essere elaborato dagli uffici competenti, potrebbe arrivare entro un mese, sempre che sulla sua strada non emergano – come sembra – ostacoli legislativi e amministrativi all’approvazione all’edificazione dello Stadio per la Roma e altre cubature a Tor di Valle.
Nel nuovo progetto viene affermato che ci sarà il taglio del 50% complessivo della cubature (il 60% solo sul Business Park, con eliminazione delle tre torri di Libeskind) e un potenziamento dell’ecosostenibilità. Le opere pubbliche previste (anch’esse colpite da una revisione “compensativa” al ribasso) saranno realizzate in due fasi. Permane invece il problema delle cubature. La metà di 1.100mila metri cubi resta sempre 550mila metri cubi rispetto ad un Piano Regolatore che ne prevedeva al massimo 330mila (di cui lo stadio rappresenta meno della metà).
Una brava studentessa (non dico coraggiosa, perché per email mi ha riposto "Grazie professore, ma non credo sia stata una cosa così straordinaria") ha chiesto delle scuse (politiche e intellettuali naturalmente) a Prodi, di persona. Ho l'onore di essere stato invitato da Cristina il prossimo 27 marzo a Bologna, dove me la vedrò col braccio destro di Prodi, il prof. Paolo Onofri. Credo che ciò che abbia detto sia innnanzitutto di una dignità straordinaria (anche confrontato con le deformazioni di Prodi e dei reporter):
"Adesso, non le chiedo, come fa qualcuno, di formare un nuovo partito o ricandidarsi per riparare alla situazione. No, quello spetta a noi. Però le chiedo, come minimo, che riconosca le sue responsabilità e i suoi errori; e che magari ci chieda anche scusa."
Il video è qui , il testo e il commento di Cristina di seguito.
* * * *
Ieri sera è uscito un articolo su Agi in cui si dichiara che durante l'incontro di Rethinking Economics Bologna con Prodi una studentessa (io) "aveva espresso dubbi sul progetto europeo auspicando un ritorno alle frontiere tra gli Stati Ue."
Tuttavia io non ho mai in nessun momento detto una cosa del genere ma ho piuttosto richiesto all'ex presidente del consiglio e della commissione europea di riconoscere le sue responsabilità ed i suoi errori nell'implementare politiche neoliberiste che ci hanno portato alla situazione attuale.
1. Nella situazione attuale, ci si dibatte (piuttosto al buio, in verità), tra mosse "sperate" di Trump, complesse questioni geopolitiche collegate, e le solite grida di "incertezza politica" venduta come causa di ostacolo alla "ripresa" (!!!), quando invece tutto questo non può che essere irrilevante: infatti, c'è il famoso pilota automatico, che non è stato inventato da Draghi ma solo da lui "copiato" a Milton Friedman.
Questa situazione, a dir poco angosciante, tuttavia, mi spinge a cercare di rammentare la "rotta" unica e possibile per giungere alla salvezza democratica del paese.
E, trattandosi in definitiva di una rivendicazione di legalità costituzionale, che è la pregiudiziale assoluta di qualsiasi soluzione pratica - nonché di qualunque "composizione" delle forze, non controllabili, che si agitano sullo scenario internazionale-, premetto da subito le parole di Lelio Basso, semplici e paradigmatiche per quanto concerne il cuore del problema che la Nazione italiana si trova ad affrontare, (volente o nolente):
“…penso che la battaglia per la democrazia nei singoli paesi debba essere prioritaria rispetto ai fini federalisti…ci sono cose che vanno, secondo me, profondamente meditate. A me, se così posso dire, la sovranità nazionale non interessa; però c’è una cosa che mi interessa: è la sovranità democratica...
D’Alema e Bersani rompono col PD e restano nel progetto liberista
Nel teatro di Rossi, Speranza ed Emiliano qualcuno intona Bandiera Rossa, qualcuno innalza la bandiera sovietica. La scissione della cosiddetta “sinistra PD” aumenta il folklore, ma c’è ben poco di cui rallegrarsi. Non stiamo assistendo a una “svolta a sinistra”, qua non ci sono né Lafontaine né Melenchon. Quello a cui stiamo assistendo è la rinascita dei Democratici di Sinistra.
La scelta di campo del socialismo europeo
Certo, dal palco degli scissionisti si è rimproverato a Renzi di aver lodato Marchionne, rendendo più difficile l’identificazione degli operai col PD. Chi vada però in giro a raccontare che la nuova cosa di D’Alema e compagnia sia un ritorno al codice genetico della sinistra, alla rappresentanza organica del lavoro salariato, non può che essere o un illuso o in malafede.
L’abbandono della rappresentanza del lavoro per abbracciare l’interclassismo è un’operazione compiuta dal centrosinistra già dagli anni ’90. Vi hanno preso parte tanto i partiti quanto buona parte dell’apparato culturale ed egemonico che ha seguito la trafila PDS-DS-PD:
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Il
sistema dell'euro si sta sgretolando e anche l'Italia è a un
bivio. E' possibile che in Francia Marine Le Pen, presidente
del Front National
– il partito popolar-populista, xenofobo e post-fascista –,
vinca le elezioni per la presidenza. Se il Front National
vincesse, l'euro si
sbriciolerebbe immediatamente. Che cosa accadrebbe allora
all'Italia? Il ritorno alla lira potrebbe produrre certamente
una nuova crisi ma, se ben
gestita, la crisi non provocherebbe un disastro irreparabile.
Anzi: l'uscita dall'euro e la ritrovata sovranità monetaria
potrebbero finalmente
consentire all'economia italiana di riprendere a correre.
Il break-up dell'euro provocherebbe il caos nel breve periodo. Tuttavia – a meno che non si adotti la moneta fiscale, che ho più volte proposto ma della quale in questo articolo accennerò solamente[1] – uscire dall'euro potrebbe essere l'unica maniera di ridare ossigeno all'economia italiana ed evitare il disastro di una depressione prolungata all'infinito. Il vero e proprio terrorismo sull'Italexit e sul break-up dell'euro da parte dei media e di una classe politica nazionale che sembra in gran parte venduta agli interessi stranieri, non ha alcuna valida motivazione.
Se l'euro cadesse, il quadro sarebbe assai complesso sul piano valutario, finanziario e geopolitico. Ma una recente ricerca su 12 Paesi europei – probabilmente la più approfondita e analitica che sia stata compiuta finora - dell'autorevole Observatoire français des conjonctures économiques (OFCE), affiliato a Science Po, la prestigiosa Fondation nationale des sciences politiques, sulle conseguenze del break up dell'euro afferma che, in caso di Italexit, la crisi italiana potrebbe essere molto limitata e presto recuperabile[2].
Un titolo
provocatorio, lo ammetto. Ma vero.
Partirò dal commento ad una intervista a Theodore Roosevelt Malloch, un politologo americano che insegna alla Henley Business School (già Oxford University) ed è il candidato più probabile alla carica di ambasciatore USA presso Bruxelles. Si tratta di una intervista, dunque, in qualche modo programmatica e volta a catturare il consenso della nuova amministrazione.
Quindi ascolteremo una presentazione, in conferenza con l’economista Emiliano Brancaccio, dell’ex Presidente della Commissione Europea (ed ex Premier) Romano Prodi.
Il possibile futuro ambasciatore in sostanza pronuncia dieci enunciati davvero significativi:
1- “che il progetto di integrazione europea sia un disastro dovrebbe ormai essere cosa nota a tutti. Una cosa del genere non avrebbe mai trovato l’avvallo né di Churchill né di Roosevelt”.
2- “Per molto tempo, a partire da Dulles, il Dipartimento di Stato è stato dell’avviso che la strada migliore per assicurare la pace in Europa fosse di unificarla. Al centro di questo ragionamento vi era la relazione Francia-Germania” MA “È sensato perseguire questa politica dopo il trattato di Maastricht del 1992 e quelli successivi?
La vicenda di chi cerca un’altra
via per le Indie
e proprio per questo scopre nuovi
continenti
è molto vicina al nostro modo attuale
di procedere;
"A/traverso" 1977.
I movimenti sociali sono strani animali. Non ce n’è uno che somigli a un altro. Le alchimie che si creano tra subalternità, antagonismo e autonomia sono spesso il risultato di uno sguardo verso il passato e di un’anticipazione del futuro. E il movimento del Settantasette fu un movimento al tempo stesso atteso e imprevisto. Il 1976 fu l’anno della campagna per le elezioni politiche dopo che l’anno precedente l’alleanza Pci-Psi aveva conquistato le amministrazioni delle principali città del Paese. Intorno al Pci erano nate grandi speranze e altrettante illusioni. Il sogno del “sorpasso” e di un governo delle sinistre, l’ascesa dei comunisti al governo come grande trasformazione del Paese ebbe una reale presa su larghi settori di massa che aspiravano ad un cambiamento radicale. In realtà, già da molto tempo il gruppo dirigente del Pci aveva altri piani. La tenuta elettorale della Dc diede la definitiva giustificazione alla strategia del “compromesso storico”, teorizzata apertamente fin dal 1973.
Con l’arresto di Romeo lo scandalo Consip è ad una svolta decisiva. Non sappiamo, se non per indiscrezioni giornalistiche, cosa abbiano in mano i magistrati ed il garantismo vale sempre, anche se l’indiziato si chiama Tiziano Renzi, per cui vedremo quando le cose saranno più chiare. Ma c’è una frase dell’ordinanza cautelare che lascia cadere di sfuggita queste parole: “livello politico più alto”. Di che livello politico si parla?
Qui è già convolto un ministro, e allora? Insomma, non prendiamoci in giro e prendiamo il toro per le corna: sta arrivando un avviso di garanzia (o peggio) a Renzi figlio?
Come lo stesso Renzi ha ricordato, all’indomani della sua sconfitta referendaria, non essendo parlamentare, non gode di immunità per l’arresto e nulla fa pensare, almeno per ora, ad una misura così grave, ma anche un semplice avviso di garanzia, nel pieno del congresso del Pd ed alla vigilia di elezioni politiche (che arriveranno al più tardi fra 10 mesi) avrebbe effetti devastanti per Renzi, per il Pd e per l’intero sistema.
Certo: sappiamo che le colpe dei padri non ricadono sui figli e non c’è motivo per venir meno a questa regola di civiltà, ma qui ci sono molti punti scabrosi da chiarire.
Dario Guarascio legge Weapons of Math Destruction di Cathy O’Neil che illustra come algoritmi e Big data favoriscano le disuguaglianze e mettano a rischio la democrazia americana. O’Neil fornisce un’inquietante panoramica di queste armi di distruzione (matematica) di massa e mostra come il perpetuarsi di disuguaglianze ed esclusione sociale abbia un contraltare tecnico nella pervasività degli algoritmi in tutti gli ambiti rilevanti della vita sociale: finanza, scuola, assicurazioni sanitarie e previdenziali, ricerca di lavoro, relazioni con l’amministrazione pubblica
Quella che Cathy O’Neil racconta in Weapons of Math Destruction (Penguin Books, 2016) è la storia di due viaggi.
Il primo viaggio, a ritroso nella sua esperienza personale, lo compie l’autrice. Il punto di partenza è la sua giovinezza. Dai primissimi anni, quando i parenti rimanevano strabiliati scoprendola capace di scomporre in fattori le targhe delle auto che le passavano sotto casa, fino al dottorato in algebra ed al posto da professoressa al Barnard College. Il punto di arrivo è la brutale disillusione nei confronti della matematica e della sua funzione sociale.
E’ il 2008 e O’Neil è da poco approdata a Shaw – uno dei principali Hedge Fund internazionali – dove è a capo del team che negozia titoli, tra cui le cartolarizzazioni dei famigerati mutui sub-prime:
La presenza di piattaforme per le consegne a domicilio nell’ambito della ristorazione, soprattutto nelle grandi città, è un fenomeno che esiste già da parecchi anni. Tuttavia, esso è venuto alla ribalta soprattutto negli ultimi mesi, non solo per la crescita esponenziale del servizio, ma anche per la vasta eco prodotta dalle proteste e dagli scioperi dei lavoratori di Deliveroo e Ubereats a Londra e di Foodora a Torino, contro la riduzione dei salari e la trasformazione della paga oraria in paga a consegna. C’è da chiedersi di fronte a quali novità ci pongono la diffusione delle piattaforme on demand e le lotte che ne sono conseguite: è in corso una radicale e più larga trasformazione del mondo del lavoro o le suddette novità riguardano esclusivamente i fattorini? Bisogna guardare a queste nuove app come il nuovo che avanza o è semplicemente un restyling di vecchi sistemi di sfruttamento?
Sicuramente una novità c’è, abbastanza grande da mettere in difficoltà i giuslavoristi europei. Se il rapporto di lavoro ha inizio tramite la registrazione su una app, se non esistono capi e coordinatori che ti ordinano quello che devi fare, se è un algoritmo a decidere quali consegne affidarti e se tu lavoratore valuti di volta in volta quali accettare, vieni considerato un lavoratore autonomo o un lavoratore dipendente?
Se si vuole un esempio di come funzioni la democrazia e di come essa sia condizionata e deformata dai poteri sovranazionali del capitale, si può fare attenzione ai misteri di pulcinella nella campagna delle presidenziali francesi che proprio ieri ha visto un ennesimo colpo di scena con un formidabile siluro lanciato contro il presunto vincitore in pectore, ovvero Françcois Fillon, campione della destra repubblicana, politico di lungo corso appoggiato fino a qualche mese fa in maniera esplicita da Bruxelles e dalla Merkel, insignito della benedizione di Blair per una vicenda già ampiamente conosciuta, quella di moglie e figli pagati quali assistenti parlamentari con i soldi pubblici, ma formalizzata dalla magistratura solo nei giorni scorsi con le accuse di di appropriazione indebita e storno di fondi pubblici.
Cosa è accaduto? Una risposta forse c’è e consiste nel fatto che Fillon non è più un candidato assolutamente sicuro contro la Pen e oltretutto ha commesso l’errore di esprimere più volte dubbi sulle sanzioni alla Russia. Tutta la via crucis delle presidenziali francesi nate sotto l’ossessione di evitare una possibile vittoria del Front National, che riaprirebbe tutti i giochi europei comincia l’estate scorsa in un campo di battaglia complicato e insidioso:
Togliamoci dai piedi quanti cacciano uno strilletto entusiasta ogni volta che si affaccia una nuova tecnologia, di modo che il rumore non ci distragga da quel dobbiamo intanto vedere, misurare, analizzare e infine capire. Togliamoci insomma dai piedi tutti quelli che ammanniscono una versione "colta" dell’istinto da gregge caratteristico di quanti fanno la fila per comprare l’ultimo modello della cosa che hanno già in tasca.
La sharing economy è stata fin qui probabilmente il tema più sfruttato da questi pubblicitari (forse) involontari del capitalismo reale: condividere un bene privato, farne fonte di utilità comune, guadagnarci entrambi qualcosa (io che lo metto a disposizione in termini di reddito, colui che lo usa in termini di risparmio)… cosa ci potrebbe essere di più progressista, evolutivo, quasi comunista?
Quel che scompare in questa immagine idilliaca (e falsificata) della sharing economy è il terzo soggetto, quello che non condivide proprio nulla e anzi prende da entrambi i “condivisori”: il proprietario della piattaforma che mette in comunicazione proprietario stabile e consumatore occasionale, aggirando ogni regolazione del mercato esistente (norme di sicurezza, salario, tasse, ecc).
Due opere recenti mostrano come il pensiero critico e anticapitalista cominci a ad uscire dalla gabbia dell’omologazione progressista
Con questo testo Carlo Formenti intende prendere qualche distanza dal progressismo di sinistra genericamente inteso, partendo dalla constatazione che dagli anni settanta-ottanta del xx secolo, «le culture di sinistra (socialdemocrazie, nuovi movimenti sociali, femminismo, ambientalismo, movimenti per i diritti civili, ecc.)» hanno subito una mutazione sociale, politica, antropologica, cosí profonda da essere diventati «soggetti attivamente impegnati nella gestione dei nuovi dispositivi di potere», il progetto egemonico che definisce ordoliberista, teso alla costruzione di un uomo nuovo, conforme su tutti i piani all’ideologia del capitalismo globalizzato.
È da qui, dalla ricerca delle cause del fenomeno, e dall’analisi delle trasformazioni del capitalismo, che l’autore sviluppa una serie di ragionamenti che lo portano, come vedremo, a ripensare la categoria marxiana di general intellect ma anche a spostare l’identificazione dei soggetti politici anticapitalistici dalla classe operaia dei paesi sviluppati, incarnanti il punto piú alto di contraddizione fra rapporti di produzione e forze produttive, a quegli strati sociali che vivono ai «margini del sistema», quali le masse operaie super-sfruttate dei paesi in via di sviluppo, i migranti, le classi medie precipitate «nell’inferno del terziario arretrato», i precari, i sottoccupati, in generale «gli esclusi e gli emarginati di ogni regione e di ogni settore produttivo».
facciamosinistra! ha
il piacere di ospitare
nelle sue pagine il pensiero di Sergio Cesaratto, professore
ordinario di Politica monetaria e fiscale dell'Unione
Economica e Monetaria europea,
Economia della crescita e Post-Keynesian Economics
all'Università di Siena, e autore, tra gli altri, di un
libro estremamente interessante
intitolato "Sei lezioni di economia", adatto a tutti quelli
che desiderano capire più profondamente una crisi che sembra
non avere
fine.
* * * *
1° Prof. Cesaratto, stiamo vivendo in una fase storica di grandi cambiamenti: prima il Brexit, poi la vittoria di Donald Trump e ora, in sequenza, si terranno le elezioni in Olanda, Francia e Germania che potrebbero modificare ulteriormente lo scenario internazionale, in particolare quello dell'UE. A prescindere dall'esito che uscirà dalle urne, è chiaro che i partiti pro-establishment sono entrati in una profonda crisi specialmente quelli che fanno riferimento al PSE. Non sarà mica che a ad essere le pallide fotocopie dell'originale, leggesi "terza via" di Blair, si perde consenso?
"La terza via si è rivelata per quel che era: una versione neppure troppo mascherata del neo-liberismo. Un tempo la terza via era la socialdemocrazia, fra socialismo reale e capitalismo liberista. Soprattutto nelle sue versioni migliori come quella scandinava, quella terza via era, e rimane, una cosa seria.
(Con un intervento in calce di Enzo Brandi e Stefania Russo)
Andiamo indietro almeno fino alla guerra
contro la Jugoslavia e vedremo come ogni crimine di guerra,
ogni crimine contro l’umanità, ogni crimine di aggressione
economica,
sanzioni, embargo, blocco, diretti contro paesi sovrani,
indipendenti, liberi, che si difendono contro i tentacoli
della piovra imperialista,
essenzialmente Usa, Israele, UE e Nato, vengano preceduti e,
dunque, facilitati dall’intervento di Amnesty
International, Human Rights Watch
(quella di Soros) e Save the Children, le tre
sedicenti organizzazioni per i diritti umani di matrice
angloamericana. Sono loro le tre
Parche, o, per i Greci, Moire, figlie depravate di Zeus e
Temi, che pretendono di governare vita, destino e morte degli
umani. Al loro seguito
formicolano altre entità minori con il compito di rafforzare,
a livello tecnico e di categoria, l’impatto delle operazioni
propagandistiche delle tre sorelle del crimine umanitario
organizzato, tipo Avaaz, Medici Senza Frontiere, Reporter
Senza Frontiere.
Alle origini e al vertice hanno tutti gente che una persona perbene non toccherebbe con una pertica. Il Kouchner di MSF, sodale del filosofo sguattero Henry Levy e agitprop della guerra dei briganti UCK contro la Serbia; il Robert Ménard di RSF, che sostiene la tortura, lavora con il terrorista anticastrista Otto Reich, viene pagato dalla Cia e si permette di dare la classifica delle libertà di stampa; Tom Perricello, deputato democratico e fautore dell’attacco all’Afghanistan e Tom Pravda, consulente del Dipartimento di Stato, più una spruzzatina di Wall Street, a capo dell’agenzia di raccolte firme e schedatura dei farlocconi Avaaz, fondata da MoveOn, la piattaforma di ogni perfidia imperialista.
Quando la Corte Costituzionale ha confermato nella legge elettorale i capilista bloccati ed ha abbassato al 3% la soglia di sbarramento, ha anche indirettamente decretato l’avvio di una stagione di scissioni nei partiti, a cominciare dal PD. Il meccanismo dei capilista bloccati conferisce al segretario di partito un potere assoluto nella scelta dei parlamentari, perciò alle minoranze conviene andarsene, visto che il 3% non costituisce una soglia troppo rischiosa. Che le motivazioni della scissione bersaniana del PD siano di carattere elettorale, lo ha confermato lo stesso Bersani quando ha detto che non vuole fare una “cosa rossa” ma una “cosa che non sputi sul rosso”, cioè non si tratta di cambiare davvero politica, bensì di abbandonare il fallimentare tentativo renziano di sfondare nell’elettorato di destra adottando il suo linguaggio; un tentativo che ha avuto l’unico effetto di perdere gran parte dell’elettorato di sinistra. Per questo motivo Bersani non ha rinunciato ad una verniciatura ideologica un po’ più “radical” della propria scelta scissionista, annunciando ai suoi ex colleghi di partito che gli anni ‘90, con la loro retorica globalista, ormai sono lontani, dato che anche negli USA la musica sembra cambiata.
Dopo averci rotto le scatole per anni coi suoi racconti demenziali sulla superiorità, soprattutto economica, degli USA, persino il giornalista Alan Friedman si è svegliato d’un colpo e ha scritto un libro incendiario: “Questa non è l’America”;
Cloud, stream, villaggio globale, navigazione: il nostro rapporto con il web si basa su metafore non sempre neutrali. Artisti, ricercatori e designer ci aiutano a farne un uso cosciente
Vi ricordate il villaggio globale? L’espressione fu coniata dal sociologo e filosofo canadese Marshall McLuhan, autore de Gli strumenti del comunicare e principale figura di riferimento nell’ambito della teoria dei media. Questa fortunata immagine sintetizzava il ridimensionamento del mondo in seguito allo sviluppo della tecnologia elettrica, estensione del sistema nervoso umano a vera e propria rete globale. Il termine “villaggio” restituiva un’idea di intimità, ma anche di entusiasmo quasi pioneristico. Una generazione più tardi, quando il futurologo americano Alvin Toffler pubblicò nel 1980 La terza ondata, la formula proposta era invece quella del “cottage elettronico”: grazie al telelavoro, ciascuno sarebbe stato libero di lavorare comodamente dalla propria abitazione, rinforzando dunque i propri legami familiari e il senso di comunità.
Benché entrambi i termini suonino per certi versi nostalgici, le due metafore sono significativamente diverse e riflettono due visioni del mondo contrastanti: l’una, infatti, sottolinea come realtà fisicamente distanti si trovino, grazie al web, a essere più prossime;
Oggi sul Foglio Tommaso Nannicini - il docente della Bocconi che è anche l'economista più influente del renzismo - spiega in che cosa consiste il "lavoro di cittadinanza" proposto dall'ex premier:
«Non un piano di lavori socialmente
utili di massa ma una sfida
culturale. (...) Non è lo Stato chioccia che trova lavoro
a tutti, ma una visione per tenere insieme crescita e
inclusione sociale continuando
sul percorso tracciato dal Jobs Act, attraverso un menù di
policy diverse che favoriscano l'attivazione e mettano al
centro il capitale umano.
(...) Ad esempio, servizi di riattivazione sociale con
offerte formative che trovino sbocchi lavorativi, una dote
messa dallo Stato che si spende per
un processo formativo in un circuito di soggetti (...), un
esonero contributivo individuale che il giovane si porta
dietro in qualunque azienda.
È il pezzo mancante del Jobs Act».
Nannicini ha ragione: così, è un altro pezzo di Jobs Act.
Perché è ispirato alla stessa cultura, alla stessa ideologia.
Secondo questa proposta, infatti, la società, attraverso le sue istituzioni e la sua fiscalità, non deve intervenire a ridistribuire i capitali accentrati a causa del mix recente di mutamenti tecnologici e scelte economiche;
Forse non tutto è perduto. Forse l’appoggio sostanziale che ha ricevuto l’agitazione dei tassisti contro l’assalto delle multinazionali dello sfruttamento nonostante l’emersione grottesca dei soliti fascio capracottari, significa che qualcosa comincia a cambiare e che inizia timidamente a farsi strada la consapevolezza del futuro di impoverimento selvaggio e perdita di diritti che ci attende, nonostante il terribile panorama sia circonfuso di parole come produttività, concorrenza, vantaggio per i consumatori che in realtà sono pure costruzioni intellettuali prive di realtà se non nei loro aspetti negativi. Evito per il momento di alimentare una certa batracomiomachia da commessi viaggiatori e di analizzare – per esempio – il termine concorrenza che è solo un concetto limite irrealizzabile nel mondo concreto , una polpetta avvelenata data in pasto all’immaginario popolare. Intendo invece lamentarmi del fatto che persino gli antagonisti non riescano a sfuggire alla pessima gergalità neo liberista e parlino tutti, in relazione alla vicenda dei tassisti e di Uber di sharing economy o gig economy.
Essi sono trascinati nel gorgo e usano espressioni prive di radice semantica, che è linguisticamente un semplice segnaposto destinato a smorzare l’impatto della realtà e a circoscriverlo alle attività che si servono della rete, dando l’illusione ai più di esserne in qualche modo fuori.
Quando si dice la fantasia! Se i fanatici del "vincolo esterno" tornano al lessico degli anni novanta...
A volte è bello notare quanto sappia esser nostalgico il "nuovo". E più che il ritorno di concetti mai davvero dismessi, colpisce la ricomparsa di certe parole. Quelle sì almeno in parte eclissatesi nel tempo della crisi. Adesso però riemergono, nell'umana illusione che la fine sia un inizio.
Non stiamo filosofeggiando su una sorta di "eterno ritorno" alla Nietzsche. Molto più modestamente ci stiamo solo occupando dei nostrani fanatici del "vincolo esterno", quelli che l'Italia la vorrebbero raddrizzare facendola a pezzi a colpi d'Europa.
Abbiamo già parlato di costoro un paio di settimane fa, a proposito di quel che bolle nel grande pentolone eurista. C'è infatti in giro una nuova narrazione, quella secondo cui anche l'Unione Europea per sopravvivere ha bisogno di un "vincolo esterno", e questo sarebbe inopinatamente arrivato con l'elezione di Trump.
Siccome - questa grosso modo è la tesi - con il nuovo presidente gli USA non considerano più l'UE come un bene da preservare, occorre che gli europei imparino a badare a se stessi.
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1. Questo video è ormai molto
noto.
In esso Draghi spiega come deve funzionare, per necessità scientifico-economica e politica, l'eurozona. E parte direttamente dalla necessità degli "aggiustamenti", tra i paesi dell'eurozona. Spiega, nella seconda parte, delle divergenze di crescita e di inflazione tra i paesi che vi appartengono e di come ciò dia luogo a fenomeni di movimento di capitali che, dai paesi più competitivi e con tassi di inflazione più bassi, finanziano le importazioni da parte dei paesi meno competitivi.
Racconta, per implicito, come l'invariabilità del cambio favorisca tutto ciò, rendendo conveniente effettuare questo credito da parte dei sistemi bancari dei paesi più forti e di come, però, a un certo punto, le posizioni debitorie così create (sottintende dovute principalmente a credito privato da scambio commerciale e da affluenza di capitali attratti dai tassi di interesse più alti nei paesi a inflazione maggiore), divengano eccessive e quindi "rischiose" (anche perché ciò droga la crescita col capitale preso a prestito e genera ulteriore innalzamento dell'inflazione).
Sylos Labini spiega come funzionava
il MEFO, la moneta fiscale che permise al Terzo Reich di
riguadagnare la sovranità monetaria dopo la depressione
economica di Weimar
(1921-1923) e Bruning (1930-32).
La tesi dell’economista è che questo meccanismo, i Certificati di Credito Fiscale potrebbe essere usato di nuovo per portare l’Italia e il paesi del Sud Europa fuori dalla stagnazione in cui versano a causa degli squilibri dell’euro, possibilmente prima che la xenofobia nazista si prenda una seconda opportunità. Tratto da IlSole24Ore.
Credo che ci sia un tema importante, che bisognerebbe portare all’attenzione dei tedeschi. Ogni anno c’è il giorno della memoria, in cui si ricordano le atrocità del nazismo, ma in realtà bisognerebbe riflettere su che cosa ha determinato l’ascesa del nazismo e perché poi il nazismo ha trovato un grande consenso nella popolazione ed è stato in grado di lanciarsi nella seconda guerra mondiale con una forza industriale e militare spaventosa.
E la risposta è semplice: il Trattato punitivo di Versailles, che umiliò la Germania e la politica economica di Hjalmar Schacht, che permise di migliorare le condizioni di vita dei tedeschi e di ricostruire un apparato militare-industriale potentissimo. Attraverso una politica di sovranità monetaria indipendente e un programma di lavori pubblici che garantiva la piena occupazione, in cinque anni il Terzo Reich riuscì a trasformare un’economia in bancarotta, gravata da rovinosi obblighi di risarcimento postbellico e dall’assenza di prospettive per il credito e gli investimenti stranieri, nell’economia più forte d’Europa.
1. Il neoliberalismo e
governo attraverso la libertà: un “controllo delle anime”
senza resistenze?
Il paradosso dell’esperienza della libertà nella fase della storia umana caratterizzata dall’avvento della connessione globale, può essere presa in considerazione solamente compiendo un’analisi del potere. Psicopolitica di Byung-Chul Han[1], professore filosofo coreano presso l’Università di Berlino, è un libro che prova a gettare luce su svariati ambiti della contemporaneità neoliberale a partire da uno sguardo critico che vuole evidenziarne alcune sfaccettature e alcune forme in cui si incanalano le soggettività e il potere.
Psicopolitica è il titolo che prova a farsi interpretazione cogente della complessità entro cui oggi tutti ci troviamo collocati. Il tentativo di coniare questo termine si pone l’obiettivo di andare oltre l’oramai celebre concetto di biopolitica di Michel Foucault. Per l’autore coreano la biopolitica deve essere semplicemente intesa come “tecnica di governo della popolazione”, che utilizza forme di sapere che la intendono come un aggregato biologico umano, caratterizzato da tassi di natalità e strumenti propri della demografia, allo scopo di ottimizzare i corpi che è necessario disciplinare, poiché la loro attività deve essere modellata e gestita secondo degli schemi pensati e organizzati dall’esterno. Biopolitica è intesa come “sussunzione reale” dell’intera popolazione messa al lavoro a servizio della produzione, in un modello che si è realizzato pienamente nel quadro di produzione industriale fordista.
Domani è l’8 marzo. Lo sciopero globale delle donne sta irrompendo con una forza senza precedenti in oltre 40 paesi, ma non si tratta semplicemente di un evento. Ormai da mesi l’8 marzo scandisce il tempo di milioni di donne nel mondo, accende la loro immaginazione, suscita il loro desiderio, alimenta la loro ambizione di protagonismo, accresce la loro pretesa di potere. L’8 marzo arriva domani, ma i suoi effetti sono già cominciati. Domani è l’8 marzo e ci sarà uno sciopero politico. Le donne scioperano perché non sono più disposte ad accettare di essere sfruttate, violentate e oppresse. L’obiettivo non è l’accordo con un padrone, ma la trasformazione radicale della società. Lo sciopero delle donne non è il supporto di un tavolo di contrattazione o di una piattaforma vertenziale. Per questo la CGIL ha rifiutato di proclamarlo e continua a definirlo «simbolico», più preoccupata di salvaguardare se stessa dall’uso «indebito» dello sciopero che non a sostenere le donne che lo stanno praticando. Eppure tantissime donne, anche iscritte alla CGIL e alla FIOM, in questi mesi si sono quotidianamente impegnate a farlo diventare reale nelle scuole e nelle fabbriche, negli uffici e nei magazzini, negli ospedali e nelle università.
Il prossimo 8 Marzo è stato indetto sciopero generale contro la violenza di genere e per l'autonomia dei centri antiviolenza. Donne e uomini di tutto il paese sono chiamati a interrompere il lavoro per porre all'attenzione dello Stato e di chi lo governa che la responsabilità della violenza sulle donne è innanzitutto loro.
Perché un paese in cui non si tutela chi lavora, in cui si copre il lavoro nero, in cui non si garantisce la sicurezza sul lavoro, in cui si tagliano i fondi per il sistema scolastico e per quello sanitario e che non si occupa dell'assistenza a bambini ed anziani è un paese che promuove la competitività e la violenza come unica modalità di relazione possibile. Se lo sfruttamento e l'autoritarismo sono all'ordine del giorno, infatti, anche le relazioni umane si imbarbariscono e si ha una continua guerra tra poveri dove a subirne le conseguenze più gravi sono le fasce della popolazione che hanno meno risorse per ribellarsi. Perché la violenza di genere ha basi culturali ma soprattutto materiali.
Non è un caso che si sia deciso di utilizzare come strumento di lotta lo sciopero, un'arma importante nelle mani della classe lavoratrice per ricordare a governanti e padroni che sono loro a dipendere da noi e non il contrario.
In almeno 40 paesi in tutti i continenti l'8marzo sarà sciopero delle donne. Sciopero contro l'oppressione e la violenza esercitata sulle donne dai maschi. Sciopero contro le discriminazioni e lo sfruttamento che il capitalismo liberista impone in particolare alle lavoratrici, nel nome della flessibilità e della produttività a tutti i costi. Sciopero contro le discriminazioni salariali e gli orari assurdi che costringono le donne a un doppio carico di fatica sul lavoro produttivo e su quello riproduttivo e di cura. Sciopero contro i tagli allo stato sociale che sulle donne si scaricano il doppio come danni alla vita e come fatica in più per accudire di più chi meno viene accudito. Sciopero contro la cancellazione dei diritti conquistati con tanta sofferenza, come quello alla tutela pubblica dell'aborto. Sciopero contro la mercificazione del corpo delle donne, dove il peggio del dominio del maschio si unisce al peggio del dominio del mercato.
Ho trovato queste e tante altre rigorose e precise motivazioni nello sciopero senza precedenti con cui donne di 40 paesi nel mondo l'8 marzo prossimo faranno sentire la loro voce a difesa loro e a liberazione di tutti. Così la festa delle donne esce dalla sua deformazione ipocrita e consumista e torna alla sua origine.
8 marzo, festa delle donne. Ecco un’altra occasione per fermarsi a riflettere sull’odierna condizione femminile, affrontando la questione perché prima o poi si arrivi a dirimerne i nodi ancora irrisolti. Certo cambiano i tempi, si modificano le tematiche, e là dove certi risultati vengono raggiunti nuove battaglie si profilano all’orizzonte. Perché oggi la donna deve districarsi in un mondo capace di offrirle delle opportunità ma che talvolta nei suoi discorsi e nelle sue trame le riserva più di un’insidia. In primis ovviamente c’è la violenza, la quale quando è rivolta contro il gentil sesso assume i contorni di un vero e proprio femminicidio, e tuttavia, se ciò può consolare, i fatti più sanguinosi sono anche quelli che la coscienza collettiva meglio registra rielaborandoli in quanto problema. Ancor più infide sono invece quelle minacce che il tessuto sociale non rileva come tali, perché le ha metabolizzate o addirittura perché le ha integrate nella propria simbolica tanto da renderle costume. E proprio la simbolica alla base del nostro vivere assieme diviene oggi l’arena in cui le donne si trovano a doversi difendere da tutta una serie di attentati alla loro dignità, attentati tanto “silenziosi” quanto distruttivi. Allora il femminicidio risulta essere solo l’aspetto visibile e cruento di un più profondo clima culturale, ove si prende di mira la donna in quanto figura sociale non tanto nella sua dimensione privata quanto nella sua dimensione pubblica.
E’ molto signorile Laura Pennacchi a resistere alla tentazione di parlare di frode a proposito della proposta di Renzi di “lavoro di cittadinanza” in alternativa al “reddito di cittadinanza”. In effetti avrebbe tutte le ragioni, dal momento che tale proposta è stata da lei presentata più volte negli scorsi anni in nome dell’obiettivo della piena e buona occupazione e ha già suscitato sul sito di Sbilanciamoci un ampio dibattito . E’ chiaro che Renzi usa tale espressione in modo diverso e ipocrita per finalità in parte opposte a quelle evocate da Pennacchi. Se l’obiettivo può essere lo stesso (il raggiungimento della piena occupazione), le modalità sono in effetti differenti. Laura Pennacchi insiste sull’esistenza di una dicotomia tra lavoro e reddito e, se – come ci ha insegnato Keynes – l’economia di mercato non è in grado di raggiungere tale obiettivo per carenza di domanda effettiva (e non per una presunta rigidità del mercato del lavoro, come è invece implicito nella filosofia del Jobs Act renziano), l’unica strada percorribile è una robusta iniezione di investimenti pubblici sul modello del New Deal roosveltiano degli anni ’30.
New Deal, per l’appunto. E’ possibile una sua riattualizzazione? Ne dubitiamo, se non altro perché a 85 anni di distanza, le modalità del processo di accumulazione e, soprattutto, di valorizzazione (creazione di ricchezza) sono drasticamente mutate.
“Oh che bel castello marcondiro ndiro ndello,
oh che bel castello marcondiro ndiro ndà”
“Il mio è ancora più bello marcondiro ndiro ndello,
il mio è ancora più bello marcondiro ndiro
ndà”
”E noi lo ruberemo marcondiro ndiro
ndello,
e noi lo ruberemo marcondiro ndiro
ndà”
”E noi lo rifaremo marcondiro ndiro
ndello,
e noi lo rifaremo marcondiro ndiro
ndà”
Filastrocca
Nei documenti e negli appelli in vista dello sciopero delle donne chiamato per questo 8 marzo 2017 dalla socialdemocrazia femminile, vengono dette e sono state dette tante cose. Vengono dichiarate le condizioni lavorative ed economiche a cui sono sottoposte le donne, i salari ridotti in molti casi rispetto a quelli maschili, la licenziabilità, il ricatto della gravidanza, lo strumento infido del part-time, le molestie sessuali a svariatissimi livelli sul posto di lavoro e le vessazioni quotidiane, la subalternità e lo sfruttamento delle lavoratrici migranti…
Di ritorno
dalla California, Renzi si imbatte nella difesa del lavoro,
come principio sui cui la Repubblica italiana si fonda, con
questa argomentazione respinge
l’idea del reddito di cittadinanza che al contrario del lavoro
è, secondo lui, incostituzionale. Un atteggiamento che rasenta
il
paradosso, ma anche una non banale dose di approssimazione su
argomenti chiave: il lavoro, il reddito, l’autodeterminazione
individuale e
collettiva, la libertà.
Paradossalmente Renzi parla di lavoro come diritto costituzionalmente garantito nonostante le riforme adottate dal suo governo in materia di lavoro e occupazione siano ben distanti dai principi fondamentali della Carta.
Il lavoro e la costituzione.
A partire dalle periferie del mercato del lavoro, quello gratuito, in appalto o a voucher in cui sono negati i diritti previsti dall’art 36 della Costituzione in base al quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Una battaglia per difendere internet, ma
soprattutto una lotta per bloccare lo Stop Online Piracy
Act, la controversa proposta di legge Usa per fermare la
pirateria online. La cronaca
è di Aaron Swartz, il corsaro della Rete morto suicida nel
suo appartamento di Crown Heights, Brooklyn l'11 gennaio del
2013. Oggi più
che mai serve ricordare questo hacktivist, perché non
dobbiamo "mai farci illusioni: i nemici della libertà di
usare la Rete non sono
scomparsi. L'ira negli occhi di quei politici non è stata
cancellata. Ci sono un sacco di persone potenti che vogliono
reprimere Internet. E a
essere onesti, non ce ne sono tante che hanno interesse a
proteggerla da tutto ciò".
Di seguito pubblichiamo l’intervento alla conferenza F2C2012 (Freedom to Connect), del 22 Maggio 2012. Traduzione di Mauro Pili (Da “AARON SWARTZ (1986 – 2013) una vita per la cultura libera e la giustizia sociale”, progetto e coordinamento a cura di Bernardo Parrella e Andrea Zanni).
* * * *
Per me, tutto è iniziato con una telefonata. Era settembre, non dell’anno scorso, ma quello prima, settembre 2010. Ho ricevuto una telefonata dal mio amico Peter: «Aaron, c’è un disegno di legge incredibile al quale devi dare un’occhiata». «Cos’è?», ho chiesto.
I processi di privatizzazione e di decentralizzazione attuati dall’Ue negli ultimi anni sono stati tutti occasione, per le reti dell’economia del favore e dell’accumulazione privata, di accelerare i processi corruttivi
La vicenda che pare proprio coinvolgere la famiglia Renzi, assieme a un giro di amici noti alle cronache nazionali, ripercorre schemi già noti. Quelli di una rete – territoriale o familiare a seconda del processo di formazione – in grado di entrare nell’amministrazione dello stato, di affiliarsi con altre reti simili per estrarre fondi quanto più possibile grazie attività di relazione e di mediazione.
Le modalità familistiche o territoriali di formazione della rete, o quelle di rafforzamento di vere e proprie strutture di clan professionali, fanno capire molto dello spessore antropologico del potere italiano. In poche parole, del potere reale quello che si nasconde, spesso nemmeno troppo, dietro le forme. I Renzi sono una delle forme che assunto, più recentemente, questo potere.
L’alleanza della rete Renzi con Verdini, che queste forme del potere le conosce bene essendo stato in Forza Italia (la struttura di celebrazione del potere del neotribale italiano recente), è forse quella che aiuta di più a leggere questo spessore antropologico. Quello che caratterizza la rete dei Renzi, e comunque in tutte le reti di potere che mantengono un carattere provinciale, è la persistenza del potere patriarcale del capostipite.
I complotti e le cospirazioni ci sono sempre stati e così l’idea che qualcuno possa complottare, ma fino a una cinquantina di anni fa non esisteva come categoria e nemmeno come vocabolo il complottismo, che fu coniato dalla Cia per indicare chi non credeva che a uccidere Kennedy fosse stato Oswald o il solo Oswald, il che a 50 anni di distanza ci spinge a pensare che siamo tutti complottismi convinti. La parola tuttavia ha ricevuto il suo battesimo del fuoco e la sua diffusione globale dopo l’11 settembre del 2001 quando vennero designate come complottiste una serie di persone le quali mettevano in dubbio il complotto contro gli Usa messo in atto da un miliardario pazzo e da alcuni governi, sostenendo sulla base di alcuni dati, col tempo divenuti sempre più “veri,” che le dinamiche della vicenda erano in realtà un complotto del potere deciso proprio per intraprendere una guerra al terrorismo e al tempo stesso per ridurre la democrazia. Il fatto è che nel ’63 dominava ancora il criterio di verità e la stessa parola complottismo suonava come stonata e sospetta, ma via via che il pensiero unico e le sue ideologie prendevano piede, il vocabolo cominciò ad avere più senso e ad affermarsi.
Come si vede nel caso dell’11 settembre sia le verità ufficiali che quelle per così dire alternative riguardavano un effettivo complotto, ma i complottisti erano esclusivamente quelli che sbagliavano complotto,
In questo “paese senza”, lo storytelling è ormai un instrumentum regni. C’è un problema? Basta dire che si è trovata la soluzione (senza dire quale) e tutti si placano.
Quando arriva il momento della verità la soluzione, quella vera, non interessa più a nessuno. Abbiamo visto governi annunciare, dopo un Consiglio dei ministri, interventi che salvano la scuola, esaltano la cultura; per poi scoprire che il testo era ancora tutto da scrivere. Vediamo ora il Comune di Roma adeguarsi al costume, e fare altrettanto con la vicenda stadio.
La discussione, anche dentro un M5S sempre più diviso (ma sempre più forte grazie alle debolezze altrui), riguardava l’enormità dell’operazione edilizia, in cui lo stadio è una piccola parte rispetto a un milione di metri cubi di costruito, un Business Park con tre grattacieli firmati dall’archistar di turno (altezza 220 metri). Dopo il consueto zig-zag di dichiarazioni, ecco il miracolo: dimezzate le cubature (ma dove?), decapitati i grattacieli (ma di quanto?), ridotte le opere pubbliche (e il verde?). La descrizione cambia a seconda di chi ne parla: l’importante è dire che c’è l’accordo fra Roma (intesa come città) e la Roma (intesa come società calcistica). L’importante è che il M5S dia un messaggio rassicurante:
Prendo spunto per questo intervento da un articolo dal quale si può ancora una volta desumere che la situazione del ceto intellettuale “che conta” è “disperata ma non seria”. Il giornalista e politologo Paul Berman (da non confondere con il filosofo, presunto marxista, Marshall Berman autore di un “popolare” saggio sulla “tarda” modernità) ha scritto un “curioso” articolo nell’ultimo numero del mensile del Sole 24 ore. Berman è un ideologo e corifeo, piuttosto noto, della cricca che capeggia tuttora il partito democratico Usa. Il problema per quanto mi riguarda nasce, poi, anche dal fatto che il professore tira in ballo il grande teologo islamico Al-Ghazālī (1058 – 1111) forse per dare l’impressione di essere un vero erudito e non un misero scribacchino. Berman scrive che Al-Ghazālī
<<sosteneva che le leggi naturali non esistono e che non esiste neppure il rapporto causa-effetto, in quanto quello che accade è deciso da Dio e non dalle leggi scientifiche [e obiettare a questa tesi con l’affermazione – A.d.r.(1)] che il volere di Dio e le leggi naturali sono la stessa identica cosa significa ridurre Dio a un sistema meccanico. Ma Dio non è una macchina. Pertanto, le leggi naturali non esistono>>.
A questo punto, non riesco a farne a meno, sono costretto a tediarvi un po’ con alcune citazioni anche un po’ lunghette. In una recensione a Le perle del Corano Carlo Saccone scrive:
I recenti avvenimenti negli Stati Uniti – con l'elezione e l'insediamento di Donald Trump come presidente e l'entrata in funzione della nuova amministrazione da lui diretta – continuano a porre comprensibili domande in merito ai loro reali impatti nello sviluppo dell'agenda neoliberale e aggressiva che ha caratterizzato le diverse amministrazioni statunitensi che si sono succedute e le loro conseguenti ripercussioni sul piano interno ed esterno, poiché rappresentano un fattore aggiuntivo di incertezza e instabilità nell'attuale situazione internazionale.
Come è stato sottolineato, le ultime elezioni negli Stati Uniti hanno evidenziato con insolita chiarezza, e come da molto tempo non accadeva in questo paese, importanti fratture nella società statunitense e significative spaccature in seno alla classe dominante, che hanno svelato la profonda crisi economica, sociale e politica della principale potenza del mondo capitalista, che è espressione dell'approfondimento della crisi più generale e strutturale del capitalismo.
Allo stesso modo, con le sue dichiarazioni e azioni iniziali, il nuovo presidente statunitense, assumendo e riaffermando chiaramente l'obiettivo strategico degli Stati Uniti, vale a dire, la prevalenza della sua egemonia mondiale, ha posto anche in primo piano le rivalità, a fronte delle contraddizioni e al binomio rivalità-concertazione, che caratterizzano le relazioni tra le grandi potenze imperialiste.
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Anche se spesso i nostri
giornalisti - oltre
che piddini
vari, preda di
auto-razzismo patologico - fanno finta di ignorarlo, l'Unione
Europea non è l'Europa (dalla quale, in quanto mera
espressione geografica, non
usciremo mai fino a quando non lo vorrà la deriva dei
continenti) bensì Leuropa.
Imperfetta quanto si vuole -
dal momento che la vera Leuropa è sempre Laltra,
che non esiste - ma (secondo
i sullodati scienziati) comunque un
successo.
Ma cos'è, davvero, Leuropa? Perché lasciarla porterebbe a crisi economiche e corse agli sportelli (fenomeni notoriamente sconosciuti nei Paesi della Leuropa), piogge di sangue, invasioni di cavallette e, se del caso, morte prematura dei primogeniti, esattamente come sta accadendo nel Regno Unito della Brexit?
Leuropa (l'unica esistente) si basa su quattro pilastri (art. 26, c. 2, Tfue), il cui fine ultimo (non è la prosperità delle persone, o la coesione sociale, o la protezione dei deboli, o che so io, bensì) è la pura e semplice creazione di un mercato interno fortemente competitivo (artt. 101 e ss., Tfue).
(Certo, la creazione di un mercato interno può lasciare sul campo morti e feriti. La Commissione si può adoperare per ridurre un po' il dolore.
Si sente
spesso parlare della "proletarizzazione del ceto medio" come
fenomeno sociale dell'attuale epoca economica. Recentemente,
sull'Espresso,
discorrendo dei recenti tumulti romani di tassisti e
ambulanti, l'editorialista Gilioli aveva modo di notare come
"con un po' di lucidità e lungimiranza oggi potremmo mettere da parte l'antipatia per capire come la campana ora suona per loro ma domani o dopo suonerà per tutti noi - anzi per molti ha già suonato.[…] i conducenti di auto bianche sono obsoleti, è evidente. Oggi c'è Uber, c'è Enjoy, c'è Car2go, ci sono pure ZigZag e Scooterino, e tutte o quasi funzionano meglio, a minor prezzo. Tra un po' ci sarà pure l'auto che si guida da sola e buonanotte, il taxista finirà come il casellante, il linotipista, lo spazzacamini. […] Poi però accadrà che altre tecnologie - altre app, altri sensori, altri robot, altri outsourcing, altre intelligenze artificiali - renderanno altrettanto obsoleto quello che facciamo noi, cioè il nostro modo per portare a casa un reddito. Ci saranno soluzioni più soddisfacenti per i consumatori di quanto siamo noi, a un costo minore. Nessuno, fuori, ci rimpiangerà."
Viene spontanea una riflessione: il progresso tecnologico non ha un effetto neutro: dipende dalle mani e dai cervelli che lo possiedono.Non è la tecnologia che opprime ma il profitto capitalista Personalmente non vedo affatto negativamente un mondo in cui un certo tipo di lavoro divenga obsoleto e vi siano dei mezzi tecnici per evitarlo.
Jacques Lacan è di moda. Ha tutte le carte in
regola, per esserlo. C’è il personaggio, il dandy drappeggiato
di
buffe camicie barocche, armato di uno strano sigaro
attorcigliato e di una ricca serie di sentenze misteriose e
fascinose. E c’è il suo
insegnamento psicoanalitico, un discorso che nel giro di una
pagina passa con nonchalance dalla drammatica dialettica
servo-padrone all’algida
eleganza dello strutturalismo, dagli enigmi esistenziali del
desiderio all’improvviso balenare del misteriosissimo oggetto
a piccolo. Infine
c’è la materia bruta, incandescente, concretissima, intorno a
cui ruotano il personaggio e l’insegnamento, cioè la vita di
chiunque di noi, il suo percorso più o meno felice o infelice,
di illusione in illusione, di scoperta in scoperta, di amore
in amore. Quei
concetti enigmatici e quelle manovre tortuose, di cui
l’insegnamento di Lacan è intessuto, dovrebbero seguire nella
loro
tortuosità, illuminare nei loro anfratti più oscuri,
accompagnare sperimentandone il segreto in fondo testardo e
silenzioso, il tragitto
di una vita. Ce n’è abbastanza, insomma, per essere di moda. E
anche per resistere a ogni moda.
Per esempio, il libro che Alex Pagliardini dedica a Lacan, Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale (Galaad), è decisamente fuori moda. Il Lacan più noto è il Lacan che si riassume in una batteria di parole chiave ormai sulla bocca di tutti.
Può stupire che gli scissionisti del Pd dichiarino da subito l'intenzione di allearsi col loro ex partito, ma in fondo sono figli della stessa cultura, della quale si propongono al massimo di temperare gli eccessi liberisti. Così, però, l'area di sinistra, che "vale" circa il 10%, risulterà frazionata e quindi non in grado di richiamare chi si è rivolto ad altri partiti o all'astensionismo
Negli ultimi anni siamo stati abituati a leader che dichiaravano che il loro partito era "a vocazione maggioritaria". Altre formazioni si propongono invece di dare una testimonianza: sanno cioè che non riusciranno mai a diventare maggioranza, ma ritengono più importante diffondere le loro idee che scendere a compromessi con chi le ha diverse. Oggi è forse la prima volta che si dà vita a un partito (per ora un movimento, ma già con i suoi gruppi parlamentari)"a vocazione subalterna". I suoi esponenti non hanno usato queste parole, ma il senso è indubbiamente quello.
Parliamo della formazione appena nata da una doppia scissione, una dal Pd e una da Sel. I suoi esponenti hanno dichiarato il loro proposito di allearsi in un prossimo futuro con il Pd, nonostante che si propongano di rappresentare quelle istanze progressiste che il partito di Renzi ha da tempo abbandonato.
Subito dopo il 4 dicembre, scrissi un pezzo, che sosteneva l’opportunità di togliere di mezzo il Pd, in quanto fattore di intossicazione della politica nazionale. E, per la verità, c’era di che pensare che fosse venuto il momento: una sconfitta come quella del 4 dicembre è di quegli avvenimenti che non restano senza conseguenze, ma non avrei mai immaginato che le cose sarebbero andate al galoppo sino a questo punto.
Nell’immediatezza c’è stata la crisi di governo (prevedibile e scontata), e, poco dopo l’intervista di Napolitano al Messaggero che segnava il “licenziamento” di Renzi da parte di quel mondo che, sin lì lo aveva sostenuto (era nel conto, ma non in termini così sbrigativi ed espliciti). Dopo è venuta la scissione della sinistra del partito (anche questa prevedibile anche se meno scontata) e i sondaggi hanno iniziato a segnalare il calo del partito, collocandolo concordemente sotto il 30%, al punto che neppure Renzi parla più dell’obiettivo 40%.
Poi sono iniziate le cose meno facilmente prevedibili: la frammentazione del vecchio gruppone renziano, con le candidature alternative di Orlando, Emiliano e Carlotta Salerno (che però non sappiamo se raggiungerà le sottoscrizioni necessarie) e con segnali di instabilità dell’alleanza con Franceschini e Fassino, mentre altri (come la Finocchiaro, Violante, Bettini) hanno già abbandonato la barca che affonda.
“Siamo quelli che reclamano per la piena libertà del mondo, per l’uguaglianza dei popoli, per il rispetto alla sovranità delle nazioni. Si, ci chiamano estremisti, insorgiamo contro l’impero, insorgiamo contro il modello di dominazione”. Il 5 Marzo 2013 moriva l’ultimo rivoluzionario, e nessuno a sinistra sembra volergli dedicare una riga. Hugo Rafael Chavez Frias, l’ideatore di una formula originale di applicazione del Socialismo del XXI Secolo ai Paesi in via di sviluppo sotto giogo imperialistico, scompare per una malattia misteriosa, che lascerà una sequela di sospetti, rimanendo scolpito in lettere di fuoco nella storia.
Non certo un grande pensatore, ma un uomo di azione e di grande carisma, ex colonnello dei paracadutisti, costruisce un modello i cui capisaldi sono la sovranità nazionale, tutelata da qualsiasi ingerenza esterna (tanto che la rivoluzione si chiama “bolivarista”, richiamando El Libertador Simon Bolivar, il principale esponente della decolonizzazione sudamericana), il controllo statale delle principali risorse economiche del Paese, per liberarlo dal giogo imperialista, la partecipazione dal basso alla vita sociale e politica (con le famose Misiones per l’autogestione comunitaria dei servizi sociali, ma anche con il principio di “cittadinanza” inserito in Costituzione come potere autonomo insieme a legislativo, esecutivo e giudiziario), la giustizia redistributiva, la tutela dei popoli indigeni e dell’ambiente come principi fondamentali dell’organizzazione statuale.
“Comune” è una parola inattuale. E per ottime ragioni! Forse non abbiamo mai sperimentato fino al punto odierno la mancanza di “mondo comune”. Guerre atroci, affermazione morbosa delle identità religiose e nazionali, egoismi delle oligarchie che non vogliono cedere nulla del loro potere: parlare di “mondo comune” tradisce acida ironia, antifrasi o illusione. Il comune non può esistere là dove la concorrenza più brutale per l’accumulazione delle ricchezze è stata eretta a legge del mondo e aggrava, di giorno in giorno, le fratture sociali e i disastri ecologici. Il neoliberalismo è la negazione violenta di ogni mondo comune. La reazione religiosa e nazionalista, che pretende di lottare contro la dissoluzione dei legami comunitari, arriva in realtà ad attizzare la guerra generalizzata con il fanatismo e l’odio per gli altri. La comunità della fede in Dio, come quella dell’appartenenza alla Nazione, non fanno “mondo comune”, ma frammentano e lacerano all’estremo le società e l’umanità.
L’espressione “mondo comune” è ingannevole. Lo è per il fatto di darci a intendere che il mondo è immediatamente “oggettivo” e che noi lo condividiamo con altri. Ma quanto vale questa idea? Quanto vale oggi per noi che dobbiamo agire in condizioni politiche e sociali determinate?
Finalmente tradotto in italiano il saggio di Istvan Meszaros
Dopo ventuno anni dalla sua pubblicazione londinese, è stata finalmente editata anche nel nostro Paese – grazie all’accurata traduzione di Nunzia Augeri – l’opera fondamentale di Istvan Meszaros «Oltre il Capitale» (Edizioni Punto Rosso; pagine 914 per euro 40).
Che un’opera così ardita e complessa sia stata letteralmente “ignorata” dalle politiche editoriali di case editrici quali Einaudi, Feltrinelli o Laterza è indicativo sia degli effetti della deideologizzazione imperante sia delle evidenti difficoltà di ricezione determinate dal tracollo di quel marxismo storicista, che è stato egemone per un lungo periodo del Novecento.
Allievo di Gyorgy Lukacs (al quale dedica un appassionato confronto nella seconda parte del libro, a partire da una lettura critica di «Storia e coscienza di classe») e membro della famosa scuola di Budapest, Istvan Meszaros dimostra con questo formidabile contributo che la crisi del marxismo può essere affrontata abbandonando l’atteggiamento difensivo – quello che lui definisce «la linea di minor resistenza» – e rilanciando una adeguata strategia socialista, volta a delineare una coerente transizione, come recita il sottotitolo del libro.
Pubblichiamo sul
nostro sito ‒ e in contemporanea su euronomade.info
‒ un’intervista a Verónica Gago, compagna Argentina
impegnata nel percorso di NiUnaMenos e nell’organizzazione
dello sciopero
dell’8 marzo. Verónica pratica da tempo quella che in Italia
chiamiamo «inchiesta militante», all’interno del Colectivo
Situaciones e della casa editrice indipendente Tinta Limón.
Nella sua militanza ha incrociato movimenti dei disoccupati,
collettivi di
migranti, esperienze femministe latinoamericane e molte
situazioni di lotta con l’intento di tracciare le mappe
complesse dell’economia
popolare in Argentina e nella regione latinoamericana[1]. Proprio questo
sguardo, che riconosce il ruolo fondamentale delle donne e
del loro lavoro nel conferire vitalità all’economia
popolare, offre una
prospettiva privilegiata per osservare lo sciopero globale
dell’8 marzo. Come sottolinea Verónica, è necessario
ripensare
radicalmente questa pratica politica al di là dei confini
del lavoro produttivo mettendola in relazione – come sta
avvenendo in tutta
l’America Latina – con l’intera trama dei rapporti sociali e
con le forme di violenza economica, sociale e ambientale che
sono
strutturalmente connesse a quella maschile sulle donne. La
convocazione dello sciopero ha innescato ‒ in Argentina come
in Italia ‒ una
tensione con i grandi sindacati, che rivendicano un
«monopolio» sul suo significato legittimo e le sue modalità
di convocazione, ma
anche al loro interno, perché una nuova generazione di donne
e sindacaliste ha avanzato la pretesa di organizzare lo
sciopero anche al di
là dei vincoli imposti dalle loro organizzazioni.
E’ davvero difficile sopravvalutare
l’importanza della giornata mondiale di lotta
dell’8 marzo 2017 proclamata dal movimento delle donne
dell’Argentina e degli
Stati Uniti e la sua evidente valenza internazionalista –
specie in tempi come questi di crescenti intossicazioni
nazionaliste di destra e di
funesto nazionalismo di sinistra.
È altrettanto importante che questo magnifico appello a scioperare, manifestare, protestare, venga sull’onda di mobilitazioni di massa, talvolta molto imponenti, con centinaia di migliaia di manifestanti (non solo donne), avvenute nei mesi scorsi nel Nord e nel Sud America, in Polonia e in Sud Corea, in Irlanda, in Italia e altrove. I documenti che hanno promosso questo evento internazionale, inoltre, anche questo è notevole, hanno preso nettamente le distanze in modo polemico dal ‘femminismo delle donne in carriera’, in nome di un “femminismo del 99%” delle donne, che fa riferimento alle lavoratrici del mercato formale, alle donne che lavorano nella sfera della riproduzione sociale e della cura, alle donne disoccupate, alle donne precarie. E hanno annunciato un nuovo movimento femminista internazionale caratterizzato da “un’agenda inclusiva allo stesso tempo anti-razzista, anti-imperialista, anti-eterosessista, anti-liberista”.
Tu non sei padrone tu
non sei più re.
Tu non sei padrone tu non comandi più.
Prima
eri tu a far girare il mondo, ora
invece è un pezzo di
metallo.
Hai creduto nei libri della storia, hai
creduto che il progresso fosse questo.
Ma tu non sei padrone, tu
non sei più re.
Tu non sei padrone, tu non comandi più.
A un anno dalla morte di Sergio Ricossa, «economista accademico, raffinato saggista, divulgatore appassionato», l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato «un profetico testo sull’automazione» scritto appunto da Ricossa nel 1987, il cui titolo è, come si dice, tutto un programma: Grazie, Robot. In effetti il brevissimo saggio, dedicato al rapporto tra l’automazione “spinta” (o “intelligente”) e l’esistenza umana è di un certo interessante, anche perché l’autore tocca, o sarebbe più corretto dire sfiora, diversi temi (di natura etica, prevalentemente) che personalmente frequento con una certa costanza – quanto ai risultati di questa ostinazione è meglio sorvolare. Un solo esempio:
«Senza il male, da intendere e da combattere, non c’è atto di genio e non c’è scelta morale. […] L’uomo moralmente meritevole non è l’uomo obbligato al bene: è il peccatore potenziale, che resiste alla tentazione. L’uomo può peccare e non deve peccare. Il suo errore può essere colpa, mentre non lo è per il robot».
Mentre tutti i media si occupano ossessivamente dello scandalo Consip e relativi scambi di insulti tra tutti i nani della politica nazionale, il governo Gentiloni – zitto zitto, nel più confortevole dei coni d’ombra, si appresta a varare una politica fiscale e di bilancio piuttosto ambiziosa. E dalle pesanti conseguenze sociali.
L’obiettivo ufficiale è quello di stimolare la crescita, naturalmente; quello più a portata di mano è però la riduzione del “cuneo fiscale”, ovvero di quella differenza tra costo del lavoro per le imprese e salario netto in busta paga. Questo cuneo è presente in ogni paese, ma in Italia (41,6%) è al di sopra della media europea (superato solo da Francia, Ungheria,Austria, Rep. Ceca, Slovacchia e Belgio).
Una mossa del genere ridurrebbe a zero il differenziale soprattutto rispetto alla Germania, mentre resterebbe intatta qualsiasi altra differenza tra i due sistemi-paese. Una misura di “protezionismo fiscale”, insomma. La speranza è che comincino a funzionare gli altri interventi decisi durante i governi Monti-Letta-Renzi, tutti univocamente orientati a fa scendere il costo del lavoro, aumentare la produttività (ma senza investimenti produttivi verrebbe recuperata solo tramite aumento di orari, ritmi, flessibilità del lavoro), comprimere il salario nominale (grazie ai contratti nazionali siglati negli ultimi anni da Cgi-Cisl-Uil).
Dunque il "fenomeno" Renzi volge al tramonto. L'esperienza lo insegna. Quando le sconfitte elettorali si incrociano con le inchieste sul malaffare è quasi sempre troppo tardi per recuperare la china. E se poi ti si è spaccato il partito, ed i vecchi amici son diventati dei probabili traditori, la partita è praticamente chiusa. Mettiamoci pure il coinvolgimento della famiglia ed il quadretto è completo.
Su un punto ha ragione Lotti Luca da Empoli. «Sento un clima da 4 dicembre» ha detto stamane al Corsera il ministro dello sport. Per uno che nei giorni scorsi si era distinto solo per uno sdegnoso «ora basta» è quasi l'inizio di un'analisi politica.
Quella che si rifiuta di fare, almeno in pubblico, il suo principale. Che pensa ancora di cavarsela con qualche trovata circense. «I' mi' babbo gl'è colpevole? Pena doppia!», ha detto ieri sera in tv dopo giorni di insolito silenzio. Che per un twittatore seriale come lui dev'essere stata una vera penitenza.
Ora, è chiaro che per uno che ha iniziato con la Ruota della fortuna anche il codice penale diventa una cosa da Lascia o raddoppia, ma adesso che è pur sempre il segretario di quel partito pigliatutto che è il Pd non ha altro da dichiarare?
Ci è capitato di scrivere in passato che quello raccoltosi attorno a Matteo Renzi è il più famelico gruppo di potere dell'Italia repubblicana.
Una delle caratteristiche decisive della nostra epoca è la mancata relazione tra sviluppo tecnologico e progresso sociale. A differenza dei decenni e secoli passati, siamo entrati in una fase in cui non tutto lo sviluppo tecnologico si traduce in evoluzione, o meglio: non tutta l’iperfetazione tecnologica di cui siamo circondati si associa ad un miglioramento delle nostre condizioni di vita. E’ un fatto su cui si ragiona davvero troppo poco, colmo di rischi interpretativi, di cadute ideologiche, di chiusure reazionarie, di estasi post-moderne, eccetera. Un piccolo esempio avvalora questo punto di vista: il mercato dei libri. Dati per morti, confinati nel recinto bohemien dell’archeologia culturale, i libri di carta vedono in tutto il mondo una ripresa delle vendite: +3% negli Usa; +8% in Russia; +2,3% in Gran Bretagna; +2,3% in Italia, e via continuando. Certo, sono dati estemporanei, che potrebbero non invertire una rotta, se questa ci fosse, o al contrario potrebbero rappresentare la classica eccezione che conferma la regola. Eppure la vicenda del confronto tra e-book e libri cartacei è per certi versi paradigmatica. In Italia i vari strumenti per l’e-reader sono utilizzati da un italiano su dieci. Negli Usa, per la prima volta dall’introduzione dei supporti tecnologici per la lettura, i libri in formato e-book costeranno di più dei libri su carta.
Contestualmente, Amazon sta avviando l’apertura di librerie fisiche per la vendita di libri cartacei.
Le vicende giudiziarie che stanno trascinando il Pd renziano verso l’implosione, a partire dalla principale – l’affare Consip, centrale degli acquisti per le amministrazioni pubbliche – non stupisce nessuno. La classe dirigente italiana – imprenditori e politici, funzionari e corpi militari – è un abisso da cui ogni persona onesta vorrebbe distogliere lo sguardo.
Eppure una cosa stupisce: l’asimmetria palese tra dimensioni colossali degli affari o delle ambizioni e il nanismo imbarazzante delle filiere in competizione per accaparrarseli.
In questa oscena faccenda saltano fuori faccendieri più o meno improvvisati, quasi sempre figli, padri, fratelli, amici di infanzia e di famiglia. Tutti referenti di piccoli “imprenditori”-prestanome di altrettanti amici, parenti, famigli. Vien quasi da rimpiangere la Prima Repubblica, i grandi partiti divisi da visioni del mondo strutturate, in cui gli affari sporchi erano affidati a militanti provatissimi, pronti ad immolarsi anche in carcere pur di salvaguardare gli interessi del partito (Severino Citaristi per la Dc, Primo Greganti per il Pci, ecc). Crollate le fedi, volatili le appartenenze, individualizzate le ambizioni, non resta che affidarsi alla famiglia, al giro stretto di quelli che "io ti ho creato, io ti distruggo". Come nella n'drangheta…
Si dice che un esempio valga più di mille parole. Se dovessi esemplificare a beneficio dei miei venti (mila) lettori la differenza fra logica deduttiva e logica induttiva, credo che il modo migliore per farlo sarebbe indicar loro questo mio post del 2012, e questo post del 2015 di Federico Dezzani, che colpevolmente non avevo ancora letto.
Io, qui, sarei il deduttivo. Il mio post era un sillogismo, con una premessa maggiore universale affermativa, una premessa minore particolare negativa, e una conclusione particolare negativa. Per gli amici, Camestres. Il ragionamento era questo: chiunque voglia veramente risolvere un problema aggredisce le vere cause, il cinque stelle non aggredisce le vere cause, il cinque stelle non vuole risolvere il problema. A distanza di cinque anni sto ancora aspettando che la premessa minore venga smentita. Purtroppo, non passa giorno senza che essa venga confermata (dalla vicenda dell'ALDE a quella della Le Pen).
Dezzani, invece, l'induttivo. Il suo resoconto molto minuzioso è una nuvola di puntini fattuali attraverso la quale si può tracciare una retta: la retta della regressione politica italiana. Al netto del fatto che alcuni di quei "puntini" mi erano stati adombrati o confermati da tanti di voi (e da tanti altri), non credo che nella sua ricostruzione ci siano enormi errori fattuali, altrimenti sarebbe stato querelato.
Renato Curcio: Capitalismo digitale
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Leonardo Mazzei risponde punto per punto agli argomenti di Luciano Fontana e Riccardo Sorrentino
Siccome i nodi stanno venendo al
pettine, i
propagandisti del fronte eurista hanno solo due opzioni: o
arrendersi, o rilanciare ad un volume ancora più alto le balle
di sempre. Inutile
dire che scelgono sistematicamente la seconda strada, che
altro non sanno fare. Il che ha l'effetto secondario di
costringerci, ogni tanto, a
dirgliene quattro.
Prendiamo qui in esame due esempi assai significativi. Il primo è quello della risposta ad una lettera («Tutti felici senza euro? Non raccontiamoci bugie») del direttore del Corsera, Luciano Fontana. Il secondo è un articolo di Riccardo Sorrentino sul Sole 24 Ore («E' l'euro il problema? Cinque miti dei "no-euro" da sfatare»).
Iniziamo dal Fontana, che parte da una premessa il cui acume è pari solo all'originalità. Secondo questo fenomeno della natura chiunque critichi a vario titolo l'euro «prende come bersaglio un nemico esterno per sfuggire alle proprie responsabilità». Oh bella! Mai che quelli come il Fontana parlino invece delle loro responsabilità, quelle di aver condotto il Paese nelle condizioni in cui si trova. Tema che, chissà perché, per questa bella gente non è mai quello principale.
Dopo una siffatta premessa, e dopo aver detto di striscio, quasi si trattasse di un dettaglio, che «L'Unione va rifondata» (ma come ovviamente non si sa), il direttore passa ad elencarci le meraviglie dell'euro: tassi di interesse stabili, mutui vantaggiosi, accesso al mercato unico, facilità dei pagamenti e dei viaggi.
Commento a "Comunismo" di Franco
Fortini(6° punto), articolo apparso su “Cuore”, supplemento de
“L’Unità”, 16 gennaio 1989):
Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze, tanto più avvertiti come intollerabili quanto più chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri; e viceversa. Il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Usati, ma sempre meno, come mezzi per un fine, un fine che sempre più dovrà coincidere con loro stessi. Ma chi dalla lotta sia costretto ad usare altri uomini come mezzi (e anche chi accetti volontariamente di venir usato così) mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulle spalle della necessità o della storia.
Il «comunismo in cammino»? È chiaro o no che il comunismo non c’è, non è percepibile e descrivibile come un *oggetto*?
1.
Nella Prefazione al Capitale, in un passo già da me citato,
Marx ricorda che egli “tratta delle persone soltanto in
quanto sono la
personificazione di categorie economiche, incarnazione di
determinati rapporti”. Gli uomini concreti, in tutta la loro
complessità, sono
dunque lasciati da parte onde considerarli solo quali maschere
di rapporti sociali. Questo il punto di vista fondamentale. I
rapporti sociali
d’insieme che si stabiliscono tra gli individui sono
certamente assai ricchi di sfaccettature, di sfumature, di
angolazioni molteplici. E, per
quanto considerati nella loro più ampia multilateralità, mai
esauriranno la complessità indefinita della
“realtà” sociale. I rapporti sociali di produzione, fulcro del
concetto di modo di produzione, sono però assai più
semplici: nel capitalismo, e secondo Marx, essi riguardano
essenzialmente gli individui in quanto portatori delle
funzioni concernenti la
proprietà dei mezzi di produzione e la prestazione di forza
lavoro venduta come merce. E’ come se la “realtà” fosse
strutturata secondo una serie di livelli dei rapporti sociali:
il livello della trama, a maglie molto larghe, che “regge”
tuttavia diversi
livelli di ordito a maglie via via più strette. Il modo di
produzione, il concetto centrale della scienza marxiana, si
interessa del primo, del
livello della trama.
Gli uomini che entrano fra loro in relazione nei rapporti di produzione non sono quelli dotati di tutte le loro prerogative di individui umani. Questi ultimi non sono necessariamente a una dimensione, alienati, puramente schiavi di una società dello spettacolo, e tutta una serie di altre considerazioni unilaterali elaborate da “filosofi” sociali che sinceramente mi appaiono lontane dalla “realtà”.
Un vero e proprio paradosso inavvertito che va a grave danno della democrazia e dei cittadini
In Italia e in alcuni altri paesi le votazioni sui principali tipi di referendum vengono considerate valide solo se vi partecipa un numero di elettori superiore alla metà degli aventi diritto: quello che in Italia è il cosiddetto “quorum del 50% + 1”.
L’intento originario dei legislatori – cioè il considerare necessaria per dare validità a un referendum una notevole partecipazione popolare – appare in sé e per sé ben comprensibile e forse anche giustificato, ma inopinatamente la specifica formulazione di questo intento adottata nella norma in questione è diventata, col tempo, causa di estreme assurdità. Il “problema” è che generalmente in un referendum a duplice risposta (“sì” o “no”) una delle due risposte implica il mantenimento dello statu quo, mentre l’altra implica un cambiamento rispetto alla situazione corrente. E col tempo ci si è accorti che per le persone orientate a votare per lo statu quo risulta molto più funzionale non andare a votare, unendosi così al numero degli astenuti e mirando a far sì che il referendum non raggiunga il quorum.
In pratica, la regola del quorum fa sì che coloro che sono orientati a mantenere le cose come stanno possano, non andando a votare, usare gli astenuti come se anche questi ultimi fossero orientati in quel modo.
La lunga attesa dei “populisti” è quasi conclusa: a metà marzo le legislative olandesi avvieranno la serie di elezioni chiave che ridisegneranno l’Europa, seppellendo nelle urne l’eurozona e le istituzioni di Bruxelles. L’ansia e l’impotenza dell’establishment sono rispecchiate dalla frenesia della magistratura: perso il controllo della politica, si ripiega sulle procure nella vana speranza di aggiustare nei tribunali la traiettoria delle elezioni. La strumentalizzazione della giustizia è tanto spudorata quanto maldestra in Francia, dove la manovra per defenestrare François Fillon si sta trasformando in un paradossale rafforzamento di Marine Len Pen. Ma anche in Italia, dove l’inchiesta contro l’ex-premier Renzi, mirata a scongiurare le elezioni anticipate, alimenta paradossalmente le forze anti-sistema.
L’establishment spara (sui propri piedi) le ultime cartucce: gli assalti della magistratura
Il finale di partita si avvicina e gli ultimi minuti scivolano via portandosi con sé anche regole, convenzioni ed etichette: il gioco si incattivisce, i falli diventano più marcati e la volontà di “aggiustare” il risultato sempre più palese. È uno spettacolo poco edificante, che indebolisce ulteriormente l’istituto della democrazia già piuttosto malconcio, ma non certo sorprendente: dopo la lunga e sanguinosa scia di attentati gestiti dalla DGSE che ha inaugurato con largo anticipo le presidenziali francesi
Il Consiglio consultivo ha ieri dato l’ok all’emendamento costituzionale che secondo l’opposizione instaura la legge marziale nel piccolo arcipelago. Per Manama la modifica era “necessaria per combattere il terrorismo”
Roma, 6 marzo 2017, Nena News – Ancora un duro colpo per l’opposizione bahrenita: ieri il parlamento ha approvato un cambiamento costituzionale che permetterà alle corti militari di processare i civili. I 40 membri del Consiglio consultivo – la Camera alta del parlamento nominata da re Hamad bin Isa al-Khalifa – hanno votato ieri a favore della misura confermando quanto già aveva stabilito due settimane fa il Consiglio dei Rappresentanti (la Camera bassa del Parlamento). Con il nuovo provvedimento vengono così rimosse le limitazioni contenute prima nella carta costituzionale su chi poteva essere processato nelle corti militari. Per gli attivisti l’intento è chiaro: l’emendamento instaura di fatto la legge marziale nel piccolo arcipelago e sarà usato come arma per reprimere qualunque forma di opposizione all’autorità di re Hamad. Di diverso avviso, ovviamente, è Manama che parla di modifica “necessaria per combattere il terrorismo”.
In realtà quello che è stato approvato ieri rende ormai legale quanto già da tempo stava diventando prassi nel piccolo regno:
Di capolavori politici Barack Obama ne ha fatti pochi. Uno però di sicuro: trasformare l’atteggiamento nei confronti della Russia nello spartiacque della politica mondiale. Di più: è riuscito a portarlo così all’estremo da renderlo un vero confine culturale. Ha ricostruito il Muro, non più a Berlino ma in milioni di cuori e di cervelli.
Basta osservare con un minimo di disincanto quanto sta avvenendo negli Stati Uniti. Laggiù è di fatto diventato un reato incontrare un russo. I giornali, americani ed europei, pubblicano le liste di proscrizione di coloro che, membri della nuova amministrazione o comunque legati a Donald Trump, hanno avuto contatti, per esempio, con l’ambasciatore russo Sergej Kislyak. Perché dovrebbe essere una “colpa” aver incontrato un ambasciatore? Prendiamo il caso di Jeff Sessions, il ministro della Giustizia che, durante le audizioni in Senato, ha negato di aver incontrato esponenti russi. Già è discutibile sostenere che abbia mentito, visto che nel 2016 Sessions ha incontrato gli ambasciatori di Bulgaria, Lituania, Ungheria, Corea, Italia, India, Australia, Polonia, Giappone, Singapore, Gran Bretagna, Montenegro, Lettonia, Canada, Colombia, Taiwan, Ucraina, Russia appunto, Giordania, Cina, Germania, e con alcuni di questi più volte. Ma diciamo pure che abbia mentito. La sua “colpa” è quella, non altra. Aver incontrato un ambasciatore tra tanti altri non può diventare un capo d’accusa solo perché questi è russo.
Chi ci capisce qualcosa con Trump è bravo, confessa lo studioso Marsonet. Analisti planetari in confusione, e la tradizionale stabilità politica Usa ridotta a rissa italiana. Trump conseguenza di Obama, sostiene Marsonet, a frenare il rischio di santificazione giovanile dell’ex presidente.
Sul fronte opposto ‘la grande volatilità del tycoon’. Suggerimento: come la Cina, stare per ora alla finestra, in attesa di vedere la quantità di bluff nei tweet che il nuovo presidente Usa ci propina ogni giorno
Tempi davvero grami per chi s’illude – o si illudeva – di avere qualche competenza per poter parlare con cognizione di causa dello scenario politico Usa. I due mandati di Obama prima, e poi l’avvento alla Casa Bianca di Donald Trump hanno sconvolto il quadro a tal punto che pure gli analisti più smaliziati si trovano in difficoltà.
Anche loro, infatti, confessano di capirci poco e hanno problemi seri quando dalla cronaca, peraltro confusissima, si deve passare a previsioni – sia pur minimali – circa il futuro.
La stabilità politica di cui gli americani sempre si vantavano, e che veniva trasmessa con religiosa attenzione da un’amministrazione all’altra, è scomparsa dopo la vittoria del tycoon newyorkese.
Strategia energetica nazionale e Sblocca
Italia
Le opere energetiche sono state una delle priorità degli ultimi governi italiani, secondo i quali esse ricoprono un ruolo prioritario e strategico per il Paese. L’esecutivo Monti ha elaborato la Strategia energetica nazionale (Sen), mentre Renzi ha continuato il lavoro approvando il cosiddetto Sblocca Italia. Due leggi basate su un’eventuale riforma del titolo V della Costituzione, tentativo fallito per la sconfitta registrata al referendum costituzionale di dicembre.
Se da una lato la Strategia energetica nazionale punta al rilancio degli stoccaggi di metano e della rigassificazione, lo Sblocca Italia rende le opere per l’approvvigionamento e il trasporto del gas di carattere strategico e prioritario. All’art. 37 di quest’ultimo si legge: “Al fine di aumentare la sicurezza delle forniture di gas al sistema italiano ed europeo del gas naturale, anche in considerazione delle situazioni di crisi internazionali esistenti, i gasdotti di importazione di gas dall’estero, i terminali di rigassificazione di GNL (Gas Naturale Liquefatto, n.d.a.), gli stoccaggi di gas naturale e le infrastrutture della rete nazionale di trasporto del gas naturale, incluse le operazioni preparatorie necessarie alla redazione dei progetti e le relative opere connesse, rivestono carattere di interesse strategico e costituiscono una priorità a carattere nazionale e sono di pubblica utilità, nonché indifferibili e urgenti”.
Il tema delle disuguaglianze è
tornato
prepotentemente di attualità nel dibattito politico ed
economico, dopo decenni di prolungato torpore. La rivoluzione
monetarista anglo-sassone
dei primi anni Ottanta, via di fuga economica e ideale per un
Primo Mondo preda di sempre maggiori rivendicazioni politiche
e salariali delle classi
lavoratrici e dell’esaurimento della spinta propulsiva
keynesiana, è stato un vero e proprio cambio di paradigma
(Hall 1993), maggiore
responsabile di questa rimozione collettiva. Non l’unico: il
crollo dell’impero sovietico e la conseguente diaspora ideale
di partiti
comunisti e socialisti, il contagioso innesto di democrazie
liberali ed economie di mercato su una sempre più ampia parte
di mondo,
l’illusione di una Terza Via capace di conciliare gli
interessi di capitale e lavoro su una piattaforma
progressista. Passaggi cruciali, non sul
viale del tramonto della storia come a molti è piaciuto
pensare, bensì verso un tornante oscuro di cui oggi appena si
intravedono le
forme.
La fine del primo decennio del Duemila ha coinciso con l’implosione del capitalismo finanziario statunitense, ergo mondiale, a suggellare la fine di quella Great Moderation equivalente economico della fine della storia. Il tema delle disuguaglianze è quindi tornato, improvvisamente, in auge: non più indispensabile corollario di un sistema capace, nel medio periodo, di beneficiare tutti come la famosa marea che solleva sia zattere che velieri; ma attributo intrinseco di un modello di produzione e distribuzione basato su iniquità non (solo) legate a differenze di valore aggiunto né destinate a livellarsi nel corso del tempo.
L’idea di
risolvere i conflitti interni di un paese ricorrendo ad aiuti
esterni è tipica dei paesi in via di sviluppo,
o di quelli di
recente costruzione, o comunque poco coesi. Non è chiaro
quanto questo metodo sia davvero utile allo sviluppo dei
paesi, tuttavia con il
progresso economico e sociale le caratteristiche che li
rendono fragili tendono gradualmente ad attenuarsi di pari
passo con il rafforzamento delle
istituzioni democratiche e della struttura
produttiva. L’Italia è una nazione relativamente giovane,
unita 150 anni fa quando ancora
però c’erano da “fare gli italiani”. Passata attraverso due
guerre mondiali, prende forma come Repubblica solo 70 anni fa.
L’Italia repubblicana ha sempre conosciuto una
qualche forma di vincolo esterno, a cominciare da
una fase iniziale di relativa
prosperità, guidata dalla ricostruzione post bellica sostenuta
dagli Stati Uniti. Con la fine del sistema di Bretton Woods,
l’Italia
cerca di ritrovare un aggancio esterno, prima con il sistema
monetario europeo e poi – dopo il suo fallimento – con
l’unione
monetaria europea. Questi vincoli diventano sempre
più stringenti, poiché la liberalizzazione dei
movimenti di
capitali, assieme alla rigidità del cambio, alla perdita della
politica monetaria e ai limiti alla politica fiscale,
limiteranno fortemente la
capacità di condurre le politiche macroeconomiche a livello
nazionale.
E così, l’ultimo sondaggio elettorale datato 3 marzo certifica il M5S come primo partito italiano, seguito da un calante Pd e da una sequela di forze di media grandezza quali Forza Italia e Lega nord. Come spiegare questa tenuta grillina di fronte alle continue contraddizioni create dalla sua più importante (finora) esperienza di governo, l’amministrazione della Capitale, e nonostante il killeraggio mediatico quotidiano subito a reti e giornali unificati? In realtà la tenuta è comprensibile solo guardando al M5S come “oggetto” della politica, e non come soggetto politico, come invece viene normalmente considerato dai commentatori politici, soprattutto a sinistra. Questi ultimi sfruttano ogni contraddizione (evidente) dell’azione politica grillina giungendo sempre alla medesima tronfia conclusione: “vedete? Inutile votare il M5S, è parte del problema e non della soluzione, è l’altra faccia del liberismo”, e cose così, ripetute col ghigno soddisfatto del fine analista che spiega al popolo le proprie tare ideologiche. Ma quello stesso popolo, purtroppo per i suddetti analisti da Facebook, è ben conscio dell’incapacità grillina di risolvere alcunché. Le basi della forza elettorale Cinque stelle non risiedono nella sua qualità politica, ma nella capacità di essere utilizzato da vasti pezzi di proletariato nazionale come “veicolo” per esprimere un bisogno di rottura con la classe dirigente.
“(…) a partire dal 2014 si segnala un sostanziale recupero della competitività di prezzo attraverso il costo del lavoro, favorito anche dai provvedimenti di decontribuzione attuati in Italia. Ciò ha portato a una parziale riduzione del cospicuo differenziale con la Germania accumulato negli anni precedenti, che aveva continuato ad ampliarsi anche nei primi anni della crisi. Al terzo trimestre del 2016, rispetto allo stesso periodo del 2014, il costo del lavoro per l’insieme delle attività economiche è diminuito dell’1,3 per cento in Italia e dello 0,2 per cento in Spagna, mentre in Francia e in Germania è aumentato rispettivamente del 2,6 e del 5,2 per cento. Nella manifattura, in particolare, in Italia si è avuta una riduzione pari al 2,4 per cento, a fronte di aumenti dello 0,7 per cento in Spagna e Francia e del 3,1 in Germania”. ISTAT, Rapporto sulla competitività dei settori produttivi - Edizione 2017, pag. 21
“Siamo un Paese che si avvia ad avere più medie imprese”. Vincenzo Boccia, Presidente Confindustria, in Ipe Napoli triplica il numero degli iscritti Il sole 24 ore, 4 marzo 2017.
Alla fine la bestemmia è stata detta. Coperta dai media e dai centri studi, l’Istituto di Statistica italiano, il maggior centro d’analisi quantitativa del Paese, nel suo ultimo rapporto pubblicato il 3 marzo scorso parla ripetutamente,
La crociata antipopulista che le élite politiche, economiche, accademiche e mediatiche del mondo intero stanno conducendo negli ultimi anni, tende a presentare il proprio bersaglio come un fenomeno unico, sostanzialmente simile sotto ogni latitudine e in ogni continente: dai socialismi bolivariani a Podemos, da Marine Le Pen al Movimento 5 Stelle, da Alba Dorata alle destre dell’Est Europa, da Sanders a Trump passando per Putin. Questa semplificazione/banalizzazione, che ignora sistematicamente le differenze ideologiche, organizzative e programmatiche fra i vari movimenti e i rispettivi leader, più che ad analizzare il fenomeno, serve a svelare la natura e gli interessi del blocco di potere neoliberista, il quale si sforza con ogni mezzo di nascondere la crisi irreversibile in cui si dibatte e di reprimere le rivolte dei cittadini ridotti a sudditi.
Detto questo, occorre ammettere che le insorgenze populiste presentano effettivamente alcuni tratti comuni: in particolare l’opposizione fra noi e loro, alto/basso, popolo/élite (tipico lo slogan del movimento Occupy Wall Street che oppone “noi il 99%” all’1% dei super ricchi responsabili della crisi e dell’immiserimento delle classi medie); ma soprattutto la radicale, profonda sfiducia nei confronti della “casta”, di un sistema politico percepito come corrotto e inaffidabile (la rivolta argentina all’inizio del Duemila iniziò al grido “que se vayan todos”,
Nel cinquantennale degli atti del Colloque di Royaumont (4-8 luglio 1964) che segnò l’inizio della Nietzsche renaissance, Francesco Bellusci esamina lo sviluppo dell concetto di interpretazione da quel memorabile intervento di Foucault alle pagine di Umberto Eco.
Con una riflessione finale sulla parresia: infatti, se tutto è interpretazione e non c’è originario a cui l’interpretazione si riferirebbe, come rivendicare la giustizia e dire la verità al potere? Eco risponderebbe che benché sia impossibile dichiarare cosa sia davvero qualcosa, è però possibile dire cosa non sia. «Lavoro infinito» – commenterebbe Foucault – «Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù».
Cinquant’anni fa uscivano in Francia gli atti del Colloquio di Royaumont, svoltosi tre anni prima, che avrebbero segnato i destini della filosofia “continentale” all’insegna della Nietzsche-Renaissance: una rinascita dell’interesse per la figura e l’opera di Nietzsche, definitivamente riscattato dalle strumentalizzazioni naziste, preparata anche dalla pubblicazione nel 1961 del poderoso corso di Heidegger e, soprattutto, dall’edizione critica nel 1964 delle opere di Nietzsche, curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari.
Tra gli interventi di quel convegno, quello di Michel Foucault, che, ricordiamolo, poco prima di morire sulle pagine di Les Nouvelles littéraires dichiarerà di essere sempre stato “semplicemente un nietzschiano”, presenta una singolarità.
L’effetto della presidenza Trump finora è stato simile al finale di They Live – Essi Vivono, quando il ripetitore che diffonde il segnale che altera la percezione viene distrutto, e tutti vedono il volto mostruoso dei loro sfruttatori per quello che è.
Un’Apocalisse nel senso originario del termine: rivelazione.
Il reciproco rabbioso disprezzo fra Donald Trump e i media mainstream, dal New York Times a Hollywood, segna una frattura epocale e inedita che attraversa il cuore stesso dell’egemonia USA, perché separa il trono dalla propaganda.
Senza la maschera intessuta dai media embedded, il Re è nudo in tutta la sua orrida sembianza da zombie, come gli sfruttatori alieni di Essi Vivono senza il segnale del ripetitore che la Resistenza umana fa saltare nel finale.
E allo stesso modo, senza la complice copertura del potere politico, gli spacciatori professionisti di Fake News sono esposti come mai prima d’ora.
Nell’azzannarsi a vicenda dandosi reciprocamente del cazzaro, il presidente e il sistema mediatico segano il ramo su cui sono seduti entrambi.
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Pensare il
68 a
cinquant'anni di anni di distanza presuppone la messa a fuoco
di alcune considerazioni preliminari sul 68 come oggetto
storico. Le elenco in ordine
sparso: esiste una storiografia sul 68 ? E se sì con quali
caratteristiche, a livello nazionale-italiano, ovvero
internazionale, o locale.
Quali che siano le risposte un primo tema parrebbe essere il
bilancio della storiografia sul 68; il che però si collega
subito a uno dei topos
più ricorrenti: quanto è durato il 68, quando iniziato e
quando finito? Cosa che rimanda alle diverse partizioni
spaziali di cui sopra,
tenendo presente che una delle interpretazioni che vanno
(andavano ?) per la maggiore sostiene che il 68 è il primo
evento storico globale (
rischiando di dimenticare la Seconda guerra mondiale e
l'inaugurazione dell'era atomica).
Una volta stabilito che il 68 c'è stato, quale che ne fosse la consistenza, l'importanza, l'estensione, le cause e le conseguenze, bisogna individuare quali sono stati gli attori del 68. Qui ci sono state forse più analisi sociologiche che storiche, in ogni caso è uno dei terreni cruciali, anche perché è un tema, a suo tempo, fortemente influenzato dalle ideologie degli attori in campo. In ogni caso mi sembra ineludibile inserirlo nel progetto di pensare il 68, individuando l'esistenza (o meno) di tale tipo di indagine e per quali aree e contesti.
Le Monde
Diplomatique pubblica un buon articolo
sull’ordoliberismo, l’ideologia socioeconomica neoliberista
di matrice teutonica che
sta alla base del sistema europeo e ne conforma tutta la
logica. È un articolo piuttosto lungo, anche a volerlo
riassumere come ho cercato di
fare. Nonostante ciò, è una lettura che raccomando: conoscere
quali sono i postulati in base a cui ci vengono imposte oggi
le
politiche che riguardano il nostro quotidiano può essere un
buon tonico per rinvigorire il nostro spirito critico,
infiacchito dalla
lunga crisi che quelle stesse politiche hanno prodotto.
Inoltre, è sempre utile constatare che i sostenitori del pensiero unico, quelli che rimproverano agli irriducibili del primato della politica di voler risolvere i problemi di oggi con strumenti culturali vecchi di mezzo secolo, alla fin fine propongono soluzioni basate su teorie nate novant’anni fa.
“Se c’era ancora bisogno della prova del pericolo che i referenda rappresentano per il funzionamento delle democrazie moderne, eccola“. (Der Spiegel, il 6 luglio 2015, commentando la vittoria dell’OXI al referendum greco).
Questa reazione esprime il contrasto fra due concezioni di governo: la prima, propriamente politica, per cui il suffragio popolare dovrebbe prevalere sulle regole contabili e il potere eletto dovrebbe poter scegliere di cambiare le regole se è questo che il popolo gli chiede; la seconda, tecnico-burocratica, che al contrario subordina l’azione di governo e la volontà popolare alla stretta osservanza di un ordine.
Jean-Claude Michéa, “I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto”
Il
piccolo libro
del filosofo
francese Jean-Claude Michéa è di quelli che disturbano le
nostre abitudini e ci costringono a riconsiderare il nostro
modo di vedere il
mondo. La tesi è chiara e semplice: il movimento
socialista non è, e non è mai stato “di sinistra”.
Prima di spiegare a cosa si riferisca Michéa in particolare consideriamo un poco di quadro: con alcune letture, come l’ultima, di Honneth che riflette sulla crisi dell’idea di “socialismo” nella sua evoluzione storica, arrivando a proporne una integrale riscrittura in direzione più comunitaria, o di Richard Sennett, in “Insieme”, che pone il tema della socialità e dell’esistenza di “due sinistre” nello sviluppo del movimento del socialismo, o, ancora, di Leonardo Paggi e Massimo d’Angelillo, che su un piano più storico e più limitato tematicamente e geograficamente si interrogano sulle ragioni della crisi dell’ideale socialista nel caso italiano, e con il largo quadro interpretativo fornito da Karl Polanyi, per restare solo ad alcuni nodi di discorso recentemente mobilitati, abbiamo cercato di avviare una riflessione sulla questione del senso del movimento socialista in una chiave prevalentemente di riflessione retrospettiva. Ci sono alcune letture di cui nell’immediato sarà dato conto e confluiscono in questo campo problematico, sono: il libro di Barba e Pivetti, “La scomparsa della sinistra in Europa”, un aggressivo atto di accusa al repentino piegarsi alle ragioni ed alla forza del liberismo da parte dei movimenti socialdemocratici europei e delle loro cause; il libro-testamento di Bruno Trentin, “La città del lavoro”, in cui con toni anche autocritici vengono ripercorsi alcuni scivolamenti nella fase che va dagli anni settanta ai novanta in Italia e riletti in questo senso anche classici come Antonio Gramsci, rintracciandone insufficienze e debolezze di analisi; la proposta pragmatista di Richard Rorty, in “Una sinistra per il prossimo secolo”, che pur datato come si vede bene dal titolo, conserva degli spunti di riflessione.
Sui mass media si è dedicata una lacrima di scandalo per la vicenda della Oerlikon di Rivoli in provincia di Torino. In quello stabilimento di 800 dipendenti, un operaio con 37 anni di anzianità è stato licenziato al rientro da una lunga malattia e dal trapianto del fegato. Anche a chi tutti i giorni esalta le necessità di adeguarsi in ogni modo alla globalizzazione capitalistica, questo licenziamento è sembrato esagerato. Ipocriti.
Da tempo la santa trinità del profitto, competitività flessibilità produttività, ha imposto in tutti i luoghi e i rapporti di lavoro la soppressione delle esigenze fondamentali e della dignità della vita umana. Se nei campi della Puglia si può morire di fatica, nelle catene di montaggio si è costretti a rinunciare anche ai più elementari bisogni fisiologici, meglio farsela addosso che perdere un pezzo. Si va a lavorare ammalati, soprattutto chi ha un contratto precario, altrimenti addio alla conferma. E la gravidanza è la peggiore delle malattie, il più grave degli assenteismi, meglio rinunciarvi. Però se ci si infortuna perché il padrone risparmia sulla sicurezza, allora invece bisogna mettersi in malattia, per far risparmiare all'azienda sull'Inail.
Sono inciampato e caduto, dice l'operaio come la moglie che non riesce a denunciare le violenze del marito.
Gli USA riescono a scovare 7 pianeti a 39 anni luce di distanza ma non riescono a vedere i camion dell'ISIS nel deserto. Oggi però è uscito #Vault7
Ricapitoliamo: gli Stati Uniti d'america sono quella nazione
che riesce a sconfiggere il nazismo in 4 anni e l'impero
nipponico in 5, ma dopo 17
anni è ancora in guerra con il terrorismo di Al-Qaeda.
È la nazione che riesce a scovare 7 pianeti di cui 3
assimilabili alla terra
a 39 anni luce di distanza ma non riesce a vedere i camion
dell'ISIS nel deserto. Ci sta.
Oggi però è uscito #Vault7, la rivelazione delle capacità di infiltrazione informatica della CIA:
1) La CIA ha compromesso ogni sistema operativo di pc, di cellulare, delle smart tv, e dei chip delle auto. Anche i sistemi a minore diffusione come gli iPhone e i sistemi linux sono compromessi al 100%.
2) La CIA può quindi infettare qualsiasi dispositivo informatico di massa con i suoi spyware o virus. Va da se che può scaricare i segreti o uploadare contenuti compromettenti in qualsiasi dispositivo, di chiunque. Ricordiamoci che spiavano il cellulare personale della Merkel, quindi figuratevi il nostro.
Dopo un mese, la giunta Raggi trova il suo nuovo assessore all’urbanistica, Luca Montuori. E’ una nomina che svela un modo di procedere, che sbarra la strada a ogni ipotesi di cambiamento. E’ d’altronde ormai un’ovvietà, viste le continue prove date dall’attuale amministrazione comunale. Eppure l’iter politico che ha portato alla nomina di Montuori è particolarmente rilevatore. Da diverso tempo la giunta era alla ricerca del sostituto. Mesi passati a scandagliare, si suppone, i vari curricula degli esperti del settore. Già questo fatto è piuttosto indicativo: a nessuno del M5S è venuto in mente di nominare un politico, un attivista del Movimento, un grillino della prima ora, uno qualsiasi che condividesse la linea strategica del partito. Si dirà che è il tipico modo di procedere Cinque stelle, che basa la propria forza elettorale sullo svilimento della politica. Si dirà, con qualche ragione, che il ruolo di assessore di un’amministrazione comunale dovrebbe essere incarnato da un “tecnico” più che da un politico. Tutto vero. Eppure, di fronte alla crisi di soluzioni alternative, nessuno ha rischiato la carta interna. Nonostante l’ovvietà, è un dato comunque significativo, per quanto marginale nella vicenda. Veniamo invece al dato politicamente rilevante.
Mesi di sondaggi non hanno prodotto candidature credibili. I vari urbanisti scrutati, ad esempio Tomaso Montanari, avevano tutti declinato la richiesta.
Ognuno di noi, in segreto, attende da sempre l’arrivo degli alieni. Tutti, più o meno consapevolmente, aspettiamo che accada finalmente qualcosa nella nostra vita che si porti via tutto il nostro tempo e tutta la nostra attenzione; ma si tratta quasi sempre di un’attesa individuale, mentre l’arrivo degli alieni non può che riguardare tutti: nessuno potrebbe sottrarsi all’attrazione dell’evento. È forse per questo che gli alieni hanno sempre così grande successo al cinema. O forse è perché il cinema stesso è una specie di sbarco alieno in miniatura: per qualche ora, se il film è anche solo minimamente ben fatto, siamo collettivamente in balia dei suoi eventi.
L’attesa per l’arrivo degli alieni non va confusa con l’attesa della fine del mondo. Quando The Big Short si apre con l’esergo tratto da 1Q84 di Murakami: “Tutti, nel profondo del cuore, stanno aspettando l’arrivo della fine del mondo”, o quando Melancholia di Lars Von Trier inscena l’avvicinarsi inesorabile del pianeta azzurro, si sta parlando di tutt’altre cose: della fine di un mondo, quello fatto di sfruttamento, truffe e povertà, governato dalla finanza globale, oppure della sensazione da fine del mondo, che ognuno di noi può provare, anche senza scomodare gli astri, quando siamo talmente angosciati che ci capita di sobbalzare terrorizzati da un nonnulla.
Arrival non fa questa confusione. Nessuna contaminazione di genere, nessuna fantascienza apocalittica.
Avvicinandosi le elezioni - e forse ormai consapevoli dei danni fatti in tutti questi anni - centrosinistra e centrodestra hanno scoperto che esiste in Italia una questione sociale (ohibò) e che è questa (doppio ohibò) il primo booster di ogni "sentimento antisistema", di ogni espressione di rabbia nelle urne.
Di qui una corsa a inventarsi misure d'emergenza, più o meno decenti ma che per ora somigliano molto alla "social card" di berlusconiana memoria. E si affastellano comunque una sopra l'altra, perché ognuna è un annuncio, un titolo di giornale, insomma potenziale consenso.
Di misure sociali si parlerà pure al Lingotto, pare, perché c'è in ballo la proposta di "lavoro di cittadinanza" che Renzi ha deciso di contrapporre alle proposte di reddito minimo e/o universale verso cui ha mostrato sempre avversione. E a leggere il Giornale, perfino Berlusconi sta studiando una serie di misure sociali che dovrebbero costituire l'ossatura programmatica del pistone di destra, quello che dovrebbe riportare a casa anche Salvini e Meloni.
Benissimo, naturalmente. In termini di dibattito e di egemonia culturale, negli ultimi trent'anni il sociale era scomparso. Anzi, sembrava quasi una bestemmia, una roba da nostalgici del muro di Berlino, di Castro e Pol Pot.
«Una delle qualità
fondamentali dei
bolscevichi […], uno dei punti
fondamentali della nostra strategia
rivoluzionaria
è la capacità di
comprendere ad ogni istante
quale è
il nemico principale e di
saper
concentrare tutte le forze contro questo
nemico».
(Rapporto al VII
Congresso
dell’Internazionale Comunista)
1. Democrazia e pace?
Conviene prendere le mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse mi limito ad alcuni particolari. Nel gennaio del 1952, per sbloccare la situazione di stallo nelle operazioni militari in Corea, il presidente statunitense Harry S. Truman accarezzava un’idea radicale che trascriveva anche in una nota di diario: si poteva lanciare un ultimatum all’Unione Sovietica e alla Repubblica popolare cinese, chiarendo in anticipo che la mancata ottemperanza «significava che Mosca, San Pietroburgo, Mukden, Vladivostock, Pechino, Shangai, Port Arthur, Dalian, Odessa, Stalingrado e ogni impianto industriale in Cina e in Unione Sovietica sarebbero stati eliminati» (Sherry 1995, p. 182).
Il carattere demagogico della campagna elettorale di Donald Trump ha scandalizzato la stampa americana ed europea. Ma l'accusa di populismo è un alibi tendente a mascherare la crisi sociale e politica dei regimi democratici
1. Forse il 2016 sarà ricordato
come l'anno
in cui
ha trionfato
il populismo
su entrambe
le sponde
dell'Atlantico,
negli Stati Uniti, con
l'elezione
di Donald
Trump e in Gran Bretagna con la Brexit. E
il 2017 potrebbe
essere
l'anno
in cui,
varcando
la Manica,
il populismo
approderà sulle coste del continente,
approfittando
dei prossimi
appuntamenti
elettorali
nei Paesi Bassi, in Francia,
Germania
e, probabilmente,
in Italia.
Il populismo è sempre più utilizzato come una chiave universale per interpretare la crisi delle democrazie occidentali. Non a caso, la vittoria di Donald Trump in America e la Brexit sono spiegate come una deriva populista dei rispettivi regimi democratici. La stessa chiave è utilizzata per spiegare l'avanzata del Fronte Nazionale di Marine Le Pen in Francia, di Podemos in Spagna o del Movimento Cinque Stelle in Italia. In realtà, l’alibi del populismo maschera problemi più profondi che riguardano aspetti della crisi che attraversa le democrazie occidentali. Rivediamo brevemente il sorprendente successo di Trump.
Il discorso d’insediamento di Donald Trump può essere considerato una sintesi del suo approccio demagogico ai problemi degli Stati Uniti e del mondo. Il tono non è stato diverso da quello utilizzato durante la campagna elettorale. Più che rivolgersi al Congresso, il suo discorso era indirizzato a quelli che considera normali cittadini americani."Washington - ha detto - è rifiorita, ma la gente non ha condiviso la sua ricchezza". Una dichiarazione che, in effetti, avrebbe potuto fare qualsiasi nuovo presidente, repubblicano o democratico, senza suscitare sorpresa.
Un libro
del filosofo tedesco, erede
della Scuola di Francoforte, Axel Honneth di cui
abbiamo fino ad ora letto “Il
diritto della
libertà” e “L’idea
di
socialismo”, analizza il concetto di “reificazione”
come proposto da Lukacs nel 1923 nella raccolta “Storia
e coscienza di
classe”. E’ esattamente lo stesso anno in cui
Marcel Mauss in Francia pubblica il suo “Saggio
sul dono”. Tra le
opere, che non hanno apparenti punti di contatto sembra
esserci un filo.
Nell’area tedesca il tema della “reificazione” (concetto alquanto sfuggente, come vedremo) era in quegli anni al centro della scena. Il tema emergeva dall’osservazione della reazione che relazioni sociali contraddistinte da un tono freddo e calcolatore suscitavano in un paese sconvolto da disoccupazione e crisi economiche. Le vignette dell’epoca mostrano imprenditori senza scrupoli e banchieri con cappello a tuba e monocolo che spremono cittadini ignari.
Nel 1923 la grande guerra è finita da pochi anni e la Germania è nel pieno del caos, dall’ottobre 1918 al 1919 si sussegue una guerra civile a bassa intensità nella quale trovano la morte Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, il governo andò ai socialdemocratici moderati di Ebert che vinsero le elezioni del 19 gennaio 1919, formando la Repubblica di Weimar.
Pubblichiamo qui l’introduzione di Pier Aldo Rovatti al libro di Beatrice Bonato, Sospendere la competizione. Un esercizio etico, Mimesis, Milano 2015
Questo libro di Beatrice Bonato, dal titolo Sospendere la competizione, è un esplicito elogio della filosofia: più esattamente, è un elogio di quell’atteggiamento filosofico che prende il nome di pensiero critico. Merce rara – per dir così – nell’attuale koiné culturale che promuove soprattutto il pensiero unico, quello dei “benpensanti”, di coloro che non vogliono rischiare di trovarsi spiazzati rispetto al trend di una società (neoliberale?) che premia l’individualismo e la competizione di ciascuno contro tutti. Diciamo che si tratta di un “pensiero”, ma in modo improprio: è piuttosto un trucco, un azzeramento del pensare, una sua palese dismissione. Se il pensiero non è un pensiero critico che critica l’esistente (e alla fine mette in dubbio anche la propria pretesa di verità), esso non è un pensiero. Potrà abbellirsi di tutte le aggettivazioni più gratificanti, esso rimane una caricatura, una parodia del pensare, qualcosa come una pigrizia metafisica.
Mi piacciono i libri che già nel titolo parlano chiaro a proposito di ciò che intendono analizzare e discutere. “Sospendere la competizione” è un programma esplicito e insieme oltremodo problematico. È chiarissimo che non è un programma solo conoscitivo: se non lo traduciamo subito in un agire (in un atteggiamento etico e “politico”), abbiamo già compiuto un passo falso e tradito la sua vocazione critica.
“Caro direttore…” inizia canonicamente la letterina al Sole vergata da Matteo Renzi. In essa, l’ex premier fa mostra della sua non comune capacità di leggere le grandi tendenze dell’economia italiana, e mena giusto vanto per essere riuscito a correggere per tempo le degenerazioni presenti -ad esempio- nel nostro sistema bancario. Perché il lavoro di squadra è tutto ed i gemelli Renzi sono affiatatissimi, oltre ad avervi già informato da tempo su come sarebbe andata a finire.
Siamo stati miopi o più propriamente ciechi, signora mia:
«Per lungo tempo, già in piena crisi economico-finanziaria, nel nostro Paese non si è avuta da parte della maggioranza degli economisti, degli opinionisti e dei media la percezione dello stato di dissesto e/o della cattiva gestione di diversi istituti bancari italiani» (Matteo Renzi, 7 marzo 2017)
Con l’occasione, scopriamo quindi che Renzi è anche economista, opinionista e medium (singolare di media):
«Non c’è rischio sistemico, le banche italiane sono molto più solide» di tante banche europee e «non cambierei il sistema bancario con quello tedesco nemmeno sotto pagamento». Lo ha detto il premier Matteo Renzi, durante la conferenza stampa di fine anno (Ansa, 29 dicembre 2015)
Quindi il sistema appariva solido, a parte singoli episodi, ma era in realtà un’illusione:
In calce anche un commento dalla Lista No Nato
Condivido le osservazioni di Enzo su questo link, ma non credo a un Regeni "ingenuo", neanche tra virgolette. Il suo ruolo di destabilizzazione del governo di Al Sisi è chiaro dal contesto. L'Egitto, liberatosi a forza di collera popolare (l'ingresso dei militari arriva dopo) del despota bruciachiese Mohammed Morsi, Fratello Musulmano, insediato dagli elementi inquinati della primavera araba (e da un'elezione manipolata, boicottata dal popolo e partecipata dal 17% degli elettori), aveva sottratto il più importante paesi del Maghreb-Medioriente ai proconsoli coloniali dell'Occidente. Aveva assunto una politica estera "creativa", addirittura di avvicinamento a Mosca e Damasco, svolgeva un ruolo determinante in una Libia che invece si doveva rendere stazione di rifornimento per le sette sorelle, aveva dato prova di efficienza con il raddoppio in pochissimo tempo del Canale di Suez. Grazie alla collaborazione col più debole tra gli attori della scena petrolifera, l'ENI, aveva irritato geopolitici e geopetrolieri; nel giorno del ritrovamento di Regeni, stava concludendo affari miliardari con Roma, in particolare sul giacimento gigante di gas al largo della costa (pensiamo a Enrico Mattei); era diventato un protagonista energetico scombussolando equilibri favorevoli a Isis, Exxon, Shell e Israele;
L’appello “Contro il declino dell’italiano a scuola” lanciato dal Gruppo di Firenze, e sottoscritto da seicento docenti universitari, ha aperto una importante discussione, a volte segnata da toni polemici. Questo perché solleva un problema reale. Le competenze di scrittura in lingua italiana (e anche di lettura e comprensione) degli studenti di scuole e università sono insoddisfacenti, su questo la percezione diffusa è concorde. Il dibattito, però, si è polarizzato in maniera eccessiva. È nota la posizione del Gruppo di Firenze, che si dichiara “per la scuola del merito e delle responsabilità”, insistendo da tempo su un ritorno a metodi didattici tradizionali e a una maggiore selettività dei percorsi scolastici. Alcuni toni dell’appello risentono di questa impostazione, perché additano nelle più recenti scelte ministeriali (in particolare nelle Indicazioni nazionali per il Primo ciclo) la responsabilità di questa situazione. Ciò ha provocato delle reazioni che si sono concentrate sulla impostazione nostalgica di questo appello, e altre che hanno individuato le cause del problema in fenomeni opposti, cioè nella mancata apertura della scuola e dell’università italiane all’innovazione didattica.
È forse possibile, però, trarre alcune prime conclusioni, cercando di mettere a fuoco una soluzione condivisa. Le guerre più o meno ideologiche tra passatisti e innovatori servono a poco.
Fatta 100 la retribuzione reale media di un dipendente a tempo pieno nel 1995, nel 2006 l’indice aveva raggiunto il valore di 101,5 e ad oggi non è cambiata. Frutto dell'accordo del '93, necessario per l'emergenza, ma che protratto nel tempo ha inceppato la crescita, innescando un circolo vizioso di bassi consumi che scoraggiano gli investimenti
Anche in periodi di deflazione come quello in cui viviamo i salari reali non crescono. I dati Istat confermano che la retribuzione lorda media di un dipendente a tempo pieno, calcolata a prezzi del 2015, era pari nel terzo trimestre del 2016 a 2.464 euro mensili (poco più di 1.800 euro netti). Dieci anni prima, nel terzo trimestre del 2006, era identica: 2.463 euro mensili.
Si dirà che il problema è la crisi che, colpendo le imprese due volte tra il 2008 e il 2013, ha proibito qualunque crescita del potere d’acquisto dei salari. Ma se andiamo più indietro e guardiamo cos’è successo prima, quando la crisi non c’era, l’Eurostat ci dice che fatta 100 la retribuzione reale media di un dipendente a tempo pieno italiano nel 1995, nel 2006 l’indice aveva raggiunto il valore di 101,5, anche se nel frattempo l’indice del reddito lordo prodotto dall’economia era passato da 100 a 118,3. Dunque le retribuzioni italiane sono - da almeno 22 anni - rigide verso l’alto, insensibili alla congiuntura.
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Ho trovato nell’interessante articolo
di
Curcio ‘Capitalismo
digitale.
Controllo, mappe culturali e sapere procedurale’ diversi
ingredienti importanti per una riscoperta del SENSO e del
POTERE politico del
concetto marxiano di classe. Come strumento teorico necessario
e forse indispensabile per poter finalmente transitare a una
tappa storica decente
dell’umanità, prima che si autoestingua nel crescendo attuale
di brutalità ecologiche e sociali.
Tra questi elementi ne sceglierò qui di seguito solo un paio, attorno ai temi della proprietà e dell’alienazione. Per tentare di scoperchiare ancora una volta il corpo mummificato di quella “classe lavoratrice” (che NON È una classe) intrappolata nei feretri teorici di tutte le ideologie marxiste lavoriste. Cioè di coloro “per i quali oggi arranchiamo nella difficoltà di non applicare, in una maniera ingenua o pigra, le chiavi interpretative che si sono sviluppate nell’Ottocento e nel Novecento”.
Infatti tra tutti i bei mattoni posti in risalto dall’articolo, almeno un paio rimettono in evidenza – quasi involontariamente direi – due dei TRE pilastri essenziali del discorso originale marxiano sulla classe: l’appropriazione privata dei beni comuni – da parte di esigue minoranze al potere – ed i processi d’alienazione con cui riproducono i loro valori e sistema.
Sul fronte della finanziarizzazione dell’economia – dalla liberalizzazione dei flussi di capitale alla deregolamentazione dei sistemi bancari nazionali – l’Europa ha anticipato di diversi anni gli Stati Uniti. Gettando le basi della crisi attuale
La crisi
finanziaria del 2007-9 può essere considerata una
conseguenza di quel trentennale processo di finanziarizzazione
– termine di cui esistono diverse definizioni ma che per
semplicità
possiamo identificare con il peso e il potere crescenti
assunti dalla finanza e dal capitale finanziario nell’economia
– che fu la
risposta (indubbiamente geniale) del capitalismo alla
stagnazione dei salari provocata dalla guerra vittoriosa
ingaggiata dal capitale nei confronti
del lavoro nel corso e per mezzo di quella che è stata
definita la “controrivoluzione neoliberista”. In sostanza, la
crescente
erosione dei salari e del potere d’acquisto dei lavoratori in
diversi paesi occidentali fu “compensata” dall’aumento
esponenziale dell’indebitamente privato, ossia da quello che
alcuni hanno definito una paradossale forma di “keynesismo
privatizzato”. Sarebbe a dire che le banche hanno permesso ai
lavoratori, tramite il credito/debito, di mantenere inalterati
i loro livelli di
consumo, nonostante la stagnazione salariale verificatasi
dagli anni ’70 in poi.
Questo processo di finanziarizzazione si è espletato sostanzialmente in due modi: (i) a livello internazionale, attraverso la liberalizzazione dei flussi di capitale, che – è il caso di sottolineare – fu una scelta squisitamente politica e non una conseguenza inevitabile della modernità e del progresso, come spesso viene detto, anche a sinistra; (ii) a livello nazionale, attraverso la liberalizzazione dei sistemi bancari e creditizi nazionali, per mezzo dello smantellamento di tutta quell’architettura regolatoria messa in piedi in alcuni paesi in seguito alla grande depressione e poi in maniera più diffusa in seguito alla seconda guerra mondiale, e che fu una delle architravi del cosiddetto “trentennio glorioso” (che poi tanto glorioso non fu ma quello è un altro discorso).
Paolo Paesani riflette sull’attualità di Keynes, partendo da alcuni contributi recenti sulla sua vita e sulle sue idee. Dopo aver ricordato che con la crisi del 2007 il nome di Keynes è tornato di moda nel campo della politica economica e sui giornali più che nella teoria prevalente, Paesani illustra come potrebbe affermarsi una nuova agenda di ricerca che, traendo ispirazione dal pragmatismo di Keynes, dal suo senso della storia e dalla sua visione etica, fondi “un modo di pensare migliore” che conduca a contrastare disoccupazione e disuguaglianza
“Siamo
tutti Keynesiani”. Negli
ultimi sessant’anni, questa frase è risuonata più volte alle
orecchie dell’opinione pubblica. La prima volta, nel 1965, il
magazine Time la attribuì a Milton Friedman
che, a quanto sembra, non la prese benissimo. La seconda
volta, tre anni dopo,
Friedman stesso cercò di rettificare l’affermazione,
dichiarando “Tutti usiamo il linguaggio e l’apparato
Keynesiano ma
nessuno accetta più le conclusioni iniziali di Keynes”. Il 4
gennaio 1971, al termine di un’intervista rilasciata alla rete
televisiva ABC, toccò al presidente Nixon affermare “in
economia sono un Keynesiano”, e pochi mesi dopo, di nuovo
“siamo
tutti Keynesiani”. Nel 2009, infine, commentando le azioni
adottate dai governi e dalle banche centrali in risposta alla
crisi finanziaria,
è la volta di Robert Lucas: “Immagino che chiunque, una volta
finito in trappola (foxhole nella versione
originale), sia un
Keynesiano”. In tutti i casi, è curioso che a pronunciare la
fatidica frase sia stato un avversario di Keynes, nel campo
della teoria
economica o in quello della politica. La frase, in questo
senso, assume i toni di una dichiarazione di resa, temporanea,
riluttante, insincera quanto
si vuole, ma pur sempre una resa.
Come ha ricordato di recente Maria Cristina Marcuzzo, “Dopo la crisi del 2007-8, il nome di Keynes è rientrato nella lista degli economisti che si raccomanda di leggere e di cui si ritorna a dire che sarebbe opportuno seguirne le idee. Dopo un bando di circa venticinque anni, trascorsi tra elogi del mercato e test econometrici diretti a dimostrare l’inefficacia o peggio l’irrilevanza delle politiche economiche, Keynes è riapparso sulla scena mediatica, se non proprio in quella accademica dominante, che continua per lo più ad essere la macroeconomia della restaurazione anti-keynesiana iniziata tra gli anni 1970 e 1980”.
Oggi Padoan ha proposto di cedere una quota rilevante della Cassa Depositi e Prestiti (CDP), di cui il Tesoro detiene l’82,77%, per abbattere il debito pubblico. Lo annuncia l’articolo de Il Fatto dicendo che il Governo “punta a cedere entro fine anno una nuova tranche di Poste e a portare in Borsa le Frecce delle Ferrovie dello Stato”.
Il Governo intende cedere il 15% di CDP a qualche banca d’affari della City di Londra, di quelle dove in genere finiscono i Ministri dell’Economia o i dirigenti del Tesoro quando terminano la propria carriera politica (…), e rimborsare circa 5 miliardi di euro di debito pubblico in modo da rientrare nei vincoli imposti dall’UE.
Ma si può rimborsare il debito pubblico cedendo aziende e industrie strategiche di Stato?
Analizziamo due dati chiave. Nei 15 anni che vanno dal 2001 al 2016 la liquidità primaria in Italia, data dalle monete, dalle banconote e dai conti correnti bancari (detta anche M1) è cresciuta di 520 miliardi di Euro. Nello stesso periodo, il debito pubblico dello Stato è cresciuto di 598 miliardi di Euro (dati Bankitalia).
Una
conversazione con il gruppo Ippolita sullo sviluppo del
Bitcoin e delle
blockchain come potenziale strumento decentralizzato e
peer-to-peer di emissione di una nuova moneta. A otto anni
dalla sua creazione (2009), il
Bitcoin mantiene ancora quell’aurea di alternatività
(ammesso che l’abbia mai avuta) che ha accompagnato la sua
diffusione? O,
invece, non è altro che un’ennesima innovazione “sociale”
funzionale alla crescita del capitalismo finanziario e
alla
soluzione di alcuni nodi nati con la crisi finanziaria dei
sub-prime?
* * * * *
Il bitcoin (XBT), creato nella rete Bitcoin, è la prima criptovaluta decentralizzata che non è rimasta al semplice stadio di prototipo. Ha avuto un periodo di incubazione durato anni, durante i quali, si presume, sono stati messi a punto i particolari che la definiscono: il limite assoluto di produzione della moneta, i tempi e i mezzi per farla (l’attività di mining – verifica delle transazioni), le caratteristiche di funzionamento della blockchain, l’utilizzo della crittografia asimmetrica per i wallets (portafogli).
La storia degli White Helmets, l’Ong britannica fondata da James Le Mesurier, ex ufficiale dell’esercito inglese, consulente del ministero degli Esteri del Regno, e conosciuta anche con il nome (ufficiale) di “Difesa civile siriana”, dovrebbe essere la “solita storia”: solita perché il protagonista di questa vicenda, il militare inglese, già organizzò truppe di volontari nei vari teatri di guerra occidentali, dal Kosovo all’Iraq; solita perché lo sporco lavoro delle Ong da decenni costruisce la copertura ideologico-mediatica che favorisce l’indignazione nazional-popolare prima, l’intervento umanitario dopo, e infine la ricostruzione del paese bombardato e finalmente “liberato” dal dittatore di turno. Eppure, visto il loop imperiale che ogni volta impedisce alla sinistra di prendere atto dei propri errori passati, si trasforma in simbolo, che a sua volta svela un sintomo. Ne parliamo oggi perché apprendiamo, da un articolo de Il Fatto Quotidiano (il quotidiano anti Assad per eccellenza, viste anche le simpatie sioniste dei suoi principali collaboratori), che i famigerati elmetti bianchi sono di fatto scomparsi da Aleppo a seguito della sua liberazione dalle milizie jihadiste.
Proprio nel momento in cui più necessaria appare la presenza di aiuti umanitari, in una città in fase di ricostruzione, la “Difesa civile siriana” fa perdere le sue tracce (in attesa del bombardamento di Raqqa?).
Riallacciandomi a un recente intervento di Petrosillo vorrei tentare di fare qualche considerazione attorno a un articolo di Francis Fukuyama (famoso per il noto saggio, ormai datato, sulla “fine della storia”) pubblicato sul Sole 24 ore del 05.03.2017. L’articolo tematizza quella nozione che ormai con espressione consolidata viene denominata post-verità. I dizionari aggiornati danno per questa nuova parola una definizione di questo tipo:
<<Il neologismo post-verità, derivante dall’inglese “post-truth”, indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o a una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza>>.
Viene anche in qualche modo ammesso che questo fenomeno deve essere associato al “populismo”, all’”antipolitica” e a un atteggiamento di rigetto nei confronti del linguaggio politicamente corretto. Si tratta quindi di un aspetto importante di quel fenomeno politico che vede materializzarsi, anche se ancora in maniera disarticolata, un opposizione alle elitè dominanti nell’area occidentale ad egemonia Usa. Essa manifesta quella crisi nel controllo dell’opinione pubblica che risulta essere, allo stesso tempo, causa ed effetto dell’avanzare del multipolarismo e di quell’accentuazione progressiva di posizioni “autoritarie” all’interno dei singoli Stati e delle “aree regionali”.
Ci risiamo. Gli appelli al ‘fronte comune’, all’Union sacrée contro il nuovo inquilino della Casa Bianca Donald Trump e il "despota" Putin, sembrano recuperare e riecheggiare gli appelli di qualche anno fa contro Silvio Berlusconi e il berlusconismo.
Allora il capitalismo europeista italiano animò una martellante campagna contro quello che veniva descritto come un nemico della democrazia, convincendo le sinistre a rinunciare alla propria funzione, al proprio ruolo, al conflitto stesso per imbarcarsi in alleanze che, una volta alla guida del paese, applicarono programmi di “austerità” e di smantellamento delle garanzie democratiche ben più incisivi e draconiani rispetto a quelli promossi da un personaggio che pure non brillava per sensibilità democratica. La stragrande maggioranza della sinistra politica, votandosi al suicidio, s’incaricò, di fatto, di fare il lavoro sporco per conto di quei centri di potere e di quegli spezzoni della incipiente borghesia transnazionale europea che consideravano Berlusconi ed il suo blocco sociale un ostacolo all’accelerazione del processo di integrazione imperialista continentale. La narrazione, l’inganno dell’antiberlusconismo che per anni ha rappresentato il leit motiv della propaganda europeista e del discorso della cosiddetta sinistra radicale ha preparato una stagione assai peggiore.
“Siamo
l’unico paese al mondo in cui le classi dirigenti,
a fronte di una sconfitta, non hanno cambiato se stesse
mantenendo i partiti, ma hanno cambiato i partiti mantenendo
se stesse”. Ovvero, per
essere più precisi, hanno preso un partito, che era stato il
più grande e prestigioso partito comunista d’occidente, e ne
hanno
cambiato forma, “dal partito apparatizio al partito
superleggero al partito vuoto”. Così Beppe De Santis
in La
resa dei conti: Alle radici di mafia capitale (Arianna,
Geraci Siculo, 2016, Euro 12), un libro intrigante,
intelligente e appassionato.
Il sottotitolo però è in parte ingannevole, perché non si tratta tanto di mafia capitale, cioè della mafia politica a Roma, quanto di una mutazione genetica che ha coinvolto l’intera nazione, mutazione di cui quel partito è stato al contempo artefice e interprete. E il lettore che vi si avvicina lo farà alla ricerca di una spiegazione degli eventi storici che stiamo vivendo, alla ricerca delle cause lontane che hanno determinato la trasformazione di quel partito nel “partito delle riforme”, cioè nell’avanguardia (in)cosciente del grande capitale multinazionale in Italia. Il “vuoto” di quel partito è stato lo svuotamento della sua collocazione di classe, anzi, della sua base di classe. Solo svuotandolo del suo popolo si è potuto trasformarlo nel partito del “Jobs act”, della “buona scuola” etc. etc.
A Milano, la presentazione del film “Eritrea,
una stella nella notte dell’Africa” è
l’occasione per intervistare l’autore, Fulvio Grimaldi,
ritornato dal viaggio in Eritrea dello scorso anno.
Una conversazione per ripercorrere con lui la storia dell’Eritrea, dalla guerriglia degli anni Settanta all’attuale ostracismo internazionale.
Una storia che l’Italia ha accantonato archiviando, insieme all’esperienza coloniale, la ricchezza della terra e l’orgoglio della gente eritrea. Oggi la battaglia e l’impegno dell’Eritrea è per lo sviluppo e la crescita del paese, ma anche di questo in Italia si sa poco. E il film di Grimaldi ce lo racconta.
* * * *
“L’Africa è una preda irrinunciabile” per il neocolonialismo, così dici nel film. L’Eritrea, sottraendosi a questa morsa nel 1991, con l’indipendenza, ne sta ancora pagando il prezzo?
Sì l’Eritrea sta pagando un pesante prezzo per essersi sottratta alla nuova colonizzazione che sta toccando e coinvolgendo la quasi totalità dei paesi africani dove sono presenti, salvo pochissime eccezioni, presidi, basi americane o altre forme di collaborazione, addestramento dei militare locali o della polizia. Un apparato per un nuovo colonialismo, per lo sfruttamento dell’Africa, continente ricchissimo di risorse.
La classe dirigente del nostro paese non perde l’occasione di mostrarsi diligente nell’applicazione di misure, necessarie alla salvaguardia dei rapporti di produzione, che ci stanno conducendo alla rovina
Il
capitalismo, nella sua fase superiore di sviluppo,
diviene un modo di produzione sempre meno difendibile con
argomenti razionali. Come
giustificare un sistema in cui gli otto super miliardari
censiti da “Forbes”, che certamente non hanno bisogno di
lavorare, detengono una
quantità di ricchezza superiore a 3,6 miliardi di persone, in
massima parte lavoratori, che costituiscono la metà meno ricca
della
popolazione mondiale? E la situazione sta rapidamente
peggiorando, visto che gli stessi dati Oxfam mostrano
come nel 2016 l’1% più ricco, che non ha bisogno di lavorare,
ha accumulato maggiori ricchezze del 99% che in massima parte
lavora, ha
lavorato o aspira a farlo.
Tale modo di produzione non è irrazionale solo in quanto ingiusto e fondato sullo sfruttamento, che provoca spaventose differenze di reddito, ma in quanto sta destinando a una rovina sempre più irreversibile il sistema ambientale del nostro pianeta, da cui dipende la sopravvivenza stessa del genere umano. Anche in questo caso la situazione sta rapidamente precipitando, come mostrano due recenti indagini dell’Organizzazione mondiale della sanità che denunciano come il degrado sempre più rovinoso degli ecosistemi comprometta gravemente la salute, in primo luogo dei bambini. L’Oms stima che più di una morte su quattro tra i bambini sotto i 5 anni (1 milione e 700 mila bambini, il 26% dei 5,9 milioni di decessi all’anno) sia imputabile all’inquinamento dell’ecosistema.
Gli attacchi al mondo del lavoro, da parte del capitalismo globale finanziario, non hanno gli stessi effetti su lavoratori e lavoratrici. Inoltre, per comprendere il fenomeno, occorre distinguere i fenomeni esogeni, che hanno portato all’instaurazione di questo nuovo modello capitalistico, ed i fenomeni endogeni, economici ma anche politicamente voluti e controllati. Per esempio, la trasformazione della Cina e dei paesi del blocco sovietico in paesi ormai capitalistici ha avuto come effetto un raddoppio della forza lavoro mondiale, permettendo così un dumping sociale su scala globale. Questo è stato un fatto esogeno. Al contrario, la finanziarizzazione dell’economia è il risultato di scelte anche politiche. La finanziarizzazione è nata anche perché politicamente si sono permesse “innovazioni” degli strumenti finanziari, la nascita dei derivati, etc. L’amministrazione Clinton ha cancellato il Glass-Stegall Act – la legge bancaria del 1933, introdotta a seguito della crisi del 1929, che prevedeva una netta separazione tra l’attività bancaria tradizionale e quella di investimento – seguendo la logica della de-regolamentazione del settore bancario-finanziario. Anche la liberalizzazione dei movimenti di capitale è stata politicamente fortemente voluta. L’integrazione europea con questo tipo di euro è il risultato di scelte politiche.
Fatta questa premessa, va sottolineato che l’attacco al mondo del lavoro da parte di questo “nuovo” modello capitalistico avviene in un modo diretto ed in uno indiretto.
A cavallo fra i sessanta e i settanta, tutte le società occidentali furono attraversate, in varia misura, da una ondata di movimenti di protesta: la generazione nata dopo la guerra metteva in discussione tanto gli equilibri sanciti dalla guerra fredda quanto la stessa legittimità del sistema sociale e politico.
A questa si aggiunse, in molti paesi, una ondata di rivendicazioni salariali senza precedenti e poi, una serie di movimenti di genere, di dissenso religioso, di ceti marginali ecc. Questo magmatico ribollire di istanze, affermazioni di identità e proteste non riuscì a darsi un progetto politico.
La “stagione dei movimenti” si concludeva definitivamente nella seconda metà degli anni settanta: già nel 1975, il movimento era in pieno riflusso in Germania, Inghilterra, Usa, Francia, dopo qualche anno seguì l’Italia.
Nello stesso 1975, si svolse un importante convegno di studi organizzato dalla Trilateral Commission (nata due anni prima, come raccordo fra i circoli dirigenti finanziari, industriali di Usa, Europa e Giappone).
Erik Prince è finanziatore di Trump ed ex boss dei mercenari Blackwater. Oggi è a capo di un’azienda partecipata dalla cinese Citic che ha aperto due campi di addestramento in Cina. Per sfruttare il piano di Pechino «One Belt One Road»
Da tempo negli Usa si discute del nuovo progetto lanciato dalla Cina, «la nuova via della Seta», nota come «One Belt One Road» (Obor). Un progetto mastodontico che rappresenta la proposizione «globale« della Cina. Oltre 60 paesi coinvolti, metà della popolazione mondiale, per un giro d’affari di miliardi di dollari, una banca di investimenti a guida cinese, la Aiib, e un fondo creato ad hoc da Pechino. Per la Cina si tratta di una piattaforma a disposizione di tutti, nella logica del «win-win», che potrebbe inaugurare il cosiddetto «imperialismo dei corridoi», il modo con cui Pechino intende la «globalizzazione»: come ha scritto Giorgio Grappi sul numero di Limes dedicato ai rapporti tra Usa e Cina alla luce dell’arrivo di Trump alla Casa bianca, «possiamo riassumere l’emergere di una politica dei corridoi intorno ai seguenti elementi: la definizione di una rete centrale che ne costituisce l’ossatura; la creazioni di corpi misti per la realizzazione e la governance degli spazi coinvolti, la definizione di regolamenti interni, pratiche gestionali e standard comuni (…) la messa in sicurezza dei siti strategici».
LA NUOVA VIA DELLA SETA è dunque una piattaforma; la Cina offre a tutti la possibilità di entrarci a varie condizioni:
Dopo il referendum costituzionale il governo italiano, sostenuto dalla vecchia leadership del PD, si è ricompattato decisamente a destra. Per affrontare la sfida vuoi di Salvini vuoi di Grillo, entrambi rafforzati dalla crescita mondiale delle forze della supremazia bianca (il cosiddetto ‘populismo’ che alla fine si rivolge contro lo stesso popolo), buona parte del mondo politico si ri-orienta verso una politica dal sapore razzista: una politica che identifica nella forza-lavoro degli africani e asiatici presenti sul territorio un capro espiratorio da offrire a una classe operaia bianca delusa dalle promesse disattese dallo stesso ceto politico, che mai più riuscirà a garantire la crescita economica.
L’attacco del governo Gentiloni è stato sferrato su tre fronti, rispettivamente dal Ministero degli Affari Esteri di Alfano, dal Ministero dell’Interno di Minniti, e dal Ministero di Grazia e Giustizia di Orlando: tutti alleati in una santa battuta di caccia contro i migranti, soprattutto quelli che arrivano a bordo dei gommoni.[1]
Il piano Minniti: lavori forzati?
Nell’ultimo giorno dell’anno passato si sono già avuti alcuni segnali della nuova politica, allorché Minniti ha annunciato l’intento di aprire nuovi Centri di Identificazione e Espulsione in tutta Italia,
Il governo italiano ha deciso che voi, che mi state leggendo, pagherete le tasse ai ricchi che immigreranno in Italia. Infatti chiunque guadagni più di €250mila annuali (al di sotto di questa soglia non vi sarebbe convenienza ad attivare questo status), pagando 100mila euro all’anno, otterrà la residenza in Italia e saranno esenti da ogni altra tassazione. Un piccolo affare per chi guadagna poco meno di mezzo milione all’anno, un grande affare per plurimilionari, visto che la cifra di €100mila è forfait.
Questa idea non è originale, c’è già nel Regno Unito, dove è chiamata, brevemente “non-dom status” (non domiciled status), ovvero stato di residenza non domiciliato. Fa scandalo anche lì e, benché nessuno lo difenda a spada tratta per ovvie ragioni, i conservatori si guardano bene dall’abolirlo (anche se l’ex Cancelliere George Osborne dichiarò di volerlo abolire).
In Italia invece questa misura che permette che le tasse le paghino solo i lavoratori e le imprese italiane onesti, è introdotta dal governo del Partito Democratico, un partito che odia chi lavora e ama chi campa di rendita, al punto che cerca di farne venire il più possibile dall’estero. Certamente un modo brillante di governare la globalizzazione nella sua fase calante, nonché di ricordare agli italiani il valore dell’uguaglianza e della solidarietà verso i poveri milionari stranieri che scappano da tassazioni progressive.
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Emilio Quadrelli, SULLA GUERRA. Crisi Conflitti Insurrezione, Red Star Press 2017, pp. 276, € 18,00
“Oggi la guerra non è
più una tendenza
bensì un
dato di fatto” (E. Quadrelli)
Seguo con estremo interesse e, ormai, da più di dieci anni il lavoro di pubblicista di Emilio Quadrelli. A partire, almeno, da quegli straordinari reportage pubblicati dieci anni fa su “Alias”, supplemento settimanale del “Manifesto”,1 in cui l’autore dava voce alle donne protagoniste delle rivolte delle banlieues oppure delle violenze collegate alla presenza militare della Nato nei Balcani, soltanto per citarne due dei più interessanti.
Ne ho sempre apprezzato la ricerca militante unita ad una passione che è raro trovare persino nel pensiero antagonista e di sinistra. Non sempre ho completamente condiviso i presupposti teorici ed ideologici2 su cui basa le sue analisi, ma ho comunque sempre ritenuto le sue narrazioni e proposte un buon punto di partenza per discutere delle contraddizioni del presente e delle prospettive della società e delle lotte di classe in questa fase di senescenza dell’imperialismo occidentale.
Tale impressione mi è stata confermata dal testo edito di recente dalla Red Star Press che affronta, senza mezzi termini, il problema della guerra in cui siamo già immersi. Anche se, troppo spesso, molti sembrano non essersene ancora accorti.
Con grande dispiacere apprendiamo la notizia della scomparsa del filosofo comunista francese André Tosel, studioso di Marx e Gramsci. Per ricordarlo vi proponiamo una doppia intervista che Laurent Etre sul quotidiano comunista «l’Humanité» realizzò con André Tosel e Edgar Morin nel giugno 2010
Con la crisi, il riferimento a Marx cessa
di essere un tabù. Le opere sull’autore del
Capitale si moltiplicano, così come i ‘dossier’ speciali nei
giornali e nelle riviste.
Senza mettere sullo stesso piano le numerose pubblicazioni consacrate a Marx in questi ultimi mesi, non si può nemmeno non interrogarsi su questo ritorno di interesse così repentino. Quando riviste quali “Le Nouvel Observateur” o “Le Point”, ciascuno con la propria sensibilità, si occupano di Marx, ciò fornisce l’indicazione che si apre qualche crepa in un paesaggio mediatico ancora dominato dall’ideologia del capitalismo come orizzonte insuperabile della storia.
“Si può ben dire che ciò a cui noi assistiamo non è soltanto la fine della guerra fredda o di una fase particolare del dopoguerra, ma la fine della storia in quanto tale: l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma finale del governo umano” scriveva nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino, il capofila di questa concezione, l’americano Francis Fukuyama. Vent’anni dopo, nell’ottobre 2008, alcuni newyorchesi manifestano davanti alla Borsa di Wall Street brandendo dei manifesti con su scritto: “Marx aveva ragione!”. Il suo ritorno sarebbe la conseguenza meccanica della caduta degli idoli neoliberali? Rimanere a questo livello della riflessione sarebbe non voler vedere che si attribuisce a Marx un’altra concezione della fine della storia, “la società libera e senza classi”, da opporre a quella – riconosciuta fallimentare – di Fukuyama. Questo postulato della fine della storia è stato largamente strumentalizzato per legittimare il potere dei regimi autoritari all’epoca del “socialismo reale”.
Lo sciopero dell’8 marzo è stato la prima
sollevazione globale contro il neoliberalismo. Per
comprenderne appieno il
significato esso deve essere guardato dalla giusta distanza:
chi lo guarda solo dalla sua città o dal suo spezzone di
corteo non vede quello
che è veramente accaduto. La sua misura, che in realtà è la
sua dismisura politica, sta tutta nel suo carattere globale.
La
dismisura politica si coglie nell’impossibilità di ridurlo a
una festa rituale. Sta nella molteplicità di terreni investiti
da uno
sciopero sociale transnazionale che ha ridefinito la pratica
sociale dello sciopero ben oltre le minime esperienze che lo
hanno preceduto. Dismisura
è la scelta di milioni di donne che, coinvolgendo moltissimi
uomini, si sono mobilitate invocando e praticando lo sciopero.
Solo partendo da
questa dimensione politicamente e non solo geograficamente
globale si può comprendere la molteplicità di rivendicazioni e
di pratiche
che si sono espresse al suo interno.
Corri, corri, corri Taypp… Stiamo arrivando! Hanno cantato in coro decine di migliaia di donne e di uomini per le strade di Istanbul, attaccando il «governo di un sol uomo» di Recep Taypp Erdogan. In Turchia l’8 marzo delle donne è stato il legittimo erede di Gezi Park, perché è diventato una manifestazione di massa contro un governo che sta sequestrando ogni libertà.
Le immagini della convention democratica del Lingotto rimandano plasticamente alla rovina del nostro tempo. A cominciare dal luogo scelto, che vorrebbe rimandare ai “valori del lavoro”, ma che più mestamente certifica un mondo “democratico” – fatto di convention e ristoranti, turismo e terziario avanzato – completamente sconnesso con la realtà. Il problema della riconversione immateriale del Lingotto è esattamente uno dei problemi del nostro tempo. Si dirà che la fabbrica è chiusa da più di un trentennio, che l’unico modo per riqualificare l’area era riconvertirla a struttura funzionale all’intrattenimento culturale, che il modello stesso della grande fabbrica è andato in pensione con la caduta del muro, anzi diversi anni prima. Verità mediatiche spacciate per ovvietà, ma che non reggono a una minima prova dei fatti. Anzitutto, perché la grande fabbrica non solo resiste nel nostro paese, ma si moltiplica nella manifattura globalizzata in Europa e nel resto del mondo. Non chiude la grande fabbrica perché non più funzionale, ma sposta la propria sede per ragioni di risparmio. Un po’ diverso dal dire che la fabbrica non serve più o che “l’economia 4.0”, come va di moda dire oggi, ha preso il sopravvento sulla produzione materiale. Più semplicemente, occhio non vede, cuore non duole. Più onesto sarebbe ricordare che al capitale quel modello manifatturiero serve eccome, ma che spostato in Polonia o in Bangladesh garantisce più profitti economici e meno seccature politiche.
Sotto il titolo “L’insidiosa creatività del dominio” il Manifesto pubblica una recensione di Giulia Valpione dedicata all’importante saggio del filosofo francese Pierre Macherey “Il soggetto e la norma” appena tradotto da Ombre Corte.
Vale la pena entrare nel merito delle argomentazioni ivi sostenute perché il tema è quello del dominio, un tema al centro della discussione sul piano teorico proprio nella fase storica in cui: “ l’ideologia ha perso la propria forza nell’analisi filosofica e politica per il proprio carattere di idea e di rappresentazione”.
Insorge dunque: “ Il potere delle norme”.
Un potere che si rivela particolarmente insidioso per il suo statuto non meramente negativo ma positivo e creativo. Formando gli elementi che regolano, le norme ne determinano anche il campo di possibilità: se quindi le leggi si applicano a un reale già dato, le norme si esercitano sul possibile.
In sostanza le norme sono lo strumento dell’azione di governo: il che significa : “strutturare il campo d’azione possibile per gli altri”.
L’autrice della recensione pone, allora, una domanda: “Se il soggetto è il risultato delle norme (costretto entro il solo campo d’azione possibile n.d.a.) è possibile pensare a una resistenza?
Il siluro lanciato attraverso il New York Times – l’accusa a Mosca di violare il Trattato sulle forze nucleari intermedie (Inf) – ha colpito l’obiettivo: quello di rendere ancora più tesi i rapporti tra Stati uniti e Russia, rallentando o impedendo l’apertura di quel negoziato preannunciato da Trump già nella campagna elettorale.
Il siluro porta la firma di Obama, che nel luglio 2014 (subito dopo il putsch di Piazza Maidan e la conseguente crisi con la Russia) accusava Putin di aver testato un missile nucleare da crociera, denominato SSC-X-8, violando il Trattato Inf del 1987 che proibisce lo schieramento di missili con base a terra e gittata compresa tra 500 e 5.500 km. Secondo quanto dichiarano anonimi funzionari dell’intelligence Usa, ne sono già armati due battaglioni russi, ciascuno dotato di 4 lanciatori mobili e 24 missili a testata nucleare.
Prima di lasciare l’anno scorso la sua carica di Comandante supremo alleato in Europa, il generale Breedlove avvertiva che lo schieramento di questo nuovo missile russo «non può restare senza risposta».
Taceva però sul fatto che la Nato tiene schierate in Europa contro la Russia circa 700 testate nucleari statunitensi, francesi e britanniche, quasi tutte pronte al lancio ventiquattr’ore su ventiquattro.
Attraverso il fisco lo Stato redistribuisce la ricchezza secondo un principio di giustizia e di solidarietà: chi ha più forza economica versa più soldi di chi ne ha meno. È quanto prevede la Costituzione italiana, stabilendo che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, e soprattutto che “il sistema tributario è improntato a criteri di progressività” (art. 53). In tal modo più si è facoltosi, e più è elevata la percentuale di reddito che deve essere versata allo Stato, che la utilizzerà per fornire i beni necessari a soddisfare i diritti fondamentali di chi non può ottenerli a prezzi di mercato: dalla sanità all’istruzione, passando per le pensioni, la casa e la mobilità. Si attua così il principio di parità sostanziale richiamato anch’esso dalla Costituzione italiana, per cui lo Stato deve assicurare l’uguaglianza dei cittadini rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona (art. 3).
Opposto è lo schema voluto dalle destre, che rifiutano la progressività del sistema tributario e reclamano la flat tax: la tassa piatta, con aliquota fissa, che non cresce con l’aumentare del reddito. È lo schema utilizzato nella Russia di Putin, in alcuni Stati un tempo appartenuti al blocco sovietico e poi divenuti campioni di liberismo, e ovviamente nei paradisi fiscali. Lo schema che in Italia è stato sponsorizzato da Berlusconi negli anni Novanta, e più recentemente dalla Lega.
Renato Curcio (a cura di), L’egemonia digitale. L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, Sensibili alle foglie, 2016, € 16,00.
L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro assume i contorni di un cambio epocale; per averne una stima quantitativa, il World Economic Forum di Davos calcola che in Italia, tra il 2015 e il 2020, questo comporterà la perdita del 48% dei posti di lavoro. In un tempo brevissimo, assisteremo dunque a un processo di desertificazione occupazionale con tutte le conseguenze del caso, come la generalizzata riduzione salariale e la scomparsa definitiva di figure professionali che ritenevamo ormai consolidate.
È un mutamento così rapido da mettere in seria difficoltà la nostra capacità di percepirlo, difficoltà che si riflette anche sul piano istituzionale dove, per fare un esempio dalle cronache recenti, lo stesso legislatore non sa dove collocare un’agenzia come Uber, indeciso fino al parossismo se considerarla un’azienda di trasporto o un’impresa digitale. La trasformazione in corso concerne l’insieme del mondo produttivo, dalle professioni tecnico-operaie, sempre più scavalcate dalla robotica, a quelle impiegatizie e cognitive, fino a comprendere anche le nobili professioni liberali dell’avvocato o del medico.
Questa metamorfosi è di tale entità da investire la stessa idea di progresso, almeno per come l’abbiamo fin qui concepita.
Nel merito del
dibattito aperto dal nostro
ebook pubblicato lo scorso febbraio Gli USA di Trump: il crepuscolo della
seconda globalizzazione? raccogliamo volentieri e
pubblichiamo il giudizio in proposito di
Carlo Formenti, professore aggregato all'Università del
Salento e studioso dei movimenti e dei nuovi media, che
nei suoi ultimi lavori ha
scandagliato il fenomeno populista e lo spazio di
possibilità e problematiche che apre nella fase e nella
ridefinizione delle attuali categorie
politiche e della demarcazione amico/nemico. Il suo
intervento continua il dibattito iniziato su numerosi
media di movimento quali Radio BlackOut, Radio Onda d'Urto, Radio Onda Rossa e Radio Ciroma,
confronto che continuerà su queste pagine e con altre
iniziative in programma.
* * * * *
Che giudizio dai dello sforzo di analisi che la redazione di Infoaut ha compiuto sulla vittoria elettorale di Trump?
Credo che si tratti di un contributo importante: l’ebook di Infoaut contiene un corposo dossier (più di 150 pagine) che raccoglie, fra gli altri materiali, articoli redazionali, interviste e traduzioni di articoli americani, spaziando su un largo ventaglio di argomenti; per citare solo quelli che ritengo più rilevanti: composizione di classe del voto, sconfitta dei media mainstream e delle grandi macchine elettorali di partito, crisi della globalizzazione, interpretazioni contrastanti delle cause della sconfitta da parte delle sinistre, scenari del conflitto politico e sociale nell’America di Trump.
Spontaneità e
direzione consapevole: la
lotta per l’egemonia in Gramsci
1) In riferimento alla morfologia nuova dei processi economico-sociali e politici dopo il 1917-21, dopo quella che si doveva considerare l’ultima guerra di movimento, vale a dire la Rivoluzione d’Ottobre, Gramsci – come sappiamo – indicava nella guerra di posizione l’insieme delle forme della lotta politica, delle «forme dello scontro di classe» (1), così come esse si sviluppavano dentro e in rapporto a questi processi: per tale via segnalava la novità radicale della «quistione egemonica» intervenuta dopo il declino dell’«individualismo economico» e dopo la penetrazione e la diffusione inaudita della politica e dello Stato nella trama “privata” della società di massa.
Proprio in connessione con la novità radicale della «quistione egemonica», la concezione dello «Stato allargato», se non comportava per Gramsci la messa in mora o l’attenuazione della concezione dello Stato «secondo la funzione produttiva delle classi sociali», significava una complessificazione radicale del rapporto tra politica ed economia, una intensificazione molecolare di un primato della politica inteso come capacità, come potere di produzione e di governo di processi di passivizzazione e di standardizzazione. A questo riguardo, si deve dire che l’attenzione gramsciana ai fenomeni del cesarismo moderno, del capo carismatico, del ruolo della burocrazia in connessione con le funzioni dello «Stato-governo» (attenzione nutrita di riferimenti a Michels e a Max Weber) chiamava in causa, al fondo, proprio il profilarsi della nuova complessità post-liberale dei rapporti masse-Stato, produzione-egemonia.
* * * *
Il presidente della Siria - “La crisi dei rifugiati effetto degli errori dell’Occidente Dobbiamo cacciare nemici e ribelli, poi si potrà parlare di politica e del resto”
La Siria è
così piena di ritratti di Bashar Al Assad
– in strada, sui muri, in albergo – che a tutti sembra già
di
conoscerlo. Eppure l’uomo che ti stringe la mano nel palazzo
presidenziale costruito dal padre Hafez, a parte
la cravatta
rigorosamente di Hermès, ha poco in comune
con il leader dallo sguardo indomito dell’iconografia di
regime. Si è
anche tagliato i baffi, forse per sembrare più occidentale.
Dall’alto del suo metro e novanta, fissa con occhi azzurri
spalancati i
giornalisti che ha voluto incontrare nel tentativo di
spiegare all’opinione pubblica
internazionale la sua versione sulla
catastrofe siriana. Raggiungere Assad non è semplice, è
stato possibile solo accompagnando una delegazione di
Europarlamentari che, a titolo personale,
cerca di riattivare un’azione diplomatica europea sullo
scenario siriano, per
superare l’attuale isolamento (tra i promotori due italiani,
Fabio Massimo Castaldo del Movimento 5
Stelle e Stefano
Maullu di Forza Italia).
Mentre parla, Assad intreccia le lunghe dita – solo le mani rivelano i suoi 52 anni – la sua voce è così sottile che bisogna protendersi verso di lui per non perdere le parole, quasi coperte dai clic delle macchine fotografiche del regime, le uniche autorizzate a riprendere il presidente.
"Tornare a casa. Per ripartire insieme". Il motto renziano del Lingotto suona come una presa in giro. Renzi aveva detto mille volte che se avesse vinto il No al referendum costituzionale sarebbe "tornato a casa". Ora scopriamo che era uno slogan a doppiofondo, che c'era una riserva mentale. Come quelle dei gesuiti del Seicento, che facevano andare in bestia Pascal perché dicevano mezza frase a voce alta, e l'altra mezza (che contraddiceva la prima) sottovoce. E colpisce la strumentalizzazione di un plurale che Renzi non aveva mai usato. Era lui a dover tornare a casa: e ora invece è tempo di ripartire insieme. Il problema è: si può credere a Matteo Renzi?
La sconfitta del Sì va infatti letta anche sul piano del discorso politico, e della psicologia di massa. È stato rigettato il modello plebiscitario del capo che si rapporta direttamente con la folla. Non perché esistano radicati anticorpi: che purtroppo, al contrario, sono assai scarsi. Quella svolta è stata rifiutata perché è apparso evidente - ad un livello direi quasi pre-razionale - che il capo mentiva: è questo che la 'gente' ha 'sentito'.
Una menzogna che è stata platealmente confermata ex post proprio dal rifiuto di Matteo Renzi di ritirarsi dalla politica, al contrario di ciò aveva più volte solennemente promesso.
Cinquant’anni fa uscivano in Francia gli atti del Colloquio di Royaumont, svoltosi tre anni prima, che avrebbero segnato i destini della filosofia “continentale” all’insegna della Nietzsche-Renaissance: una rinascita dell’interesse per la figura e l’opera di Nietzsche, definitivamente riscattato dalle strumentalizzazioni naziste, preparata anche dalla pubblicazione nel 1961 del poderoso corso di Heidegger e, soprattutto, dall’edizione critica nel 1964 delle opere di Nietzsche, curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Tra gli interventi di quel convegno, quello di Michel Foucault, che, ricordiamolo, poco prima di morire sulle pagine di Les Nouvelles littéraires dichiarerà di essere sempre stato “semplicemente un nietzschiano”, presenta una singolarità. Nietzsche, nel saggio, è in compagnia degli altri “maestri del sospetto”, Marx e Freud, che, a differenza di Ricoeur, non sono visti da Foucault tanto come coloro che dubitano della coscienza trasparente a se stessa, di cartesiana memoria, e l’allargano demistificandone i pregiudizi o i condizionamenti che su di essa operano l’ideologia borghese, le pulsioni libidiche o i valori della tradizione morale e metafisica. Gli autori della Nascita della tragedia e della Genealogia della morale, del Capitale e dell’Interpretazione dei sogni non mettono in campo un soggetto che accede a una verità più profonda di se stesso, ma un nuovo sistema di interpretazione, una nuova possibile ermeneutica, che coglie il senso profondo nell’esteriorità,
Non gettate le vostre
perle davanti ai
porci,
perché non le calpestino con le loro zampe.
Francesco Borgonovo sulla Verità di ieri ha citato da par suo il noto comunista di Treviri: «In una società comunista, spiegò una volta Karl Marx, la produzione sarà organizzata in modo tale da permettere all’uomo “di fare oggi questa cosa, domani quell’altra”. In una società del genere, io potrei, “la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore né critico”». Vediamo come Borgonovo chiosa la perla marxiana: «Mi ridurrei a vivere una vita senza scopo, cercando di tenermi impegnato in qualche modo». Perle ai porci, verrebbe da dire sulla scorta di certe interpretazioni della «stravagante utopia» marxiana.
La celebre battuta marxiana, che con ironia sconta la ”materialistica” circostanza per cui nessuno è in grado di prevedere i modi in cui gli esseri umani eventualmente liberati dalla maledizione del lavoro capitalistico userebbero il loro prezioso tempo, si trova ne L’ideologia tedesca (1),un capolavoro scritto tra il 1845 e il 1846, pubblicato per la prima volta nel 1932, che invito a leggere a chi volesse farsi un’idea abbastanza precisa di cosa Marx ed Engels intendessero per comunismo.
Mi capita raramente di condividere quasi tutto di un articolo che leggo sul Corriere della Sera, e mi capita ancora più raramente se l’autore dell’articolo è Ernesto Galli della Loggia. Ma devo confessare che la lettura del suo pezzo di apertura (con continuazione all’interno, sulla pagina “Opinioni e commenti”) datato giovedì 9 marzo e intitolato “Progresso (e declino) a sinistra” mi ha strappato un applauso mentale. Ne sintetizzo le argomentazioni di fondo, anche attraverso una serie di citazioni.
Dopo essersi chiesto se una delle cause di fondo dell’attuale declino della sinistra sia l’insistenza con cui quest’ultima insiste nel definirsi “progressista”, Galli della Loggia scrive: ”Che cosa vuol dire, oggi, essere e dirsi <<progressisti>>?”, aggiungendo poco oltre: “quali sono i caratteri di un fatto o di un fenomeno che oggi possono farlo considerare realmente un <<progresso>>?”. Dopodiché elenca una lunga serie di recenti innovazioni tecnologiche, scientifiche, culturali, politiche, culturali, di costume il cui significato, ove valutato secondo i valori e i principi “classici” della sinistra – uguaglianza, giustizia sociale, miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, ecc. – dovrebbe apparire quanto meno ambiguo e contraddittorio, se non francamente negativo, ed è stato invece accettato senza problemi, o addirittura con entusiasmo, da una sinistra schierata apriori dalla parte del “nuovo”.
La nuova botta di rivelazioni di Wikileaks ha il grande pregio di riportare sulla terra una serie di fantasie che si erano levate come palloncini e che, come quelli, erano destinate a scoppiare appena arrivate in quota. Gli 8 mila nuovi file, per farla breve, ribadiscono quanto ci avevano già fatto sapere la soldatessa e analista dell'intelligence militare Chelsea Manning (all'epoca dei fatti, nel 2009, ancora con l'identità maschile di Bradley Manning) e, più avanti, nel 2013, l'ex tecnico della Cia e consulente della Nsa Edward Snowden.
E cioè, che l'apparato spionistico degli Usa è in grado di intercettare tutto e tutti, e lo fa. Che erano finiti sotto controllo i telefoni di Hollande e della Merkel e di altri leader europei e asiatici, che grazie alla Rete Echelon (il programma avviato da Usa, Gran Bretagna, Australia, Canada e Nuova Zelanda) le nostre comunicazioni private sono esposte come se fossero pubbliche, che persino le ultime elezioni presidenziali in Francia erano state accuratamente “ascoltate”.
Il particolare più divertente delle ultime scoperte di Wikileaks è che, in aggiunta a tutto il resto, fin dal 2014 la Cia può utilizzare un software capace di intercettare le conversazioni che facciamo in salotto mentre guardiamo un qualunque programma con la smart Tv di cui andiamo tanto fieri e che riporta le nostre parole anche quando è spenta.
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C’è un gigantesco spazio
politico
nuovo per la liberazione umana. Una opportunità che sembra
oscurata dalla potenza della crisi, dalle minacce di guerra e
che, invece, è
lì, solo a osservare la realtà con occhi curiosi e un po’
ipermetropi.
Certo non lo si può mettere a fuoco nel sottile distinguo che divide, in maniera spesso poco comprensibile, la miriade di sigle che attraversano la galassia della politica. E non solo nel nostro paese. Destra e sinistra – che continuano ad esistere al di là della distribuzione degli eletti tra gli scranni dei parlamenti dell’Occidente – rispondono in maniera diversa alla trasformazione profonda che attraversa il mondo. Una crisi che è disvelamento dei limiti raggiunti dall’attuale modello di vita. Una struttura imposta all’umanità da processi economico-sociali che stanno mostrando tutti i loro limiti e infliggendo tutti i dolori possibili all’umanità intera, a tutta la sfera del vivente, all’ecosistema del pianeta.
C’è una politica che pensa sia possibile rimettere in sesto equilibri sociali o economici e che mai, in realtà, erano stati raggiunti o gradi di libertà indivi duali e collettivi mai realmente vissuti. Una politica che si affanna in quello che autodefinisco come “realismo”, “concretezza” ed è, in realtà, il più grande degli inganni e la più spettacolare delle illusioni.
Pare
che - dopo
qualche settimana
di
incomprensioni - finalmente la BCE abbia abbassato
le proprie pretese su Montepaschi (ricapitalizzazione da 6
miliardi e mezzo invece che quasi 9)
al fine di rendere l'intervento statale compatibile,
secondo la visione della Commissione, con le norme sugli
Aiuti di Stato. Siccome nulla è
gratis, il minor apporto di risorse statali dovrebbe
essere controbilanciato da una significativa riduzione
degli attivi di Mps, riduzione che si
traduce - ovviamente - anche nel ridimensionamento della
rete e, dunque, del numero dei lavoratori.
I possibili esuberi sono stimati addirittura in 5.000.
Questa "cura dimagrante", tra l'altro, sarebbe funzionale alla successiva cessione del Monte dallo Stato ai privati (altro dogma della Commissione UE, soprattutto in caso di banche del Sud Europa), sia che del Monte si faccia uno spezzatino, sia che qualche grande player non ne acquisisca la totalità (cosa che, peraltro, a mio avviso, è assai poco probabile).
In ogni caso, cinquecento anni di storia di chiudono qui, dopo dieci anni di patimenti.
In Parlamento sono state presentate alcune proposte per la costituzione di una Commissione di inchiesta sul sistema bancario italiano in generale e su Mps in particolare. A mio avviso, c'è poco ancora da scoprire (a meno di non fra finta di non vedere).
L’esperienza
dei Quaderni rossi rappresenta una tappa centrale nello
sviluppo del movimento operaio italiano: i sei numeri, usciti
fra 1961 e
1965, forniscono le basi per un’interpretazione rinnovata del
panorama nazionale, mutato in seguito al picco di crescita
degli ultimi anni
Cinquanta e al conseguente ‘ammodernamento’ di apparato
produttivo industriale e relazioni lavorative. L’analisi
condotta dai
Quaderni, ancorata soprattutto al piano teorico – la
rilettura di Marx – e a una pratica – l’inchiesta operaia –
rivestirà un’importanza centrale per tutto il ciclo di lotte
che si apre nel 1962 con Piazza Statuto per chiudersi nel
decennio
successivo. In questo percorso Fortini assume un ruolo non
secondario: attraverso il proprio intervento saggistico
contribuisce ad aprire, assieme a
coloro che intervengono sui «Quaderni» – «rossi» e, da
un’altra prospettiva, «piacentini» – e
sulle moltissime riviste nate nel corso degli anni Sessanta,
uno spazio politico a sinistra del PCI, occupato da
organizzazioni di vario stampo,
orientamento, dimensione.
Raniero Panzieri, fondatore dei Quaderni rossi, muore nel 1964, all’età di 43 anni. Di formazione filosofica, intreccia per molti versi la propria esperienza intellettuale a quella di Franco Fortini, all’interno delle residue possibilità di movimento che, nel quinquennio 1956-1961, la posizione filosovietica del PCI e le aperture al centrosinistra del PSI lasciano agli intellettuali italiani:
Il plusvalore creato dal lavoro femminile fa parte del processo di creazione di nuovo valore nella fabbrica diffusa dove tempo di vita e tempo di lavoro si mischiano
L’articolo che Piero Bevilacqua ha pubblicato recentemente su questo giornale in occasione dell’8 marzo, è un testo esemplare dei metodi e dei contenuti che dovrebbero caratterizzare la sostanza analitica e politica del «nostro campo».
Bevilacqua mette al centro della propria riflessione un aspetto essenziale del modo in cui si estrae plusvalore dal «lavoro-vivo» femminile nei nostri tempi. Si tratta di un’importante indicazione di metodo per quanto riguarda l’insieme della questione «lavoro». Il fatto che il plusvalore creato dal «lavoro-vivo» femminile non provenga soltanto dai luoghi di produzione a ciò tradizionalmente deputati (fabbriche, uffici…), infatti, non è questione solo di genere. Il genere naturalmente mantiene nell’ambito di un processo complessivo le sue specificità, ma è appunto all’interno (nel profondo) del processo che è necessario esercitare l’indagine.
Numerosi studi basati su ampia e rigorosa ricerca empirica dimostrano come la valorizzazione del capitale (la crescita della ricchezza) avvenga in misura progressivamente più rilevante, in questi nostri tempi, attraverso una sorta di fabbrica diffusa, deterritorializzata, una fabbrica fuori della fabbrica, priva di strutture materiali, ma ricca di capitale umano.
Sabato scorso i media italiani sono riusciti a ritagliare attorno a Matteo Salvini un copione analogo a quello già messo in scena negli USA con CialTrump. Anzi, la replica è stata talmente puntuale da risultare palesemente falsa. Il ministro degli Interni Minniti all’inizio di marzo aveva fatto sapere che si sarebbe personalmente “occupato” delle questioni di ordine pubblico relative alla visita del segretario della Lega Nord a Napoli. La promessa di Minniti sembrava preannunciare l’arrivo di sfracelli.
Il ministro non deve invece aver lavorato molto bene, dato che i disordini anti-Salvini sono stati davvero poca cosa: ristretti ad un tratto stradale molto limitato e con la rottura di qualche finestrino di automobile. Su RaiNews24 cronisti con la voce rotta ed ansimante si sono dovuti sforzare di conferire ad immagini poco significative una drammaticità che esse non possedevano in proprio. Si tratta quindi di eventi di scarso rilievo se li si confronta con le manifestazioni e gli scontri verificatisi a più riprese nello scorso anno per le visite a Napoli di Matteo Renzi. L’ex Presidente del Consiglio nello scorso anno era venuto a Napoli quattro volte: ad aprile per la questione Bagnoli, a giugno per la campagna elettorale delle Amministrative, a settembre per una rappresentazione al teatro San Carlo ed a novembre per la campagna referendaria.
È utile rispolverare gli strumenti dell’istruzione liceale, come l’analisi del testo, di fronte agli editoriali che si ripetono sulla stampa italiana. Ad esempio quelli di Dario Di Vico sul Corriere della Sera. L’ultimo si scaglia contro la decisione della CGIL di portare avanti la campagna referendaria per l’abolizione dei voucher nonostante il tentativo governativo di disinnescare il voto.
La colpa della Cgil e di chi si ostina a pensare che i voucher vadano aboliti è quella di “di abbattere ponti [invece] che cercare soluzioni”. Quei ponti - ci spiega Di Vico – creati dalla crisi che ha unito lavoratori e imprese contro “il capitale finanziario, la competizione al ribasso indotta dalla globalizzazione e l’incapacità politica di trovare soluzioni”.
Finanziarizzazione dell’economia, competizione al ribasso e scelte politiche non sono eventi naturali e imprevedibili. La corsa delle imprese alla finanziarizzazione capace di creare più velocemente e senza ostacoli rendimenti per i proprietari (o azionisti), ma anche per tutti quei manager addetti a questa funzione e retribuiti in base a questi risultati, è stata una scelta ben precisa del tessuto produttivo italiano, europeo, internazionale. Se poi anche nella finanza si son creati monopoli, dispiace per Di Vico, ma è il capitalismo, bellezza!
Le cronache della politica raccontano oggi della determinazione assoluta con cui il governo e la sua maggioranza stanno lavorando per impedire il referendum sui voucher, che in teoria si dovrebbe svolgere il 28 maggio.
Non è difficile vedere le ragioni di questa corsa per impedirci di votare.
Una è quasi ovvia: c'è il rischio che anche questo referendum, così come quello sulla Riforma Boschi, si trasformi in un giudizio sul Pd. E su Renzi, che nel Jobs Act ha alzato del 40 per cento il tetto dei voucher, aumentandone la diffusione. Un bis del 4 dicembre non sarebbe esattamente utile a confermare la narrazione del "ricominciamo", "ci rialziamo", "ora rimontiamo come il Barcellona" che l'ex premier e i suoi hanno inaugurato al Lingotto.
Ma ce ne sono altre due, di ragioni per cui vogliono evitare il referendum, anche se meno visibili.
La prima è che la sinistra di questo Paese - allo stato dispersa e derisa - potrebbe giovarsi molto di una campagna elettorale su un tema concreto come il sottolavoro mal salariato. In altri termini, rischierebbe di crearsi a sinistra di Renzi qualcosa di meno raccogliticcio dell'attuale galassia di partitini e sigle.
Il 2017 non sarà un anno noioso per le sorti dell’euro. È in gioco la stessa sopravvivenza della moneta unica, sotto la pressione dei problemi di Paesi come Italia e Francia che destano preoccupazioni ben più serie rispetto a piccole economie come quelle di Grecia o Portogallo.
I mercati finanziari hanno percepito immediatamente la criticità della situazione. Ad aprile i francesi andranno a votare e la Le Pen ha dichiarato che in caso di vittoria dedicherà i primi 6 mesi del suo mandato a guidare il Paese fuori dalla moneta unica. Dal canto suo l’Italia non gode di migliore salute, praticamente pietrificata sotto il fardello del debito pubblico e privato, con modeste aspettative di crescita e una perdurante instabilità politica.
Né l’Europa aiuta a placare gli animi. Anzi. La Germania continua la sua crociata a oltranza per la virtù fiscale e suggerisce ristrutturazioni del debito pubblico dei Paesi periferici (a partire dal nostro) secondo lo schema già seguito per la Grecia quando non si spinge fino a parlare di un’Europa a più velocità. E la BCE per difendere l’irreversibilità dell’euro non esita a lanciare sgradevoli moniti. Ultimo in ordine cronologico il diktat di Draghi dello scorso 20 gennaio: se un Paese vuole uscire deve prima liquidare la sua posizione Target2 nei confronti dell’Eurosistema.
Aldo Barba, Massimo Pivetti, “La scomparsa della sinistra in Europa”, Imprimatur, 2016
Qualche parola preliminare: il libro
di Barba e Pivetti è di
quelli che bisogna leggere. Nella sua bella recensione
Sergio Cesaratto, un
economista “eterodosso” sraffiano, lo chiama “di gran lunga la
più importante provocazione intellettuale alla sinistra degli
ultimi anni”, e sono d’accordo. Si può leggere insieme al
lavoro di scavo profondo che compie Michéa, e di cui abbiamo
appena cominciato a dire nella lettura di “I
misteri della sinistra”.
Ma anche il libro
del 1986 di
Paggi e d’Angelillo; altri esuli.
Una provocazione, dunque.
Un “pamphlet”, si sarebbe detto una volta, un genere letterario che tratta di un argomento di attualità (e quale più di questo), in modo ‘di parte’ e con intento polemico. Quindi con uno stile irriverente, espressione di una pulsione morale irresistibile davanti ad una situazione intollerabile; tale da far vedere l’acquiescenza, la pigrizia intellettuale e la cecità morale ed emotiva di chi, pur avendo per così dire ‘davanti agli occhi’ i fatti denunciati non se ne avvede. Elemento tipico del genere, e coerente nell’ambito dei suoi scopi, è anche l’invettiva personale. L’attacco condotto contro persone e posizioni, senza produrre in proposito accurate valutazioni di contesto, o scandagli dello sviluppo delle posizioni stesse, della loro articolazione, delle prove.
Ormai è quasi certo: salvo
incidenti, non impossibili ma al momento improbabili, si
voterà nel 2018. In diversi articoli, a partire dalla fatidica
data del 4 dicembre,
avevamo invece sostenuto il contrario. Cosa è cambiato nelle
ultime settimane? Esaminare le ragioni che portavano alla
previsione delle
elezioni anticipate, e quelle che oggi vanno invece in
direzione opposta, può essere utile per mettere a fuoco alcuni
elementi di
novità.
Perché, ben sapendo che forze non indifferenti stavano lavorando per il rinvio, ritenevamo comunque probabili le elezioni a giugno? Essenzialmente per quattro motivi:
Primo, perché questo avrebbe consentito di risolvere la questione del governo prima della prossima legge di bilancio. Legge che potrebbe rivelarsi assai pesante, in termini di consenso, per le forze della maggioranza governativa, ed innanzitutto per il Pd.
Secondo, perché il gruppo di potere che si raccoglie attorno a Renzi aveva tutto da guadagnare nell'anticipo e tutto da perdere nel rinvio. Pur uscita sconfitta e ridimensionata dalle urne referendarie, questa cricca manteneva infatti una notevole forza nel Pd e nella compagine governativa.
Terzo, perché il governo Gentiloni era nato con il dichiarato scopo di arrivare al voto una volta definita la questione della legge elettorale.
“Facebook ha collezionato il più vasto insieme di dati mai assemblato sul comportamento sociale umano. Alcune delle tue informazioni personali ne fanno probabilmente parte.” — MIT Technology Review, 13 Giugno 2012
Un’espropriazione si compie
ogni giorno in tutto il Mondo, nei luoghi pubblici, nelle
strade, negli spazi dell’intimità personale, costituendo
una — nuova — accumulazione originaria, centro nevralgico di
nuovi processi di capitalizzazione. È
l’espropriazione dell’informazione. Istituzioni, companies,
centri di ricerca privati, analisti di marketing, polizia,
intelligence, tutti
si sono buttati in una caccia al tesoro diffusa e
onnipresente, elaborando mezzi di analisi, inventando nuove
fonti: a volte collaborando tra loro, a
volte dichiarandosi guerra (o fingendo di farsela, come è
successo tra Apple, Microsoft e US durante lo scandalo
Datagate).
Mai come ora, nella storia dell’umanità, si è disposto di una quantità così grande di informazioni su fenomeni e comportamenti sociali, sia nel macroscopico — andamenti finanziari, scelte aziendali, valute — che nel microscopico — interessi personali, spostamenti di individui, informazioni biografiche-, con tutto quello che può comportare dal punto di vista del controllo sociale per le istituzioni di potere e l’analisi (e il controllo) dei desideri per il mercato.
La quantità di dati raccolti, esponenziale nel tempo, ha portato alla necessità di coniare un termine specifico — Big Data — per indicare questa mole di informazioni.
“Se Donald Trump vuole restituire all’America il suo ruolo egemone, se vuole ‘make America great again’, ma anche se non vuole, dovrà togliere di mezzo l’euro”, liberando l’Europa e il mondo dall’assurdo progetto di una moneta unica che ha dissepolto, senza che se ne sentisse il bisogno, la questione tedesca. E ha così provocato esattamente quello che avrebbe dovuto prevenire. Il perché ce lo spiega su Goofynomics Alberto Bagnai, occasionalmente in inglese, ma con la chiarezza di sempre
Settantuno anni fa, le potenze dell’Asse persero la seconda guerra mondiale, lasciando agli Stati Uniti l’arduo compito di gestire la vittoria e disegnare una nuova architettura globale. Gli Stati Uniti lo fecero creando istituzioni ambiziose, come il sistema di Bretton Woods e la Nato, e prestando il loro supporto al progetto di integrazione europea. Le istituzioni sono sempre caratterizzate da una notevole inerzia, che da una parte favorisce la stabilità, ma dall’altra ostacola il cambiamento, vitale per rispondere all’evolversi delle condizioni. Questo spiega sia il successo di molti progetti politici, sia il loro crollo finale. Lo stesso discorso si applica anche all’integrazione europea.
La Nato e l’integrazione europea avevano l’obiettivo strategico comune di creare un’alleanza compatta, in grado di opporsi a quella che era allora percepita come una minaccia reale: l’Unione sovietica. L’obiettivo fu centrato. La Nato (non l’Unione europea) garantì all’Europa almeno sessant’anni di pace, mentre l’integrazione economica ebbe un ruolo chiave nel promuovere la prosperità della regione che aveva dominato il mondo, l’Europa.
Il Municipio V ha censurato il cinema palestinese ma la gente è andato a vederlo in massa proiettandolo per strada. Il rettore dell'università di Roma Tre revoca la proiezione di un film palestinese in un teatro e lamenta "pressioni insostenibili". Le inaccettabili ingerenze della lobby sionista producono solidarietà e ripudio, loro malgrado
A Roma si va recitando una commedia dell'assurdo. Le pressioni dell'ambasciata israeliana e dei suoi terminali nella comunità ebraica, hanno portato il V Municipio e successivamente l'università di Roma Tre a censurare dei film palestinesi in programmazione al cinema Aquila (di gestione comunale) e al teatro Palladium.
Il film "Wanted 18" e lo spettacolo "Io Rachel Corrie" erano in programmazione ieri sera al cinema Aquila. Ma il cinema, su pressione del V Municipio (M5S) è stato costretto a bloccare la programmazione. E così ieri alle 19.00 invece del film palestinese in programma il cinema ha proiettato Willi Wonka e la fabbrica del cioccolato invece del film previsto. Poi il cinema ha chiuso i battenti e non li ha riaperti per lo spettacolo teatrale "Io, Rachel Corrie" previsto per le 21.00.
1. Riportiamo ancora una volta un estratto dell'ultimo bollettino EIR, "Strategic Alert - Edizione Italiana, anno 26 n. 11 - 16 marzo 2017".
La parte che selezionamo ci interessa per la sua attinenza al tema ("ostico") della qualificabilità come effettivo credito della BCE, esigibile nei confronti dello Stato eventualmente "uscente" dall'eurozona, del saldo passivo Target-2.
Come vedremo, nella sua analisi divulgativa, EIR riassume alcuni aspetti significativi della questione e ne evidenzia, in ultima analisi, il carattere fondamentale: la ingestibilità, in termini di sostenibilità occupazionale e della crescita, della moneta unica, tale che gli squilibri vengono corretti costantemente creandone degli altri, sempre più difficilmente risolvibili.
Il paradosso è che uno degli scopi fondamentali dell'UE è la crescita equilibrata, in un quadro di sviluppo sostenibile (art.3, par.3, TUE, infinite volte citato), intesa come quella che si coniuga con la "stabilità dei prezzi" e la "stabilità finanziaria".
2. Dal primo brano che vi sottopongo vedete confermato, da un osservatore a origine USA, come l'idea per la quale l'indebitamento, derivante anche dal QE e riflesso in Target-2, sia un debito pubblico aggiuntivo dello Stato interessato, è esclusa: e proprio enfatizzando la "indipendenza" della banca centrale (qui, pp.4-5) nel quadro normativo dei trattati in tema di partecipazione all'eurozona (neretto aggiunto):
Il quarantennale del ’77 non è proprio scansabile. Almeno se si vive a Bologna. Per un verso l’establishment politico istituzionale, o nomenclatura, teme un revival magari sul’onda delle iniziative politiche del cua, il collettivo autonomo universitario che fa parecchio tribolare i poteri costituiti, per l’altro i collettivi universitari e centri sociali comunque definiti che di sriffa o di sraffa in quel movimento pretendono di innestarsi. Mentre coloro che lo agirono da protagonisti moltiplicano gli eventi della memoria dei giorni che furono, cercando di evitare il “reducismo” e/o la retorica da “ex combattenti”.
Avviene così che la mattina dell’11 marzo, quando orsono quarantanni Francesco Lorusso studente già militante di Lotta Continua morì fucilato da un carabiniere, e da allora ogni anno i suoi compagni si ritrovano, il cua minacciando sfracelli, non siano presenti nè rappresentanti delle istituzioni politiche elettive, diciamo il Comune, e neppure dell’Università, diciamo il Rettore e/o qualche suo delegato. Non gli par vero a sindaco e rettore di evitare così l’imbarazzo di una presenza sotto la lapide che ricorda l’omicidio di Francesco : «I compagni di Francesco Lorusso qui assassinato dalla ferocia armata di regime l’11 marzo 1977 sanno che la sua idea di uguaglianza di libertà di amore sopravviverà ad ogni crimine. Francesco è vivo e lotta insieme a noi.».
Il Sole 24 Ore si dibatte in una crisi che ne mette in forse la continuità aziendale: alla drammatica situazione economica e finanziaria si è sommato il durissimo colpo in termini di credibilità inflitto dal direttore Roberto Napoletano e dai vertici aziendali, indagati per falso in bilancio. È uno scandalo che travalica l’editoria: a uscirne a pezzi è anche Confindustria, che per decenni è stata la terza colonna portante del Paese, a fianco di governi e sindacati. La triste agonia del Sole 24 Ore rispecchia il fallimento di un’intera classe dirigente che, legando le sue fortune all’Unione Europea, ha portato sull’orlo del baratro l’intero Paese ed è oggi disposta a tutto, pur di fuggire dalle sue responsabilità.
Il fallimento di un quotidiano, il fallimento di un establishment
Gli osservatori più acuti sono capaci di cogliere le correlazioni tra avvenimenti apparentemente slegati gli uni dagli altri, riconducendoli ad un unico fenomeno: il collasso dell’industria bancaria, l’implosione del Partito Democratico, l’eclissi dei sindacati e persino la triste agonia in cui si sta dibattendo il Sole 24 Ore non sono episodi isolati ed accidentali, bensì collegati ed in un certo senso inevitabili, da ricondurre alla più ampia dissoluzione dell’establishment italiano che, a partire dal 1992, ha indissolubilmente legato le sue fortune all’euro ed all’Unione Europea.
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Oreste Scalzone, Pino Casamassima, ’77, e poi…, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 336, € 20,00
’77, e poi… è uno
dei libri di
riflessione sul movimento del Settantasette che riscuoterà più
attenzioni, anche in ragione della grana umana e politica
dell’autore: a Oreste Scalzone non piace la memorialistica
autocelebrativa e si porta dentro, a differenza di altri
protagonisti di
quell’epoca, un’inquietudine irrisolta che lo colloca fuori
dalla schiera paludata dei “testimoni” o dei tromboni da
commemorazione.
La scrittura di Scalzone non è sempre agevole: procede rapsodica, tra rimandi, domande, parentesi che non si chiudono mai – come se l’autore cercasse continuamente di forzare il linguaggio editoriale tradizionale, troppo povero (rispetto alla ricchezza della narrazione orale) e inadeguato a raccontare quell’esplosione di vita e potenza che fu il ’77 italiano.
La biografia dell’autore è il filo d’Arianna che attraversa un’intera stagione della nostra storia. Scalzone compie giovanissimo il viaggio che fu di molti, dalla sinistra tradizionale verso nuovi sconosciuti approdi: dalla FGCI ternana a Valle Giulia lo spazio geografico è poco ma il salto è epocale e generazionale. Il suo imprinting “ortodosso” non lascia molto spazio alle suggestioni dell’epoca: poco Foucault, poco Lacan, poco Reich, molta attenzione alla scoperta del comunismo critico, del consiliarismo tedesco e olandese, di tutti i marxismi eretici, così minoritari nella togliattiana provincia italiana – fino all’incontro decisivo con lo straordinario laboratorio operaista, nel pieno del suo fulgore teorico.
Il racconto rimbalza da una tappa all’altra di quella lunga stagione che comincia nel ’68 e culmina nel sequestro Moro. In un processo di accumulo di conflittualità che dura quasi un decennio, il Movimento non è rappresentabile in termini di esplosione quanto di necessario epilogo. E del resto, da dove far iniziare (convenzionalmente) una cronaca del ’77?
Scalzone sceglie la straordinaria giornata romana del 12 marzo: centomila in piazza di cui – sottolinea l’autore due volte in poche pagine – almeno 5000 armati.
Tema caldo, di recente lanciato e
rilanciato, è la prossima catastrofe nell’ambito del lavoro
determinata dall’erosione della funzione umana da parte delle
macchine.
La retorica tecno-futurista induce a pensare che
l’intelligenza artificiale stia per replicare l’umano ma
piuttosto che replicare le
funzioni superiori sono invece quelle inferiori, il calcolo,
la elaborazione dei dati, la sequenza lineare di if…than
ad essere
replicate e visto che le macchine non hanno disturbi emotivi o
limiti biologici, le svolgeranno senz’altro meglio degli umani
stessi. Potremmo
allora dire che più che scoprire quanto intelligenti stanno
diventando le macchine, stiamo verificando quanto ancora è
stupida ed
alienante la routine di molti lavori umani. Senz’altro però,
questa componente routinaria ed esecutiva che compone ancora
la
totalità o grande parte o piccola parte di molti lavori, vedrà
l’implacabile sostituzione dell’umano con
l’informatico-meccanico. Sebbene inizialmente molti lavori non
saranno cancellati ma progressivamente mixati tra umano e
info-maccanico, alla
fine il saldo netto sarà in termini di posti di lavoro. Quello
che giustamente preoccupa è la stretta relazione tra l’enorme
quantità di ore lavoro umane sostituibili, l’incentivo del
profitto che deriva dalla comparazione tra costo del lavoro
umano e costo del
lavoro info-meccanico e il tempo estremamente breve in cui
tutto ciò sta accadendo. Ulteriore preoccupazione, sembra che
gli esperti del
problema prevedano a breve una sorta di salto quantico delle
performance dei robot e dei software[2], una di quelle
rivoluzioni stile “periodo Cambriano”[3] per le quali,
ricombinandosi i fattori, il risultato è di molti gradi
superiore alla somma delle parti[4].
Che cosa significa essere un soggetto della società delle norme? Quali sono le strutture che definiscono il modo in cui si diventa soggetto? A questi interrogativi prova a rispondere l’ultimo libro tradotto in Italia del filosofo Pierre Macherey
Nella prima
stagione di The Leftovers il protagonista della
serie, Kevin Garvey, capo della polizia della sperduta
cittadina americana di Mapleton, cerca
disperatamente di mettere in scena la propria routine
quotidiana, nello stesso modo in cui si svolgeva prima che un
inspiegabile e inquietante evento,
la sparizione nel nulla del 2% della popolazione mondiale,
sconvolgesse la vita di tutti. Così, rapiti come lui
dall’angosciante
sparizione di massa, vediamo Kevin indossare gli indumenti da
runner per estenuanti sessioni di corsa mattutina,
oppure ancora assistiamo ai
suoi maldestri tentativi di addomesticare un cane randagio o
di fare una ramanzina alla figlia adolescente. In altre parole
chief Garvey
tenta un nostalgico e impossibile ritorno alla normalità che
precede la catastrofe. Cosa lo spinge, in un mondo in cui il
senso della vita
umana è stato fatto a brandelli da un avvenimento
incomprensibile, a rifugiarsi nella propria divisa da
poliziotto? Perché, ritornando
al nostro contemporaneo, i movimenti centripeti della
modernità, distruttori di Templi e Leggi, hanno lasciato sulla
scena un’imprevisto
bisogno di servitù volontaria?
È a questa e ad altre domande che cerca di rispondere Il soggetto delle norme, testo piacevole – cosa rara per la filosofia politica – di Pierre Macheray, pubblicato da ombre corte per la cura di Girolamo De Michele, voce anche di una conversazione con l’autore riportata a chiusura del libro.
Il prossimo 25 marzo a Roma si
riuniscono, in occasione della celebrazione dei 60 del
Trattato di Roma che avviò il processo di integrazione
europea, tutti i capi di stato e
di governo dell'Ue.
Un'occasione imperdibile per portare in piazza la rabbia e l'ostracismo dei lavoratori, dei disoccupati, dei movimenti di lotta contro un'istituzione che negli ultimi anni ha condannato milioni di persone alla povertà, che ha promosso draconiane politiche di cancellazione dei diritti e delle garanzie sociali, di distruzione della democrazia formale, di privatizzazione dei beni comuni, di guerra agli immigrati, di repressione nei confronti di chi protesta.
E' per questo che la Piattaforma Sociale Eurostop, i sindacati di base, varie realtà della sinistra politica e sociale hanno organizzato per sabato 25 marzo una manifestazione nazionale a Roma che intende dire tre netti no: no all'Euro, no all'Unione Europea, no alla Nato (e ovviamente anche ad un esercito europeo in costruzione che si propone autonomo dagli Usa ma che da subito si costruisce su una prospettiva guerrafondaia e interventista).
La decisione di Grillo sul "caso Genova" e la votazione degli iscritti nazionali che ha, di fatto, ratificato tale decisione e promosso un candidato sindaco diverso da quello scelto dagli iscritti genovesi, è un punto di svolta nella vita del MoVimento Cinque Stelle. Mai prima d'ora, infatti, una votazione locale era stata disconosciuta dal Garante Beppe Grillo chiedendo agli iscritti nazionali di sostituirsi ad un gruppo locale per la scelta di un candidato.
Non conoscevo, se non molto vagamente, i candidati sindaci contendenti di Genova, Cassimatis e Pirondini, non sapevo quali fossero le differenze programmatiche o di approccio tra le due liste e loro rappresentanti. E, in fondo, è giusto così. Un iscritto del MoVimento non è tenuto a conoscere le dinamiche che si sviluppano in ogni realtà locale, anche se di una città importante, ma non fondamentale, come Genova. È stata dunque la decisione di Grillo ad imporre agli iscritti di occuparsi della faccenda.
Mi ha colpito molto il modo con cui Grillo ha deciso di farlo. Grillo ha scritto: "Questa decisione è irrevocabile. Se qualcuno non capirà questa scelta, vi chiedo di fidarvi di me. Non ho nessun interesse se non il bene del MoVimento 5 Stelle".
I media italiani sono tra gli ultimi al mondo per libertà (77° posto), e tutti i giorni si sforzano di darne nuove prove. Non si sottraggono a questa tristissima tendenza anche quelli "di sinistra". Anzi, neppure quelli così tanto "di sinistra" da chiamarsi Left, anche se ultimamente sono entrati nella galassia societaria della renzianissima l'Unità.
Questa risposta di Fulvio Scaglione, ex vicedirettore di Famiglia Cristiana, attualmente all'Avvenire (giornale dei vescovi italiani, mica di Belzebù…), alle critiche rivoltegli da Left ci sembra pressoché esaustiva. Intendere il dovere di una corretta informazione come obbediente a delle metaregole "ad capocchiam" (politiche, etiche, moraleggianti o moralistiche) è fare consapevolmente della disinformazione. Un parallelo può aiutare: medici e infermieri, secondo il giuramento di Ippocrate, sono tenuti a curare tutti quelli che gli arrivano davanti. Tutti vuol dire indipendentemente da qualsiasi considerazione etnica, politica o religiosa; e naturalmente dalla quantità di denaro nelle tasche del paziente.
Naturalmente, fare vero giornalismo non implica "cancellare le proprie opinioni" (ci sembra che le nostre siano abbastanza esplicite), ma prima viene l'informazione, per quanto orrenda sia. Altrimenti si fa propaganda… Che è un altro mestiere, a volte persino nobile e necessario, ma è un altro…
Nelle stanze ovattate dei salotti bancari italiani, mentre i TG nazionali ci dilettano con scissioni e giochetti di immunità parlamentare, uno strano gruppetto sta decidendo la cessione ai privati di un primo pacchetto di 86,9 miliardi di Euro di sofferenze bancarie (fonte: IlSole24ore, dato al 31/12/2016). Si tratta dello zoccolo duro di un problema di crediti incagliati che complessivamente a livello italiano raggiunge i 330 miliardi di Euro (fonte: Huffington Post).
Pensate chi compone il gruppetto: PADOAN (sempre lui!), il Presidente dell’unione bancaria europea Andrea Enria, i vertici di Banca d’Italia, la Commissione Europea, l’OCSE e persino l’agenzia di rating FITCH, quella sotto processo a Trani per manipolazione di mercato aggravata e continuata ai danni dello Stato italiano (vedi mio articolo “La procura di Trani graffia la City di Londra”). Manca solo dracula!
La notizia è stata accennata dal Sole24ore del 17 Febbraio 2017. L’idea è la solita: scorporare questi crediti dai bilanci bancari, inserirli in società esterne private (chiamate Bad Banks, cioè “società cattive”) e venderli a grandi fondi speculativi prevalentemente anglo-americani a prezzi di stralcio. Gli stessi fondi incaricheranno poi società di recupero crediti aggressive che mieteranno il territorio italiano, ed al tempo stesso faranno la cosiddetta “cartolarizzazione” dei crediti, cioè li rivenderanno sul mercato – ancora prima di raccoglierli – sotto forma di titoli obbligazionari.
Fuori un altro. Anche in Olanda gli elettori hanno rottamato un partito socialista ormai tale solo di nome: basti pensare che è quello di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell'Eurogruppo e falco delle politiche di austerità. Il PvdA ("Partito del lavoro") ha subito il maggior crollo della sua storia, passando dal 24,8 al 6% e da 38 a 9 seggi in Parlamento. Continua così la serie di sconfitte dei partiti socialisti e socialdemocratici ( o magari comunisti, come fu il Pci) che, seguendo la cosiddetta "Terza via" lanciata da Tony Blair, sono passati armi e bagagli sotto le bandiere liberiste. Per un po' hanno retto, ma la gestione della crisi - o co-gestione insieme ai partiti conservatori, e comunque sposando le politiche da quelli sostenute - li hanno distrutti o stanno distruggendoli.
Il primo a subire un tracollo fatale fu il greco Pasok, passato dal 43% dei voti nel 2009 al 12,3 del 2012 al 4,7% del 2015. Poi è stata la volta del Psoe, il partito socialista spagnolo, che nel 2008 aveva raggiunto il 43,9% e nelle due elezioni successive del 2015 e 2016 è crollato intorno al 22. L'ala destra del partito ha impedito al segretario Pedro Sanchez (che poi si è dimesso) di formare un governo con Podemos e ha permesso la nascita di un nuovo governo conservatore guidato da Mariano Rajoy: non ci sarà da stupirsi se alla prossima prova elettorale il Psoe farà la fine degli omologhi greco e olandese.
Le elezioni olandesi hanno prodotto una ondata di euforia nei ranghi della politica dominante e dei mass media al loro seguito: “l’ondata populista si ferma. La Ue si sta salvando”. Euforia, per certi versi eccessiva, anche se l’analisi coglie un dato vero: il rallentamento della pressione antieuropeista.
Ma anche su questo punto qualche riflessione in più il dato la merita: vero è che il partito di Wilders si aggira intorno al 19% ed è lontanissimo dal partito liberal conservatore di Rutte che ha il 33%. Però va detto che nessun sondaggio aveva previsto una affermazione dei “populisti” che raggiungesse il 25%, che il partito di Rutte perde l’8% dei consensi rispetto alle politiche precedenti (il che è difficile dire che sia una vittoria), ma soprattutto che quella olandese è una delle economie più solide d’Europa e che, nonostante le misure di austerità che hanno privato i cittadini di diversi servizi e garanzie sociali, la qualità della vita è pur sempre fra le migliori del continente. Insomma: non era certo l’Olanda il test più sfavorevole alla “Festung Europa”.
Come si sa, nel 2017 ci saranno altre due elezioni politiche decisive per la sopravvivenza della Ue: Francia e Germania. Il caso più compromettente è quello della Francia, paese capitale (come la Germania) dove la lista antieuropeista ha concrete probabilità di vincere.
Per la nostra serie ‘Experts on Trial’, Antonella Palumbo sostiene la necessità di liberarsi di trite parole d’ordine ‘scientifiche’ che mascherano in realtà scelte sociali e politiche
Sul blog dell’Institute
for New Economic
Thinking l’economista italiana Antonella Palumbo
strappa al neoliberismo – posizione teorica oggi dominante –
l’abusata veste di unico metodo scientifico utilizzabile per
l’analisi economica. Al contrario, questo quadro teorico,
con la sua fede
cieca nel mercato e l’orrore ideologico per ogni intervento
dello Stato – è solo uno dei tanti possibili che si sono
avvicendati
nella storia ed è caratterizzato non da una presunta
oggettività scientifica, ma da precise scelte politiche e
sociali. Se oggi si
mostra al capolinea, per gli evidenti disastri che ha
provocato e l’incapacità di rispondere ai problemi più
urgenti e gravi che
affliggono la società, significa che è ora di trovare un
nuovo quadro teorico, anche riprendendo idee del passato che
possono servire
come basi per un pensiero nuovo.
* * * *
Lo scontro tra la
Banca Centrale Europea e la
Germania
Nel precedente articolo sulla Industrie 4.0 si sottolineava come la Germania stia realizzando una sua politica industriale, ne abbiamo visto obiettivi e metodologia. Ci siamo poi soffermati sulla declinazione italiana di una possibile Industrie 4.0, chiudendo l’articolo sulla crisi del Monte dei Paschi di Siena. In questo articolo analizzeremo infatti il ruolo imprescindibile che il sistema bancario debba svolgere nel quadro di una politica industriale in Italia.
Torniamo un attimo in Germania. Lo scorso anno abbiamo assistito varie volte allo scontro tra esponenti di primo piano dell’establishment tedesco (il ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble, il governatore della Bundesbank Jens Weidmann) ed il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Il motivo del contendere è stato sovente quello dei bassi tassi d’interesse che negli ultimi mesi si sono tradotti in tassi negativi sui depositi delle banche presso la BCE. Ovviamente i mass media hanno fatto il loro solito mestiere teso a non far comprendere nulla all’opinione pubblica: nessun approfondimento e nessuna obiettività, ma tifo da stadio per Shaeuble se fossero stati media tedeschi e per Draghi se fossero stati media italiani. Proviamo a mettere in ordine degli elementi oggettivi, e proviamo a darci una nostro punto di vista.
La
schiacciante
vittoria del No al referendum costituzionale del 4
dicembre scorso dimostra, anzitutto, che negli ultimi decenni
la classe politica si
è data una priorità – la riforma della Costituzione – che non
è sentita come tale dalla cittadinanza. Dopo il
referendum del 2006, per la seconda volta in dieci
anni il corpo elettorale ha largamente respinto un progetto di
revisione, smentendo quanto
gran parte degli esponenti politici hanno continuato a
ripetere (ripetersi?) sulle riforme attese da trent’anni che
questa volta non ci si
può permettere di veder fallire. Evidentemente, lo
smantellamento del sistema dei partiti ha reso i
rappresentanti incapaci di percepire le
reali priorità dei rappresentati. Solo così si può spiegare
come Matteo Renzi abbia voluto cercare proprio sul terreno
della
revisione costituzionale la legittimazione elettorale che
credeva gli mancasse e, soprattutto, come sia stato possibile
che un partito che si dice di
centrosinistra abbia inchiodato per mesi il Paese su un tema
tanto avulso dalla gravissima crisi economica e sociale in
atto.
L’analisi del voto non è semplice. Una lettura comune attribuisce la vittoria del No proprio al disagio sociale diffuso nel Paese. Il voto contrario alla riforma, in quest’ottica, sarebbe prevalso in quanto espressione dell’insoddisfazione per l’andamento generale delle cose.
Le visioni delle Rivoluzione d’Ottobre con cui abbiamo dovuto fare i conti in questo secolo, possono essere riassunte in almeno due narrazioni:
1) Per la borghesia è stato né più né meno che un colpo di mano, un colpo di stato, da parte dei bolscevichi che hanno così impedito una via d’uscita liberale al crollo dell’autocrazia zarista
2) Per la “sinistra” è stata una rivoluzione tradita dai suoi sviluppi successivi. Nasce da qui l’ipocrisia dell’antistalinismo che ha impregnato gran parte dell’elaborazione della sinistra occidentale, inclusa quella alternativa
Contro queste due visioni è stato bene combattere nei decenni scorsi, lo è altrettanto oggi, Soprattutto se, giustamente, si intende riaprire o mantenere aperta la questione della “Rivoluzione in occidente” che rimane la contraddizione aperta da quando la Rivoluzione d’Ottobre si trovò da sola a dover gestire la rottura rivoluzionaria nell’anello debole della catena imperialista nel 1917. Non possiamo nasconderci che esiste una terza attitudine, più genuina ma altrettanto fuorviante, che è quella di ridurre l’esperienza rivoluzionaria, la concezione del partito leninista e il processo di transizione al potere proletario, come un manuale per le istruzioni.
La corsa verso destra delle principali forze politiche olandesi nelle elezioni legislative di mercoledì è stata vinta dal Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (VVD) dell’attuale primo ministro, Mark Rutte. I liberali al governo avevano fatto propria buona parte dell’agenda di estrema destra del Partito per le Libertà di Geert Wilders (PVV), considerato il vero sconfitto del voto, puntando sulla promozione di sentimenti xenofobi anti-islamici per contenere i riflessi negativi delle politiche di austerity adottate negli ultimi cinque anni.
I sondaggi avevano correttamente anticipato una certa flessione del PVV dopo le previsioni di qualche mese fa che sembravano doverlo trasformare nel primo partito d’Olanda. Alla fine, Wilders e i suoi hanno aggiunto appena 5 seggi ai 15 che già occupavano nella “Tweede Kamer”, ovvero la camera bassa elettiva del parlamento de L’Aia.
Con poco più del 13% dei voti, il PVV è comunque il secondo partito olandese, dietro al VVD di Rutte. Quest’ultimo, nonostante i toni trionfalistici dei suoi leader e le reazioni sollevate di quelli europei, ha fatto segnare una netta flessione, passando dal 26,6% del 2012 al 21,3% odierno e da 41 a 33 seggi sui 150 totali.
Traduciamo qui le riflessioni espresse in inglese dal prof. Bagnai sul suo blog Goofynomics a commento e precisazione dell’articolo pubblicato di recente sul Financial Times, in cui è stata riportata in sintesi una sua lunga conversazione col corrispondente da Roma dell’importante giornale economico-finanziario del Regno Unito
Alcuni giorni fa ho avuto una lunga conversazione con James Politi, il corrispondente da Roma del Financial Times. Lui ha fornito un resoconto imparziale della nostra conversazione qui (e qui tradotto in italiano su Vocidallestero, ndt) e questo già merita un applauso, considerando sotto quale pressione stava lavorando. Ovviamente, molti aspetti della nostra conversazione sono stati omessi, ma il succo del messaggio rimane. Nella mia esperienza questo è abbastanza inusuale, specialmente nei media italiani. Non farò menzione degli aspetti omessi, ma desidero aggiungere alcune sfumature perse nella traduzione (in gran parte a causa mia).
La più importante riguarda le mie affermazioni in merito ad “aver detto queste cose per sette anni ed essere adesso diventato un mainstreamer”. Queste sono state esattamente le mie parole, ma forse vale la pena di aggiungere una precisazione: come sanno bene i lettori del mio blog, il mainstream economico è sempre stato molto scettico riguardo l’euro.
Stamattina, mi è capitato di viaggiare in treno con un gruppo di ambulanti liguri che andavano a Roma per la manifestazione contro la direttiva Bolkestein. Il più colorito di loro teneva banco nel vagone, raccontando in un patois italo-ligure le sue disavventure fiscali e di rapporto con le licenze commerciali ed i Comuni dell’entroterra ligure. Alla fine concludeva la sua esposizione di una vita fatta di multe, cartelle esattoriali e fogli di via dati da Sindaci giustizieri con la seguente frase “era meglio quando c’era la Dc, almeno mangiavano loro e facevano mangiare anche noi, adesso noi non viviamo più, belin!”.
Ora, sarebbe ovviamente facile chiudere la questione con il classico atteggiamento moralista: “ecco qui il tipico commerciante abusivo, evasore e magari berlusconiano che si lamenta perché finalmente la legge gli viene fatta applicare”. Credo però che, a prescindere dal caso specifico, liquidare così la questione sarebbe un errore. Un errore da sinistra. Spiego perché. Intanto perché, banalmente, i commercianti ambulanti non sono dei privilegiati. Non sono i gioiellieri che denunciano poche migliaia di euro al fisco ed hanno la barca. E’ una categoria spesso marginale del mondo del commercio, che fa una vita particolarmente dura e non sempre molto redditizia. Fanno parte di quel popolo che la sinistra dovrebbe rappresentare.
Una serie di sintomi grandi e piccoli indicano come, ormai, il processo di sfaldamento della Seconda Repubblica sia in atto: il disfacimento del Pd, l’atonia del governo Gentiloni, il ritorno degli scandali che “puntano in alto” e che ormai coinvolgono non solo la politica ma anche il giornalismo (e si pensi al penosissimo caso del “Sole 24 ore” le cui azioni ormai valgono carta straccia), ancora una volta i magistrati vengono a far da becchini al sistema e i sondaggi segnalato la caduta rovinosa della fiducia dei cittadini in tutte le istituzioni. La macchina dello stato è in panne con ogni evidenza, e la politica è un motore fuso.
Ma tutto questi, appunto, sono i sintomi, non sono le cause del crollo. Il malessere profondo, lo abbiamo detto, è iniziato anni addietro, dal 2013 che, per la Seconda Repubblica, è stato quello che il 1987 è stato per la Prima. La rovina di un sistema politico non si verifica in un solo momento, ha sempre un processo che inizia molto prima e diventa più veloce alla fine.
Il 2013 ha segnato la rottura dell’equilibrio bipolare con l’irruzione sulla scena del M5s, poi la prima sentenza della Corte Costituzionale che metteva limiti al sistema elettorale maggioritario, quindi l’ondata di processi che sconvolgeva la testa di classifica delle imprese italiane, il conseguente scioglimento del “salotto buono”, eccetera.
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Schivare
il
concreto
E’ da quando ho compreso il nesso tra Unione europea, dominio di classe e crisi irredimibile della sinistra, è da quel difficile passaggio (dovuto alla dura esperienza del secondo governo Prodi, da me vissuta direttamente anche a livello comunitario, ad una rilettura dei classici e poi ai testi di Bagnai, Cesaratto, Barra Caracciolo, Giacché ed altri) che mi torna spesso in mente una frase di Elias Canetti: “Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti dello spirito umano”. Schivare il concreto, per la sinistra, significa per esempio schivare il problema del potere, e quindi il problema dello stato. Da convinto marxista so bene che è caratteristica specifica del capitalismo quella di esercitare il dominio di classe attraverso i meccanismi apparentemente impersonali e neutri dell’economia (non altrettanto bene lo sanno coloro che continuano a dire che l’euro è “solo una moneta”…). Ma so anche che, perché questi meccanismi apparentemente solo economici funzionino è necessario, Marx dixit, l’intervento disciplinante dello stato. E so (da Giovanni Arrighi) che alle fasi di crescita in cui il dominio si esercita in forma prevalentemente economica (finanziarizzazione e globalizzazione) succedono le fasi di crisi in cui lo stato ritorna prepotentemente sulla scena, e diviene evidente che chi lo controlla decide se si esce dalla crisi in direzione progressiva, ossia col socialismo, oppure con la guerra e con una nuova forma di capitalismo.
«Ultimo mohicano / sampietrino in mano
solo qui
nella via / e la barricata
dove l'han portata? / Non c'è
proprio più.»
(Gianfranco Manfredi)
In questo inizio d'anno punteggiato di commemorazioni molto interessate e poco interessanti (vedi «C17» et similia) tocca sorbirsi anche il quarantennale del movimento del '77. E così sia. Allora largo al ricordo su ordinazione, alla parola di chi c'era e vuole raccontare, al pianto rituale degli offesi e dei caduti. In fondo, perché no? A nulla vale deprecare l'operazione memorialistica, che è vecchia – se non proprio quanto il mondo – almeno quanto il massacro dei comunardi, commemorati a scadenza ormai annuale presso il Mur des Fédérés. Le celebrazioni per l’anniversario del '77 italiano cadono ogni decina d'anni: frequenza tutto sommato ragionevole. Basta solo non chiedere ciò che è impossibile avere. A quale veglia è d'uso esprimere critiche o riserve sul morto in onore del quale ci si riunisce? Tutti sanno che anche l'individuo più mediocre passa per un grand'uomo il giorno del suo funerale, finanche sulla bocca di chi in vita ne diceva peste e corna.
In questo articolo,
pubblicato da Sinistrainrete, e tradotto da Franco
Senia, Wolfgang Streeck torna
sul tema della previsione, compiendo uno dei più organici e
radicali esercizi di pessimismo che si possano leggere sulla
letteratura
internazionale.
Già in “Come finirà il capitalismo ”, del 2014 (su New Left Review) aveva pronosticato l’esaurimento del capitalismo, nella forma che conosciamo, per effetto di un insostenibile stress, disancorante la legittimazione di sistema. Uno stress riferibile ai tre fenomeni sinergici della fine della crescita economica, dell’aumento dell’indebitamento e della crescita delle ineguaglianze. Non è difficile vedere come siano tre etichette dello stesso fenomeno. In sostanza, rifiutando la visione neoclassica (di derivazione dalla fisica dell’ordine dell’ottocento) di un sistema che tende naturalmente, prima o poi, all’equilibrio, Streeck crede che il degrado continuerà fino ad un crollo complessivo, graduale ma irresistibile, a termine del quale, dopo un certo tempo caotico, emergerà qualcosa di nuovo che oggi non può essere previsto (in tono più ottimista è anche l’opinione di Paul Mason in “Postcapitalismo”).
Questo è il punto cruciale.
L’economista: “L’abolizione dei voucher e il ripristino della responsabilità in solido degli appaltanti sono interventi in cointrotendenza ma parziali, che non rimediano al grosso dei danni provocati dalle riforme del lavoro di questi anni”.
I voucher saranno cancellati e la responsabilità solidale dei committenti di appalti sarà ripristinata: sull’onda dei referendum indetti dalla Cgil il governo interviene sulla legislazione del lavoro eliminando pezzi rilevanti del Jobs Act. Di questa importante novità discutiamo con Emiliano Brancaccio, 45 anni, docente di Politica economica e di Economia internazionale presso l’Università del Sannio, promotore sul Financial Times del “monito degli economisti” contro le ricette dell’austerity e autore di vari saggi critici nei confronti delle politiche di deregolamentazione del lavoro e di deflazione salariale attuate in questi anni in Italia e nel resto d’Europa.
* * * *
Professor Brancaccio, la notizia di questi giorni è che il governo Gentiloni farà un passo indietro rispetto al ““Jobs Act” di Renzi: cancellerà le norme sui voucher e renderà di nuovo i committenti responsabili degli appalti. Possiamo parlare di una svolta nella disciplina del lavoro?
Esiste un pericolo che dovrebbe spingere i sostenitori del recupero della sovranità nazionale e tutti coloro che vogliono ristabilire il sistema costituzionale, umiliato e piegato dai Trattati europei, a “fare presto”, come sollecitava un indimenticabile titolo del Sole24Ore della fine del 2011, un pericolo che definisco come “la trappola del lungo periodo”. Prendo spunto da uno dei tanti interessanti post che si trovano su Goofynomics, quello dal titolo “Anni buttati”, nel quale è presente questo grafico:
Il grafico rappresenta la curva di crescita del PIL italiano pro capite in termini reali ai prezzi del 2005. Come si può vedere, per tornare al livello di PIL pro capite del 1999 Bagnai ipotizzava (nel 2013) che si sarebbe dovuto aspettare il 2017. Oggi, nel 2017, l’OCSE ci dice che siamo tornati al livello del PIL del 1997, meno quindi di quanto previsto pessimisticamente da Bagnai.
Si svolge dal 12 al 24 marzo, di fronte alle coste mediterranee della Sicilia, l’esercitaziome navale Nato Dynamic Manta cui partecipano le marine militari di Stati uniti, Canada, Italia, Francia, Spagna, Grecia e Turchia. La punta di lancia delle 16 unità navali impegnate è il sottomarino nucleare statunitense da attacco rapido California SSN-781. Armato di un centinaio di siluri e di quasi 150 missili da crociera per attacco a obiettivi terrestri, esso fa parte della Task Force 69, responsabile delle operazioni Usa di guerra sottomarina in Europa e Africa.
Oltre che col sottomarino da attacco, la U.S. Navy partecipa all’esercitazione col cacciatorpediniere lanciamissili Porter e aerei da pattugliamento marittimo, con la stazione Muos di Niscemi e la base aeronavale di Sigonella. La Dynamic Manta 2017 si svolge nell’area del Comando della forza congiunta alleata (il cui quartier generale è a Lago Patria, Napoli), agli ordini dell’ammiraglia statunitense Michelle Howard, che comanda allo stesso tempo le Forze navali Usa in Europa e le Forze navali Usa per l’Africa. L’Italia, oltre a partecipare all’esercitazione con proprie unità, svolge quello che il contrammiraglio De Felice, comandante di MariSicilia, definisce un «ruolo fondamentale» poiché fornisce tutto il supporto logistico. Particolarmente importante è Augusta, «punto strategico in quanto fornisce rifornimenti di combustibile, di munizionamento e di supporto per le unità navali che vengono addirittura da paesi al di là dell’Atlantico».
Se dovessimo definire la contemporaneità potremmo chiamarla era dell’ipocrisia: essa è talmente diffusa e consustanziale alla narrazione pubblica da non essere più nemmeno percepita, da violare qualsiasi recinto di realtà fattuale, da sfregiare ogni idea di diritto e di giustizia e da sostituirsi anche moralmente alla verità per cui il mentitore non sa di esserlo e qualora ne abbia consapevolezza non ha sensi di colpa. Gli esempi costituiscono ormai un catalogo immenso che si arricchisce ogni giorno: per esempio – e mi riferisco a due giorni fa – su quali criteri di diritto internazionale o di semplice buona fede si basano gli Usa quando minacciano di bombardamenti la Corea del Nord per la messa a punto di missili a raggio più vasto? Eppure non ho letto o sentito nemmeno una parola che facesse notare la totale assurdità dei diktat americani al di fuori della logica brutale della forza. Oppure come si fa a definire “moderata” l’Arabia Saudita che è uno dei principali finanziatori del terrorismo, spesso come mediatore e che peraltro è lo stato più lontano da ogni concezione democratica da avere il Corano come costituzione? Come si fanno ad ignorare totalmente le stragi di Mosul dopo aver organizzato una piccola Hollywood del massacro e del famoso “ultimo ospedale” bombardato ad Aleppo quando la città è stata riconquistata dai siriani? O come fa Israele a minacciare la Siria di ritorsioni per aver risposto alle quotidiane violazioni del suo spazio aereo?
Qui di seguito la relazione al convegno «Dai colonialismi al diritto di avere diritti» tenutasi a Napoli il 23 e il 24 marzo
Il Mediterraneo è in fiamme. Dagli anni Novanta a oggi le sponde di questo mare sono dilaniate da guerre, dai Balcani alla Siria e alla Libia, accompagnate dal terrore di stato perpetuo praticato nei territori occupati in Palestina e nelle regioni di maggioranza curda nella Turchia orientale. Questi conflitti fanno parte di un dinamismo storico a cui dobbiamo aggiungere le rivolte e le ribellioni della «primavera araba» del 2011 e le migrazioni dai diversi sud del mondo, ormai in atto da vari decenni e destinate a continuare nonostante tutti i muri che l’Europa cerca di elevare. In questo scenario il Mediterraneo, spesso considerato marginale rispetto a una modernità che apparentemente si sta elaborando più a nord, ha acquisito una nuova e drammatica centralità sul livello sia regionale che planetario, diventando un laboratorio cruciale della modernità stessa.
Per interrogare e riassemblare le dimensioni storico-sociali, possiamo, e dobbiamo, integrare altri linguaggi come, per esempio, quelli forniti dalla poetica letteraria e visiva, capaci di promuovere a loro volta altri dispositivi critici con cui possiamo rivedere, riascoltare e rivalutare il Nord Africa e il Medio Oriente.
Domenica 26 marzo a Roma ci sarà una assemblea nazionale di Eurostop (ore 10.00 via Galilei 53) per discutere intorno al percorso costituente e al programma di azione. Qui di seguito uno dei documenti per la discussione nell'assemblea del 26 marzo
Oggi ad
inizio 2017 siamo di fronte ad una ripresa dell’intervento
di Eurostop, impostato nell’assemblea del 28 Gennaio, che
non si vuole limitare
alla promozione di pur importanti iniziative ma costruire
uno strumento politico unitario credibile e stabile nel
contesto nazionale. Un obiettivo che
non sappiamo ancora che forme e che esiti potrà avere ma che
è un risultato del nostro lavoro collettivo svolto nella
fase referendaria
con le mobilitazioni del 21 e 22 Ottobre ma soprattutto con
l’esito referendario che ha avallato appieno la nostra
analisi e posizione sul No
Sociale.
Per fare un reale passo in avanti è però necessario riflettere sulle dinamiche generali che ci hanno portato fin qui in quanto ci fornisce una corretta chiave di lettura di una traiettoria politica iniziata nel nostro paese almeno sei anni fa. Il primo passaggio è stato quello delle crisi del debito nel sud Europa quando il condizionamento delle politiche nazionali da parte dell’UE appariva sempre più evidente, anche se in quella fase la “vittima” fu Silvio Berlusconi. La sinistra di “movimento”, incluso il PRC, tentò di abbozzare una risposta unitaria con la costituzione del Comitato NO Debito nel 2011 il quale fu di fatto una comitato di scopo che non poteva durare oltre alcune iniziative che pure riuscirono, come l’assemblea del 1° Ottobre tenuta all’Ambra Jovinelli di Roma, a cui parteciparono oltre mille persone, ed il NO Monti Day. Ad un certo punto di quel percorso apparve evidente l’inadeguatezza della base politica di un comitato di scopo di fronte all’aggressività delle istituzioni europee.
Sotto la guida di
Reagan e della
Thatcher, Stati Uniti e Gran Bretagna vararono nel corso
degli anni Ottanta una serie di politiche che contribuirono
a ristrutturare le società
dell’Occidente (e non solo dell’Occidente) e l’ordine
internazionale. Il processo di globalizzazione neoliberista
[1] che ha
plasmato il mondo negli ultimi decenni ha il proprio
epicentro proprio nella Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Su quest’onda si impose un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal “Washington Consensus”.
Oggi, invece, il presidente USA, Donald Trump e la premier britannica Theresa May puntano esplicitamente a sottrarsi, in termini e modalità pur differenti, alla morsa dell’interdipendenza sempre crescente tra le varie regioni del globo che è stata un tratto caratteristico del processo di globalizzazione. Il nuovo presidente statunitense, in particolare, arriva a mettere in discussione alcune delle stelle cardinali seguite dalla politica americana negli ultimi decenni. Lo fa sul dossier messicano, principalmente per porre fine ai processi migratori che scavalcano il Rio Grande, incorrendo nella seria conseguenza di mandare in malora il NAFTA, l’area integrata di libero scambio che riunisce USA, Canada e Messico e che riveste un’importanza strategica essenziale nella politica estera statunitense.
Enrico Donaggio, Direi di no. Desideri di migliori libertà, Milano, Feltrinelli, 2016, pp. 160
Il libro di Enrico
Donaggio è un
libro da leggere, e non si presta ad un riassunto
“oggettivo”. Ricco di riferimenti e di allusioni, privo di
apparati eruditi e
parsimonioso nelle citazioni – nel confronto con autori
classici o contemporanei privilegia il discorso indiretto
libero e la parafrasi –,
dall’andatura apparentemente divagante e discontinua, il
lavoro di Donaggio si presenta come una meditazione che
occorre seguire in funzione dei
propri interrogativi, e da cui prelevare domande e risposte,
sollecitazioni e ispirazioni.
Un libro di filosofia denso dunque, ma pressoché privo di acrobazie verbali e di terminologie esoteriche, che “stona” quindi (fortunatamente) con il diluvio di gerghi ridondanti e di macro-concetti spesso autoreferenziali da cui la letteratura filosofica è sommersa in Italia da quando ha lavato i panni heideggeriani degli anni Ottanta e Novanta nelle acque variopinte della cosiddetta “French Theory”. Un libro di teoria critica nel senso di Adorno – quale poteva essere letto e compreso negli anni Cinquanta, all’epoca della traduzione di Minima moralia – che discute direttamente nei termini “minimalisti” delle forme elementari della soggettività contemporanea, dei suoi affetti e delle sue scissioni e che pone il problema di cosa sia possibile fare oggi, per noi quali siamo tutti dopo la fine del “secolo breve”. Una fine che sembra sancire la fine di «un’idea di uomo» e cristallizzare un presente «sempre più sterile e triste», dominato «da un’impotenza generale e da una disponibilità ad accontentarsi di poco, se non di niente» (p. 10).
Ascoltando i giudizi sull’esito del referendum del 4 dicembre, mi è capitato più volte di sentire alcuni amici – fra i quali Giorgio Cremaschi – sottolineare un fenomeno paradossale: mentre il nostro Paese vive una fase in cui tanto le lotte sindacali quanto quelle sociali e politiche appaiono a dir poco scarse, i cittadini italiani non mancano di manifestare la propria radicale insofferenza nei confronti delle élite che li governano non appena una qualsiasi scadenza elettorale ne offra loro l’occasione. Sospendendo l’analisi sulle cause di tale comportamento apparentemente schizofrenico, vorrei invece sottolineare come la classe politica abbia assunto piena consapevolezza del problema e stia facendo il possibile per correre ai ripari.
L’esempio più recente di tale consapevolezza è la decisione del governo Gentiloni di cancellare con decreto legge i voucher. <<L’Italia non aveva bisogno nei prossimi mesi di una campagna elettorale come questa>>, ha detto il Presidente del Consiglio, riferendosi all’imminenza dei due referendum abrogativi promossi dalla Cgil. Questa franca ammissione – che andrebbe “tradotta” mettendo il Pd al posto dell’Italia – rispecchia il terrore che ogni scadenza democratica – soprattutto se di tipo referendario – suscita nelle fila di un blocco di potere liberal-liberista che appare sempre più incapace di controllare l’opinione pubblica, malgrado i media non lesino energie per appoggiarlo.
Ogni tanto un mio amico mi chiede perché non mi iscrivo ai radicali, visto che ne condivido tutte le battaglie civili. Gli rispondo che nello statuto dei radicali c'è scritto che è anche un partito "liberista" e io sono contro il liberismo, visto la catastrofe che ha provocato. Lui mi risponde che quella cosa che ha provocato la catastrofe non è il vero liberismo, ma una sua parodia, una sua brutta caricatura in cui la libera concorrenza è subordinata a intrecci, cricche e centri di potere. Io gli replico che vabbé, se la mettiamo così allora manco il comunismo era quello di Breznev, in teoria, ma dobbiamo fare i conti con la realtà storica, non con i nostri wishful thinking.
La discussione, come giusto, prosegue fino a che il tasso alcolico lo consente.
Tuttavia, in effetti, nel confronto attuale per l'egemonia culturale si pone una questione che è allo stesso tempo nominalistica e di sostanza.
Perché dopo trent'anni in cui il dogma prevalente in Occidente era "meno Stato più mercato", "basta lacci laccioli", "il privato è meglio del pubblico", adesso l'ago della bilancia sta andando dall'altra parte e ad accusare quella cosa lì - liberismo - non sono più solo veterocomunisti che rimpiangono i piani quinquennali ma molte, moltissime persone di semplice buon senso che pur senza aver letto le tabelle di Picketty hanno capito che forse si è andati un po' troppo oltre, ultimamente.
L’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump produce i suoi effetti in Libia, dove il “governo d’unità nazionale” di Faiez Al-Serraj, creato dall’amministrazione Obama riverniciando la precedente giunta islamista di Tripoli, è agli sgoccioli: la capitale, dilaniata dalle lotte tra fazioni, sta scivolando verso il caos. La crescente influenza di Mosca sulla Cirenaica si è invece tradotta in un primo accordo petrolifero, cui è seguito un disperato attacco delle milizie islamiste per strappare al generale Khalifa Haftar il controllo dei giacimenti. Il governo Gentiloni, indissolubilmente legato all’era Obama, si ostina ad appoggiare un esperimento, quello di Faeiz Al-Serraj, ormai abortito: all’Italia non rimane che affidarsi alla Rosneft, nella speranza che il colosso russo restituisca all’Eni il favore ricevuto in Egitto.
“Governo d’unità nazionale”: un bluff cui crede solo più l’Italia
“Errare humanum est, perseverare diabolicum” è una massima che si adatta perfettamente alla sciagurata posizione assunta dal governo italiano sul dossier libico: già nel nostro ultimo articolo sull’argomento ci eravamo chiesti se non fosse stato più conveniente per la tutela degli interessi nazionali sulla “Quarta sponda” se Palazzo Chigi e la Farnesina fossero rimasti senza inquilini. Il rischio, intuibile da subito e poi concretizzatosi nei primi “100 giorni” del governo Gentiloni, era infatti che Roma continuasse la disgraziata politica del governo Renzi, senza prendere in dovuta considerazione il cambiamento apportato dall’elezione di Donald Trump e le sue molteplici ricadute, compresa la Libia.
“Di fronte a un problema , i populisti cercano subito un colpevole, mentre i riformisti, testardi, cercano soluzioni” [dalla mozione di Matteo Renzi per le primarie del Partito Democratico]
Va preso sul serio Matteo Renzi quando traccia questa linea di confine tra “riformisti” e “populisti”. Va preso sul serio perché ha ragione. In questo distico, tratto dalla mozione che accompagna il rignanese nella sua nuova scalata al Partito Democratico, è infatti condensata tutta l’essenza del riformismo dell’ultimo ventennio, e allo stesso tempo la ragione dell’emergere del populismo come risposta necessaria al fallimento di quel riformismo.
Per i riformisti, tanto per cominciare, non esistono conflitti, ma “problemi”. La società non è contraddistinta, pertanto, da contrapposizioni sociali o ideologiche, da rapporti di forza squilibrati tra gruppi sociali, da disegni egemonici. Saltano fuori, ogni tanto, delle disfunzioni – i problemi, appunto – riguardanti gruppi di individui e non blocchi sociali. La politica è il luogo dove vengono elaborate “soluzioni” a questi “problemi”. Queste soluzioni avrebbero un valore oggettivo, così come oggettiva sarebbe la natura dei problemi da risolvere.
Prendiamo la grande restaurazione oligarchica messa in campo dai “riformisti” a partire dal momento in cui essere “riformisti” è diventato un obbligo del personale politico.
Relazione tenuta durante l’assemblea sulla Cina – 15 marzo 2017
L’elemento e la notizia eclatante che va innanzitutto sottolineata è che, stando ai dati forniti dall’insospettabile istituto Euromonitor e pubblicato persino dal Corriere della Sera, il salario medio degli operai e delle “tute blu” cinesi è triplicato, è aumentato di tre volte dal 2005 al 2016, quasi raggiungendo la retribuzione percepita nel 2016 dagli operai portoghesi.
Si tratta di una notizia e novità clamorosa fornita tra l’altro da fonti insospettabili, su cui tuttavia gran parte della sinistra politica e sindacale italiana ha steso un clamoroso – ma spiegabilissimo – silenzio, allo stesso tempo imbarazzato e pietoso.
Ma vi sono informazioni interessanti che interessano e/o provengono da Pechino negli ultimi mesi.
La questione della natura socioproduttiva della Cina contemporanea ancora una volta è stata risolta in senso prevalentemente socialista e collettivistico, proprio dall’insospettabile rapporto della rivista statunitense “Fortune” – arciborghese e anticinese – sulle 500 più grandi imprese mondiali nel corso del 2015.
In tale report emerge come le prime undici più grandi imprese cinesi nella “Top 500” planetaria (in termini di fatturato) siano di proprietà pubblica, in tutto o in grande parte.
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Questo libro
di Michèa reca come
sottotitolo “sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il
capitalismo”, e rappresenta un tentativo di sviluppare
una
critica che vada alle radici del capitalismo stesso. Michéa,
in circa 100 pagine, produce una serrata ricostruzione sulla
stessa linea de
“I
misteri della
sinistra”, volta a mettere in luce la profonda
integrazione della sinistra con il liberalismo, che a volte
dice di combattere, e di
questo con il razionalismo occidentale e l’illuminismo.
Nulla di particolarmente nuovo, dunque.
L’orgogliosa tesi, così come nel libro letto precedentemente, ma di ben 11 anni successivo, è che il socialismo ben inteso si differenzia dal movimento politico liberale “di sinistra”, in modo diretto ed esplicito. Come dirà nel 2013, il movimento socialista non è, e non è mai stato “di sinistra”. L’alleanza contro il tradizionalismo reazionario, cementata nel 1800, è oggi da superare, per il filosofo francese, perché la modernità contemporanea ha ormai da tempo passato il segno dopo il quale lo sradicare ed il mobilitare diventa distruttivo. Il ruolo progressista del capitalismo (contro la reazione) è, insomma, venuto meno.
Il capitalismo esprime infatti una pulsione all’acritica esaltazione dell’efficienza e della competitività individuale, ad esso connaturata, ovvero del progresso come mobilitazione costante dei potenziali (ma, più, profondamente della iscrizione come potenziale nello sviluppo quantitativo di ogni dimensione di vita, concepita come “risorsa”), che è profondamente problematico per l’ispirazione del socialismo (che come dice la parola stessa, parte all’opposto dal fatto della vita sociale).
Recensione di Ian Angus, Facing the Anthropocene. Fossil Capitalism and the Crisis of the Earth System, New York, Monthly Review Press, 2016 e Richard Smith, Green Capitalism. The God that Failed, World Economics Association Book Series, vol. 5, 2016.
Negli
Stati Uniti, le pubblicazioni di ecologia critica si rivolgono
a un pubblico in crescita, come testimonia il successo
dell’ultimo libro di Naomi Klein (This Changes Everything). All’interno
di questo campo si sviluppa anche, e sempre di
più, una riflessione ecosocialista di ispirazione marxista
alla quale si iscrivono i due autori qui recensiti.
Uno dei promotori attivi di questa corrente di pensiero è la Monthly Review, insieme alla sua casa editrice. È quest’ultima a pubblicare il libro importante, e assai attuale, sull’Antropocene di Ian Angus, ecosocialista canadese e editore della rivista on line Climate and Capitalism. Si tratta di un libro salutato con entusiasmo tanto da scienziati come Jan Zalasiewicz o Will Steffen – tra i principali promotori dei lavori sull’Antropocene – quanto da ricercatori marxisti come Mike Davis e Bellamy Foster (1), o da ecologisti di sinistra come Derek Wall dei Verdi inglesi.
A partire dai lavori del chimico Paul Crutzen – premio Nobel per le scoperte sul buco dell’ozono -, del geofisico Will Steffen ed altri, la conclusione che siamo entrati in una nuova era geologica distinta dall’Olocene comincia a essere largamente ammessa. Il termine “Antropocene” è il più utilizzato per designare questa nuova epoca, che si caratterizza per i profondi cambiamenti nel sistema-terra risultanti dall’attività umana.
Vale la
pena di prenderlo sul serio l’articolo uscito oggi sul
Domenicale del «Sole 24 Ore», quello di Paola Mastrocola sul
“donmilanismo”.
Vale la pena anche se la prima reazione sarebbe quella di liquidarlo con un post su facebook, ecco la solita storia, un altro articolo a favore dell’appello dei 600, la grammatica è di destra o di sinistra?, l’italiano non lo parla più nessuno, si stava meglio quando si stava peggio e via dicendo. Ma non si può. Perché in questo ennesimo articolo pubblicato dal Domenicale su quello che Mastrocola definisce “donmilanismo” si gioca in un certo senso il futuro della scuola pubblica, poiché è attraverso la costruzione di un discorso pubblico condiviso sulla scuola che si elaborano le ideologie, si pensano le leggi, si immaginano e si scrivono le riforme. Anche a partire dalla storia specifica della pubblica istruzione in questo paese e dal senso che oggi attribuiamo ad essa. L’invenzione di una tradizione democratica e di sinistra “contro la grammatica” di cui don Milani sarebbe stato l’ispiratore, Tullio De Mauro l’interprete e le maestre delle scuole elementari (intrise di un altro male gravissimo, il “rodarismo”) il braccio armato, è un’operazione culturale molto precisa che ha la sua genealogia e come tale va letta. Qui riassumerò alcuni passaggi.
Andiamo per ordine.
C’è poco da fare: il M5s suscita odio viscerale e sviscerato amore, avversioni profonde ed immotivate e difese spericolate come una arrampicata sull’Himalaya a mani nude. Invano attendersi un giudizio equilibrato. Io vorrei tentare di proporre una base di discussione più pacata, sulla quale forse possiamo anche trovarci d’accordo.
Iniziamo dai meriti, a mio modesto parere, indiscutibili. In primo luogo il M5s è stato determinante nel mandare a gambe all’aria il falso bipolarismo fra Pd e Pdl (o Forza Italia o quel che vi pare tanto ci siamo capiti). Con la sua irruzione sulla scena, nel 2013, ha spinto all’alleanza del Nazareno, che ha dimostrato, una volta per tutte, che centro sinistra e centro destra sono solo due facce della stessa moneta distinte da tratti del disegno di superficie: entrambi (chi più chi meno) “europeisti”, neoliberisti, per la Nato (il centro destra, per la verità un po’ meno), tassaioli, privi di spina dorsale e di visione strategica. Due amebe perfettamente interscambiabili.
Il M5s, presentandosi come altro “da tutti” ha rotto l’incanto. Prima ha determinato la crisi del centro destra, ora è stato determinante ad avviare la frantumazione del Pd. Capisco che questo renda molto nervosi ed ostili quelli di Forza Italia o del Pd (ed anche quelli della Lega), e che per loro questo non sia affatto un merito, come lo è per me, ma il fatto in se è indiscutibile.
Il noto editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau, sul think tank da lui diretto Eurointelligence, fa a pezzi l’ipotesi che l’Italia possa uscire dall’euro attraverso un referendum e descrive Luigi Di Maio come un giovane politico del tutto impreparato agli scenari di un’Italexit, la scelta più importante per il paese dalla firma dei Trattati di Roma sessant’anni fa. “Si può facilmente pensare a tutta una serie di scenari, inclusi quello dell’uscita, per l’Italia. Ma c’è uno scenario che possiamo escludere con assoluta certezza: l’uscita dall’euro attraverso un referendum”. Di Maio farebbe bene a prepararsi, e prepararsi bene, o farà la fine di Tsipras
L’unica lezione veramente importante che possiamo trarre dall’episodio di Varoufakis nel 2015 è che, se si vuole lasciare l’euro, si deve essere preparati – sia politicamente che dal punto di vista logistico. Lasciare l’euro non è un semplice punto di programma in una piattaforma politica, un qualcosa di cui parlare con nonchalance in una tavola rotonda o su cui tenere un referendum. È una questione più grossa della stessa Brexit. L’uscita da una moneta unica non può mai essere un processo ordinato, ovunque e in qualsiasi circostanza.
Nel leggere questo resoconto di Gavin Jones su Reuters a proposito della conferenza stampa di Luigi Di Maio, ci ha colpito il fatto che il Vice Presidente della Camera dei deputati, l’uomo che ha le maggiori probabilità di diventare Primo Ministro italiano nel caso le tendenze attuali dovessero persistere, si sta preparando a un fallimento monumentale.
Se c’è qualcosa che mi ha colpito nel sabato in cui le oligarchie Europee hanno festeggiato se stesse, è la comparsa delle sacre stigmate dell’anacronismo che ha avvolto i potenti rinchiusi nel loro ridotto a recitare un messale logoro e frusto, a imitare in maniera grottesca i riti pieni di speranza di 60 anni fa, con parole ambigue e prive di senso. Ma questo progetto fallito e ormai privo di anima è stato difeso contro il mondo esterno da gigantesche misure di sicurezza per fare paura, schedature sotto forma di controlli, polizia e ancora polizia a sorreggere una messa cantata senza contenuti, parole come aria calda per una mongolfiera di carta e quel terribile chiacchiericcio mediatico, così straordinariamente unanime, ottuso, in questo caso consapevolmente servile. Insomma il tentativo di tappare la bocca ai terribili antagonisti perché ormai gli argomenti e le illusioni sotto cui viene sostenuta e nascosta la presa di potere della finanza, non sono più credibili e generano rabbia o noia. Essi cercano di fare paura perché hanno paura.
Il momento più significativo della giornata è stato quando il corteo di Eurostop è stato applaudito dalle finestre del Testaccio, quartiere semigentrificato e dunque valido come test.
Veder scorrere una bibliografia di teoria economica nei titoli di coda non è qualcosa di comune, soprattutto se il documentario cui si è assistito aggancia l’attenzione dello spettatore su un tema ritenuto per soli addetti ai lavori: l’austerità europea e i suoi effetti nefasti sulla vita quotidiana di milioni di persone. Dopo cinque anni di studio sui testi, di riprese e di lavoro in post-produzione, Piigs – Ovvero come imparai a preoccuparmi e a combattere l’austerity sarà in sala il prossimo aprile. Realizzato anche grazie a un’azione di crowdfunding, il lungometraggio è diretto da Adriano Cutraro, Federico Greco e Mirko Melchiorre, mentre la voce narrante è quella di Claudio Santamaria.1
Intervistando alcuni noti economisti, saggisti e scrittori di orientamento eterodosso (tra cui Noam Chomsky, Yanis Varoufakis, Warren Mosler ed Erri De Luca) il film decostruisce il pensiero economico dominante e le sue applicazioni incorporate nella struttura istituzionale europea. Il montaggio è incalzante con molte sottolineature ironiche, l’esposizione è fluida e divulgativa anche grazie a grafici, animazioni e a una grande quantità di materiale audiovisivo d’archivio. Piigs si concentra sulla pars destruens, cioè sulla dimostrazione che le regole dei trattati europei sul deficit, sul debito e sull’inflazione sono frutto di casualità, pressapochismo e perfino di cialtroneschi errori di calcolo su file Excel.
Mentre si celebrano i sessant’anni del Trattato di Roma che avviò l’avventura europea occorre chiedersi se l’Europa, divenuta un Superstato di polizia economica, sia riformabile dall’interno, come sostiene ad esempio Varoufakis. Oppure se – in assenza di conflitto sociale e di un ceto politico disponibile alla disobbedienza istituzionale – sia necessario tornare alla dimensione nazionale per poter ripensare poi l’Unione come costruzione resistente al progetto neoliberale
Ancora scioccati per l’esito del
referendum sulla Brexit, lo scorso settembre i Capi di Stato e
di governo dell’Unione europea si sono riuniti a Bratislava
per discutere di come
recuperare la fiducia dei cittadini scossi da “paure riguardo
a migrazione, terrorismo e insicurezza economica e sociale”[1].
Le paure del primo tipo hanno
ricevuto un’attenzione particolare, sfociata nell’impegno
solenne a evitare “i flussi incontrollati dello scorso anno” e
a
“ridurre ulteriormente il numero dei migranti irregolari”. Si
è subito istituita una guardia costiera europea per
contrastare con
la forza l’arrivo dei migranti, e deciso di collaborare con i
governi più o meno autoritari dei Paesi di provenienza o di
transito per
impedire le partenze. Il tutto ripreso in occasione di altri
vertici, convocati per rafforzare la volontà di rispettare gli
accordi con il
despota di Ankara e di intensificare i rapporti con Al-Sarraj,
Presidente del traballante governo libico di unità nazionale[2].
Anche la volontà di rilanciare la costruzione europea come baluardo per la sicurezza interna ed esterna dei cittadini è stata declinata in modo concreto: si intensificheranno i controlli antiterrorismo e si amplierà la cooperazione in materia di difesa.
I saw
the charred Iraqi lean
towards me from bomb-blasted
screen,
his windscreen wiper
like a pen
ready to write down thoughts for men,
his wind screen wiper
like a quill
he’s reaching for to make his will.1
Sono le prime tre strofe di 92 del poemetto di 184 versi in tetrapodie giambiche2 a rima baciata A Cold Coming – Un freddo venire, del poeta britannico Tony Harrison. Nato nel 1937 a Leeds, città industriale dello Yorkshire, da una famiglia della working class (il padre era fornaio), studia i classici greci e latini presso l’Università di Leeds e si immerge nella grande tradizione letteraria inglese (da Blake a Shelley, da Keats a Yeats). Dopo aver molto viaggiato (insegna per un periodo in Nigeria e in Cecoslovacchia, visita Cuba, Mozambico, Leningrado, passa diversi periodi di lavoro negli Stati Uniti), oggi vive a Newcastle. Con Ted Hughes e Seamus Heaney, Harrison è uno dei massimi poeti britannici del secondo dopoguerra (una selezione di sue poesie edite nel 1984 dalla Penguin vendette più di mezzo milione di copie, un record per un libro di poesie).
Di fronte al fallimento del populismo renziano i poteri forti spingono per un governo tecnico, necessario per consentire al paese di essere fra gli stati guida in un’Europa a due velocità
I poteri
forti europei, dinanzi
alle intemperanze populiste di Renzi – che lo hanno portato a
cavalcare demagogicamente la contrarietà, ormai generalizzata
nei ceti
popolari, alle misure liberiste imposte dalla Ue – sembrano
ormai decisi a puntare su un nuovo cavallo. Gentiloni, anche
per le sue origini
aristocratiche, ha abbandonato le riserve renziane a seguire
senza ritrosie le politiche di austerity imposte dalla troika.
Anche perché,
coperto a sinistra dai fuoriusciti del Pd, che gli hanno
giurato fedeltà, e a destra da Berlusconi, gli unici rischi
reali li corre a causa
della volontà di Renzi di andare al più presto alle urne,
prima che i poteri forti e gli elettori dei ceti medio-bassi
lo
abbandonino.
Tale ipotesi è però considerata troppo rischiosa dai poteri forti italiani ed europei per il rischio di un ulteriore avanzamento di forze ancora più populiste come quelle grilline e, dunque, preferiscono puntare, con Schäuble in prima fila, sull’affidabilità del governo Gentiloni, che sembra incarnare quel governo sostanzialmente tecnico, invocato da “The Economist” nel momento in cui si comprese che il plebiscito chiesto da Renzi il 4 dicembre non avrebbe avuto successo. Tanto più che a una soluzione “tecnica” dell’attuale crisi politica ha detto di puntare lo stesso “grande” vecchio che trama per ritessere le fila di un nuovo centrosinistra, dal momento che D’Alema ha auspicato una compagine governativa che abbia il governo Ciampi come punto di riferimento.
La “sharing economy” ha aperto la strada a una economia basata non sull’innovazione di prodotto ma dei processi organizzativi, mediante la loro disarticolazione e soprattutto l’ulteriore individualizzazione ed esternalizzazione del lavoro
La vecchia economia contro la nuova? I taxisti come i vecchi luddisti che volevano fermare il progresso, ieri rappresentato dai telai meccanici e oggi da Uber e dalla sharing economy? Domande di queste settimane. Ma procediamo con ordine, ricordando subito che la realtà del lavoro è oggi fatta da due mondi apparentemente contrapposti, ma invece coerenti e congrui tra loro: la precarizzazione incessante da un lato (Uber, Foodora, voucher, contratti atipici vecchi e nuovi, JobsAct), dall’altro un’impresa che vuole farsi comunità di lavoro, che inventa gli smart-jobs e persino il manager della felicità per rendere felici i lavoratori. In mezzo: la quarta rivoluzione industriale, i robot e, forse, una nuova disoccupazione tecnologica.
Dunque, la sharing economy. Sfuggente a ogni definizione eppure concreta e pesante nei suoi effetti sociali e sul sistema dei diritti. Soprattutto, difficilmente regolamentabile. Però, la sharing economy, o economia collaborativa o della condivisione, promette cose meravigliose e molti ci credono davvero.
Siamo sull'orlo di una guerra nucleare! Non è affatto uno scherzo! Ma qualcuno in Italia lo sa? Ne dubitiamo, visto che tutti i nostri media sono concentrati sulle squallide e inconcludenti vicende della politica italiana, che sicuramente non lascerà tracce visibili nella storia. Perfino le travagliate e interminabili manovre di unificazione/divisione delle sinistre non hanno fatto riferimento a questa vera emergenza per il destino dell'umanità (per la verità, neanche le guerre che dilagano hanno avuto un eco degno del problema), sebbene alcuni dei protagonisti siano di comprovata fede ecopacifista.
Eppure è proprio così, il mondo si trova sull'orlo di una guerra nucleare che riporterebbe la società umana all'età delle caverne! La previsione del più autorevole pool di esperti raccolti nel Bulletin of the Atomic Scientists, il cui Science and Security Board dall'inizio dell'Era nucleare monitora l’imminenza di questo rischio valutando la gravità delle tensioni mondiali, e lo riporta in modo simbolico ma espressivo nel Doomsday Clock (Orologio dell’Apocalisse) che rappresenta l'imminenza del rischio come minuti che mancano alla “Mezzanotte” della fine del mondo: proprio all’inizio del 2017 il Bullettin ha avvicinato le lancette di mezzo minuto alla fatidica Mezzanotte, a soli 2 minuti e mezzo, rispetto ai 3 minuti dello scorso anno (erano 5 minuti nel 2012).
In occasione dell'uscita del libro di Thierry Meyssan, «Sous nos yeux. Du 11-Septembre à Donald Trump» ("Sotto i nostri occhi. Dall'11 settembre a Donald Trump"), pubblichiamo una serie di articoli che sviluppano alcune tra le numerosissime informazioni in esso contenute.
Dopo l'intervento di Jean-Luc Mélenchon in occasione del dibattito delle elezioni presidenziali francesi, cominciamo con la vera storia del caso Holcim-Lafarge in Siria
DAMASCO (Siria) - Il 2 marzo 2017, la società Lafarge-Holcim ha riconosciuto che la sua filiale siriana «ha rimesso dei fondi a terzi al fine di trovare accordi con un certo numero di gruppi armati, inclusi dei terzi fatti oggetto di sanzioni, al fine di mantenere l'attività e per garantire il passaggio sicuro dei dipendenti e delle forniture da e per la fabbrica». [1]
Già ora, questa industria cementizia costituisce l'oggetto di due indagini. La prima è stata avviata dalle associazioni Sherpa e ECCHR, il 15 novembre 2016, mentre la seconda è stata lanciata dal Ministero francese dell'Economia. Entrambe reagiscono a presunte rivelazioni di Le Monde, secondo cui Lafarge ha versato denaro a Daesh, in violazione delle risoluzioni dell'Onu.
E' importante notare che gli articoli pubblicati il 2 marzo su Intelligence Online (lettera confidenziale appartenente a Le Monde) e dallo stesso Le Monde, il 22 giugno, sono stati redatti da una giornalista esterna a queste pubblicazioni, Dorothy Myriam Kellou.
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Nel primo §. (Individui autonomi.
Idee del XVIII secolo), l’argomento di Marx è facilmente
riassumibile. L’economia politica ha come oggetto la
produzione
materiale, la quale è svolta da individui, che lavorano in
certe condizioni sociali; è naturale, dunque, (nel senso di “è
ovvio”, “va da sé”) che il discorso dell’economia politica
prenda le mosse dagli individui, che operano in condizioni
socialmente determinate. E’ pur vero che nel Settecento si è
andato imponendo un altro modo di procedere, ovvero, si è
ritenuto di
poter iniziare il discorso dell’economia politica a partire
dall’individuo isolato, dal Robinson Crusoe (il personaggio
dell’omonimo
romanzo settecentesco di Daniel De Foe). ma si tratta di
un’illusione dell’epoca (la robinsonata), la quale
consegue, per un verso,
dal tentativo di legittimare l’individualismo, proprio
dell’economia borghese; per un altro, dalla cecità di chi non
comprende come
anche l’individuo isolato sia possibile, solo, perché esiste
una certa maniera di organizzare la società,
che
appunto esprime se stessa attraverso individui
isolati.
Questo è, di primo acchito, il discorso che Marx fa. E’ vero, tuttavia, che guardando le cose più a fondo -per così dire con uno sguardo più sospettoso e scaltrito -, la faccenda si rivela più complessa.
Il fatto stesso che Marx ponga il tema del ‘punto di partenza’ (Ausgangspunkt) significa, implicitamente, richiamare Hegel, il quale aveva iniziato, ad es., la sua Scienza della logica (Wisenschaft der Logik) proprio affrontando la questione dell’Ausgangspunkt. Ed Hegel è richiamato anche nel proseguo.
Il libro
del filosofo
Andrè Gorz, che ci ha lasciato nel 2007 essendo nato nello
stesso anno in cui Mauss dava alle stampe il suo “Saggio
sul dono” e
Gyorgy Lukacs il suo saggio sulla “reificazione”,
che abbiamo
riletto attraverso Honneth, è del 1988. Siamo nell’anno
precedente al crollo dell’impero sovietico ed alla svolta che
in tutto
l’occidente e nel mondo ne consegue; l’internazionalizzazione
del capitale non ha ancora avuto l’accelerazione che prenderà
per tutti gli anni novanta e duemila, fino al necessario esito
del 2007, ma il testo in qualche modo la prevede.
Gorz, anzi, ne vede una delle cause di fondo, la profonda trasformazione delle ragioni del lavoro nel modo di produzione del capitalismo avanzato, e propone una soluzione organica: una nuova direzione utopica alla quale tendere.
Bruno Trentin, nel suo “La città del lavoro”, scritto tra il 1994 ed il 1997, quando da due anni è uscita l’edizione italiana del saggio (1992), descrive a pag 34 la proposta di Gorz nel contesto del suo richiamo alla “democrazia dei consigli” (di fabbrica), ovvero di quel mutamento dell’asse rivendicativo del sindacato, che cerca di andare oltre la tradizione “meramente distributiva e compensativa degli effetti più devastanti dell’uso unilaterale e autoritario di un’organizzazione del lavoro di per se stessa oppressiva e alienante”.
Un’automobile senza autista.
Droni che consegnano pacchi acquistati in Rete. Software che
scrivono articoli per giornali o che compilano rapporti in
base a una mole di dati
elaborati in tempo reale. Sono solo alcuni esempi di una nuova
ondata di automazione di alcuni lavori o attività prerogativa
fino a una
manciata di anni fa degli umani. Per raggiungere l’obiettivo
di una nuova generazione di macchine che svolga attività
cognitive le
imprese e i governi, in particolare quelli di Stati Uniti,
Cina, Regno Unito e Germania, investono centinaia di milioni
di euro all’anno.
Google, ad esempio, ha destinato alla produzione di automobili
senza autista qualcosa come trenta milioni di euro nel 2014
solo per il software,
arrivando a mettere su strada un prototipo che consente di
percorrere alcune delle high way più trafficate
della California senza
nessun incidente. Il futuro del pianeta vede quindi il lavoro
come una “risorsa scarsa” prerogativa di un numero limitato di
persone molto
qualificate, mentre la maggioranza della popolazione
sopravvive con lavoretti, salari al di sotto della soglia di
povertà e economia di
sussistenza.
Un pianeta dove la distopia dello scrittore di fantascienza Herbert George Wells, narrata ne La macchina del tempo, continua a disturbare il sonno di chi vede nella “società digitale” una nuova Gerusalemme.
Avete presente quel manifesto di propaganda dal quale occhieggia un marziale zio Sam, puntando il suo ditone contro chi lo guarda per invitarlo ad arruolarsi? Ebbene: ormai l’intera stampa europea sembra essersi trasformata in una variante di quel manifesto, chiamando il cittadino europeo a mobilitarsi contro i nemici esterni (Putin a Est e Trump a Ovest) e interni (i movimenti antieuropeisti). Vedi, per esempio, Il Corriere di lunedì 27 marzo che schiera nell’ordine: Angelo Panebianco (attenti all’orso russo: se ci dividiamo diventeremo suoi protettorati); Sergio Romano (se Trump ci abbandona attrezziamoci per autogestire la nostra sicurezza); Michele Salvati (avanti con le riforme istituzionali per garantire la “governabilità” – leggi: per concentrare tutto il potere nelle mani di una minoranza oligarchica!). Il tutto condito da servizi sulla repressione della dissidenza in Russia e dalle sempre più frequenti frecciate nei confronti di un Renzi che, tentato dal populismo, non ascolta più i saggi inviti di Padoan a chinare la testa davanti agli ordini di Frau Merkel (ormai il tifo dei media di regime è tutto per il malleabile Gentiloni).
Prima di passare al discorso sui nemici interni, chiariamo meglio chi è questa zia Ue che vorrebbe imitare lo zio Sam.
Dovremmo essere abbondantemente vaccinati alle provocazioni e alla repressione poliziesca, allo sciacallaggio mediatico e alla criminalizzazione politica, eppure anche stavolta ne usciamo con più domande che soluzioni. Il mese di terrore organizzato da Polizia e ministero degli Interni rimanda direttamente alle giornate di Genova del 2001. Quel movimento di massa sottovalutò i richiami alla guerra dello Stato, e cascò mani e piedi dentro una trappola che scompaginò quel movimento e ne facilitò la dismissione. Anche sabato scorso lo Stato, come sempre nei momenti topici, non ha giocato più alla democrazia, ma ha imposto uno stato di eccezione che è, d’altronde, la sua caratteristica più intima.
La manifestazione contro l’Unione europea era, inequivocabilmente, la manifestazione “degli incidenti”. Nessuno, al di fuori dei partecipanti, capiva bene il senso politico della protesta, mentre tutta la cittadinanza romana (e nazionale) coglieva la natura “pericolosa” di quel corteo, a prescindere dalle ragioni politiche (ma c’erano? O erano solo una scusa per sfasciare vetrine?). Gli abitanti di Testaccio venivano coattivamente intimoriti, convocati in Questura, sobillati dalle spie del regime, con l’unico obiettivo di opporli alla manifestazione stessa. Giornalai al soldo della Questura chiedevano che almeno la fontana di piazza Testaccio venisse salvata dalla furia devastatrice.
Abito all’estero da qualche tempo, e come ogni anno, per le vacanze di Natale, sono rientrato in Italia, nel Nord, nella cittadina di provincia dove sono cresciuto e dove abita buona parte della mia famiglia. E come ogni anno, mi colpiscono due cose, che rivedo e rivivo con sempre maggiore intensità. La prima è che la città, di sera, si desertifica completamente. Resta una scena vuota e illuminata, un po’ surreale, tale da evocare un quadro di De Chirico. La seconda è che la quasi totalità delle persone con cui parlo mi comunica la sua paura e la sua ostilità rispetto agli immigrati extracomunitari, ai “marocchini”, come ancora vengono chiamati qui. Impossibile non mettere in relazione i due fenomeni, tanto più che le persone che interpello indicano nella presenza minacciosa dei “marocchini” la causa della dissipatio humani generis serale, e che le uniche anime vive che si manifestano in strada dopo l’ora dell’aperitivo sono, appunto, quelle dei “marocchini”. Ho l’impressione di soggiornare sul bordo di una frontiera, in un territorio ai limiti dell’impero, come in quel romanzo di Coetzee che s’intitola Aspettando i barbari. E invece no, mi trovo vicino a una delle città più importanti d’Italia (e d’Europa), in una periferia che sta a ridosso di un centro molto importante, e che potrebbe essere un po’ dovunque, nell’impero. Mi interrogo su questa relazione fra la città deserta e la presenza fantasmatica e sinistra degli immigrati.
Amanti della statistica, numerologi e persino testate blasonate come il Financial Times parlano in questi giorni dell’apparente inevitabilità di una svolta radicale nella politica monetaria europea, di un possibile New Deal europeo.
Addirittura in un articolo del 7 Febbraio scorso il Financial Times ha ricordato il ruolo determinante di Hjalmar Schacht, noto come “il banchiere di Hitler”, nel risollevare le sorti dell’economia tedesca subito dopo l’ascesa al potere del cancelliere.
A ben guardare un pò di suggestione ci sta. Negli anni ’20 i mercati erano preda dell’euforia, un pò come accadde nella prima parte degli anni 2000. Poi il ’29 portò il “Giovedi Nero” con il crollo dei mercati borsistici e l’inizio di fallimenti a catena, paragonabile al “nostro” Settembre 2008 quando crollarono i colossi bancari di mezzo mondo. Il ’29 innescò una profonda depressione che si protrasse fino alle metà degli anni ’30, anche qui offrendo un parallelo evidente con la recessione che si protrae ormai sino ai nostri giorni. Poi, nel ’33-’34 iniziarono interventi strutturali su ambo i lati dell’oceano che consentirono alle economie di riprendersi vigorosamente.
Roosevelt inventò il “New Deal” (Nuovo Corso) che a partire dal ’34 portò misure drastiche quali l’abolizione delle convertibilità aurea del dollaro, grazie al quale dette luogo ad un massiccio programma di spesa pubblica finanziata dalla banca centrale che assorbì in fretta oltre 3 milioni di disoccupati.
Contro il vertice Ue. Sfila da Testaccio a Bocca della verità il corteo "Eurostop". Lo spezzone più stigmatizzato circondato a Bocca della Verità in una città militarizzata e deserta. 122 manifestanti provenienti da Piemonte, Nord Est e Marche trattenuti per ore a Tor Cervara. Gli è stato negato il diritto di manifestare
La sospensione del diritto di manifestare è stata dichiarata ieri a Roma, dentro e fuori il raccordo anulare. Una fortezza ampia decine di chilometri quadrati ha inglobato la Capitale per proteggere capi di stati e primi ministri europei asserragliati nel Campidoglio, dietro le grate e una quarantina di mezzi anti-sommossa schierati in massa in via Petroselli. Duemila persone sono state controllate, trenta i fogli di via che hanno colpito altrettanti manifestanti, sia al corteo del mattino «La nostra Europa», sia a quello del pomeriggio «Eurostop». In possesso dei manifestanti sarebbero stati trovati pericolose felpe con il cappuccio, kway, fumogeni.
Centoventidue persone sono state bloccate ai varchi di Roma Nord a bordo di pullman e auto e sono state trasferite alla questura di Tor Cervara con motivazioni pretestuose. Provenivano da Torino, dal Nord Est, dalla Toscana e dalle Marche e sono state trattenute per almeno sei ore. I manifestanti bloccati hanno organizzato un corteo di protesta in un parcheggio vuoto e assolato.
Un invito alla lettura del nuovo libro di Paolo Bartolini "Desiderio illuminato e spiritualità laica. La radice cristiana per una fede non dogmatica"
Abitare il "tra": questo è il
principio epistemologico ed etico che mi accomuna al denso e
interessante libro di Paolo Bartolini. La radice
cristiana per una fede non dogmatica, la cui
ricerca è alla base del Desiderio illuminato
dell'autore di esplorare i possibili
percorsi di confronto con la Spiritualità laica. Desiderio
che fa i conti, innanzi tutto, con l'imprescindibile
esigenza di
ripensare il nostro universo culturale per renderlo
disponibile ad accogliere ciò che di vitale e positivo può
provenirci da fuori.
Ed è qui che emerge tutto l'enorme potenziale di conoscenze e azione insito nel concetto di spazio intermedio, di cui troviamo un'espressione diretta nel Vangelo quando Gesù dice «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt. 18,20), passo nel quale quel "in mezzo a loro" può essere tradotto anche con "tra loro", appunto.
Ma è soprattutto nel pensiero-linguaggio cinese, come osserva il filosofo Francois Jullien, il quale consacra da anni la sua vita al confronto con questa cultura, che si ha una valorizzazione di questo tipo di spazio:
Presentiamo la prima parte di un saggio di Marco Iannucci, amico di Jacques Camatte e traduttore italiano di alcuni suoi scritti. Il testo integrale è stato da noi pubblicato ed è disponibile nella serie «I libri del Covile» a: www.ilcovile.it e anche su Sinistrainrete qui. In calce un carteggio tra autore e redazione
Svolgo alcune
considerazioni a
mo’ di premessa
E' fonte ogni volta di stupore per me constatare quanto poco si parli di «capitale». I canali attraverso i quali viene formata l’opinione pubblica, a cominciare da quelli che operano nei paesi dell’occidente industrializzato, non forniscono praticamente mai degli strumenti per interpretare il mondo contemporaneo alla luce della posizione dominante occupata dal capitale. Eppure non è difficile constatare che i fenomeni che determinano in modo decisivo la forma di vita dell’umanità attuale, in quanto forma di vita sociale, sono fenomeni del capitale.
Accade così che negli stessi mezzi di informazione di massa venga data ogni giorno la massima evidenza ad argomenti come: crisi finanziaria e uscita dalla crisi, recessione o espansione, prodotto interno lordo che cala o, finalmente, cresce («la crescita!»), domanda interna ed estera che ristagna o aumenta, aziende che chiudono o aprono o si fondono, andamenti degli indici delle varie Borse, prezzo del petrolio greggio e quotazione dell’oro, cambio Euro-Dollaro, aste dei titoli di stato, spread tra gli interessi sulle emissioni di uno stato rispetto a un altro, deficit di bilancio, debito pubblico e rischio di default di questo o quello stato, tasse e politiche fiscali, decisioni del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Federal Reserve, della Banca Centrale Europea, dei ministri delle finanze e cosi via ... ma del capitale no, di quello non si parla.
Settantadue anni dalla Liberazione. Ma anche quarant’anni dal 1977. E, sopra ogni cosa, cento anni dalla Rivoluzione. Le stelle dicono che è l’anno buono. Bisogna organizzarsi, fare presto, farci trovare pronti. La lotta al fascismo, ai fascismi mascherati, alle nuove destre reazionarie che soffiano sul fuoco della guerra fra poveri, ci impegnano quotidianamente in quelle periferie nelle quali viviamo, lavoriamo, amiamo e lottiamo. Per questa ragione ricordare il 25 aprile non è uno sforzo di retorica celebrativa, ma pratica quotidiana. E’ sopravvivenza e necessità, ed è così che intendiamo la lotta al fascismo oggi. Giunto alla quinta edizione, l’Achtung Banditen Festival è l’Appuntamento antifascista romano, il luogo e il tempo dove ragionare di politica, dove incontrare compagni da tutta Europa, dove ascoltare musica resistente e garantire la solidarietà economica a tutti i compagni inquisiti per antifascismo. Le quattro edizioni precedenti hanno segnato l’inizio di una tradizione popolare e militante. Questo è l’anno in cui moltiplicare sforzi e successi.
Non un passo indietro, ieri come oggi.
L’idea del festival antifascista nasce da una duplice necessità.
La prima necessità è quella di ricostruire un immaginario antifascista.
Recensione del libro di Angelo D'Orsi: 1917. L'anno della rivoluzione (Laterza, Bari 2017)
Si respira un'aria febbrile nelle e fra le pagine dell'ultimo libro di Angelo D'Orsi, 1917. L'anno della rivoluzione. E come potrebbe non essere così? Raccontando minuziosamente le vicende di quello che comunemente è detto l'inizio - il vero inizio - del XX secolo, D'Orsi, da storico militante qual è si immerge (e ci chiede di fare altrettanto) nella temperie di un anno straordinario che sembra contenere, in nuce, tutto quello che sarà il secolo breve, con le sue incredibili conquiste e le sue incredibili miserie, la perdita definitiva di ogni sembianza di innocenza dell'Occidente (ancora presente nel secolo precedente), il dispiegarsi pieno e ormai privo di paraventi ideali della realpolitik praticata dalle cancellerie europee, la guerra come compiuta realizzazione della divaricazione fra tecnologia ed etica, la dirompente avanzata del movimento proletario e le reazioni sanguinarie del potere borghese.
In realtà, come D'Orsi racconta con stile avvolgente, il 1917 non è solo l'anno della rivoluzione, quella realizzata nella Russia post-zarista ma anche quella mancata nei paesi della democrazia liberale, è anche l'anno in cui il volto militare del potere borghese getta via ogni infingimento e si rivela in tutta la sua spietatezza, in tutto il suo disprezzo per la vita, nel crescente ricorso ad un abominevole principio della riduzione a numeri (previsti e poi rilevati) della perdita, mondata di ogni riferimento all'umanità - dolente e offesa - che grida dietro i meri dati quantitativi.
Sempre più le persone sono costrette a «formarsi da sé» per accrescere il proprio «capitale umano», e sempre più sono costrette a lavorare a intermittenza, non riuscendo a conseguire quella cittadinanza basata proprio sul lavoro che non c'è più
André Gorz, filosofo e autodidatta di origine austriaca, si forma nel confronto con Sartre e, grazie alla sua analisi del lavoro, diventa un riferimento teorico per il sindacato francese. La sua critica serrata al capitalismo contemporaneo nasce dall’analisi dei cambiamenti del sistema di produzione e consumo. Gorz nel saggio Metamorfosi del lavoro, ci ricorda che il lavoro salariato è un’invenzione moderna: «La caratteristica essenziale del lavoro – quello che noi “abbiamo, “cerchiamo”, “offriamo” – è di essere un’attività che si svolge nella sfera pubblica, è un’attività richiesta, definita e riconosciuta utile da altri che, per questo, la retribuiscono. È attraverso il lavoro remunerato (e in particolare il lavoro salariato) che noi apparteniamo alla sfera pubblica, acquisiamo un’esistenza e un’identità sociale (vale a dire “professione”), siamo inseriti in una rete di scambi in cui ci misuriamo con gli altri e ci vediamo conferiti diritti su di loro in cambio di doveri verso di loro. Proprio perché il lavoro socialmente remunerato e determinato è il fattore di socializzazione di gran lunga più importante – anche per coloro che lo cercano, vi si preparano o ne sono privi – la società industriale si considera come una “società di lavoratori” e, in quanto tale, si distingue da tutte quelle che l’hanno preceduta».
La notte del 22 marzo 2017 nei pressi di Karkiv, in Ucraina è saltato in aria un grande deposito di armi, gli inquirenti seguono due piste, il sabotaggio e l'incidente. Ma ce ne potrebbe essere una terza che riguarda da vicino anche gli europei.
Il luogo dell'esplosione si trova ben lontano dalla linea del fronte, fuori dalla gittata dei missili della Repubbliche Popolari del Donbass e comunque in una zona in cui non sono mai arrivati ad operare i reparti speciali. In un primo momento si era parlato della presenza di un velivolo nei pressi del luogo dell'esplosione, ma non ci sono riscontri attendibili.
Un'incidente può sempre capitare quando si maneggiano esplosivi, questa ipotesi non può essere aprioristicamente scartata.
Ricostruire le dinamiche dell'accaduto potrebbe essere assai difficile e forse non si arriverà mai alla soluzione, ma ci si deve interrogare su una terza ipotesi, quella più oscura. L'esperienza insegna che quando salta in aria un'arsenale (soprattutto se, come in questo caso, non ci sono vittime benché gli sfollati siano 20mila) spesse volte si tratta di una messa inscena realizzata per coprire il furto di materiale militare: dopo l'esplosione è impossibile verificare se qualcosa fosse stato precedentemente sottratto dai magazzini.
In questo saggio Louis ALLDAY analizza la narrativa mainstream sulla Siria e i suoi vettori principali : il mito del non-intervento occidentale, l’occultamento di verità scomode sull’opposizione, l‘intimidazione di quelli che mettono in discussione la narrazione e la presentazione dei propagandisti come esperti neutrali
Dal 2011 il flusso di analisi mal informate, inaccurate e spesso del tutto disoneste sugli eventi in Siria è stato inarrestabile. Ho già scritto sui pericoli dell’utilizzo di spiegazioni sempliciste per comprendere il conflitto, un problema che è emerso ripetutamente negli ultimi cinque anni. Tuttavia c’è un problema più grande. Il discorso mainstream sulla Siria è diventato così tossico, distaccato dalla realtà e privo di sfumature che chiunque abbia il coraggio anche solo di mettere in discussione l’impostazione della narrazione della ‘rivoluzione’ in corso, o si oppone agli argomenti di quelli che supportano l’imposizione di una no-fly zone da parte dell’Occidente, può aspettarsi una rapida punizione. Questi dissidenti sono immediatamente attaccati, spesso calunniati come ‘Assadisti’ o ‘Pro-Assad’ e accusati di mostrare una crudele indifferenza verso le sofferenze dei siriani. Una delle tante verità che si sono perse in questo discorso è che l’imposizione di una no-fly zone significherebbe, per usare le parole del più alto generale delle Forze Armate statunitensi, che gli Stati Uniti vanno in guerra “contro la Siria e la Russia”. Voglio essere chiaro dall’inizio che scrivo questo avendo vissuto in Siria e che porto nel cuore i ricordi di quel periodo.
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1. Introduzione
Mentre in Italia la discussione è ancora in divenire, dal gennaio 2017 la Finlandia ha iniziato la sperimentazione del reddito di cittadinanza, fissato per l’occasione a 560 euro mensili. Da un primo sguardo emergono modalità di attuazione piuttosto singolari, se non stravaganti: sono stati infatti sorteggiati 2000 cittadini tra i 25 e i 63 anni, che riceveranno l’assegno indipendentemente dal salario ma in alternativa al sussidio di disoccupazione. Lo scopo, a detta del governo presieduto dal centrista Juha Sipilä, è di valutare le conseguenze dell’erogazione monetaria, percepita dai riceventi come sicura, sulla propensione ad accettare un lavoro. I risultati saranno resi noti solo nel 2019, momento in cui verrà deciso se continuare, modificare o interrompere l’esperimento.
Nel frattempo che il caso finlandese dispieghi i suoi effetti, emerge l’opportunità di alcune considerazioni il più possibile generali, troppo spesso trascurate in favore di analisi empiriche talvolta col fiato corto. Nonostante le modalità specifiche di attuazione siano ovviamente rilevanti per un giudizio non parziale, così come le questioni finanziarie sulla sostenibilità delle erogazioni, lo scopo del presente contributo è diverso: verrà proposta una breve riflessione teorica che provi ad indagare i presupposti fondamentali del reddito di cittadinanza nell’ambito delle scelte complessive di politica economica. Per farlo si proverà a interrogare due autori che la questione del reddito di cittadinanza se la sono già posta, arrivando a giudizi molto diversi ma comunque estremamente interessanti.
Il potere di condizionamento dei messaggi ideologici nella presente fase del capitalismo
In una edificante serata
del popolare festival di San Remo di quest’anno abbiamo avuto
il piacere di assistere alla presentazione di una “nuova”
figura nel
panorama ideologico neoliberista: quella dello Stachanov
nostrano. Si tratta di un impiegato pubblico modello, il
quale, in quarant’anni di
lavoro, non ha fatto neppure un giorno di malattia ed inoltre
ha accumulato ben 239 giorni di ferie non godute. Ci si
potrebbe chiedere -se fosse cosa
seria- se la ricerca medica stia studiando il caso, per
scoprire i segreti della “salute miracolosa”. Invece, riguardo
ai 239 giorni di
ferie non godute -se fosse vero-, saremmo curiosi di sentire
anche il parere della moglie, se mai ne avesse.
E’ notizia di questi stessi giorni che Boeri, presidente dell’INPS, il quale si è distinto per il tentativo -ad oggi fallito- di sacrificare la pensione di reversibilità per i superstiti, intenderebbe intensificare i controlli medico-fiscali per i dipendenti pubblici assenti per malattia. E, con l’occasione, richiederebbe di aumentare, da quattro a sette, le ore giornaliere di reperibilità per le visite di controllo del medico fiscale per i dipendenti in malattia del settore privato, uniformando così la durata della reperibilità dei dipendenti privati a quella dei dipendenti pubblici. Per questi ultimi infatti detta durata era già stata portata da quattro a sette ore dal ministro Brunetta del governo Berlusconi.
In una
recente intervista alla Gabbia, Toni Negri ha definito le
nazioni “cose barbare, cose tribali”. Potremmo notare,
ispirandoci a un famosa
battuta di Marx al tempo della Prima Internazionale, che Negri
non sta parlando in esperanto, ma in una delle lingue delle
barbare nazioni,
l’italiano, e che, inoltre, tramite altre barbare lingue
nazionali (inglese, francese, tedesco…) è riuscito a
raggiungere una
cultura di tutto rispetto. Dice che gli Stati Uniti si
credevano imperiali e hanno perso il controllo della
globalizzazione. Si tratta di posizioni
abbastanza diverse da quelle sostenute in “Impero”, il libro
scritto con Michael Hardt. Là affermavano: “La storia delle
guerre imperialiste, interimperialiste e antimperialiste è
finita. La storia si è conclusa con il trionfo della pace. In
realtà,
siamo entrati nell’era dei conflitti interni e minori. Ogni
guerra imperiale è una guerra civile: un’operazione di polizia
–
da Los Angeles a Granada (forse s’intendeva Grenada), da
Mogadiscio a “Sarajevo”…(1)
Il libro fu ultimato poco prima della guerra in Kossovo, ma la concezione dell’Impero fu subito smentita dalla storia, perché le guerre in Jugoslavia, in Afghanistan e in Iraq non erano certo operazioni di polizia. Chi ha visto le foto di bambini deformi di Falluja, a causa dell’uranio impoverito, inevitabilmente pensa ad Hiroshima. Più in là, Hardt e Negri scrivevano: “Nello spazio liscio dell’Impero non c’è un luogo del potere – il potere è, a un tempo, ovunque e in nessun luogo. L’Impero è un’utopia, un non-luogo”.
Dai migliaia di morti dei bombardamenti Usa in poi, l'Occidente in Medio Oriente ha fatto una quantità di danni imparagonabile a quella dei dittatori locali. Non lo dice il nostro senso di colpa, lo dicono i numeri
Il famoso o famigerato selfie con Bashar al-Assad del senatore Razzi, che tanto scandalizzò le anime belle, ha però avuto il pregio di aprire uno spiraglio di discussione sulla qualità del racconto intorno alla crisi siriana. Non da oggi il racconto di una crisi è più importante della crisi stessa. Lo ha dimostrato, tra i tanti altri casi, il cosiddetto Rapporto Chilcot, dal nome di sir John Chilcot, incaricato dal Governo inglese di indagare sulle ragioni e i metodi dell’invasione anglo-americana del 2003 in Iraq. Tra i tanti altri particolari agghiaccianti, il Rapporto racconta che nel 2003 il criminale di guerra Tony Blair, mentre si apprestava a lanciare con George Bush una guerra basata su motivazioni fasulle che provocò centinaia di migliaia di morti (più o meno ciò che molti oggi imputano ad Assad, insomma), si preoccupava fortemente di avere un gruppo di specialisti della propaganda che sapessero “presentare” quella porcata agli elettori inglesi.
Generazioni e diseguaglianze sociali. Si allunga il tempo necessario ai giovani per costruirsi una vita autonoma. E c’è chi è pronto a farla pagare ai pensionati
Giungono nuove brutte notizie per le giovani generazioni nel nostro paese. Dopo che ministri dell’economia e del lavoro li avevano chiamati bamboccioni e choosy (schizzinosi), perché pretendevano un lavoro dignitoso, ora la ricerca della Fondazione Bruno Visentini su Divario generazionale tra conflitti e solidarietà, avanza una purtroppo possibile e nefasta profezia statistica. Sorvolando sui perché, la ricerca afferma che siamo passati dai 10 anni necessari ad un giovane ventenne nel 2004 per costruirsi una vita autonoma, ai 18 anni per raggiungere lo stesso risultato nel 2020 (arrivando quindi a 38 anni di età), e addirittura 28 anni nel 2030. In pratica, le ultime generazioni entreranno nell’età “adulta”, secondo i parametri classici dell’autonomia, solo al giro di boa dei cinquant’anni.
E’ emergenza generazionale hanno tuonato i mass media. E la causa? Invece di indagare sulle ragioni del prolungamento precario della giovinezza, il dato, senza alcuna ragione statistica o sociale, è stato correlato alla “generazione d’argento”, i silver boomers, ai quali appartengono i nati negli anni del boom dopo la seconda guerra mondiale, definiti come quelli che oggi godono di una confortevole vecchiaia. Questa confortevole differenza va ridotta, è ingiusta, hanno scritto e detto autorevoli penne e opinion maker.
Le elezioni presidenziali francesi del prossimo aprile vengono indicate dai commentatori come decisive per la sorte dell’Unione Europea. Le preoccupazioni si accentrano sul pericolo costituito da un’eventuale vittoria della candidata della destra antieuropea, Marine Le Pen. La questione però è più complicata.
Non c’è dubbio che la Le Pen rappresenti una sfida seria all’establishment europeo, a differenza di quanto avviene in Italia con la formazione che appare più rampante, il Movimento Cinque Stelle. Ciò non solo perché Marine Le Pen può esibire doti di professionismo politico, a fronte del dilettantismo dei 5 Stelle, ma anche perché il messaggio lepeniano appare diretto e inequivocabile, disposto a revocare anche l’appartenenza alla NATO, quindi un messaggio privo di quelle ambiguità che invece caratterizzano da sempre il grillismo. Le ambiguità del Movimento 5 Stelle, lungi dal punirlo sul piano elettorale, lo hanno premiato, indicando che l’elettorato italiano non è ancora disponibile a scelte drastiche, ma si limita ad un voto di protesta e di “avvertimento” verso la classe politica tradizionale.
D’altra parte, anche se la Le Pen non riuscisse a vincere, la questione della permanenza della Francia nell’euro si riproporrebbe di fatto, al di là delle volontà o dei volontarismi delle persone e dei partiti.
Alan Johnson spiega sul New York Times perché la sinistra dovrebbe rallegrarsi della Brexit. L’abbandono dell’Unione Europea non è un’occasione per isolarsi dal mondo, bensì la decisione necessaria per rifiutare l’ideologia liberista di cui l’UE è impregnata. Gli inglesi hanno rifiutato il modello UE, fondato sulla subordinazione delle istituzioni democratiche e del benessere delle persone al capriccio delle élite e allo sfruttamento delle classi subalterne da parte di chi ne ha i mezzi. L’unico ambiente adatto per ripristinare la socialdemocrazia sono gli stati-nazione, in cui dovrà essere ridefinito il popolo – demos – non tanto in contrapposizione alle altre nazionalità, ma in contrapposizione alle élite neoliberiste predatrici
Mercoledì il Primo Ministro del Regno Unito, Theresa May, manderà una lettera al Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, per informarlo che, dopo 44 anni di appartenenza, il Regno Unito lascerà l’Unione Europea. Tra circa due anni, al termine delle negoziazioni sui termini dell’uscita, l’Unione perderà in un solo colpo “un ottavo della sua popolazione, un sesto del PIL, metà dell’arsenale militare e un seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, come ha fatto notare recentemente Susan Watkins, editrice della New Left Review.
La Watkins è una “Lexiteer”, ossia una sostenitrice di sinistra della “Brexit”, come me. Non siamo stati una forza significativa tra il 52% dei britannici che hanno votato a favore dell’uscita nel referendum del 23 giugno.
Un filosofo della politica d’eccellenza proiettato nella prassi parlamentare quotidiana, in una legislatura difficile come la presente, che non finisce di finire; un linguaggio, forgiato nella capacità di astrazione, che cerca di mordere l’attualità della prassi politica. Questo Democrazia senza popolo. Cronache dal parlamento sulla crisi della politica italiana (Feltrinelli, pp. 217, euro 16) è un unicum nella importante e vasta produzione di Carlo Galli: è in primo luogo, il racconto dall’interno di un’esperienza parlamentare. Ma, allo stesso tempo, è la messa all’opera di un sapere sulla politica, che non pretende di dedurre l’azione politica da postulati invariabili, ma che al tempo stesso non rinuncia a leggere, nella contingenza quotidiana, forme e concetti strutturali.
A questo esercizio di guardare la contingenza da vicino senza farsene dominare, questa legislatura d’altronde si presta in modo particolare: si è incentrata per larga parte sul tentativo di personalizzazione estrema della politica, operata da Matteo Renzi, e culminata nell’avventura fallita del referendum costituzionale; allo stesso tempo, proprio questa estrema personalizzazione, è in realtà il sintomo di un processo molto più ampio. L’estremo interesse del libro è appunto il modo in cui questi piani sono tenuti insieme. Si tratta, in sintesi, del fallimento di Pier Luigi Bersani e dell’affermazione apparentemente irresistibile di Renzi.
Pubblichiamo questa lunga e stimolante riflessione sulla forma partito di Josep Maria Antentas, professore di sociologia alla Università autonoma di Barcelona (UAB) e membro del Consiglio consultivo della rivista "Viento Sur", dell'area politica Anticapitalistas interna a Podemos. L'articolo è uscito sull'ultimo numero della rivista, che potete consultare qui
1. Partito-movimento. Dopo
decenni di crisi delle forze politiche della sinistra e di
rifugio nei movimenti sociali, l’attuale rinascita della
battaglia
politico-elettorale e di nuovi strumenti politici si dà sotto
il segno della necessità di ripensare e di rinnovare la
nozione stessa di
partito. Frutto di un lungo arretramento della sinistra
politica dalla fine degli anni Settanta in poi, la (diseguale)
crisi dei partiti è
stata di contenuto (programma), di forma (organizzazione) e di
pratica. In sintesi una crisi di progetto, di senso e di
strategia. L’eterno
risorgere della “questione del partito” nasconde precisamente
una discussione più ampia sulla strategia politica, la natura
della
lotta e la relazione tra il politico e il sociale.
La nozione di partito-movimento riassume bene la vocazione di intraprendere un rinnovamento movimentista del partito, con una certa analogia con il concetto del sindacalismo movimentista (social movement unionism) sviluppato nel mondo anglosassone rispetto ai sindacati. Utilizzato in ambito accademico da Kitschelt (2006) per riferirsi ai partiti antiautoritari e verdi emersi negli anni Ottanta in vari Paesi europei, il termine può essere formulato in un senso più ampio.
“Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori e di promuovere interventi volti al mantenimento del decoro urbano” …
È particolarmente istruttivo soffermarsi sul testo del Decreto Minniti in materia di ‘Sicurezza delle città’ mentre scorrono in sottofondo le immagini degli espianti degli uliveti di Melendugno, per l’avvio dei cantieri del “Trans Adriatic Pipeline”.
E’ illuminante come alcune centinaia di dipendenti del Ministero dell’Interno si siano fatti interpreti, con la semplicità e l’immediatezza propria della comunicazione non verbale dei manganelli, del contenuto profondo dei concetti enunciati dal Decreto, quali “sicurezza”, “vivibilità dei territori”, “decoro”, “benessere delle comunità territoriali”, e della loro articolazione pratica nell’ambito delle politiche di governo.
Le cariche sui sindaci, inoltre, raffigurano plasticamente cosa si intenda per ‘collaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza’, qualora i primi cittadini non vogliano ridurre il proprio ruolo a meri persecutori di mendicanti e poveracci in genere, ma pretendano (temerari!) di rappresentare i bisogni e i desideri della gente che li ha eletti.
C'è chi con l'età diventa più saggio e
tollerante, e chi invece sempre più acido, rigido e
pretenzioso, rischiando di
divenire inviso anche a chi gli voleva bene. Se l'Europa fosse
una persona ricadrebbe in questo secondo caso. L'immagine di
popoli che si legavano
sempre più tra loro in nome della pace e di una maggiore
prosperità e aiutavano chi era più indietro a migliorare la
sua
condizione man mano è diventata quella in cui alla solidarietà
si è sostituita la competizione, alla pari dignità
l'egemonia di qualcuno su tutti gli altri, all'aiuto a chi è
in difficoltà l'imposizione di penitenze, secondo torti e
ragioni stabiliti
dalla logica del più forte.
Le radici di una costruzione disastrosa
Non ci si può stupire che questo sia accaduto. Questa trasformazione risponde esattamente all'evoluzione ideologico-culturale che negli ultimi quarant'anni ha investito quasi tutto il mondo. Prima degli anni '80 anche i liberali (per lo meno, la maggior parte di loro) avevano una visione per cui una più equa distribuzione della ricchezza era opportuna per il buon funzionamento della società e lo Stato non era visto solo come una macchina inefficiente e dissipatrice di risorse che il settore privato avrebbe impiegato meglio. Non dimentichiamo che William Beveridge, il barone britannico considerato il fondatore del moderno welfare, era appunto un liberale, come lo era John Maynard Keynes.
Il “decreto Minniti” segna uno spartiacque nel rapporto tra conflitto sociale e governi di questo paese. Al di là dei dettagli tecnici – che pure è necessario chiarire, chiamando a ragionarne giuristi, avvocati democratici e quel tanto che ancora esiste di parlamentari affezionati alla democrazia – va intanto colto il dato politico essenziale: non esistono quasi più spazi di mediazione. Anche il “quasi” ha la sua importanza giuridica, naturalmente, ma la direzione di marcia già fissata da alcuni decenni viene ora percorsa premendo forte sull’acceleratore.
Si usa definire tutta questa sfera come ambito della “repressione”, ed è corretto; ma è solo una parte del ragionamento che occorre fare.
La chiusura degli spazi di mediazione è infatti fenomeno politico-sociale ben più ampio del solo schieramento di strumenti militari e legislativi a supporto della repressione. Sono quasi 40 anni che le vie della mediazione sociale vanno diventando viottoli tortuosi, abbandonati alle erbacce e al dissesto, fino all’impraticabilità. La mediazione sociale si nutre infatti di spesa pubblica, è incarnata da investimenti pubblici e istituti di welfare (pensioni, sanità, istruzione, edilizia popolare, strumenti di supporto al reddito, ecc), che danno concretezza all’esigibilità di diritti altrimenti enunciati come pura chiacchiera. Tagliare la spesa pubblica vuol dire esplicitamente – basta leggere i giornali economici, anziché la cronaca – tagliare i margini di mediazione sociale, approfondire le disuguaglianze, impoverire chi ha un lavoro, bloccare l’ascensore sociale, condannare porzioni crescenti di popolazione a restar per sempre fuori dal cerchio del (relativo) benessere.
Mentre Washington moltiplica i segnali che confermano la sua intenzione di distruggere Daesh, i britannici e i francesi, seguiti dall'insieme degli europei, stanno pensando di andare da soli. Londra e Parigi hanno coordinato l'attacco a Damasco e Hama per costringere l'esercito arabo siriano ad andare a difenderle e quindi a indebolire la sua presenza intorno a Raqqa. Gli europei sperano di organizzare la fuga dei jihadisti verso il confine turco
BEIRUT (Libano) - La riunione della coalizione anti-Daesh a Washington, il 22-23 marzo, è andata piuttosto male. Se apparentemente i 68 membri hanno riaffermato il loro impegno nella lotta contro questa organizzazione, in realtà hanno manifestato le loro divisioni.
Il segretario di Stato statunitense, Rex Tillerson, ha ribadito l'impegno del presidente Trump davanti al Congresso volto a distruggere Daesh e non più a ridurlo come sosteneva l'amministrazione Obama. In tal modo, senza discussione ha messo i membri della Coalizione davanti al fatto compiuto.
Primo problema: in che modo gli europei in generale, e i britannici in particolare, potranno salvare i loro jihadisti, se non si tratta più di spostarli, bensì di sopprimerli.
Rex Tillerson, e il primo ministro iracheno, Haider al-Abadi, hanno riferito in merito alla battaglia di Mosul.
Ovviamente, Poletti ha ragione. In termini di lettura del reale, dico: cioè del Paese di cui è ministro. Le amicizie e le relazioni, nell'Italia del 2017, sono molto più utili a trovare un lavoro rispetto a un buon curriculum, agli studi, all'impegno, allo sforzo, agli skill acquisiti. E "giocare a calcetto" può consentirti di allargare la tua rete di relazioni.
Se quindi ci si limita alla constatazione dello stato delle cose, c'è poco da arrabbiarsi con Poletti: ha detto la verità.
Peccato che ci siano due o tre questioni grandi come montagne, dietro. Che cagionano ragionevolmente furia nei confronti del Poletti medesimo, o quanto meno delle sue frasi.
Primo, se la dinamica purtroppo è questa - cioè che per trovare un lavoro le relazioni sono purtroppo più importanti degli skill - un politico decente non se ne compiace per nulla.
Anzi la denuncia.
La indica con ogni forza come un modello sbagliato, da lasciarsi alle spalle. Invoca quindi una rivoluzione del modo di pensare di tutti. Chiede agli imprenditori privati di assumere per capacità e non per conoscenze.
Avanti a ritmi e intensità diversi, si legge nella Dichiarazione dei 27 capi di Stato e di governo al vertice commemorativo dei 60 anni dei Trattati di Roma: “Agiremo congiuntamente a ritmo e con intensità diversi, se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati e lasciando la porta aperta a coloro che desiderano associarsi successivamente” (Corriere della Sera, 26.03.17). Un linguaggio ambiguo e incline a prestarsi a eterogenee interpretazioni, quello con cui è stata redatta la Dichiarazione, che indica una direzione di marcia che nel breve periodo non produrrà sostanziali cambiamenti, in attesa delle elezioni francesi e tedesche. Al di là dei proclami propagandistici e dei propositi retorici, pare che la vicenda europea non si distanzierà più di tanto dall’ossessivo mantra della disciplina di bilancio europeo e delle regole rispettose dell’ortodossia rigorista teutonica, per l’appunto con il vincolo del pareggio di bilancio in testa alla lista.
Un articolo di Repubblica di qualche settimana fa, intitolato “Lite sull’Europa a due velocità” (11.03.17), chiudeva considerando che anche “se a Roma si cercherà di rilanciare l’Europa per i prossimi 10 anni, la frattura (all’interno dell’Unione, ndr) è sempre più visibile”. Il fatto è che l’Unione monetaria e l’integrazione sono sempre più traballanti.
Un poliziotto sfonda la porta di casa con un ariete portatile, l’altro entra con la pistola spianata e crivella di colpi l’uomo che, svegliato di soprassalto, ha afferrato una mazza da baseball, mentre altri poliziotti puntano le pistole contro un bambino con le mani alzate: scene di ordinaria violenza «legale» negli Stati uniti, documentate una settimana fa con immagini video dal New York Times, che parla di «scia di sangue» provocata da queste «perquisizioni» effettuate da ex militari reclutati nella polizia, con le stesse tecniche dei rastrellamenti in Afghanistan o Iraq.
Tutto questo non ce lo fanno vedere i nostri grandi media, gli stessi che mettono in prima pagina la polizia russa che arresta Alexey Navalny a Mosca per manifestazione non autorizzata.
Un «affronto ai valori democratici fondamentali», lo definisce il Dipartimento di stato Usa che richiede fermamente il suo immediato rilascio e quello di altri fermati.
Anche Federica Mogherini, alto rappresentante della politica estera della Ue, condanna il governo russo perché «impedisce l’esercizio delle libertà fondamentali di espressione, associazione e assemblea pacifica».
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“Da quando il
mercato mondiale è
divenuto una realtà operante, una serie di paesi
industriali si fanno concorrenza; al capitale che si trova
in eccedenza vengono offerti in
tutte le parti del mondo campi di investimento
infinitamente più vasti e più vari, di modo che esso si
ridistribuisce in misura molto
maggiore, mentre la superspeculazione locale viene
superata con maggiore facilità. Al tempo stesso sul
mercato interno la concorrenza retrocede
di fronte ai cartelli e ai trusts, mentre sui mercati
esteri essa trova una barriera nei dazi protezionistici,
di cui si circondano tutti i
paesi industriali. Ma questi dazi rappresentano in realtà
soltanto degli armamenti per la definitiva campagna
industriale universale che
dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale”. Friedrich
Engels, nota al III capitolo de Il Capitale,
citato da Gianfranco Pala, Economia nazionale e mercato
mondiale, Laboratorio Politico, Manes editore 1995.
“La struttura degli equilibri del capitalismo internazionale di lunga durata sta sperimentando una altrettanto profonda riconfigurazione. Nel 1991, secondo l’Unctad, il 36% del valore aggiunto industriale globale era riferibile all’Europa e il 24% al Nord America.
L’ironia della storia ha voluto che i
ventisette congiurati “europei” delle Idi di marzo si
trovassero installati in una sala particolare del Palazzo dei
Conservatori, in
Campidoglio: la sala degli Orazi e dei Curiazi, affrescata dal
Cavalier d’Arpino all’inizio del Seicento sul tema maschio
della forza
militare di Roma che afferma con astuzia la sua supremazia sul
nemico di turno, gli sprovveduti Curiazi di Alba Longa. La
corsa degli Orazi e dei
Curiazi fu giocata sulla velocità, e chi si fermò fu ammazzato
(il tema si tradurrà nel «Chi si ferma è
perduto» dell’italica retorica fascista e delle sue
declinazioni successive, fino al «correre!» e «vincere!» del
bullo di Rignano; in questo caso gli Orazi sono stati gli
elettori del 4 dicembre). I congiurati delle Idi di marzo del
44 a. C. pugnalarono Cesare
per difendere la tradizionale oligarchia e scongiurare
l’autocrazia di un unico despota. Il gioco, presentato a
patrizi e plebei come difesa
della libertà della Repubblica, era truccato. In uno
straordinario cortocircuito storico i congiurati di un’Unione
europea divisa ma
arroccata in difesa mentre i “barbari” premono ai confini, e
il nemico è anche interno (popoli maledetti, tutti
“populisti” quando non stanno al gioco), e i mercati sono
contesi da pericolosi competitors della
globalizzazione di un
capitalismo i cui assetti produttivi tradizionali
(occidentali) sono in coma, hanno fatto appello all’unità
dell’oligarchia
europea, alle diverse velocità delle economie finanziarie
forti e dei gregari deboli in una corsa che trova il suo unico
obiettivo strategico
di medio termine nella «difesa comune» della fortezza
assediata.
Avere una base per la vita e un’altra per la
scienza è une falsità a priori (Karl Marx)
Negli ultimi decenni del XX secolo una singolare idea ha preso piede in alcuni settori del mondo accademico. Con essa si è voluto sostenere che, lungi dall’essere i più stretti compagni e collaboratori, intenti a lavorare in armonia per quarant’anni, Karl Marx e Friedrich Engels di fatto erano in disaccordo riguardo a questioni fondamentali, sia teoriche che pratiche.
I presunti disaccordi tra i due avrebbero riguardato la natura e le scienze naturali. Ad esempio, Paul Thomas contrappone “il ben noto interesse di Engels per le scienze naturali” alla “mancanza di interesse da parte di Marx”, suggerendo che “Marx ed Engels erano divisi da un abisso concettuale che avrebbe resistito ad ogni tentativo d’insabbiamento”(1). Terrence Ball, analogamente, sostiene che “l’idea (successivamente abbracciata da Engels) secondo la quale la natura esiste indipendentemente, e prima, di ogni sforzo da parte dell’uomo di trasformarla, è del tutto estranea all’umanesimo di Marx”(2). Dal punto di vista di Ball, alla distorsione della filosofia di Marx compiuta da Engels vanno addebitate “alcune delle più repressive caratteristiche dell’esperienza sovietica”(3).
Non ci sono prove dell'attacco con armi chimiche perpetrato dall'esercito siriano sulla città di Idlib. Ancora una volta la fonte della "verità" è il cosiddetto Osservatorio siriano dei diritti umani (v.articolo), che dietro l'orpello degli scopi filantropici è un'organizzazione politica vicina al fronte ribelle anti Assad con sede in Gran Bretagna.
L'attacco mediatico campeggia su nove colonne su tutti i giornali occidentali e sta ottenendo uno scopo duplice:
- offuscare l'attentato islamista di San Pietroburgo, che dopo solo 24 ore sparisce dalle prime pagine;
- colpire l'immagine del governo di Assad che in Siria sta vincendo la guerra.
I due obiettivi sono intrecciati. Il mainstream politico non poteva permettersi che Putin diventasse vittima proprio nel momento di maggiore concentrazione mediatica contro Mosca. Appena avuta notizia dell'attentato alla metro di San Pietroburgo, il presidente Trump ha offerto telefonicamente a Putin la collaborazione USA nella lotta al terrorismo (che in sordina già esiste). Il primo scenario su cui questo asse sta avendo effetti è proprio la Siria, sia sul fronte anti ISIS, sia su quello anti ribelli islamisti.
Tutte le redazioni sanno come funziona e possono smontare il meccanismo della menzogna. Invece no. Il supplizio del lettore e dello spettatore ricomincia da capo
Il coro dello sdegno umanitarista sta battendo la lingua sul tamburo a tutta forza: a lanciare l'attacco chimico a Idlib è stato il dittatore sanguinario Assad appoggiato dall'altro dittatore sanguinario (e omofobo, ovviamente) del Cremlino che solo ieri - sempre a detta del circo rosé dallo sdegno a comando e a fasi alterne - avrebbe fatto mettere delle bombe nella sua città natale nell'ambito di una strategia della tensione.
Ovviamente a battere la lingua sul tamburo va in prima fila l'incessante riflesso squadrista di Travaglio e del suo giornale delle forche e delle manette, tutto il carrozzone del Manifesto, Zucconi e tutti i "buoni" dell'informazione, come quelli di Gazebo, megafoni chissà se inconsapevoli delle ONG legate ad Al-Qa'ida.
Ma la cosa più preoccupante è che tutti i politici rosé si sono lanciati in Alti Lai e digrignar di denti contro Assad.
Dal presidente francese Hollande all'Alta Rappresentante Mogherini, tutti chiedono conseguenze, noncuranti del fatto che attaccare la Siria significa giocare con il fuoco:
Ieri un presunto attacco chimico operato dall’esercito di Bashar al-Assad causava la morte di 72 persone, tra cui 20 bambini, nella provincia di Idlib, in Siria. La denuncia, diffusa anche per mezzo di alcuni video postati in rete, arriva dall’Osservatorio siriano per i diritti umani e da alcuni attivisti vicini agli Elmetti Bianchi. Immediata la condanna internazionale, a cominciare da quella del Segretario di Stato americano, Rex Tillerson:
«E’ chiaro che questa è opera di Bashar al-Assad – ha dichiarato Tillerson – una brutalità inaccettabile». Sdegno anche da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu e dal presidente turco Erdogan, che si è rivolto direttamente a Vladimir Putin: «Raid inumano e inaccettabile, rischia di vanificare ogni negoziato». Nonostante la condanna unanime, al momento non vi è alcuna assoluta certezza che l’attacco sia opera dell’esercito di Assad e non mancano i dubbi sula ricostruzione, non certo imparziale, fornita dall’Osservatorio siriano per i diritti umani.
L’Onu: “Non siamo in grado di stabilire i fatti”
Dubbi talmente rilevanti da spingere le Nazioni Unite a non prendere una posizione.
Pubblichiamo un post di Emiliano Brancaccio, professore di Politica economica ed Economia internazionale presso l’Università del Sannio. Promotore sul Financial Times del “monito degli economisti” contro le politiche europee di austerity
Trump infiamma il dibattito mondiale tra liberisti e protezionisti annunciando l’introduzione di barriere commerciali USA contro l’importazione di merci dall’Europa e dall’Asia. Come alcuni avevano previsto, la grande crisi iniziata nel 2008, in larga misura irrisolta, ha portato nuovamente alla ribalta il vecchio tema dei dazi doganali.
C’è chi grida allo scandalo ma a ben guardare la svolta di Trump non rappresenta un’eccezione: di fatto egli accelera una tendenza alla restrizione degli scambi che i dati ufficiali registravano già da alcuni anni, negli Stati Uniti e in gran parte del mondo. Per alcuni sarà difficile ammetterlo, ma siamo al cospetto di una tipica nemesi storica: proprio il liberoscambismo incontrollato degli anni passati è una delle cause dell’odierno revival protezionista.
Per anni abbiamo voluto credere che l’accumulo di deficit e di surplus verso l’estero sarebbe stato risolto dai meccanismi spontanei del mercato. Il risultato è che alla fine della scorsa decade siamo arrivati a registrare una serie straordinaria di record dei disavanzi verso l’estero degli Stati Uniti e corrispondenti avanzi commerciali di Cina e Germania, con i primi due solo in parte rientrati e il terzo che continua imperterrito la sua corsa funesta.
Un caro amico mi ha preso in contropiede con una domanda apparentemente facile ma non banale e gli ho promesso che l’avrei postata: “come mai dal 2008 ad oggi il costo del debito italiano non è sceso sebbene i tassi di mercato siano crollati fino a rasentare lo zero?”.
Anzitutto sono andato a sincerarmi della cosa. Nel 2014 abbiamo pagato 93,5 miliardi di interessi passivi sul debito pubblico(!), mentre nel “lontano” 2008 pagammo 78,5 miliardi. Ovviamente l’ammontare di debito sottostante è diverso. Nel 2014 il debito pubblico è stato di circa 2.170 miliardi, mentre nel 2008 era di 1.705 miliardi.
Quindi, in termini percentuali l’Italia ha pagato in media il 4,6% nel 2008 ed il 4,3% nel 2014. Negli stessi anni il tasso interbancario europeo, l’Euribor, è passato dal 3,7% del 2008 allo 0,4% del 2014!
Ricapitolando: Dal 2008 al 2014 il tasso di interesse sul debito italiano non è cambiato mentre il tasso di mercato è crollato! IL MIO AMICO AVEVA RAGIONE!
Come si spiega questo? Cerca e ricerca scopri che proprio attorno alla fase acuta della crisi del 2007-2008 l’Italia ha sottoscritto contratti DERIVATI con banche internazionali, IMPEGNANDOSI A PAGARE DEI PREMI A QUESTE BANCHE SE I TASSI SCENDONO.
1. Premessa
La coincidenza fra gli importanti studi filologici attorno all’edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels1 e l’avanzare di una importante crisi del capitalismo mondiale, ha determinato una ripresa dell’interesse verso la teoria della crisi economica all’interno del sistema di analisi di Marx.
Se ormai resta diffìcile per chiunque disconoscere l’importanza del lascito marxiano su questo argomento, gli stessi estimatori di Marx si dividono fra di loro su questioni interpretative rilevanti. Ne è esempio il pregevole numero monografico sulla crisi in Marx della rivista «Pagine inattuali»2.
Per esempio Giovanni Sgro’, curatore del numero della rivista, nella sua analisi dei Quaderni di Londra3, sostiene che in Marx non «vi sia un’unica teoria della crisi» ma «diversi approcci teorici per l’analisi e la spiegazione delle crisi»4.
Stefano Breda da parte sua sostiene - se abbiamo ben capito - che non esista, e non possa esistere all’interno del livello di astrazione cui giunse Marx, una teoria della crisi in quanto la spiegazione di tali fenomeni deve avere le caratteristiche di teoria cuscinetto5 frapposta fra il cielo della teoria della struttura del modo di produzione capitalistico e la terra dell’analisi dei fenomeni contingenti che caratterizzano le diverse crisi6.
Sempre i demagoghi seminano su un terreno già arato.
M. Horkheimer, T. W. Adorno.
Il povero biascica
le parole per saziarsi di
esse.
Egli attende dal loro spirito oggettivo il
valido
nutrimento che la società gli rifiuta; e fa la
voce
grossa, arrotondando la bocca che non ha nulla
da mordere.
T. W. Adorno.
«Gli
italiani hanno bisogno
come il pane
dell’uomo che “si affaccia dal
balcone”»
(I. Montanelli). O dal
Blog.
Dietro all’uno vale uno di solito si nasconde il Super Uno.
1. Populismo: è la categoria politica oggi più citata – e il più delle volte abusivamente – nel dibattito politico degli ultimi dieci anni.
In realtà, già con l’avvento del berlusconismo, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, si iniziò a scomodare quella definizione; allora però più che di “popolo” si straparlava di “società civile”, una mitica entità antropologicamente orientata al bene da contrapporre alla corrotta e incivile casta politica.
Il sito di analisi politica ed economica Makroskop, curato da Heiner Flassbeck e Paul Steinhardt, passa al vaglio in questo documentato articolo il mito neoliberista secondo cui il libero mercato sarebbe sinonimo di crescita e benessere per tutti, mentre il protezionismo foriero di povertà e disastri. Giungendo alla conclusione che un’analisi senza pregiudizi della storia economica degli ultimi due secoli permette di affermare l’opposto: il libero mercato non porta affatto vantaggi a tutti e un certo protezionismo può giovare allo sviluppo economico di un paese, come risulta in particolare se si esamina il periodo precedente alla Prima guerra mondiale, proprio quello solitamente usato come prova a sostegno delle tesi neoliberiste
Il protezionismo
conduce alla guerra e
alla stagnazione, il libero scambio inevitabilmente alla
crescita. Questa storiella è un paradosso neoliberista da
prima del 1913. Vale la pena
dare un’occhiata più attenta alla storia.
Da quando Donald Trump è diventato presidente, ha cominciato a circolare la paura del protezionismo. Eminenti economisti attraverso i mass media ci mettono in guardia all’unisono contro le sventure che il protezionismo avrebbe già apportato all’umanità.
A questo proposito sempre più spesso si traccia un confronto con il periodo precedente alla prima guerra mondiale, che in letteratura notoriamente segna la fine della prima era della globalizzazione. Gabriel Felbermayr, dirigente dell’IFO – Institut für Wirtschaftsforschung (Istituto per la ricerca economica) di Monaco – sezione commercio estero, vede la fine della globalizzazione in arrivo già prima delle elezioni americane in novembre e fa risalire al crescente protezionismo la catastrofe della prima guerra mondiale (1914 – 1918) (vedi qui). Il messaggio è chiaro: appena limitiamo in qualche modo il libero scambio, questo ci porta al disastro economico.
Il Corriere del 29 marzo dedica una doppia pagina agli incidenti sulla riviera salentina che hanno visto una dura repressione poliziesca contro alcune centinaia di cittadini (compresi alcuni sindaci dei comuni dell’area) che cercavano di opporsi all’espianto degli ulivi per lasciare posto al cantiere della TAP (Trans Adriatic Pipeline), un gasdotto che dovrebbe portare il gas dalle regioni del mar Caspio al nostro Paese attraverso i Balcani. Non sto a ricostruire tutta la storia del Comitato No Tap e delle lotte che negli ultimi anni hanno contrapposto cittadini salentini, azienda TAP e governo nazionale (da sempre allineato con gli interessi dell’azienda, mentre la Regione Puglia si è schierata con il movimento). A chi volesse approfondire le ragioni (ambientali, economiche e sociali) del No consiglio di visitare il sito del Comitato http://notransadriaticpiperline.blogspot.it. Qui mi limito a commentare il modo in cui il caso viene trattato giornalisticamente.
Cominciamo da un trafiletto firmato dall’ineffabile Pierluigi Battista, dal titolo significativo “Opporsi per ideologia. A che cosa? Poco importa”. Qui vengono riproposte paro paro le tesi che da anni sono utilizzate dai media di regime contro il movimento No Tav:
Alemanno, Alfano, Bersani, Casini, Cappato, Cesa, Civati, D’Alia, Dellai, Fitto, Fratoianni, Meloni, Parisi, Pisapia, Pizzarotti, Quagliariello, Scotto, Sgarbi, Speranza, Storace, Tabacci, Tosi, Verdini, Zanetti.
È una lista – ancora parziale – dei cacicchi delle micro-formazioni che si stanno moltiplicando come batteri nella speranza d’arrivare in parlamento a vendersi al migliore offerente, per rappattumare l’ennesima Grossolana Coalizione di governo in cambio di qualche ministero. Se una cosa è riuscita ad Alfano, può riuscire a chiunque.
Mentre i brulicanti Furbetti del Partitino già sgomitano sui media in cerca di visibilità, è invece ancora incerta l’identità dei frontmen dei tre cosiddetti principali schieramenti.
Il PD potrebbe non riuscire a liberarsi del cadavere di Renzi.
Finora però ha vinto solo il primo round delle primarie. Quello che conta quanto il voto della giuria a Ballando con le Stelle.
Grillo potrebbe non scegliere fra Ricky & Barabba (Di Maio e Di Battista) e tirare fuori una terza opzione a sorpresa, tipo sorella segreta di Sherlock.
Intervenendo ieri l'altro mattina al “Business Summit B-7” (il vertice delle Confederazioni Industriali di Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna, Giappone, Canada e Stati Uniti, in vista del G-7 di Taormina in maggio) presso la sede di Confindustria a Roma, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha svolto un discorso programmatico che disvela, come meglio non si potrebbe, la visione sociale e politica dello strato superiore del grande capitalismo italiano, e di cui egli si fa paladino.
Un discorso quindi molto importante, dati questi tempi inquieti che precedono la tempesta. Un discorso strategico, a cui fa da velo lo stile pretesco tipico del Presidente del Consiglio. Chi se lo voglia ascoltare tutto, può andare al sito del governo. Noi ne abbiamo estrapolato i passi più significativi. Sentiamo:
«La risposta alle ansie del presente non sta certo nel ritorno al passato. Agli inizi dell'Ottocento i luddisti distruggevano le nuove macchine della rivoluzione industriale. Potremmo ritrovarci a fronteggiare dei nuovi luddisti, che chiedono di distruggere l'innovazione tecnologica con un tratto di penna, per decreto. Noi invece dobbiamo credere nelle possibilità che arrivano dall'innovazione, dobbiamo avere fiducia e soprattutto dobbiamo rafforzare il consenso all'interno delle nostre società su alcuni punti fermi fondamentali,
La sparatoria avvenuta al liceo Tocqueville di Grasse ha messo purtroppo fine ad un'altra "eccezione francese". Finora, la Francia era stata risparmiata dalle sparatorie nelle scuole, a fronte delle diverse decine che avevano avuto luogo negli ultimi vent'anni, soprattutto negli Stati Uniti, in Germania ed in Finlandia.
Quel che le assomigliava di più, in Francia, era stato il massacro del consiglio comunale di Nanterre, avvenuto per mano di Richard Durn nel Marzo del 2002, con motivazioni vagamente politiche. Secondo quanto abbiamo potuto leggere, l'autore della sparatoria di Grass, diciassettenne, si è ispirato al massacro di Columbine (Colorado), avvenuto nel 1999. Ma, fortunatamente, è riuscito solo a ferire qualche persona, e non è arrivato a portare a termine il risultato tipico di questo genere di sparatotia scolastica: il suicidio.
Tuttavia, questo atto ha riprodotto, quanto meno nelle sue intenzioni, il ben noto schema dell'omicidio scolastico, e bisogna conoscere tale schema, poiché l'aspetto imitativo è molto alto in questo settore.
Nella sua forma più tipica, un individuo entra in una scuola (o in una università) e fa fuoco per uccidere le persone presenti; di solito finisce per suicidarsi, dopo che è stato circondato dai poliziotti.
Qualcuno pensa ancora che siamo governati da una banda di matti che non sa che pesci pigliare. Purtroppo non è così…gli esecutori materiali della strategia in atto sanno bene cosa fare e lo sanno soprattutto i loro padroni, la cricca affaristico-bancaria che costituisce la Troika.
La visione del mondo di questi signori è molto precisa e per capirla dobbiamo ricordare cosa hanno fatto sinora. Il grande inganno è consistito nel far credere che i trattati europei fossero i propulsori di un grande spazio economico-commerciale continentale, costruito per il benessere e la sicurezza dei cittadini.
Ma l’astuzia maggiore di questo consorzio di privati e istituzioni internazionali che non ha regole democratiche né alcuna trasparenza è stata l’appropriarsi direttamente dell’emissione della moneta e del relativo signoraggio (leggi interessi sul prestito) cosi da poterla dare in prestito e generando da ciò due effetti di fondo:
A) Obbligare i Paesi a produrre avanzi primari in grado di ripagare gli interessi sul debito, che implicano drenaggio di risorse dall’economia reale verso il sistema bancario.
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Federico Pieraccini: Geopolitica, Ordine Mondiale e Globalizzazione
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Jean-Claude Michéa: Radio Kapital: Per finirla con sinistra\destra
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Ho tenuto a lungo nel
cassetto questo
breve articolo, pensato per lettori non italiani – e già
pubblicato in versione tedesca (in cooperazione con la
rivista Jacobin) su
LuXemburg (periodico della fondazione omonima), n. 2, 2016 –
perché temevo che la concezione “stretta” di partito che qui
propongo potesse influenzare negativamente il processo di
costruzione di una vera forza socialista nel nostro paese.
Se è infatti vero che
abbiamo bisogno anche di un partito fatto di elementi molto
selezionati, è altrettanto vero, però, che tale selezione
deve avvenire su
una platea molto più vasta di quella che abbiamo a
disposizione oggi. Oggi servono organismi politici capaci di
avviare la crescita di una
prospettiva socialista attraendo forze di buona consistenza
numerica e di diversa estrazione sociale e culturale: solo
sulla base di questa prima
crescita si potrà operare, o verrà operata dai fatti, una
selezione che estragga gli elementi più consapevoli e
determinati.
Considerato che organismi del genere stanno per fortuna
iniziando a nascere, e con il passo giusto (penso alle pur
diverse esperienze di Eurostop e
della Confederazione di Liberazione Nazionale), mi sembra
adesso che questo scritto posa avere una qualche utilità
anche per la discussione
italiana. Per questo lo rendo pubblico, con minime modifiche
rispetto alla precedente versione.
Il gas nervino torna
protagonista in
Siria e ancora una volta più dei danni provocati sul campo
di battaglia o tra i civili pesano gli effetti mediatici e
politico-strategici. Da
anni le armi chimiche sono diventate uno strumento più utile
alle battaglie della propaganda che a quelle campali. Il
presidente Barack Obama
incautamente ne definì l’impiego da parte del regime di
Bashar Assad il “filo rosso”, superato il quale gli Stati
Uniti
sarebbero intervenuti militarmente contro Damasco.
Dichiarazione che venne messa alla prova nell’agosto 2013 dalla strage di Ghouta, quartiere di Damasco in mano ai ribelli dove un attacco chimico compiuto con razzi provocò un numero di vittime variabile tra qualche centinaio e oltre 1.700, a seconda delle fonti. Basterebbe l’incertezza di questi numeri a evidenziare le difficoltà riscontrate da osservatori indipendenti non solo ad attribuire la paternità di quell’attacco ma anche a verificare il numero di vittime.
La crisi, che vide Usa, Francia e Gran Bretagna pronti a bombardare Damasco, venne risolta dall’intervento di Mosca che si fece garante dello smantellamento dell’arsenale chimico di Bashar Assad poi trasferito nel porto italiano di Gioia Tauro e distrutto a bordo di una nave speciale statunitense sotto l’egida dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac).
In
un articolo
di qualche tempo fa
Bifo sosteneva che la sinistra avrebbe fatto bene a
liberarsi di due feticci divenuti negli anni piuttosto
ingombranti: il lavoro salariato e la
crescita economica. Rispetto al primo, la comunità di
Effimera – ma direi quella neo-operaista nel senso più ampio
e inclusivo del
termine – ha da tempo preso parola, con esiti molto
significativi. Del secondo feticcio, invece, si è parlato
poco. Certo, abbiamo preso
di petto la questione ecologica, sottolineandone
opportunamente la dimensione
politica. Però il
problema della crescita non è stato sollevato in quanto
tale.
C’è chi ha percorso la strada opposta: critica approfondita della crescita economica e scarso interesse per il lavoro. Mi riferisco alla decrescita, etichetta che richiama un arcipelago di associazioni, movimenti e programmi di ricerca (accademici e non) che negli ultimi anni ha visto aumentare considerevolmente la propria sfera d’influenza, sia in termini numerici sia di riconoscimento. Per non fare che un esempio, la quarta Conferenza Internazionale della decrescita, tenutasi a Lipsia nel settembre 2014, ha visto la partecipazione di quasi quattromila persone (tra cui una fetta davvero rilevante dei movimenti “autonomi” tedeschi).
Il farloccone
ignorante e sbruffone
eletto a presidente degli USA da un popolo dissanguato dai
necrofili che lo hanno governato nell’ultimo quarto di
secolo, lo sprovveduto
agonizzante sotto i colpi revanscisti degli orchi
spodestati, ha dato il suo colpo di coda. Colpo di un
animale sfiancato che prova a
sopravvivere superando in ferocia i suoi cacciatori e
offrendogli in pasto la vita della Siria e, forse,
dell’umanità. Coda subito
sorretta, con indomito spirito di inservienti di forca, dal
branco di botoli ringhianti europei, perdutamente devoti a
chi li tiene alla catena da
sempre e che, finalmente, possono tornare a riconoscersi in
un padrone che li aveva disorientati sembrando disposto a
privarli del piacere della
frusta. In ogni caso, colpo di coda che parte da lontano,
che il suo titolare lo sapesse o meno. Una roba come il
sinistro-destro metro
S.Pietroburgo-Tomahawk sulla Siria non la si improvvisa.
Torna in gola e ci strozza il sospiro di sollievo che il mondo aveva tirato all’idea che gli uni contro gli altri armati avrebbero messo insieme quella buona volontà che, dal 1945, gli Usa si erano impegnati a eliminare muovendo guerra dopo guerra, attuando colpo di Stato dopo colpo di Stato, promuovendo dittatore dopo dittatore, innescando destabilizzazione su destabilizzazione, lanciando contro tutto e tutti il maglio incontrastabile del terrorismo.
Pubblichiamo la seconda parte del capitolo IX del libro Weltordnungskrieg1 di Robert Kurz, inedito in Italia, nella traduzione di Samuele Cerea (qui la prima ==> il nómos della modernità)
La fine del diritto, lo stato di eccezione globale e il nuovo «homo sacer»
A questo punto è necessario sottoporre questo meccanismo, la sua logica e la sua origine storica ad un’analisi più dettagliata. Il concetto fondamentale a questo riguardo è quello di stato di eccezione. Come si sa che il luciferino Carl Schmitt, uno dei più lucidi ma, allo stesso tempo, più inquietanti teorici dell’«ideologia tedesca» nel XX secolo, ha tormentato per lungo tempo i predicatori della libertà democratica, collocando lo stato di eccezione, su cui ritornò insistentemente, al centro del dibattito sul diritto costituzionale. In un saggio dal titolo significativo, «Teologia politica», si trova la celebre (o famigerata) definizione di tutta la sovranità moderna, e quindi anche della democrazia: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Questa definizione può essere appropriata al concetto di sovranità, solo in quanto questo si assuma come concetto limite. Infatti concetto limite non significa un concetto confuso, come nella terminologia spuria della letteratura popolare, bensí un concetto relativo alla sfera piú esterna. A ciò corrisponde il fatto che la sua definizione non può applicarsi al caso normale, ma a un caso limite» (Schmitt 1922).
Schmitt individua qui due punti decisivi, utilizzabili nella polemica contro l’autocomprensione positivistica dello Stato di diritto liberale, il cui apostolo in quel periodo era il filosofo del diritto socialdemocratico Hans Kelsen, cui fanno riferimento significativamente, al presente, posizioni come quella di Hardt e Negri e che, in generale, ha fatto breccia nel senso comune di tutte le illusioni giuridiche.
Riaffiora continuamente nella sinistra una teoria che potremmo chiamare della “democratizzazione” che, in parole poverissime, pretenderebbe che lo Stato si muovesse su binari così detti “democratici” e si scandalizza e si flagella quando questo non avviene. E parla di regressione autoritaria, di deriva reazionaria e via dicendo.
Pensando che si possano chiamare ad una “democraticità” più fattiva gli apparati esistenti, si dimentica che lo Stato è lo strumento e l’emanazione della classe dominante, si cassa ogni considerazione sulla natura di classe dello Stato stesso, presentandolo come neutrale e necessario per le “oggettive” esigenze di direzione della società. L’idea della non neutralità dello Stato, una delle acquisizioni fondamentali del marxismo, è dimenticata, non soltanto nel revisionismo tradizionale e nel neo revisionismo, ma anche in molti spazi antagonisti. E questo vale a tutti i livelli sia che si parli di tribunali e di giustizia, sia che si parli di gestione della piazza e del dissenso, sia che si parli delle modalità con cui viene affrontato il sociale…
Da qui l’inconsistenza degli appelli dei partitini di sinistra per il ritorno a Keynes, che fanno finta di non accorgersi che non è vero che lo Stato si è ritirato.
Il corsivo di prima pagina, nuovo gingillo editoriale, sembra ormai imporsi nei quotidiani nostrani: luoghi comuni, simpatici aneddoti, si incapsulano banalità e si infiocchettano in un grazioso quadratino all’insegna della leggerezza. Il capostipite è ovviamente “il Buongiorno” di Massimo Gramellini che, spostatosi al Corsera, ci propina ormai ogni giorno “Il Caffè” (il Buongiorno resta al degno erede Mattia Feltri) e infine c’è “L’amaca” di Michele Serra promossa in prima, e che campeggia oggi sopra la testata del giornale fondato da Scalfari. Grattando sotto il cerone di uno stile da 5a elementare, in queste mediocri composizioni ritroviamo spesso la medietà del pensiero giornalistico nostrano su cui vale quindi la pena ogni tanto attardarsi.
Oggi è proprio Serra che ci regala una perla tutta da ammirare. Al centro dell’odierno temino di Michele c’è un argomento scottante e cruciale, quello delle ronde. Un argomento da dondolare docilmente, perfetto per liberarsi di quell’immagine di “buonista” gli è stata ingiustamente appioppata. Si inizia col mea culpa nell’essere stati ingiusti verso uno strumento si nobile. C’era un’epoca, a quanto pare, in cui la sinistra “spaventata da ceffi e sceriffi” è addirittura arrivata a considerare le ronde come una palestra politica per l’estrema destra!
Da sempre il potere vive di fake news e di post-verità, anche se un tempo si chiamavano in altro modo. Scriveva Thomas Hobbes: «vero e falso sono attributi delle parole, non delle cose». Ovvero, ciò che è vero è contenuto all’interno dello stesso discorso linguistico adottato dal potere per definire i fenomeni della realtà, che possono essere modificati, trasformati, aggirati, nascosti, mascherati. Cioè, non è vero ciò che è vero ma ciò che si dice (e si fa credere) essere vero . In questo modo, Hobbes rovescia il principio di Platone – nel mito della caverna - per il quale invece: «Vero è il discorso che dice le cose che sono come sono; quello che le dice come non sono, è falso». Entrambi usano il concetto di discorso. Ma in modi radicalmente opposti. Perché è evidente che quello usato da Hobbes sconfina nella manipolazione, o nell’ideologia e nella religione, certamente nel totalitarismo (forma moderna di stato assoluto), e oggi appunto nelle fake news e nella post-verità, che resta verità (anche se non lo è) fino a quando non si dimostra che è una falsità. Michel Foucault li definiva meccanismi di veridizione, procedimenti discorsivi utili appunto a trasformare in vero anche ciò che in realtà vero non è ma è utile a legittimare un determinato potere, come oggi quello della Silicon Valley (in ciò che è e in ciò che rappresenta – nel senso di mettere in scena se stessa). Anche la pubblicità è una forma di fake truth, utile appunto a legittimare il capitalismo (il potere).
Non è una notizia l’assenza di solidarietà alla Russia seguita all’attentato di San Pietroburgo dell’altro ieri. Sarebbe stato sospetto il contrario. Questo silenzio smaschera semmai la doppia morale vigente riguardo al “terrorismo”, fenomeno tutt’altro che “unificante” nella sua violenza. Già oggi (due giorni dopo!) la notizia è scomparsa dalle principali testate, sostituita casualmente dal puntuale ritorno delle “armi chimiche” in Siria utilizzate da Assad quindi da Putin. La Russia è tornata sul banco degli imputati, posto che occupa d’altronde senza rivali. Il tono medio del racconto giornalistico consigliava in ogni caso la pronta archiviazione del caso, onde evitare torsioni cabarettistiche che stavano prendendo piede sui giornali. Nel regime mediatico unificato le motivazioni suggerite erano: Putin se l’è cercata, così impara a bombardare in giro per il mondo; Putin non ha il controllo del territorio e delle sue principali città, segno di debolezza; Putin è l’artefice diretto dell’attentato per sviare l’attenzione dalle proteste liberali della scorsa settimana. Poco da piangere le vittime di San Pietroburgo, il problema è Putin, quindi affari suoi. Con buona pace della “sacralità della vita” e dei “valori universali dell’Occidente”, retoriche che ci travolgono a ogni attentato dalle nostre parti, ma – evidentemente – non così universali da comprendere anche le parti del mondo fuori dai confini euro-atlantici.
Sul Corriere della Sera di ieri, il segretario della Fim-Cisl Marco Bentivogli ha ribadito la sua nota contrarietà alla “filantropica” proposta avanzata da Bill Gates circa la necessità di introdurre una tassa sui robot. Qualche mese fa il sindacalista aveva infatti scritto sul Foglio: «È chiaro che quella di Bill Gates è una provocazione, ma in Italia rischierebbe di essere un paradosso. Aggiungerei che i Pc e i sistemi operativi hanno distrutto più posti di lavoro di quanto probabilmente non facciano i robot. Se qualcuno avesse lanciato la provocazione di Bill Gates alla nascita di Microsoft, proponendo una tassa sui Pc, probabilmente lui oggi non sarebbe l’uomo più ricco del mondo». E la cosa non può che farci piacere, diciamo. Bentivogli stigmatizzava il deprecabile vizio italico di ricorrere al «paracadute senza aver ancora imparato a volare». Di qui, il relativo gap tecnologico che il sistema-Paese nel suo complesso registra nei confronti dei suoi diretti concorrenti, Germania e Giappone in testa – almeno per quanto riguarda il settore manifatturiero.
Adesso il leader cislino aggiunge una considerazione solo apparentemente banale, la quale ha invece, a mio avviso, implicazioni politiche e financo “filosofiche” di grande respiro; eccola: «Fermare il progresso non è di sinistra, è velleitario, è pensare di fermare l’acqua con le mani». Impossibile!
E si sta come quei
viaggiatori
ferroviari di Kafka
“…che hanno subito un sinistro in un tunnel, e precisamente in un punto da dove non si vede più la luce dell’ingresso, e quanto a quella dell’uscita, appare così minuscola che lo sguardo deve cercarla continuamente e continuamente la perde, e intanto non si è nemmeno sicuri se si tratti del principio o della fine del tunnel.”
Cento anni fa, per l’esattezza il 23 febbraio del 1917 secondo il calendario russo dell’epoca e il 10 marzo secondo quello in uso nel mondo occidentale, aveva inizio in Russia, nel pieno della prima guerra mondiale, quel processo rivoluzionario che si sarebbe concluso nell’ottobre successivo con l’insaturazione della Repubblica Federativa Socialista Sovietica Russa, il primo governo dichiaratamente ispirato ai principi del marxismo rivoluzionario e avente nel suo programma il definitivo superamento del modo di produzione capitalistico e la costruzione di una società socialista.
Finita la guerra, martoriati dalla disoccupazione, dalla fame e dalla miseria, nel 1919 insorsero anche i proletari ungheresi e tedeschi, mentre in Italia ebbe inizio una lunga serie di scioperi e di forti scontri sociali - il cosiddetto biennio rosso - che culminarono, nel settembre del 1920, con l’occupazione di quasi tutte le maggiori fabbriche dell’Italia del Nord.
Avvengono secondo un
copione consolidato, gli attacchi
ordinati da Trump nella notte scorsa sulla base aerea
siriana di Khan Sheikhou. Come da modello balcanico – vedi
la strage inventata di Racak
per l’intervento «umanitario» Nato in Kosovo nel 1999 – e
con lo «stile» del governo israeliano del quale ancora
non abbiamo smesso di contare le vittime civili per i suoi
attacchi aerei su Gaza nel 2009.
I 59 missili Tomawak lanciati sulla Siria rompono l’ equilibrio di una saga immaginifica. Perché è tornata l’America, anzi questa è l’America. A smentire il povero Alan Friedman che dovrà scrivere almeno un altro libro.
Perché la davano per persa, l’America. Con un Trump descritto come filo-Putin, quindi addirittura anti-Nato, naturalmente tenendo fissa la barra degli interessi strategici verso Israele e l’Arabia saudita; ma deciso nella lotta contro l’Isis.
Invece con un dietrofront repentino, a pochi giorni dalla dichiarazione rilasciata all’Onu dalla rappresentante Haley che «la fuoriuscita di Assad non è più la priorità», subito dopo la strage di Khan Sheikhou ha ripreso la rotta che già fu di Bush per l’Iraq del 2003: ha autorizzato il capo del Pentagono «cane pazzo» Mattis all’azione di guerra. Senza il parere dell’Onu e del Congresso Usa, con il veto russo alla condanna unilaterale di Assad, e di fronte alla richiesta di una indagine internazionale indipendente.
Dopo l’attacco di Khan Sheikun, si torna indietro di quattro anni con lo stesso linguaggio e gli stessi pericoli: il definitivo collasso del cessate il fuoco e il rafforzamento, via Usa, dei gruppi più forti sul terreno, salafiti e qaedisti
Roma, 6 aprile 2017, Nena News – Solo una settimana è passata dall’ufficiale apertura degli Stati Uniti al presidente siriano Bashar al-Assad: con una dichiarazione (già sottintesa nella strategia defilata del predecessore Obama) il presidente Trump aveva fatto dire alla sua ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley, che la testa di Assad non era più una priorità.
L’attacco di Khan Sheikun e i suoi 74 morti accertati hanno ribaltato la situazione facendo usare a Trump lo stesso linguaggio dell’odiato predecessore: Assad ha superato “molte, moltissime, linee rosse”, ha detto ieri interrogato sulla questione siriana. Intanto al Consiglio di Sicurezza Onu Haley minacciava l’intervento militare contro Assad.
Si torna così indietro al 2013 quando la stessa linea rossa, l’uso presunto di gas tossici contro i civili, mosse Obama: tra agosto e settembre di quattro anni fa Washington si preparò ad intervenire, per essere bloccata dalla diplomazia.
A volte accadono miracoli, le conversioni o forse semplicemente si strappa il sipario di incoerenza e malafede delle elites occidentali e vi si può vedere attraverso: pensate che dopo averci ammorbato con la post verità e con il complottismo nel quale ricadono in pieno anche i semplici dubbi sulla dinamica piuttosto singolare degli attacchi terroristici degli ultimi anni, adesso la stessa allegra compagnia di servizi, stato profondo Usa e informazione al soldo ha deciso che ciò che era pazzesco e impossibile in Occidente, ovvero che ci fosse qualche zampino sconosciuto del potere nelle stragi, diventa invece più che plausibile per quanto riguarda l’attentato a San Pietroburgo.
Così abbiamo appreso da Luttwak e abbiamo letto sui giornaloni del Washington consensus che la bomba nella metropolitana potrebbe essere stata in realtà un auto attentato messo in atto da Putin per aumentare il proprio consenso interno e stringere la popolazione attorno a lui, soprattutto dopo che un truffatore di nome Navalny, ammaestrato in Usa, e di casa presso l’ambasciata Usa, fulcro dell’arancionismo di importazione, ha portato in piazza qualche migliaio di persone, nemmeno diecimila in tutta la vastissima Russia. In linea puramente teorica potrebbe anche essere così, non sarebbe certo la prima volta che accade, ma questo è chiaramente un argomento “complottista” che fino a ieri mattina era demonizzato mentre oggi viene all’improvviso riabilitato e posto al centro della deficience occidentale.
“C’è stato un colpo di stato in Venezuela! Maduro ha preso tutto il potere!” Solo pochi giorni prima del 15° anniversario del colpo di stato – di breve durata – contro il presidente democraticamente eletto Chavez (11-13 aprile 2002), quelli che fecero quel colpo di stato (l’oligarchia venezuelana, i capi di Washington, i loro leccapiedi di Buenos Aires, Brasilia, Santiago del Cile e Lima e tutto quel pacco di lupi mediatici plaudenti da Madrid agli USA) hanno cominciato a gridare come iene contro un presunto “auto golpe” fatto dal presidente Maduro.
Quali sono i fatti? La causa immediata che ha scatenato questa ipocrita protesta è la sentenza della Corte Suprema di Giustizia (TSJ) che il 29 marzo ha detto che constatato il comportamento oltraggioso dell’Assemblea Nazionale verso la Corte Suprema di Giustizia , la TSJ d’ora in poi, assumerà in proprio i suoi poteri e li eserciterà direttamente o li farà esercitare da un altro potere da determinare . Immediatamente, il presidente dell’Assemblea Nazionale, Julio Borges, ha definito questa decisione un “colpo di Stato” e il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro, l’ ha descritta come un “auto-colpo-di-stato” e ha chiesto la convocazione urgente del Consiglio Permanente dell’OSA per mettere in moto la procedura della Carta democratica contro il Venezuela.
Sto iniziando a scrivere e succede: Bomba nel metrò di S.Pietroburgo. Dopo il Tupolev abbattuto con il Coro dell’Armata Rossa, dopo il Sukhoi 35 sulla Siria, dopo l’aereo di linea da Sharm el Sheik, dopo l’assassinio dell’ambasciatore all’Ankara, mentre i mercenari Nato-Golfo attaccano l’ambasciata a Damasco e mentre il reprobo Putin si incontra con il reietto biuelorusso Lukashenko proprio a S. Pietroburgo. Escalation di avvertimenti a complemento dell’isteria russofobica. Dove non funzionano le quinte colonne in piazza, l’avvertimento si fa col botto. La firma è sempre quella, dalle Torri Gemelle al metrò di S. Pietroburgo. Cosa c’entra l’attentato in Russia con l’attentato contro il Salento? Lo dice la parola stessa. Intanto sono entrambi antirussi. Cosa c’entra l’attentato in Russia con l’attentato contro il Salento? Lo dice la parola stessa. Intanto sono entrambi antirussi e anti-Putin.
Armi di distrazione di massa
Coloro che, uditone il fischio, scattano e come un sol uomo a intrupparsi dietro al pifferaio hanno il loro da fare a seguirne la marcia per i più impervi e perlopiù grotteschi percorsi dialettici. E finiscono con l’imbrattarsi di ridicolo per i vertici di entusiasmo propagandistico su cui si arrampica il tasso di servilismo che segna il loro concetto di giornalismo.
So che buona parte dei lettori di questo blog storce il naso quando scrivo di Pd e di Forza Italia o simili: per la maggior parte sono argomenti di cui non mette conto parlare, perché ormai irrimediabilmente avviati sulla via del tramonto, anzi: sono “partiti morti” e questo in particolare dopo il 4 dicembre che ha “steso” Renzi ed il Pd. Ma le cose non stanno proprio così.
Certo: sono stato fra i primissimi a scrivere che quella del referendum sarebbe stata una botta mortale per il Pd e non lo rinnego affatto. Questo però non significa che domani mattina facciamo il funerale e dopodomani la sepoltura.
Il Pd ha ancora un reticolo fortissimo di amministratori locali, ha dietro di sé la Lega delle Cooperative, ha voce in capitolo nella Cgil ed ha nella Cisl una amica, ha rapporti internazionali, ha un’area di influenza in calo ma sempre numericamente cospicua. Soprattutto ha ancora in mano il governo, almeno per un anno. Ci sono moribondi che vanno avanti per un bel po’, per forza di inerzia e ci sono agonie che possono protrarsi anche per un bel po’, magari per improvvise e pur effimere migliorie.
E’ probabile che nelle prossime settimane il disfacimento continuerà e forse il decorso sarà più breve del previsto, ma non è scontato che vada così.
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