
Di fatto The Donald risulta commissariato da Wall Street e dal Pentagono. L’attuale politica Usa (finanza forte e interventismo militare) è l’esatto contrario di quanto promesso in campagna elettorale
Sarà pure un neofascista-razzista-diffusore di fake news, però Steve Bannon, lo stratega della vittoria più clamorosa nella storia delle elezioni presidenziali americane, ha ragione: con il suo licenziamento è ufficialmente finita la presidenza di Donald Trump. Quella, almeno, per cui gli elettori spuntati dalla penombra dell’America profonda avevano votato: nazionalista in economia, isolazionista, attenta alle ragioni dei lavoratori, meno disposta a fare, con gli esiti che conosciamo, il gendarme (spesso non richiesto) del mondo.
Si può certamente discutere di tale apparato ideologico, negargli qualunque valore di novità, e persino considerare l’arrivo di Trump una disgrazia epocale. Siamo in democrazia, perbacco. Ed è lecito anche chiedersi se tale “presidenza Trump”, tra i pasticci del Donald, l’opposizione del Partito democratico, l’ostilità di una parte del Partito repubblicano e il boicottaggio dello Stato profondo, sia mai cominciata.
Però, se fossimo nei panni dei tanti benintenzionati che hanno scambiato Trump per il demonio e il suo arrivo sulla scena per la fine del mondo, adesso ci faremmo qualche domanda.
Recentemente è uscito un libro in lingua inglese - recensito a luglio da The Economist - che ricorda il massacro di Addis Abeba del 1937. Trentamila etiopi furono massacrati dal governo coloniale italiano. L'autore, Ian Campbell, ricorda come il fatto sia oggi praticamente ignorato in Italia, che a Rodolfo Graziani, responsabile sul posto dei massacri, è stata dedicata una statua a Affile e che in Italia è stata vietata la proiezione del film Il Leone del deserto, in cui si parla dei massacri realizzati in Libia, perché offende l’onore dell’esercito italiano.
Fin qui è tutto corretto e ci sarebbe soltanto da lavorare per far sì che la storia non venga dimenticata. C'è qualcosa che, però, riguarda non solo la storia ma l'attualità. Quello che lascia di stucco è che Campbell dica che quei massacri, in Etiopia e in Libia, non possono essere confusi con le classiche operazioni coloniali delle potenze occidentali, ma sono invece tipicamente fascisti e ricordano maggiormente le rappresaglie naziste successive.
Non è così: il fascismo nei Paesi periferici è in linea di continuità con i governi "liberali". Il nazismo e il fascismo hanno esportato in Europa i metodi che il colonialismo europeo ha sperimentato nelle colonie, con l'unica differenza che durante la Guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale furono le popolazioni bianche e europee a essere trattate come quelle nere e arabe e che da noi i massacri delle seconde sono ancora meno ricordati di quelli delle prime.
È stato
possibile
quest’anno annoverare il saggio di Carchedi tra le migliori
letture ferragostane. La prima virtù, formale, del testo
sono la sintesi
precisa ed il linguaggio asciutto utilizzati, tipici della
trattazione scientifica. E usando questo attributo
un po’ misterioso veniamo
subito ai contenuti dello scritto, che ha l’ambizione ed il
merito di affrontare da un punto di vista marxista il tema
del carattere di classe
della conoscenza, e (cioè) della scienza, e l’impegnativo
argomento del lavoro “di trasformazione mentale”. Su questo
l’Autore va subito al sodo ed anzi, sgomberato presto il
campo da alcune concezioni sbagliate e precisati i concetti
fondamentali, si inoltra su
terreni ulteriori, ancor più avanzati e inesplorati tentando
“un’analisi marxista di internet” ed analizzando le
caratteristiche del lavoro di chi presta la propria opera in
ambito informatico. (1)
I conti con l’operaismo
Gettando nuova luce su tematiche finora affrontate male, quantunque sempre troppo poco rispetto al necessario, il saggio di Carchedi bonifica il terreno dagli equivoci e dalle concezioni sbagliate derivanti dalle correnti di pensiero dell’operaismo
Innanzitutto
sgomberiamo il campo da
un’ambiguità: i pensatori legati alla Critica del valore
(Wertkritik) vengono spesso tacciati di “teoricismo”,
forse per il
testo seminale del gruppo Krisis, il Manifesto contro il
lavoro (2002). Una facile obiezione consiste nel dire
che, in teoria, si può certo
congedare il lavoro, ma la realtà sociale ben presto ci
rimette al lavoro. Che cosa rispondi a questo genere di
critiche?
Non si può dire che il Manifesto contro il lavoro sia stato “seminale”. In Germania è stato pubblicato nel 1999, una dozzina di anni dopo il primo numero della rivista Krisis. Piuttosto, è stato il primo testo del gruppo a raggiungere un vasto pubblico – e il primo a circolare in Francia. Secondo me, tuttavia, presenta qualche lacuna che riflette certe indecisioni di allora, soprattutto la propensione di una parte del gruppo a considerare la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie come la base possibile dell’emancipazione sociale.
Fin dall’inizio, quello che mi ha interessato nella Critica del valore è la volontà di assumere una posizione teorica che cerca di rifondare la critica sociale dalle sue stesse basi, mentre la tendenza più diffusa a sinistra consisteva nel sostenere che la teoria dovesse mantenersi in una posizione ancillare rispetto ai movimenti sociali (che si trattasse del movimento anti-nucleare, del femminismo, del terzo-mondismo, ecc.).
Tutti siamo stati, siamo e saremo sempre più turisti, anche se ci piace raccontarci come viaggiatori, escursionisti, scopritori, eccetera. Inutili e sottilmente reazionarie le intemerate contro “i turisti” o, peggio ancora, contro il turismo “low cost”, protagonista dell’imbarbarimento progressivo delle nostre città d’arte. Posto il freno dunque a certo facile moralismo, va però rilevata la funzione a dir poco epocale che sta assumendo il turismo come modello economico, produttivo, geopolitico e relazionale. Da decenni si sente dire che il turismo sarebbe “il nostro petrolio”, la risorsa inesauribile che dovrebbe arricchire le nostre tasche e il nostro Pil. Non solo non è così, ma le due cose sono in diretta contrapposizione. Un conto è avere il petrolio, un altro intercettare i flussi turistici globali. Un conto è avere industrie, altro conto è specializzarsi nella ricettività alberghiera. Un conto è produrre automobili, altro è sfornare pizze. In altre parole: un conto è l’autosufficienza economica, altro la dipendenza dai suddetti flussi turistici. Anche a parità di Pil, la prima garantisce una certa quota di indipendenza politica, mentre la dipendenza economica si traduce inevitabilmente in subalternità sistemica. Per dirla con un esempio: in Italia si producono 1,1 milioni di automobili, mentre se ne immatricolano circa 1,8 milioni l’anno.
I riflettori politico-mediatici, focalizzati su ciò che accade all’interno del Venezuela, lasciano in ombra ciò che accade attorno al Venezuela.
Nella geografia del Pentagono, esso rientra nell’area dello U.S. Southern Command (Southcom), uno dei sei «comandi combattenti unificati» in cui gli Usa dividono il mondo. Il Southcom, che copre 31 paesi e 16 territori dell’America latina e Caraibi, dispone di forze terrestri, navali, aeree e del corpo dei marines, cui si aggiungono forze speciali e tre specifiche task force: la Joint Task Force Bravo, dislocata nella base aerea di Soto Cano in Honduras, che organizza esercitazioni multilaterali ed altre operazioni; la Joint Task Force Guantanamo, dislocata nell’omonima base navale a Cuba, che effettua «operazioni di detenzione e interrogatorio nel quadro della guerra al terrorismo»; la Joint Interagency Task Force South, dislocata a Key West in Florida, con il compito ufficiale di coordinare le «operazioni anti-droga» in tutta la regione.
La crescente attività del Southcom indica che quanto dichiarato dal presidente Trump l’11 agosto – «Abbiamo molte opzioni per il Venezuela, compresa una possibile opzione militare» – non è una semplice minaccia verbale. Una speciale forza dei marines, dotata di elicotteri da guerra, è stata dislocata lo scorso giugno in Honduras per operazioni regionali della durata prevista di sei mesi.
Come
giustamente
evidenziato da Pierfranco Pellizzetti su
questo sito, l’attuale
dibattito sullo sviluppo dell’industria 4.0 è pervaso (non
certo solo in Italia) da una insopportabile retorica, che
finisce per bollare
“come reazionaria ogni pur timida obiezione alla
funzione economicamente apprezzabile e socialmente
meritoria della
robotizzazione”2. Tale retorica è
solo mitigata dalle preoccupazioni sui rischi di perdita
definitiva delle
opportunità di lavoro, specie per coloro che non sapranno
adeguare velocemente i propri skill al processo di
introduzione delle nuove
macchine3. Preoccupazioni che
si traducono in una comprensibile richiesta allo Stato di
misure capaci di alleviare le
difficoltà di soggetti e famiglie particolarmente colpite
dal fenomeno (ad esempio reddito di base, reddito di
cittadinanza, ecc.). Ad ogni
buon conto, la discussione sul tema, prescinde quasi del
tutto da come potranno essere distribuiti gli eventuali
benefici dell’innovazione
all’interno delle società moderne; distribuzione che dipende
essenzialmente da come sono declinati i rapporti di potere
tra capitale e
lavoro all’interno del processo produttivo. Questo saggio
prova a colmare questa lacuna, cercando di sviluppare
l’analisi alla luce
dell’attuale fase di debolezza delle economie
capitalistiche.
Citiamo i classici: l’estate sta finendo, un anno se ne va, eccetera, eccetera. Tolto il costume da bagno e rimessi i vestiti civili, ognuno si ributta nella sua vita normale scrutando l’orizzonte dei prossimi mesi: una campagna elettorale infinita che arriva al culmine, la prevalenza del cretino che si afferma sempre più, i tweet di Nina Moric, quelli di Rita Pavone, lo ius soli che si fa, poi non si fa, poi parla il papa e forse si rifà, ma no che non si fa, perché Angelino non vuole. E però Angelino, sfanculato da Renzi due mesi fa, torna di moda per l’alleanza in Sicilia, ma forse sì, forse no, dipende da quel che serve al momento. La tattica vince quattro a zero sulla strategia, nessuno dice un’idea di Paese, di futuro, nessuno mette punti fermi, i punti sono mobili, variabili, intercambiabili a piacere.
Solo due mesi fa l’attacco alle Ong era una posizione di destra xenofoba e razzista; oggi, l’azione delle navi delle organizzazioni umanitarie è stata praticamente sconfitta e annichilita dal ministro dell’interno del governo “di sinistra” (ops!): chi sbertucciava Salvini, oggi difende di fatto le sue politiche, chi diceva “mai larghe intese” oggi dice “larghe intese perché no”.
Il povero Silvio, con capelli, senza capelli, con la Lega, senza la Lega, con la Meloni, senza Meloni, punta alla più clamorosa rivincita che si ricordi. Matteuccio nostro gira l’Italia vendendo il suo libretto e spinge sul lato umano (“Com’è umano, lei”, cfr il povero Fracchia).
Qualche giorno fa è stato
reso pubblico uno di quei dati che per chi è nato negli anni
’80 o ’90 è tutto fuorché sorprendente: secondo
l’Istat, a Giugno
i dipendenti a termine (leggi precari) hanno toccato quota 2,69 milioni, il valore più alto da quando sono disponibili le serie storiche. Ma la vera impresa è viverci, con quel lavoro. Perché i figli dei baby boomer guadagnano, in media, il 36% in meno dei padri.[1]
Nell’epoca della massima libertà data alla circolazione delle merci, dei capitali e delle persone (per il volgo, “globalizzazione”), in cui il potere di negoziazione di chi può delocalizzare e assumere un impiegato sottopagato del Sud-Est Asiatico è ai massimi storici, questi dati non sono in effetti sorprendenti. Ciò che è sorprendente, piuttosto, è che nell’epoca della rivoluzione digitale e dello sviluppo esponenziale delle tecnologie ciò che stiamo vivendo è soprattutto un crollo della qualità dei lavori disponibili. Le indagini Ocse attraverso «l’analisi dei dati sull’inchiesta internazionale delle competenze della forza lavoro adulta (PIAAC) ci confermano come lo “skill premium” ovvero la remunerazione delle competenze, è molto basso in Italia».[2]
Siamo nel bel mezzo di quella fase geologica chiamata Antropocene. Abbiamo ribaltato le sorti del pianeta e dell'ecosistema al punto da diventare tanto potenti quanto la tettonica a zolle o l'era glaciale. I fattori che hanno portato a questo processo sono essenzialmente due: la stupidità umana e la tecnologia. E se la stupidità umana è una costante nella storia, senza l'aiuto della tecnologia degli ultimi secoli non saremmo mai riusciti a fare cose mirabolanti come riempire l'atmosfera terrestre di agenti chimici.
A suo modo, comunque, anche la tecnologia è una costante della nostra esistenza. L'uso di strumenti è una delle caratteristiche che ci hanno allontanati progressivamente dalla scimmia. Oggi i telefoni sono il perno della nostra vita sociale, i computer i nostri principali strumenti di lavoro e le biotecnologie come il pacemaker hanno letteralmente potere di vita o di morte. Più la società si fa evoluta e complessa, più gli strumenti tecnologici si intrecciano con le dinamiche sociopolitiche, economiche e culturali.
Nel libro Neurocapitalismo (Mimesis, 2016), Giorgio Griziotti mette in luce il ruolo sociale della nostra simbiosi con la tecnologia: da un lato strumento indispensabile al progresso e di potenziale ribellione, dall'altro di controllo e sottomissione. Il libro—attualmente in traduzione in inglese, francese e spagnolo—rivede il concetto di capitalismo, generalmente legato a un mondo antico di plusvalore e strumenti di produzione,
“Il figlio di
Abbas – sia
soddisfatto Iddio di ambedue
– riferì che quando il profeta – Iddio lo benedica e gli
dia eterna salute
– aveva
inviato Mu’ad nello Yemen,gli aveva detto: temi il grido
dell’oppresso perché tra il suo grido e Iddio non c’è
alcuna barriera”
al-Buhari detti e fatti del profeta dell’Islam
Ogni nuovo attentato è un vortice di stupidità, cialtroneria, cinismo e ipocrisia che smantella i fragilissimi argini della decenza e inghiotte ogni cosa. Imbecilli che non hanno la minima idea né di cosa stanno dicendo né di come si fa a dirlo scrivono di “Wahabismo” e di “Salafismo” con la scioltezza dell’impiegato di concetto che timbra il cartellino. C’è chi vuole bombardare qui, chi vuole massacrare là. Non mancano i torturatori. Un coglione reclama una Guantanamo europea e un altro, più riflessivo, si preoccupa per lo stile di vita dei suoi figli (giovani cervelli in fuga).
La civiltà occidentale in queste occasioni da il meglio di sé. La sua difesa, però, è evidentemente a cura di quelli che se la possono permettere. Io mi posso permettere solo un po’ di cattiveria. Per i poveri morti provo un dispiacere distaccato. Una compassata compassione.
1. Premesse
generali
Negli ultimi anni, dopo decenni di preminente attenzione alle implicazioni della filosofia hegeliana del diritto sul terreno delle dottrine politiche e delle teorie della società, il panorama delle interpretazioni è venuto gradatamente mutando. Volendo dare conto delle principali novità interpretative, se ne possono indicare in particolare due: da un lato l’accresciuto interesse per il rapporto tra i Lineamenti di filosofia del diritto e la Scienza della logica e nei confronti di quelle che potremmo definire come le “costanti logiche” che operano all’interno della filosofia hegeliana del diritto i; dall’altro, il tentativo di leggere i Lineamenti hegeliani sul metro di una filosofia dell’azione, cercando non di rado di porre il pensiero di Hegel a confronto con i più recenti indirizzi teorici, manifestatisi soprattutto in ambito anglo-americanoii. Per motivi in parte differenti, entrambe queste nuove e feconde direzioni di lettura hanno portato con sé la necessità di fare i conti, più seriamente che in passato, con i paragrafi introduttivi dei Lineamenti (§§ 1-32), nei quali Hegel ci offre, come recita l’indice dell’opera, il “concetto della filosofia del diritto, del volere, della libertà e del diritto”. Per chi voglia, più in particolare, trattare la concezione hegeliana della libertà del volere, l’esigenza di affrontare direttamente i nodi teorici e le distinzioni di significato proposte nei primi paragrafi dei Lineamenti è sicuramente ineludibile.
Una tesi sulla Sinistra, di Edoardo Salzano, e un dialogo tra Salzano ed Enzo Scandurra. La discussione è aperta, anche nei commenti in calce al testo
Premessa
La parola “Sinistra” viene adoperata in modo ricco di molteplici ambiguità. Abbiamo avviato una riflessione per comprendere quale significato possa assumere in una situazione – quella di oggi – radicalmente diversa di quella del secolo in cui quell’espressione ebbe maggior fortuna. Una parola che comunque continua a costituire un riferimento per gli immaginari e le strategie di oggi.
Abbiamo iniziato a ragionarne con un articolo di Edoardo Salzano, dal titolo “La parola sinistra”, scritto nel luglio 2017 in replica a uno scritto di Enzo Scandurra, e abbiamo proseguito con un dialogo tra Salzano e Scandurra. Pubblichiamo oggi l’articolo originario di Salzano, con il titolo “una Tesi”, e il successivo dialogo tra Salzano e Scandurra, con il titolo “un Dialogo”. La pubblicazione di questi due testi vuole essere lo stimolo ad aprire un dialogo più ampio.
* * * *
di Edoardo Salzano
Quando si parla di “sinistra ci si riferisce generalmente, in Italia, quella sinistra politica le cui vicende hanno contrassegnato il XIX e XX secolo.
La dinamica dell’attacco terrorista a Barcellona è simile a quanto avvenuto in altre metropoli europee come Nizza o Londra ma lo scenario che apre è diverso e inquietante. Ad essere colpito è un paese del blocco occidentale, membro attivo e allineato della Nato ma non in prima fila nella “guerra sporca” scatenata negli ultimi anni in Medio Oriente da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti. Una situazione più simile all’Italia fino al 2011 ma che adesso conferma come nessun paese – tantomeno quelli dell’Europa meridionale – possano considerarsi al di fuori della guerra globale asimmetrica in corso da anni.
L’Isis – o Daesh per gli arabi – ha rivendicato l’attentato di Barcellona coprendo così politicamente un attacco che sembra essere più essere il risultato di una pianificazione che il gesto di un “lupo solitario”. Era stato così anche per le stragi di Madrid, quasi quindici anni fa, che fecero 190 morti. La Spagna si interroga sul perché sia finita al centro del mirino ma le risposte che riesce a darsi non sono esaurienti.
Spagna e Italia, sono diventate (loro malgrado) la prima linea di “ascari” con cui il blocco occidentale – e l’Unione Europea in particolare – si scontra con l’ebollizione sociale e demografica del sud del mondo. Gli spostamenti di profughi causati dalle guerre, dalla dissoluzione degli Stati esistenti provocata e ottenuta dagli interventi occidentali, da siccità o insopportabilità delle condizioni di vita sono enormi, e solo in minima parte riescono a raggiungere le coste settentrionali dell’Africa per cercare di passare in Europa.
"Il ritorno dei colonnelli, ma ora sono di sinistra". Così qualche giorno fa titolava sulla edizione on line Il Fatto, riferendosi al Venezuela, ma anche alla Bolivia, al Nicaragua, all'Ecuador, insomma a tutti paesi latino americani i cui governi non si sono piegati ai diktat degli Stati Uniti e della UE. Credo che questo titolo ben sintetizzi la deriva di una buona parte di ciò che in Italia, ed in Europa, viene considerato o si consideri di sinistra. Di quella sinistra che è stata complice della più vasta e sconvolgente campagna di disinformazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale.
La "feroce dittatura" di Maduro è stato il motivo guida di ogni servizio televisivo, di ogni commento giornalistico, nulla e nessuno sui quotidiani e sulle tv italiane sì è distinto dalle veline del dipartimento di stato degli USA, che amplificavano quelle della opposizione venezuelana. Persino sulla Corea del Nord i mass media occidentali hanno mostrato qualche cautela in più, neppure contro Saddam e Gheddafi c'è stata la stessa unanime violenza informativa che si è scatenata contro il governo venezuelano. La dittatura peggiore del mondo e della storia, dovrebbe pensare un comune cittadino che costruisca i suoi punti di vista solo sulla informazione ufficiale.
Scorrendo
i dati
sul calo demografico della
popolazione residente in Italia ci è capitato di
ritrovare, nel nostro confuso archivio di appunti, un
articolo apparso tre mesi fa su
Il Fatto Quotidiano. L’autore, Vittorio Agnoletto,
non è in cima ai nostri sogni come leader politico – ci è
sembrata
più che sufficiente la stagione di Genova 2001, in tandem
con Bertinotti – ma è certamente un medico esperto. Quindi,
quando
analizza il sistema sanitario e i vari progetti di riforma,
va preso molto sul serio.
In questo articolo coglie le infamie principali della “riforma sanitaria” in via di applicazione, ormai, nella Regione Lombardia e voluta da Roberto Maroni, la Lega e Forza Italia, ben supportati da tutta l’estrema destra che tanto dice di voler difendere “gli italiani”.
I punti principali sono più che evidenti:
a) Non sarà più un medico a decidere come dovrà essere curato un “malato cronico” rientrante delle 65 tipologie individuate dal legislatore regionale. Questo ruolo passa a un “gestore” – un ente o una società, che potrà gestirne fino a 200.000 – cui la stessa Regione affiderà un budget pro capite cui attingere per analisi,diagnosi, cure, ricoveri, ecc.
A presente memoria, è
utile
rileggere oggi l’ultimo articolo pubblicato da Luigi Pintor
su «il manifesto» del 24 aprile 2003, sul «quotidiano
comunista» che proprio in questi giorni ha espulso dalle sue
colonne (in silenzio, senza un minimo accenno di dibattito)
la voce della sua
migliore esperta di America latina, Geraldina Colotti,
colpevole di sottrarsi, da «comunista non pentita», alla
criminalizzazione della
rivoluzione chavista (con tutte le sue complesse criticità)
e ai tentativi di applicazione del modello Siria alla
società venezuelana.
L’articolo di Pintor aveva come titolo Senza confini:
un pressante appello, dall’interno della sinistra eretica
del comunismo
italiano, a cambiare radicalmente visioni e pratiche di
lotta politica. Lo riproduco integralmente dal volume
postumo di scritti di Luigi Pintor,
Punto e a capo (Roma, il manifesto-manifesto libri,
2004).
La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena.
Nel mezzo della polemica che sta coinvolgendo Trump dopo i fatti di Charlottesville, le varie frange della sua amministrazione divisa, esponenti repubblicani del Congresso non tutti propriamente moderati ma che comunque hanno preso le distanze dalla mancata condanna presidenziale, è arrivata la notizia che Steve Bannon non è più consigliere strategico del presidente. Alcune fonti rivelano che lui stesso avrebbe comunicato la volontà di dimettersi più di dieci giorni fa. Bannon d’altra parte ha pubblicamente apprezzato la conferenza stampa nella quale il presidente ha sostanzialmente legittimato le torce e i cappucci bianchi per le strade di Charlottesville. Altri ritengono invece che sia stato silurato da Trump: una decisione nell’aria da tempo, ma che sarebbe maturata dopo i fatti del 12 agosto. D’altronde dopo aver definito fine people alcuni dei partecipanti alla marcia di Charlottesville, non potendo licenziare se stesso, Trump non aveva altra via che liquidare Bannon. In ogni caso è notizia certa che Bannon sia già rientrato alla direzione di «Breitbart News» – media di riferimento della destra populista che ha celebrato l’elezione di Trump come una rivoluzione del popolo contro le élite. È altrettanto certo che una volta resa pubblica la notizia alcuni suoi redattori hanno twittato #war, intesa evidentemente contro Trump e la sua amministrazione. Lo stesso Bannon ha dichiarato minacciosamente che la presidenza Trump per cui «loro» hanno combattuto, e vinto, è finita.
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