di Pino Cabras
Il ballottaggio non è sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l'altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto
Il risultato del primo turno delle
presidenziali francesi regala al candidato di plastica
Emmanuel Macron, l'uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori
possibilità di vittoria
per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7 maggio,
quando dovrà vedersela con Marine Le Pen.
I quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono spartiti l'80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l'altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi media di riferimento, i suoi argomenti dominanti.
Prendiamo Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell'élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata.
di Alberto Micalizzi
Cerchiamo di
essere obiettivi: i burocrati di Bruxelles con la
collaborazione dei banchieri della City di Londra hanno fatto
un ottimo lavoro in pochissimo tempo.
Hanno costruito il prototipo politico perfetto, un po’
burocrate un po’ banchiere, un po’ Renzi un po’ Padoan,
paladino dei
privilegi che le oligarchie finanziarie stanno consolidando
sul continente europeo.
Qualcuno conosceva Emmanuel Macron solo 4-5 mesi fa? Siamo onesti con noi stessi. Io avrei risposto che era una marca di patatine, un designer di moda, un calciatore del PSG, ma non il prossimo candidato all’Eliseo! E invece eccolo là, un politico “fiat”, come la moneta creata dal nulla dal sistema bancario e prestata ai Governi. Anche lui, del resto, prestato come un debito, come una variabile imposta per esercitare la governance dall’esterno…
E’ la prova lampante che la troika è “en marche”, gode di ottima salute, che è essa stessa a distribuire le carte, a condurre il gioco, che l’Euro non implode affatto anzi sperimenta una stagione di trasformazione e di rigenerazione.
di Piemme
Mentre in rete fioccano le scemenze,
i media
di regime colgono l'essenza del risultato uscito dalle urne
francesi: scampato pericolo!
Le classi e le èlite dominanti di fede eurista non esultano ma possono tirare un sospiro di sollievo: lo sfondamento della Le Pen, nonostante il marasma sociale e malgrado il crollo dei due tradizionali blocchi sistemici (post-gollista e socialista), non c'è stato.
Il successo della grande borghesia francese —quella che dopo l'inglese ha nel sangue il più alto tasso di veleni finanziari ma che a differenza dell'inglese non ha alcuna intenzione di spezzare il matrimonio con quella tedesca— è anzi doppio. Ha contenuto l'avanzata del Front national con quello che potremmo definire un trucco geniale: tirando fuori dal suo cilindro il coniglietto addomesticato di Macron, dando a bere la menzogna che egli sarebbe un uomo politico nuovo, anti-establishment, europeista ma patriottico, populista ma progressista.
di Martino Iniziato
Poche
brevi considerazioni a botta calda sui risultati di questa prima tornata di
elezioni francesi:
1. i francesi sono un grande popolo che non si lascia intimidire o influenzare dalle aggressioni terroristiche: il dato dell’affluenza alle urne è quello di cinque anni fa e la Le Pen raccoglie quello che i sondaggi dicevano già prima dell’attentato degli Champs Eliseè.
2. Anche in Francia si profila un mutamento del sistema politico con la dèbacle dei partiti storici: gollisti e socialisti, che, sino alle politiche del 2012, totalizzavano il 56% dei voti, oggi superano a stento il 25% .
3. A pagare il conto è soprattutto il partito socialista, ridotto al ruolo di lista di disturbo. Dopo 5 anni di cura Hollande, gli elettori del Ps si sono trasferiti in massa verso la Candidatura Macron e, in parte minore ma significativa, verso Melenchon. Il Ps ha virtualmente cessato si esistere e l’unica cosa che gli resta da fare è un congresso di scioglimento.
4. Anche i gollisti se la passano male, anche se non come i socialisti. Nel complesso, Fillon, il super preferito all’inizio della campagna, ha mantenuto un dignitosissimo 19,8%, nonostante gli scandali che lo hanno investito e che segnalano l’intervento della magistratura in queste elezioni. I gollisti, peraltro mantengono una struttura di partito ramificata sul territorio che avrà il suo peso nelle prossime politiche.
Poche
brevi considerazioni a botta calda sui risultati di questa prima tornata di
elezioni francesi:
1. i francesi sono un grande popolo che non si lascia intimidire o influenzare dalle aggressioni terroristiche: il dato dell’affluenza alle urne è quello di cinque anni fa e la Le Pen raccoglie quello che i sondaggi dicevano già prima dell’attentato degli Champs Eliseè.
2. Anche in Francia si profila un mutamento del sistema politico con la dèbacle dei partiti storici: gollisti e socialisti, che, sino alle politiche del 2012, totalizzavano il 56% dei voti, oggi superano a stento il 25% .
3. A pagare il conto è soprattutto il partito socialista, ridotto al ruolo di lista di disturbo. Dopo 5 anni di cura Hollande, gli elettori del Ps si sono trasferiti in massa verso la Candidatura Macron e, in parte minore ma significativa, verso Melenchon. Il Ps ha virtualmente cessato si esistere e l’unica cosa che gli resta da fare è un congresso di scioglimento .
4. Anche i gollisti se la passano male, anche se non come i socialisti. Nel complesso, Fillon, il super preferito all’inizio della campagna, ha mantenuto un dignitosissimo 19,8%, nonostante gli scandali che lo hanno investito e che segnalano l’intervento della magistratura in queste elezioni. I gollisti, peraltro mantengono una struttura di partito ramificata sul territorio che avrà il suo peso nelle prossime politiche.
Mentre in rete fioccano le scemenze,
i media
di regime colgono l'essenza del risultato uscito dalle urne
francesi: scampato pericolo!
Le classi e le èlite dominanti di fede eurista non esultano ma possono tirare un sospiro di sollievo: lo sfondamento della Le Pen, nonostante il marasma sociale e malgrado il crollo dei due tradizionali blocchi sistemici (post-gollista e socialista), non c'è stato.
Il successo della grande borghesia francese —quella che dopo l'inglese ha nel sangue il più alto tasso di veleni finanziari ma che a differenza dell'inglese non ha alcuna intenzione di spezzare il matrimonio con quella tedesca— è anzi doppio. Ha contenuto l'avanzata del Front national con quello che potremmo definire un trucco geniale: tirando fuori dal suo cilindro il coniglietto addomesticato di Macron, dando a bere la menzogna che egli sarebbe un uomo politico nuovo, anti-establishment, europeista ma patriottico, populista ma progressista.
Fino a
qualche anno fa, di Emmanuel Macron non si
sapeva nulla. L’avversario di Marine Le Pen alla presidenza
della Repubblica,
è nato politicamente da poco, da circa due anni e mezzo,
quando il presidente Hollande lo volle come consigliere per
l’economia. Fino a
quel momento, Macron è stato un perfetto sconosciuto, che
cercava di trovare spazio nella funzione pubblica e nel
Partito Socialista, senza
però avere molti margini di manovra.
Il passaggio d’incarichi dalla finanza speculativa dei Rothschild alla politica francese lo si deve a François Hollande. È lui che decide di inserire Macron nei quadri della dirigenza socialista, trasformandolo nel breve tempo da semplice funzionario e agente speculatore appena sfornato dall’École nationale d’administration di Strasburgo, alla carica di ministro nel secondo governo di Valls.
Ed è proprio nell’ENA che devono essere individuati i tratti salienti di questo giovane candidato all’Eliseo, lì dove hanno iniziato la loro carriera personaggi del calibro di Jacques Chirac, François Hollande, Valéry Giscard d’Estaing, Ségolène Royal e Alain Juppé. E quindi la grande novità della politica francese è in realtà quanto di più tradizionalmente ancorato ai canoni della vecchia classe dirigente e del sistema liberale e liberista che produce la scuola di Strasburgo.
Cerchiamo di
essere obiettivi: i burocrati di Bruxelles con la
collaborazione dei banchieri della City di Londra hanno fatto
un ottimo lavoro in pochissimo tempo.
Hanno costruito il prototipo politico perfetto, un po’
burocrate un po’ banchiere, un po’ Renzi un po’ Padoan,
paladino dei
privilegi che le oligarchie finanziarie stanno consolidando
sul continente europeo.
Qualcuno conosceva Emmanuel Macron solo 4-5 mesi fa? Siamo onesti con noi stessi. Io avrei risposto che era una marca di patatine, un designer di moda, un calciatore del PSG, ma non il prossimo candidato all’Eliseo! E invece eccolo là, un politico “fiat”, come la moneta creata dal nulla dal sistema bancario e prestata ai Governi. Anche lui, del resto, prestato come un debito, come una variabile imposta per esercitare la governance dall’esterno…
E’ la prova lampante che la troika è “en marche”, gode di ottima salute, che è essa stessa a distribuire le carte, a condurre il gioco, che l’Euro non implode affatto anzi sperimenta una stagione di trasformazione e di rigenerazione.
Il ballottaggio non è sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l'altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto
Il risultato del primo turno delle
presidenziali francesi regala al candidato di plastica
Emmanuel Macron, l'uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori
possibilità di vittoria
per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7 maggio,
quando dovrà vedersela con Marine Le Pen.
I quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono spartiti l'80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l'altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi media di riferimento, i suoi argomenti dominanti.
Prendiamo Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell'élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata.
Riceviamo dal professor Angelo d'Orsi e volentieri pubblichiamo
No, non
voglio prendermela con Donald Trump, e neppure con i suoi
dottor Stranamore, pronti a saltare in sella ad ogni bomba
lanciata sul nemico di turno; ed
egli stesso incarnazione grottesca del personaggio, nella sua
versione più volgare. Non voglio cedere al sarcasmo verso
quella sinistra che
nello scorso novembre espresse giubilo all’elezione del nuovo
presidente Usa, qualcuno addirittura spintosi fino a
considerarlo una sorta di
Lenin americano (abbiamo avuto i “marxisti per Trump”…).
Neppure con quegli “esperti” di politica e storia
nordamericana che avevano decretato il “ritorno
all’isolazionismo”. Gli Stati Uniti, al di là dei cambi di
amministrazione,
continuano ad essere ciò che da tempo immemorabile ciò che
proclamano di essere: essi si sono auto-assegnati il ruolo di
giudice-sceriffo, e insieme di bandito che non teme di essere
colpito da sanzioni: recitano entrambe le parti, con totale
indifferenza e sovrana
disinvoltura. Dopo la “caduta del Muro”, venendo meno il
contraltare sovietico, hanno accentuato la loro prepotenza e
la loro arroganza,
mentre l’intero Occidente, ossequiente, esaltava democrazia e
libertà, e i governi “alleati”, a partire dalla Gran Bretagna,
accompagnavano, plaudenti, ogni loro criminale impresa. Il
parziale riequilibrio geopolitico internazionale, verificatosi
negli ultimi anni, con il
riemergere progressivo della Russia, la crescita, su ogni
piano, della Cina, e l’affacciarsi di nuovi attori rilevanti
(dall’India
all’Iran), non ha per ora messo in crisi l’egemonia
statunitense, anche se l’ha notevolmente scalfita e messa in
forse.
Prendo dal sito di Rifondazione
Comunista la traduzione
di due
brevi interventi di Nancy Fraser tratti a loro volta dal sito
della rivista “Dissent”: “The
end of progressive
liberalism”, e “Against
new progressive neoliberalism, a
new progressive populism”.
Nancy Fraser è una importante filosofa politica che insegna a New York, nata nel 1947 ha scritto con Axel Honneth “Redistribuzione o riconoscimento?”.
Nel saggio che indichiamo nel titolo la Fraser sottolinea come le forze che favoriscono la finanziarizzazione e la globalizzazione delle imprese, quindi la deindustrializzazione in occidente e l’industrializzazione con modalità selvagge nei paesi in cui i lavoratori sono meno protetti (e la fiscalità può essere piegata agli interessi delle aziende internazionalizzate) hanno conquistato il Partito Democratico americano attraverso l’affermazione di una ‘egemonia’ in senso gramsciano.
In sostanza questo risultato è stato ottenuto perché “hanno presentato queste politiche, palesemente contrarie ai lavoratori, come progressiste”. E nella tradizione della sinistra questa parola ha una forza irresistibile.
«Le reti del valore», un libro collettivo su migrazioni e governo della crisi. Inchieste e ricerche sul campo. Dalla Foxconn ai mille laboratori rumeni del made in Italy. La divisione etnica del lavoro dentro e fuori i confini nazionali è una costante nell’economia mondiale
Cos’hanno in comune un dormitorio per lavoratori interinali a Pardubice, un camion usato come palco per comizi sindacali fuori da una fabbrica di Manaus, un magazzino stipato a Shenzen? Niente, se non il fatto di essere scorci nascosti di continenti lontani, tanto differenti da sembrare collocati su pianeti diversi, ma in realtà posizionati su di una stessa catena transnazionale del valore.
Foxconn, multinazionale di elettronica al centro di questa particolare catena, non è però che una delle imprese che hanno contribuito a ridisegnare le geografie globali della produzione analizzate in Le reti del valore. Migrazioni, produzione e governo della crisi, a cura di Sandro Chignola e Devi Sacchetto (DeriveApprodi, pp. 259, euro 18). Questa raccolta di quattordici testi sociologici, etnografici e teorico-politici, si pone, nelle parole introduttive dei curatori, il problema politico di «pensare una connessione tra gli spazi e i tempi (produttivi e politici, individuali e collettivi) che il capitale cerca costantemente, e con violenza, di separare e che la composizione complessiva del lavoro permette invece di unificare come nuova condizione comune».
Un nuovo grave episodio di sangue all’interno del già di per sé cruento capitolo della guerra siriana, irrompe sulla scena mediorientale: in particolare, nel tardo pomeriggio di mercoledì aerei della coalizione a guida Usa avrebbero bombardato un deposito di munizioni dell’ISIS nella provincia di Deir Ez – Zour, non lontano dal confine con l’Iraq, al cui interno però vi erano nascoste alcune armi chimiche in dotazione al califfato. Stando a quanto dichiarato da soccorritori locali, lo sprigionamento nell’aria dei gas provenienti dal deposito centrato degli ordigni potrebbe aver causato almeno 100 vittime tra i civili; le notizie del nuovo tragico bombardamento, sono trapelate prima su Twitter e, in un secondo momento, sono state riprese da diverse agenzie internazionali, tra cui la russa Tass e la cinese Xinhua. Sono in corso accertamenti da parte del governo siriano, il quale tramite l’agenzia SANA ha comunque confermato il raid anche se sarà difficile avere dettagli sia sulla dinamica dei fatti che sul numero delle vittime perché il bombardamento è avvenuto in una zona controllata dall’ISIS.
Il luogo dell’accaduto
Nella provincia di Deir ez – Zour sono diversi i velivoli della coalizione a guida USA che ogni giorno bombardano obiettivi del califfato;
Un paradosso inquietante attraversa oggi, in maniera crescente, l’identità della sinistra occidentale. Non soltanto l’anti-imperialismo e l’anticolonialismo non rientrano più tra le sue corde, ormai tutte confinate, queste, nello stretto bacino euro-atlantico dei diritti civili. Ma la sua attenzione verso il mondo che sta al di là degli Stati Uniti e dell’Europa, si risveglia soltanto quando questo diventa un bersaglio critico contro cui scagliarsi, consentendo di riproporre la nota contrapposizione “Noi” – “Loro”: “Noi” governi democratici, rispettosi dei valori e dei diritti, “Loro”, crudeli tirannie da poter rovesciare in ogni momento e con ogni mezzo.
Sappiamo che la demonizzazione del nemico costituisce una pratica ricorrente nella storia del colonialismo: l’insistenza martellante dei giornali e dell’intellighenzia europea sui “barbari” da redimere, sui “cannibali” da civilizzare, il richiamo morale del white man’s burden; tutta la retorica dei valori e dei diritti è stata da sempre messa in campo per creare e consolidare il consenso verso le più sanguinarie operazioni coloniali. Per non parlare, naturalmente, di quando i “barbari” e i “cannibali” sono riusciti a mettere in piedi dei governi: come avvenuto a Santo Domingo dopo la rivolta degli schiavi neri guidata da Toussaint Louverture. Non di governi allora poteva trattarsi, secondo i reportage della nostra informazione, ma di macabri dispotismi.
A colpire, nelle reazioni dei media e delle forze politiche occidentali al bombardamento della base siriana ordinato da Trump, è l’entusiasmo europeo più dell’euforia americana. È vero che Il “diverso” Trump, commenta Giorgio Cremaschi nel suo blog, “è tornato a pieno titolo nel rispetto e nella considerazione della élite europea e nordamericana”, ma i toni della prima appaiono decisamente più enfatici. Basti citare, per tutti, Antonio Polito il quale, sulle pagine del “Corriere della Sera” dell’8 aprile scorso, scrive che Trump si è visto riconoscere per la prima volta “la guida del mondo libero contro la barbarie”- riconoscimento che si è guadagnato perché “ha dimostrato che l’America dispone sempre di un nodoso bastone ed è ancora pronta a usarlo contro tutti i banditi che minacciano l’ordine internazionale”.
Sorvolando su questo linguaggio da manipoli, che si commenta da solo, passiamo alla giustificazione “ideologica” dell’intervento: “Lasciare impunito un dittatore che usa armi chimiche non è più possibile”. E qui casca l’asino: com’è possibile che nessun giornalista o uomo politico europeo (da Politi a Gentiloni, da Hollande alla Merkel) abbia la minima esitazione nel dare per buona la tesi dell’attacco chimico da parte di Assad?
Il neo-mercantilismo di Trump segna la fine della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni. È il sintomo più profondo del declino della potenza americana in campo economico
La politica protezionista annunciata il 31 marzo da Donald Trump fa seguito a una lunga serie di misure puntuali di ritorsione commerciale, e non è immediatamente operativa: è tuttavia un messaggio politico molto chiaro e molto grave, e rappresenta una svolta sostanziale. Annuncia la fine di un’epoca, quella degli Stati Uniti motore del liberoscambio, iniziata ai tempi di Franklin Delano Roosevelt e sviluppatasi durante la seconda guerra mondiale e nel dopoguerra, fino al nuovo secolo. In tutti questi decenni, l’opzione a favore della liberalizzazione del commercio internazionale ha accompagnato costantemente l’ascesa degli Stati Uniti come superpotenza mondiale, economica e politica. Il cambiamento di rotta è tale da non poter essere in alcun modo sottovalutato.
Il Segretario al Commercio Wilbur Ross ha fatto la sua parte nel drammatizzare la situazione, parlando esplicitamente di una “guerra commerciale” in atto.
Per parlare dell’ordoliberismo (o “ordoliberalismo”: la distinzione, fatta in italiano, deriva dalla non conoscenza della lingua inglese, dove non esiste la parola liberism, ma solo quella “liberalism”, che indica indistintamente una dottrina economica e la sua inscindibile ideologia politica) prendiamo spunto da questa citazione di una frase di Giuliano Amato in un’intervista rilasciata in inglese.
La traduciamo così non ci sono equivoci:
“Non penso che sia una buona idea rimpiazzare questo metodo lento ed efficace – che solleva gli Stati nazionali dall’ansia mentre vengono privati del potere– con grandi balzi istituzionali…Perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questa è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee...”.
Rammentiamo poi questa sintesi della natura strumentale dell’ordoliberismo:
Nell’intento di continuare ad approfondire le modalità di accumulazione del capitalismo di piattaforma e soprattutto le nuove configurazioni del lavoro sottese a tale contesto, proponiamo la lettura dell’ottima introduzione di Emiliana Armano e Annalisa Murgia al libro da loro curato insieme a Maurizio Teli: Platform capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali, appena uscito per Mimesis/Eterotopie.*
Questo
testo si inserisce in un percorso di ricerca e di costruzione
di spazi di analisi collettiva iniziato nel 2010 con il lancio
del progetto
Mappe della precarietà e proseguito nel corso degli
anni intorno al tema della soggettività precaria, affrontata
in differenti
contesti, quali ad esempio gli spazi urbani in connessione
all’emergere di nuove forme di lavoro gratuito1.
All’interno di questo
volume la prospettiva che adottiamo aggiunge un nuovo tassello
e cerca di ampliare il nostro quadro interpretativo, tuttora
in costruzione, ponendosi
l’obiettivo di esplorare la soggettività non tanto - o
quantomeno non solo - in relazione ai processi di
precarizzazione, ma di
discuterne le più ampie e intricate connessioni con il
cosiddetto capitalismo delle reti. L’obiettivo di questo
lavoro collettaneo
è infatti quello di fornire alcuni elementi di conoscenza
critica sulla costruzione sociale dei nuovi confini tra lavoro
e attività che
emergono nella produzione di valore negli spazi digitali2.
Con la locuzione ‘spazi digitali’ ci riferiamo alla metafora
interpretativa delle relazioni sociali mediate dalle
tecnologie digitali di rete - l’esempio contemporaneo
principale è quello dei social
media - intese come spazio relazionale oltre che
tecnologico.La storia di questa metafora spaziale aiuta a
inquadrare la problematica di ricerca che
il volume si pone: se negli anni ‘90 proliferavano documenti
dai toni entusiastici - quali la Dichiarazione di Indipendenza
del
Cyberspazio3 - caratterizzati dai tratti libertari
della californian ideology4,
oggi la metafora che sembra
meglio descrivere le grandi piattaforme social e tecnologiche
è significativamente mutata fino ad assumere le sembianze dei
walled
garden5,
vale a dire di
un insieme di spazi chiusi nei quali accesso e circolazione
dei contenuti sono controllati.
François Furet, Il
passato di
un’illusione, Mondadori, Milano 1995
Eric
J. Hobsbawm,
Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995
Il nostro secolo
prova che la vittoria degli
ideali di giustizia e di eguaglianza è
sempre
effimera, ma, se si riesce a salvaguardare la
libertà, si può ricominciare da capo»[1].
Leo Valiani
Per la prima volta
nella storia, un mondo
interconnesso e indipendente sarà privo di
un singolo centro di gravità o di un angelo
custode
globale»[2]
Charles A. Kupchan
Due sguardi sul secolo breve
Nell’anno di grazia 1995 l’asfittico panorama librario italiano venne mandato in fibrillazione dall’uscita contemporanea dei ponderosi saggi di due grandissimi storici – François Furet ed Eric Hobsbawm – dedicati al medesimo tema; in una sorta di illogica concorrenza distruttiva tra editori: il lascito del secolo morente, considerandolo compresso in un arco temporale ridotto rispetto alle dieci decadi canoniche.
Nella descrizione caricaturale della stampa bolognese, gli “autonomi” locali, e specialmente quelli del CUA (Collettivo Universitario Autonomo), sarebbero energumeni mossi dall’unica finalità di turbare l’ordine pubblico. Detta da giornalisti il cui livello culturale muoverebbe a pietà uno scimpanzé, tale sistematica denigrazione non stupisce. Ciò è vero anche a livello nazionale, in cui il balbettio di opinionisti e gazzettieri tende alla pura criminalizzazione di una scuola di pensiero antagonista degna, corposa e complessa, con il fine poco nascosto di soffocare analisi raffinate sotto il peso dei manganelli e l’affastellarsi delle denunce. Si tratta di “selvaggi” incolti, nemici giurati dell’ordine costituito. L’unico modo di rapportarsi con loro è chiuderli in gabbia, perché imparino il valore supremo della “legalità”.
In realtà, senza azzardare paragoni con l’Autonomia operaia degli anni Settanta e Ottanta (che era oggettivamente altra cosa), è arduo accusare i giovani autonomi di oggi, non solo bolognesi, di essere incapaci di riflessione, su se stessi, sulla situazione politico-sociale che vivono e di cui soffrono, sul quadro internazionale in cui si trovano ad agire. Criticabili possono essere singole scelte, non l’intelligenza collettiva del movimento, che è ben viva.
È iniziato un periodo difficile per Putin. Per oltre un anno il presidente russo era riuscito a tener buoni i propri generali prospettando loro la possibilità di un accordo con CialTrump. In questi ultimi mesi Putin aveva posto le basi di una pacificazione in Siria coinvolgendo l’Iran e costringendo la facinorosa Turchia di Erdogan a più miti consigli; tutto questo lasciando gli USA fuori dalla porta ma, comunque, con la porta aperta. L’inversione ad U di un presidente spinto da lobby commerciali, ma lasciato eleggere soltanto per la sua ricattabilità, ha dimostrato che gli USA sono determinati ad impedire qualsiasi stabilizzazione dell’area del Vicino Oriente. Se per raggiungere lo scopo gli USA devono prendere esplicitamente le parti dell’ISIS-Daesh, non c’è problema, tanto ai media occidentali basta un po’ di retorica e ipocrisia per mistificare tutto.
Al G7 di Lucca si è parlato persino di nuove sanzioni alla Russia, accusata di complicità con i presunti crimini di guerra di Assad e, per somma beffa, si è aperto il tavolo ad un Paese come l’Arabia Saudita, il più diretto responsabile del caos siriano insieme con il Qatar. I governi europei si sono completamente appiattiti sulle scelte irresponsabili degli USA ed il loro unico sussulto di “autonomia” è consistito nel consueto scivolamento nel demenziale repertorio del “più Europa”, farneticando ancora una volta di ”difesa europea”.
Un fantasma si aggira per l’Italia. È il fantasma della “disintermediazione”. Parolina di moda per addetti ai lavori, un tempo, più che altro riguardante l’informazione: perché affidarsi alla mediazione di un organo di stampa quando invece ci si può informare sulla pagina Facebook di Gino, o Pino, o Sempronia? Perché leggere analisi e cronache quando il Capo ti sistema con un tweet tutto quello che c’è da sapere? Affascinante concetto. Matteo Renzi ne aveva fatto un suo cavallo di battaglia, naturalmente. Disintermediare, per lui, significava fare a meno dei corpi intermedi, sindacati in primis, che generano confusione, rallentano il paese, mettono in campo spossanti trattative, mentre il modello vincente sarebbe quello dei lavoratori che fanno accordi aziendali, magari singolarmente, qui la pecunia qui il cammello.
Ora ecco che con la disintermediazione sul posto di lavoro arriva il carico da undici del grillismo. Dal blog (quello di Genova, non quello di Rignano) arriva il disegno per le future relazioni industriali: basta con il sindacato, vecchio, incrostato, eccetera eccetera, e avanti con la disintermediazione, un luogo di sogno in cui in fabbrica, in ufficio, nel magazzino della logistica, a scuola e, insomma, in ogni posto in cui si scambi tempo-lavoro per salario, “uno vale uno”.
Una volta Arbasino disse che giudicare i libri a seconda del gradimento popolare sarebbe stato come valutare McDonald’s il miglior ristorante al mondo, perché il più frequentato. Oggi il paragone non reggerebbe non solo perché i ristoranti sono pieni e le librerie disertate, ma anche perché i programmi di cucina sono più seri delle pagine culturali dei quotidiani, dove i consigli di lettura (o di acquisto, che non c’è distinzione) si affidano a stellette e pallini tipo guida Michelin, ma quasi mai attribuendoli all’oggetto in sé e più spesso alla “migliore persona dello schermo”, come avrebbe detto il poeta: alla funzione, al ruolo, all’idea di personaggio connessa al libro-prodotto, difficilmente inquadrato in un contesto diverso da quello del “successo”, che ormai non si nega veramente a nessuno e si misura in follower e visualizzazioni un tot al giorno, a seconda degli orari. Caduto ogni pudore o reticenza, il sodale magnifica il collega, l’amico il compagno di merende, accade finanche che lo scrittore candidi se stesso a un premio (il prototipo, Scurati allo Strega del 2009). In generale è prassi affrettarsi ad acclamare il proprio simile, aspettandosi che il favore venga prima o dopo ricambiato (qualcuno lo definì “69 critico”):
Ve lo ricordate lo scandalo dei Panama Papers? Undici milioni di documenti confidenziali di un solo studio legale panamense che mostravano al mondo intero un immenso fiume di denaro nascosto da società anonime, 200 paesi coinvolti, l’indignazione dei governi… Da allora è trascorso solo un anno e abbiamo ancora nelle orecchie l’eco tonante delle dichiarazioni infuocate e la solennità delle promesse, in particolare della Commissione europea, di farla finita una volta per tutte con il riciclaggio, la corruzione e gli altri abomìni dell’economia “illegale”. Bene, anzi benissimo. Volete sapere com’è andata a finire? E magari vorreste anche sapere quale dei governi europei ha approvato il testo più deludente per garantire il pieno accesso pubblico ai registri contenenti l’indicazione del reale proprietario di ogni impresa e trust che opera sul territorio dell’UE? Ma come, non lo indovinate?
Aprile del 2016, scoppia il caso dei Panama Papers. Vengono divulgati oltre undici milioni di documenti confidenziali provenienti da uno studio legale di Panama, e riguardanti società di oltre duecento nazioni del mondo che usavano compagnie anonime e trust per nascondere i più svariati giri di denaro. Uno dei più grandi scandali nella storia dei paradisi fiscali.
Non si contano, nei giorni successivi, le dichiarazioni indignate e quasi offese dei politici di tutto il mondo.
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Caro Moro*,
esiste una sorta di “giallo” teorico nel marxismo che avrebbe potuto attirare l’attenzione anche di Edgar Allan Poe: il mistero delle cosiddette leggi economiche universali (d’ora in poi LEU) scomparse o smarrite. Nell’AntiDühring, proprio all’inizio della sezione dedicata all’economia politica, il tuo grande amico Engels ha scritto che se questa scienza, di natura prettamente storica, deve necessariamente partire dall’analisi delle «leggi particolari di ogni singola fase di sviluppo della produzione e dello scambio», avrebbe però anche potuto «stabilire le poche leggi assolutamente generali valide per la produzione e lo scambio in genere». Quindi per Engels c’erano pure “leggi economiche universali”, sebbene egli non abbia quasi più fatto cenno a quali fossero. Ma scherzava e ci voleva prendere in giro? Niente affatto perché, sempre nell’AntiDühring e proprio poche righe prima, egli ne aveva indicata almeno una quando ha sottolineato che, sebbene produzione e scambio siano due funzioni diverse, non sono però equivalenti dato che si può dare «la produzione senza lo scambio, non invece lo scambio – che proprio per sua essenza è scambio di prodotti – senza la produzione». Insomma, la produzione sarebbe pratica economica universale, mentre lo scambio, storicamente determinato, non lo è!
Il libro
di Carlo Formenti del
2016 conclude per ora un ciclo breve sul populismo durante il
quale sono stati letti: l’intervento
di Nadia Urbinati, che
tende a vedere il lato illiberale nel richiamo al “popolo”
(termine che in senso proprio è invece sempre plurale), quello
di Jurgen Habermas, e di Jan-Werner
Muller, sulla stessa linea
della Urbinati, il testo del 2009 di Ernesto Laclau “La
ragione populista”,
che è il più strutturato riferimento teorico della corrente in
oggetto, e poi Nancy
Fraser, Nicolao
Merker, che inquadra il
populismo di destra in chiave filosofica, infine la ricostruzione
di Marco Revelli.
Sarà necessario tornarvi, anche in funzione dei molti eventi
che si susseguono in questo tempo accelerato della crisi
terminale
dell’assetto tardo novecentesco.
Come spesso è capitato, infatti, un secolo si è davvero chiuso solo dentro una fase di accelerata transizione che guarda ad entrambi i versanti: il settecento, età del primo scientismo e della dissoluzione sotto la sua spinta di blocchi egemonici secolari, transita nell’ottocento, età del positivismo, del macchinismo e della riorganizzazione secolare del mondo, attraverso il ventennio napoleonico che si conclude di fatto a Lipsia nel 1813; il novecento, età della società di massa, entra in scena davvero dopo la conclusione della fase di transizione aperta con la guerra franco-prussiana e conclusa con la sconfitta del reich tedesco e dei suoi alleati nel 1918.
“La sola utopia valida per i secoli a venire e le cui fondamenta andrebbero urgentemente costruite o rinforzate è l’utopia dell’istruzione per tutti: l’unica via possibile per frenare una società mondiale ineguale e ignorante, condannata al consumo o all’esclusione e, alla fin fine, a rischio di suicidio planetario”. Proponiamo un capitolo da “Un altro mondo è possibile”, il nuovo saggio di Marc Augé – etnologo e scrittore francese di fama mondiale – in questi giorni in libreria per Codice edizioni
Le utopie del diciannovesimo secolo
si
sono infrante contro la dura realtà della storia del
ventesimo. La globalizzazione oggi è sia economica sia
tecnologica, e abitiamo in
un mondo fatto di immagini e messaggi istantanei che ci dà la
sensazione di vivere in un presente continuo. Anche l’ultima
utopia, quella
della “fine della Storia” e della società liberale, è messa
alla prova. Per pensare alle possibilità di futuro
c’è un modello, il pensiero scientifico, che promuove
l’ipotesi come metodo, e si basa su due principi: pensare in
rapporto agli
scopi e comprendere che l’uomo, nella sua tripla dimensione,
individuale, culturale e generale, è la sola priorità.
È il grande paradosso della nostra epoca: non osiamo più immaginare l’avvenire proprio nel momento in cui il progresso scientifico ci ha permesso di conoscere l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. La scienza avanza con una rapidità tale che oggi non saremmo in grado di descrivere quale sarà lo stato delle nostre conoscenze di qui a cinquant’anni, eppure su scala storica non si tratta che di un’infima particella di tempo.
Questo paradosso è tanto più sconvolgente se si considera che i progressi scientifici vanno di pari passo con invenzioni e innovazioni tecnologiche non prive di conseguenze sulla vita sociale delle persone.
Macron ‘doveva’ vincere e Macron ha vinto. Primo al primo turno delle Presidenziali con circa tre punti di vantaggio su Marine Le Pen. I mercati e la Borsa, ça va sans dire, festeggiano alla grande. Gli establishments europei tirano un sospiro di sollievo. Lo spettro di una vittoria dei populisti è stato esorcizzato. Lo scenario più temuto, una Marine Le Pen contro Melenchon, non si è materializzato (se Hamon non si fosse presentato una buona parte dei suoi voti si sarebbe riversata sul leader de la France Insoumise portandolo a superare il 21 % dei suffragi). L’ordine regna a Berlino. Pardon, a Parigi.
Una martellante campagna mediatica ha sostenuto Macron sin dal momento in cui fondò il suo movimento, ‘En Marche’, abbandonando il partito socialista ed indebolendo sia il partito che il suo candidato ‘ufficiale’, il Primo Ministro Manuel Valls. Una campagna da Union sacrèe che vedeva destra gollista senza più candidati (Sarkozy battuto alle primarie, Juppè ritiratosi e Fillon travolto dagli scandali), socialisti che non riconoscevano il loro candidato rimasto in gara, Benoit Hamon, giudicato troppo di sinistra, e la grande stampa nazionale ed internazionale tifare come un sol uomo per Macron il liberalsocialista o il liberale tout court. Il politico né di destra né di sinistra, centrista, capace di ‘rassembler’ sul suo nome tutti quelli timorosi di vedere una vittoria dei ‘populisti’.
1. Facciamo che tutto sia scontato e che i sondaggi questa volta siano attendibili.
Dunque, ci ritroveremmo Macron come Presidente francese.
La grancassa mediatica italiana, in questi giorni particolarmente agitata, sarebbe finalmente tranquillizzata sul fatto che l'economia nostrana non andrebbe incontro a "terribili scossoni": L€uropa ne uscirebbe rafforzata, i populismi umiliati e la macchina della pace e della crescita, possibili solo dentro l'euro (che non è certo il nostro problema), potrebbe ripartire verso il futuro radioso che i "padri fondatori" de L€uropa avevano da sempre progettato per tutti noi.
Esaminiamo perciò quale situazione si troverebbe a fronteggiare Macron, con le sue idee prioritarie per cui la spesa pubblica andrebbe tagliata di 60 miliardi in via strutturale entro il 2022, - al netto, si badi bene, di un piano di investimenti pubblici quinquennale di 50 miliardi-, il numero dei pubblici dipendenti ridotto stabilmente (50.000 posti soppressi a livello statale e 70.000 a livello locale, entro il 2022). Naturalmente, sempre entro il 2022, secondo il suo programma, ci sarebbe il pareggio strutturale di bilancio, che andrebbe di pari passo, secondo Macron (e il suo piano di investimenti pubblici), con una riduzione della disoccupazione al 7% e, donc, con 1.300.000 posti di lavoro aggiuntivi creati da questo insieme di misure.
Anche nella stagione neoliberista il capitale non ha altre opzioni che scatenare una guerra mondiale per risolvere i propri problemi. I primi interessati sono gli Stati Uniti.
Ma la strada percorsa finora dalle amministrazioni statunitensi, fino al presidente Obama compreso, era stata quella di porre le premesse per arrivare ad una guerra di aggressione, naturalmente “motivata” creando incidenti ad hoc, contro la Russia. L’ amministrazione Trump ha rotto con questa linea politica ed ha individuato nella Cina il nemico principale e più importante per gli Usa.
Questo è il senso dell’attenzione ai rapporti con la Russia. Non un abbandono della politica tradizionale nord americana, non l’opzione per il dialogo, ma un cambiamento del nemico principale da abbattere. Pertanto sono errate le letture fatte dopo il lancio di missili Tomahawk ordinato da Donald Trump contro una base governativa in Siria incardinate fondamentalmente su due tipi di commenti, i primi incentrati sul fatto che il presidente americano avrebbe mostrato il suo vero volto a dispetto di tutte le esternazioni di voler trovare un miglior rapporto con la Russia, gli altri focalizzati sul cambiamento di registro nei rapporti con Putin a seguito delle pressioni delle lobby militari interne.
Stefania Jaconis commenta How will Capitalism end?, l’ ultimo libro di Wolfgang Streeck. Dopo aver ricordato quanto sia fecondo l’approccio di Streeck - basato sull’integrazione di economia e sociologia - all’analisi del capitalismo, Jaconis si sofferma sul problema principale individuato da Streeck, e cioè l’affemarsi di una disuguaglianza oligarchica che pone il capitalismo in conflitto con la democrazia. Da questo conflitto Streeck non si attende nulla di buono e non esclude uno scenario in cui “tutti saranno in guerra con tutti”
I rapporti tra sociologia ed economia hanno spesso dei momenti di criticità, tanto che ai più rigidi fautori dell’ortodossia neoclassica l’espressione stessa ‘sociologia economica’ appare come una sorta di ossimoro. A dimostrare invece quante siano le intersezioni possibili fra le due discipline ci sono studiosi come Wolfgang Streeck, il quale nel corso degli anni ha portato avanti una ricerca che, oseremmo dire, ha in un certo senso capovolto i termini della relazione di ‘embeddedness’ ideata da Granovetter: infatti per lo studioso tedesco sono i fatti sociali (comprese le strutture di classe e i conflitti che ne derivano) ad essere ‘incorporati’ nelle realtà economiche. (Non a caso Streeck, direttore del prestigioso istituto di ricerca Max Planck, dichiara apertamente di esitare a ripudiare del tutto l’approccio marxiano.)
La storia dei teorici del movimento operaio è caratterizzata fondamentalmente da tre tentativi: a) l’analisi del modo di produzione per capire e spiegare attraverso quali meccanismi avviene lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; b) indicare un’alternativa globale ad esso; c) fare delle proposte politiche rivolte agli oppressi e agli sfruttati per sottrarsi alla gabbia di acciaio (l’espressione usata da M. Weber) del capitalismo.
Sul punto a) da parte di alcuni teorici – con Marx e Engels capostipiti – si è arrivati a definire con chiarezza il modo di produzione capitalistico; sul punto b) si è arrivati a proporre – ancora con Marx e Engels capostipiti – un’alternativa complessiva per gli oppressi e sfruttati al modo di produzione capitalistico: il comunismo contro la barbarie; sul punto c) si sono complicate le cose strada facendo. Se vogliamo dare un contributo serio per una riflessione vera dobbiamo interrogarci sulle difficoltà del punto c).
Mettiamo da parte quell’infinito esercito di meschini, furfanti e briganti che nella famosa “gabbia d’acciaio” vivono in modo privilegiato e osannano per questa ragione il modo di produzione capitalistico e hanno additato continuamente il comunismo e i suoi teorici come rei di tutti i mali per i tentativi di costruzione del comunismo in alcuni paesi (sui quali andrebbe fatto un serio approfondimento e non può essere questa la sede).
Si è
conclusa domenica scorsa la terza conferenza internazionale
“Challenging Capitalist Modernity” (Sfidare la modernità
capitalista)
di Amburgo, appuntamento biennale che da sei anni riunisce i
militanti del movimento curdo in Europa e quelli delle lotte
sociali del vecchio e del
nuovo continente. Dopo un saluto inziale del sociologo John
Holloway dall’Università di Puebla, in Messico, una lunga
serie di interventi
ha avuto luogo, tra cui quelli di diverse donne curde e di
Down Paley, particolarmente rilevante perchè ha ricordato come
anche in America, e
in particolare in Messico, sia in corso una guerra di fatto,
al punto che il paese è secondo soltanto alla Siria e all’Iraq
come numero
di casi di morte violenta. Questo a causa di una guerra che il
governo dice di condurre contro i “cartelli della droga”, o
che i
“cartelli della droga” conducono tra di loro, ma che Down ha
spiegato essere essenzialmente una guerra contro la
popolazione
nell’ottica tutta capitalistica di “costruzione della paura”
ed eliminazione cinica di un “surplus umano”, costituito
dai giovani di una certa origine sociale nel paese.
Debbie Bookchin, figlia del pensatore politico statunitense Murray (uno degli ispiratori del pensiero confederalista di Abdullah Ocalan), ha ricordato le responsabilità occidentali nella strage della popolazione curda e dei suoi combattenti avvenuta tra il 2015 e il 2016 nel Kurdistan turco, a causa del legame tra Turchia e paesi Nato che provoca silenzio mediatico e censura su quegli avvenimenti.
Sui Quaderni di Siena trovate un
logorroico paper su TARGET2. Voleva essere divulgativo,
l'ottava lezione del libro ((la settima, sul vincolo estero, è
qui nel blog), ma non so
bene se ci sono riuscito - in verità è una serie di appunti
per me, ma che condivido.
* * * *
Abstract
Questo saggio è indirizzato principalmente (ma non esclusivamente) a un pubblico non-accademico, e in questo senso è un proseguo delle Sei lezioni, anche nello stile. Metto tuttavia questo pubblico (e non solo) a dura prova. Le note sono utilizzabili anche a scopo didattico. Dopo aver spiegato cos’è Target 2, si fanno tre casi in cui insorgono passività Target 2, mostrando come queste ultime abbiano la natura economica di un debito. Per questa ragione, nel caso di un’uscita di un Paese dall’euro (o di una rottura di quest’ultimo) e di una mancata regolazione di quelle passività, i Paesi creditori subirebbero una perdita nella loro ricchezza nazionale netta. Questo non vuol dire che questi debiti non possano diventare oggetto di negoziazione, anzi questo sarebbe molto probabile. Una appendice contiene una rassegna critica di alcuni interventi sulla stampa e in rete relativi alle recenti dichiarazione di Draghi in merito. Commenti e integrazioni sui probabili errori e imprecisioni sono più che benvenuti. “Se mi sbaglio mi corrigerete”.
“Alle prefiche che si
stracciano le vesti
su certi vittime, di questi
loro clienti non gliene
importa
una beata cippa. Gli importa
di estrarne quanta più merda
possibile da lanciare sui nemici,
propri e della
cricca”. (Il sottoscritto)
Io NON sto con Gabriele
Momento magico per le fake news (notizie finte, false, contraffatte, truffaldine…). Cominciamo dal giornalista Gabriele Del Grande. Fake news possono essere anche rappresentazioni false di una persona o di una cosa. Nel senso del cetriolo dipinto di giallo per passare da banana, o del pubblicitario di hamburger presentato come dietologo. O di Mr. Hyde che si presenta come Dr. Jekill. E’ il caso del nostro concittadino detenuto nei CIE del Minniti turco. Evitiamo ora di fare il sillogismo “Erdogan non sta con Del Grande, Fulvio proclama di non stare con Del Grande, ergo Fulvio sta con Erdogan”. Sbagliato e anche becero. Lo auguro libero istantaneamente, ma non sto con Gabriele, come non stavo con Regeni e come “je ne suis pas Charlie”.
Lo scorso 25 marzo si sono svolte le celebrazioni per il sessantenario dei Trattati di Roma. Ne ha parlato martedì scorso Giovanni Di Benedetto qui.
Poco si è discusso sulle manifestazioni capitoline contro le politiche dell’Unione Europea. È vero che il numero dei partecipanti non ha superato le 10.000 unità, ma ciò non dovrebbe rappresentare un motivo per tacere la notizia. Mentre i nostri giornali hanno dedicato scarsa importanza all’argomento, il Ministero dell’Interno ha lavorato alacremente. Non si spiegherebbero altrimenti i numerosi fogli di via e i sequestri preventivi emessi dalle forze dell’ordine nei confronti di centinaia e centinaia di manifestanti (le fonti della Questura di Roma indicano circa 3000 fermati), ai quali è stato vietato di esprimere le proprie opinioni pubblicamente. La sensazione è che il governo abbia tenuto alto il “livello di sicurezza” (si tratta di fermati per possesso di fumogeni o soggetti presenti nelle liste della polizia per motivi “ideologici”) per evitare che si accendessero i riflettori sui contestatori, invece che sui politici europei chiusi nei palazzi a festeggiare.
Ciò che riteniamo degno di interesse non sono tanto i numeri dei cortei, ma le organizzazioni politiche presenti.
Mandato di cattura contro il Presidente Trump spiccato da un gruppo di pacifisti statunitensi a Roma: Secondo le leggi statunitensi, anche singoli cittadini possono arrestare una personalità pubblica colta in flagranza di reato, quando la polizia non può o non vuole intervenire. Si tratta del Citizens' Arrest ed esiste anche in altri paesi, tra cui l'Italia.
Domenica scorsa, 9 aprile, davanti al Colosseo di Roma, gli Statunitensi per la Pace e la Giustizia, insieme agli attivisti della Rete NoWar - Roma, hanno indetto una raccolta di firme tra i turisti USA in visita al monumento, per far incarcerare il loro neo presidente, Donald Trump. Infatti, egli è “colpevole di azioni belliche che calpestano precise norme internazionali e nazionali e, perciò, va perseguito a norma di legge”, afferma il documento del gruppo pacifista.
“L'attacco missilistico contro la Siria ordinato da Trump il 6 aprile scorso, infatti, è stato un'azione illegale, secondo la Carta delle Nazioni Unite, poiché condotta senza l'approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza e senza che ci sia stato il 'pericolo imminente' di una aggressione siriana contro gli Stati Uniti”, spiega il documento. Inoltre, l'attacco avrebbe violato le stesse leggi statunitensi, prevaricando il potere del Congresso di decidere atti di guerra.
Del suo blitz sulla Siria, Donald Trump non ha avvertito nessuno.
Ha scavalcato il Congresso, ha ignorato l’ONU, se n’è fottuto dell’Europa.
C’è un solo leader che è stato avvertito preventivamente dalla Casa Bianca.
Putin.
Il quale a sua volta ha allertato la base siriana, che è stata sgomberata in tempo per subire danni minimi, e tornare operativa il giorno dopo.
Dei 59 missili lanciati sulla base soltanto un terzo ha raggiunto il bersaglio.
Di recente c’è stato un rimpasto alla Casa Bianca, e gli imperialisti hanno riguadagnato terreno, ma dal blitz sulla Siria non hanno ottenuto nessun reale vantaggio nell’area, né tattico, né strategico.
L’attacco durante la cena con Xi Jinping è stato essenzialmente un avvertimento alla Cina, bersaglio dei nazionalisti, proprio come le immediatamente successive manovre navali attorno alla Corea, e la teatrale superbomba mollata nel deserto.
Cosa ci dice il DEF (Documento di Economia e Finanza) 2017 presentato nei giorni scorsi dal governo? Ci dice in sostanza una cosa sola: l'Italia, e la politica economica del governo, sono in una specie di limbo che non avrà fine prima della conclusione del ciclo elettorale che inizierà in Francia domenica prossima, proseguirà in Germania a settembre, e si concluderà proprio nel nostro Paese verosimilmente nel febbraio 2018.
Quello di Gentiloni è dunque il DEF della massima incertezza, perché nessuno in realtà può dire come sarà messa l'UE nei prossimi mesi. Basta pensare ai possibili scenari post-elettorali in Francia per rendersene conto.
Tanta incertezza ha consigliato il massimo di prudenza agli estensori del DEF. Prudenza che si traduce in una sorta di doppio binario comunicativo. Da un lato la piena, totale, inossidabile adesione ai dogmi euristi; dall'altro la prosecuzione della linea degli "spazi di flessibilità". Sui dogmi ovviamente non si scherza, sulla flessibilità come sempre si spera.
Il senso del DEF è davvero tutto qui. Nel testo si ritrovano le litanie di sempre sulla bellezza delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni, della riduzione della spesa pubblica, senza peraltro mai spiegare come mai questa linea in voga da decenni abbia solo prodotto, in definitiva, la più grave crisi degli ultimi ottant'anni.
Dove sta ora la politica di Trump dopo il ridimensionamento di Steve Bannon e i lanci dei missili sulla Siria e della «madre di tutte le bombe»? Sta tra Bill Clinton e il kabuki giapponese. È la possibile risposta semiseria che meglio rispecchia l’attuale tragica imprevedibilità del tycoon newyorchese. A tre mesi dall’investitura di Trump, mesi decisivi secondo Bannon per dare l’impronta che avrebbe dovuto segnare il futuro, il bilancio non è certo positivo. I decreti razzisti non hanno avuto l’effetto previsto, l’Obamacare non è stato smantellato, la Nato non è più un ente inutile, la lobby delle multinazionali della green economy è più aggressiva che mai. Non si vede nemmeno l’avvio di una problematica de-globalizzazione. Piuttosto l’orientamento che si sta affermando sembra essere quello di una globalizzazione selettiva. Il punto di riferimento diventano i corridoi strategici della valorizzazione del capitale transnazionale dai quali irradiare sullo spazio economico-finanziario internazionale la messa a valore di strategie, protocolli, accordi bilaterali e catene di comando. La teoria di Bannon sulla «decostruzione dello Stato», che doveva fungere da stella polare dell’amministrazione americana, è stata ‒ almeno per ora ‒ accantonata. Il supporto popolare, la mobilitazione sociale come corollario necessario «dell’odio verso le élite» non hanno raggiunto i livelli sperati e anzi iniziavano a essere un boomerang politico.
Paradosso 1
In "Problemi in Paradiso", un libro di SlavoJ Zizek del 2014, c'è una strategia retorica, quasi una cifra del pensiero, che vede una serie di istituzioni e di discorsi che vengono sostenuti a partire da un doppio gioco fra apparenza ed essenza, fra denuncia pubblica e cultura privata (uno sdoppiamento rispetto a quello che propone Foucault sulla sessualità: Il controllo non risiede nell'apparente proibizione, ma nel bisogno interiore di una confessione continua). La pedofilia, nella chiesa cattolica, ad esempio, scrive Zizek:
«si tratta al contrario di un problema interno alla Chiesa cattolica in quanto tale, che è iscritto nella sua stessa natura di istituzione socio-simbolica.(...) Non è qualcosa che avviene perché quest’ultima, per sopravvivere, deve adattarsi alle realtà patologiche della vita libidica, quanto piuttosto di un fenomeno di cui essa ha bisogno per potersi riprodurre. Si può ben immaginare un prete che, dopo anni di servizio, si lascia coinvolgere negli abusi sui minori perché la logica dell’istituzione di cui fa parte lo induce a farlo.»
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In regime capitalistico, l’utilizzo delle macchine causa, oltre al calo dell’occupazione, la caduta tendenziale del saggio di profitto
Il presente articolo è
una riflessione che trae
spunto dal materiale didattico preparato dal compagno
Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma
e presentato ad un
seminario “Sull’attualità del pensiero economico di Marx”,
tenuto presso l’Università Popolare A. Gramsci,
nell’anno accademico 2016-2017.
Vari studiosi del modo di produzione capitalistico hanno teorizzato la “fine del lavoro”. Essi sostengono che la disoccupazione sia il risultato dell’innovazione tecnologica e dell’introduzione di macchine sempre più avanzate (automazione). In questa narrazione il macchinario assolve la funzione di capro espiatorio su cui spostare l’attenzione delle classi subalterne, in modo tale che esse guardino al robot come il colpevole della miseria in cui esse sono in realtà gettate dai meccanismi di funzionamento immanenti al sistema di produzione capitalistico. Al contrario, la teoria elaborata da Marx ci aiuta a capire che non è il robot a determinare la crescente disoccupazione, ma il suo uso capitalistico. Anzi, attraverso le contraddizioni insiste nell’uso capitalistico delle macchine, che saranno approfondite in seguito, il robot contribuisce alla dissoluzione del modo di produzione capitalistico.
Un grande articolo
di George Monbiot
sul Guardian rintraccia le origini e lo sviluppo di
quella teoria neoliberale che dagli anni ’80 ha pervaso le
nostre società, ma i
cui presupposti sono stati preparati con sorprendente cura e
determinazione già da molti decenni prima. Monbiot
sottolinea in
particolare lo strano carattere “anonimo” di questa
ideologia: pur profondamente penetrata nella coscienza
collettiva, non ha nemmeno un
nome ben definito, e così coperta da un vago anonimato
risuona quasi come un sistema naturale, rendendo ancora più
difficile
identificarla e contrapporvisi. In questo sta il fallimento
storico della sinistra, che nel momento peggiore della crisi
del sistema neoliberale
si ritrova senza aver elaborato alcuna proposta
alternativa.
* * * *
Immaginate se il popolo dell’Unione Sovietica non avesse mai sentito parlare del comunismo. L’ideologia che domina le nostre vite, per la maggior parte di noi non ha un nome. Menzionatela nelle vostre conversazioni e avrete in risposta una scrollata di spalle.
Dalla vittoria di Donald Trump, le tensioni nella penisola Coreana hanno raggiunto picchi, quasi, senza precedenti. L’impostazione aggressiva del nuovo presidente degli Stati Uniti, sin dalla campagna elettorale, ha accentuato le tensioni nella regione
Durante la campagna elettorale, Trump
ha
spesso preso posizioni ambigue e per certi versi isolazioniste
in merito alle zone calde sparse per il globo. L’eccezione
alla regola ha spesso
riguardato la Corea del Nord. Business Insider cita l’attuale
presidente degli Stati Uniti riferire nel Gennaio del 2016 le
seguenti parole in
merito al programma atomico della RDPC: "Dobbiamo chiuderlo [Lo
sviluppo del nucleare] perchè sta [Kim Jong-Un]
per fare
qualcosa. Al momento, ha le armi, ma non ha i mezzi per il
lancio. Una volta che avrà i sistemi di lancio, è abbastanza
malato da
usarlo. Quindi è meglio che ce ne occupiamo”.
Appena nominato presidente, le parole di Trump sono diventate ancor più nette ed esplicite, con tweet diventati famosi in cui afferma: “La Corea del Nord ha appena iniziato la sua fase finale nello sviluppo di un’arma nucleare capace di raggiungere gli Stati Uniti. Non succederà!”. Poche settimane dopo e le parole sono state tramutate in azioni: tra Marzo ed Aprile 2017, gli Stati Uniti e i suoi alleati (Corea del Sud e Giappone) hanno eseguito due gigantesche esercitazioni.
È probabile che il governo cinese non provi un particolare affetto per il regime nord-coreano. Sta di fatto però che la Cina non può permettersi che la “democrazia occidentale” (cioè i missili e i soldati USA) arrivino ai propri confini. I toni miti che la dirigenza cinese sta usando in questa ennesima crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord non devono ingannare. Quando si tratta dell’integrità del proprio territorio i dirigenti cinesi sono inflessibili e possono diventare anche imprevedibili, dato che capiscono benissimo che il vero bersaglio dell’attivismo militare statunitense non è la Corea del Nord ma la Cina stessa. Che si tratti di intimidazione o di diretta minaccia al territorio, non è dato ancora capirlo; ma il confine tra l’intimidazione e la minaccia diretta è molto labile.
Dal 1972 sembrava che gli USA avessero compreso di non poter fronteggiare contemporaneamente Russia e Cina; anzi, l’alleanza commerciale con la Cina, inaugurata dal famoso viaggio di Nixon, era stata una delle chiavi della vittoria nella guerra fredda. Sembrava anche che la lobby commerciale che ha spinto CialTrump alla presidenza USA fosse intenzionata a riallacciare i rapporti con la Russia per concentrare il fuoco sulla concorrenza commerciale cinese; invece le ultime mosse dell’Amministrazione americana scompaginano questo quadro. Cos’è accaduto?
Mentre, spesso a sproposito, tutti scrivono sui giornali e sul web di populismo, la letteratura critica disponibile in Italia è alquanto magra in confronto ad altri paesi, se si eccettuano i contributi specificamente volti all’analisi di fenomeni locali (Lega e M5s). Basti ricordare che non sono mai stati tradotti testi di riferimento come quelli di Canovan, Mudde, Shils, Wiles, De La Torre e lo stesso Germani (studioso pioneristico italiano del fenomeno peronista) non si può dire abbastanza valorizzato e conosciuto. Così che, mentre il populismo ottocentesco è abbastanza documentato (dai classici studi di Venturi su quello russo e di Hofstadter per quello Usa), la documentazione su quello novecentesco e sul cosiddetto neopopulismo – dal 1999 in poi, per adottare la corretta intuizione di Dussel – è carente e discontinua. Lo stesso contributo offerto sulle esperienze bolivariane da C. Formenti (La variante populista) è passato in ombra rispetto alle aspre polemiche suscitate dalla linea complessiva di quel libro. Ben venga dunque questo testo di Manuel Anselmi, Populismo. Teorie e problemi (Mondadori, 2017), che rifiutando facili demonizzazioni del polisemico fenomeno, ne sintetizza equilibratamente le principali interpretazioni e apporta con discrezione anche i risultati del suo lungo lavoro sul campo in America Latina.
L’Olanda, balilla Nato, non per nulla ospita all’Aja il Tribunale Penale per la Jugoslavia. Quello che o ammazza, o condanna patrioti serbi e manda liberi delinquenti kosovari e croati, a seconda di come gli assassini della Jugoslavia dispongono. Alla luce di quanto in Olanda s’è combinato nei giorni scorsi, non ci potrebbe essere sito migliore per questo scempio della democrazia, della giustizia, della verità.
Il 13 aprile a Veldhofen in Olanda si sarebbe dovuto tenere il convegno mondiale dell’organizzazione giovanile del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, il movimento che ha condotto e vinto la trentennale guerra di liberazione dal colonialismo dell’Etiopia e delle potenze che ne appoggiavano l’occupazione. Fronte che è oggi al governo del paese sul Mar Rosso. Ma sono intervenute le forze coalizzate che da anni perseguitano questo paese libero, autodeterminato e antimperialista con aggressioni militari, sabotaggi, sanzioni e campagne di diffamazione affidate dal despotismo imperialista ai soliti latifondisti della mediacrazia. Se ne sono fatti protagonisti membri del governo olandese, il sindaco della città, Mikkers, la stampa, tutta atlantista, la solita Ong griffata George Soros, “EEPA”, diretta da Mirjam Van Reisen, docente all’università di Tilburg.
Il mainstream fa la guerra. E usa i bambini come arma
In una manciata di giorni, chi aveva sperato che l'elezione di Trump potesse riportare gli Usa contemporanei su posizioni isolazioniste, a vantaggio della pace in giro per il globo, si è dovuto rapidamente ricredere. Per attaccare la Siria, l'amministrazione repubblicana ha sfoderato la più consolidata retorica, quella testata, per non andare troppo lontano negli anni, in occasione dell'invasione dell'Iraq. Nel 2003 era stato Colin Powell a mostrate al mondo una fialetta con del non meglio identificato liquido al suo interno, accusando Saddam Hussein di possedere le cosiddette "armi di distruzione di massa". Fu la motivazione dei bombardamenti su Baghdad, degli stivali sul terreno e della distruzione di un Paese che vantava, tra le altre cose, il sistema scolastico più avanzato del Vicino Oriente.
In quattordici anni di guerra l'Iraq è stato catapultato nel medio evo: economico, sociale, culturale. Oggi si dibatte in una guerra infinita, frammentato, minacciato da un integralismo islamista che mai aveva trovato posto prima dell'invasione nordamericana. A distanza di anni la bufala delle armi mai esistite (come affermò, inascoltato, l'ispettore Onu Hans Blix) è stata accettata da tutti con una tranquillità inquietante. E tutti significa sia opinione pubblica, sia leader che allora appoggiarono l'invasione in nome della democrazia.
Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè.
Esce di casa, in via Cadlolo, a Roma, all’alba del 15 aprile 1987. Lascia sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente.
Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento. Sono queste le ipotesi su cui si orientano le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici, dei suoi studenti. Indagini di anni. Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro.
Chi era Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazionale, docente a La Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei tecnocrati, degli istituzionalisti, un alfiere dell’umanesimo di Keynes «contrapposto al darwinismo schumpeteriano». Parole sue.
Un economista affascinato dall’approccio interdisciplinare della scuola nordica, di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. In cima ai suoi pensieri l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformazione di sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivoluzione liberista.
«È il "meno peggio" a creare il peggio. Scegliere uno per contrastare l’altro è un controsenso. I cui unici esiti stanno nello spostamento sempre più a destra del quadro politico». La posizione controcorrente dell'economista Emiliano Brancaccio
Ha festeggiato il 25
aprile, da convinto
antifascista. Eppure l'economista Emiliano Brancaccio, una
delle voci più autorevoli nella sinistra italiana, ideatore
della proposta di
"standard retributivo europeo", se stesse in Francia non
voterebbe per Emmanuel Macron: «L’avanzata del Fronte
nazionale è una
pessima notizia, l’ennesimo segno funesto di un’epoca
dominata dall’irrazionalismo politico. Ma...»
* * * *
Professore, veramente al ballottaggio in Francia non voterebbe Macron per impedire l’affermazione di Marine Le Pen? Dice sul serio?
«Certo, se fossi un elettore francese al ballottaggio non andrei a votare».
Nel giorno del 25 aprile la sua risposta sorprenderà molti lettori. In questi anni lei ha spesso paventato il rischio di nuovi fascismi in Europa, ed è stato tra i più irriducibili oppositori delle destre xenofobe….
«Io festeggio il 25 aprile non semplicemente per celebrare una ricorrenza, ma perché reputo l’ascesa di nuove forme surrettizie di fascismo la minaccia principale di questo tempo.
Le politiche volte a salvaguardare gli attuali rapporti di produzione impediscono lo sviluppo delle forze produttive e cancellano la sovranità popolare
L’irrazionalità e
l’iniquità del modo di produzione capitalistico – già
riconosciuta dallo stesso Adam Smith, quando osservava che lo
sviluppo
della ricchezza in tale sistema avviene in funzione
dell’impoverimento di una fascia crescente della popolazione –
è ancora una
volta confermata, per quanto concerne il nostro paese, dal più recente rapporto Istat.
Quest’ultimo attesta una continua crescita della povertà nella
penisola, al punto che, in termini relativi, ci avviciniamo
pericolosamente alla soglia dei 10 milioni di poveri, mentre
in termini assoluti, in
riferimento alle persone con redditi al di sotto della soglia
di sussistenza, siamo ormai prossimi ai 5 milioni, una quota
praticamente raddoppiata
rispetto al 2007, con una spaventosa crescita del numero dei
giovani, sempre più disoccupati o precari. Ciò che davvero
inquieta
è che tale massiccio impoverimento e il conseguente aumento
del divario fra le classi sociali non ha consentito al paese
neanche di iniziare a
uscire dal tunnel della crisi. Anzi, le luci in
fondo al tunnel, che gli apologeti degli attuali rapporti di
produzione affermano
costantemente di scorgere, assumono sempre più le sinistre
sembianze di un treno che ci viene addosso a una velocità
sempre più
elevata. Viene, così, da domandarsi: quanto ancora i ceti
subalterni dovranno pagare i costi sociali della crisi per
consentire una ripresa
economica, che non metta in discussione quei rapporti di
proprietà che ne costituiscono il fondamento?
Negli Stati Uniti, dopo
l’elezione di Trump, i miei amici e i miei studenti avevano
sempre la stessa domanda sulle labbra: chi è il prossimo?
Crede che Le Pen
vincerà le elezioni francesi? Sullo sfondo della rovina delle
politiche redistributive cancellate dal neoliberalismo, gli
scenari evocati
richiamavano alternativamente una sorta di effetto domino –
ogni “democrazia liberale” che cade trascina con sé la
seguente
– e il principio di contagio. La Brexit gli appariva come un
segno premonitore di nuove “cattive sorprese” a venire. Lo
scacco di
Renzi al “suo” referendum costituzionale e la rinuncia di
Hollande a candidarsi alla propria successione facevano eco
alla disfatta di
Hilary Clinton e segnalavano la decomposizione del
“centro-sinistra”. Le elezioni presidenziali austriache non
risultavano altro che una
tregua momentanea, mentre le manifestazioni dei cittadini e
delle cittadine di Polonia contro il sistema Kaczynski
incarnavano una fragile speranza di
resistenza. La questione di sapere se Merkel avrebbe “tenuto”
di fronte alla sua estrema destra, ostile all’accoglienza dei
rifugiati, fungeva da variabile strategica (si era prima degli
attentati di Natale a Berlino).
Ora scopro che le stesse questioni agitano l’opinione e la stampa europea. E da una parte all’altra dell’Atlantico è la categoria di “populismo” che, malgrado la temibile confusione a cui dà luogo, continua a polarizzare analisi e speculazioni.
Relazione catodica tra leader e popolo, fideistica mobilitazione del cittadino senza l’intermediazione del partito, semplificazione manichea delle forze in campo. In Francia ha vinto il populismo. E non è quello di Marine Le Pen. Partito nato in vitro neanche un anno fa, niente quadri né militanti, solo lui, il giovane liberale in camicia: ha vinto Emmanuel Macron. Enfant prodige del Partito socialista, già ministro e fido consigliere di Hollande lascia in tempo la barca che affonda per dire senza giri di parole che bisogna stare dalla parte dei ricchi, perché i ricchi hanno la ricchezza e la ricchezza fa girare l’economia. E chi è ricco o pensa di esserlo lo riconosce e si riconosce. Sarà lui a garantire gli interessi di chi ha ancora tanto da perdere. In fondo, dopo aver esorcizzato il popolo, si può anche recuperare il populismo.
Marine Le Pen porta a casa un risultato importante ma si tratta un record mediocre. Il Front national si attesta appena sul 21,5% guadagnando soltanto il 3,6% rispetto alle precedenti elezioni politiche, quelle del 2012. E pensare che le elezioni del 2017 dovevano essere quelle dell’ora o mai più.
Marine Le Pen, il grande spauracchio, andrà al ballottaggio dove verrà sconfitta dagli sconfitti. Emmanuel Macron sarà presidente e di lui qualcosa già sappiamo: da ministro dell'Economia ha partecipato alla stipula di contratti con l'Arabia Saudita per un valore di 10 miliardi di euro, compreso un lotto di armi. Ed è diventato milionario facendo il banchiere con i Rotschild. Non sarà lui a far cambiare rotta alla Francia.
A dispetto di tanti timori e di tanta retorica, la lunga stagione del terrorismo, culminata nella sparatoria sugli Champs Elysés di Parigi poche ore prima del voto, non ha pesato più di tanto sulle scelte degli elettori francesi. Marine Le Pen, il grande spauracchio, ha fatto il suo ma nulla di più: andrà al ballottaggio con il 21,5% dove, come già successe a suo padre nel 2002, verrà sconfitta dagli sconfitti, che faranno convergere i propri voti su Emmanuel Macron, che ha raccolto il 23,8%.
Né l’Isis né i cosiddetti “lupi solitari”, quindi, hanno modificato il corso di questa elezione presidenziale, che in generale ha visto un’affermazione delle destre (al terzo posto è arrivato l’ex premier Francois Fillon con il 19,9%) piuttosto scontata dopo il disastroso mandato presidenziale del socialista Hollande.
I sinistri bagliori dei missili sulla la base militare siriana di Shayrat hanno illuminato, più che la situazione militare della Siria, resa oscura da notizie false provenienti da ogni dove, la scena politica americana, e quella dei satelliti europei.
Sono rimasti sorpresi quei politici e quei giornalisti che avevano visto in Trump l’artefice di una politica che rompesse col militarismo dei Bush, dei Clinton, di Obama.
Trump isolazionista, protezionista, antiglobalizzazione, mira agli affari e non alla guerra, si diceva. Ma l’isolazionismo non fu una politica di pace, fu un relativo distacco dalla scena europea per concentrarsi sul rivale del Pacifico, il Giappone, contro cui gli Stati Uniti si prepararono industrialmente, psicologicamente, ed infine anche militarmente. Il protezionismo prevede blocchi, controlli, pattugliamenti di navi militari, interruzioni delle rotte marittime e terrestri; essere contro la globalizzazione, per il borghese vuol dire erigere muri, reticolati.
Sentiamo cosa dicono giornalisti che apprezzavano Trump.
Foa scrive:
Qualcuno storcerà il naso come ai tempi della UNO bianca ma ciò che sta accadendo in queste ultime settimane in Emilia presenta alcune analogie con quel periodo dei primi anni 90. E' bene non esser fraintesi: stiamo parlando di alcune analogie perchè allora eravamo agli inizi di un percorso tutto in costruzione della “rivoluzione” del capitale dall'alto che doveva ridefinire ruoli e funzioni dopo il crollo dell'89.
La banda della UNO bianca era composta da poliziotti legati ai servizi segreti militari; una verità provata già dai tempi della controinformazione fatta da Lotta Continua sulla strage dell'Italicus in cui si parla chiaramente dell'esistenza di una struttura terroristica parallela all'interno della polizia.
La Uno bianca si macchiò di decine di omicidi e ferimenti contro obiettivi apparentemente diversi fra di loro: benzinai, tabaccai, passanti e testimoni; inoltre zingari e immigrati senza neanche il pretesto di pochi spiccioli da rapinare.
Il periodo di massima attività si colloca nella delicata fase di transizione dalla prima alla seconda repubblica (anticipata però già dalla fine degli anni'80 da diverse rapine con morti da parte della “banda delle coop”).
Nucleare. Il test conferma che la B61-12 può essere sganciata dai caccia F-16 della 31st Fighter Wing, la squadriglia di cacciabombardieri Usa dislocata ad Aviano (Pordenone)
I riflettori politico-mediatici, puntati sulla escalation nucleare nella penisola coreana, lasciano in ombra quella che si sta preparando nella penisola italiana. L’Air Force Nuclear Weapons Center comunica il 13 aprile che, nel poligono di Nellis in Nevada, «un caccia F-16 della U.S. Air Force ha sganciato una bomba nucleare B61-12 inerte.
Dimostrando con ciò la capacità dell’aereo di usare quest’arma e testando il funzionamento dei componenti non-nucleari della bomba, compresi l’armamento e azionamento del sistema di controllo, il radar altimetrico, i motori dei razzi di rotazione e il computer di controllo». Ciò indica appunto che la B61-12, la nuova bomba nucleare Usa destinata a sostituire la B-61 schierata in Italia e altri paesi europei, è ormai nella fase di ingegnerizzazione che prepara la produzione in serie. I molti componenti della B61-12 vengono progettati e testati nei laboratori nazionali di Los Alamos e Albuquerque (Nuovo Messico), di Livermore (California), e prodotti in una serie di impianti in Missouri, Texas, Carolina del sud, Tennessee. Si aggiunge a questi la sezione di coda per la guida di precisione, fornita dalla Boeing.
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Cosa c'è dell'idealismo nell'interpretazione ortodossa della meccanica quantistica? La necessaria considerazione del materialismo dialettico nella scienza
Il tema che tratterò
è lo studio di un caso particolare. E per questo, soprattutto
per chi si dedica allo studio di altre aree del sapere,
l'esposizione
correrà il rischio di risultare noiosa.
Ciò detto - pur senza essere in grado di ovviare a questo rischio -, la sua finalità è di attirare l'attenzione sull'importanza del pensiero materialista dialettico nella scienza a cui Marx, Engels e Lenin hanno dato un contributo fondamentale
La scienza e la filosofia sono legate indissolubilmente. In altre parole, non vi è dubbio che anche gli scienziati siano immersi in un dato sistema di rappresentazioni. Come affermava Engels nella sua Dialettica della Natura, la questione sta nel sapere se gli scienziati "vogliono essere dominati da una cattiva filosofia di moda o da una forma di pensare teorico che si basa sulla conoscenza della storia del pensiero e delle sue realizzazioni” [2].
Nel mese
di ottobre
1996, il premio Nobel per l’Economia William Vickrey
pubblicò un articolo che illustrava “I 15 errori fatali del
fondamentalismo
finanziario”: per esempio il sacro terrore del deficit e del
debito pubblico, legato a erronee analogie tra comportamento
economico del singolo
e azione dello Stato. Queste fallacie sono rimaste ben vive
– o meglio, sempre più vive – nel dibattito pubblico, e lo
hanno anzi
permeato, trovando un’applicazione concreta, dai risultati
disastrosi, nelle regole di Maastricht. Per questo oggi
abbiamo scelto di
ripresentarne alcune, con la spiegazione del perché si
tratta di ragionamenti sbagliati e – se tradotti in pratica
– forieri di
inutili sofferenze. Quelle che in un’eurozona intrappolata
in questi errori, purtroppo, sono ormai evidenti agli occhi
di tutti.
* * * *
In campo economico, una grande parte delle teorie convenzionali oggi prevalenti negli ambienti finanziari, ampiamente utilizzate come base per le politiche governative, nonché pienamente accettate dai media e dall’opinione pubblica, si basa su analisi parziali, su ipotesi smentite dalla realtà e su false analogie.
Ora che ha quasi esaurito il
suo corso nei cinema europei, due parole su La La Land.
La La Land non è un film sull’amore; La La Land è un film sul successo. Lo scintillio che emana non è quello dell’amore ma quello della brillantezza-denaro, e del suo potere di trasformare la vita in una fluida opera d’arte. A dirla tutta La La Land celebra piuttosto l’eutanasia dell’amore, il suo superamento, ne veicola ideologicamente la fine. Ideologicamente perché questa finis amoris è instillata sotto pelle, resa apparentemente naturale, come pare accada con le visioni ideologiche[1]. E non sarebbe d’altronde assurdo che un film che doveva “rendervi felici” lo faccia raccontando un amore inconcluso? Non spezzato, no, inconcluso. Perché? Molti se lo stanno ancora chiedendo: “Perché si lasciano?”. Tutto accade nella scena in cui Mia e Sebastian, sono seduti sulla collina dell’osservatorio Griffith che domina Los Angeles. Mia ha appena ottenuto, anche grazie alla dedizione di Sebastian, la parte per un film da girare a Parigi. Mia ce l’ha fatta: partirà per Parigi, per il set, sarà un’attrice. Guardando il crepuscolo, serena come dopo un orgasmo a lungo cercato, chiede a Sebastian:
Qualche tempo fa Luciano Canfora ha presentato il suo ultimo libello, La schiavitù del capitale, alla trasmissione Quante storie di Corrado Augias.
Vorrei riportare due dichiarazioni di Canfora che sintetizzano il quadro entro cui è racchiusa la direzione politico-economica della scuola (mondiale, europea e, di conseguenza, italiana).
A commento di un video sul lavoro di fabbrica e quello post-fordista dei call center, Canfora dice:
«Impressionante, direi; lo sfruttamento diventa più raffinato, e perciò più pericoloso […] questo interferisce direttamente nel pensiero, nella vita intellettuale dello sfruttato, per giunta in condizioni, dal punto di vista sindacale, peggiori».
Il secondo passo. Ad Augias che, a proposito del “manifesto dei 600”, dice: «Che i giovani parlino e scrivano male è un dato, si vede. Perché?», Canfora risponde:
«È un effetto di vari fattori. Vorrei sintetizzarli molto in breve: uno è l’imperversare medico pedagogico, potremmo chiamarlo così, di questa pseudo-scienza che individua nello sforzo per imparare quasi una persecuzione. Gramsci diceva che studiare è una fatica, deve essere una fatica.
Nel 2015, Dario Gentili e io abbiamo curato un fascicolo della rivista «aut aut» dedicato alla condizione del lavoro intellettuale in epoca neoliberale. Abbiamo scelto per quel fascicolo il titolo Intellettuali di se stessi, prelevando una formula utilizzata qualche tempo prima da Pier Aldo Rovatti nel suo libro Noi, i barbari. La formula contiene un’ambiguità, e proprio per questo ci era sembrata – e ci sembra tuttora – icastica ed efficace. Qual è questa ambiguità?
È l’etica del lavoro intellettuale che funziona come forma ideale del governo del lavoro in generale
Da un lato, l’espressione «intellettuali di se stessi» rimanda al ritornello neoliberale che da anni sollecita ciascun individuo a trasformarsi in un imprenditore. In questo senso, l’espressione segnala la penetrazione della competizione, della concorrenza e dei principi del libero mercato nella cosiddetta società della conoscenza, e l’affermazione della forma-impresa come forma di vita dei lavoratori intellettuali: l’intellettuale di se stesso come campione di quell’ethos autoimprenditoriale, di quella disponibilità al lavoro gratuito e all’autosfruttamento, di quella coazione all’autovalorizzazione verso cui tende il lavoro in generale in epoca neoliberale.
Nel 1962, in un convegno dell'Istituto Gramsci sulle Tendenze del Capitalismo italiano, Bruno Trentin presentò la proposta che l'azione sindacale dovesse considerare il salario come variabile indipendente dai vincoli economici. Quella scelta di rifiuto delle compatibilità doveva essere, secondo Trentin, la leva fondamentale per mettere in discussione le contraddizioni storiche del sistema produttivo e sociale del paese che , dopo un colossale boom economico, si trovava di fronte a limiti quantitativi e qualitativi di fondo dello sviluppo. La lotta di classe cioè era lo strumento fondamentale per rinnovare ed innovare la struttura produttiva, riqualificare la spesa e l'intervento pubblico, costruire un sistema sociale egualitario. E così avvenne prima e dopo l'autunno caldo del 1969.
Come poi sappiamo nel 1977 Luciano Lama, in una celebre intervista ad Eugenio Scalfari, rinnegò esplicitamente e brutalmente la formula del salario variabile indipendente e sottomise l'iniziativa sindacale ai vincoli delle politiche di austerità e ristrutturazione industriale. Lo stesso Trentin fece propria la critica di Lama all'impostazione sindacale che aveva portato ai più grandi successi della storia del movimento operaio italiano e divenne uno dei principali assertori della necessità di accettare le nuove compatibilità economiche.
Marine Le Pen ritrova il ballottaggio da solita candidata perdente, sebbene incrementi il proprio risultato rispetto alle precedenti elezioni. Il Partito socialista scompare (definitivamente?) dalla scena politica francese, relegato ad un misero 6,3% e surclassato a sinistra persino da quel Jean-Luc Mélenchon scherzato per tutta la campagna elettorale dalla stampa mainstream. Ma questi dati rimangono sullo sfondo rispetto al senso di questa tornata elettorale transalpina, dove la continuità si conferma a scapito dei diversi “populismi”. Prevale su tutti un candidato “di sistema” come Macron, ma se al suo 23% sommiamo il quasi 20% di Fillon, nonché il 6,3% di Hamon, ci ritroviamo un 50% di voti a salvaguardia del potere istituzionale francese. Niente sembra descrivere meglio la situazione francese della frase di Lenin: «La forza dell’abitudine di milioni e decine di milioni di uomini è la più terribile delle forze». In Francia, tutto sommato, il sistema tiene, come terrà saldamente in Germania, perché l’abitudine non è stata ancora intaccata dal peso della crisi. Nonostante la decadenza relativa, nessuna vera crisi sociale è presente nell’Europa che conta. E in assenza di tale crisi, nessun fenomeno elettorale intaccherà veramente il potere politico nei luoghi centrali della costruzione europeista. Lo Tsipras francese Mélenchon raggiunge il solito onorevole risultato nel turno inutile dove a prevalere è il voto “ideologico”.
L’attacco missilistico sulla Siria, deciso in autistica autonomia dal presidente americano dovrebbe rappresentare – nella contorta ma decifrabile strategia americana (con un Bannon chief strategist sacrificato ancor prima di far partire i razzi) – un modo drammatico di tranquillizzare i critici di Trump.
Donald Trump sembra convinto che dopo un cambio così radical-schiz nella politica estera, avrà le mani libere per aggiustare il Paese secondo i piani annunciati nella campagna elettorale. Una sorta di concessione all’estero per essere forte in patria e sfuggire all’impeachment sul russiangate che lo aspetta dietro l’angolo.
Nell’accettare il diktat dei neocon vi è inoltre – a traino di quello – l’obbligo doloroso di tentare di umiliare la Russia, ridurla alla ragione e decidersi a scaricare Assad, unico alleato che Putin ha in Medio Oriente. Da qui il G7 di Lucca (a pochi metri dalla casa dove visse la sorella di Napoleone) che gioca a dividersi nel fare poliziotto buono/poliziotto cattivo e il viaggio a Mosca di Mattarella (poliziotto buono) poche ora prima di quello di Tillerson (poliziotto cattivo): tutti tesi a rabbonire o minacciare il burbero enigmatico judoka che finora le ha suonate a tutti.
Il primo atto delle elezioni
presidenziali
francesi si è ormai consumato e abbiamo sotto gli occhi
l’esito da incubo di questa partita politica: il secondo turno
che si
celebrerà a breve sarà una contesa tra l’opzione capofila
delle montanti destre radicali europee, il Front National
di
Marine Le Pen, e un esponente della destra economica
filo-finanziaria più estrema, che con il suo programma di
assoluta continuità con
le politiche di austerità e di privatizzazione di questi anni
ha immediatamente raccolto il sostegno delle istituzioni
europee, di buona parte
dei governi nazionali – da Renzi a Tsipras, passando per la
Merkel – e ovviamente dei mercati finanziari, che hanno
espresso la loro
approvazione attraverso un immediato rialzo delle borse e
dell’euro.
Mentre nelle sinistre istituzionali e di movimento dell’intero continente – in particolare in Italia – è scattata subito la rincorsa a sostegno di una posizione neofrontista, da fronte popolare/repubblicano attualizzato ai tempi, costruita sull’idea che sia giusto sostenere e votare qualsiasi cosa pur di arginare “il fascismo”, sta facendo molto discutere la decisione di Mélenchon di non dare ai suoi elettori una esplicita indicazione di voto, lasciando loro libertà di coscienza al secondo turno.
Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00
Nonostante la straordinaria lezione
di Gianni
Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può
dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella
storiografia
italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa
quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà
forse
per questo motivo che diversi ricercatori attenti
all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi
anni, hanno preferito rivolgersi
agli strumenti dell’antropologia.
Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere la parola agli ultimi e negare, troppo spesso e nei fatti, il diritto alle classi oppresse di ricostruire la loro storia oppure la Storia tout court.
Negare la lingua con cui gli oppressi si esprimono, negare la visione dal basso della storia grande e piccola per consegnare la ricostruzione del passato agli specialisti e agli accademici significa, ancora, lasciare che siano i vincitori, oppure i promotori di accordi fortemente marcati dalla rinuncia alla difesa degli interessi della maggioranza della società a definire ex-post quale sia e quale debba essere l’unica verità storica accettabile.
Che questo conduca poi all’apprezzamento di specialisti farlocchi, come sta avvenendo in questo quarantesimo anniversario del Movimento del ’77, oppure alla ritrattazione e revisione continua della memoria storica, come avviene in occasione di ogni 25 aprile, non costituisce altro che un corollario del precedente assunto. Poiché, semplificando al massimo, è soltanto la memoria dal basso che può vegliare sulla Memoria.
Figlio
del movimento degli Indignados in Spagna si sta affermando il
neomunicipalismo, ovvero l’idea di ripartire dalla città,
tramite processi
popolari e di confluencia, per rompere lo storico bipartitismo
Pp-Psoe. Barcellona è l’esempio più grande. Ma l’obiettivo
è spingersi oltre per affrontare le grandi sfide globali: il
cambio climatico, la mobilità, il problema della casa, la
disuguaglianza,
le migrazioni. Per questo si prova a far nascere una rete
europea delle città ribelli.
Il 24 maggio del 2015 in diverse città spagnole delle liste civiche nate dal basso vincono le elezioni comunali. A Madrid, Barcellona, Saragozza, Cadice, Pamplona, Santiago de Compostela, La Coruña, Badalona i cittadini entrano per davvero nelle istituzioni con progetti di rottura rispetto al passato. Esperienze diverse in contesti urbani diversi. Grandi metropoli e piccoli capoluoghi di provincia. Ma con un punto in comune: cambiare la Spagna e chiudere con i quarant’anni di bipartitismo PP-PSOE, partendo dalla partecipazione della cittadinanza e dallo strettissimo legame con i movimenti sociali presenti sul territorio. Sono passati quasi due anni da quel giorno e la scommessa neomunicipalista, che ha ottenuto importanti risultati nelle città in cui governa, guarda già oltre il municipalismo.
Il ballottaggio elettorale in Ecuador dello scorso 2 aprile, ha segnato la vittoria del binomio progressista Lenin Moreno – Jorge Glas (51,15 %) di Alianza País, sul rappresentante della destra cavernicola del banchiere Guillermo Lasso (48,85 %) della lista Creo – Suma, con uno stretto margine del 2,3 %.
Un risultato importante, visto lo scenario regionale marcato dalla battuta d’arresto del progressismo e dall’avanzata della restaurazione conservatrice e neo-liberale: la crescita della destra venezuelana, la vittoria del NO nel referendum per la pace in Colombia, e nella consultazione per permettere la rielezione del Presidente Evo Morales in Bolivia, la stretta vittoria di Mauricio Macri in Argentina ed il golpe parlamentare-giudiziario-mediatico in Brasile.
Ripetendo un copione sotto dettatura, consolidato nel continente, la destra ecuadoriana ha accusato di brogli il Consiglio Nazionale Elettorale (CNE), sulla base di un proprio “sistema elettorale” che annunciava la vittoria di Lasso, come unico risultato possibile. Ad urne appena chiuse si è messa in scena la vittoria del banchiere Lasso, attribuitagli dai media privati (Ecuavisa, Teleamazonas), sulla base di exit-polls emessi da una compiacente impresa privata (Cedatos che lavora per il Banco di Guayaquil), per delegittimare le istituzioni pubbliche e sostituirle con regole del gioco stabilite dai poteri forti.
Siccome è appurato che, con la società liquida, anche l’elettorato diventa liquido, e tutto va verso la magnifica fluidità iper-moderna, anche e soprattutto le credenze, in ispecie quelle politiche che consolidavano i comparti elettorali con la loro auspicata corrispondenza tra interessi di classe e espressione di voto, siccome tutto questo vecchio mondo, psico e socio-rigido si sfalda, qualcuno lamenta una generale impreparazione dell’elettorato. L’elettorato, oggi più che mai, improvvisa e in modo approssimativo. Questa diseducazione è funesta alla democrazia, come la storia europea ha ampiamente dimostrato, con l’idiozia di quei tedeschi che nel 1933 votarono Hitler, per poi pentirsene al più tardi il 7 maggio del 1945, ossia il giorno della resa incondizionata della non più grande Germania. In questa fase di populismi ribollenti, il richiamo a una maggiore compostezza dell’elettorato è un atto di buona volontà democratica. Su questo non ci sono dubbi. Ce ne sono invece enormi su come condurre l’elettorato cialtrone, a una chiaroveggenza sui limiti entro i quali una democrazia può ancora più o meno funzionare. Questo discorso, ovviamente, non vale per coloro che considerano la democrazia parlamentare non tanto una pura forma in attesa di un’eventuale sostanza, ma semplicemente una carnevalata non degna d’interesse per chi sta lavorando attivamente alla rivoluzione anti-capitalistica.
Un saluto a Sergio Bellavita, dell'Usb Lavoro Privato. Buongiorno Sergio…
Ciao, buongiorno a tutte e tutti…
Partirei dalla presentazione di un’inchiesta che avverrà questo fine settimana, qui a Roma (Centro Congressi Cavour, domenica 23, ore 10), un’inchiesta sul lavoro in fabbrica in Italia, “La grande fabbrica”, e soprattutto concentrarci su alcuni dati che ci hanno un po’ colpito. Da questa inchiesta emerge ad esempio che l’Italia è il secondo paese per produzione manifatturiera d’Europa, con un numero di addetti, di lavoratori, di operai, di poco inferiore alla Germania. E già questi due dati fotografano una realtà – condizione dei lavoratori, salari, livelli occupazionali – in cui forse c’è qualcosa che non funziona…
Questa inchiesta è molto importante… Erano anni che non si affrontava il tema della nuova composizione di classe nei luoghi di lavoro e, soprattutto, anche del ruolo che viene assegnato all’Italia nell’ambito della divisione internazionale del lavoro.
I media mainstream italiani stanno dando grande enfasi in queste ore alla storia eroica di Gabriele Del Grande, 35 anni, giornalista mai iscrittosi all’Ordine dei Giornalisti italiano, originario di Lucca. E’ stato fermato in Turchia nella provincia sud-orientale di Hatay, al confine con la Siria e sarà espulso dal Paese. Fonti giornalistiche occidentali affermano che Del Grande sia stato preso in consegna dalle autorità turche perché sprovvisto del necessario permesso stampa, senza il quale non puoi esercitare come giornalista. Ma, forse, c’è dell’altro…
Prima di affrontare la guerra siriana questo strano free-lance ha raccontato il conflitto libico accusando i giornalisti della sinistra anti-imperialista di raccontare il falso: fra le vittime dei suoi anatemi non solo Valentino Parlato de “Il Manifesto”, ma anche “TeleSur”, il canale Tv latinoamericano promosso dal Venezuela di Hugo Chavez, definito in sostanza come poco affidabile. Insomma: solo Del Grande sapeva quello che accadeva davvero in Libia ed era naturalmente la solita retorica mielosa di una presunta rivolta di popolo per la libertà e la democrazia, senza alcuna ingerenza neo-coloniale estera. Basta vedere cosa è la Libia oggi per capire quali interessi rappresentava in realtà questo giornalista. Ma andiamo a leggere quale era l’accusa che Del Grande rivolgeva al governo libico di Muammer Al-Gheddafi: “l’unica forma di opposizione interna negli ultimi decenni è stata quella dell’islam politico.
Non è il debito il vero problema, ma la dipendenza dall'estero e le contraddizioni del capitalismo. Solo il rilancio dell'intervento pubblico nell'economia ci può salvare
Abbiamo già discusso in passato sul mantra del debito pubblico e sull’inconsistenza delle elucubrazioni sul suo carattere nocivo alla prosperità di una nazione. Non intendiamo tornarci sopra se non per ribadire che sia sul piano analitico che su quello dell'evidenza empirica il tabù del debito pubblico non regge. Che poi esso sia piuttosto un'arma in mano alla classe dominante per opprimere e ricattare i popoli e che sia necessario il suo ripudio, ce lo ha già raccontato il compagno Sergio Cimino in questo giornale.
Basti pensare al dato di fatto che il Giappone naviga con un rapporto debito/Pil del 220 per cento, contro il 90 per cento nell’area Euro, eppure nessuno dubita sulla sua stabilità finanziaria, e che negli Usa tale rapporto è raddoppiato negli ultimi 10 anni ed è destinato a salire nei prossimi. Allora sbagliano quei politici e quegli economisti che si preoccupano per il nostro debito, e gli speculatori a scommettere sull'instabilità delle economie dei paesi mediterranei? Si e no.
Vediamo perché. Emiliano Brancaccio, in compagnia di altri economisti [1], in diversi suoi lavori, ha sottolineato che il problema maggiore non risiede nel debito pubblico, ma nel saldo della bilancia commerciale, che è la differenza fra le importazioni e le esportazioni di una paese.
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Un testo importante di
Sergio Bologna che
analizza tre libri collettanei pubblicati di recente,
all’interno dei quali, nelle differenze di taglio e di
configurazioni, è centrale
il tema della gratuità del lavoro contemporaneo, cioè la
crisi del “valore” del lavoro (“merce per eccellenza, la
madre di tutte le merci”). Si tratta di: Salari
rubati, a cura di Francesca Coin, Ombre Corte,
2017; Le
reti del lavoro gratuito, a cura di Emiliana
Armano e Annalisa Murgia, Ombre Corte, 2016; Platform
capitalism e confini del
lavoro negli spazi digitali, a cura di Emiliana
Armano, Annalisa Murgia e Maurizio Teli, Mimesis, 2017
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Il gruppo di ricercatrici e ricercatori che in Italia indaga sulla distruzione del lavoro salariato, la precarizzazione, il lavoro gratuito, l’estrazione di plusvalore dalle capacità relazionali e dagli stati emozionali, ha raggiunto ormai un grado di approfondimento analitico e di ampiezza di sguardo, che hanno permesso d’illuminare anche i lati più nascosti di questo universo del lavoro in costante decomposizione. E’ un segmento della sociologia del lavoro che ha raggiunto risultati eccellenti, in buon parte realizzati da ricercatori precari.
Quesito
1
In Italia, nonostante l’assenza di misure universali di sostegno al reddito abbia per molti anni tenuto fuori il paese dal dibattito europeo, ultimamente si sono moltiplicate iniziative regionali (per esempio il reddito di dignità pugliese o il reddito di autonomia piemontese) o amministrative, proposte di legge (quella del Movimento 5 Stelle e quella di SEL, per esempio), iniziative popolari. Anche il ministro Poletti ha recentemente annunciato l’introduzione di un “reddito di inclusione” a livello nazionale. In molti casi la discussione ha riguardato dispositivi molto distanti, nell’impianto e nella filosofia, dal reddito di base incondizionato, presentando caratteri di familismo ed eccessiva condizionalità. In Svizzera, invece, si è recentemente svolto un referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato su scala nazionale. A cosa è dovuto, a suo parere, il ritardo italiano – ammesso e non concesso che di “ritardo” effettivamente si tratti? Come è possibile tradurre politicamente un dibattito teorico che dura ormai da decenni?
Queste
elezioni presidenziali rimarranno nella memoria degli elettori
francesi a lungo. Il paesaggio politico, definito dal 1970 in
poi, è stato
stravolto e i nuovi equilibri restano ancora nell'ombra.
Quello che è certo è che il padronato francese è il vero
vincitore
politico e sociale.
Cinque anni di presidenza socialista
Il 2012, anno delle ultime elezioni nazionali, sembra appartenere ad un'altra epoca storica[1]. Quelle elezioni erano state vissute da molti come una liberazione da un presidente, Sarkozy, che era il più impopolare e filo americano di tutta la storia della Francia. Il risultato di Hollande e della sinistra francese, che andava al governo per la seconda volta durante la Quinta Repubblica dopo l'esperienza di Mitterand, era il risultato di cinque anni di mobilitazioni che erano culminate con il lungo ciclo di scioperi contro la riforma pensionistica che faceva aumentare l'età pensionabile dai 60 ai 63 anni (e duramente repressa dal governo).
Dove sono i tappi per il naso questa volta? Quelli che hanno tollerato tutto ciò che il Partito Laburista faceva sotto Blair, non tollerano nulla sotto Corbyn. Quelli che insistevano che dovevamo votare Laburista a ogni costo – con a portata di mano una molletta per non sentire la puzza dei cadaveri in putrefazione in Iraq – voltano la schiena quanto il partito cerca di recuperare i suoi principi.
Hanno proclamato lealtà imperitura quando il partito era schierato a favore della privatizzazione strisciante del servizio sanitario nazionale, della rinuncia al maggior caso di corruzione della storia britannica, del collasso del programma britannico delle case popolari, dei divieti delle proteste pacifiche, delle detenzioni senza processo, del sequestro e della tortura di innocenti e di una guerra illegale in cui sono morte centinaia di migliaia di persone. Oggi proclamano disillusione quando il partito sollecita la protezione dei poveri, il controllo dei ricchi e la risoluzione pacifica dei conflitti. Quelli che insistevano che William Hague, Michael Howard e David Cameron costituivano una minaccia esistenziale, restano zitti quando il Partito Laburista attacca una leader Conservatrice che fa apparire socialisti i suoi predecessori.
“Francia, i mercati già festeggiano Macron” (Il Corriere della Sera); “I mercati puntano su Macron” (il Sole 24 Ore); “After French Vote, Mainstream Europe Breathes a Sigh of Relief” (The New York Times): così gli organi del capitalismo globale festeggiano lo scampato pericolo: dopo l’elezione di Trump, la Brexit e il referendum italiano che ha bocciato le riforme di Renzi, scrivono ottimisticamente, la piena populista pare avere raggiunto il punto più alto e iniziato a scendere, mentre una nuova generazione di giovani e dinamici leader centristi (l’accostamento fra Renzi e Macron è ricorrente) una volta sbarazzatasi del fardello dei vecchi e screditati partiti tradizionali, di sinistra e di destra, appare in grado di fronteggiare la sfida populista. Nel ricostruire la biografia di Macron, ex banchiere ed ex ministro liberal europeista, non si nasconde l’entusiasmo per questa figura che – mentre riunisce in sé le “virtù” di entrambe le élite (economica e politica) che pilotano la governance europea – promette di imporre con thatcheriano pugno di ferro le riforme che il maldestro Hollande non è riuscito a far digerire al suo popolo.
Ma è davvero giustificato questo sfrenato ottimismo, oppure ha ragione il sito spagnolo La Vanguardia che titola “Macron: la engañosa victoria que tranquiliza”?
Dopo le dichiarazioni del vicepresidente della Camera ed esponente del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, sulle responsabilità delle Organizzazioni Non Governative nel traffico di migranti, sono immediatamente cominciate sui media le esegesi alternative sul documento dell’agenzia europea Frontex che aveva dato origine a quelle stesse dichiarazioni. La parola d’ordine è “minimizzare”, ricondurre il rapporto Frontex al rango di lamentela per le inevitabili agevolazioni per il traffico di migranti che l’attività “umanitaria” delle ONG involontariamente determinerebbe. In questo senso si esprime, ad esempio, il quotidiano “La Repubblica”.
Nulla di più prevedibile di questa levata di scudi dei media a favore delle ONG, se si considera che le stesse ONG, le fondazioni ed in genere il settore del cosiddetto “non profit” (ovvero della non tassazione), con il loro imperialismo “umanitario” svolgono un ruolo decisivo, e complementare al ruolo delle multinazionali, sia nella circolazione internazionale dei capitali, sia nella destabilizzazione dei Paesi attraversati da quella circolazione. L’ultima “manovrina” del governo Gentiloni riconferma tra i suoi provvedimenti persino una “immunizzazione” dall’IVA già decisa lo scorso anno a beneficio delle ONG; ciò a riprova del potere lobbistico del “non profit” ad alibi umanitario.
E così le elezioni francesi sono andate secondo i pronostici: i più votati sono stati Marine Le Pen, rappresentante della destra nazionalista, e Emmanuel Macron, il volto nuovo della politica, europeista e centrista. Il ballottaggio sarà dunque un confronto tra la Francia repubblicana e la Francia xenofoba, con tutti i principali leader politici schierati a favore di Macron, sicuro vincitore.
I più hanno accolto questo risultato con entusiasmo. Certo, i francesi hanno rottamato i grandi partiti di massa, i cui candidati hanno tenuto comportamenti immorali (Fillon) o sono stati incapaci di appassionare gli elettori (Hamon). E tuttavia Parigi si smarca dal trend populista inaugurato da Regno Unito e Stati Uniti: si avvierebbe a rappresentare un punto di riferimento per chi vuole riformare e non affossare l’Europa.
Questa lettura è forse tranquillizzante, ma molto lontana dal cogliere i termini dello scontro in atto, così come il quadro delle forze che lo stanno animando, e l’identikit di chi sta avendo la meglio.
Incominciamo con lo scontro in atto, che riguarda forze a ben vedere meno distanti di quanto si usa dire. Le Pen rappresenta la destra nazionalista e xenofoba, che paventa il rischio di una islamizzazione dell’Occidente, e vuole anche per questo chiudere le frontiere.
Proprio nell’ultima pagina della sua
Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della
moneta (si noti l’ordine decrescente d’importanza) John
Maynard Keynes ha rimproverato gli «uomini della pratica», che
si credono «affatto liberi da qualsiasi influenza
intellettuale», di non essere invece altro che «usualmente
schiavi di qualche economista defunto». Va però detto che il
rimprovero vale anche per tanti “uomini della teoria” che,
incapaci di pensare da sé (che è qualità di pochissime
“eccellenze” che non a caso chiamiamo i grandi del pensiero)
non possono che affidarsi al verbo di qualche loro
predecessore deceduto.
E’ così che nascono le scuole, che so?, dei neoclassici, dei
neoricardiani, degli sraffiani, dei neokeynesiani, dei
neomarxisti e chi
più ne ha più ne metta.
Si tratta comunque di una nemesi necessaria: essendo poche le “teste pensanti” capaci di aprire nuovi percorsi nella mente, mentre tanti sono quelli che praticano il sapere, è giocoforza che i secondi si appoggino ai primi, accontentandosi di ripercorrerne le orme in qualità di seguaci o discepoli.
La lunga
recessione dell’economia italiana – che può datarsi almeno a
partire dai primi anni novanta – si manifesta con una
rilevante
caduta della produttività del lavoro e dunque del tasso di
crescita, le cui cause sono molteplici, una delle quali è
rintracciabile
nell’accelerazione data, nell’ultimo ventennio, alle politiche
di deregolamentazione del mercato del lavoro – anche definite
di
flessibilità del lavoro o di precarizzazione[1].
Politiche che sono state attuate
in Italia con relativo ritardo rispetto ai principali Paesi
OCSE (soprattutto anglosassoni) e, tuttavia, sono state
attuate con la massima
intensità, rispetto a tali Paesi, nel corso degli ultimi anni,
a partire in particolare dalla c.d. Legge Biagi (L.30/2003).
Il dibattito accademico è stato dominato dalla convinzione secondo la quale la deregolamentazione del mercato del lavoro è uno strumento di policy necessario per accrescere l’occupazione in un contesto dominato da crescente volatilità della domanda che le imprese fronteggiano. Solo in anni più recenti, si è fatta strada la convinzione che le misure di deregolamentazione del mercato del lavoro possono avere effetti di segno negativo sull’andamento del tasso di occupazione e costituire un fattore di freno alla crescita economica. Ciò fondamentalmente per due ragioni.
Ontologia: pensiero, sapere, scienza ma anche un
discorso, un dire, un parlare dell’essere
che,
lo sappiamo da Aristotele, può essere nominato in tanti modi,
con i nomi più disparati per via della sua indifferenza e
indistinzione
(Hegel).
Insomma, per capire cosa o chi è in questione nell’ontologia, è al suo nome – proprio o comune non importa – che dobbiamo prestare attenzione. Il nome prescelto ci indica anche il terreno entro cui siamo costretti a muoverci. Così, se questo nome è quello di Dio – si tratta solo di un esempio –, capiamo subito con quale problematica dobbiamo misurarci. Il nome scelto da Negri è invece quello comune di «operaio sociale» o «moltitudine». Se il primo rinvia alla versione operaista del nostro marxismo (il primo ad averlo usato è stato Romano Alquati), il secondo ci porta direttamente a Spinoza, il filosofo olandese che nel ’600 secondo Negri avrebbe prospettato una storia diversa per il nostro Occidente.
A questi due nomi collego le due fasi che secondo me caratterizzano l’ontologia negriana; chiamo debole la prima fase, quella che copre gli anni Settanta e forte la seconda, maturata negli anni Ottanta, tra la galera (’79- ’83) e i primi anni dell’esilio francese. Gli anni Novanta la renderanno per così dire definitiva e compiuta.
Quarant’anni dopo, il ricordo del 1977 sembra ardere di un fuoco freddo, inattuale. L’anniversario tondo impone una stanca memoria che, mai come oggi, segna la distanza con quegli eventi e quelle passioni. Mandato in soffitta tanto il reducismo mitologico quanto il biasimo post-moderno, sembrerebbe essere il tempo della storiografia distaccata. Eppure neanche questa trova trasporto nell’interpretare l’enigma di quel movimento. Quarant’anni più tardi, gli anni Settanta continuano a rimanere avvolti nel mistero. Segno inequivocabile del rapporto tra storia e politica: il disinteresse dell’una sterilizza le potenzialità dell’altra. Eppure l’inattualità evidente del ’77 – al pari dell’altro grande anniversario di questo 2017, la Rivoluzione russa – potrebbe liberare ragionamenti originali, non più piegati alle necessità di legittimazione di questa o quella operazione politica. Il ’77 non è più terreno di contesa tra visioni concorrenti della politica rivoluzionaria. E’ un ricordo pacificato, condannato dagli uni, mitizzato dagli altri, avvolto nel mistero dell’incomprensione tanto negli uni quanto negli altri. Vale la pena allora tornare a pensare il ’77. Perché, è la nostra tesi, se niente appare così tanto distante da quell’anno, molte delle difficoltà odierne nel riproporre una credibile politica antagonista situano le proprie radici in quel movimento, o meglio: nelle interpretazioni postume di quel movimento. Andiamo con ordine.
Persa la Spagna, l’Olanda e la Francia, la socialdemocrazia consuma il suo tramonto inesorabile che nessuno, attualmente, sembra in grado di invertire. Per ignoranza, forse. Per mancanza di coraggio, probabilmente. Per miopia analitica, anche. Eppure, la necessità di una svolta è ineludibile. Come ineludibile appare il rilancio per affrontare il mondo a venire dell’automazione, dei robot e degli algoritmi, dell’accelerazione della finanza e della riforma radicale degli assetti politici europei
Benoît Hamon, il candidato del Partito socialista all’Eliseo, esce di scena dalle presidenziali francesi (e forse dalla vita politica) con un disastroso 6,3%, stritolato tra La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e En Marche! di Emmanuelle Macron (qui il progetto punto per punto, ndr). Era l’ultima chiamata per Parigi. Il nome di Hamon allunga la lista dei leader socialisti “bruciati” dalla difficoltà di definire una proposta alternativa da un lato all’emersione delle forze afferenti alla molteplice galassia del cosiddetto “populismo” e, dall’altro, ai difensori dello status quo che assumono forme sempre più disparate: l’ultima è quella “post-sistema” – del “né di destra né di sinistra” – incarnata dal leader di En Marche!
I precedenti: Spagna, Olanda, Grecia
Prima di Hamon, il segretario del PSOE, Pedro Sanchez, era rimasto vittima dello stallo politico spagnolo, inchiodato nel guado, incapace di scegliere tra una grande coalizione con i popolari di Mariano Rajoy e un governo di svolta con Podemos.
Sul Nuovo Quotidiano di Lecce di domenica 23 aprile è uscita una doppia pagina dedicata al dibattito sul populismo che ospita due lunghe interviste: la prima a Marco Revelli, a partire dal suo ultimo saggio (“Populismo 2.0”, Einaudi), la seconda al sottoscritto, a partire da “La variante populista” (DeriveApprodi). Nelle risposte che diamo a Laura Presicce, che cura entrambe le interviste, ci sono diversi punti di convergenza.
Entrambi rifiutiamo la definizione del populismo come “antipolitica”, affermando al contrario che tale fenomeno rappresenta la forma che assume oggi la politica, sia nelle sue componenti più tradizionali – i partiti storici o ciò che ne resta – sia da parte dei movimenti sociali (nel mio libro ho scritto senza mezzi termini che il populismo è la forma che oggi assume la lotta di classe). Entrambi mettiamo l’accento sul vuoto politico che la svolta in senso neoliberale delle sinistre ha aperto, lasciando totalmente privi di rappresentanza gli interessi, i bisogni, le frustrazioni e la rabbia della massa crescente di cittadini (proletari e classi medie) penalizzati dagli effetti del processo di globalizzazione. Entrambi rifiutiamo la sostanziale assimilazione fra populismi di destra e di sinistra, che ci viene proposta da media e forze politiche tradizionali che chiamano alla mobilitazione contro questi movimenti, presentandoli come un’unica minaccia per la democrazia.
Giornali e telegiornali hanno dato scarso rilievo all’incontro Trump-Gentiloni. Eppure è stato un evento tutt’altro che formale.
Per Gentiloni si trattava di fugare le ombre sull’atteggiamento del suo governo verso il nuovo presidente Usa, lasciate dall’aperto sostegno del governo Renzi (in cui Gentiloni era ministro degli esteri) a Obama e a Clinton contro Trump nelle elezioni presidenziali. Gentiloni c’è riuscito benissimo ribadendo, indipendentemente da chi sieda alla Casa Bianca, l’«ancoraggio storico» dell’Italia agli Stati uniti, «pilastro della nostra politica estera».
Il presidente Trump ha reso merito all’Italia, ricordando che «oltre 30 mila militari americani e loro familiari sono stazionati attraverso tutto il vostro paese» e che l’Italia, dopo gli Usa, «è il secondo maggiore contributore di truppe nei conflitti in Iraq e Afghanistan».
Il contributo italiano è in realtà maggiore di quello riconosciuto da Trump. Lo dimostra la crescente quantità di armi inviate in Medioriente dalle basi Usa/Nato in Italia, ufficialmente per la guerra al terrorismo.
Tali spedizioni sono rintracciabili seguendo il percorso di determinate navi: ad esempio il cargo «Excellent» (battente bandiera maltese, ma con equipaggio italiano), noleggiato dal ministero della Difesa, è partito il 19 aprile da Piombino dopo aver imbarcato un grosso quantitativo di blindati Lince e armi;
Il presente articolo è una riflessione che trae spunto dal materiale didattico preparato dal compagno Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma e presentato ad un seminario “Sull'attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l'Università Popolare A. Gramsci, nell'anno accademico 2016-2017.
In una recente inchiesta, il settimanale l'Espresso [1] documenta il calo del numero dei dipendenti nelle principali aziende italiane negli ultimi 25 anni. L’idea di fondo dell’inchiesta è che l’introduzione delle tecnologie, come la robotica e l’intelligenza artificiale, nel mondo del lavoro, provoca disoccupazione strutturale. Si osserva, in Italia, una riduzione dell’occupazione, che colpisce sia l’industria che il settore dei servizi. Ne conseguirebbe che a lungo termine il lavoro non ci sarà più. Saremmo quindi di fronte alla “morte del lavoro”. In un futuro, più o meno lontano, i robot, sempre più evoluti, potranno rimpiazzare l’uomo in tutti i lavori, compresi quelli che richiedono intelligenza, come ad esempio l’educazione.
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La sinistra e il senso dell'alternativa. La Costituzione come progetto di cambiamento e la lotta per la sua applicazione. Una grande campagna di acculturazione costituzionale nei luoghi di studio e di lavoro
La sconfitta del capo del governo e segretario del Pd nel referendum istituzionale, che ha respinto - dopo quello messo in atto da Silvio Berlusconi - il secondo tentativo di conformare la Costituzione sugli interessi di una minoranza dominante organica al capitale finanziario, è stata clamorosa per effetto di una forte e inattesa (dagli esperti) partecipazione democratica seppure diversamente motivata. E ha aperto una stagione piuttosto convulsa di congressi, di fondazioni e separazioni, nonché di intenzioni spesso divergenti, nello schieramento del sistema politico denominato di sinistra. Cerchiamo allora, prima di tutto, di fare il punto su una situazione che al momento appare piuttosto confusa e tutt’altro che consolidata.
In estrema sintesi, il quadro si presenta ai nostri occhi con i tratti che seguono. È nata Sinistra italiana, fuoriuscita dal travaglio doloroso di Sel, il partito di Nichi Vendola, il cui scopo consiste «nel costruire una sinistra di tutte e di tutti, radicale, credibile, autonoma, popolare». Ma che, nel momento stesso in cui è venuta alla luce, ha perso una parte non irrilevante di se medesima, confluita nelle file di coloro i quali, a loro volta, fuoriusciti dal Pd di Matteo Renzi, hanno dato luogo a un’altra formazione politica. Con travagli più o meno dolorosi come quelli di Massimo D’Alema e poi di Pier Luigi Bersani.
Il
progetto di unificazione monetaria è stato per tutti,
inclusi i piccoli paesi, l’alibi per poter imporre ‘con le
mani legate’
quelle politiche di classe che comunque sarebbero state
portate avanti. Oppure: la sola cosa che tiene
insieme tutte le differenti
componenti capitalistiche europee è la deflazione
salariale che viene garantita dall’Euro. Ancora:
[l’Euro] è uno strumento disciplinante delle classi
lavoratrici (*).
Anche una breve storia dell’Unione Europea attraverso i successivi trattati che la definiscono, pubblicata sulla rivista “Jacobin” (1), arriva a questa conclusione: dalla metà degli anni ’80, l’Unione Europea è lo strumento messo in atto dalle élites per gestire l’economia sottraendola al controllo democratico. Lo aveva detto perfino Mario Monti, nel 1998:
“[…] tutto sommato, alle istituzioni europee interessava che i Paesi facessero politiche di risanamento. E hanno accettato l’onere dell’impopolarità essendo più lontane, più al riparo, dal processo elettorale.” (2)
Insomma, sappiamo la verità sull’Euro e sui trattati europei, sulla loro funzione nel conflitto tra capitale e lavoro, e pure sui loro aspetti antidemocratici; ma non riusciamo a dirla, perché sembra che dichiarare questa verità metta di fronte a delle scelte – se uscire dall’Euro, se uscire dall’Unione Europea – che dividono la sinistra.
“La nostra lotta è
anche una lotta per la
memoria contro l’oblio… una politicizzazione
della memoria che distingue la nostalgia,
che vorrebbe che qualcosa fosse
come era,
un tipo di atto senza utilità, da quel
ricordare che serve ad illuminare e
trasformare il
presente” (bell hooks,
Yearning: race, gender and
cultural politics,
Turnaround, London, 1991)
Costruire subito relazioni sociali senza sessismo, leaderismo, sfruttamento, nei luoghi di lavoro, nella famiglia, nella società, nella vita di ogni giorno. Difendere l’autonomia dei movimenti dalle istituzioni, superare il mito operaista del lavoro ma anche l’idea di sviluppo fondata sullo sfruttamento e sulla moltiplicazione delle merci. C’è bisogno di rimettere al centro l’eredità del ’77: di certo quel movimento non aveva l’obiettivo di prendere il potere. Per questo le classi dominanti non sapevano che pesci prendere. Per questo è ancora indigesto a tanti.
A voti ancora caldi dentro l’urne, confortati da tanto risultato, una moltitudine di commentatori e politici italiani ha già indossato una maglietta nuova di zecca, Je suis Macron ! Molti, che fino a poco prima non conoscevano nulla di lui, né il libro che aveva scritto, ‘Rèvolution’, in cui delineava il suo progetto politico (e che la Nave di Teseo si appresta a pubblicare in Italia), né il libro sulla grande famiglia borghese da cui proviene, ‘Les Macrons’ (Ed. Fayard), sono diventati all’improvviso conoscitori ed estimatori del vincitore del primo turno delle elezioni presidenziali in Francia. Evidentemente sconosciuti i lavori critici della celebre coppia dei sociologi francesi Michel Pinçon e Monique Pinçon-Charlot autorevoli studiosi della struttura di classe della Francia e del ruolo di Macron oggi.
Maria Teresa Meli, che da vestale del renzismo si appresta a diventare in Italia ‘la donna del vincente francese’, ci informa che l’ineffabile ed inarrivabile Matteo Renzi è stato il primo a rivendicare la conoscenza e la stima politica dell’amico Macron’, come già lo definisce, e che è da sempre il suo candidato favorito (da sempre?). La soddisfazione di Renzi è dovuta anche alla sintonia esistente tra lui ed il leader transalpino; il blog renziano non a caso si chiama ‘In cammino’ come En Marche. Tutti e due tentano di superare la ‘vecchia’ divisione tra destra e sinistra, tutti e due vogliono rifondare sia i Trattati che l’Unione Europea.
Tutto il baccano che è venuto fuori dopo le “rivelazioni” del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro sul presunto legame tra alcune ong e gli spacciatori di migranti, ha qualcosa di paradossale e fa esplodere il troppo non detto di questo Paese: il non detto di una xenofobia di fondo che non trova attenuanti nei suoi caratteri patetici e strapaesani, ma anche il non detto di una dottrina dell’accoglienza che appare imposta dall’esterno come viene dimostrato dalla grottesca compresenza di lassismo e crudeltà nella gestione dei flussi migratori. Francamente non so se vi siano effettivamente prove di questi contatti del terzo tipo, né quali siano le ragioni che possono aver indotto un procuratore a fare queste rivelazioni, sempre che non si tratti di una mina ad uso interno, ma la prudenza del Vaticano, massimo esperto in materia, il quale non esclude affatto la possibilità di combine tra ong e trafficanti di esseri umani e dunque va in appoggio al Procuratore, rendono piuttosto deboli le difese per partito preso di certe logiche. Tanto più che dalla Spagna arrivano dichiarazioni di parte ong su presunte attività di supporto per coprire le magagne di Frontex.
Anche in questo caso il fare quadrato attorno a una difesa priva di qualsiasi dubbio, più che al nobile intento di non scalfire la politica dell’accoglienza sembra rivolto a una difesa delle ong divenute col tempo non solo un business gigantesco sotto la coperta del no profit,
Ê il gennaio 1919. Il cielo sopra Berlino è grigio e minaccioso, i tetti delle case sono spolverati di neve. Il gelo morde le mani, ma questo non scoraggia le centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori che da ormai quattro giorni occupano le strade della città. Guidati dalla Lega degli Spartachisti di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, si battono per uno stato socialista che assicuri loro delle condizioni di vita dignitose. L’intera Germania è nel caos sin dall’ottobre dell’anno precedente, quando i soldati dell’esercito imperiale, stufi di fungere da carne da cannone per una guerra a loro estranea, si allearono con la classe operaia affamata e in rivolta. L’autorità dell’imperatore nel frattempo è crollata e la socialdemocrazia, voltando le spalle al malcontento popolare, guida la coalizione borghese che partorirà la Repubblica di Weimar.
In pochi, in quel freddo giorno di gennaio, immaginano di andare incontro alla morte. Di fronte alla “minaccia” di un governo del popolo per il popolo, Friedrich Ebert, presidente della SPD, decide infatti di reprimere la rivolta nel sangue. Senza esitazione, ordina l’intervento dei Freikorps, gruppi paramilitari conservatori precursori delle SA e del nazismo. Meglio equipaggiati, questi hanno rapidamente la meglio sulla popolazione in rivolta.
I tempi sono questi: un vertiginoso aumento della capacità di calcolo ma anche una ignoranza presuntuosa che non distingue tra calcolo giusto e calcolo sbagliato
A parte la mayonese impazzita del finale, l'amaca odierna di Michele Serra, su la Repubblica, riprende una analisi post voto francese molto in voga: quella della separazione città - campagna. In questi tempi incerti, l'uso di analogie va à gogo, nulla meglio del ciclico "eterno ritorno dei concetti" per rincuorarsi sul fatto che il mondo certo va male, ma grazie a dio è comprensibile. La separazione città - campagna si cominciò a produrre tra il 1000 ed il 1250, in Europa, presentandosi come bipartizione dei poteri, delle ricchezze e degli stili di vita tra aristocrazia terriera e popolo contadino legati alla terra e i nuovi abitanti dei borghi, i borghesi, legati all'artigianato ed al mercato. In seguito, divenne la bipartizione tra produzione agricola e produzione industriale.
La riproposizione di questa bipartizione è fallace perché non sono le generiche "città" a votare diversamente dalle campagne ma "la città", la capitale. Londra, New York, Parigi (Berlino no) ovvero i centri fisicamente locati in tre diverse nazioni ma funzionalmente appartenenti ad un nuovo network a-statale che è poi quello della circolazione finanziaria, delle holding, del commercio internazionale, del terziario più avanzato, il cuore pulsante del network "un mercato-un mondo", cosmopolita, giovanile, frizzantino, liberal-civilista, integrato.
Pochi giorni fa, clarissa.it ha pubblicato il documento Venti tesi sulla strategia della tensione. La diciassettesima delle quali afferma: "La strategia della tensione è uno strumento che può essere applicato anche ad altri contesti e noi riteniamo che dalla fine degli anni Ottanta, e ancor prima, essa è stata utilizzata in riferimento al nuovo utile strumento/nemico, il radicalismo islamico".
Lo scorso 28 aprile, è giunta dalla Germania la notizia, ripresa da pochissimi giornali in Italia, che a nostro parere conferma che anche nel caso del cosiddetto terrorismo islamico si sta operando con metodiche ben note a chi ha studiato le tattiche della strategia della tensione praticata in ambito atlantico.
Ovviamente la procura della repubblica di Francoforte, quella che ha dato notizia di questa davvero particolare indagine, parla di una “storia assolutamente fuori dal comune”, ed i giornali si sono prontamente adeguati, manifestando stupore e sconcerto per quanto è emerso - senza per altro porsi ulteriori domande.
Protagonista è infatti un tenente delle forze armate tedesche, di cui non è stato reso noto il nome. L'ufficiale, ventottenne, è in servizio nel 291° Battaglione cacciatori, unità dell'esercito tedesco di stanza a Illkirch, presso Strasburgo, quindi in territorio francese.
La netta affermazione del No fra i lavoratori dell’Alitalia mostra che siamo necessariamente un paese senza futuro solo se accettiamo il pensiero dominante neoliberista
A
riaffermare che
un altro paese è possibile e che non è necessario seguire il
modo di produzione capitalistico nel suo grigio viale del
tramonto, ci
hanno pensato ancora una volta i lavoratori salariati, questa
volta di Alitalia. Nonostante la campagna a tamburo battente
dei mezzi di comunicazione
di massa, del governo e degli stessi sindacati neocorporativi, tutti pronti a
riaffermare che l’unico futuro possibile è la logica nefasta
di difendere il
posto di lavoro sacrificando ulteriormente i salari,
accrescendo disoccupazione e sfruttamento, i lavoratori hanno
risposto con un sonoro No.
Nonostante il governo avesse affermato, il giorno stesso delle
elezioni, che non esisteva alternativa alla logica liberista
imposta dal management
italo-arabo di Alitalia, che la prospettiva di una
nazionalizzazione della compagnia era impensabile, i
lavoratori hanno rivendicato la loro
dignità recandosi in massa alle urne – oltre il 90% di votanti
– e affermando con quasi il 70% dei voti il rifiuto della
perversa
logica del pensiero unico dominante.
Il fondamento materiale dell’ideologia dominante, a dimostrazione che anch’essa ne ha bisogno per apparire credibile, è che non ci sarebbero le risorse economiche necessarie in una fase di crisi.
Il casus belli viene
fornito dalla notizia, riportata da alcuni quotidiani come La
Stampa, La
Repubblica, Il
Messaggero dell’apertura di
un magazzino di Amazon nel nostro paese. Da questa notizia si
farebbe discendere, automaticamente, una “nuova” narrazione
sull’impatto della robotizzazione sul lavoro umano. Il solito
meccanismo lineare che porta a perdere la complessità dei
fenomeni, come
spesso accade nelle discussioni economiche che fermano le
analisi sulla porta della loro fabbrica. Impatti generali,
implicazioni ambientali, risvolti
sui cicli di vita, umani e non, restano espunti perché non
contabilizzati dalle trimestrali delle aziende su cui si
calcola il valore nelle
borse. Ma pesano sulla storia di tutti noi e su quella del
pianeta.
In particolare, in queste ore la nostra attenzione viene richiamata da un’ottima strategia di marketing comunicativo. Personalmente, devo confessare, che l’operazione ricorda molto l’ossimoro della “guerra umanitaria”, uno dei casi di più efficace ingarbugliamento dei sensi percettivi dell’opinione pubblica che la comunicazione militare abbia mai prodotto.
Quella che segue è la relazione sviluppata nella tavola rotonda pomeridiana sul tema: per un patriottismo costituzionale all’assemblea della Confederazione per la Liberazione Nazionale; Roma; 25 aprile 2017(nelle note alcuni temi sviluppati in sede di replica)
1) Come
vediamo partiti vecchi muoiono, movimenti nuovi esplodono
anche in poco tempo. Quindi si può tentare.
Qualsiasi movimento che nasce ha bisogno di un punto di riferimento ideologico, ideale, almeno culturale. Ha bisogno di un catalizzatore a cui riferire tutte le azioni per ottenere un effetto accumulo, per dare un senso generale ad azioni specifiche e parziali che da sole svanirebbero, sarebbero scarsamente efficaci o finirebbero in quadri di riferimento altrui.
Si ha bisogno di un frame, direbbe Lakoff.
Dobbiamo, dunque, creare un quadro di riferimento.
Non solo. Forse dobbiamo “inventare una tradizione” fra vecchio e nuovo, fra passato e futuro.
2) Abbiamo scelto la Costituzione del ’48. Non è, nonostante il risultato del 4 dicembre, una scelta scontata. La storia della Costituzione è tanto travagliata quanto la storia del nostro paese.
Nell'epoca del Maccartismo 2.0, i sostenitori della campagna BastaBufale invocano soluzioni rigide e frettolose di fatto non conformi alla Costituzione
Il 26 aprile a Montecitorio il Presidente della Camera dei Deputati, on. Laura Boldrini, ha convocato quattro tavoli di lavoro sulle cosiddette fake news. Dispiace, ma viene subito in mente la citazione orwelliana sul Ministero della Verità che «ha il compito di produrre tutto ciò che ha a che fare con l'informazione: propaganda di partito, editoria, programmi radiotelevisivi, ma anche la letteratura. Oltre che di realizzarlo, questo ente si occupa di rettificarlo ...»
Fortunatamente la scena non è proprio così drammatica.
L'operazione si colloca infatti all'interno della Campagna "Basta Bufale". Nel sito si definiscono bufale: «quelle a scopo commerciale e di propaganda politica e il giornalismo acchiappaclick» più altri esempi quali «il caso dei vaccini pediatrici, le terapie mediche improvvisate, le truffe online.»
«È necessario mobilitarsi» - si legge ancora - «fare qualcosa per contrastare la disinformazione ... tutelare la libertà nel web» (magari! ndr) ... «a chi vi opera chiediamo uno sforzo aggiuntivo.»
Ma che rapporto c'è tra l'eterno dibattito sull'unità della sinistra e la realtà?
Nessuno, a giudicare dal confronto surreale tra i tre candidati alla segreteria del Pd, la contesa meno interessante della microstoria della politica repubblicana.
Meno di nessuno, se fosse possibile, a giudicare dallo scambio non meno surreale tra Pisapia e Renzi: "Caro Matteo, unisci la sinistra sennò perdiamo", "Caro Giuliano, no: mai coi traditori. Anzi sì, ma solo se D'Alema non viene".
Se si continua così non solo le primarie Pd saranno un flop: ma nessuno andrà a votare alle elezioni vere, che segneranno il record di astensione di sempre.
D'altra parte, perché mai un cittadino dovrebbe interessarsi ad una politica che si interessa solo a se stessa: autoreferenziale, anzi ombelicale, fino alla caricatura? Una riflessione che vale anche per i giornali: non sarà che la continua emorragia di copie vendute si deve al fatto che sempre meno masochisti sono interessati a pagine che si prestano a questo teatro del nulla?
Chiedendo a Renzi di unire la sinistra Pisapia dice una cosa giusta:
Il fatto che la scatenata destra politica venezuelana cerchi con ogni mezzo di provocare un bagno di sangue non cancella la realtà di uno scontro violentissimo tra due élite. C’è quella tradizionale e golpista, allontanata dal potere dello Stato e impaziente di consegnare il paese nelle mani di Donald Trump e c’è la nuova borghesia “bolivariana”, un mix di alti funzionari di imprese pubbliche e dell’apparato statale, militari di alto grado e imprenditori arricchiti all’ombra delle istituzioni, preoccupata solo che tutta la struttura di potere gli cada addosso. Una situazione estrema ma anche emblematica di una drammatica realtà, non certo solo sudamericana, in cui la sinistra politica “realmente esistente” lotta per il potere, appoggiandosi ai settori popolari, solo per installare i suoi quadri nelle istituzioni. Con il trascorrere degli anni e il controllo dei meccanismi di decisione, quei quadri si trasformano in una nuova élite che, generalmente, può spodestare le precedenti, trattare o fondersi con loro. Oppure combinare tutte e tre le opzioni. La polarizzazione destra-sinistra politica è sempre più falsa ma la cosa peggiore è che la sinistra è diventata simmetrica alla destra in un punto chiave: l’ossessione per il potere
Quello che sta succedendo in Venezuela non ha nulla a che vedere con una “rivoluzione” o con il “socialismo”, né con la “difesa della democrazia”e nemmeno con la trita “riduzione della povertà”, tanto per passare in rassegna gli argomenti che si utilizzano a destra e sinistra. Si potrebbe menzionare il “petrolio”, e saremmo più vicini. I fatti indicano tuttavia altre svolte.
Solo poche parole. Jean–Luc Melenchon, nuovo leader della sinistra radicale, non solo ha mancato il ballottaggio di appena 2 punti, sorprendendo tutti, soprattutto quell’informazione che lo aveva completamente trascurato ed esorcizzato in campagna elettorale, ma si è rivelato all’altezza del proprio programma elettorale finalmente in rotta di collisione con le oligarchie europee e atlantiche: ha rifiutato di dare la scontata indicazione anti L Pen e ha dato libera scelta ai propri elettori invece di fare come la sinistra d’accatto francese e continentale che alla fine, dopo tanti fumosi discorsi e propositi impotenti oltre che ipocriti consiglia l’uomo di Rothschild e del Bilderberg per fare contro la Le Pen una barriera.
Finalmente qualcuno dice no ai tic e alle reazioni pavloviane di una sinistra ormai succube dell’egemonia culturale neo liberista, priva dei riferimenti sociali tradizionali, vivacchiante nella piccola e media borghesia improduttiva e aggrappata non alle idee ma a residuati simbolici che nel tempo sono divenuti così astratti e automatici da non rispettare la realtà. Ora la Le Pen potrà pure repellere per le origini di destra, potrà pure suscitare avversione per le tendenze xenofobe, ma mai come Macron che è molto più a destra di lei, senza però avere l’etichetta e sta dalla parte dei presunti accoglienti, quelli peraltro degli sgomberi di Calais, dello stato di eccezione, ma soprattutto quelli che con le loro guerre e la loro predazione sono all’origine delle migrazioni.
Le pesantissime richieste di condanna per il processo su Mafia Capitale non ci convincono né ci rassicurano. Vogliamo dirlo subito evitando giri di parole, preamboli e arzigogoli. Lo affermiamo perché delle connessioni tra criminalità, politica e neofascist i ci siamo occupati a fondo e con largo anticipo sia rispetto all’inchiesta della magistratura che ad iniziative editoriali come “Suburra”. Mentre nel Pd romano c’era chi avviava alleanze trasversali con la destra, il nostro giornale segnalava le numerose connessioni tra il milieu neofascista e la criminalità nella Capitale.
Le condanne tombali richieste dalla requisitoria dei pm nel processo contro il network di Buzzi, Carminati etc. appaiono per un verso sproporzionate ai reati contestati, per un altro un tentativo di legittimazione sul piano penale di una ipotesi – quella dell’associazione mafiosa – che ha solo scalfito, e molto parzialmente, il sistema politico/criminale che imbriglia la vita economica e sociale della città.
La tesi sostenuta dai pm è che su Roma agiva una organizzazione di stampo mafioso che ha diretto, inquinato, determinato appalti e finanziamenti nell’area grigia del “terzo settore”, quello prosperato con la sistematica de/responsabilizzazione dei soggetti pubblici (Comune, Regione, governo) dalla gestione dei servizi sociali e con lo smantellamento dei sistemi di welfare.
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Enrico Grazzini: Tutti i conti dell'Italexit: nessuna catastrofe se l'Italia esce dall'euro
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Questo articolo è stato scritto originariamente in inglese dall’autore, con il titolo From Marx to Mark: Philosophy of History in the Age of Facebook. Qui vi proponiamo la traduzione. La versione originale è consultabile a questo indirizzo
Secondo il fondatore di Facebook, la storia non è più storia di lotte di classe. Lo è stata, ai tempi dell’occidente imperialista, dell’industria del carbone e dell’architettura del ferro. Oggi, ai tempi della crisi economica, del mondo senza centro, dell’informatica e dei social network, la storia è diventata altro.
I filosofi gettavano sguardi sulla storia universale e offrivano interpretazioni complessive del suo sviluppo: filosofie della storia. I filosofi erano immancabilmente al centro, se non al culmine, della storia stessa. Oggi, nel mondo plurale e senza egemonia occidentale, all’avvento della quarta rivoluzione industriale, dell’abolizione dello spazio e della continua accelerazione, l’occidente ha trovato altri profeti. Ai seriosi ritratti di un Hegel o alla barbuta espressione di un Marx si è sostituita la glabra babyface di uno Zuckerberg. “Zuck” per gli amici.
In un post pubblicato di recente il CEO di Facebook racconta la sua visione per il futuro della sua azienda.
Tutto se scorda. Ogge
si’ tu: dimane sarrà:
e po’ n’ata, chi sa, si
tiempe ce rummane
Salvatore Di Giacomo (1860-1934)
Era prevedibile. Nonostante il gran rumore che aveva accompagnato il suo arrivo, Travicello Gentiloni rimane al suo posto, silenzioso. Come scriveva il buon Giusti: calò nel suo regno con molto fracasso … ma subito tacque limitandosi a galleggiare placidamente. Nessuno pare in grado di sostituirlo in questa situazione indubbiamente agitata e difficile. D’altro canto le decisioni vengono prese comunque elsewhere. Dunque un uomo inutile è a ben vedere la scelta più oculata, dopo l’inatteso tifone del 4 dicembre e in attesa che ritorni la calma rotta dall’incauta sfida imposta da Renzi. E’ vero che un uomo inutile non risolve il problema, ma almeno non crea danni. Per il potere, al momento, è sufficiente.
Oggi l’opposizione è fragile, divisa, dominata dalla paura e dall’impotenza. Il desiderio di cogliere l’occasione favorevole e di rimuovere ogni residuo ostacolo induce l’apparato di comando in tentazione.
Il neoliberismo è caratterizzato da
politiche di basso costo della manodopera, riduzione della
spesa pubblica, precarizzazione del lavoro e viene realizzato
tramite un braccio armato, il
FMI, e in Italia attraverso il PD.
Essendo una scelta ideologica si irradia a tutto campo nella società e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti e permeano anche la vita delle persone, addirittura entrano nella loro quotidianità. La miseria è sempre più grande nelle società così dette economicamente più avanzate e in particolare in quelle occidentali così come l’aumento del divario tra i redditi e la progressiva scomparsa degli universi autonomi di produzione culturale. E’ inaudito il cumulo di sofferenze prodotte da questo regime politico ed economico là dove si è imposto. Il termine regime non è usato casualmente e tanto meno eccessivo perché tale è il sistema politico in cui viviamo. E come tutti i regimi l’informazione è univoca e caratterizza tutti i media. Ma per l’Italia ha anche tratti di paese colonizzato dove le decisioni vengono prese altrove e gran parte della ricchezza prodotta espropriata dalle multinazionali.
Chiunque decida di approfondire le tesi euro-critiche si imbatterà prima o poi nel suo Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (Imprimatur). In quel testo Vladimiro Giacché, presidente del Cer (Centro Europa Ricerche), racconta le ricadute economiche e sociali dell’unione monetaria tedesca del 1990, col marco orientale rivalutatosi del 350% in una notte. In un primo tempo i tedeschi dell’Est si sentirono più ricchi (il loro potere d’acquisto era aumentato). Poi però si accorsero che i prodotti delle loro fabbriche non avevano più mercato e in breve tempo molti persero il lavoro. La loro economia, che pure era la più avanzata tra quelle del blocco comunista, collassò.
Quella vecchia storia c’entra molto con gli attuali problemi dell’euro, non solo perché alcuni protagonisti sono gli stessi (Schäuble, per esempio), ma perché insegna che la moneta non è un fatto neutro, anzi. «Può alterare in maniera drammatica i rapporti di forza tra le parti che la abbracciano, soprattutto quando tra loro c’è un notevole differenziale di produttività», spiega Giacché.
* * * *
In un primo tempo lei aveva guardato all’euro con speranza…
«Mi sono ricreduto riflettendo su due aspetti. Anzitutto, sulla crisi europea: a differenza di quel che è stato detto, non nasce dall’eccesso di debito pubblico, ma da squilibri di bilancia commerciale. E questi squilibri, come la letteratura scientifica a dir la verità aveva previsto, sono un effetto della moneta unica».
Nelle ultime pagine delle Origini del totalitarismo, riflettendo sulle condizioni che possono predisporre l’avvento di un regime totalitario, Hannah Arendt individua in particolare quella che chiama loneliness (termine che viene distinto sia da isolation sia da solitude). La desolazione, cioè la situazione in cui un singolo si sente “abbandonato [deserted] da ogni umana compagnia”, è ciò che, se inizia a presentarsi come un sentimento ordinario e diffuso in una società ancora non totalitaria, “prepara gli uomini alla dominazione totalitaria”. Non si tratta semplicemente della solitudine anonima di cui si può fare esperienza per esempio negli spazi, al contempo sempre affollati e sempre deserti, dei centri commerciali o delle tangenziali congestionate dal traffico, bensì della sensazione per cui ogni condivisione, ogni comunanza sembra divenuta per principio impossibile.
Non c’è da stupirsi che un sentimento del genere sia ancora ben presente nelle nostre società contemporanee, se è vero che può essere considerato come il risultato di una serie di dispositivi che, negli ultimi trent’anni almeno, hanno promosso la distruzione sistematica non solo di ogni organizzazione sociale e politica, ma quasi della stessa possibilità di pensarsi in comune. La logica e la strategia di questi dispositivi di individualizzazione è evidente: dissolvere aggregazioni collettive potenzialmente capaci di mettere in discussione l’ordine stabilito, ed evitare che si ricostituiscano.
In forma non ufficiale, il M5s ha avanzato una proposta di mediazione sulla riforma elettorale, per bocca del vice Presidente della Camera Luigi di Maio, poi parzialmente rettificata da Danilo Toninelli. Sostanzialmente si tratterebbe di un rifacimento dell’”Italicum” renziano rispetto al quale si operano queste variazioni:
a. abolizione dei capilista bloccati
b. aumento della soglia di sbarramento al 5%
c. abbassamento del limite per ottenere il premio di maggioranza, dal 40 al 35%
La prima misura è decisamente condivisibile: i capilista bloccati sono una bruttura. Però si tratta di un passo insufficiente, perché, bloccati o no, i capilista hanno sempre un vantaggio sugli altri, perché sono invitati più spesso in Tv o sui giornali, godono del vantaggio di immagine di “rappresentare il partito”, o anche semplicemente di avere il numero 1 che diversi elettori votano in automatico. Per cui, se non si mette mano all’assurda divisione del territorio in 100 circoscrizioni di 5/7 candidati l’una, si ha lo stesso un Parlamento in larga parte di “nominati” che hanno avuto il posto di capolista per grazia ricevuta.
Mentre molti governi, per rispettare stringenti vincoli di bilancio, comprimono spesa e servizi pubblici, una parte significativa della ricchezza delle nazioni sfugge a qualsiasi forma di tassazione. Invece di contribuire al funzionamento dello Stato, di finanziare investimenti produttivi, viene occultata nei paradisi fiscali. Esente da qualunque forma di tassazione, accresce la ricchezza di una parte esigua della popolazione mondiale e, nello stesso tempo, contribuisce all’instabilità finanziaria internazionale e all’aumento delle disuguaglianze. Quant’è grande la ricchezza nascosta nei paradisi fiscali offshore? Perché i paradisi fiscali costituiscono una minaccia all’uguaglianza e, in una certa misura, anche alla democrazia? Cosa si può fare per contrastarli? A queste domande risponde chiaramente Gabriel Zucman, economista dell’Università della California a Berkeley, nel suo libro La ricchezza nascosta delle nazioni. Indagine sui paradisi fiscali, add editore, 2017. Il contrasto all’opacità finanziaria, scrive Thomas Piketty nella prefazione al libro, è una delle principali sfide dei governi. Qualcosa è stato fatto; molto resta da fare.
La ricchezza nascosta delle nazioni
Stimare la ricchezza sottratta al fisco e occultata nei paradisi fiscali di tutto il mondo non è semplice.
Lo splendore del nero. Filosofia di un non-colore è il titolo del libro di Alain Badiou, appena pubblicato da Ponte alle Grazie nella traduzione di Michele Zaffarano: filosofia sostituisce il francese éclats, propriamente: schegge, frammenti autobiografici e notazioni artistiche e scientifiche sul tema del nero.
L'autobiografia prende avvio con un cupo «nero militare», il nero della notte invernale nella camerata in cui la stufa nera a carbone è stata appena spenta per evitare il pericolo del monossido di carbonio e i soldati «insalsicciati» nelle ruvide coperte militari intonano la canzone di Johnny Halliday, Noir, c'est noir!
Ma i ricordi del servizio militare rimandano ancora più indietro, all'infanzia: al gioco nel quale il buio più completo nasconde qualcosa che non si deve vedere, sapere e ricordare, qualcosa che, quando si accende la luce, propriamente non c’è più; alla paura di un cane nero che ti segue nel buio della notte su un sentiero di montagna; al nero del sesso, sfumato da una nuvoletta bianca, nelle riviste pornografiche del tempo.
Perché essere ecologista, femminista, queer, antirazzista, antispecista ecc. non fa di te un anticapitalista
1.
Amici, ancora uno
sforzo se volete essere anticapitalisti
Intendo scontare con un lavoro quanto più possibile analitico e mirato la pretenziosità del titolo di questo intervento, in cui, prometto al lettore, cercherò di tenermi lontano dal tipo di slogan che affliggono così spesso i testi di filosofia politica radicale, tanto più quanto essi si elevano a considerazioni di ordine generale.
Sono assolutamente convinto che costruire una prospettiva socialista che sia in grado di raccogliere e rilanciare il frutto di esperienze di lotta diverse come il femminismo, l’ecologia, la teoria queer o l’antispecismo sia un’ottima cosa. Tuttavia, il tema della cosiddetta “convergenza delle lotte” mi pare circoli da tempo sufficiente per poter cominciare a dire che non abbia prodotto risultati esaltanti, né da un punto di vista teorico, né pratico.
In quanto segue proverò a dare una spiegazione del perché concentrandomi su quelli che mi sembrano essere i tre vizi principali dei movimenti anticapitalisti. Anzitutto, essi non sono affatto “anticapitalisti” o, se lo sono, lo sono in modo molto generico e confuso. In secondo luogo, il tema della “convergenza delle lotte” segue un modello, altrettanto discutibile, che passa sotto il titolo di “intersezionalismo”.
La schiavitù non è un rottame del passato, ma un’istituzione riportata in auge dal capitalismo del Terzo Millennio
La schiavitù del
capitale (Bologna 2017) è il nuovo libro di
Luciano Canfora, che stupisce sempre per
l’ampiezza della sua
cultura e per la lucidità delle sue analisi, le quali
delineano un quadro complessivo e sintetico delle prospettive
storiche che abbiamo
davanti a noi. Inoltre, si può cogliere tra le righe il
piacere che prova lo studioso italiano, svolgendo il suo
attento lavoro di ricerca,
anche se da esso emerge un disegno drammatico.
La schiavitù del capitale è un saggio breve (111 pagine), nel quale vengono individuati in maniera precisa i gravissimi problemi della società contemporanea, che sarebbe caratterizzata dal “ritorno in grande stile del fenomeno della schiavitù come anello indispensabile del ‘cosiddetto capitalismo del Terzo Millennio’” (p. 69). Questo ritorno non deve meravigliarci, giacché conferma quanto sosteneva Aristotele: “la necessità e l’eternità della schiavitù” (p. 68).
Secondo Canfora la partita che è stata giocata nel corso del Novecento, iniziata con la Grande Guerra, è stata vinta da chi sfrutta e gli sconfitti sono stati gli sfruttati, ma è stato un grave errore credere che questa vicenda abbia posto fine alla storia.
Prefazione al libro di Marco Fama, Il governo della povertà ai tempi della (micro)finanza, (Ombre Corte)
Io non
consiglio pertanto la Vostra Grazia di
proteggere il popolo che si
rifiuta di pagare
gli interessi o di impedirgli di pagarli, perché
non
si tratta di un onere che un principe nel suo diritto
fa pesare sul
popolo, ma di un tormento ch’esso si
è preso
volontariamente. Dobbiamo quindi tollerare
tutto ciò e
impegnare i debitori al giusto pagamento
e non permetter loro di
essere indulgenticon sé stessi
o di cercare un rimedio a
loro vantaggio, ma porli
sullo stesso piano degli altri uomini.
(Martin Lutero,
risposta a Federico di
Sassonia, 18 Giugno 1524)[1].
Spesso la legittimazione dei poteri, e del conseguente sfruttamento, trae linfa dalla confusione. Leopardi annota che “il dare al mondo distrazioni vive, occupazioni grandi, movimento, vita; il rinnuovare le illusioni perdute ec. ec. è opera solo de’ potenti.”[2]
Una leggenda gira per l'Europa: che, alle presidenziali francesi, Marine Le Pen fosse (e sia) il candidato preferito da Vladimir Putin.
La leggenda non ha alcun solido fondamento ma, a forza di essere ripetuta, è diventata una di quelle certezze che non vengono neppure messe in discussione.
Già la sera del primo turno, il direttore della Stampa intratteneva il pubblico de La7 sulla "strategia russa di indebolire dall'interno l'Occidente e i paesi della Nato" e che proprio per questo Putin avrebbe "apertamente sostenuto Le Pen".
A parte il fatto che quel "apertamente" si riduce a una photo opportunity scattata al Cremlino un mese prima del voto e a certi presunti, e mai chiariti, finanziamenti che, anni fa, sarebbero arrivati da Mosca al candidato del Front National - a parte questo, l'idea che la Russia stia dietro i candidati anti-sistema (quindi non solo Le Pen, ma anche Jean-Luc Mélenchon) nasce da una profonda incomprensione della attuale politica russa nei confronti dell'Europa.
La Russia è oggi, culturalmente e geo-politicamente, una potenza conservatrice dello status quo. La sua azione in Crimea, dopo il colpo di stato a Kiev, fu una reazione a quello che venne percepito come un tentativo di destabilizzare l'equilibrio delle forze ai suoi confini.
Come in tutte le saghe che si rispettino, è difficile precisare quando divampò l’inizio della fine, ovvero quando gli studiosi sociali del mercato del lavoro cominciarono a far danno alla comprensione dei processi macroeconomici.
L’inizio non era stato malvagio: la trattazione manualistica della determinazione del reddito e dell’occupazione risultava monca di una teoria dei prezzi. Il mercato del lavoro consentiva di sopperire a questa carenza: poiché l’andamento della disoccupazione influenzava, verosimilmente, quello dei salari e questi ultimi, in mercati oligopolistici, la fissazione del prezzo da parte delle imprese; era dunque possibile “chiudere” il modello reddito-spesa. Eravamo all’universalizzazione della Curva di Phillips, uno strumento interpretativo semplice, ma efficace.
Ancora: poiché in un’economia capitalistica, labili e mutevoli appaiono i confini tra occupati, disoccupati e inattivi, era necessario approfondire i metodi di stima e le cause di passaggio tra le diverse segmentazioni, in primis tra inattività e segmentazione. La teoria del “lavoratore scoraggiato”, in Italia ripresa da Salvatore Vinci e Giorgio La Malfa, è una buona declinazione di questo filone di indagine.
Ecco la conta delle vittime del più recente terremoto geopolitico che sta affliggendo l’Occidente: il Partito Socialista in Francia è morto, la Destra tradizionale è in coma, quello che era l’estrema sinistra è ancora viva e vegeta .
Ma ciò che si supponeva essere uno shock del nuovo, non è esattamente uno shock. Più le cose virano verso un cambiamento (in cui possiamo credere), più rimangono le stesse. Ecco la nuova normalità: il “sistema” riciclato (di Emmanuel Macron) contro “la gente” (del Front National di Marine Le Pen), in lotta per la presidenza francese il 7 maggio.
Anche se questo era il risultato atteso, è comunque significativo. Le Pen, ri-battezzata “Marine”, ha raggiunto il secondo turno del voto malgrado una campagna elettorale mediocre.
Essenzialmente lei ha ri-assemblato – ma non ampliato – la
base dei suoi elettori. Sulla testata Asia
Times [in
inglese], ho sostenuto che Macron non sia altro che un
prodotto artificiale, un ologramma meticolosamente
confezionato, costruito per vendere
un’illusione.
Solo degli irriducibili naif possono credere che Macron
incarni il cambiamento, quando lui è il candidato
dell’Unione Europea, della NATO, dei mercati finanziari, della
macchina Clinton-Obama, dell’establishment francese, di varie
oligarchie
economiche e dei sei più grandi gruppi dei media
corporativi francesi.
Da quando negli anni venti del nuovo millennio la flessibilità genetica ha risollevato le sorti dell’economia e dell’occupazione, la Festa del Primo Maggio è dedicata alla preziosa opera dei Laboratori di Ingegneria che ogni giorno modificano migliaia di risorse umane secondo le richieste del mercato, sempre operando sul DNA di soggetti adulti e mai di embrioni, nel pieno rispetto dei dettami della Chiesa Cattolica
Gli operai multibraccia, i centralinisti multiorecchie, gli edili dallo scheletro gommoso che cadendo dalle impalcature rimbalzano al loro posto, i petrolchimici che respirano metano, le badanti poliocchiute e quelle multifiga, i metalmeccanici metallizzati, ormai sono milioni coloro che devono il loro posto di lavoro alla geniale opera dei Laboratori, e ai relativi nuovi Contratti Mutanti.
Oggi gli imprenditori non devono più preoccuparsi di arcaiche assurdità come le norme di sicurezza, gli operai ignifughi non necessitano di misure antincendio, e non c’è turno che un operaio auto-anfetaminico possa considerare troppo usurante.
Non più una fabbrica a misura d’uomo, ma un uomo a misura di fabbrica, letteralmente.
La disoccupazione non è più una condizione avvilente che grava sulla collettività, ma solo una breve transizione fra una riconversione genetica e l’altra.
«L’Italia partecipa a testa alta all’Alleanza Atlantica, nella quale è il quinto maggiore contributore, e conferma l’obiettivo di raggiungere il 2 per cento del Pil nelle spese militari»: lo ha dichiarato il presidente del consiglio Gentiloni.
Proprio ricevendo il 27 aprile a Roma il segretario generale della Nato Stoltenberg. Ha così ripetuto quanto già detto al presidente statunitense Donald Trump, ossia di essere «fiero del contributo finanziario dell’Italia alla sicurezza dell’Alleanza», garantendo che, «nonostante certi limiti di bilancio, l’Italia rispetterà l’impegno assunto».
I dati sulla spesa militare mondiale, appena pubblicati dal Sipri, confermano che Gentiloni ha ragione ad andare fiero e a testa alta: la spesa militare dell’Italia, all’11° posto mondiale, è salita a 27,9 miliardi di dollari nel 2016. Calcolata in euro, corrisponde a una spesa media giornaliera di circa 70 milioni (cui si aggiungono altre voci, tra cui le missioni militari all’estero, extra budget della Difesa). Sotto pressione Usa, la Nato vuole però che l’Italia arrivi a spendere per il militare il 2% del Pil, ossia circa 100 miloni di euro al giorno.
Su questo, Trump è stato duramente esplicito: ricevendo Gentiloni alla Casa Bianca, riferisce lui stesso in una intervista alla Associated Press, gli ha detto: «Andiamo, devi pagare, devi pagare…».
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Salvatore Palidda: Appunti per una epistemologia della conversione liberista della “sinistra”
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I
risultati
delle presidenziali
I risultati più evidenti delle elezioni presidenziali francesi sono tre:
1) La crisi del Partito popolare europeo e del Partito socialista europeo, già evidente in tutta Europa, in Francia diventa crollo, come già accadde in Grecia; il Partito socialista (Ps) e i repubblicani, per la prima volta, non accedono al ballottaggio. La crisi dei due principali partiti francesi, su cui si basava la tradizionale alternanza bipartitica e che sono stati espressione politica dell’élite francese, è direttamente connessa con le politiche europeiste di austerity di cui sono stati esecutori bipartisan. La crisi del bipartitismo è espressione della crisi dell’integrazione europea, in particolare di quella valutaria, che aumenta le divergenze economiche. La Francia, nonostante altri paesi come la Grecia abbiano pagato un costo sociale molto più, alto, è forse il paese che ha subito la decadenza relativa, sia politica sia economica, maggiore, specialmente rispetto alla Germania.
2 ) Il settore di vertice della classe dominante francese, fortemente internazionalizzato, ha risposto in modo "gattopardesco" a questa "crisi di egemonia" del bipartitismo, che lo lasciava senza referenti politici diretti, con l'abile operazione "Macron".
Un libro
scritto da cinque autori che
ripercorre per lo più con taglio storico-ricostruttivo il
periodo della storia europea che va dall’unificazione della
Germania e la
stipula del Trattato di Maastricht ad oggi, con un
prequel curato da Somma sulla storia del processo di
unificazione a partire dal 1957.
In particolare il saggio di Leonardo Paggi, p.23 che apre il libro, inquadra Maastricht nel contesto del processo di unificazione tedesco, e l’atteggiamento delle élite italiane, in particolare di quella parte della tecnocrazia raccolta intorno a Bankitalia, quindi le politiche del lavoro degli anni novanta (Dini ed il “Pacchetto Treu”) e la particolare cultura della stabilità informata da tecniche astratte e, infine, la scomparsa del politico nella scissione tra legalità e legittimità democratica. Il saggio di D’Angelillo (p.153) focalizza i processi visti dal punto della Germania, quindi l’evoluzione dai tempi del “Model Deutschland” (ben descritto nel suo “La Germania e la crisi europea”), e poi l’evoluzione avuta con l’unificazione, la crescita dei Bric e il periodo post 2010, con l’ascesa a posizione egemone. Il saggio di Aldo Barba (p.124) ridescrive questi fenomeni sotto il profilo del funzionamento del modello economico, evidenziando come per i capitalisti sia preferibile una crescita frenata ad un basso saggio di profitto, e le divergenze di interesse tra la società che vuole poter disporre di beni da consumare e la logica del capitale che punta ad auto accrescersi.
La Francia Non Sottomessa giocherà le sue carte già alle legislative di giugno. Plastique Macron il Thatcheriano sconterà molte contraddizioni
Ho letto da sinistra diverse critiche alla scelta che ha fatto il più eminente rappresentante della 'gauche', Jean-Luc Mélenchon, ossia: non appoggiare Emmanuel Macron in vista del ballottaggio che ha consegnato a quest'ultimo e ai suoi facoltosi burattinai le chiavi dell'Eliseo.
I critici sottovalutano la portata del tema scelto da Mélenchon per dare un nome alla sua campagna: La France Insoumise, ossia La Francia non sottomessa. Mélenchon ha rotto l'eterno ricatto del "voto utile" con cui la sinistra si mette sotto padrone e si fa distruggere, come è accaduto in Italia.
Non sottomettersi significa che la paura del lepenismo odierno non deve implicare il doversi mettere direttamente nelle mani dei progetti disumanizzanti di Jacques Attali e degli altri creatori di Macron.
In vista delle elezioni legislative di giugno, Mélenchon si presenta ora come ispiratore di una forza autonoma, indipendente, in grado di espandersi presso l'area vastissima del voto che per l'elezione presidenziale ha scelto di astenersi.
Grazie al diabolico del sistema elettorale francese — non a caso quello che Renzi tentava di affibbiarci con l'Italicum— una minoranza ha espugnato in Francia la presidenza della repubblica. Macron aveva infatti ottenuto, al primo turno, 8 milioni e mezzo di voti, meno di un quinto degli aventi diritto.
Ha vinto grazie al meccanismo ricattatorio del ballottaggio, superando il 65% dei consensi, ovvero quasi 21 milioni, che non fanno comunque la maggioranza, visto che i francesi aventi diritto dono 47 milioni e mezzo.
Peggio è andata alla Le Pen, che con 10 milioni e mezzo di voti al secondo turno di ballottaggio, ha incassato circa un quarto dei consensi.
Tuttavia, rebus sic stantibus, Macron ha vinto di larga misura. Per questo le élite euro-liberiste, a nome e per conto della cupola finanziaria mondialista, tirano un grosso sospiro di sollievo. Ora la prova decisiva sono le elezioni parlamentari di giugno. Riuscirà Macron a vincerle? Non è detto. Potrebbe essere costretto alla cosiddetta "coabitazione", ovvero a fare i conti con una maggioranza parlamentare a lui ostile. Risultato molto probabile, ciò che getterebbe la Francia nella instabilità politica italian-style.
Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’ “estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro.
Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014? E cosa ci si può aspettare da corpi elettorali sistematicamente frastornati da un’ informazione divenuta cane da guardia del gregge e sempre più composti dalle generazioni perdute, rassegnate alla precarietà, votate al dilettantismo e orgogliose di “spiccicare” in inglese per poter imitare modelli di subordinazione e di primitivismo antropologico?
Le elezioni francesi ci permettono di precisare quanto abbiamo detto in questi anni in tema di UE ed Euro, mettendo a fuoco le idee che si sono rivelate adeguate ai fatti e correggendo gli inevitabili errori.
Abbiamo sempre scritto che il sistema Euro/UE sarebbe diventato il punto cruciale dello scontro politico, e che l'impoverimento generale, la perdita di diritti e di democrazia che esso genera avrebbe causato la crescita di movimenti di contestazione, fino alla sua probabile dissoluzione. Ci sembra di poter confermare questa impostazione. Non avevamo però tenuto conto della lentezza di questi processi e della capacità del sistema di generare al proprio interno soluzioni conservative. Di fronte alla crescita del consenso alle posizioni antieuriste, la reazione dei ceti dominanti si sta concretizzando nella creazione di personaggi artificiali come Renzi in Italia e Macron in Francia. In questi paesi, così come in Grecia con Tsipras, l'elettorato si allontana dai propri riferimenti tradizionali, ma si lascia affascinare da leader che hanno tutti caratteristiche simili: giovane età, apparente distanza dall'establishment, posizioni euriste. Grazie a questa mossa, vincente nel breve termine, i ceti dirigenti euristi hanno guadagnato tempo, col quale possono proseguire nell'opera di impoverimento dei ceti subalterni, di distruzione dei diritti, di svuotamento della democrazia.
A distanza di cinque anni, potrei riscrivervi lo
stesso post: stesso sospiro di sollievo, stessa
esultanza dei piddini, stessa retorica dell'"adesso si cambia
sul serio"... Non lo scrivo
perché questa volta lo ha fatto Marcello Foa (qui), e non credo ci
sia moltissimo da aggiungere alla sua analisi.
Vi ricordo che dopo la "svolta" di Hollande, da noi prontamente inquadrata come fasulla, all'Economist occorsero sei mesi per capire che aria tirava (la famosa copertina), e due anni dopo erano tutti d'accordo con noi: il compagno Hollande l'Europa non l'aveva cambiata (ci facemmo un altro QED, il 27°). È un po' desolante constatare quanto sia vero che la storia insegna ma non ha allievi. Di lezioni, da quanto è successo, se ne potrebbero trarre molte. L'elemento più interessante dal punto di vista politico è il suicidio della Le Pen in diretta televisiva nel corso del secondo dibattito. Io non so che dibattito abbiano visto molti di voi. Io ho visto quello in francese, nel quale fin dalle prime battute la Le Pen ha percorso una strada chiaramente inefficace. Non ho idea del perché l'abbia fatto. Temo però che la risposta sia sempre la solita: fare l'opposizione al proprio governo nazionale è un mestiere molto più comodo che non opporsi allo Zeitgeist.
Ieri, la guerra contro i poveri inaugurata dal governo PD col decreto Minniti, ha fatto la sua prima vittima. Nian Maguette, un lavoratore ambulante senegalese di 54 anni, è morto mentre veniva inseguito dagli agenti in borghese dell’”Unità Operativa Sicurezza Pubblica ed Emergenziale”, una squadraccia messa in piedi dall’attuale vicecomandante dei Vigili Urbani, Antonio Di Maggio, e che da alcuni mesi viene impiegata per fare il “lavoro sporco” in città. Sfratti, sgomberi, caccia all’ambulante… a Roma chiunque vive nel “mondo di sotto” sa bene come lavora questo “corpo d’elite” della municipale composto da mancati poliziotti frustrati. Non fatichiamo quindi a credere ai racconti degli altri lavoratori sugli inseguimenti per le vie di Trastevere. Sono scene abituali, così come i pestaggi o le minacce o le “scoattate” davanti ai picchetti antisfratto. Dunque, mentre i media già provano a ridimensionare tutto, a parlare di “tragica fatalità”, una cosa deve essere chiara: che Nian sia morto perché investito da una moto guidata dagli agenti in borghese, come raccontano alcuni ambulanti, o perché colpito da un infarto, come invece sostiene la Questura, cambierà forse l’aspetto penale della vicenda, ma non certo quello politico e sociale. Senza la retata per il decoro urbano, senza la caccia all’uomo delle squadracce di Di Maggio, Nian sarebbe ancora vivo e potrebbe tornare a casa dalle sue due figlie.
Nel suo libro sull'euro (The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe) J.Stiglitz si spinge ad affermare che un divorzio amichevole fra gli stati membri dell'UME costerebbe meno rispetto agli ingenti costi di una prosecuzione che non contempli la messa in comune delle politiche economiche e non contempli istituti come una garanzia comune contro la disoccupazione, la condivisione del rischio finanziario tramite gli eurobonds e l'unione bancaria. La sua attuale posizione mi pare condivisibile.
Se per permanere all'interno di un'area neomercantilista occorre condannare i paesi membri a un futuro di bassi livelli della domanda interna, di disoccupazione e di lavoro precario, meglio una scissione consensuale. In particolare, se questo fosse l'esito, bisognerebbe fare il possibile per contenere il trauma, dovuto alla reazione dei mercati finanziari, sullo stato patrimomiale dei residenti e del settore bancario. Occorrerebbe poi una virata politica e culturale di 180 gradi da parte della classe dirigente, tuttora irretita dalla dottrina dell'efficienza del mercato, la quale dovrebbe tornare a maneggiare gli strumenti della politica economica.
L'unica vera novità, dopo l'amara gestione del caso greco, è stata la sterzata di politica monetaria attuata dalla BCE presieduta da Draghi.
Introduzione di Remo Bodei (Università
della California,
Los Angeles) al recente volume di Emiliano Alessandroni,
Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti
della
trasformazione, Mimesis, Milano 2016, pp.
202.
Pubblicato su “Materialismo Storico.
Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, n° 1-2/2016, Questioni e metodo
del materialismo storico, a cura
di S.G. Azzarà, pp
331-334.
Le ripetute crisi che affannano il cammino della modernità tendono ad investire, per tutto il corso della loro durata, numerosi aspetti dell'esistenza umana: condizioni materiali e produzione spirituale, forme del diritto e dell'arte, filosofia e letteratura, generando spesso, nelle anime più sensibili o negli strati sociali più colpiti, un forte desiderio di cambiamento. Ma perché le cose cambiano? E come avviene di fatto la trasformazione? Ovvero, come realizzarla? Nella convinzione che essa venga favorita promuovendone non tanto il desiderio soggettivo, quanto piuttosto la comprensione dei funzionamenti oggettivi, questo volume tenta, a partire da Hegel, di esplorarne i meccanismi interni, cominciando in primo luogo dall'analisi dei suoi elementi fondamentali: i soggetti, la volontà, l'azione. Si tratta di uno studio che getta luce su molti problemi teorici del nostro tempo, ma anche su diversi lati del pensiero hegeliano, illustrato con semplicità e rigore. Autori come Fichte, Sartre, Gentile, Massolo, Severino vengono chiamati in causa per il confronto.
Ci si chiede spesso cosa spinga i francesi a votare per Marine Le Pen. Una spiegazione ricorrente è “la rabbia”: la rabbia dei cittadini contro gli immigrati, le minoranze, i musulmani, ecc. Ciò dipende dal fatto che i media propendono a classificare il Front National fra i partiti xenofobi e razzisti.
Questo punto di vista è rafforzato dal fatto che i candidati che hanno preso più voti al primo turno, Emmanuel Macron e Marine Le Pen, hanno due posizioni molto diverse sull’immigrazione. Tuttavia, essi differiscono molto anche sul piano economico. Macron, in continuità con i suoi predecessori di “destra” e di “sinistra”, propone un programma in linea con l’agenda “neoliberale” che prevede una “liberalizzazione” del mercato del lavoro e una riduzione del ruolo dello Stato nell’economia. Marine Le Pen, al contrario, propugna un ruolo più attivo dello Stato nella creazione di posti di lavoro e nella protezione delle industrie nazionali. È quindi interessante osservare in dettaglio il ruolo di queste due dimensioni – immigrazione e economia – nelle dinamiche elettorali francesi, per cercare di individuare quale sia quella determinante.
Per rispondere a questa domanda, si può cominciare con l’analizzare le condizioni socioeconomiche dei dipartimenti francesi, confrontandole con i risultati del primo turno delle presidenziali.
La prima sorpresa è stata … che non c’è stata sorpresa. Per una volta i sondaggisti non si sono sbagliati.
Nel Regno Unito con il Brexit o negli Stati Uniti con Donald Trump, i sondaggi sbagliarono completamente. In Francia, invece, con settimane di anticipo, le inchieste annunciarono che, nella prima tornata delle elezioni presidenziali del 23 aprile scorso, i vincitori sarebbero stati, in questo ordine: Emmanuel Macron (“En Marche!”) e Marine Le Pen (“Front National”), unici qualificati per passare alla seconda tornata di domenica 7 maggio. E che proprio dietro sarebbero arrivati, sempre in quest’ordine: François Fillon (‘Les Républicains’), Jean-Luc Mélenchon (‘France Insoumise’) y Benoît Hamon (‘Parti Socialiste”). E hanno indovinato.
Tali risultati, in un paese traumatizzato dalla crisi sociale e dagli attentati jihaidisti, costituiscono un vero terremoto e meritano alcuni commenti.
Primo, indicano la fine di un lungo ciclo della storia politica francese iniziato nel 1958 con il generale De Gaulle, l’adozione dell’attuale Costituzione e l’instaurazione della V Repubblica. Da quel momento, cioè da quasi 60 anni, era entrato nella seconda tornata almeno uno dei due grandi partiti francesi: quello gollista (con diversi nomi nel corso del tempo: RPR, UDR, UMP, LR) e quello socialista.
Intervento alla serata “Ieri: Pinelli assassinato, Valpreda innocente, piazza Fontana strage di Stato. Oggi: neoliberismo, sfruttamento, progressiva erosione dei diritti, diseguaglianza e populismi”, a cura del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, presso il Csa Leoncavallo, Milano, 15 dicembre 2016
Vorrei
iniziare
quest’intervento muovendo da una sentenza, una sentenza molto
particolare, pronunciata dal Tribunale Permanente dei Popoli,
un tribunale di
opinione, che interviene nei casi nei quali le domande di
giustizia dei popoli non trovano ascolto. In questo caso il
Tribunale si è
pronunciato su istanza del movimento No Tav, al quale si sono
uniti altri movimenti di opposizione alle grandi opere. Mi
piace muovere da qui
perché così ho l’occasione di ricordare una resistenza, che
dura ormai da più di venticinque anni, una vera e propria
lotta
popolare.
Vi voglio citare due passaggi della sentenza: nel primo si rileva come “in Val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali” e si riconosce, invece, il valore della lotta contro il Tav, lotta che viene definita “una lotta esemplare”, i cui partecipanti, così come quelli che si oppongono all’aeroporto di Notre Dame des Landes o ad altri progetti, “devono essere considerate come ‘sentinelle che lanciano l’allarme’”; nel secondo passaggio si ragiona dell’“esistenza di un modello consolidato di comportamento nella gestione del territorio e delle dinamiche sociali” nella realizzazione delle grandi opere, un modello nel quale “i governi sono al servizio dei grandi interessi economici e finanziari, nazionali e sovranazionali e delle loro istituzioni”.
Il
Movimento 5 Stelle sembra indeciso tra l'alternativa di uscire
dall'euro e adottare invece la moneta fiscale. La questione è
complessa e la
scelta non è facile: ma è già estremamente positivo che i 5
Stelle si pongano con decisione il problema di liberare
finalmente
l'Italia dai vincoli dell'euro. L'opzione peggiore, anzi
quella pessima e disastrosa, è infatti proseguire con questa
austerità suicida
che sta strangolando l'economia e il lavoro di milioni di
italiani. Non si può aspettare passivamente che l'euro crolli
– come
probabilmente prima o poi accadrà –.
Cercherò di dimostrare che la soluzione di gran lunga migliore è quella della moneta fiscale; ma la nuova moneta pubblica deve essere progettata bene, altrimenti anche questa scelta diventerà fallimentare. Tenterò di spiegare che l'Italexit è una soluzione possibile ma che sarebbe estremamente complessa da gestire, molto dolorosa, e spaccherebbe il Paese. Difficilmente una forza politica di governo riuscirebbe a percorrere con successo questa via che è teoricamente praticabile ma è anche molto stretta e impervia, sia sul piano politico che strettamente tecnico.
Secondo
il
futurologo Thaddeus Howze, i social media e la
comunicazione digitale stanno rendendo sempre più
invasive, onnipresenti e invisibili
le tecniche pubblicitarie e di marketing; le stesse
applicazioni tecnologiche, alla base di quella che Howze
chiama “Economia degli
Algoritmi”, porteranno ad un nuovo feudalesimo, in cui
una piccolissima élite straordinariamente ricca stabilirà
e
controllerà attraverso regole apparentemente oggettive ed
efficienti il destino di una forza lavoro impoverita e
senza opportunità
economiche, al pari di nuovi servi della gleba.
Howze prende in esame in particolare la società Uber,
considerata l’alfiere di
un nuovo modo di fare impresa, in cui la forza lavoro
free-lance è sottoposta a un’organizzazione e anche a una
remunerazione
secondo regole stabilite da algoritmi, programmi
informatici che mirano a massimizzare il profitto delle
aziende prevedendo e regolando il
comportamento umano. Nella sua visione distopica, questa
modalità di nuovo feudalesimo è destinata ad allargarsi
a tutti i settori dell’economia. Da ZeroHedge.
* * * *
Ai fini di questo articolo, i modelli economici feudali implicano l’idea che un piccolissimo segmento della società sia straordinariamente ricco, mentre la maggior parte della popolazione lavora sodo, ha poche possibilità di scelta del lavoro che fa, e tende ad essere retribuita male per i propri sforzi.
Di permanenza o uscita dall’euro si è discusso molto e male, in questi anni. Alle libere opinioni di commentatori improvvisati si sono aggiunte le petizioni di principio di colleghi che hanno preferito una pigra partigianeria alla fatica della divulgazione scientifica. Il lettore, desideroso di informarsi, si è trovato a scegliere tra sfocati bozzetti di catastrofi o paradisi, il più delle volte privi di riferimenti alla letteratura. Bene dunque ha fatto Luigi Zingales a promuovere una nuova discussione esortando gli studiosi partecipanti a seguire alcune semplici regole della ricerca, tra cui la buona prassi di distinguere tra impressioni personali e tesi supportate da pubblicazioni accademiche, contributi istituzionali, consensus tra gli esperti.
Zingales ci sollecita a valutare innanzitutto i costi e i benefici di un’eventuale decisione dell’Italia di uscire dall’euro. Ai fini di tale calcolo sarà bene evitare un’incresciosa abitudine che andava di moda tra gli accademici qualche anno fa, e che li induceva a esaminare l’economia come fosse costituita da un fantomatico agente unico, rappresentativo dell’intera collettività. Non occorre scomodare Marx per ricordare che in realtà il sistema è formato da attori sociali molto diversi tra loro, ed è quindi necessario chiarire a quali di essi facciamo ogni volta riferimento nelle analisi.
Volete sapere in “diretta streaming” le prossime mosse del Governo (Gentiloni o chi per esso)? Non è così difficile, basta leggere con un po’ d’attenzione le motivazioni a supporto dell’ultimo taglio del rating del debito italiano operato il 20 Aprile scorso da Fitch (fonte Sole24ore: “Fitch abbassa di un gradino il rating dell’Italia: tripla B”).
Ormai lo abbiamo imparato dalla storia, dalla recente requisitoria del PM Michele Ruggiero presso il Tribunale di Trani nel procedimento contro Standard&Poor’s, dalle indagini della Corte dei Conti e dai numerosi riferimenti che i politici di mestiere fanno ai giudizi delle agenzie di rating, al cosiddetto “giudizio del mercato”.
Lo scorso 20 Aprile Fitch ha tagliato il rating dell’Italia allineandolo a quello corrispondente delle altre due “sorelle”, Moody’s e Standard&Poor’s, collocandolo quindi proprio sulla barriera che separa i titoli “buoni” da quelli “spazzatura”. Si tenga presente che la distinzione non attiene solo ad una nota di colore o ad un gergo dei mercati finanziari. Infatti, i titoli che rientrano nella categoria “spazzatura” non sono più accettati (o lo sono con numerosi vincoli) come strumenti di garanzia nel mercato interbancario.
L'industria della filantropia compie gesti buoni. Ma è mossa da salotti esclusivi che incrociano le loro strategie con i padroni della geopolitica
In mezzo alle polemiche sulle organizzazioni non governative internazionali che traghettano verso l'Italia i disperati raccolti sulle coste libiche, la mia attenzione è stata attratta dal profilo dei componenti del Consiglio Direttivo italiano di una di esse, Save The Children:
https://www.savethechildren.it/il-consiglio-direttivo
Nella lista ho notato in particolare un nome, quello di Marco De Benedetti, che - oltre ad essere il figlio dell'oligarca italiano naturalizzato svizzero Carlo De Benedetti - ricopre la carica di Managing Director e Co-Presidente Europa di The Carlyle Group.
Ora, The Carlyle Group non è un'azienda qualsiasi, ma un gigante mondiale nella gestione degli attivi di aziende di tanti settori, incluse le industrie del complesso militare-industriale. Carlyle ha sede al centro dell'Impero, a Washington, e vive di una perenne commistione politica-affari, tanto che ha reclutato fra i suoi super-faccendieri anche ex direttori CIA ed ex presidenti USA come George Bush padre e l'ex primo ministro britannico John Major.
Il tempo si è fatto breve: ormai le presidenziali francesi sono alle porte e i giochi vanno a chiudersi. Vedremo se la campagna elettorale riserverà altre sorprese. Di certo mai elezione è stata così importante per il destino della Francia e del mondo.
Già, perché in gioco non c’è solo la contesa sul nuovo inquilino dell’Eliseo, ma la tenuta o la fine della globalizzazione nella sua forma attuale.
La vittoria del Front national, infatti, favorirebbe quel processo di riforma dell’attuale assetto mondiale che i fondamentalisti della globalizzazione, la grande Finanza in particolare, stanno tentando in tutti i modi di contrastare, stante che tale assetto consegna nelle mani dei pochi un potere quasi assoluto.
Processo di riforma, e non cancellazione, quello che si propongono le forze anti-globalizzanti, dal momento che non si può certo abolire la globalizzazione in quanto tale – la quale peraltro ha aspetti più che virtuosi -, dal momento che essa oramai è per tanti versi irreversibile.
In altro articolo abbiamo accennato come a contendersi l’Eliseo siano due destre: quella che si richiama esplicitamente a tale estrazione, il Front national, e quella che rappresenta l’attuale ordine globale: la destra tecnocratica incarnata dalla candidatura di Emmanuel Macron.
“Scendi al bar?” Quando Valentino ti diceva questa frase, incrociandoti nel corridoio della redazione del manifesto a via Tomacelli a Roma, sapevi già che voleva parlarti di una questione seria a proposito della linea politica del giornale, o delle difficoltà economiche, o dei rapporti non sempre idilliaci tra compagni. Perché Vale è sempre stato l’unico, tra i fondatori del manifesto, a curarsi dei giovani redattori. Se un compagno stava male, era Valentino a procurarti la visita con il celebre luminare, a farti saltare la lista d’attesa nel famoso centro chirurgico. Delle tue difficoltà economiche non parlavi con Luigi (Pintor) o Rossana (Rossanda): no, scendevi al bar con Vale e con lui cercavi una soluzione (quando sono entrato io nel manifesto, nell’agosto 1980, Luciana Castellina e Lucio Magri già erano usciti dal giornale, mentre Aldo Natoli veniva solo a collaborare di tanto in tanto). Detto fuori dai denti: Valentino è il più umano tra i padri del manifesto.
Forse perché, nato nel 1931, Valentino tra i fondatori era uno dei “giovani”: Natoli era nato nel 1913, Rossanda nel 1924, Pintor nel 1925, Eliseo Milani nel 1927, Castellina nel 1929. Solo Lucio Magri era di un anno più giovane di lui.
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Claudio Conti: Come Nixon nel ’71, gli Usa cambiano le regole del gioco. Ma senza rete…
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Nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione del lavoratore, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare
L'attenzione notevole rivolta negli ultimi anni
ai
cambiamenti intervenuti nella distribuzione del reddito da
numerosi studiosi (Milanovic, Picketty, Deaton) può essere
utilizzata correttamente
se si considerano le crescenti disuguaglianze come effetto e
non come causa della crisi.
Salari fermi al livello di sussistenza
Per Karl Marx, la parola “miseria” non indica la povertà assoluta, avendo egli chiarito nel I libro del Capitale (in particolare nei par. 3 e 4 del cap. 23) che la legge dell'immiserimento della classe operaia non è contraddetta dalla possibilità che i salari dei lavoratori crescano durante l’accumulazione di capitale, almeno fino a un certo livello. Nella sua analisi, Marx distingue tre definizioni del salario. In primo luogo, e a un livello più immediato, il salario rappresenta la quantità di denaro che il lavoratore riceve dal suo datore di lavoro: è il salario “nominale” o “monetario”. Tuttavia, in un mondo in cui spetta ai capitalisti decidere quantità e prezzi della produzione, non possiamo accontentarci di considerare i salari nominali, ma dobbiamo considerare la quantità effettiva di beni e servizi che i salari sono in grado di acquistare, cioè i salari “reali”.
La Grecia è di nuovo sotto
il torchio. Il popolo greco è per l’ennesima volta in pochi
anni sotto la mannaia liberista dell’Unione Europea. Martedì 2
maggio, ultimo scorso, il governo greco ha firmato un altro
pre-accordo con i creditori internazionali, volto a dimostrare
quanto la Grecia abbia
“ben lavorato”, quanti nuovi tagli sociali abbia fatto negli
ultimi venti mesi ( come richiesto dalla BCE e dal FMI) al
fine di ottenere
un possibile taglio del debito.
Il testo del pre-accordo dovrà essere valutato, ed eventualmente ratificato, il prossimo 22 maggio dall’Eurogruppo, previa – tuttavia – approvazione del Parlamento greco. E qui potrebbe esserci la prima sorpresa, la concretizzazione del paradosso: l’opposizione di destra al governo Tsipras, non unendosi, ma assommandosi oggettivamente alle lotte sociali, sindacali ( uno sciopero generale è previsto per il 17 maggio) e del Partito Comunista di Grecia ( KKE), potrebbe avere la forza di ostacolare il pacchetto liberista che il governo ellenico ha approntato per l’Eurogruppo. Pacchetto che, tuttavia, passerà.
Presentiamo un
dialogo sulla democrazia e sul
dispositivo politico della rappresentanza tra i filosofi
Jacques Rancière, ispiratore di quello che è stato il
movimento 15M di Spagna,
ed Ernesto Laclau, ispiratore teorico di riferimento di
Podemos. Il 16 ottobre 2012, nell’università di San Martín
di Buenos
Aires, il filosofo francese Jacques Rancière intervenne
alla conferenza “La democrazia oggi”, all’interno di una
più
lunga settimana di conferenze a Buenos Aires e Rosario
organizzate da UNSAM e la casa editrice Tinta Limòn.
Nel suo discorso, Rancière sviluppa la sua già nota riflessione sul tema: la democrazia non è un regime di governo, ma una manifestazione, sempre dirompente e conflittuale, del principio egualitario. Per esempio, quando i proletari del secolo XIX decidono di non agire come se fossero semplicemente “forza lavoro”, ma persone uguali alle altre per intelligenza e capacità, capaci di leggere, pensare, scrivere o autorganizzare il proprio lavoro. La democrazia si configurerebbe in questo modo come l’ingovernabile stesso nella sua manifestazione, ovvero, l’azione egualitaria che rompe l’organizzazione gerarchica dei luoghi, delle parti sociali e delle funzioni, aprendo il campo del possibile e ampliando le definizioni della vita in comune.
Donbass, 3 maggio 2017 - Mentre visitiamo le due repubbliche del Donbass, di Lugansk e di Donetsk, ci arriva la notizia di un ridicolo quanto vergognoso comunicato dell'ambasciata di Ucraina in Italia, che protesta e minaccia per la nostra presenza in questi luoghi.
In realtà i signori dell' ambasciata condannano la missione di quello che loro chiamano partito comunista italiano, quando la nostra delegazione è composta dalla Carovana Antifascista promossa dalla Banda Bassotti, da sindacalisti della USB, da militanti di Rifondazione comunista e di altre organizzazioni impegnate nella solidarietà internazionale.
Non si può pretendere che siano esatti i rappresentanti di un governo infarcito di ministri fascisti che esaltano coloro che collaborarono coi nazisti durante la seconda guerra mondiale. Non si può certo aspettarsi qualche precisione da parte di chi nel suo paese ha coperto il rogo di Odessa, dove bande fasciste hanno assaltato le sede dei sindacati bruciando vivi tutte e tutti coloro che stavano li dentro.
Per loro sono comunisti tutti coloro che si oppongono al loro regime, come han sempre detto tutti i fascisti.
Immagino che altro combustibile all'esplodere della rabbia dell'ambasciata lo abbia messo la presenza nella nostra delegazione di Eleonora Forenza, parlamentare europea e comunista di Rifondazione.
Almagro, pericolo non solo per il Venezuela, ma per tutto il continente, dice Pepe Mujica, ex presidente Uruguay
Due voci fuori dal coro degli "untori", dei falsi pompieri, impegnati ad appiccare l'incendio in Venezuela. Papa Francesco e l'ex presidente dell'Uruguay Mujica squarciano il telone della menzogna. No, non è il terribile chavismo a rifiutare il dialogo, bensì la divisione profonda nel raccogliticcio fronte anti-governativo, Ricattato, inoltre, dal settore violento a vocazione spiccatamente "neo-pinochetista".
Disgraziatamente, è proprio la fazione prediletta, allevata e foraggiata dal fronte Washington-Pentagono-Bruxelles. Quella per cui batte il cuoricino globalista della Mogherini, e per la quale i Travaglio e consimili forniscono alibi mediatici automatici o un tifo davvero troppo sguaiato.
"Non si è risolta perché le proposte non sono state accettate e so che ora si sta insistendo (....) ci sono condizioni molto chiare. Parte dell'opposizione non vuole il dialogo". E' curioso: l"opposizione è divisa" ha rivelato Papa Francesco di ritorno dall'Egitto.
Ne prenderanno atto i soliti "untori"? Quelli che soffiano il piffero alle centrali della destabilizzazione permanente, anche se si tratta di uso eccessvo del medesimo, bislacco canovaccio.
Capita sempre più spesso che le tornate elettorali, in Europa e nel resto del mondo, producano esiti sorprendenti. Tuttavia la Brexit, il referendum costituzionale italiano, l’affermazione di Trump e il tonfo dei partiti tradizionali in Francia non sono accidenti della storia ma tendenze che la storia sta gradualmente imboccando.
Così come la bellezza, infatti, lo stupore è negli occhi di chi guarda e, guardando, impiega categorie di giudizio sfocate. Da tempo, in effetti, l'offerta politica non si articola più sull’asse orizzontale “destra-sinistra”, quanto piuttosto su un asse verticale “sopra-sotto” che separa i pochi vincitori del modello globale da coloro i quali, invece, ne sono stati sommersi e sopraffatti. Concepita come disegno economico, la globalizzazione è stata rapidamente eretta al rango di ideologia e, allo stesso modo delle illustri antenate otto-novecentesche, pretenderebbe di accreditarsi come traguardo finale dell’umanità. Più che di umanità, tuttavia, sarebbe il caso di parlare di disumanità.
Liberamente ispirato alle teorie darwiniane sulla selezione naturale, lo schema globalista impone infatti a individui, imprese e nazioni di partecipare ad una gara per la sopravvivenza regolata esclusivamente dai principi primordiali della forza e della competizione per i quali il grande mangia il piccolo, il forte prevarica il debole e lo spregiudicato sfrutta l’onesto.
Le primarie del Pd? Un canto del cigno, scambiato dagli apologeti, tornati in servizio permanente effettivo nei media unificati, per una nuova incoronazione. Hanno partecipato al rito (per quanta attendibilità possono avere i dati numerici lanciati con numeri in libertà e senza efficaci controlli) un milione e 800 mila elettori, lo stesso numero dei votanti registrato nelle primarie dei socialisti francesi, che subito dopo il bagno di folla sono però precipitati al 6 per cento nelle elezioni presidenziali.
Chi, tra i commentatori, parla di una resurrezione di Renzi dice perciò una cosa insensata. Continua anzi l’emorragia di un partito dall’amalgama culturale fallito, che vede le regioni rosse di un tempo disertare in massa i gazebo. Malgrado gli imbarazzanti sostegni di Veltroni, Fassino (capi di città come Roma e Torino che hanno accelerato il degrado etico della politica e alimentato la ricerca di disperate alternative nel M5S) niente più della tradizione della sinistra rimane nel non-partito renziano.
E quindi, quelli che con Orlando e Emiliano hanno partecipato all’evento con posizioni critiche, dovranno ben presto misurarsi con il principio di realtà e adottare l’inevitabile risoluzione dinanzi alla forza delle cose. Il Pd non è recuperabile, altro che baluardo, rispetto ai populismi, da preservare con una visita ai gazebo impolverati.
Dall’Europa agli Stati Uniti, analisi del «Populismo 2.0» di Marco Revelli. Uno stato d’animo che invoca l’autenticità del popolo contrapposta al dominio delle élite e delle oligarchie. Un fenomeno politico ambivalente tra xenofobia e nostalgia «progressista» per la sovranità nazionale
A cosa può servire una categoria, o una definizione, che comprenda una molteplicità talmente vasta ed eterogenea di fenomeni ed esperienze che si accavallano e si contraddicono, si assomigliano e si distinguono attraversando realtà geografiche e tempi storici diversi e difficilmente paragonabili? È la domanda che siamo costretti a porci non appena capiti di mettere le mani sul termine forse più infestante del dibattito pubblico contemporaneo: populismo. Se lo si maneggia da un punto di vista denigratorio o apologetico i contorni si fanno certo più precisi.
Per l’establishment, ossia le élites dominanti e i molti che ne dipendono, si tratta di una demagogia distruttiva delle regole e delle forme della «civile convivenza» in regime di libero mercato. Per quanti si proclamano orgogliosamente populisti si tratta invece di un ritorno alla fonte prima e legittima della sovranità, il popolo appunto, usurpata da caste, oligarchie e poteri opachi e imperscrutabili.
Il 5 maggio è il 199° anniversario della nascita di Marx. La sua teoria non ha tutt'oggi uguali per spiegare i meccanismi e le dinamiche del modo di produzione capitalistico
“Ei fu, siccome immobile, / dato
il mortal sospiro”, e via dicendo. Così inizia la celeberrima
ode manzoniana, Il cinque maggio, che tutti gli
studenti italiani,
molti di essi obtorto collo, hanno studiato se non
addirittura imparato a memoria durante gli anni scolastici. La
stessa data in cui nel 1821
a Sant’Elena morì Napoleone era stata, tre anni prima, la data
in cui un altro gigante della storia era nato a Treviri: Carlo
Enrico Marx. Con una qualche ironia della sorte,
proprio Napoleone, insieme al nipote Napoleone III, è il
personaggio storico che Marx
dichiara di amare di meno rispondendo alle domande di un
“album di famiglia” della figlia Jenny.
Date a parte ed in attesa delle grandi celebrazioni del prossimo anno per i 200 anni, dedicherò un paio di riflessioni all’attualità del pensiero del vecchio “Moro”, come lo chiamavano amici e familiari. Sin da subito tuttavia, è bene dire chiaramente che la teoria di Marx non ha tutt’oggi eguali per la sua capacità di comprensione e spiegazione delle tendenze di fondo del modo di produzione capitalistico, quindi della struttura della società in cui viviamo. Questo non significa ovviamente che sia perfetta, che non necessiti di essere criticata, approfondita o continuata ove necessario, come del resto il suo stesso autore auspicava; ma non significa neppure che essa non funzioni più. Anzi, nessuna meglio di essa ha delle risposte - non tutte sfortunatamente - a molti dei processi storico-economico-sociali tutt’ora in corso.
Recensione a: Jean-Claude Michéa, I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, Neri Pozza, Vicenza 2013, pp. 128, 15 euro (Scheda libro)
La Francia, in particolare
nell’ultimo ventennio, ha
sviluppato una interessante classe intellettuale che esprime a
volte posizioni di reazione esplicita (vedi Zemmour e in
generale la “galaxie
réac”[1]), a volte elabora un pensiero
critico che non manca di autonominarsi di “sinistra” (il primo
Houellebecq, diciamo
fino alle Particules élémentaires, Alain
Finkielkraut, per certi versi lo stesso Michel Onfray). Se le
declinazioni espressive
sono diverse, questa compagine contempla un unico bersaglio
critico: la sinistra liberal incarnata dalle classi
medie colte. Questa forma di
antigauchismo (per molti versi, per altro, del tutto
condivisibile) produce una sorta di riduzionismo esasperato
che individua nel
progressismo una malapianta da estirpare.
Una specola interessante, da questo punto di vista, viene offerta dall’opera di Jean-Claude Michéa, in particolare nell’ultimo volume tradotto in italiano I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. L’antigauchismo di Michéa si espone sino a sostenere il «rifiuto di riunire sotto il segno esclusivo della “sinistra” l’indignazione crescente della “gente comune, (Orwell) di fronte a una società sempre più amorale, piena d’ineguaglianze e alienante”», (p. 7): il concetto di sinistra politica e parlamentare, non è più capace di aggregare le masse attorno a un progetto di «uscita dal capitalismo».
Centotrenta anni fa, dopo
aver visitato il paese
delle meraviglie, Alice entrò in uno
specchio per
scoprire il mondo a rovescio. Se Alice rinascesse
oggi (e in
Venezuela), non ci sarebbe bisogno di
attraversare nessuno specchio;
le basterebbe
guardare fuori dalla finestra (Eduardo Galeano).
1. Il Venezuela è uno dei pochi paesi, se non l’unico, con un regime dittatoriale il cui dittatore esercita la tirannia dopo… aver lasciato l’incarico. Di più: essendo dittatore, organizza un auto-golpe: nel mese di gennaio 2017, l’Assemblea Nazionale, con il voto maggioritario della rappresentanza dell’opposizione al governo nazionale (la maggioranza del Parlamento è in mano all’opposizione dopo le ultime elezioni parlamentarie, ndr) ha deciso che il presidente Nicolás Maduro “aveva abbandonato l’incarico di Presidente”; un mese più tardi, gli stessi rappresentanti deputati convennero che eravamo in presenza di una dittatura guidata dal Presidente della Repubblica (lo stesso che secondo loro aveva lasciato l’incarico un mese prima).
Rodolfo il Glabro, monaco di Cluny ma soprattutto grande cronista del suo tempo, descrisse molto bene cosa accadeva nella Francia di mille anni fa. Non tanto per quanto riguarda ciò che si studia a scuola - re, battaglie, papi e imperi - quanto nella mente delle persone sconvolte dalle carestie che devastavano in quel tempo l'Europa.
Accadeva infatti, in quegli anni, che un insieme di concause naturali ed economiche avessero drasticamente ridotto la produzione agricola e quindi i raccolti, portando alla fame milioni di persone e comunque immiserendo chi aveva fin lì vissuto dei frutti della terra. Il resto lo facevano la scarsissima sicurezza delle vie di comunicazione, l'instabilità e la debolezza dei poteri politici, le scorrerie e le incursioni da parte di popoli non ancora stanzializzati che abitavano più a nord o più a est.
Il tutto creava tempi di profonda incertezza nei quali, racconta Rodolfo, per disperazione e paura l'umanità aveva gradualmente perso se stessa, le sue regole di base, i suoi tabù più fondati.
Così ogni debole se la prendeva con il più debole, e lo attaccava, lo derubava, lo uccideva.
In libreria con “La schiavitù del Capitale”, il noto intellettuale ritiene che la vittoria del capitalismo sia solo un tornante della storia: “Esistono gli anticorpi per spezzare la supremazia dell’utopia dell’egoismo e del profitto”. Poi insiste sulle responsabilità dell’Occidente che dopo aver assassinato la via socialista, per motivi di realpolitik ha finanziato il fondamentalismo islamico. E il populismo? “Una categoria pre scentifica utilizzata per squalificare chi non è d’accordo col sistema dominante: uno strumento volgare di lotta contro qualcuno”.
«Come osservò Tocqueville la libertà è un ideale intermittente, l’uguaglianza invece è una necessità che si ripresenta continuamente, come la fame». Luciano Canfora, classe ’42, è professore emerito dell’Università di Bari, storico, filologo classico e saggista. Per ultimo, ha scritto per Il Mulino “La schiavitù del Capitale” (112 pp., 12 euro) nel quale sottolinea, con un pizzico di ottimismo, come il capitalismo abbia vinto «ma forse è solo un tornante della storia». Insomma, la partita sarebbe tutt’altro che chiusa: «L’Occidente si trova di fronte a controspinte molteplici, tutte gravide di conflitti e di tensioni e daccapo ha perso l’offensiva. Più sfida il mondo (per usare la terminologia di Toynbee) e più aspra è la risposta».
* * * *
Professor Canfora, per lei campeggiano due utopie al mondo: l’utopia della fratellanza e quella dell’egoismo. Non trova che quest’ultima stia stravincendo a livello globale?
Ha quasi sempre vinto sul breve periodo: l’utopia dell’egoismo nella storia ha giocato all’attacco.
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Manca ormai da tempo un
dibattito
teorico-politico sullo stato di salute e sulle prospettive del
marxismo in Italia e non solo. Un dibattito tanto più
necessario e urgente a
fronte di una sinistra residuale che, dopo più di un quarto di
secolo di abiure e di congedi dalla propria storia, continua
ad annaspare nelle
sabbie mobili di un “nuovismo” esasperato ed esasperante, alla
ricerca affannosa e inconcludente di “nuovi” orizzonti
teorici,
di “nuovi” linguaggi, di “nuove” forme e pratiche politiche,
di “nuove” identità, e via declinando.
L’ultimo volume di Domenico Losurdo, Il marxismo
occidentale. Come nacque, come morì e come può rinascere,
può
senza dubbio fornire un contributo prezioso per provare a
rianimare una discussione che vada oltre le pur importanti
contingenze politiche. Pubblicato
da poco per i tipi della Laterza, il testo si presenta nel
panorama editoriale nel centenario della Rivoluzione
d’Ottobre, in una fase storica
in cui sullo scenario internazionale piovono bombe come
fossero coriandoli, i focolai di crisi aumentano e i rischi di
una conflagrazione bellica su
ampia scala si addensano sempre più pericolosamente
all’orizzonte, nella preoccupante assenza di un movimento
pacifista in grado di far
sentire preventivamente la sua voce prima che l’incendio
divampi.
Con questo primo articolo apriamo uno spazio di dibattito sul tema populismo, verso il seminario di Euronomade, che si terrà dal 16 al 18 giugno a Roma, a ESC. Ospiteremo volentieri i contributi che ci perverranno
Ognuno si porta dietro gli anni e i pregiudizi
che ha, siate clementi.
Per esempio, qual è la contraddizione principale oggi in ballo sul materialissimo piano ideologico? Il populismo dilagante o il neoliberalismo ancora saldo in sella? Interessante, non tanto per aderire all’uno o all’altro, ma per decidere se associarci o meno alle campagne in corso. Campagne orchestrate e finanziate in pari misura da forze geopolitiche e finanziarie ben note e da cui ci sentiamo egualmente distanti.
Populismo: «epíteto peyorativo como crítica política conservadora sin validez epistémica», scriveva Enrique Dussel nella seconda delle Cinque tesi sul populismo del 2007. Pensava naturalmente al neopopulismo latino-americano e ai regimi progressisti che si erano affermati al volgere del millennio in Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador e Brasile, non alle “comunità del rancore” dei sovranisti di sinistra e alle formazioni xenofobe e neofasciste. Per dirla con Rancière, «la nozione di populismo serve ad amalgamare tutte le forme di politica che si oppongono al potere delle competenze autoproclamate e per ricondurle a un’unica immagine: il popolo arretrato e ignorante se non astioso e brutale. Il potere del popolo è assimilato allo scatenamento di un branco razzista e xenofobo», quando oggi il razzismo è gestito dallo Stato, come dimostra la legislazione sulle migrazioni e sulle classi pericolose – pensiamo ai malfamati decreti Minniti subito tradotti in leggi e retate.
Una riflessione sull’utilizzo dei termini “operaismo”, “post-operaismo” e “neo-operaismo”. Non una semplice questione terminologica, bensì una questione di metodo e di sostanza utile alla comprensione dell’attuale dinamica delle soggettività del lavoro e del conflitto sociale. Nel testo si confutano anche alcune fantasiose e strumentali ricostruzioni di chi vorrebbe interpretare ciò che non capisce (o, meglio, non vuole capire)
La ricerca
teorica di parte dei contributi apparsi sui siti di
Commonware, Effimera, EuroNomade si muove sulla falsariga
della metodologia operaista. Una
metodologia che prende piede nella conricerca e nell’inchiesta
sulla condizione operaia ai tempi dello sviluppo delle prime
lotte
dell’operaio massa.
Credo che su ciò possiamo in linea di massima concordare, pur essendo pienamente coscienti che ci muoviamo oggi in tempi strutturalmente differenti e affrontiamo problematiche teoriche e analisi empiriche assai diverse da quel tempo. C’è tuttavia un insegnamento di metodo che lega quei tempi all’oggi con un sottile filo rosso. Si tratta dell’intuizione, fornita dai Quaderni Rossi, che il rapporto capitale – lavoro è un rapporto tra soggettività in conflitto: soggettività diverse che si muovono su piani diversi e asimmetrici. Possiamo tradurre questa intuizione, come fa il primo Tronti di Operai e Capitale, nella constatazione tanto semplice quanto illuminante che il lavoro esprime una propria soggettività ontologica (composita e, per questo, degna di essere analizzata) che può comunque fare a meno del capitale; altrettanto non si può dire del capitale, la cui esistenza dipenda dal rapporto con il lavoro e per questo necessita di subordinarlo.
Pubblicato il 2 settembre del 1977 sulle colonne di “Le Monde”, Violence et brutalité suscitò non poche polemiche. Furono in molti (su tutti il politologo Maurice Duverger) a leggere nelle parole di Genet una legittimazione senza se e senza ma del terrorismo della Rote Armee Fraktion (Raf). In realtà, il testo di Genet era soprattutto un attacco alla “sinistra divina” del Sessantotto, a quella “disinvolta e angelica” dei salotti, che alla violenza del gesto e, quindi, alla vita, preferiva la brutalità dell’ordine e delle galere
I giornalisti buttano lì parole, senza preoccuparsi troppo del loro lento germinare nelle coscienze. Violenza – e il suo indispensabile complemento: non-violenza ne sono un esempio. Se riflettiamo su un qualsiasi fenomeno vitale, però, nel senso della suo significato più stretto, che è quello biologico, comprendiamo subito che violenza e vita sono all’incirca sinonimi. Il chicco di grano che germina e spacca la terra gelata, il becco di un pulcino che rompe il guscio dell’uovo, la fecondazione di una donna, la nascita di un bambino sono suscettibili di un’accusa di violenza. Ma nessuno mette in discussione il bambino, la donna, il pulcino, il germoglio, il chicco di grano. Il processo che è stato condotto contro la RAF (Rote Armee Fraktion), il processo relativo alla sua violenza è reale, ma la Germania federale e, con essa, l’Europa e l’America tutte vogliono ingannarsi.
Come da pronostico, Emmanuel Macron è stato eletto presidente della Repubblica Francese, e Renzi è tornato segretario del PCI, Partito Cazzaro Italiano.
L’appello del Califfato del Terrone (Michele Emiliano) ai Foreign Fighters, cioè ai militanti di altri partiti perché votassero contro Renzi alle primarie del PD è fallito.
Comprensibilmente, sia il Movimento 5 Stelle che Berlusconi considerano il Cazzaro l’avversario ideale per motivi opposti.
Per i grillini è un facile bersaglio, perché è già decotto, e incarna l’establishment e l’inciucio.
Per Berlusconi è la speranza d’una resurrezione del patto del Nazareno, e del governo di Grossolana Coalizione.
Nonostante il suo autoproclamato 70% alle primarie PD rappresenti in realtà sul piano nazionale appena un misero 2% degli aventi diritto al voto, Renzi continua ad associarsi a Emmanuel Macron.
Creata in laboratorio per fermare Marine Le Pen, la candidatura Macron ha funzionato cannibalizzando i partiti tradizionali ridotti ai minimi termini, e approfittando del tradizionale voto utile anti Front National.
Sul tema delle ONG umanitarie, al netto di quelle semisconosciute oggi giustamente sotto processo, in linea di principio non esulto quando soggetti non governativi operano in settori strategici e vitali. Ma è pur vero che se i governi non si attivano in quei settori o se ne ritirano adducendo i pretesti più penosi, è un bene che quegli spazi siano occupati da organizzazioni motivate e senza scopo di lucro piuttosto che dai "mercati" o da nessuno. Evidentemente chi si ammala, muore di fame o è in pericolo non può attendere che la politica si faccia più umana.
Emergency è una delle più importanti ONG umanitarie in Italia. Opera in Afghanistan, Iraq, Italia, Repubblica Centroafricana, Sierra Leone e Sudan. Dal 1994 è intervenuta in 17 paesi con progetti di assistenza alle vittime della guerra e della povertà. Secondo quanto riportato sul sito ufficiale, dalla sua fondazione ha erogato cure a più di 8 milioni di persone. A partire dal 2006 è attiva anche nel nostro Paese con poliambulatori, ambulatori, unità mobili e altre iniziative di assistenza socio-sanitaria a tutti e di primo soccorso agli immigrati che sbarcano in Sicilia. Nel 2015 (ultimo bilancio pubblicato) impiegava circa 3000 dipendenti di cui il 90% locali e 261 in missione, e 3500 volontari sparsi nel mondo. I ricavi, pari circa 52 milioni di euro, provenivano principalmente dal 5 per mille e da donazioni private (20 milioni).
A sole cinque settimane dalle elezioni politiche del Regno Unito, il partito laburista di Jeremy Corbyn ha incassato alle elezioni locali una sconfitta colossale. Il suo partito ha perso ovunque, in Inghilterra, Scozia, Galles, e ha perso non solo seggi e posti di potere nelle amministrazioni locali, ma qualcosa di più importante. Il partito laburista ha perso centinaia di migliaia di elettri, ha perso in luoghi in cui dominava, ed ha considerato vittorie importanti risultati in città in cui prima era scontato che vincesse.
Il partito laburista non ha quindi solo perso le elezioni nei 4851 seggi municipali in gioco. Il suo risultato denota un crollo di consensi che si sono spostati verso i conservatori e i partiti identitari. In Inghilterra ha perso moltissimi seggi e molte città. In Scozia idem. In Galles ancora è maggioritario, ma è retrocesso moltissimo in termini di voti e di peso politico. Un esempio su tutti è Glasgow, dove dopo trent’anni di dominio laburista, il centrosinistra inglese ha lasciato il campo allo Scottish National Party. Nel 2012, Glasgow era dominata dal Labour. Oggi, nel 2017, è diventato il secondo partito con una perdita del 16% dei voti rispetto a cinque anni fa. Primo partito è diventato l’SNP che ha guadagnato otto punti percentuali, e il terzo partito, i conservatori, ha guadagnato altrettanti punti.
L’esempio di Glasgow fa comprendere quanto stia cambiando la cartina politica del Regno Unito rispetto a pochi anni fa.
Non vedo nulla di buono dietro il massiccio taglio delle imposte sulle imprese deciso da Trump la settimana scorsa. Un taglio troppo costoso, che peraltro avviene proprio mentre la Casa Bianca deve preoccuparsi di cercare nuovi mercati di sbocco per i titoli del debito USA. Ecco come me lo spiego…
La politica aggressiva di quantitative-easing condotta senza sosta dalla FED soprattutto dal 2008 in avanti ha portato i tassi di interessi USA a zero, livello mai toccato in precedenza. Nel 2000 il tasso FED era circa il 6,5%, all’inizio del 2008 era già sceso al 3,5% e a fine 2016 era lo 0,75% (fonte: global-rates.com). Un trend di discesa costante, quindi, che ha consentito all’economia americana di crescere al di là delle proprie capacità, saltando da una bolla all’altra.
I tassi di interesse sono lo strumento principale di politica monetaria di una banca centrale. Le banche centrali li abbassano per stimolare i consumi e gli investimenti e li alzano per ottenere l’effetto opposto.
Negli obiettivi fondamentali della FED vi è proprio quello di stimolare la crescita dell’economia abbassando i tassi di interesse ed iniettando liquidità nel sistema al fine di sostenere la domanda interna e gestire la bilancia commerciale “esportazioni-importazioni”, strutturalmente in rosso nel caso statunitense.
1. Mezzi fascisti e
falsi
antifascisti
In Francia è andata come doveva andare, secondo i pronostici e soprattutto secondo la logica. La trappola dell’antifascismo in assenza di fascismo è scattata alla perfezione e, anche se non è stata questa la causa principale della vittoria di Macron, è comunque il caso di parlarne, non foss’altro per le castronerie che si sono udite, al proposito, anche da questa parte delle Alpi.
Va ricordato, prima di tutto, che l’europeismo padronale di cui Macron è al momento l’eroe riconosciuto, ha da tempo messo in atto con efficacia una precisa strategia di dissoluzione de iure e de facto delle Costituzioni antifasciste, lavoriste e semi-socialiste che vigevano prima della sublime invenzione della “governance multilivello” dell’Ue. Tale europeismo ha consapevolmente dissolto la sostanza e la forma della democrazia parlamentare sia togliendo potere ai parlamenti nazionali sia traslando questo potere ad organismi non-parlamentari posti scientemente “al riparo dal processo elettorale”.
Questa
Storia di Lotta continua è uno dei ragionamenti più
importanti che è possibile leggere sugli anni Settanta, ancora
oggi.
E’ una storia quasi in presa diretta, scritta nel 1978,
pubblicata nel 1979, e nonostante ciò in grado di esplorare in
profondità
gli anni Settanta come davvero poche altre opere
sull’argomento. Il tentativo di sciogliere il nodo gordiano
degli anni Settanta, come ripetuto
varie volte, non produrrà risultati significativi fuori dalla
lotta di classe. Detto altrimenti, sarà solamente un nuovo e
duraturo ciclo di lotte politiche che saprà darsi da sé gli
strumenti culturali e politici per razionalizzare l’esperienza
del
decennio ’68-’77, assumendo e, al contempo, liberandosi da
quel vincolo. Eppure questo dato di fatto non ci assolve
dall’onere della
ricerca della comprensione di quel decennio. Non per mero
interesse storiografico, quanto per necessità politica. In
questa ricerca, favorita
in tal senso dal quarantennale del Settantasette, non per caso
ci siamo imbattuti in due storie di Lotta continua. Perché,
nonostante
le differenze che idealmente ci distanziano da quella storia,
Lotta continua fu il soggetto che più consapevolmente produsse
riflessioni su se
stesso e sul contesto socio-politico di quegli anni, il
movimento-partito in cui più apertamente trovarono sede
confronti tra posizioni
politiche diversificate; in altre parole, Lotta continua fu il
soggetto di movimento degli anni Settanta più assimilabile a
un partito, inteso
nel senso migliore, e al tempo stesso maggiormente
attraversato dalle istanze di movimento.
Il testo che segue è un estratto
del discorso che Ernesto Che Guevara tenne il 6 gennaio 1961
alla televisione cubana al rientro da un viaggio della
delegazione cubana nei Paesi
socialisti. Non risulta che sia stato pubblicato in Italia,
sicché la traduzione è stata condotta sul testo pubblicato in
rete nel sito
dell’Esercito di Liberazione Nazionale colombiano, che mette a
disposizione l’opera completa del rivoluzionario argentino.
«Fra i Paesi socialisti che abbiamo visitato personalmente, la Corea è uno dei più straordinari. Forse è quello che più ci ha impressionato rispetto agli altri. Ha solo 10 milioni di abitanti e l’estensione di Cuba, un po’ meno, circa 110mila kmq; la stessa estensione territoriale della parte sud della Corea, però con la metà degli abitanti. È stata devastata a causa di una guerra così incredibilmente distruttiva che delle sue città non lasciò nulla, e quando uno dice niente è niente; è come i piccoli villaggi che gente come Merob Sosa e Sánchez Mosquera [due capi militari dell’esercito cubano nel periodo della dittatura di Batista] bruciava qui, e dei quali non rimaneva nient’altro che cenere. Così rimase, ad esempio, Pyongyang, che è una città di un milione di abitanti. Oggi non si vede un solo resto di tutta quella distruzione; tutto è nuovo. L’unico ricordo che resta sono, in tutte le strade, i buchi delle bombe che cadevano una dopo l’altra.
L’arma di migrazione di massa
La preoccupazione deve essere tanto forte, rasentando il panico, quanto è sporca l’operazione, se George Soros, da mezzo secolo grande stragista sociale, si è precipitato da colui che falsamente presume nostro presidente del consiglio (ma avrà incontrato anche quello effettivo). In ballo era l’urgenza di applicare una sutura veloce e conclusiva allo squarcio aperto nel corpo del reato dal benemerito procuratore di Catania, Zuccaro, dai suoi emuli a Trapani e dall’altrettanto benemerito M5S, con il sostegno strumentale, non qualificante, ma utile, di qualche elemento politico e mediatico spurio. Uno squarcio che rischia di mandare in vacca l’intero gigantesco impegno profuso dal principe delle guerre per regime change nella destabilizzazione dell’Europa mediterranea e nella distruzione dei paesi da cui originano le migrazioni di massa.
Naturalmente è grazie a correttezza e trasparenza democratica che il conte Gentiloni, facente funzione apparente di premier, ha tenuto rigorosamente nascosto questo incontro, occorso senza preavviso e dettato dall’emergenza “taxi del Mediterraneo”. Avrebbe dovuto spiegare a parlamento e popolo in quale veste un capo di governo incontra un cittadino, sì, qualunque, ma anche l’assassino, negli anni ’90, della nostra valuta (da sostituire con il tumore dell’Euro), con relativa svalutazione del 30%, la perdita di 40 miliardi di dollari e la conseguente svendita a prezzo di saldi dell’apparato produttivo della settima nazione industriale del mondo.
Perchè a me, italiano negli USA, Luigi Di Maio è parso maturo, equilibrato, aperto
Ho visto ad Harvard Luigi Di Maio e sono d'accordo con il collega Archon Fung che lo ha invitato: "Ciò che avete ascoltato è uno dei più interessanti e sensati tentativi di rinnovare la politica in questa contingenza storica (...) nuovi politici e nuovi candidati capaci di inventare nuovi metodi di azione politica per cercare di riprendere contatto con la gente e darle una voce”
È con parecchi pregiudizi che mercoledì sono andato alla Kennedy School (la scuola di scienze politiche di Harvard) ad ascoltare Luigi Di Maio, di cui peraltro sapevo pochissimo. Innanzi tutto non sono di quelli che credono che chi è giovane abbia automaticamente ragione, neppure nelle mode e nei consumi figuriamoci in politica. E poi sono ostile alla democrazia diretta, che era lo specifico tema dell’incontro organizzato dall’Ash Center for Democratic Governance and Innovation; è uno dei due o tre punti che finora mi hanno impedito di simpatizzare apertamente per il M5S, pur rendendomi conto che per l’Italia il pericolo di gran lunga più grave sia oggi rappresentato dal PD e che qualunque alternativa sia tatticamente preferibile a un protrarsi e consolidarsi del regime renziano.
«Il marxismo occidentale», un saggio di Domenico Losurdo per Laterza. L’esperienza dell’Urss e le vincenti lotte anticoloniali hanno segnato la storia del Novecento. Per questo il secolo antimperialista ha prevalso sulla visione «accademica» dell’opera marxiana. Una documentata lettura della storia che privilegia la polemica politica sul «che fare?»
Il limite principale del marxismo occidentale, secondo Domenico Losurdo, è quello di non aver capito che il vento della rivoluzione soffiava a Oriente, dalla Russia verso la Cina e il Terzo Mondo, molto più di quanto non soffiasse verso l’Europa. Questa è una delle tesi che lo studioso sostiene nel suo ultimo libro (Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì e come può rinascere, Laterza, euro 20, pp. 212) che certamente susciterà qualche discussione. Losurdo ha ragione? La sua tesi coglie nel segno? Proviamo a sviluppare un ragionamento attorno a questo interrogativo.
Tanto per cominciare, bisogna capire cosa si intende per «marxismo occidentale», e quanto sia legittima questa categoria. Come ricorda il sempre documentatissimo Losurdo, sembra che il primo a usare l’espressione «marxismo occidentale» sia stato il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, che nel suo saggio del 1955 Le avventure della dialettica contrapponeva proprio il marxismo «occidentale»
In un episodio della serie Black mirror il mondo è governato da un sistema di punteggi. Come succede per autisti e passeggeri di Uber, che si valutano a vicenda dopo ogni corsa, nell’episodio ogni persona valuta le altre con cui entra in relazione, dando un punteggio su una scala da uno a cinque. Il punteggio medio determina l’accesso delle persone a servizi e beni essenziali come la casa e i trasporti.
Anche nella vita reale siamo inseguiti da punteggi che ci garantiscono o ci negano delle opportunità. Solo che non sono le persone a valutarci, ma degli algoritmi. Dall’accesso a un prestito a un colloquio di lavoro, i sistemi automatici prendono delle decisioni sulla base di ampie raccolte di informazioni personali, spesso senza rivelare esattamente di quali dati si tratta. Alcune informazioni riguardano perfino gli amici, i familiari e i conoscenti, attraverso cui si cerca di capire il carattere di una persona: un fatto che, secondo gli esperti di privacy, potrebbe causare delle discriminazioni.
In Germania, per esempio, quando una persona si rivolge alla Kreditech per avere un prestito deve condividere con l’azienda una serie informazioni personali prese dai suoi account sui social network. Avere tra gli amici qualcuno che in passato ha rimborsato un prestito di solito è “un indicatore positivo”, ha detto al Financial Times il responsabile finanziario dell’azienda.
Mondo della post-verità: è un mondo o è un post-mondo? Tra terrorismo sintetico, presidenziali francesi, Kim Jong-Un, guerrafondai inglesi e cinghiali genovesi
Finalmente approvati i nuovi standard europei ISO 2000 e rotti per gli attentati terroristici in UE. Come si sa l'Europa è molto rigida nello stabilire le esatte forme dei fusilli, quale forma debba esattamente avere un pera, le dimensioni dei piselli, come cuocere la pizza, e chi più ne ha più ne metta.
Adesso anche gli attentati terroristici dovranno rispettare gli standard europei. I terroristi dovranno innanzitutto essere islamici o assimilabili ad islamici, dovranno essere rigorosamente "noti ai servizi di sicurezza" - questo è un punto sul quale i commissari della UE sono stati inflessibili.
Dovranno inoltre smarrire o dimenticare sul luogo dell'attentato il proprio passaporto o in subordine la loro patente o un altro documento identificativo.
Come per la stagione di caccia, potranno esercitare il terrorismo solo quando viene aperta la stagione terroristica.
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il cuneo rosso: Cremaschi, i suoi 1.000 orologi e la truffa “sovranista” di Eurostop
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Riproponiamo qui un
testo scritto dal
gruppo Krisis nel novembre 2008, poco tempo dopo l’emergere
della crisi economica mondiale, deflagrata a causa dello
scoppio della bolla
immobiliare statunitense provocato dalla diffusa insolvenza
legata ai famosi mutui subprime (ma l’innesco
avrebbe potuto darlo un
qualsiasi altro fattore economico pericolante, fra i molti
presenti già allora – e più ancora adesso -, nel fragile
panorama
economico mondiale).
Crediamo che il messaggio di questo articolo, breve e sintetico ma quanto mai denso ed efficace, meriti di essere ancora una volta fatto circolare.1
In maniera concisa e tagliente, il gruppo Krisis mette qui in evidenza alcuni punti critici della crisi economica ma, soprattutto, delle risposte che ad essa vengono date. La ricerca spasmodica di un responsabile, epurato il quale si aprirebbero nuovi orizzonti per far tornare le cose al loro posto e riprendere il glorioso cammino tracciato dalla filosofia dei lumi, ha sempre caratterizzato le reazioni alle crisi capitalistiche.
Ottanta anni fa
– il 27 aprile 1937 – Antonio Gramsci muore dopo aver
trascorso la sua ultima decade in un carcere fascista.
Riconosciuto a livello
internazionale molto più tardi per il lavoro teorico svolto in
quelli che saranno pubblicati come Quaderni del Carcere,
Gramsci
iniziò a fornire un contributo di riflessione di taglio
politico durante la Grande Guerra, quando era un giovane
studente di linguistica presso
l’Università di Torino. Già allora, i suoi articoli pubblicati
sulla stampa socialista costituivano un atto di sfida non
soltanto
alla guerra in corso, ma anche alla cultura liberale,
nazionalista e cattolica imperante in Italia.
All’inizio del 1917 Gramsci lavora come giornalista in un quotidiano socialista di Torino, Il Grido del Popolo, e collabora con l’edizione piemontese dell’Avanti!. Nei primi mesi che seguono alla Rivoluzione di Febbraio in Russia, le notizie a riguardo erano ancora scarse, in Italia. In massima parte ci si limitava alla riproduzione di articoli provenienti dalle agenzie giornalistiche di Londra e Parigi. Sull’Avanti! si seguivano gli eventi russi attraverso gli articoli firmati da “Junior”, pseudonimo di Vasilij Vasilevich Suchomlin, un Socialista Rivoluzionario in esilio.
Per fornire ai socialisti italiani informazioni affidabili, la direzione del Partito Socialista Italiano (PSI) inviò un telegramma al deputato Oddino Morgari, che si trovava a L’Aia, chiedendogli di recarsi a Pietrogrado ed entrare in contatto con i rivoluzionari. Ma la missione fallì e Morgari fece ritorno in Italia nel mese di luglio.
Il 16 febbraio Mark Zuckerberg
pubblica su
Facebook - dove altro? - quello che subito i media definiscono
un "manifesto politico": si intitola "Building Global
Community", Costruire la
comunità globale (1). Il documento segue una fase critica: nei
mesi immediatamente precedenti, per due volte il social
network è finito
sotto l'attenzione dell'opinione pubblica durante la campagna
presidenziale statunitense, prima con l'accusa di aver
penalizzato i post a favore di
Trump e promosso la visibilità di quelli pro Clinton, poi
catapultato nella discussione mediatica sulla post verità, in
quanto ritenuto
responsabile di avere contribuito alla diffusione di fake news
che avrebbero favorito sia la vittoria della Brexit che quella
di Trump (2). Ne
è seguita a dicembre la dichiarazione dello stesso Zuckerberg
che Facebook debba oggi essere considerata una media company,
ossia una
società con responsabilità editoriale, e non una semplice
piattaforma veicolo di contenuti caricati dagli utenti, con la
conseguente
dichiarazione d'intenti di voler adottare un sistema di
controllo sui post pubblicati.
Oramai il regime politico mediatico ci abitua a sentirci felici della più sfacciata arroganza dei ricchi e del potere. Se la stampa di oggi fosse stata operativa quando Maria Antonietta suggerì di distribuire brioches al popolo a cui mancava il pane, forse sarebbe riuscita a promuovere la regina di Francia come una persona sensibile e spiritosa.
Quello che a Milano pagano i tremila ricchi sfacciati e i loro famigli per sentire mezz'ora di discorso di Obama, corrisponde a ciò che ricevono in un mese gran parte dei pensionati, al doppio di ciò che sempre in mese riceveranno gran parte di coloro che son rimasti in Almaviva, ad un mese di NASPI per il disoccupato che ha la fortuna di prenderla.. Mi fermo qui ma potrei andare avanti un mese. A me tutto questo sembra una vergogna che annuncia vergogne, ma vedo invece che su tutti i mass media questa offesa ai poveri viene presentata come un grande evento progressista. Obama parlerà per mezz'ora di cibo corretto e rispettoso ad una platea di persone che han passato il tempo a mangiarsi il nostro paese. E prima di parlare a costoro Obama ha fatto qualche assaggino di buona cucina insieme a ai vip dei vip, Marchionne, Montezemolo, Marcegaglia, Della Valle, Renzi, la crème della crème.
Riceviamo dal compagno Fosco Giannini della segreteria nazionale e responsabile del dipartimento esteri del Partito Comunista Italiano (PCI), e volentieri pubblichiamo
La "Repubblica” è l’unico quotidiano “nazionale” italiano, nel senso che si vende, certo in modo differenziato, in tutte le regioni italiane. Non è prettamente “lombardo” come il “Corsera”, né emilano-romagnolo come il “Resto del Carlino”, o laziale come “ il Messaggero”. Dunque, il giornale fondato da Eugenio Scalfari, costruisce, ben più di altri, senso comune di massa, dirige la testa di milioni di persone. Nacque ( per ammissione - vent’anni dopo - dello stesso Scalfari) per aiutare il PCI a sciogliersi, per essere l’organo politico dell’ “occhettismo”. Oggi, conseguentemente, è molto vicino al PDR, il Partito Democratico di Renzi. Ed è molto importante, detto ciò, vedere come “La Repubblica” ha commentato la vittoria di Emmanuel Macron, in Francia. E’ presto detto, basta citare il titolo di prima pagina, a caratteri cubitali: “ Macron, la svolta dell’Europa”. Ce lo aspettavamo, questo commento, che dobbiamo analizzare, proprio perché costruisce l’orientamento di vaste masse, anche a “ sinistra”.
Affrontiamo la questione di petto: con Macron ci sarà una svolta nell’Unione Europea?
Il 5 maggio era l'anniversario della morte di Napoleone (e questo lo sanno tutti coloro che si sono sciroppati l'Ode a memoria), ma anche (dato invece assai meno noto) della nascita di Søren Kierkegaard.
Duplice evento dalle connotazioni infauste che, probabilmente, spiega anche certe mitologiche sventure sportive. Ma non divaghiamo.
Lo spiacevole ricordo del non compianto filosofo danese si è dunque sovrapposto al triste spettacolo dei tempi moderni, in cui - grazie alla clava del vincolo monetario, con i suoi effetti deflazionistici nei confronti dei lavoratori a vantaggio delle classi più abbienti, e della criminalizzazione del debito pubblico - i diritti primari (lavoro e sicurezza sul lavoro, adeguata retribuzione, assistenza sanitaria, diritto all'abitazione, diritto all'istruzione) e sociali (diritti sindacali, diritti di partecipazione, diritti politici non solo nominali), ancorché costituzionalmente garantiti, sono stati sostanzialmente abrogati sia nella prassi legislativa sia nella lotta politica, per essere sostituiti, in entrambi gli ambiti, da quelli che Luciano Barra Caracciolo definisce "diritti cosmetici".
L’arrivo di Macron nella Piazza del Louvre domenica sera, per parlare ai suoi sostenitori, a poche ore dalla proclamazione della vittoria, è stato, tra le altre cose, un gran colpo di teatro. Non la solita auto blu da cui scendere scortato e affiancato da una moltitudine di sconosciuti ma un giovane che attraversa tutta la piazza a piedi, spedito e solitario, in un percorso poco illuminato, quasi buio, vestito di un sobrio ed elegante soprabito, ondeggiante al vento della sera, per raggiungere la piazza piena di bandiere e di luce. Dal buio alla luce, dalle tenebre del passato alla luce ed allo scintillìo della piramide (massonica?), simbolo della ragione illuminista, pardon europeista.
Una coreografia dovuta alla première dame nota anche per le sue competenze teatrali? Innovativa anche nella scelta del luogo, la piazza del museo che conserva le vestigia artistiche di tutti i paesi europei e dell’intero globo, e non la tradizionale Bastiglia cara alla sinistra, né la Concorde, cara alla destra. Il più giovane presidente del mondo ha cominciato così a marcare la discontinuità con l’ancien regime.
Chi è Emmanuel Macron? Si dice che sia un uomo misterioso, segreto. Sappiamo che sia un liberale, come egli stesso si è definito.
Tutto ciò che cerca di mettere un freno al massacro che in Siria procede da più di sei anni va accolto con favore, almeno con speranza. Questo ovviamente vale anche per le “zone di de-escalation” che sono state create nella provincia di Idlib, in parte delle province di Latakia, Homs, Hama e Aleppo, nell’area di Ghouta a Est di Damasco e al Sud, nelle province di Daraa e Quneitra presso il confine con la Giordania.
In queste zone (che dovranno a breve essere definite con più precisione) è stato avviato un cessate il fuoco che dovrebbe durare sei mesi più altri sei. Inoltre, in esse avranno accesso gli aiuti umanitari, i civili saranno protetti e con loro le relative attività economiche, o quel che ne è rimasto. L’aviazione siriana e quella russa, infine, hanno sospeso le loro incursioni. Il tutto è frutto di un accordo stipulato tra Turchia, Russia e Iran nei colloqui di Astana e rifiutato dai rappresentanti delle opposizioni armate a Bashar al-Assad, che di colpo hanno rovesciato le proprie posizioni: ora dicono che occorre difendere l’integrità territoriale della Siria e che qualunque tregua deve riguardare l’intero Paese.
Un dialogo con il nuovo libro di Marco Bersani sulla questione del debito , sulla sua trasversalità alle diverse dinamiche economiche e sulle molteplici modalità di utilizzo concretizzatesi storicamente. Con lo sguardo dentro l'attualità dei conflitti contro l'austerity e il dominio della finanza
È da poco uscito l’ultimo
libro di Marco Bersani dal titolo Dacci
oggi il nostro debito
quotidiano , edito da DeriveApprodi
(pp. 172, 12 €). Prima di ogni cosa, si tratta di un riuscito
lavoro di ricerca militante.
Il libro presenta una critica dell’economia politica del
debito (pubblico e privato), ma vuole essere principalmente,
come sostiene lo stesso
autore, uno strumento per organizzare la lotta sugli effetti
del debito sulle nostre vite. È un libro che nasce
dall’interno dei
conflitti sociali sviluppati sui temi della
finanza negli ultimi 16-17 anni almeno. Non poteva essere
altrimenti. Marco in tutto
questo periodo ha organizzato lotte, promosso campagne,
realizzato centinaia di iniziative su terreni collegati alla
finanziarizzazione
dell’economia. Ricorderete l’inizio dei duemila, quando
attraversavamo le strade di Genova, la campagna di Attac sulla
Tobin tax,
oppure il lavoro più recente svolto intorno alla
privatizzazione di Cassa Depositi e Prestiti, o ancora, la
straordinaria campagna referendaria
sull’acqua bene comune. Ecco, dietro tutte queste lotte c’è
sempre stato il suo prezioso lavoro organizzativo.
Nel suo ultimo libro, “Democrazia senza popolo” (Feltrinelli, 2017), Carlo Galli ha ripercorso la sua esperienza parlamentare alla luce dei risultati cui è giunto in veste di studioso della politica. Nell'intervista qui presentata, si richiamano i tratti principali di questa riflessione
Carlo Galli, storico
delle dottrine
politiche, da qualche anno si cimenta nella dimensione
pratica della politica. Parlamentare critico del Pd, ne
prende formalmente le distanze quando
il renzismo scopre le sue carte neoliberiste. Decide,
infatti, di non votare riforme importanti quali il “jobs
act”, la “buona
scuola” e la riforma costituzionale. Legato al modello
francofortese, Galli ha a cuore un progetto
politico-culturale intenzionato a rivisitare
in un’ottica socialdemocratica il rapporto tra capitale e
lavoro. Ed è per questo che l’intellettuale progressista
denuncia la
“terza via” contemporanea, quel pensiero ibrido che insegue
la vittoriosa narrazione del capitale e che, per certi
versi, adotta gli
strumenti ermeneutici del disordine nichilistico. Per
risolvere la crisi strutturale in cui versa la società dei
diseguali, la sinistra a suo
parere dovrebbe riscoprire se stessa riabilitando la trama
dell’equità sociale.
* * * *
Il titolo del suo ultimo libro recita: Democrazia senza popolo (Feltrinelli 2017). Com’è risaputo, anche la sinistra è senza popolo. Crede vi siano le condizioni per ricucirne il legame?
Si tratta in realtà di due questioni diverse. Fine della efficacia della rappresentanza politica (un tema vecchio di almeno centocinquanta anni) e fine dell’efficacia di una proposta politica (la sinistra come partito di massa che propone un profondo riequilibrio economico sociale e politico nelle società occidentali).
1. Questo post cercherà di
scavare oltre la mera constatazione di sconquassi sociali,
arbitrii plateali dell'oligarchia economica, eversione
strisciante (ma anche no) dei
principi fondamentali della Costituzione, e,
soprattutto, della incessante propaganda antidemocratica
profusa dalla grancassa mediatica, impegnata
a fare il sicario prezzolato della democrazia del lavoro (come
in sostanza ci rivelava Gramsci,
invitando a boicottare i media, già negli anni '20).
Vorrei introdurre l'argomento muovendo da una sintesi che ci ha proposto Bazaar, relativamente al "come" l'assetto istituzionale del neo-liberismo, incarnato oggi da L€uropa, avrebbe superato lo stato di crisi, dicono addirittura rafforzandosi, almeno oggi nei giorni dell'esaltazione trionfale dell'elezione di Macron:
"La Terza forza - ovvero il gregge moderato - è la stessa forza che doveva rincorrere la Terza via. Qualla che non è il prodotto di alcun Aufhebung.
Più ordoliberismo per tutti.
I seggi elettorali non sono ancora stati smantellati che a Parigi c’è stata la prima manifestazione anti Macron organizzata dal Front Social un ensemble che riunisce alcune sezioni sindacali, Force Ouvriere, studenti e associazione di base. E ancor prima dell’insediamento del fantoccio di Rothschild e bamboccio del Bilderberg, la polizia ha fatto capire le intenzioni della nuova governance francese mettendo in piedi un enorme di dispositivo di controllo e repressione del tutto spropositato rispetto a un corteo di poche migliaia di persone, con perquisizione dei passanti, chiusura di fermate della metropolitana, blocco di strade e infine con le manganellate a presunti black bloc e persino ai giornalisti.
In un certo senso la manifestazione era logica, dovuta, attesa visto che la sinistra francese era scesa più volte in piazza quando Macron era ministro dell’economia e lo si imputava di essere stato l’autore principale della loi travail, ovvero dello strumento con cui si è proceduto a distruggere i diritti del lavoro e a lanciare la precarizzazione selvaggia. Ma sì logica, coerente, necessaria, se non fosse per il piccolo particolare che molta parte dei manifestanti appena due giorni prima era andata nei seggi elettorali per votare Macron invece di astenersi come sarebbe stato ovvio per evitare che la vittoria macronista fosse così netta.
Sento fare molti discorsi, per così dire, auto-consolatori, dopo i risultati delle elezioni presidenziali francesi, circa una presunta “incapacità” dei populismi di destra di sfondare nell’agone elettorale, conquistando l’egemonia politica.
A mio avviso, molti di questi discorsi dipendono da un errore di percezione, tipico dell’osservatore individuale, che tende ad identificare la sua percezione soggettiva del tempo con quella oggettiva. E’ chiaro che, in un approccio soggettivo, dopo circa dieci anni di crisi economica, che per una esistenza personale sono un lasso di tempo lungo, si possa pensare che i populismi di destra non riescono a conquistare l’egemonia.
Ma i tempi della storia, purtroppo, sono oggettivi, e non soggettivi. La sinistra ha raggiunto l’apogeo della sua egemonia culturale e politica nell’Occidente nei Trenta Gloriosi dopo la seconda guerra mondiale. Le prime manifestazioni intellettuali e culturali del socialismo utopistico risalgono alla fine del Diciottesimo secolo! Ora, guardiamo ad una mappa dei populismi di destra, e come si sono evoluti in soli 10-15 anni. Essi governano in Ungheria e negli Stati Uniti, hanno governato in Danimarca (dove il partito Df è riuscito ad imporre leggi di limitazione dell’immigrazione molto severe, ed ha guadagnato il 21% dei voti alle politiche del 2015, dal 12,3% del 2011).
In preparazione della visita del presidente Trump in Europa – il 24 maggio a Roma, il 25 al Summit Nato di Bruxelles, il 26-27 al G7 di Taormina – il Pentagono ha presentato il suo piano strategico per il «teatro europeo».
Lo ha fatto per bocca del generale Curtis Scaparrotti che, essendo a capo del Comando europeo degli Stati uniti, è automaticamente a capo della Nato con la carica di Comandante supremo alleato in Europa. Al Senato degli Stati uniti, il 2 maggio, il generale ricorda che «il teatro europeo resta d’importanza cruciale per i nostri interessi nazionali» e che «la Nato ci dà un vantaggio unico sui nostri avversari». Tale vantaggio viene però ora messo in pericolo da «una Russia risorgente, che cerca di minare l’ordine internazionale a guida occidentale e di riaffermarsi quale potenza globale».
Il Comandante supremo chiama gli alleati europei a serrare i ranghi attorno agli Stati uniti per difendere con ogni mezzo l’«ordine internazionale» – quello fondato sulla supremazia economica, politica e militare dell’Occidente – messo in pericolo dall’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali. Egli concentra il fuoco sulla Russia, accusandola di «attività maligne e azioni militari contro l’Ucraina» (proprio nel terzo anniversario del massacro di decine di russi perpetrato a Odessa il 2 maggio 2014
Jacques Sapir commenta a caldo la vittoria di Macron al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi. Il dato principale è l’esiguità della sua vittoria, se si considera lo schieramento di stampa e media a suo favore, e il paragone con il risultato di Chirac del 2002 contro Le Pen padre. Tra astensione e schede bianche o nulle appena il 43% degli aventi diritto al voto si è espresso per Macron e, stando ai sondaggi, più della metà di loro lo avrebbe fatto per esclusione, non approvando in realtà il suo programma. Visto il sistema politico francese, comunque, Macron avrà estrema difficoltà a governare se, come probabile, sarà ben lontano dall’ottenere la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari nelle elezioni legislative del prossimo mese
Emmanuel Macron è stato dunque eletto, il 7 maggio, con un’ampia maggioranza dei voti espressi. Il 66% dei voti è un dato che impressiona, ma è anche un’illusione ottica. Se si considerano le percentuali di elettori che si sono astenuti o che hanno votato “scheda bianca o nulla”, Macron ha raggiunto solo il 43% dei voti degli aventi diritto. Questo dato è da confrontare con quello ottenuto da Jacques Chirac nel 2002 in un’elezione presidenziale in cui lo sfidante era anch’esso del Front National [Jean-Marie Le Pen, NdT]. In quel caso, al secondo turno Chirac aveva raggiunto il 62% dei consensi dell’insieme di tutti gli aventi diritto al voto. I 19 punti percentuali in meno di Macron rispetto a Chirac, dopo 15 anni, sono molto significativi.
Apprezziamo lo stimolo di Luigi Zingales ad approfondire il dibattito sull’euro come moneta unica. Forse però Zingales ha liquidato troppo frettolosamente la moneta fiscale come «illegale nel contesto della Ue».
Concepita come “sconto fiscale” (sul modello dei “ tax anticipation warrants ” di Irving Fisher), la moneta fiscale non è una moneta parallela a corso legale, e quindi non entrerebbe in conflitto con l'euro (1). Anzi, contribuirebbe a migliorare l'euro, trasformandolo in una moneta comune. Codogno e Galli (nell'articolo su queste pagine del 25 aprile) hanno criticato la moneta fiscale, con un contributo utile a mostrare visioni contrapposte sul rilancio dell'economia italiana. Con Codogno e Galli si schierano tutti quelli che considerano il debito pubblico come il problema principale, da affrontare con l'austerità fiscale e le “riforme strutturali”. La ricetta si traduce in una ricerca della competitività tramite riduzioni progressive nel costo del lavoro. Applicata alla Grecia, si è rivelata tragicamente inefficace.
L'economia italiana dal 2014 ha ripreso a crescere, ma a tassi molto bassi. Il reddito nazionale pro-capite, depurato dall'inflazione, era diminuito nel 2013 di oltre il 12% dal massimo del 2007, con una perdita di circa 3mila euro pro-capite, a prezzi del 2010.
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L’esperienza neoliberista
oggi può dirsi compiuta. Sono alcuni decenni almeno che si sta
realizzando ed attuando e dal colpo di Stato in Cile in cui è
stata
sperimentata sono passati più di quarant’anni. Ha rivelato di
essere il risultato di un voluto e devastante inganno
imperniato su delle
bugie grossolane che parlavano di crescita economica della
società e di esaltazione delle capacità dell’individuo che si
sarebbero
realizzate con il riconoscimento del primato del mercato,
inganno a cui ha chiesto di sacrificare tutto, da un minimo di
giustizia sociale alla tutela
dell’ambiente, ai contratti nazionali, ad una equa
retribuzione, alla sanità e all’istruzione pubblica e
gratuita….
Ma, malgrado tutto ciò, l’ideologia neoliberista sulle virtù del libero scambio continua ad imporsi grazie ad un apparato economico e politico che viene presentato come un dogma.
Il centro della nuova religione sono gli Usa e il Regno Unito che impongono alle istituzioni multilaterali il bello e il cattivo tempo, che manipolano i dati e le informazioni scomode in particolare riguardo all’occupazione e al potere d’acquisto delle popolazioni. E fanno questo non solo e non soltanto nei riguardi dei paesi che una volta si chiamavano in via di sviluppo, ma anche dei paesi occidentali utilizzando il grimaldello dei partiti così detti di sinistra.
Per opporsi con efficacia alle conseguenze del macchinismo (riduzione del salario e disoccupazione) i comunisti devono realizzare l'obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
Il presente articolo
trae spunto dal
materiale didattico (lucidi) preparato
da Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di
Roma, e presentato
ad una serie di seminari “Sull’attualità
del pensiero economico di Marx”, tenuti presso
l’Università Popolare A. Gramsci, nell’anno accademico
2016-2017.
* * * *
I capitalisti introducono le macchine nella produzione con lo scopo di ridurre il numero di lavoratori necessari per fabbricare lo stesso numero di merci, oppure per produrre più merci con lo stesso numero di ore di lavoro e di lavoratori [1]. Ciò avviene al fine di diminuire il costo del lavoro e, quindi, aumentare il plusvalore relativo per singolo addetto [2]. La missione storica del capitalismo, che determina lo sviluppo delle forze produttive, è proprio la produzione massima di plusvalore dal lavoro umano. A tal proposito la macchina agisce come alleato del capitale nella lotta di classe che si sviluppa tra capitale e lavoro. La macchina “diventa l'arma più potente per reprimere le insurrezioni...degli operai...contro l'autocrazia del capitale” [3]. I capitalisti, infatti, possono sfruttare meglio i salariati con l’aumento del numero di disoccupati.
Non mi convince affatto la chiave di
lettura che ci presenta il nuovo Presidente francese nei panni
dell’ennesima creatura tecnocratica creata a tavolino dai
soliti “poteri
forti mondialisti” generati dal Finanzcapitalismo. Burattino e
burattinai, insomma. Per Massimo Franco «Macron è il prodotto
di un
esperimento tecnocratico della banca d’affari Rotschild, [è]
figlio dell’élite tecnocratica [che] incarna una strategia
europeista e centrista che ha fatto tabula rasa sia del
gollismo, sia della sinistra» (Il Corriere della Sera):
troppo semplice per i
miei gusti. Questo senza nulla togliere alla forte
connotazione tecnocratica e “finanzcapitalistica” del nuovo
inquilino
dell’Eliseo, matrice che sono ben lungi dal negare. Anche
l’interpretazione di Macron (cioè delle politiche
“neoliberiste” che egli incarnerebbe alla perfezione) come la
vera causa del successo che comunque il Front National ottiene
nell’elettorato di estrazione operaia e proletaria (per cui
chi ha votato per il candidato della «cupola finanziaria
mondialista» di
fatto avrebbe portato acqua al mulino della “destra
populista”) mi appare troppo riduttiva e semplicistica, e in
ogni caso essa non coglie
tutta la complessità della crisi sistemica che ormai
da anni travaglia in profondità la società francese.
Il mare come simbolo della globalizzazione, l'economia del container, la crisi sistemica, le gravi falle del sistema di trasporto sulle navi: Sergio Bologna esplora la "perfect storm" nel suo ultimo libro "Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale"
Il mare resta lo spazio cruciale della globalizzazione… Il sistema di fabbrica non è più concentrato nel mondo sviluppato ma è diventato mobile e diffuso. Mentre le navi assomigliano sempre più a edifici, a giganteschi magazzini galleggianti della distribuzione “just-in-time”, le fabbriche assomigliano sempre più a natanti che s’aggirano furtivamente alla perenne ricerca di forza lavoro a buon mercato. [Allan Sekula e Noël Burch, The forgotten space, 2010].
A ormai un decennio dalla crisi che ha investito i mutui subprime del settore immobiliare, un’altra bolla finanziaria, quella degli investimenti in naviglio, si sta sgonfiando e attira nel suo rovinoso vortice migliaia di investitori e operatori, pubblici e privati. Sul tema, i cui riflessi colpiscono tutti molto più di quanto non sembri – dalla qualità delle merci e del lavoro a quella della sicurezza in mare – grava un silenzio assordante e colpevole da parte di quasi tutti i media mainstream.
Di contro, Sergio Bologna, nel suo ultimo libro Tempesta perfetta sui mari (DeriveApprodi, 2017), indaga con lucidità e perizia critica questa nuova allarmante crisi di settore.
Sfumato lo scenario di una conflagrazione “politica” dell’Unione Europea sull’onda di una vittoria elettorale di Marine Le Pen, tornano alla ribalta le forze centrifughe di natura economica: l’Italia si trova adesso in prima linea. Gli allarmanti dati su debito pubblico, disoccupazione, crescita e sofferenze bancarie, suggeriscono che la situazione, complice la prossima instabilità politica, possa precipitare anche prima del rialzo dei tassi da parte della BCE: è quasi certo che, come nel bollente autunno del 2011, Mario Draghi ed Angela Merkel, spalleggiati dal neo-presidente francese Emmanuel Macron, tenteranno di commissariare l’Italia, spingendola verso un “salvataggio” del FMI/ESM. Rimane da capire se la nostra classe dirigente, incalzata da una società sempre più insofferente, cederà al ricatto.
Un nuovo 2011 alle porte
Le presidenziali francesi rappresentavano la principale, e forse unica, occasione del 2017 per una conflagrazione “politica” dell’Unione Europea: se il Front National, sospinto dalla disoccupazione record e dalle montanti tensioni sociali, avesse conquistato l’Eliseo, l’intera architettura europea sarebbe crollata nel volgere di pochi mesi, travolta dall’esplosione del motore franco-tedesco.
L’autore di questo libro1 rilegge l’origine della modernità alla luce di un concetto centrale in Hölderlin e Hegel: “l’infinitizzazione del finito”, che sta a indicare il desiderio titanico di essere dio e prenderne il posto da parte di un individuo o di un collettivo. Tuttavia, l’assunzione sulle proprie spalle dell’intero peso di un’epoca, come tenta di fare Empedocle nella tragedia incompiuta di Hölderlin, non può che condurre il soggetto alla lacerazione e alla follia: il filosofo di Agrigento è travolto da una pulsione verso l’illimitato e dal desiderio di morte. Nel romanzo Iperione, Lo stesso protagonista e il suo amico rivoluzionario Alabanda cedono alla tentazione di credersi incarnazione dell’idea assoluta della storia: Hölderlin descrive i lineamenti di una distopia o utopia negativa, che getta una luce fosca verso il Novecento e le sue rivoluzioni fallite. Solo un essere-in-comune – e non la personificazione di un’idea in un corpo sovrano – può dare risposta al conflitto costituente della modernità.
In Hegel – come viene interpretato da Cappitti – il soggetto è inevitabilmente incompiuto e non può arrestarsi in modo definitivo in nessuna singolarità. Tale arresto è – in senso letterale, come vien detto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche – una follia, anzi la follia. Questo soggetto sempre incompiuto e in procinto di farsi, si immerge nella lotta per il riconoscimento, descritta nella Fenomenologia dello spirito.
Si legge su un articolo del Le Figaro del 27 marzo scorso, che l’IRI francese, chiamata APE e creata SOLO nel 2004 mentre l’elite anche francese soffiava sul collo dell’Italia perché smantellasse l’IRI, ha venduto la sua partecipazione del 12.7% in PSA (l’ex gruppo Peugeot/Citroen), il costruttore auto francese, a una SUA banca pubblica, partecipata pariteticamente dalla CDP francese e da APE stessa, il cui ricavato servirà a ricapitalizzare EDF e Areva..società energetiche e nucleari pubbliche francesi…
Si legge nella relazione annua dell’Ape del 2015/2016, l’ultima cronologicamente disponibile, che Air France ha ottenuto nuove linee di credito per un importo pari a 1,675 miliardi di euro: a fine aprile 2015, Air France-KLM e Air France hanno firmato con tredici banche internazionali un contratto di credito revolving per un importo di 1,1 miliardi di euro, rinnovando in anticipo la linea di credito di Air France che scadeva ad aprile 2016. Questa linea di credito è costituita da due tranches di durata rispettiva di tre e cinque anni per un importo di 550 milioni di euro ciascuna.
La linea di credito è stata completata, ai primi di luglio, da una linea simile costituita da KLM con dieci banche internazionali, per un importo di 575 milioni di euro.
Nel 1596 una delegazione pontificia guidata dal cardinale Caetani attraversò la Moravia diretta in Polonia. La Moravia e la Boemia erano terre di eretici ed il nunzio papale lo sapeva bene, ma anche lui rimase stupito quando, durante una sosta nella piccola città morava di Slavkov (alias Austerlitz), si trovò di fronte ad una vera e propria esplosione di «sette» eretiche. Annotò nei suoi diari che a Slavkov si potevano «trovare 64, o forse addirittura 70 tipi di eresia».
Un viaggio odierno all’interno del mondo «eretico» italiano ci mostra evidenti analogie con le osservazioni del Caetani.
In quali termini è possibile definire l’«eresia» dei nostri tempi? Esiste un nucleo in qualche modo comune all’interno di questo frammentato universo?
In verità è proprio tale nucleo che ne definisce la caratteristica «eretica». «Eresia» oggi è quella dimensione di analisi critica e di azione politica che si oppone all’ideologia economica dominante. Certo il termine «eresia» è stato adoperato per tutte le forme di critica dell’economia politica fin da quando l’antitesi ai percorsi del capitale è diventata una forza reale. Per circa un secolo l’«eresia», però, si è conquistata spazi teorici e politici che hanno impedito quello che chiamiamo «pensiero unico».
La
maggioranza delle posizioni riguardo al fenomeno del jihadismo
si può grosso modo dividere in due filoni, che corrispondono
pressappoco alle visioni orientalista e occidentalista dei
rapporti con il mondo islamico. Alla prima, connotata da un
etnocentrismo occidentale,
possiamo ascrivere i contributi viziati da una visione
vetero-positivista che relega i fenomeni religiosi a elementi
residuali incompatibili con un
progresso tecnico e sociale in senso democratico. Alla seconda
critica appartengono soprattutto le categorie occidentali
derivate e influenzate da
esigenze economiche e politiche legate all’imperialismo. La
maggior parte dei contributi in questo senso è ascrivibile
quindi a una di
queste due correnti opposte tra loro, entrambe inefficaci sia
dal punto di vista epistemologico che da quello della prassi
politica. Tali opposte
concezioni si collocano infatti entrambe allo stesso livello
trivializzante come apologia del sistema globale lacerato dal
cosiddetto scontro di
civiltà.
Per uscire dall’impasse che impedisce una corretta analisi del fenomeno e del significato dei fatti storici degli ultimi anni è necessario un salto di qualità che permetta una visione ampia del sistema mondiale cogliendone contraddizioni e limiti per definire la funzione delle guerre comprese quelle che chiamiamo “di religione”.
“Chinati, ti devo sussurrare all’orecchio
qualcosa:
per tutto io sono grato, per un
osso
di pollo come per lo stridio delle forbici che già
un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è
Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c’è mano, e non c’è viso, né il suo
ovale.
La cosa quanto più è
invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque”
(I. Brodskij «Elegie romane»)
‘Non essere’ e ‘nulla’ sono i due nomi più noti di un antico e indocile cruccio del pensiero, la cui storia è lastricata in egual misura di orrore e di fascinazione, di condanna e di salvezza.Quest’idea liminale ha, con le sue numerose sembianze (non-essere, nessuna cosa, nullità, vuoto, zero) dato filo da torcere all’antico non meno che al contemporaneo, innervandosi in procedimenti logici (astrazione, negazione, negazione determinata) o addirittura ponendosi a fondamento di veri e propri indirizzi teorici (nichilismo, me-ontologia).
Vincenzo Ruggiero, I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico, Feltrinelli, 2013
Professor Ruggiero,
Lei è autore del libro I
crimini dell’economia. Una lettura criminologica del
pensiero economico pubblicato per i tipi di
Feltrinelli: in che modo la prospettiva
criminologica può esser utile nell’analisi del pensiero
economico?
L’idea di scrivere ‘I crimini dell’economia’ mi è venuta dopo aver letto molte analisi economiche della criminalità. Gli economisti, infatti, hanno visitato spesso il terreno della criminologia, esaminando la logica razionale dei reati. In difesa del suo lavoro sul crimine come scelta, il Premio Nobel per l’economia Gary Becker ha fatto notare che anche chi commette reati può essere trattato da homo oeconomicus, e ha ricordato ai lettori che due grandi fondatori della disciplina criminologica, Beccaria e Bentham, applicavano esplicitamente un approccio economico nella loro analisi dei delitti e delle pene. Il mio libro intende restituire la visita, proponendo una lettura criminologica del pensiero economico. Del resto, il sapere economico si occupa di creazione e acquisizione di ricchezza, di mercati, di legittimità e devianza dalle regole che guidano l’arricchimento. È questo un campo che appartiene anche all’indagine criminologica.
Uno studio: 40% delle società USA quotate in borsa controllate da 3 soli soggetti, i fondi Blackrock, Vanguard e State Street, con 11 milioni di milioni di asset
Tempi duri per i corifei cantori del libero mercato e della libera concorrenza: uno studio pubblicato dall'Università di Cambridge e finanziato dal Consiglio Europeo Ricerche, dimostra che la retorica del libero mercato, della mano invisibile smithiana e della concorrenza a vantaggio del consumatore è solo una narrazione priva di riscontri reali e dunque totalmente ideologica.
Secondo questo studio - firmato da Jan Fichtner e Eelke Heemskerk e da Javier Garcia-Bernardo - il 40% delle società americane quotate in borsa sono controllate da tre soli soggetti, i fondi Blackrock, Vanguard e State Street.
Questi fondi, che potremmo definire "le Tre Sorelle di Wall Street", hanno asset per un valore complessivo di 11 mila miliardi dollari (11 milioni di milioni), più di tutti i fondi sovrani del mondo e tre volte tanto rispetto a tutti gli hedge found.
Secondo lo studio, questa enorme concentrazione di risorse economiche può esercitare un potere nascosto in grado di influenzare potentemente tutta l'economia americana piegandola ai propri interessi con buona pace del Libero Mercato.
In definitiva la crisi scoppiata nel 2008 ci sta portando una nuova forma di capitalismo assimilabile nelle pratiche a quello dei robber baron dell'Ottocento ma con un potere infinitamente più pervasivo nella vita delle persone a causa dell'innovazione tecnologica nei settori della robotica, dell'intelligenza artificiale e delle biotecnologie.
Scopro, grazie al commentatore Z (che immagino come un grande gatto tranquillo), che l’idea che sia stata approvata una legge che permette di difendersi solo di notte, nasca da un equivoco linguistico:
” L’emendamento approvato ieri dalla Camera amplia la legittima difesa in «reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte ovvero la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi con violenza alle persone o alle cose ovvero con minaccia o con inganno».”
Praticamente, non si sapeva che nel linguaggio giuridico, ovvero non significa “cioè”, ma solo “oppure”.
Z su questo costruisce una bellissima frase:
“La cosa divertente è che questi ignoranti hanno passato giorni e giorni a commentare non la riforma, ma la propria ignoranza: con il ghigno compiaciuto dell’ignorante che si crede astuto, oltre tutto.
Ma, andando oltre a Z che si comporta da signore, resta un fatto interessante: una folla ululante di giustizieri da tastiera, che stava dando addosso al pazzo Renzi, si è trovata davanti una folla uguale che derideva il cretino Salvini.
Che è un gioco che dà un’immensa soddisfazione a chi ci vuole giocare.
Con crescente compiacimento i media stanno offrendo una rappresentazione catastrofica della situazione venezuelana. Le “analisi” sul fallimento del “socialismo bolivariano” risultano piuttosto omogenee. Secondo il giornale online “Il Primato Nazionale”, la colpa sarebbe della nazionalizzazione del petrolio, una nazionalizzazione che avrebbe potuto essere giusta in teoria, ma che si è rivelata un errore economico. Se a dirci che il problema è la nazionalizzazione arriva addirittura un giornale che si proclama nazionalista e che si chiama “Il Primato Nazionale”, allora verrebbe quasi da crederci. Vatti a fidare dei “nazionalisti”.
Sennonché le proteste di piazza contro il governo di Maduro mostrano un denominatore comune. Sono tutte infatti gestite da Organizzazioni Non Governative. Una rivolta tutta di marca ONG, che è stata lanciata anche a livello mondiale. Le ONG sono infatti delle multinazionali del “non profit”, cioè del non-tax.
Una delle più rilevanti di queste ONG multinazionali, “Un Mundo Sin Mordaza” (Un Mondo Senza Bavaglio) ha nel suo programma la difesa dei diritti umani e vanta come leader un certo Rodrigo Diamanti. Troviamo Rodrigo Diamanti tra i firmatari di un appello per i “diritti umani” in America Latina promosso dalla ONG statunitense “Freedom House”.
Un leitmotiv ricorrente, nei peana che i media europei di regime (cioè tutti) hanno tributato alla vittoria di Macron, si riferisce alla sua età: il presidente giovane che, come il primo Obama e Renzi, promette di “rottamare” la vecchia politica e avviare radicali riforme in linea con i dettami del pensiero unico liberista, spazzando via le resistenze “corporative” dei sindacati e quel che resta del welfare, oltre a completare la trasformazione dello Stato in agente degli interessi della finanza globale.
Indubbiamente Macron è giovane, giovanissimo in quanto Presidente della Repubblica. Ma è davvero il presidente dei giovani? Sono davvero loro che ne hanno decretato la vittoria? In realtà, come ammette un articolo di Federico Fubini sul Corriere del 9 maggio, egli ha avuto la sua vera base elettorale negli ultrasettantenni, che lo hanno premiato con percentuali bulgare. Né la cosa deve stupire, ove si consideri che, dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso a oggi, la popolazione francese ha subito un rapido invecchiamento (l’età media è aumentata di cinque/sei anni), con una conseguente crescita del numero dei pensionati, categoria “europeista” per eccellenza, in quanto terrorizzata dall’idea che un’eventuale uscita dall’euro rischierebbe di falcidiarne i redditi.
Nelle settimane che hanno preceduto il voto per le presidenziali in Francia, le bacheche Facebook di mezzo paese abbondavano di accuse alla stampa. “Venduti!”, “merdias” (“medias”, media + “merde”, che altro non significa che merda), “journalopes” (“journalistes” + “salopes”, troie) si leggeva, molto spesso in riferimento all’ampio spazio dedicato da giornali e televisioni al candidato [ e nuovo Presidente della Repubblica francese] di En Marche! Emmanuel Macron.
Macron ha effettivamente goduto di una copertura mediatica superiore a quella degli avversari, e in occasione del secondo turno ho voluto parlare proprio del ruolo dei media nelle elezioni con il sociologo Alain Accardo, senior lecturer a Bordeaux 3 specializzato in giornalismo e funzionamento dei media mainstream.
Secondo Accardo, “l’errore più grande e al contempo più diffuso in cui possiamo incorrere quando parliamo di media è ritenere che svolgano una funzione a beneficio di tutta la popolazione: fornire delle informazioni ai cittadini, così come vengono fornite ai cittadini anche acqua, gas ed elettricità. Nella pratica i media non sono che incidentalmente dei fattori di utilità pubblica: oggi sono semplicemente una parte, e non la più piccola, del dispositivo di difesa del sistema".
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Ancora sul fenomeno cosiddetto "populista". Dopo le interviste, pubblicate sui numeri di dicembre e gennaio, a Fulvio Scaglione, Carlo Formenti, Marcello Foa e Giulietto Chiesa, questo mese, in esclusiva per i nostri lettori, affrontiamo lo stesso tema con Stefano Azzarà, docente di Filosofia moderna presso l’Università di Urbino e autore del volume "Democrazia cercasi"
Visto che lei è un
marxista, inizierei dalla critica. Uno dei paradigmi
interpretativi che si sta affermando nettamente, non solo
tra i rappresentanti dell'establishment
(lo ha dichiarato qualche settimana fa in un'intervista sul
Corriere della Sera, il direttore del Wall Street Journal,
Gerard Baker) ma anche tra
molti compagni, riguardo alla reazione che sta montando in
occidente contro chi ha governato la globalizzazione negli
ultimi 20 anni, è quello
secondo cui lo scontro fondamentale non è più fra destra e
sinistra ma tra populisti e globalisti. Ecco, rispetto a
questo, qual
è la sua analisi?
Ritengo profondamente sbagliata, per non dire foriera di grandi pericoli, questa impostazione, che appare nuova ma che in realtà si è presentata più volte sulla scena politica e culturale non solo nel XX ma già nel XIX secolo. La vera differenza rispetto al passato è semmai che mentre prima queste tesi erano smentite nella pratica, oltre che nella teoria, oggi l'impotenza pressoché totale acquisita dalla sinistra lascia un campo totalmente aperto alle destre per un'operazione egemonica in grande stile. Un’operazione che sta già cambiando il modo di pensare delle generazioni più giovani e ha aperto una breccia anche a sinistra.
Introduzione
Quel che segue è il testo, rivisto e in parte integrato, di una conferenza tenuta a Santander, presso l’Universidad de Cantabria, a un convegno sul tema ‘La filosofìa medieval: exposiciòn de las grandes sìntesis medievales. Entre lo razonable y lo credible’ (3-8 ottobre 2011). Una versione un po’ diversa (senza riferimento all’Europa) è stata pubblicata in «Divus Thomas», con il titolo Il nulla e altri esistenti impensabili: una rilettura del De nihilo et tenebris.
Ciò che in queste pagine è interamente nuovo, rispetto a entrambi i testi, è la breve riflessione finale sulle attuali difficoltà politiche dell’UE (§ 4), lette nella prospettiva dell’insegnamento che possiamo trarre dallo sguardo sugli albori della filosofia in Europa. L’esplorazione dei rapporti tra filosofia e Unione Europea è un tema ricorrente di molti interventi europeisti (anche anteriori alla costituzione stessa dell’Unione). Ma è interessante notare che oggi la percezione di questa connessione diventa sempre più evidente, anche per osservatori che non sono filosofi, dunque non hanno ottiche preordinate in una simile direzione.
Le origini storiche, economiche e filosofiche della logica securitaria, ormai imperante anche nel nostro paese
Marx ed Engels sin dalla Sacra
famiglia, la prima opera scritta a quattro mani,
mettono in evidenza come il fondamento nascosto delle dichiarazioni
dei diritti
umani, grande portato della Rivoluzione francese,
sia proprio la sicurezza, intesa
essenzialmente come sicurezza nel libero
godimento della proprietà privata. Quindi la
triade che domina questo manifesto della borghesia – al
culmine della sua
fase rivoluzionaria – non è, come solitamente si sente
ripetere: libertà, eguaglianza e fraternità, ma, piuttosto:
libertà, proprietà ed eguaglianza. Dove la
proprietà è il termine medio che illumina gli altri
due, facendo sì che la libertà sia intesa come libero
usufrutto della propria proprietà al fine di ampliarla, di
modo che a
essere effettivamente liberi sono solo i proprietari,
mentre agli altri non resta altro che la libertà di far
sfruttare dai
primi l’unica merce di cui sono ancora in possesso, ovvero la
forza lavoro. Tanto che la stessa eguaglianza
è funzionale essenzialmente a tale libera compra-vendita
della forza lavoro, al fine di sfruttarne il valore
d’uso per produrre quel plusvalore
– rispetto al valore di scambio della
forza-lavoro
corrisposto al salariato – da cui deriva il profitto
dell’imprenditore, vero scopo finale
dell’intero processo produttivo nella società capitalistica.
L’euro è stato il più grande successo della scienza economica, ma sta diventando la più umiliante sconfitta per la professione economica. Ringrazio il Sole 24 Ore, che mi permette, con apprezzabile spirito di apertura, di esporre e discutere nel quadro di un dibattito autorevole un paradosso che ci riguarda tutti, economisti e non.
L’euro è stato un grande successo della scienza economica: non conosco alcun altro caso in cui essa sia stata in grado di prevedere con una precisione così sconcertante le conseguenze di una decisione politica. Vi fornisco tre esempi. Partiamo dall’ultimo Bollettino economico della Bce, il quale lamenta come la crescita dei salari nell’Eurozona sia molto tenue, il che suggerisce una probabile sottostima dei dati ufficiali sulla disoccupazione. Siamo quindi nelle condizioni previste nel 1996 da Rudiger Dornbusch, quando avvertiva che l’unione monetaria avrebbe «trasferito al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività», rendendo prevalenti condizioni di disoccupazione. È quanto chiamiamo «svalutazione interna», un meccanismo sul quale una unione monetaria deve contare, se vuole sopravvivere (lo mostrò Mundell nel 1961). In secondo luogo, in tutta Europa i partiti euroscettici progrediscono (nonostante le sconfitte), e mettono in causa il modello di integrazione politica europea.
Dalle trattative per il nuovo governo Macron, al possibile esito delle elezioni tedesche di settembre, passando per le discussioni sottobanco tra i principali partiti tradizionali italiani, sembra affermarsi con sempre maggiore diffusione la Grande Coalizione come modello di governo dei tempi a venire in Europa. In particolare, sembra che questa sia la forma che la politica di Palazzo stia utilizzando per rispondere alla modificazione dell'asse politico istituzionale da destra/sinistra ad alto/basso. Un traslarsi che si afferma in parallelo al crollo delle opzioni socialdemocratiche e dopo decenni di neoliberismo incontrastato, con relative diseguaglianze sociali di massa.
Il posizionamento rispetto all'Unione Europea sembra essere criterio fondamentale in questo spostamento d'asse, dividendo tra chi sta in alto (e la sostiene) e chi sta in basso (e la contesta) nell'arco partitico, con una divisione che viene narrata dai media tra conseguenti partiti "responsabili" e "populisti". In effetti, quello che è in corso è anche un conflitto sul concetto di patria, dove la contesa è sulla vastità dell'area geografica che deve imporre l'interesse generale della controparte.
La rivelazioni contenute nel libro di Ferruccio De Bortoli, circa le pressioni esercitate da Maria Elena Boschi, al tempo Ministro per le Riforme del governo Renzi, verso l’Ad di Unicredit, Ghizzoni, affinché il suo istituto acquisisse Banca Etruria, hanno assunto ormai significato paradigmatico per dimostrare con quanta arroganza mista a incompetenza si eserciti il potere del “giglio magico”. Che si caratterizza per esibire uno sfacciato disprezzo delle regole ed una spudorata ipocrisia e che presenta l’agire di una lobby come fosse la manifesta generosità di un gruppo di benemeriti filantropi.
Ferruccio De Bortoli è giornalista di razza e, seppure il suo ruolo di direttore al Corriere della Sera e a Il Sole24Ore lo abbia posto da sempre in una interlocuzione privilegiata con i poteri forti ed all’ascolto delle loro esigenze, ha mantenuto la schiena dritta ed una sostanziale libertà di penna che gli va riconosciuta. Un signore di rara educazione, di profonda cultura e capacità giornalistica. Dunque non sono ipotizzabili intenti “politici”: se scrive del colloquio tra Ghizzoni e la Boschi, significa che questo gli è stato riferito da fonte credibilissima. La cosa, del resto, la ammette indirettamente anche Renzi in una intervista al Foglio. Dunque si deve ragionare sul comportamento del Ministro.
Antonin Artaud, Scritti di Rodez 1943-1946, a cura di Rolando Damiani, Adelphi, Milano 2017
Antonin Artaud ha combattuto una sua guerra (una specie di guerra santa) durante gli anni terribili della seconda guerra mondiale. E ha combattuto questa sua guerra da internato in diversi ospedali psichiatrici e vittime delle violenza che là ha dovuto subire: fame, abbandono, contenzione, elettroshock. Una comune carriera da malato mentale, la sua.
Le “lettere dal manicomio”, che Artaud scrisse instancabilmente (e spesso senza ricevere risposta) rappresentano quasi la cronaca di una sofferenza ininterrotta, o meglio di una sofferenza sempre di nuovo ripetuta. Questa corrispondenza è, per così dire, esemplare di ogni scrittura composta negli ultimi due secoli dalle persone internate negli ospedali psichiatrici: troviamo anche qui le richieste di aiuto (cibo, denaro) a parenti e amici, troviamo anche qui le proteste e le petizioni rivolte ai medici per essere liberato, compreso, giustificato.
Certamente, nella scrittura di Artaud emergono più consapevolmente (e più poeticamente) questi e altri aspetti propri della vita dei manicomi.
Le banche centrali hanno salvato l’attuale mondo economico-finanziario e lo stanno ancora sorreggendo, seppur in modo meno evidente. Dall’esplosione della crisi i loro bilanci sono quadruplicati, raggiungendo la cifra di 20 mila miliardi di dollari. Tanto per rendere l’idea questa cifra è circa un quinto superiore al Pil dell’intera Unione europea. Solo dall’inizio di quest’anno le banche centrali di Usa, Eurozona, Giappone e Svizzera hanno acquistato attività finanziarie per un valore superiore ai mille miliardi di dollari. In questi ultimi anni si è affermata una sorta di staffetta nel creare moneta facile tra la Fed e la Bce, affiancate dal costante attivismo della Boj nipponica.
Stiamo parlando delle tre principali banche centrali in termini di bilanci, che in questi anni vanno convergendo verso i 4.500 miliardi ciascuno. L’unica grande banca centrale che ha visto ridurre il proprio budget, seppur per una sorta di illusione ottica causata dal deprezzamento della propria moneta nei confronti del dollaro, è la banca cinese. Negli Stati Uniti apparentemente è in corso una ripresa, che non riesce a far da traino a livello globale ma consente la fine delle politiche monetarie accomodanti sul piano interno.
Da qualche
mese
l’esercito degli Stati Uniti sta preparando un’inedita
esercitazione militare in Brasile, con il pieno appoggio del
presidente Michel
Temer, subentrato a Dilma Rousseff dopo un golpe istituzionale
lo scorso agosto. Con il significativo slogan di “America
Unida”, il
prossimo novembre le forze armate statunitensi mostreranno i
muscoli, e coordineranno unità speciali dell’esercito
peruviano e colombiano
in territorio brasiliano. L’esercitazione si svolgerà nella
città di Tabatinga, non lontano dal confine con la Bolivia
(dove lo
scorso 17 agosto Evo Morales ha inaugurato la prima scuola
militare antimperialista latinoamericana) e a poca distanza
dal Venezuela[1].
Dopo la smilitarizzazione delle Farc-Ep in Colombia (la più
grande organizzazione guerrigliera nel paese e un possibile
alleato della resistenza popolare venezuelana in caso di
conflitto militare), gli Stati
Uniti approfittano del momento di crisi del blocco
progressista latinoamericano per riprendere il controllo
militare dell’area. In
quest’ottica, il ritorno di governi neoliberisti in paesi come
il Brasile e l’Argentina ha infatti riaperto la strada
all’utilizzo
delle forze armate ufficiali in territorio latinoamericano,
che così potranno supportare il lavoro sporco realizzato da
attori “non
convenzionali” già attivi nello smembramento della resistenza
popolare del “continente rebelde” (come le organizzazioni
paramilitari e il narcotraffico).
L'altro
giorno mi sono imbattuto
in un post
assai phastidioso, il
quale - ricapitolando la situazione di Montepaschi - innalza
sin dal titolo ("Dicono sia colpa della UE. Ma è colpa
della
realtà") un peana alla nuova dea dei liberisti de'
noartri, cioè la signora
TINA (i cui sacerdoti,
detto per inciso, sarebbero i frodatori di Uber o i
monopolisti di Google o gli sfruttatori di lavoro minorile
cinese di Apple, ma lasciamo
perdere).
A dire il vero, in mezzo a tante fanfaluche, un pregio l'articolo ce l'ha: spazza via dal campo della discussione il terrorismo mediatico (e, a dire il vero, interessato) sugli esuberi più o meno inventati, i soldi del contribuente più o meno sprecati, e si concentra - ripercorrendo il folle piano messo su dal tandem Renzi-JP Morgan, poi miseramente affondato - sulla questione reale dell'affaire Monte dei Paschi, cioè il deconsolidamento dei crediti problematici.
Per chi vive in una comunità che ha sentito nella propria carne viva questa vicenda, si tratta della sensazionale riscoperta della ruota, o dell'acqua calda...
«La collettività è più
potente dell’individuo
in tutti gli
àmbiti, salvo uno solo: il pensare»
(Quaderni, I, circa
1933)
1. Premessa
La consapevolezza di Simone Weil rispetto al problema del colonialismo è immediatamente evidente sin dai primi articoli negli anni Trenta, dai quali cogliamo chiaramente i motivi del suo dissenso e, soprattutto, la grande acutezza con la quale affronta una questione spinosa e difficile.
Il tono dominante di questi scritti è amaramente ironico, un riso sardonico che taglia l’argomento con una lucidità che non lascia spazio ad alcun fraintendimento sul piano logico.
Questi testi, nei quali Simone Weil affronta esplicitamente la questione del colonialismo sono importanti, non assolutamente marginali, perché – come tenterò di dimostrare – sono fortemente connessi a tematiche e discussioni fondamentali nella sua filosofia, come quella sulla natura del diritto o a quella sullo sradicamento1. Vedremo che anche la questione della forza e dell’impossibilità di sottrarsi al meccanismo violento, complicano la questione e rendono le sue argomentazioni drammaticamente problematiche e, quindi, ancora più attuali.
Il 66% raccolto da Emmanuel Macron alle presidenziali francesi dice poco del suo reale consenso nel paese. Al primo turno aveva totalizzato il 23%, e sono quelli gli unici elettori che davvero l’avrebbero voluto presidente, tutti gli altri si sono tappati il naso per evitare la Le Pen, e di certo non credono che l’aristocratico banchiere li proteggerà da tutti i mali come ha promesso nel suo discorso della vittoria davanti alla Piramide, che ricordava “La cura” di Battiato:
Ti proteggerò dalle paure
delle ipocondrie
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua
via.
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore
dalle ossessioni delle tue manie.
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto.
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono.
Non c’è stato nessun attacco. Smettiamola di parlare a vanvera. Ve ne prego. Quel che sta accadendo non è una manifestazione acuta, ma cronica della in-sicurezza informatica in giro per il pianeta. L’unico elemento “notiziabile” è la contemporaneità di più vittime eccellenti. Niente di più.
Per chi ieri era distratto o si è perso web, radio e televisione, ricomincio da capo. Un “ransomware” (quella specie di virus che cifra i dati dei computer e costringe l’utente a pagare un riscatto per ritrovare la propria pace e soprattutto la leggibilità dei file che gli appartengono) ha bloccato i sistemi informatici del Sistema sanitario nazionale britannico, un discreto numero di banche spagnole, nonché aziende ed enti sparsi per il mondo. Questo insieme di istruzioni maligne stavolta va sotto il nome di Wannacry, che tradotto significa – giustamente – “voglio piangere” e calza a pennello lo stato d’animo di chi si trova inchiodato dinanzi alla imperturbabile inaccessibilità alle informazioni indispensabili per svolgere il lavoro, per decidere, per fare.
Perché non è un attacco? Semplice, almeno per chi ha dimestichezza con l’arte della guerra, con Sun Tzu e dintorni.
Se l'aria è inquinata e tutti la respiriamo, tutti ne avremo nocumento.
E l'aria che respiriamo, nel confronto politico in Italia, è inquinata.
Il punto è che, esattamente come avviene nelle città dove a inquinare è ciascuno di noi con la propria auto, anche qui gli inquinatori siamo noi.
Noi che nel confronto politico rifiutiamo anche le leggi più semplici della logica, dell'onestà intellettuale e del buon senso pur di vincere ogni giorno il derby della comunicazione. Nei talk show, nelle dichiarazioni ai giornali, nel battibecco sui social network, insomma in tutti quei diversi campi di gioco in cui pensiamo che si formi l'opinione prevalente.
Prendete il caso Boschi.
Prendetelo nella sua semplicità, nelle sue basi indiscutibili: c'è un giornalista italiano tra i più noti, ex direttore di Corriere della Sera e Sole 24 Ore, che scrive in un libro di un comportamento molto poco opportuno di un potente della politica, relativo a una banca. Il suo racconto ha al centro un testimone-chiave, il quale al momento tace ma prima o dopo sarà costretto a smentire o a confermare: o Boschi gli ha chiesto di salvare la banca del papà o non gliel'ha chiesto.
Il ballottaggio presidenziale francese fotografa una profonda regressione del quadro politico e culturale di quel paese e di tutta l'Europa. Non c'è proprio nulla da festeggiare. Ha vinto il peggior rappresentante di quel potere europeo che sta distruggendo tutte le conquiste sociali del continente e lo ha fatto contro un avversario reazionario, che non ha mai avuto la possibilità di vincere, ma che era il miglior spauracchio possibile per far passare l'uomo delle banche.
A coloro che salutano in Macron lo scampato rischio fascismo, va ricordato che in Europa c'è un solo governo con ministri dichiaratamente nazifascisti, con tutto ciò che questo comporta. Questo governo è quello dell'Ucraina e sta in piedi per il sostegno della UE e in particolare di Merkel, Hollande, Rajoy, Gentiloni ed ora Macron.
In Italia da decenni non compariva misura più liberticida ed intrinsecamente razzista e autoritaria del “decreto Minniti”, eppure chi quel decreto sostiene, oggi festeggia la vittoria antifascista in Francia.
Frontex, che chiede di indagare sulle ONG che salvano le persone in mare, è strumento delle autorità di QUESTA Europa, che parlano in tv di accoglienza e poi danno soldi a tiranni e signori della guerra affinché impediscano, coi loro mezzi, ai migranti di imbarcarsi.
“Il problema è che il mondo ha dato
retta agli
americani
per troppo maledetto tempo” – Il Dr. Julian Osborne,
dalla versione cinematografica del
2000 del
libro di Nevil Shute del 1957,
On the Beach
Un lettore mi ha chiesto perché i neoconservatori spingono verso una guerra nucleare se non ci possono essere vincitori. Se tutti muoiono, a che serve?
La risposta è che i neoconservatori credono che gli Stati Uniti possano vincere con un minimo e, forse, zero danni.
Il loro folle piano è questo: Washington ha circondato Russia e Cina con basi anti-missili balistici per creare uno scudo contro un loro attacco di rappresaglia. Però, da queste basi USA anti-ABM è anche possibile lanciare un attacco nucleare missilistico non individuabile contro Russia e Cina, riducendo in tal modo il tempo di preavviso a soli cinque minuti e lasciando alle vittime di Washington poco o nessun tempo per prendere una decisione.
I neoconservatori ritengono che il primo attacco di Washington sia in grado di danneggiare così gravemente le capacità di ritorsione russe e cinesi che entrambi quei governi si arrenderebbero rinunciando a lanciare una loro risposta.
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Luca Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista “A/traverso”, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 208, € 18,00
«Le categorie vecchio-socialiste dei gruppi, come le categorie
democratico-partecipative del revisionismo e della borghesia, cercano di dare un
volto a questo soggetto indefinibile: i
giovani, gli operai, gli studenti, le donne, soggetto di trasformazione, inafferrabile ieri
per la sua ostilità e lotta aperta, oggi per
il suo stare
altrove, per l’estraneità, debbono essere catalogati, debbono avere un nome, stare dentro qualche
ordine.
Ordine. Perché solo nell’ordine si può costringere la gente a lavorare» (“Piccolo gruppo in moltiplicazione”, “A/traverso”, maggio 1975)
La rivista nacque nel 1975, dall’eredità della controcultura e dell’operaismo degli anni Sessanta, ma al contempo si presentò come il simbolo di uno scarto nel mondo antagonista della sinistra extraparlamentare di allora. Una frattura sghemba, obliqua e anche ambigua, proprio come quella della barra che spaccava il titolo a metà e che si insinuava nel mezzo delle cose. La proposta era quella di mettere in moto la rivoluzione dal linguaggio, di rideterminare l’ordine del reale utilizzando la scrittura […]
“A/traverso” è un oggetto alieno, oltre che per le sue fattezze anticipatrici delle fanzine punk, anche e soprattutto per il modo in cui, nelle sue pagine forma e contenuti si influenzano a vicenda, andando a costituire un messaggio che riesce sempre a travalicare la semplice trasmissione dell’informazione.
Contro la Loi Travail e il suo mondo
Per render conto della primavera francese del 2016, si può trarre ispirazione dallo slogan che ha caratterizzato la mobilitazione: “Contre la Loi travail et son monde”[1]. Le lotte francesi del 2016 sono infatti iniziate con la contestazione della Loi Travail per assumere immediatamente una portata e una radicalità molto più ampie e generali, che sono sembrate andare ben aldilà della Loi Travail: la Loi Travail e il suo mondo, giustamente. E ciò non tanto perché la Loi Travail, in fin dei conti, sia una riforma trascurabile o perché la contestazione di questa legge sia rimasta marginale nel movimento, bensì per due altre ragioni.
Innanzitutto, perché questa legge si salda perfettamente con l’insieme dei rapporti sociali esistenti; perché fa sistema con il quadro normativo e istituzionale del presente francese e, più estesamente, del presente europeo (si può sostenere che, un anno fa soltanto, questa legge potesse essere considerata come l’anello mancante dell’attuale “regime europeo del salariato”).
Giorgio Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016
Non so se nelle domande
che si pone sia possibile scorgere
il profilo di un’epoca. Eppure saltano agli occhi alcune
insistenze, alcune fissazioni - dal περί
Φύσεως che assillava i primi sapienti greci alle indagini concerning
human understanding dei filosofi del
Seicento. Comunque sia, l’epoca attuale sembra porsi con una
certa frequenza la domanda intorno all’essenza, o quanto meno
al compito
della filosofia. Penso naturalmente a Martin Heidegger, e al
suo Was ist das – die Philosophie? del 1956
(preceduto da Was ist
Metaphysik? del ’29); a Deleuze e Guattari, che nel
1991 conclusero il loro sodalizio filosofico rispondendo alla
domanda:
Qu’est-ce que la philosophie?, o a Pierre Hadot che
nel 1995 diede alle stampe il suo libro forse più noto: Qu’est-ce
que
la philosophie antique? (che per lo storico francese
equivaleva a chiedersi che cosa sia la filosofia tout-court).
Non è
l’ultimo dei meriti di Giorgio Agamben, quasi a voler suturare
questo secolo col precedente, l’aver riproposto la domanda,
alla quale
– come del resto gli altri autori citati – ha dato la sua
risposta, che ben s’inquadra nel contesto di una
produzione
filosofica ormai imponente e articolata. Ripercorrerne i
tratti essenziali sarebbe impresa poco adatta a una
recensione. Basti ricordare che
quest’ultimo libro si pone al termine della notevolissima
ricerca intorno alla figura dell’Homo sacer, ovvero del
rapporto tra
potere sovrano e nuda vita, come s’è andato definendo nel
corso della storia occidentale.
Esauritosi il coro di sospiri di sollievo con cui i galoppini del pensiero unico liberista hanno salutato la vittoria – tanto annunciata quanto scontata – di Macron contro il – presunto quanto acconciamente gonfiato – pericolo fascista incarnato da Marine Le Pen, qualche voce più avvertita comincia a levarsi anche nel campo dei vincitori per fare presente che, certo – dopo le batoste della Brexit, di Trump e del referendum anti Renzi – le elezioni presidenziali francesi hanno marcato un’inversione di tendenza, ma, al tempo stesso, nessuno dei problemi che hanno alimentato l’ondata populista appare risolto, e l’idea di tornare a gestirli con piglio da business as usual è pura follia.
E il caso, fra gli altri, di un interessante editoriale firmato da Dario Di Vico sul Corriere del 13 maggio. Reso a sua volta omaggio al ritorno in campo dei Lib-lab; Di Vico ammonisce che “il cantiere del restauro della Terza Via non può rimanere aperto all’infinito così come non si può vivere da eterni vedovi di un Tony Blair”. Non si può, spiega subito dopo, perché l’immaginario sui “meriti” della globalizzazione è ormai seriamente usurato, al punto che la misurazione del consenso politico (arte in cui le élite , di recente, non si sono dimostrate sempre all’altezza)
(...ricevo da un amico questa recensione che vi sottopongo. Il film è piaciuto anche a Vladimiro Giacché. Sotto vi dico cosa ne penso io...)
Tre giovani registi indipendenti hanno realizzato un film documentario “Piigs” che ricorda per alcuni aspetti “Inside Job” (documentario del 2010 sulla crisi finanziaria USA) e le storie proletarie di Ken Loach, con riferimento a una Cooperativa sociale costretta da molte difficoltà a causa dei vincoli e le restrizioni imposti ai finanziamenti pubblici. Narrato da Claudio Santamaria e con interviste a Noam Chomsky, Yanis Varoufakis ed Erri De Luca, e ad altri economisti [Ndc: altri?] esperti di economia europea e internazionale tra cui spiccano Paul De Grauwe e Warren Mosler, il film lavora su vari livelli e con l’ausilio degli esperti di economia riesce a chiarire con sufficiente rigore intellettuale gli effetti microeconomici e macroeconomici delle misure di politica fiscale restrittiva imposte agli stati europei dopo l’adozione della moneta unica. In particolare attraverso il piano macroeconomico, ben descritto da De Grauwe, si comprende l’effetto pro ciclico delle misure adottate sotto forma di riforme strutturali nei vari paesi (essenzialmente Italia e Grecia, ma chiaramente anche Spagna e Portogallo) e il fallimento cooperativo che ha caratterizzato l’azione dei governi di fronte alla crisi del 2009 e le sue fasi successive.
Nel rapporto annuale il film di un paese sempre più povero e disuguale. Perdità dell’identità di classe. Dinamiche sociali determinate dalla doppia assenza di partito e sindacato
“Scompaiono la classe operaia e la piccola borghesia, aumentano le disuguaglianze”: il titolo del giornale più letto in Italia non lascia scampo alle interpretazioni, si dice che l’Istat avrebbe detto che è sparita la classe operaia. In realtà il Rapporto annuale dell’istituto nazionale di statistica dice ben altro e lo leggeremo insieme. Dice, ad esempio, che le dinamiche della crisi e del mercato del lavoro stanno aumentando la disuguaglianza, che la mobilità sociale è una chimera, che le donne sono più sfruttate degli uomini, che la povertà si espande, che i giovani non hanno futuro se non i figli di papà.
E la classe operaia non conta più, tutt’altro che sparita, non riesce a incidere sulla propria condizione. Succede, così recita il rapporto, perché c’è una «perdita dell’identità di classe, legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi».
Ma allora perché quel titolo? Perché più il capitalismo è nudo – come in questo scorcio di ventunesimo secolo – più lo storytelling, ossia la narrazione, l’ideologia, prova a rivestirlo. Anche perché quel giornale ha avuto un ruolo chiave nella diffusione di tutte le fake news sul “nuovo che avanza”.
Mi rendo conto che l'argomento è complicato - perfino un po' filosofico, quindi magari palloso.
Ma la questione posta dalla sentenza della Cassazione sul sikh che voleva girare con un coltello in realtà non parla di un sikh che voleva girare con un coltello: porta dritti a temi come l'ontologia, il relativismo, la teocrazia, perfino a Nietzsche e a Dostoevskij.
Ecco: dopo aver allontanato il 90 per cento dei lettori con la frase sopra, provo a spiegarmi - e chi sa già queste cose mi perdonerà le semplificazioni divulgative.
Per un paio di millenni o quasi, nessuno in Europa aveva dubbi sulla fonte oggettiva di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. La fonte che stabiliva giusto e ingiusto era Dio. Qualcosa di ontologico, appunto: in sé e per sé, oltre l'opinabile umano. Le leggi di cui le società si dotavano derivavano da una fonte etica e valoriale indubitabile, oggettiva, immutabile ed eterna.
Come noto - ma questa è divagazione - la legittimazione ontologica e religiosa della legge finì per attribuire un potere al papato che andava molto oltre i territori controllati dalla Chiesa. Il Papa che nel Medioevo incoronava gli imperatori o i re era il simbolo di questo passaggio di legittimazione: da Dio al Papa, dal Papa al monarca, il quale poi esercita questo potere derivante da Dio.
I telegiornali e i quotidiani mainstream strillano i titoli senza curarsi neanche si mettere in dubbio quello che, persino nelle parole dell'"accusatore", è poco più di un'ipotesi.
Per capire come funziona la "comunicazione di guerra" e come abbia sostituito da tempo "l'informazione", prendiamo ad esempio Repubblica:
Nuove accuse di disumana crudeltà vengono mosse dal Dipartimento di Stato Usa contro il regime siriano di Bashar al-Assad. Il governo siriano, ha affermato in conferenza stampa Stuart Jones, assistente del segretario di Stato per il medio e vicino Oriente, sta procedendo a esecuzioni di massa di migliaia prigionieri nel carcere militare di Saydnaya, a 30 chilometri da Damasco. Le impiccagioni, accusa il diplomatico statunitense, avvengono a un ritmo di una cinquantina al giorno. Per cancellare le prove dello sterminio, all'interno dell'istituto di pena un edificio è stato modificato per essere adibito a crematorio, come mostrerebbero foto statellitari declassificate diffuse dal Dipartimento di Stato.
Le foto sono state scattate da satelliti commerciali e coprono un periodo che va dal 2013 ad oggi, passando dall'agosto di quattro anni fa al gennaio del 2015, quindi all'aprile del 2016 e 2017.
Recensione a: Luciano Canfora, La schiavitù del capitale, il Mulino, Bologna 2017, pp. 112, 12 euro (scheda libro).
L’esito del Novecento appare come
il trionfo finale
del capitalismo su ogni esperimento rivoluzionario che abbia
provato a modificare il corso della storia. L’impressione di
«fine della
storia» susseguente alla caduta dell’Unione sovietica è stata
esplicitata da Fukuyama fin dal titolo della sua opera più
famosa. Al di là del suo impianto filosofico, ampiamente
criticato, significativo è il valore ideologico-polemico di un
simile concetto.
Che dire, inoltre, del processo di apparente assorbimento
delle alternative nell’uguale che si ripete, come nel caso
delle sinistre che hanno
adottato scelte politiche liberiste, quasi fosse impossibile
fare altrimenti? Il capitalismo ha trionfato, e siamo in un
presente senza storia?
A questa prospettiva si oppone Canfora: La schiavitù del capitale è una riflessione critica, sia pure in un’agile veste editoriale, sull’idea della definitività di tale vittoria. Che il capitalismo abbia vinto la guerra del Novecento è evidente; ma ciò ha potuto farlo modificando se stesso e i suoi avversari, e in definitiva tutto il contesto globale, aprendo la via a nuovi scenari e nuove lotte, ancorché oggi difficilmente delineabili.
La biografia del viaggiatore scienziato Alexander von Humboldt svela un personaggio molto influente nell’Ottocento ma poi totalmente dimenticato, dalla vita avventurosa e piena di incontri sorprendenti. Mise insieme Goethe e Simón Bolívar, illuminismo e romanticismo, ambientalismo e anticolonialismo. Darwin lo lesse con ammirazione per tutta la vita, prendendolo a modello
Da una
parte, un
giovanotto prussiano che preferiva stare nella Parigi di
Napoleone piuttosto che nella provinciale e austera Berlino,
che di prussiano aveva solo
l’educazione rigorosa e il reddito di famiglia, già famoso in
tutta Europa per il suo avventuroso viaggio di quattro anni in
Sudamerica,
tra fiumi, cataratte, foreste pluviali e vulcani. Nel cuore,
le idee del 1789. A suo modo figlio della rivoluzione
francese, Alexander von Humboldt
dopo aver ammirato la scenografia sublime della natura voleva
adesso “godersi lo spettacolo di un popolo libero”.
Dall’altra, il terzo presidente degli Stati Uniti d’America, un uomo di 61 anni, vedovo da venti, dimesso e rustico nei modi e nel vestiario, che aveva scritto la Dichiarazione di Indipendenza nel 1776 ed era circondato ora da sette nipotini nella sua tenuta di Monticello in Virginia. Thomas Jefferson aveva molto in comune con Humboldt: la capacità di fare sempre tre cose contemporaneamente, le poche ore bastanti di sonno, un’ansia irrequieta di conoscenza, la smania di misurare tutto, l’amore per la botanica, per il giardinaggio e per le scienze naturali.
L’economia commerciale statunitense girava forte, il Presidente aveva appena comprato dalla Francia la Louisiana e ambiva a espandersi verso occidente, in quel selvaggio west che avrebbe voluto trasformare in una terra di piccole fattorie autosufficienti a gestione familiare.
Dopo L’impero
virtuale, pubblicato
nel 2015, l’Egemonia digitale a cura di
Renato Curcio (Sensibili alle foglie, Roma 2016) è il
secondo
elemento di un dittico saggistico attraverso il quale l’autore
ha descritto ed analizzato le trasformazioni che le TIC
(tecnologie
dell’informazione e della comunicazione) hanno prodotto
all’interno della società e, segnatamente, nel mondo del
lavoro. Va subito
osservato che il pregio della ricognizione condotta da Curcio
non consiste soltanto nel quadro teorico del ‘capitalismo
digitale’, che
essa contribuisce a delineare, ma anche e soprattutto
nell’inchiesta, che sostanzia tale quadro, sulle esperienze
vissute dai lavoratori che
hanno partecipato agli incontri di ricerca/azione organizzati
intorno al tema cruciale che è al centro dell’indagine: l’uso
capitalistico delle tecnologie informatiche in funzione
dell’egemonia. Ed è, per l’appunto, quest’ultima categoria, di
chiara
derivazione gramsciana, che permette all’autore di elaborare
un modello analitico di quell’intreccio fra dominio e
subordinazione che fa
della Rete «l’espressione estrema dell’espansione
capitalistica, la più pervasiva»1
,
laddove l’obiettivo strategico, quindi politico-culturale, cui
tende l’egemonia digitale messa in opera dalle classi
dirigenti
capitalistiche attraverso la Rete e le altre tecnologie che le
fanno corona è giustamente individuato nella “colonizzazione
dell’immaginario”.
C’è un elemento di parziale novità nell’attuale crisi coreana, qualcosa che seppur non a breve potrebbe andare oltre la sequenza già vista in episodi precedenti. Per coglierlo, ovviamente, bisogna lasciare a quei poveretti cui una rilettura della fiaba (per bambini?) sul lupo e l’agnello andrebbe consigliata dal medico nonchè agli interessati dell’establishment politico-mediatico, che tanto non ci leggono, la narrazione per cui la Corea del Nord dotata dell’arma nucleare metterebbe a rischio la pace mondiale e minaccerebbe direttamente addirittura l’America.
Breve premessa indispensabile. Si può pensare -nel supermarket postmoderno delle opinioni, tutte diverse e tutte omogenee- quello che si vuole dell’ordinamento politico e socio-economico della Corea del Nord, ma nessuna analisi politica seria potrà negare che da un punto di vista strettamente nazionale (ovvero: nazional-borghese) Pyongyang ha avuto e ha ragioni da vendere nel tenersi stretto quel minimo di armamento nucleare cui è riuscita ad accedere. Si chiama, in linguaggio tecnico, deterrenza: minaccia di ritorsione nucleare contro l’uso di un first strike avversario.
Due giorni prima del test missilistico nord-coreano che ha fatto suonare l’allarme nucleare in tutto il mondo, è apparso sulla rivista on line Politico (12 maggio) un articolo intitolato «Perché gli Usa fanno bene a investire nelle armi nucleari». Non a firma di un opinionista, ma dei due generali che sono al comando dei tre quarti delle forze nucleari statunitensi: il capo di stato maggiore dell’Aeronautica, Dave Goldfein, e il capo del Comando aereo per l’attacco globale, Robin Rand.
Essi affermano che, «nonostante possa sembrare illogico, le armi nucleari sono uno strumento fondamentale della pace mondiale». Lo dimostra secondo loro il fatto che, da quando è iniziata l’era nucleare, non vi sono più state grandi guerre. È per questo essenziale, sostengono, che i nostri bombardieri e missili nucleari siano mantenuti in piena efficienza.
Oggi gli Stati uniti devono procedere all’upgrade delle proprie forze nucleari, poiché hanno di fronte «potenziali avversari che stanno aggressivamente modernizzando ed espandendo le loro forze nucleari e che vogliono sempre più imporsi». I generali nominano «le aperte minacce della Corea del Nord», ma è chiaro il loro riferimento implicito a Russia e Cina.
La terza batosta consecutiva incassata in altrettante elezioni regionali sembra avere già fatto deragliare il treno del Partito Social Democratico (SPD) tedesco, passato in pochi mesi dalla speranza concreta di una vittoria nel voto federale del prossimo settembre, grazie alla nomina a leader dell’ex presidente del parlamento europeo Martin Schulz, a una quasi certa sconfitta nuovamente per mano della CDU (Unione Cristiano Democratica) di Angela Merkel.
L’ultima umiliazione, patita dalla SPD nella giornata di domenica, è se possibile la più grave delle tre incassate a partire dal voto nello stato della Saarland dello scorso 26 marzo. La Renania Settentrionale-Vestfalia era infatti considerata non solo una sorta di roccaforte Social Democratica, visto soprattutto il carattere industriale dello stato, ma è anche il più popoloso dei 16 “Länder” che compongono la Germania.
Dopo le sconfitte nella Saarland e settimana scorsa nello Schleswig-Holstein, quello in Vestfalia era inoltre un appuntamento vitale per i Social Democratici tedeschi, i quali avevano essi stessi puntato su una conferma per rilanciare le prospettive di un partito che appare sempre più in affanno a poco più di quattro mesi dal voto per il rinnovo del parlamento di Berlino.
Contro le oligarchie e le menzogne dei media, il Venezuela tragga insegnamento dal popolo cubano per resistere alle ingiustizie del nostro tempo
Oltre cinquant'anni di giornalismo con un'attenzione particolare ai diritti dei più deboli e a chi si ribella alle ingiustizie nel nuovo libro conversazione (con Giuseppe de Marzo) di Gianni Minà, un gigante di una professione che ha visto lentamente morire in occidente. Il titolo del libro è: “Cosi va il mondo, Conversazioni su potere, giornalismo e libertà”. “Questa professione da noi è totalmente morta. Io sono da anni che lavoro poco o niente. Ma ho accettato la realtà e non mi lagno. È il prezzo che si paga per la libertà”.
* * * *
La prima domanda è d'obbligo visto il titolo del libro: come va il mondo in questo fase?
"Male, molto male. In questa fase sembra che tutto debba essere veloce. E mi fa ridere, ma anche arrabbiare. Cosa significa essere veloci? Ho conosciuto uomini che hanno dato all’umanità regali di saggezza, civiltà e scrittura senza paragoni e che non hanno mai tenuto in conto la velocità e il tempo. Per loro al centro c’era la riflessione. Così mi sento di affermare che nel mondo moderno spesso si utilizza la velocità come scusa. Un malinteso per truccare e neutralizzare quello che dici. Si tratta di un piano perfetto, un capolavoro che annulla il bisogno della censura tanto caro al potere.
L’avete sentita l’ultima? Non è una bufala, né una provocazione. È, semmai, la realtà che ormai ha superato la fantasia: e che ha, di fatto, reso plausibile l’inimmaginabile. Per i giorni del G7 in Sicilia, i signori filantropi del mondialismo classista e del cosmopolitismo della libera circolazione delle merci e delle persone mercificate hanno deciso: sono sospese le deportazioni di massa. Pardon, gli sbarchi di massa di migranti dalle coste africane. Avete capito bene: le cose stanno così.
Due rilievi telegrafici si impongono:
1. Ma dunque non è vero, signori del mondialismo e globalizzatori della competitività, che i processi di immigrazione di massa non possono essere controllati e regolati, a beneficio sia dei migranti (con annesse tragedie per mare), sia degli italiani. Addirittura, su vostra decisione, possono essere bloccati in toto. Non sempre, sia chiaro: solo quando lor signori lo desiderano, giusto per il tempo di un aristocraticissimo summit per miliardari cosmopoliti che si danno convegno a Taormina. Perché dunque – vi chiediamo sommessamente – per tutto il resto dell’anno avete deciso che i flussi non possono essere controllati e che essi sono “irreversibili”, per impiegare la vostra parola prediletta?
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- Antonio Cederna, I
vandali in casa, a cura di
Francesco Erbani, Laterza, Roma-Bari 2006 (ed. or. 1956)
-
Piero
Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del
capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2010
Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e
sfuggono. Può
adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso
tempo, farti sentire che quello che tu sospetti è certo: può
insultare e
chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e
lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile.
Alessandro Manzoni, I
promessi sposi[1]
La forma di una città
cambia più in
fretta – ahimè – del cuore degli uomini.
Charles
Baudelaire
“I vandali in casa” di Antonio Cederna e “Il grande saccheggio” di Piero Bevilaqua: due testi fondamentali per riscoprire l’attualità del pensiero di Cederna – padre nobile delle moderne leggi di tutela delle bellezze artistiche e paesaggistiche italiane – e comprendere la centralità del territorio come ambito in cui ricreare spazi pubblici sottratti alla distruttività del capitale.A commento del successo internazionale della Grande bellezza, Raffaella Silipo scriveva sulla Stampa: «Gli americani si immaginano l’Italia esattamente così: splendide pietre e abitanti inconcludenti».[2]
Sembra la trama di un film di
fantascienza:
il 12 marzo il mondo intero, al risveglio, scopre di essere
sotto attacco di un virus. I danni sono incalcolabili:
fabbriche bloccate,
università ferme, i centralini del pronto soccorso non sono
più in grado di inviare un'ambulanza. A partire
dall'Inghilterra e nel giro
di poche ore, seguendo la rotazione terrestre, il virus si
diffonde a oriente: duemila sistemi informatici si fermano in
Iran, trentamila in Cina. In
Italia si teme l'effetto-lunedì, il giorno in cui gli
impiegati tornano al lavoro dopo il fine settimana.
“Voglio piangere” (wannacry), è un ransomware: un sistema escogitato per chiedere un riscatto. Entra nel tuo computer attraverso un “buco” delle vecchie versioni del sistema operativo Windows, cripta i dati del tuo disco e non li decodifica finché non paghi una somma in bitcoin, la moneta privata virtuale internazionale più amata dalle organizzazioni criminali.
Fin dal primo giorno il New York Times punta il dito contro la NSA, la National Security Agency statunitense: si sarebbero lasciati rubare Eternal blue, uno degli svariati sistemi che impiegano per infiltrarsi nelle reti dei PC [1].
1. Noi
abbiamo
già visto in vari post, nel corso di questi anni, come Martin
Wolf, nell'ambito degli economisti-commentatori
dell'establishment, (oscillante
nel tempo tra posizioni
hayekiane, quando, non a caso, era forte l'influenza del
"68"...e neo-keynesiane, all'indomani della crisi del 2008),
sia fondamentalmente
un fautore della "classe media", come
fosse una sorta di specie protetta alla quale, agli
occhi dell'establishment, spetta quella funzione di
stabilizzatore della
conflittualità sociale evidenziata da Basso, con esito
inevitabilmente favorevole al dominio delle elites.
La tattica più efficace di conservazione dell'assetto capitalistico neo-liberista, è appunto quella di trovare in ogni maniera una (almeno) formale differenziabilità di interessi socio-economici, pur in concomitanza della scomparsa dei partiti di massa (e quindi della democrazia sostanziale), da tradurre in una facciata di pluralismo politico.
Anzitutto, ai suoi occhi, occorre conservare ad oltranza una parvenza di dialettica destra-sinistra, tutta svolta sul piano ideologico-cosmetico, proprio perché meglio capace di dissimulare l'esistenza del conflitto scatenato dal capitalismo per poterlo portare a compimento in modo più discreto ed efficiente.
Il Belt and Road Forum tenutosi il 14 e il 15 maggio a Pechino ha fatto registrare notevoli passi in avanti nell’implementazione della “Nuova Via della Seta” e, soprattutto, l’esistenza di una seria volontà politica a livello internazionale suffragata dall’annuncio di un nuovo, ambizioso piano di investimenti da 124 miliardi di dollari nel progetto. Tuttavia, la strada che porta allo sviluppo dell’immenso network di infrastrutture euroasiatico e al susseguente incremento dei rapporti politico-economici tra i Paesi interessati si preannuncia lunga, tortuosa e piena di insidie.
In primo luogo, le tempistiche riguardanti la Belt and Road Initiative si preannunciano decisamente lunghe, dato che il progetto della “Nuova Via della Seta” è destinato a svilupparsi come progetto geopolitico di ampia portata in cui il conseguimento di livelli ottimali di connettività terrestre e marittima potrebbe richiedere diversi anni, se non almeno un decennio. La prospettiva di lungo periodo su cui si impernia la strategia lanciata dal governo di Pechino rappresenta sicuramente uno dei tratti maggiormente salienti ed esemplificativi della vision geopolitica del Presidente Xi Jinping, ma al contempo potrebbe rivelarsi una causa di fragilità.
L’ideologia è una brutta bestia. E affligge soprattutto gli editorialisti mainstream. Sì, proprio quelli che strepitano tutto i giorni sulla “fine delle ideologie” proponendone una sola. L’unica ammissibile, secondo loro; o meglio, secondo gli interessi dei loro editori “impuri”.
Ricordiamo la differenza tra la definizione marxiana di ideologia (falsa coscienza, consapevole o inconsapevole che sia) e quella liberalborghese (qualsiasi concezione unitaria che provi a spiegare l’insieme delle relazioni sociali esistenti), in modo da tener presente che il termine è già di suo “conteso” tra diverse visioni del mondo.
Ideologica in senso marxiano è l’operazione fatta dall’Istat due giorni fa con il suo Rapporto Annuale sulle nuove configurazioni sociali create dalle disuguaglianze di reddito. L’Istituto centrale di statistica è una rispettabilissima istituzione che ha dato un impagabile contributo alla ricerca scientifica sulla società negli ultimi 70 anni. E proprio per questo da quasi un ventennio i suoi vertici – di nomina politica – sono stati scelti in modo da invalidare questo ruolo, a dispetto dei grandi ricercatori che ne compongono l’ossatura.
Repubblica, il Corriere, La Stampa, Il Fatto quotidiano, SKY, la RAI ... per giorni e giorni, hanno sbandierato la bufala del Dipartimento di Stato sul “crematorio di Assad” (addirittura farneticando di una Auschwitz siriana da estirpare). Ma ora che il Dipartimento di Stato ne ha ufficialmente smentito l’esistenza, invece di scusarsi con i lettori per la loro (nella migliore delle ipotesi) superficialità, stanno zitti sperando di far dimenticare l’ennesima loro figuraccia. Eppure ci sarebbe da scrivere sul perché il Dipartimento di Stato abbia, così clamorosamente, smentito se stesso. Lo facciamo noi. Ma prima due parole sulla bufala del crematorio costruito nella prigione di Saydnaya “per cancellare le prove dello sterminio ordinato da Assad”.
Non ci voleva molto per sbugiardarla. Ad esempio, non se ne trovava traccia nel Rapporto di Amnesty International (febbraio 2017) sulla famigerata prigione, al quale avevamo dedicato un articolo; in più le famose “foto satellitari, appena desecretate” che dovevano attestare l'esistenza del crematorio non attestavano proprio nulla, così come avevamo scritto in questo articolo di tre giorni fa e come documentato dalla serie di 13 foto satellitari pubblicate due giorni fa.
Perché negli Stati Uniti si è deciso di spalancare le braccia a lavoratori altamente qualificati – scienziati e PhD – provenienti dall’estero e disposti ad accontentarsi di un visto temporaneo? La spiegazione ufficiale: perché negli Usa la scienza era a rischio per mancanza di lavoratori. Ma Eric Weinstein in questo articolo racconta come – muovendosi da autentico detective economico – ha trovato le prove che l’intento, consapevole quanto nascosto, era tutt’altro, e tristemente prevedibile: tenere schiacciati i salari e i diritti dei lavoratori, anche nel settore tecnico-scientifico
“Le future carenze di offerta di lavoratori avranno conseguenze devastanti per la scienza e l’ingegneria”.
È stato un mantra che ci siamo sentiti ripetere per gran parte degli anni Ottanta. E tuttavia, la prevista caccia ai talenti non si è mai materializzata: al contrario, i fatti mostrano che il tasso di disoccupazione di chi ha preso da poco un dottorato in ambito tecnico-scientifico è schizzato verso l’alto. In realtà, la maggior parte degli economisti americani sembravano convinti che l’idea stessa di carenza di lavoratori difficilmente abbia senso in un’economia di mercato, dal momento che basta semplicemente alzare i salari per attirare più persone.
Un Alessandro Curioni da antologia sul caso Wannacry: buona lettura! A.G.
Sembra che qualcuno mi abbia evocato… Vediamo se quanto ho da raccontare vi interessa. Quello che stava accadendo nel mondo il 12 maggio l’ho scoperto piuttosto tardi, visto che ero segregato in un’università romana a discutere con un gruppo di giovanotti di social network e privacy. Quando, piuttosto provato, sono salito sul treno che mi avrebbe riportato a Milano mi è stato annunciato che avrei dovuto palesarmi agli studi Rai per commentare quanto stava accadendo. Il fatto divertente è che al momento non avevo idea di cosa fosse successo. Whatsapp si era appena beccato tre milioni di euro di multa dall’AGICOM, ma francamente mi sembrava poca cosa. Inizio a fare qualche telefonata, mentre vago su Google e scoppio a ridere. Veramente a sorridere, sono capace di perdere con stile, perché sembra che dei maldetti mi abbiano appena fregato la trama di un racconto che volevo scrivere, trasformandolo in realtà. Quindi vi propino una cronaca.
E’ giovedì 11 maggio e sono le 8,00 del mattino (UTC) attraverso una botnet nota come Necurs un insieme di computer compressi e asserviti ad un unico controllore, viene scatenato un attacco al ritmo di 5 milioni di email l’ora.
1.
Introduzione
Il quesito sollevato dal titolo del seminario, Welfare o barbarie, evoca la drammatica alternativa posta da Rosa Luxemburg, sulla scorta di Friedrich Engels, esattamente un secolo fa: «la società Borghese si trova di fronte ad un dilemma, o transizione al socialismo o regressione nella barbarie» (Luxemburg 1915). Si noti che quell’«o» assumeva, per Luxemburg, un valore di disgiunzione esclusiva. Esprimeva, cioè, un’opposizione netta: socialismo oppure barbarie. Come è noto, di lì a poco una parte del mondo scelse il primo, con «l’assalto al cielo» delle classi lavoratrici russe – e sia pure tra le mille contraddizioni denunciate proprio da Luxemburg nel suo intenso scambio epistolare con Lenin e gli altri dirigenti socialisti dell’epoca. L’altra parte del mondo «civilizzato» piombò, invece, nella barbarie dei conflitti coloniali e dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa e, infine, dello sterminio nucleare. Una barbarie che – troppo spesso viene dimenticato – fu preceduta da un periodo di straordinaria apertura dei mercati, ossia di intensificazione negli scambi di merci e nei flussi di capitale transnazionali. Il che stride con la tesi liberal-positivista allora in gran voga, e tuttora dominante, dei commerci quale veicolo di pace internazionale e di prosperità economica1.
1. La Critica della filosofia hegeliana del
diritto pubblico di Karl Marx (scritta tra il 1842 e il
1843, ma pubblicata postuma
nel 1927) si sviluppa intorno a un’argomentazione dominante,
mutuata da Ludwig Feuerbach, il quale nel 1839, in uno scritto
intitolato Per la
critica della filosofia hegeliana, aveva insistito sul
difetto della dialettica di Hegel, consistente nel
ribaltamento dei rapporti tra soggetto e
predicato. In altri termini, secondo Feuerbach, Hegel
spiegherebbe l’esistente, cioè la vita concreta degli uomini,
attraverso categorie
astratte e universali, attribuendo a queste ultime la
dimensione della soggettività, e considerando le circostanze
materiali come predicati,
per giunta accidentali. Tale rapporto, secondo Feuerbach,
dev’essere ribaltato, per indicare nell’essere vivente
concreto la vera
soggettività, della quale è possibile predicare la capacità di
pensiero e l’universale qualità astratta.
Marx non recepisce meccanicamente l’intuizione feuerbachiana, ma la assimila in modo critico e articolato. Il libro su Hegel è sostanzialmente frutto di quest’opera di appropriazione concettuale.
1. Logica della disgregazione
Cosa significa ‘dialettica negativa’? Cosa dice di più e di diverso dalla parola ‘dialettica’ un aggettivo che ne specifica la fisionomia negativa?
Non è un segreto che il progetto di una dialettica negativa abbia come sfondo il confronto costante con quelli che Adorno, a torto o a ragione, denuncia polemicamente come gli esiti concilianti della dialettica hegeliana[1]. Il che però, nella prospettiva adorniana, non si riduce al confronto con le tesi specifiche di un autore. Hegel figura, piuttosto, come il momento culminante di una tradizione dal cui peso la dialettica dovrebbe essere liberata. Ed esattamente a questa impresa di liberazione Adorno consegna, già dal titolo, il suo lavoro teoretico più maturo:
L’espressione dialettica negativa viola la tradizione. Già in Platone la dialettica esige che attraverso lo strumento di pensiero della negazione si produca un positivo; più tardi la figura di una negazione della negazione lo ha nominato in modo pregnante. Questo libro vorrebbe liberare la dialettica da una siffatta essenza affermativa, senza perdere neanche un po’ di determinatezza (ohne an Bestimmtheit etwas nachzulassen). (Adorno 1966, 3).
Tra fake news e ossessione anticomplottista, viviamo un’epoca segnata apparentemente dallo scontro senza quartiere tra la “verità” e i suoi nemici. Ma la piega che sta assumendo il dibattito chiude ogni spazio di manovra dialettico sulla questione. Perché se i limiti naturali del complottismo sono evidenti, quelli dell’attuale crociata anti-complottista sono più perfidi, anzi, addirittura più pericolosi. Perchè alla base dell’attuale fioritura complottista (se effettivamente esiste tale fioritura, cosa tutta da dimostrare) c’è una presa di coscienza, sempre più generalizzata, che tra le verità ufficiali e la realtà materiale esiste uno scarto, una distanza, una frattura non più colmata dalla fiducia. Tra la realtà così com’è e la realtà come viene raccontata dalle narrazioni legittimate a farlo, questo scarto è d’altronde sempre esistito. In periodi di forte legittimazione pubblica del potere, questo scarto veniva colmato dalla fiducia in quelle istituzioni predisposte al racconto ufficiale dei fatti (la Chiesa; lo Stato; il partito; la fabbrica; il giornale; eccetera). In un’epoca come questa, in cui lo scollamento tra umori popolari e istituzioni è netto e inequivocabile, lo scarto di cui sopra viene colmato non più dalla fiducia, ma dal sospetto. Un sospetto pubblico, non più mediato, non più alfabetizzato politicamente. Cresce così la propensione complottista, il bisogno cioè di riempire questo vuoto di senso.
Le oligarchie economiche e finanziarie sono le classi dominanti in Europa e controllano la politica europea attraverso l’establishment, rappresentato da Bce, Ue e Fmi, oltre che da associazioni (Bilderberg), centri di ricerca e università, attraverso i quali si impone il pensiero unico ultraliberista. Tali oligarchie hanno inoltre il controllo dei media (tv, giornali, case editrici, ecc.) che esercitano con intelligenza e spregiudicatezza, ma non con minor decisione. L’unico medium che sfugge al loro controllo totale è per ora il web. Farsi un’opinione di quanto stia realmente accadendo a livello locale e globale è veramente difficile. E questo è sempre stato vero: le idee dominanti sono sempre state le idee delle classi dominanti.
Da un po’ di anni però la situazione è cambiata. L’enorme potere finanziario e mediatico accumulato nelle mani di queste oligarchie ha permesso loro di saltare ogni mediazione politica e di attaccare, per distruggerli, i corpi sociali intermedi: i partiti, i sindacati, le associazioni di cittadini che permettevano di mediare gli interessi diversi e di dare loro una certa rappresentanza.
Fino a ora si era lasciata almeno la forma della democrazia rappresentativa, pur con riforme istituzionali ed elettorali che l’avevano sempre più ridotta a un vuoto schema.
Si parla tanto di disuguaglianze. Da una parte ci sono quelli che dicono che le disuguaglianze sono uno dei maggiori problemi del mondo contemporaneo. Dall’altra ci sono quelli secondo cui i problemi sono ben altri, e secondo cui il dibattito sulle disuguaglianze è una distrazione. Un recente articolo dello psicologo americano Paul Bloom ha suscitato interesse perché ci dice qualcosa sulle opinioni delle persone a proposito di disuguaglianze.
Alcuni dati sperimentali, ottenuti in laboratorio usando semplici giochi economici, sembrano mostrare che la maggior parte delle persone preferiscano l’uguaglianza alla disuguaglianza, e siano anche disposte a sobbarcarsi dei piccoli costi per punire gli ingordi e assicurarsi che le risorse a disposizione di un gruppo vengano distribuite in maniera più egualitaria. Altri dati però, ottenuti tramite sondaggi e questionari, sembrano suggerire invece che alle persone non piacciano livelli di disuguaglianza troppo alti ma neanche livelli di disuguaglianza troppo bassi.
Bloom e colleghi argomentano che questi dati apparentemente contrastanti si possano in realtà riconciliare: ciò a cui la gente tiene veramente non è l'uguaglianza ma piuttosto l’economic fairness, ossia che ognuno riceva ciò che giustamente gli spetta.
Qualunque sia il giudizio su Bashar al-Assad, i suoi uomini e i suoi alleati, è innegabile che la Primavera siriana del 2011 sia stata sfruttata da potenze internazionali e regionali per innescare, o almeno propagare, un conflitto che aveva sin dall’inizio un obiettivo assai preciso: cancellare “questa” Siria dalle carte geografiche. Per sostituirla, com’è avvenuto in altre zone del Medio Oriente, con regimi compiacenti o anche con il nulla, secondo la tradizione colonialista e imperialista avviata nel 1916 con il Trattato Sykes-Picot, con cui Francia e Regno Unito smantellarono l’organizzazione dell’impero ottomano per mettere al suo posto, appunto, il nulla.
Una missione per nulla impossibile, se non fossero intervenuti prima la resistenza inaspettatamente tenace di Assad e del suo esercito, poi l’intervento militare della Russia di Vladimir Putin. Un insieme di fattori che ha trasformato la Siria nel luogo di un enorme e crudele massacro e, nello stesso tempo, nel laboratorio di tattiche militari e strategie politiche che in questi sei anni sono cambiate quasi senza sosta.
Un aspetto fondamentale della questione siriana, come già lo fu di quella irachena nel 2003 e di quella libica nel 2011, è la propaganda occidentale.
Da alcuni decenni si assiste ad un fiorire, tra i commentatori (universitari) del marxismo, di molteplici variazioni intorno alla tesi di una presunta differenza d’idee che avrebbe diviso Marx ed Engels. Il metodo di tale tendenza consiste nel prendere paragrafi, frasi e persino la semplice punteggiatura (fornirò in seguito un esempio) al fine di dedurne le differenze di sfumatura, nonché di contenuto e di metodologia, che si ritiene abbiano contrapposto i due autori.
Ovviamente, si ha tutto il diritto di analizzare i testi. Ciò non significa che non lo si possa fare con una cera prudenza (mi verrebbe da dire con un certo buon senso); ogni esegeta dotato di un minimo di capacita, infatti, è in grado di individuare delle differenze (o similitudini) fra dei qualsivoglia estratti, che appartengano allo stesso autore o meno. Ora, nel caso di Marx ed Engels, si tratta di due autori che hanno collaborato lungo tutto il corso delle loro vite, firmato insieme libri, scritto in alcune occasioni capitoli per volumi pubblicati dall’altro e, last but not least, condiviso durante le loro battaglie le medesime posizioni politiche. Non posso certo vantarmi di conoscere integralmente la loro vastissima corrispondenza, ma nelle qualche centinaia di pagine che ho avuto modo di scorrere, non mi pare di aver trovato, sia pur una sola volta, una critica dell’uno riguardo all’altro che vada oltre la semplice sfumatura su di un punto preciso, e che si riferisca ad un testo pubblicato.
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Nella prima
puntata di questo
“omaggio” ai 150 anni di pubblicazione del primo volume di Il Capitale.
Critica della economia politica (e il sottotitolo
è tutto un programma!), si è visto come Karl Marx nella sua
grande opera abbia voluto estendere il metodo della
critica
(invenzione intellettuale che si era giocata tra Kant e Hegel)
alla political economy di Adam Smith e David
Ricardo, Ed egli ne ha
riconosciuto l’oggetto nel capitale, ossia in quella
maniera del produrre, storicamente determinata, definita dallo
“scambio
speciale” del denaro con la forza-lavoro come merce: «quel che
dà il carattere all’epoca capitalistica è il fatto che
la forza-lavoro assume anche per lo stesso lavoratore la forma
di una merce che gli appartiene, mentre il suo lavoro assume
la forma del lavoro
salariato» (Il capitale, I, Roma, 1964, p. 203).
Resta allora da dire quale sia il soggetto della critica
e quale la
contraddizione che finisce per opporre questo
soggetto al suo oggetto.
Il soggetto della critica.
Non condivido affatto l’idea comune, a cui sembra indulgere anche Diego Fusaro in Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario (Bompiani, Milano, 2009), che nel Marx “maturo” si conservi ancora quell’elemento normativo che, oltre a quello conoscitivo, era stato proprio del “giovane” Marx.
Ripubblichiamo
questa ottima analisi
da "Ex Opg Occupato - Je so'
Pazzo" che analizza la fase di una politica italiana
sempre
più ad destra e che vorrebbe trascinare verso questa deriva
autoriaria e razzista tutto il paese. Se loro stanno
spingendo su queste tendenze,
noi dobbiamo organizzarci per costruire una forza in grado
di far pesare i nostri reali bisogni che sono casa, lavoro e
servizi pubblici per
tutti.
* * * *
È da un po’ di tempo che – presi dall’attività pratica e dalle lotte quotidiane – non scriviamo sulla fase politica del nostro paese. Eppure di cose importanti ne stanno accadendo, e meritano di essere analizzate con attenzione. In queste pagine vogliamo provare a restituire un quadro della situazione, e proporre alcune pratiche per reagire alla barbarie che nel nostro paese sta velocemente avanzando. Nella speranza di aprire un po’ di dibattito e trovare magari qualcuno che condivide le nostre stesse preoccupazioni.
Divideremo il discorso in tre momenti:
1. ricostruiremo velocemente cosa è accaduto dal 4 dicembre, giorno del NO al referendum costituzionale, fino a oggi, in cui la situazione politica italiana si è delineata con maggiore precisione;
Riprendere
in mano qualche vecchio testo può essere utile, a questo fine
rileggeremo alcuni libri usciti tra il 2000 ed il 2014 sulla
crisi politica che le democrazie occidentali stanno
affrontando sotto la spinta di fattori economici, sociali e
tecnologici. Sono coinvolti in questa
crisi tutti i fattori di stabilità politica che faticosamente
erano stati costruiti nel corso dei due secoli che seguono
alla fine
dell’ancien régime: le relazioni sociali, il discorso
pubblico, i valori centrali, i partiti, le forme della
politica, le forme
dell’azione pubblica, le istituzioni.
Probabilmente alla radice di questa trasformazione non è solo l’economia, con la prevalenza del sogno neoliberale (incubo per la maggioranza delle persone non dotate di robuste dotazioni di capitali), ma anche una profonda disintermediazione nella stessa costruzione del discorso, pubblico e privato, e quindi della capacità e possibilità di accesso alla formazione della verità.
Si tratta di un tema difficile e cruciale, sul quale bisognerà ritornare.
Il Partito democratico conferma, con la marcia di Milano guidata da Giuseppe Sala e presidiata da tutta la federazione lombarda del partito, la sua natura politica di istituzione totale. Come la Chiesa, nel suo seno vorrebbero essere ricondotte le esigenze del governo e quelle dell’opposizione; gli interessi delle élite finanziarie e le ragioni del lavoro; l’accoglienza dei migranti con la repressione della legge Minniti. Lungi dal costituire una contraddizione, la natura onnicomprensiva del Pd è in realtà un progetto politico di “governamentalità”, secondo un lessico foucaultiano. E’ un’arte del governare, in cui dovrebbero trovare posto tutte le esigenze della realtà, e in cui ogni contraddizione materiale viene piegata agli interessi dell’europeismo neoliberale. Alla Ue, d’altronde, serve un’ideologia, vista la strutturale incapacità economica di suscitare consensi. Improduttivo allora procedere al muro contro muro degli interessi divergenti. Ma il discorso è proprio questo: esistono ancora “interessi divergenti”? La strategia democratica punta proprio a smobilitare ideologicamente la contrapposizione degli interessi. Non è certo un fatto nuovo, ma il Partito democratico sta riuscendo nell’impresa di organizzare politicamente questo discorso, dandogli una forma pervasiva fino ad oggi mancata.
«Tutto ciò che è stabile evapora». Nel Manifesto Marx aveva ben colto il potere mobilitante e la potenza dionisiaca del capitalismo, dandone un’entusiastica descrizione; e ne aveva individuato il carattere progressivo nella capacità di «lacerare senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali». Rottura delle comunità e delle istituzioni, individualismo e dinamismo sono caratteri essenziali della forma capitalistica di produzione, della sua «distruzione creatrice».
Costretto dalla crisi del keynesismo a «guadagnare tempo», il capitalismo non ha esitato a partire dagli anni Ottanta del XX secolo a travolgere gli equilibri sociali e politici che aveva realizzato nei «Trenta gloriosi»: è stata la quarta rivoluzione del Novecento, neoliberista (dopo quella comunista, fascista, socialdemocratica). I cui effetti, o almeno alcuni dei quali, sono stati descritti da Zygmunt Bauman in un celebre libro, Modernità liquida, che apre il XXI secolo descrivendo la fine del legame sociale, delle istituzioni collettive, delle forme organizzative e di appartenenza in cui si erano conformate le società del secondo dopoguerra.
La società liquida è quella degli individui slegati, liberi da vincoli ma anche privati dei tradizionali punti di riferimento nello Stato, nei partiti, nei sindacati, nelle memorie di classe (a cui egli aveva dedicato un libro assai critico già nel 1982, riconducendole a espressione della retorica di alcune corporazioni attardate);
Contributo di Bruno Amoroso per il convegno “Oltre il neoliberismo”, promosso dall’Associazione Paolo Sylos Labini in collaborazione con Centro Studi Federico Caffé – Cetri Tires – Hyperpolis – Il Ponte – Keynes blog – Left – La Qualità Sociale – Socialismo 2000 – Istituto Italiano di Studi Filosofici – Giuristi Democratici, Roma Uversità Roma Tre, Facoltà di Economia Federico Caffè, 11 dicembre 2013
La Costituzione italiana del 1948 fu il prodotto di un processo costituente reso necessario dal tradimento delle classi dirigenti che avevano abbandonato la guida del paese e svenduto la sua sovranità a interessi e paesi stranieri. Fu anche il tentativo di rimettere in piedi un progetto condiviso tra forze politiche, sociali, culturali e religiose diverse ma concordanti su alcuni punti centrali di pace, di giustizia sociale, di valorizzazione delle risorse nazionali e di rilancio di un contributo autonomo dell’Italia alla realizzazione di questi obiettivi in e con la solidarietà di altri paesi. Il progetto europeo fu il prodotto di queste scelte e di questo clima politico, e non certo d’illuminati europei delle cancellerie degli Stati o di intellettuali impegnati nella elaborazione delle teorie sulla pace universale. L’Europa di Ernesto Rossi e di Altiero Spinelli nacque dal bisogno di contrapporre all’idea nazista della Grande Europa l’idea internazionalista di un’Europa di pace e solidarietà.
“Il leader nordcoreano Kim Jong-un non è un irrazionale, pensa a Saddam e soprattutto a Gheddafi ed è convinto che senza armi nucleari anche lui avrebbe fatto la stessa fine”. Stralci di un articolo di Lankov pubblicato sul Foreign Policy
Per molti la Corea del Nord è un paese “di pura follia” che minaccia gli Stati Uniti con azioni belliche e, a livello interno, “organizza brutali esecuzioni” mentre destina enormi risorse allo sviluppo delle armi nucleari a detrimento dello sviluppo economico del suo paese. E’ una sintesi estrema da cui parte un lungo articolo pubblicato sul Foreign Policy statunitense da Andrei Lankov, russo, studioso delle realtà asiatiche, in particolare della Corea del Nord.
Lankov però precisa, fin dalle prime righe, che tale approccio non può essere più lontano dalla realtà: “Se questo approccio si usa come guida per capire le politiche della Corea del Nord, tali analisi sono semplicemente sbagliate. Come guida per l’elaborazione delle politiche di Washington verso Pyongyan può essere catastrofico.”
Visto da fuori il modello politico della Corea del Nord può sembrare strano o “irrazionale” ma i Kim, scrive Lankov, sono “sopravvissuti politici” le cui azioni hanno sempre avuto un proposito chiaro:
Non passa giorno senza che i giornali riportino terrificanti dichiarazioni di generali, alti funzionari americani o europei, politicanti in cerca di notorietà, giornalisti, che parlano di un inevitabile attacco atomico preventivo, degli USA o della NATO alla Russia e alla Cina, nonché alla Corea del Nord.
Paul Craig Roberts scrive:
“Il loro folle piano è questo: Washington ha circondato Russia e Cina con basi anti-missili balistici per creare uno scudo contro un loro attacco di rappresaglia. Però, da queste basi USA anti-ABM è anche possibile lanciare un attacco nucleare missilistico non individuabile contro Russia e Cina, riducendo in tal modo il tempo di preavviso a soli cinque minuti e lasciando alle vittime di Washington poco o nessun tempo per prendere una decisione.
I neoconservatori ritengono che il primo attacco di Washington sia in grado di danneggiare così gravemente le capacità di ritorsione russe e cinesi che entrambi quei governi si arrenderebbero rinunciando a lanciare una loro risposta. I dirigenti russi e cinesi giungerebbero alla conclusione che le loro forze ridotte avrebbero scarse possibilità che la maggior parte dei loro ICBM possano superare lo scudo ABM di Washington, cosa che lascerebbe quindi intatta la maggior parte degli Stati Uniti.
La Belt and Road
Initiative
– BRI (che, come acronimo, prende il posto del precedente One
Belt One Road – OBOR, detta anche “Vie della Seta”) ha avuto
il
suo primo summit fondativo. Si tratta di un progetto
infrastrutturale (strade, porti, stazioni, ferrovie, reti
elettriche – tlc, gasdotti etc.)
che vorrebbe innervare l’eurasia, coinvolgendo Medio Oriente
ed Africa, per cui sarebbe più giusto dire “afro-eurasia”. Il
capofila è la Cina che traina l’economia asiatica (presa senza
India e Giappone) che pesa un 21% dell’economia mondo. Assieme
all’area russo-centro asiatica, arrivano al 23%. Coinvolgendo
Pakistan, Iran e Turchia, si supera il 25%, un quarto
dell’economia mondo.
Questa rete potenziale di stati-economie ha dalla sua tre
carte importanti: 1) la continuità geografica di aree
differenti sia in longitudine,
che in latitudine; 2) ricca dotazione di energia (Russia,
repubbliche centro-asiatiche, Iran); ma soprattutto 3) ampi
margini di sviluppo potenziale.
Quest’ultimo punto dice che se oggi questa parte di mondo pesa
un 25%, fra dieci anni (o forse prima) potrebbe crescere al
30%, è
cioè all’inizio o poco dopo l’inizio, di un ciclo di sviluppo
potenzialmente lungo.
Cerchiamo di mettere in luce,
riassumendoli,
alcuni temi centrali della “Filosofia del diritto” di Hegel
scritta nel 1820 quando aveva la cattedra di filosofia
all’Università di Berlino. Gli studiosi di Hegel hanno spesso
considerato i famosi scritti jenensi di Hegel dal 1801 al 1806
come
precedenti importanti della “Fenomenologia dello Spirito” del
1808 come della “Filosofia del diritto”, anzi questi scritti
giovanili mostrano spesso una ricchezza tematica più ampia
delle successive opere a stampa. Inoltrarci in questa
ricchissima selva filosofica
vorrebbe dire perdere di vista la strada teorica che Hegel ha
poi codificato come sua filosofia resa pubblica. Tuttavia su
un tema molto generale si
può trovare una linea di continuità.
Molti anni fa, siamo agli inizi degli anni Cinquanta, Mario Rossi (un amico di grande valore perduto immaturamente), studiando proprio gli scritti jenensi notava che “la preminenza assoluta di valore della determinazione politica serve a comprendere e a risolvere in sé le determinazioni sociali”. Vale a dire che ogni figura sociale, l’agricoltore, l’artigiano, il medico, il professore vanno compresi nel significato spirituale che essi hanno nella struttura ideale, unitaria e organica dello stato.
Hegel, all’inizio dell’Ottocento, conosceva le opere di Ferguson, sociologo e storico, Say, Smith, Ricardo, e classici della economia politica.
In questa
lunga intervista al celebre economista sudcoreano
Ha-Joon Chang, professore alla Cambridge University, sono
affrontati i miti e le bugie
dell’economia neoliberale, un sistema che Chang, citando
Gore Vidal, definisce “libera impresa per i poveri e
socialismo per i
ricchi”. Il neoliberalismo ha diffuso la convinzione
che ci sia un campo “oggettivo” dell’economia, nel quale
la logica della politica non deve intromettersi, e così
facendo ha sottratto le politiche economiche alla dinamica
democratica, permettendo
alle élite di fare ritirare il perimetro dello Stato e
reindirizzarne le scelte a loro favore.
Per gli ultimi 40 anni circa, il neoliberalismo (scegliamo volutamente questo termine al posto del più usato “neoliberismo” NdVdE) ha regnato incontrastato su gran parte del mondo capitalista occidentale, producendo livelli di accumulazione di ricchezza senza precedenti per una manciata di individui e di multinazionali, mentre al resto della società si è chiesto di ingoiare austerità, stagnazione dei redditi e la continua riduzione dello stato sociale. Ma proprio quando tutti pensavamo che le contraddizioni del capitalismo neoliberale avessero raggiunto il loro penultimo stadio, culminando nel malcontento di massa e nell’opposizione al neoliberalismo globale, l’esito delle elezioni presidenziali 2016 negli Stati Uniti ha portato al potere un megalomane che aderisce all’economia capitalista neoliberale, pur opponendosi a grande parte della sua dimensione globale.
Cosa c’entra la questione vaccini con la crisi dell’Alitalia? Niente. O forse molto. Dipende dalla capacità di leggere nessi forse nemmeno tanto nascosti.
Da ormai due anni è in atto una forsennata campagna di allarmismo terroristico nei confronti dell’opinione pubblica basata sulla necessità di incrementare le vaccinazioni di massa, giudicate in leggera flessione statistica.
Non questo o quel vaccino in particolare: ma tutti, sempre, per qualunque problema. Si è partiti con articoli e interviste allarmanti sulle epidemie prossime venture (inesistenti picchi di meningite e pandemie di morbillo), si è continuato con lettere intimidatorie delle ASL a casa dei genitori riluttanti, si arriva al capitolo finale, con una legge in incubazione che vieterà l’ingresso a scuola ai non vaccinati e, quindi, obbligherà di fatto, l’intera popolazione giovanile ad adempiere al diktat.
Ok, ma l’Alitalia? Ci arriviamo.
Il fatto che molte famiglie abbiano scelto in questi anni di non vaccinare i figli e si ostinino a difendere la loro scelta, nonostante il dispiegamento di questa feroce campagna (senza precedenti), è solo un’altra manifestazione di quella diffusa “sfiducia nelle élite”, che è un dato costante e caratteristico di questa epoca.
A noi sognatori pessimisti la notizia della prossima uscita del sequel di Blade Runner è giunta inaspettata ma gaudiosa. Senza Ridley Scott e 35 anni dopo. Il mondo nel frattempo è cambiato. Il film ce lo godremo di sicuro. Quasi sicuramente più del nuovo film di Veltroni. Il pensiero corre invece ad altro.
Sognando già pecore elettriche non ci rimane che combattere da noi i moderni androidi.
Eh già perché i paramondi distopici immaginati da Dick sembrano nel nostro tempo non solo attuali ma persino migliori.
Oggi la realtà supera spesso, e di gran lunga, ogni negativa costruzione vagheggiata dallo scrittore di Chicago.
Il grigiore avvolgente ed uggioso nel quale si muove Harrison Ford, ricorda le nostre moderne metropoli o la ricaduta delle ceneri di una qualsiasi Eco-X.
Anche la guerra, sempre presente nei suoi onirici ritratti, rimane elemento fondante, ed è sempre la stessa, contro di noi, contro il popolo. Ed è ogni volta e comunque espediente del mantenimento del potere economico e politico. Potere economico e politico che si fonde nell’unica vera fake new, il nuovo, che è ancora ed eternamente il vecchio.
- 1 -
Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione. Le politiche, ad esso ispirate, della Thatcher e di Reagan dei primi anni '80 si sono perfezionate - si potrebbe dire compiute - con la third way di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un'intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale.
A proposito di Il marxismo occidentale di Domenico Losurdo
Il nuovo saggio di Domenico Losurdo offre un notevolissimo contributo al rinnovamento tanto filosofico quanto politico del marxismo, in Italia e negli altri paesi che, come l’Italia, sono stati segnati da un destino particolare : quello di avere visto la presenza di un potente movimento operaio, democratico e comunista pur essendo delle potenze chiaramente imperialiste, sia prima che dopo la creazione della NATO. Proprio questa situazione sembra aver presieduto all’involuzione del movimento di pensiero che si richiamava a Marx o che era sgorgato dalle fila delle internazionali socialiste in Europa occidentale. Un saggio non è un trattato : e così Losurdo non tenta di ripercorrere tutte le vie che hanno imboccato tutti i protagonisti e i teorici di questo movimento politico-filosofico. Non è qui il punto. Come infatti precisa il sottotitolo, e al di là del dichiarato contrasto con le tesi di Perry Anderson, il focus dell’autore è cercare di capire « come nacque » il marxismo occidentale (in opposizione al marxismo detto orientale), « come morì » e soprattutto – in tacita opposizione con la visione pessimistica di Costanzo Preve – « come può rinascere ».
A questo link trovate un impressionante reportage video, prodotto da una società degli Emirati Arabi Uniti e realizzata da alcuni giornalisti che sono entrati sotto falso nome nella provincia di Idlib e ne hanno ripreso in segreto la presenza dei jihadisti e la vita della popolazione. Per farlo hanno rischiato carcere e vita.
La provincia, ora una delle quattro cosiddette zone di “de-escalation” (riduzione del conflitto) predisposte in Siria da Russia, Iran e Turchia, viene descritta dai media come sotto totale controllo del Free Syrian Army, Libero Esercito Siriano, descritto in Occidente come la componente “moderata” dell’opposizione al governo siriano. E’ formazione sotto stretto controllo di Ankara.
La realtà riscontrata dagli inviati è una drastica negazione di tale descrizione. Come dimostrano i quartieri generali, gli uffici, le scritte e i posti di blocco in tutta la grande provincia al confine con la Turchia, il controllo quasi assoluto è esercitato da Al Qaida, nei suoi vari alias, Jabhat Al Nusra o Fatah Al Sham, insieme ai suoi alleati integralisti di Ahrar Al Sham e del Partito Islamico Turco.
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Alessandro Visalli: Wolfgang Streeck, “Come sarà la nostra società nei prossimi anni?”
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La crisi di
sistema che va avanti
da quasi un decennio sta producendo un “passaggio d’epoca” che
si manifesta a livello mondiale e che produce i suoi effetti
anche
nel nostro “specifico” nazionale e continentale. Questa
evoluzione abbiamo cercato di analizzarla nel convegno
promosso a Dicembre del
2016 riprendendo le parole di Gramsci quando nelle carceri
fasciste affermava che “il vecchio muore ma il nuovo non può
nascere”.
Questi effetti si avvertono nei processi di riorganizzazione produttiva, di scomposizione sociale generalizzati e di disorientamento politico dei settori di classe generando dei riflessi sul piano politico-istituzionale scompaginando le vecchie formazioni politiche e producendo i cosiddetti populismi che si esprimono nei differenti paesi in modi diversificati. Questi fenomeni inaspettati sono il prodotto di una rabbia sociale che cresce e che per ora si manifesta sul piano strettamente elettorale e istituzionale, piano che da una parte mette in crisi gli assetti politici ma che può essere utilizzato dalle classi dominanti per il mantenimento della propria egemonia; vedi la gestione che è stata fatta in Francia della vicenda Le Pen e l’uso televisivo in Italia di Salvini per dimostrare che non esistono alternative al quadro politico europeista.
1. Il titolo di questo post è
agevolmente comprensibile, direi autoesplicativo, per chi
segua questo blog.
Ma non si può ignorare il fatto che, specialmente a seguito della vittoria di Macron (quale che ne sia l'effettiva tenuta, alla luce degli eventi che egli stesso non potrà evitare di determinare), in quanto principalmente interpretata come una sconfitta di Marie Le Pen, nel dibattitto politico-mediatico, si registri la tendenza a considerare il "sovranismo" come un concetto programmatico in arretramento. E, dunque, proprio presumendosi la sua subentrata scarsa presa elettorale, in via di ridimensionamento nel linguaggio à la page, cioè elettoralmente remunerativo.
Inutile dire che questo ridimensionamento viene con immediatezza, e quindi molto frettolosamente e in base ad analisi delle effettive propensioni al voto piuttosto rozze ed emotive, legato alla questione dell'opposizione alla moneta unica.
Il testo della relazione di Guido Liguori al Convegno Gramsciano il 18 e il 19 maggio 2017, Roma, su "Egemonia e Modernità"
Il
contributo
che dovrei cercare di dare in questa sede, nell’ambito di una
sezione dedicata alla ricerca e al dibattito italiani sui temi
del convegno, si
intitola “Gramsci conteso”: vent’anni dopo.
Non è un titolo che ovviamente possa essere svolto in modo esauriente. Tanto più nello spazio di una esposizione orale necessariamente sintetica.
Anche intendendo il titolo come relativo solo al concetto di egemonia, come credo vada fatto, nell’ambito di questo convegno che all’egemonia è dedicato, dico subito che ho inteso il compito che mi è stato affidato non come un invito a ripercorrere pedissequamente il dibattito italiano degli ultimi venti anni (per autori e correnti di pensiero di altri paesi, del resto, sono previste in questo nostro incontro sessioni e relazioni apposite), ma solo come tentativo di indicare alcune delle principali idee-guida che hanno nutrito la ricerca e le interpretazioni gramsciane sul tema, in Italia, negli ultimi due decenni.
Per comprendere i caratteri di fondo della ricerca gramsciana in Italia nell’ultimo ventennio occorre in primo luogo partire dal dato della grande diffusione del pensiero di Gramsci nel mondo, iniziata già nel decennio precedente, ma di cui si è avuta piena coscienza in questo paese soprattutto negli anni Novanta.
Se qualcuno nutrisse dubbi in merito al fatto che questa è l’era del pensiero unico, un’epoca in cui non esistono quasi più giornali, radio o canali televisivi che non sostengano posizioni praticamente identiche su tutte le questioni economiche, sociali e politiche di fondo (dall’urgenza di tagliare la spesa sociale alla necessità di lottare contro il “populismo”, dalla definizione di buoni e cattivi nelle varie guerre in corso a come fronteggiare la sfida terrorista, dalla celebrazione del politicamente corretto alla condanna delle manifestazioni di piazza “violente”, ecc.) ,vada a leggersi gli articoli (o guardi i servizi televisivi) che i media mainstream dedicano alla crisi venezuelana, poi, se ne ha tempo e voglia, consulti qualche fonte alternativa in Rete, o scorra qualche articolo sui rari fogli “eretici” rimasti in circolazione.
Per quanto riguarda i primi sfido il lettore a trovare - e a segnalarmi - una voce che dia una versione minimamente obiettiva di quanto sta accadendo in Venezuela, che non dipinga, cioè, Maduro come un dittatore sanguinario a capo di un regime totalitario e i suoi oppositori come cittadini inermi che lottano eroicamente per reintrodurre la democrazia nel Paese. Per quanto riguarda i secondi, segnalo l’intervista a Luciano Vasapollo, economista e profondo conoscitore della politica latinoamericana, pubblicata sul sito Contropiano.
“Sei chavista?” gli urlano. “Sì, sono chavista”, risponde. E lo massacrano. Poi gli danno fuoco e quando tenta di rialzarsi, lo pugnalano. Lo inseguono per finirlo, finché i pompieri lo soccorrono, al contrario della polizia municipale che non si era fermata. Orlando Figueroa, venditore ambulante ventunenne ha ustioni sull’80% del corpo, ma è riuscito ad arrivare all’ospedale vivo, e la sorella ha raccontato ai giornalisti l’accaduto. Era finito in una manifestazione ad Altamira, nel municipio Chacao, uno dei quartieri bene della capitale, focolaio delle violenze contro il governo, che durano da otto settimane.
Pochi giorni fa era toccato a un commerciante, aggredito in un centro commerciale perché scambiato per un politico di governo. Le vittime sono già 52, in gran parte gente comune, militari disarmati o giovani di opposizione, uccisi dalle micidiali armi artigianali – mostrate dalla Reuters e da giornalisti indipendenti – di cui si servono i gruppi oltranzisti in piazza. Intanto, il ministero degli Esteri ha denunciato movimenti di truppe alla frontiera con la Colombia. Nello stato di Bolivar, l’estrema destra ha dato alle fiamme 51 autobus impedendo la mobilità di 170.000 persone che si spostano sui trasporti pubblici (gratuiti) per andare a scuola o al lavoro.
74mila militanti, più del 50%, ha votato per l’ex segretario. Affluenza record all’80%
Un solo risultato poteva buttare all’aria lo scacchiere politico: che l’ex segretario socialista Pedro Sánchez, defenestrato dai baroni del partito sei mesi fa, vincesse le primarie. E contro ogni pronostico, contro la quasi totalità dei maggiorenti del Psoe, contro gli editorialisti dei principali giornali, in primis l’ex filosocialista El País, contro i desiderata di Pp e Podemos, la maggioranza dei militanti socilisti, su 150mila che si sono recati a votare in urne fisiche (uno straordinario 80% del censo), ha scelto l’outsider, l’ex segretario ed ex deputato Sánchez.
Lo scontro è stato cruento. Susana Díaz, che tutti davano per vincente, contava sull’appoggio della potentissima federazione andalusa (dove è presidente regionale) e di tutti i quadri regionali, con l’eccezione della Catalogna e delle Baleari. La appoggiavano tutti gli ex segretari ed ex presidenti socialisti del governo. Il terzo candidato, l’ex presidente basco e presidente del Congresso nella breve legislatura precedente, Patxi López, ed ex alleato di Sánchez, era appoggiato dalla federazione basca.
Il trattamento che i nemici di Sánchez gli hanno riservato in questi mesi, alla fine si è rivelato un regalo.
Padri, madri, figli, figlie, è la next generation del familismo amorale, il familismo cazzaro.
Parenti serpenti, amici degli amici, fratelli di sangue e di loggia, interi clan che salgono da un centro di potere al successivo tutti insieme, col montacarichi.
Perché il potere è un affare di famiglia. Mai permettere che ci arrivi un estraneo. E sempre spacciare i prescelti per outsider.
Dopo la Brexit e il No al referendum, in Europa la democrazia sembra aver ricominciato a funzionare come previsto, cogli elettori che si limitano a ratificare le scelte già fatte dell’élite.
Emmanuel Macron è stato allevato e addestrato al comando come un principe ereditario. Le elezioni devono essergli sembrate una bizzarra formalità protocollare.
I sondaggi prevedono anche un’ampia riconferma sia di Theresa May che dell’imperatrice Merkel, ormai al potere dai tempi del telefax.
A fare il gioco dell’establishment sono gli anticorpi residui degli europei contro i nazionalisti esplicitamente fascisti.
Dopo Nicki, è il turno di Ricky: dopo Vendola, il multimilionario Ricky Martin ha trionfalmente dichiarato a reti unificate che grazie all’utero in affitto potrà presto comprare… pardon, avere una bambina. Sì, perché il bello di queste pratiche eugenetiche sta anche in questo: puoi decidere il sesso dei nascituri, assemblarli secondo il tuo gusto. Non sono più bambini, ma merci on demand. Che il consumatore può programmare secondo il suo capriccio: il cliente, ce lo dicono a piè sospinto, ha sempre ragione.
I nuovi e gaudenti membri dell’upper class senza confini e senza coscienza infelice residua possono tutto: stanno abbattendo ogni limite e ogni autorità. Perché, infatti, la forma merce non conosce né limite né autorità: deve poter scorrere senza limitazioni fisiche, morali e religiose, con moto onnidirezionale, nello spazio globale del mercato unificato e completamente deregolamentato.
E guai a chi osi contrastare questo nuovo ordine mondiale, tutto a beneficio dei dominanti.
Esiste un legame di mutuo interesse
tra
la storia e il potere, perché il secondo ha bisogno di
appoggiarsi sulla prima per legittimare il proprio ruolo, la
prima del concorso decisivo
del secondo per imporsi.
La storia è legata ad un sistema di potere o a dei sistemi di potere che la producono e la impongono e pertanto è uno strumento di cui il potere stesso ha bisogno. Ma quello che deve far riflettere non è tanto l’uso strumentale che il potere fa della storia quanto l’interiorizzazione che le classi subalterne, gli oppressi in genere, subiscono facendo propria la lettura vincente.
In questi giorni se ne ha una verifica puntuale in occasione dell’anniversario del ’77 che ha portato molti a tentare ricostruzioni, a organizzare dibattiti, a misurarsi con i movimenti e le lotte politiche che lo hanno caratterizzato, fino a comprendere un giudizio globale degli anni settanta. Si ripete come un mantra la frase “anni di piombo”, omettendo, dimenticando e rovesciando il fatto che questa frase venne coniata proprio dal movimento, con riferimento alla cappa repressiva messa in atto nel nostro paese, a partire dalla promulgazione della Legge Reale.
Dario Guarascio sarà ospite, assieme a Marco V. Passarella, del convegno “LAVORO E AUTOMAZIONE“, che si svolgerà il prossimo 3 giugno a Perugia. Per sapere di più del convegno di Perugia clicca QUI
La
trasformazione in atto è visibile anche guardando ai dati
economici. In pochissimi anni, una manciata di multinazionali
del
capitalismo digitale – Amazon, Google, Facebook, Microsoft,
Apple, per citare le più rilevanti – è divenuto il blocco di
potere globale più significativo dal punto di vista del valore
economico e della capacità d’influenza politica.
Nella Londra di 1984 (Penguin, 2008 p. 326), il solo luogo dove Winston Smith può nascondersi per sfuggire allo sguardo inquisitorio di Big Brother è una piccola intercapedine della sua casa. Asserragliarsi in quel rifugio è l’unica strategia per pensare in modo autonomo fuggendo dall’eterno presente in cui sono costretti gli abitanti di Oceania. La sorveglianza ininterrotta e la sistematica distruzione di tutto ciò che è esperienza e storia annichilisce l’arbitrio, erigendo il riflesso condizionato a norma comportamentale. Nel 1984, lo stato d’emergenza permanente giustifica ogni forma di repressione e rende accettabili le più odiose condizioni sociali. Una comunicazione di massa cacofonica e martellante inverte e mortifica il reale, ad uso e consumo dei governanti. Guerra è pace. Ignoranza è forza. Libertà è schiavitù. Più si dimostra contraddittoria e priva di coerenza e più la cultura dominante stringe il giogo al collo delle masse, conformando i pensieri nei loro meandri più profondi.
Ci si può rammaricare di tante
scelte fatte, ma chi
“si pente” appare agli occhi del mondo doppiamente stupido.
Una prima volta per aver fatto, senza averci riflettuto su
bene, le scelte che
oggi critica; una seconda volta per il tentativo di “rifarsi
l’immagine” a distanza di tempo, con comodo, puntando a
concentrare su
di sé la benevolenza di un pubblico (ritenuto) boccalone.
L’anniversario dell’uccisione di Luigi Calabresi, spietato commissario della “squadra politica” della questura di Milano alla fine degli anni ’60, è stato occasione per Eugenio Scalfari di un pentimento decisamente tardivo, ma – come tutti i “pentimenti” – per nulla innocente.
Sorvoliamo sul curioso “conflitto di sentimenti” di cui da una vita lo stesso Scalfari è protagonista, capace di assumere e promuovere a caporedattore di Repubblica quello che poi è tornato per dirigerla, Mario Calabresi. E al tempo stesso capace di costringere il figlio del defunto commissario a convivere pacificamente per anni con l’uomo condannato in via definitiva – dopo otto gradi di giudizio – come “mandante” dell’omicidio del padre, ovvero Adriano Sofri, ex capo assoluto di Lotta Continua e per almeno due decenni collaboratore, inviato, editorialista di quel giornale.
Per quanti sforzi facciano Repubblica e l’informazione mainstream, non è scomparsa né la classe lavoratrice né l’inevitabile conflitto di classe
“Ma d’altra parte ogni movimento in cui la classe operaia si oppone come classe alle classi dominanti e cerca di far forza su di essa con pressure from without (pressione dall'esterno) è un political moviment (movimento politico)”. [1]
Forse è il caso di partire da questa lettera di Karl Marx a Bolte del novembre 1871, per commentare il Rapporto annuale 2017 dell’Istat, nel quale si afferma che “all’interno delle stesse classi sociali ciò che sembra essersi profondamente modificato è il senso di appartenenza a una data classe sociale e ciò è particolarmente vero per la classe media e la classe operaia”. La quale classe operaia, evidentemente, esiste ancora anche per l’istituto nazionale di statistica. Eppure, Repubblica e altre testate giornalistiche [2] hanno letto nel rapporto Istat la scomparsa della classe operaia e della piccola borghesia. Ora, sia chiaro, nessuno pretende dall’Istat e tantomeno da Repubblica che si definiscano marxianamente le classi sociali. D’altronde lo stesso Marx non fece in tempo a terminare la sua analisi nel capitolo “Le classi” de Il Capitale, rimasto perciò incompiuto. Ma il barbuto di Treviri fece in tempo a porre la questione in questi termini: “Che cosa costituisce una classe? … A prima vista può sembrare che ciò sia dovuto all’identità dei loro redditi e delle loro fonti di reddito”.
Nel commento dell’articolo di Piotr, su “Sinistrainrete”, “America anno zero”, che era stato pubblicato a febbraio, l’elezione di Trump (che fa seguito alla rottura della Brexit) è interpretata come un passaggio di fase storico, un incrinarsi della globalizzazione e dei meta racconti che vi erano proiettati. Ma anche l’evidenza della fase forse terminale della crisi sistemica del sistema-mondo dominato dall’America. Il richiamo era allo schema esplicativo di Giovanni Arrighi, con la sua opposizione tra “logica territorialista” e “logica capitalistica”, dall’espansione (TDT’) rivolta all’accrescimento dei beni materiali a quella (DTD’) rivolta all’accrescimento del capitale. Ciò accadrebbe quando lo stato di sviluppo delle forze produttive in competizione le une verso le altre porta ad una riduzione del saggio di profitto tale da implicare un “disimpegno” (o, nei termini di Streeck, uno “sciopero”). A questo punto gli agenti economici, utilizzando le infrastrutture messe a disposizione dagli Stati e prodotte nella fase precedente di investimento, spostano gli investimenti sul terreno finanziario e questo si espande in cerca di “terreni vergini” in cui rintracciare occasioni più convenienti (o che possano essere ritenute tali nella trasformazione finanziaria, con gli opportuni strumenti ed artifici, come CDO, strumenti assicurativi, etc.).
È di moda, soprattutto nei tempi di indebolimento del pensiero, predicare la fine delle classi e, a fortiori, della lotta di classe
A seguito della pubblicazione della venticinquesima edizione del Rapporto annuale dell’Istat di cui trattiamo in uno specifico articolo, la redazione della Città Futura ritiene necessario proporre questo breve testo apparso sul numero 51 della rivista Contraddizione nella sezione quiproquo col titolo “Classe (definizione)”.
* * * *
È di moda, soprattutto nei tempi di indebolimento del pensiero, predicare la fine delle classi e, a fortiori, della lotta di classe. Che ciò sia fatto dall’ideologia dominante è ovvio; che tale predica venga assimilata e ripetuta acriticamente dagli esponenti dell’”asinistra” è conseguenza necessaria proprio di quello stesso dominio di classe “solido e pericoloso” che costoro vorrebbero far credere di esorcizzare. E la faccenda non è recente, se già Marx si sentì in dovere di precisare, nel poscritto alla seconda edizione del primo libro del Capitale, che “l’economia politica, in quanto concepisce l’ordinamento capitalistico come forma assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati.
Cibo per porci agli immigrati. La barbarie capitalista sfonda tutte le barriere dell’orrore, nel nome del suo unico dio: il denaro. Non c’è nulla, compresi donne, bambini e uomini in fuga da guerre e miseria, che possa sfuggire alla riduzione a una mera cosa.
Le mani insanguinate del dominio sociale capitalistico si sporcano ancora, colpendo i nostri fratelli di classe. L’unico modo di reagire a questa violenza è l’unione di tutti i lavoratori, i disoccupati, i proletari migranti, e la ricostituzione di un’organizzazione comunista internazionale che sappia dare un’autentica prospettiva di liberazione alla straordinaria forza sociale che la nostra classe può esprimere.
I maiali, se vengono trattati bene, durante una giornata ricevono pasti abbondanti (per farli ingrassare) a base di residui del frumento, ossia di quello che rimane dopo la lavorazione dei cereali. L’industria del cibo per suini, di solito, mischia a questo composto base anche carcasse di animali morti, tra cui i maiali stessi, o altre leccornie pensate dai fantasiosi chef dell’industria alimentare per bestie da macello.
Per commentare tale sperimentazione annunciata già da tempo e solo adesso messa pienamente in atto dalla Ministra Fedeli – la quale si mostra particolarmente fedele di nome e di fatto all’impianto complessivo della riforma renziana della scuola – vorrei soffermarmi sul concetto di espropriazione.
Può sembrare fuori luogo, ma occorre mettere in chiaro innanzitutto la modalità con la quale da vent’anni lo Stato italiano si sta occupando e preoccupando di rivoluzionare il nostro sistema scolastico, con un’accelerazione mai vista negli ultimi tempi (la 107, cosiddetta “Buona scuola”). Una rivoluzione dall’alto che ha come effetto essenziale e irreversibile, ormai evidente, la sottrazione di intere ore di studio – in aula e a casa – agli studenti di ogni ordine e grado, con particolare riguardo alle scuole superiori di secondo grado e soprattutto ai Licei.
Una sottrazione di tempo-studio accentuata dall’introduzione obbligatoria della cosiddetta didattica per competenze1, che marginalizza il contenuto disciplinare (le conoscenze specifiche delle singole materie: quelle che vengono chiamate nozioni in senso dispregiativo, ma che al contrario vanno rivalutate come tesoro di conoscenza e di memoria) a vantaggio di tecniche di apprendimento/insegnamento che mettano al centro del percorso di formazione il “saper fare”.
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In Italia si sta ripresentando, per
l’ennesima volta, nel
dibattito politico dei comunisti (siano essi organizzati o no)
in riferimento al progetto politico da perseguire in
questa fase di sconfitta
storica (in altre parole: quale obiettivo porre per i
comunisti, il “cosa fare” adesso), l’alternativa secca tra
partito/unità dei comunisti da una parte e movimento/unità
delle “sinistre” dall’altra. Da anni la riproposizione di
questo dibattito avviene con una puntualità ricorrente,
segnata in primo luogo dalle scadenze elettorali, poi dalle
loro successive sconfitte e
in ultimo dalle fasi congressuali dove i nodi solitamente
vengono al pettine.
Per chi ha anche una minima memoria storica si ricorderà che un dibattito simile ci fu, tra le altre volte, anche verso la fine degli anni ‘80, dopo la batosta elettorale del 1988, e dopo il secondo governo Prodi e l’allora congresso del Prc. Le ipotesi che venivano messe in campo allora per uscire dalla crisi nera in cui ci eravamo cacciati (al punto che in parlamento non vi era più nemmeno una forza organizzata che si richiamasse al comunismo), erano l’ipotesi della “Costituente dei comunisti” in contrapposizione alla “costituente della sinistra”.
In attesa
di leggere e
commentare il libro degli autori “Ripensare
il capitalismo”,
da poco uscito per Laterza in italiano, può essere
interessante leggere un articolo
uscito su Dissent
.
L’autore di “Lo stato innovatore” ed il suo coautore spendono come d’uso la prima parte per illustrare i fallimenti del capitalismo contemporaneo e la sua elevata disfunzionalità. Nella seconda correttamente gli autori dichiarano che le carenze del capitalismo non sono affatto temporanee, ma strutturali.
Sulla base della loro impostazione chiaramente riformista (gli autori sono parte degli organi consultivi del Labour di Corbyn) le linee di ripensamento del capitalismo, per salvarlo in qualche modo, sono tre:
- Il mercato, e i suoi attori, non possono essere pensati come delle entità astratte. Una sorta di ambiente, uno spazio neutro che preesiste agli attori (imprese, investitori e famiglie) che vi “entrano” per condurre scambi e prodursi in comportamenti conformi. Si tratta di un punto molto profondo, tutte le politiche blairiane sono state vendute come “conformi al mercato”, nel tacito presupposto che questo fosse l’ambiente esterno alla cui normatività occorresse solo adeguarsi.
Questa recensione del volume Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena, a cura cura di Sergio Bianchi (Derive Approdi, pp. 166, euro 20.00), venne pubblicata su "Maelstrom" circa sei anni fa e viene riproposta oggi, a quarant'anni dal giorno in cui la foto fu scattata, il 14 maggio 1977
Nel corso dei decenni,
l’espressione
«anni di piombo» - entrata nel nostro lessico dopo il film
omonimo di Margarethe von Trotta – è andata progressivamente a
identificare quel lungo periodo della storia italiana che
inizia con il 1968 e giunge fino all’inizio degli anni
Ottanta. Nel dibattito
pubblico, e nella memoria collettiva, la durata degli «anni di
piombo» si è così progressivamente dilatata. Ha cessato di
identificare soltanto la stagione del terrorismo e della lotta
armata – quel periodo in cui il conflitto sociale e politico
si trasforma in una
dolorosa, nichilista, «guerra civile a bassa intensità» - ed è
diventato qualcosa di più, la formula con cui
rappresentare un decennio di follia, in cui l’Italia si muta
in una fucina di violenza incontrollabile, di odio viscerale,
di follia ideologica.
Una simile dilatazione distorce, almeno in parte, la realtà.
Quantomeno perché, proprio negli anni a cavallo tra gli anni
Sessanta e gli
anni Settanta, l’Italia vive forse uno dei periodi più vivaci
della sua storia, una stagione di straordinaria creatività
pressoché in tutti campi della sua vita culturale.
Una volta tanto, anche think-tank come il Brookings Institute sono in grado di affrontare tematiche attuali e altamente strategiche. Spesso queste conferenze si basano su falsi pretesti e copiose banalità, con l’unica intenzione di sminuire e minimizzare gli sforzi degli avversari strategici degli Stati Uniti. Recentemente il ‘Progetto sull’Ordine Internazionale e Strategia’ del Brookings Institute ha tenuto una conferenza il 9 maggio 2017 invitando a parlare Bobo Lo, un analista del Lowy Institute for International Policy. L’argomento tratto, estremamente interessate e di cui l’autore in passato ha scritto ampiamente, riguarda la partnership strategica tra Cina e Russia.
Il principale assunto da cui Bobo Lo inizia, per definire le relazioni tra Mosca e Pechino, è il rapporto tra le due nazioni, definito di convenienza e di convergenza di interessi, non un’alleanza dunque. Lo prosegue nella sua disamina arrivando ad affermare che i maggiori punti di frizione riguardano la considerazione che Putin e Xi hanno per l’Europa ed in particolare per l’Unione Europea oltre al ruolo Cinese nel Pacifico. Nel primo caso, Lo afferma che Mosca vuole la fine del progetto Europeo, mentre Pechino si augura ed auspica un’Europa forte e prospera.
Armi ad Al Baghdadi, via re Salman
Che sia farina del suo sacco, o che sia il risultato del waterboarding che gli sta facendo lo Stato Profondo, sostenuto dalla “sinistra” cretina o complice, il viaggio del pupazzo col nido di un cuculo diarroico in testa parrebbe preludere a una svolta epocale. 350 miliardi di dollari in armi, nei prossimi anni a chi non sa usarli perché comanda un esercito di mercenari, regna su una massa di schiavi, metà dei quali in rivolta nell’Est del paese, sarebbero da usare contro il “terrorismo islamico” da parte di quella, Saudia e succedanei, che è la madre di tutti i terrorismi islamici. E’ come fornire al Dr.Jekill un ettolitro della pozione che lo trasforma in Mr.Hyde per agevolare le sue scorribande assassine in Siria, Iraq, Yemen, Libia e qua e là in Europa.
Il paradosso è talmente assurdo e scandaloso da darci tutt’intera la misura di cosa sia diventato, in termini di gioiosa autosodomizzazione, il sistema mediatico occidentale che tale paradosso affronta come se al Dr. Jekill fosse invece stato fornito il vaccino contro ogni trasformazione in mostro necrofago. Eppure cosa facciano i vaccini lo si sa bene. E lo sa bene Big Pharma che ha appena commissionato a Bernini una statua a Beatrice Lorenzin.
Quando le Organizzazioni dei cosiddetti Diritti Umani sono finanziate dall’un per cento, esse sicuramente riflettono le priorità e le prevenzioni dei loro influenti sponsor. Pertanto, Amnesty International è una vitale fonte della propaganda di guerra a favore degli interventi imperialisti USA in Medio Oriente e altrove. Il loro "rapporto" di un presunto "macello umano" ad opera dal regime siriano è l'ultimo episodio di una campagna volta a giustificare l’intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente.
L'umanità ha un disperato bisogno di individui e organizzazioni che alzino la voce per il suo diritto a vivere libera dal rischio della violenza di Stato. Invece, abbiamo un’Industria dei Diritti Umani, che parla per i potenti e racconta menzogne per giustificare le loro aggressioni. Amnesty International e Human Rights Watch sono al vertice di questa lista infame. Hanno il modello e la prassi per fornire una copertura al cambiamento di regime ordito dagli Stati Uniti, dai partner della NATO e dalle monarchie del Golfo, come l'Arabia Saudita.
Amnesty International ha recentemente pubblicato un rapporto dal titolo ‘’ Mattatoio umano: impiccagioni di massa e sterminio nella prigione di Saydnaya in Siria", in cui si sostiene che il governo siriano abbia ucciso tra le 5000 e le 13.000 persone in un periodo di cinque anni.
Mentre da noi il dibattito sulla moneta parallela è continuato raggiungendo anche le alte sfere della politica (si fa per dire), ci siamo lasciati sfuggire quanto dichiarò Dimitris Papadimitriou - già presidente del Levy Institute e sostenitore della proposta - all'atto del suo insediamento a Ministro dell'economia del governo Tsipras (una carica peraltro piuttosto inutile).
Qui sotto la dichiarazione che rilasciò il 7/11/2016 (fonte attendibilissima: ekathimerini). Traduco solo le sue affermazioni più rilevanti:
<The new Economy Minister Dimitris Papadimitriou officially assumed his role on Monday in a handover ceremony with his predecessor Giorgos Stathakis, pledging to focus on attracting much-needed foreign investments.Papadimitriou, an economist who has lived for many years in the USA, indicated that statements he made during his academic career regarding the possibility of a parallel currency for Greece were "a mistake." "Until last week I was an academic. Academics can say many things.
However, when they are called upon to implement a program, they see that some things they have said may have been wrong."
"There is no parallel currency for Greece and nor will they be one, at least for this government," he added.
The administration's goal, he said, was to attract investments, always in the context of euro membership and with respect for European institutions.
[Presentazione
di Perez Gallo e Simone Scaffidi: La situazione
attuale che
vive il Venezuela, come noto, è gravissima. Ma i termini
della sua gravità non sono forse altrettanto noti, almeno
rispetto a quello che
propone la narrazione mainstream e alla confusione
che regna a sinistra sui posizionamenti da prendere in
proposito. Crediamo – e per
questo lo abbiamo tradotto – che in questo testo del
sociologo venezuelano Emiliano Terán Mantovani
si possano trovare
degli spunti per un’analisi più articolata, che sappia dare
il giusto peso alle questioni realmente in campo, che sappia
mettere in luce
le differenze esistenti tra la sinistra di governo e la
destra di opposizione nel Paese, ma che abbia ben chiaro che
compito della sinistra e
dell’internazionalismo non è difendere o no a prescindere un
governo, ma stare sempre, inequivocabilmente, a fianco de los
de
abajo.
Non crediamo che questo articolo dia delle soluzioni politiche (come potrebbe?) alla crisi venezuelana e delle parole definitive sullo scontro in atto, ma sicuramente propone delle ottime chiavi interpretative. Uscito su alainet.org e ripreso dal giornale messicano Desinformemonos alla fine di aprile, non può dare conto di tutti gli eventi recenti in continua e rapida evoluzione.
Il week-end del 26-28 maggio 2017
si terrà a Taormina il vertice
G7, in Italia a 16 anni da Genova 2001 e a otto anni da quello
di Aquila nel 2009. È il turno dell’Italia, come vuole la
rotazione. Nel
frattempo dal 2014, il G8, con l’esclusione della Russia di
Putin, è diventato G7. Di che cosa si discuterà a Taormina?
Diversi
potrebbero essere i temi all’ordine del giorno, a partire dal
tema ecologico. Il nuovo presidente americano Trump ha
dichiarato che in
quell’occasione prenderà posizione sui risultati del vertice
di Parigi del 2016. Sicuramente, all’indomani dell’attentato
di
Manchester, si parlerà anche di terrorismo e di lotta
all’Isis, con l’intento di far dipendere da questa emergenza,
qualsiasi
proposta (in senso restrittivo) di governance dei flussi
migratori. Sulle questioni socio-economiche, a parte il
comunicato standard finale di parole
vuote, non ci sarà praticamente di nulla. Il che non può
sorprendere.
Non c’è infatti bisogno di affrontare tematiche economiche, se non alcuni aspetti di natura geo-politica (principalmente legati al rapporto con la Cina). Tematiche, che, in ogni caso, non potranno trapelare nelle dichiarazioni ufficiali, anche se è facile immaginare che terranno banco nel backstage.
L’ideologia liberista dominante nel nostro paese, con la complicità dei populisti, sta riducendo nuovamente lo Stato alla funzione di guardiano notturno di un modo di produzione in crescente crisi
Presentando
alla
facoltà di economia il “rapporto sullo Stato sociale 2017”, il
prof. R. F. Pizzuti ha usato toni forti, descrivendo – come
aveva già
fatto L. Summers, ex segretario del Tesoro negli Usa – nei
termini di stagnazione secolare l’attuale
crisi strutturale
del modo di produzione capitalistico. L’accumulazione
capitalistica non accenna a ripartire – nonostante
le alchimie
monetariste delle Banche centrali che continuano a drogare il
mercato inondandolo di liquidità – a causa del drastico calo
degli
investimenti e del conseguente “eccesso di risparmio” causati
dalla perdurante crisi di sovrapproduzione.
Nonostante i
tentativi del capitale di rilanciare il processo di
accumulazione scaricando gli effetti sociali negativi della
crisi sulle classi subalterne, a
partire dal radicale aumento della precarietà,
la produttività resta bassa. Anche perché la lotta di
classe condotta in modo preponderante dall’alto –
grazie alla crescita con la crisi della pressione sugli
occupati
dell’esercito industriale di riserva – gli
imprenditori non sono spinti a innovare il processo
produttivo, sviluppando
ulteriormente il capitale costante, ma
puntano a rilanciare l’accumulazione comprimendo i salari,
aumentando i ritmi e gli
orari di lavoro e rilanciando le esportazioni.
Il presidente Trump, dopo essere stato in Arabia Saudita e Israele, è in visita a Roma, per poi andare il 25 al Summit Nato di Bruxelles e tornare in Italia il 26-27 per il G7 di Taormina e la visita alla base Usa/Nato di Sigonella.
Quali sono gli scopi del suo primo viaggio all’estero? Principalmente tre, spiega il generale McMaster, consigliere del presidente per la sicurezza nazionale: lanciare un «messaggio di unità» a musulmani, ebrei e cristiani; costruire relazioni con i leader mondiali e proiettare la potenza americana all’estero.
La visita a Roma è la terza tappa di quello che viene descritto come un «pellegrinaggio religioso nei luoghi santi delle tre grandi religioni».
Il «pellegrino» ha iniziato il viaggio firmando a Riyadh l’accordo per la vendita all’Arabia Saudita di armi Usa per il valore di 110 miliardi di dollari, che si aggiungono a quelle già fornite dal presidente Obama per il valore di 115 miliardi. Armi impiegate, tra l’altro, nella guerra della coalizione a guida saudita, sostenuta dagli Usa, che fa strage di civili nello Yemen.
Una crescita tripla rispetto all’Italia: il Pil spagnolo è aumentato del 3,3% nel 2016 (il nostro lo 0,9) ed è previsto al 2,7 quest’anno, contro la stima dell’1% per noi, appena comunicata dall’Istat, che però ha aggiunto un “se tutto va bene”, ossia se il commercio internazionale continuerà a tirare. Qual è il segreto? La politica di austerità che ha funzionato? Tenta di rispondere un paper appena pubblicato da Ref, l’istituto di analisi congiunturali diretto da Fedele De Novellis.
Quello che se ne ricava è che la Spagna ha attuato un mix di politiche, che si potrebbe definire di “riforme strutturali” del tipo che piace tanto all’Europa (e alla Germania), ma accompagnate da massicce dosi di politiche (più o meno) keynesiane. E poi un ruolo non irrilevante l’ha avuto anche quello che Prodi chiamava “il fattore C”, ossia la fortuna. Ma vediamo in dettaglio.
La Spagna ha fatto una politica di austerità? Beh, grazie alle riforme del lavoro che hanno dato mano libera agli imprenditore di fare quel che vogliono (facendo rimpiangere le leggi franchiste come un modello di garantismo) i salari sono scesi in media del 10% e la disoccupazione ha raggiunto picchi oltre il 26% nel 2013, per poi ridursi fino all’attuale 18% circa, il più alto in Europa dopo la Grecia.
Secondo l’immortale striscia del Mago Wiz: “ Maestà come va la guerra alla povertà? La sto vincendo. E tutti quei poveri là fuori? Loro l’hanno persa.” Mario Draghi ci ha annunciato qualche giorno fa che la crisi è finita. Ha ragione. E’ finita. Nel senso che con il voto in Francia sono finite, nel ragionevole futuro, le possibilità che la costruzione dell’Euro entrasse in crisi dal punto di vista politico. Qualche anno fa, al culmine della crisi dei debiti sovrani, Paul Krugman da economista si stupiva della sopravvivenza dell’Euro, una insensatezza economica. Ma poi ammetteva, quello che lo tiene in piedi è l’immenso investimento politico che ha comportato. Come si è visto la diagnosi era corretta. Solo una perdita catastrofica sul piano politico avrebbe potuto eliminare l’errore economico (che poi errore non è visto che la crisi da esso parzialmente indotta è servita allo scopo che l’inventore della teoria delle aree valutarie ottimali gli attribuiva, quello di essere il reaganismo che avrebbe demolito l’Europa del welfare). Questa perdita politica c’è stata, ma non in misura sufficiente. In Francia oltre il 40% degli elettori sui due rami dello schieramento si è schierata contro la struttura vigente, ma al secondo non si è sommata. Non voleva, e se anche avesse voluto tutto è stato fatto per renderlo impossibile. E Marine Le Pen nei giorni successivi alla sconfitta non ha mostrato maggior spessore di Tsipras dopo la vittoria.
Continua il dibattito verso il seminario organizzato da Euronomade dal 16 al 18 giugno a Roma, presso l'Atelier autogestito ESC (via dei Volsci 159)
'Populismo' è uno di quei termini il cui uso mediatico ha finito col stravolgerne e mistificarne il significato originario. È una parola semanticamente frantumata, monca, perché privata della sua origine. Certo non è facile definire una parola d'uso comune - perché, a vero dire, può essere logicamente determinato, in modo coerente e completo, solo ciò che non ha storia, che risulta semanticamente povero, es. il triangolo rettangolo. Per i concetti del senso comune, ridondanti di significati, l'unico metodo adeguato è quello logico-storico: ricostruire la biografia di un'idea, di un evento, di una parola.
Ora, con ogni evidenza, il populismo è un movimento etico-politico che nasce nella seconda metà dell'Ottocento, più o meno contemporaneamente, nella Russia imperiale e negli Stati centro-occidentali degli USA. Qui ci limiteremo a ricordare per sommi capi il populismo russo - i narodnki - per via della influenza diretta e indiretta esercitata da questi ultimi sulla cultura europea e massimamente sul movimento operaio.
Vorrei ringraziare sinceramente Dario Franceschini, Matteo Renzi e Andrea Orlando. Le loro dichiarazioni di oggi mi hanno ringiovanito, riportandomi come per incanto all'Italia di vent'anni fa. Quando un pugnace Silvio Berlusconi attaccava frontalmente ogni giudice che gli desse torto, minacciando sfracelli e facendo rivoltare nella tomba il povero Montesquieu, che aveva ben spiegato perché il potere giudiziario, quello legislativo e quello esecutivo dovessero stare ben divisi.
E ora siamo daccapo. Il Tar del Lazio boccia impietosamente la "riforma" dei musei di Franceschini? Renzi tuona su facebook: "Non abbiamo sbagliato perché abbiamo provato a cambiare i musei: abbiamo sbagliato perché non abbiamo provato a cambiare i Tar!".
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Da Moneta e Credito, vol. 70 n. 277 (marzo 2017), 7-19
Dopo la crisi del 2007-2008 il nome
di Keynes è
rientrato nella lista degli economisti di cui si raccomanda la
lettura e di cui si ritorna a dire che sarebbe opportuno
seguire le idee. Dopo un bando
durato circa venticinque anni, trascorsi tra elogi del mercato
e test econometrici diretti a dimostrare l’inefficacia o
peggio
l’irrilevanza delle politiche economiche, Keynes è riapparso
sulla scena mediatica, se non proprio in quella accademica
dominante, che
continua per lo più ad essere la macroeconomia della
restaurazione anti-keynesiana iniziata tra gli anni settanta e
ottanta.
Per rivendicare l’attualità della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta voglio partire dall’assottigliamento dello spazio assegnato all’intervento pubblico, nell’opinione economica attuale, quello ‘spazio per la politica’ che Keynes ha aperto con la dimostrazione che il mercato non è sorretto da leggi naturali o immutabili. Lo spirito che ha guidato la rivoluzione keynesiana è che la piena occupazione è un obiettivo possibile da perseguire non lasciandolo libero, ma intervenendo nel gioco delle forze di mercato.
Pubblichiamo un potente articolo del compagno Manolo Monereo, comparso in Spagna col titolo "I dilemmi strategici di Podemos: la speranza come problema politico"
La grande
sfida di Podemos è stata la sua
pretesa di essere una forza
politica con una
volontà di governo e di potere, ma
per
consegnarlo al popolo. Per questo Podemos
è l'obiettivo da battere. Ecco perché i poteri
reali —la trama— lo combattono col fuoco
(e l’inchiostro). [In ricordo di Pietro
Barcellona]
1- Elementi della situazione spagnola : la crisi del regime rimane aperta
Podemos ha vissuto la sua prima crisi. Si potrebbe dire che siamo di fronte ad una crisi nella crisi. Mi spiego. Quasi nessuno dubita che viviamo un certo tipo di transizione, un cambiamento di regime dello stesso regime verso un altro che si va definendo gradualmente e la cui risultante finale sembra chiara. Si va consolidando una democrazia limitata e non sovrana in cui domina in modo chiaro ed esplicito un'oligarchia finanziaria-aziendale-mediatica, con l'obiettivo di costruire un modello di società basata sulla disuguaglianza, la scomparsa dei diritti sociali, la precarizzazione del modo di vita delle maggioranze sociali la disintegrazione finale del movimento operaio come soggetto politico e sociale.
La bolla culturale in cui siamo imprigionati elimina dalla nostra visuale punti di vista alternativi e alimenta la nascita di teorie del complotto e partiti esoterici. Come uscirne? Un saggio
L’ultimo discorso da Presidente
di Barack Obama, pronunciato a Chicago il 10 gennaio 2017, è
passato quasi inosservato, sommerso dall’attesa per
l’imminente
avvento alla Casa Bianca di Donald Trump. Vale la pena di
riproporre un passaggio:
“Per troppi di noi è diventato più sicuro ritirarsi nelle proprie bolle […], circondati da persone che ci assomigliano e che condividono la nostra medesima visione politica e non sfidano mai le nostre posizioni. […] E diventiamo progressivamente tanto sicuri nelle nostre bolle, che finiamo con l’accettare solo quelle informazioni, vere o false che siano, che si adattano alle nostre opinioni, invece di basare le nostre opinioni sulle prove che ci sono là fuori”.
Probabilmente nei prossimi anni dovremo tornare a rileggere quelle parole. Non tanto per il talento oratorio di Obama, quanto per l’allarme sui rischi di quelle “bolle” che ci rassicurano ma che ci danno una visione distorta del mondo. Non solo perché proprio in quelle “bolle” le fake news trovano un privilegiato bacino di coltura, ma soprattutto perché la vittoria elettorale di Donald Trump, al di là degli esiti che avrà il suo mandato presidenziale, sancisce per molti versi la fine della democrazia del pubblico e l’atto di nascita di una inedita bubble-democracy.
La visita di Vladimir Putin in Francia eccita la fantasia di giornalisti e politici. Il fatto che sarà ricevuto a Versailles, con decoro piuttosto singolare, è una delle cause di questa eccitazione. Questo mostra soprattutto che i problemi, sia per Vladimir Potine che per Emmanuel Macron.di questa visita non sono pienamente percepiti. È altamente simbolico che Vladimir Putine sia il primo leader ricevuto dal nuovo Presidente della Repubblica.
La posta in gioco per Emmanuel Macron
In quale contesto ha luogo questa visita? Allo stato attuale, le relazioni bilaterali tra la Francia e la Russia sono gravemente limitate dalla politica dell'Unione europea nei confronti della Russia. Questi vincoli vanno oltre la semplice questione delle sanzioni, la cui importanza. tranne quella delle sanzioni finanziarie, è più simbolica che reale. L'Unione europea ha sviluppato a partire dal 2014 una vera politica di ostilità nei confronti della Russia. La visita sarà dunque un test per capire se il presidente Macron allevierà la politica della UE e attuerà una politica più francese, più orientata verso gli interessi della Francia, o condurrà una politica estera francese sotto il quadro dell'UE.
Riprendiamo un articolo del 2015 del Guardian, in cui il progetto europeo viene spietatamente analizzato per i risultati che ottiene: non un promotore di democrazia e di benessere, ma uno strumento che mina le basi della democrazia ed estende l’abbassamento delle condizioni di vita dei lavoratori tedeschi a tutto il continente – con l’aggravante che tutti gli altri lavoratori partivano da condizioni decisamente meno agiate
Quasi tutte le discussioni sul fallimento della Grecia si rifanno a valutazioni moralistiche. Potremmo definire la questione i Cattivi Greci contro la Nobile Europa. Questi greci problematici non avrebbero mai dovuto far parte dell’euro, secondo questa narrazione. Una volta entrati, si sono cacciati in un mare di guai – e adesso tocca all’Europa risolvere tutto.
Queste sono le basi su cui concordano tutte le Persone Sagge. Tra costoro, quelli di destra proseguono dicendo che quei falliti dei Greci devono o accettare quel che gli propone l’Europa o uscire dalla moneta unica. Quelli invece più progressisti, dopo un certo tentennamento e imbarazzo, alla fine chiedono che l’Europa mostri un po’ di solidarietà e aiuti questo paese fallito del Sud. Qualsiasi sia la soluzione proposta, le Persone Sagge concordano sul problema: la colpa non è di Bruxelles, bensì di Atene. Oh, questi Greci scapestrati! È l’atteggiamento che traspare quando Christine Lagarde dell’FMI critica il governo di Syriza per non essere abbastanza “adulto”.
È destinato al fallimento il disegno tattico e politicistico di una lista autonoma solo come reazione al rifiuto del Pd di allargare a sinistra le alleanze elettorali
È bene che la riflessione a sinistra salga di qualità. Non è pensabile che il dibattito sulle “fondamenta” si riduca a questioni di schieramento. Un discorso cartesiano sul metodo si impone: la coalizione con il Pd non è il problema principale sul quale acciuffarsi. Prima delle alleanze viene il progetto, cioè l’idea che si coltiva della sinistra nell’Italia e nell’Europa di oggi.
Partire dalle fondamenta dovrebbe significare questo. Interpretare con efficacia la funzione che, in una data congiuntura storico-politica, è necessario svolgere.
In Europa le formazioni del socialismo sono in gravi difficoltà. Alcune sono già scomparse, altre attraversano dilemmi esistenziali profondi. Crescono offerte politiche più radicali, spesso in netta contrapposizione con una sinistra storica ritenuta troppo omologata agli imperativi di un sistema sociale contro cui cresce la rivolta.
In Italia manca un partito del socialismo europeo, essendo la confluenza del Pd nelle sue fila solo un ritrovato tattico. E vuoto è rimasto anche uno spazio più a sinistra paragonabile a quello occupato in Germania, Francia, Spagna.
Il lavoro che segue costituisce uno stralcio dell’Introduzione al volume Politiche economiche e crisi internazionale. Uno sguardo sull’Europa, curato da Amedeo Di Maio e Ugo Marani con contributi di Paul De Grauwe, Amedeo Di Maio, Pasquale Foresti, Guglielmo Forges Davanzati, Nicolò Giangrande, Ernesto Longobardi, Antonio Lopes, Ugo Marani e Antonio Pedone, per i tipi di L’Asino d’Oro edizioni, di prossima pubblicazione
«Torneranno»
disse.
«La vergogna ha la memoria debole».
(Gabriel Garcia Márquez, La mala ora)
Il volume che introduciamo ha come oggetto la politica economica al tempo della crisi; un oggetto inteso in un duplice senso. Da un lato esso ambisce a un esercizio di statica comparata: quanto è cambiato, e in che cosa l’indirizzo di policy, rispetto alla fase che ha preceduto lo scatenarsi della tempesta, prima finanziaria e poi reale. Dall’altro si pone l’interrogativo se le nuove impostazioni si stiano palesando efficaci nel gestire le nuove problematiche che esse affrontano. Con riferimento al primo quesito, il mutamento nell’indirizzo di policy, nelle sue linee generali ed estremamente qui sintetizzate, può essere compreso solo se si risale ai cambiamenti, striscianti e graduali, dei riferimenti teorici, iniziati negli anni settanta del secolo scorso. Infatti, è proprio in quegli anni che la politica economica si allontana progressivamente dalla impostazione cosiddetta keynesiana, ma comunque fortemente viziata dai forti retaggi della teoria liberista tradizionale.
È ormai stancante per me tornare su questo
argomento, già affrontato in un altro articolo uscito tempo
fa su questa rivista.
Capita spesso che gli appelli delle persone più informate
e con intenzioni serie, lontane dal desiderio di visibilità
mediatica,
rimangano inascoltati. Il problema su cui ancora una volta
vorrei soffermarmi è quello della violenza e della
comunicazione di questa
all'opinione pubblica da parte dei media. Sentiamo abbastanza
spesso ormai notizie di omicidi, suicidi, stragi familiari,
fino alle più
fisicamente lontane, ma non meno coinvolgenti da un punto di
vista emotivo, stragi terroristiche o di guerra. La sensazione
mia, ma credo sia
condivisibile anche da altri (almeno da quello che mi capita
spesso di sentire parlando con le persone), è di oppressione
dinnanzi a queste
notizie, e anche della sensazione che i fatti su cui vertono
sia numericamente sempre più rilevanti. Dubito che si tratti
di una semplice
impressione soggettiva; poco importa dal mio punto di vista,
perché se fosse anche solo un'impressione soggettiva di
un'accresciuta violenza
nella nostra società, un'impressione comunque diffusa e forte,
questa non potrebbe poi non avere conseguenze effettive sulla
vita del singolo e
di molti. Infatti, tanto più una persona o un gruppo di
persone si sente attivato e coinvolto emotivamente in
qualcosa, anche se poi magari non
è effettivamente così, tanto più sarà incline a prendere certe
decisioni o a mettere in atto certi comportamenti in
risposta.
Per superare la crisi economica non basta solo abbandonare le politiche di austerità, bisogna ripensare il ruolo dello Stato. Presentati a Roma i risultati del progetto europeo ISIGrowth
“Non serve uno Stato che si limiti solo a correggere i problemi, ma uno Stato che abbia anche una visione del mondo e che investa. In poche parole, uno Stato Innovatore”. Parola di Marianna Mazzucato, autrice del libro Lo Stato Innovatore e docente di Economia dell’Innovazione presso l’Università del Sussex.
Mazzucato è anche ricercatrice del progetto europeo ISIGrowth, presentato mercoledì 24 maggio nel corso di una conferenza organizzata alla Camera dei Deputati insieme a Giovanni Dosi, direttore dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e coordinatore del progetto. A discutere i dati, dopo la loro presentazione, è stata una nutrita platea di deputati e senatori.
L’obiettivo di ISIGrowth è duplice: in primo luogo, fornire una nuova e completa diagnostica dei rapporti tra innovazione, dinamiche dell’occupazione e crescita in un’economia mondiale sempre più globalizzata e finanziarizzata. In secondo luogo, ISIGrowth mira a elaborare scenari politici e strumenti di analisi per raggiungere gli obiettivi di Europa 2020 di una crescita intelligente (smart), sostenibile (sustainable) e inclusiva (inclusive).
Il libro di Salvatore Biasco (Regole, Stato, Uguaglianza, ed. LUISS, 2016) non parla solo della crisi intervenuta nel 2007, si presenta come un grande progetto culturale che investe la teoria e la politica economica, nella consapevolezza degli errori politici compiuti soprattutto dalla classe dirigente europea, così come dal mondo accademico e culturale ispirato ai valori della socialdemocrazia.
Dopo il 2007 in molti hanno sottolineato i limiti del modello economico neoclassico: qualcuno ha denunciato la cattiva distribuzione del reddito, altri l’asservimento della politica agli interessi dei pochi, così come la marginalizzazione dello stato sociale. Biasco ricorda che ci sono autori che meglio di altri interpretano l’attuale scenario politico ed economico, e riconosce la rilevanza del modello interpretativo ricavabile dall’opera Hyman Minsky[1].
Una sintesi possibile del libro di Biasco è la seguente: la così detta sinistra ha mancato l’appuntamento con la Storia.
“Finché un nuovo orizzonte politico e intellettuale, di principi, di governo della società, di creazione della ricchezza, di concezione dei rapporti sociali rimarrà inarticolato e non riuscirà a generare una mobilitazione di massa, l’imprinting farà riapparire le idee neo liberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi” (pp. 240-241).
Il 22 maggio l’opinione pubblica occidentale è stata scossa dall’ennesimo attentato dell’ISIS: un kamikaze si è fatto esplodere nel foyer della Manchester Arena al termine di un concerto, uccidendo 22 persone tra cui molti adolescenti. Il terrorista è un 22 enne britannico di origine libiche, già noto all’MI5, la cui famiglia appartiene al milieu islamista a lungo usato dai servizi segreti inglesi contro Muammur Gheddafi. Se il ruolo dei servizi di Sua Maestà nell’attentato è evidente, sorge l’interrogativo su quali siano le finalità della strage. L’attacco di Manchester si inserisce nella campagna elettorale inglese e favorisce il partito conservatore di Theresa May, schierato su posizioni anti-russe ed anti-Assad. L’eventuale vittoria di Jeremy Corbin disimpegnerebbe il Regno Unito dai principali dossier di politica estera.
Un’analisi “controcorrente” sul terrorismo dà un valore aggiunto soprattutto se inquadra i singoli episodi in una più ampia cornice politica ed economica: evidenziare il ruolo dei servizi segreti nell’attuazione degli attentati è certamente meritevole, ma solo rispondendo al “perché” delle stragi si riesce a penetrare i meccanismi più reconditi del Potere.
Questo articolo ha in oggetto la conoscenza del fenomeno umano nel suo complesso. E’ un articolo di riflessione sul metodo, sull’unità e diversità delle discipline, degli oggetti, delle menti che tentano di catturarli
Io sono solo e lo specchio infranto
(S. Esenin, L’uomo nero,
1925)
In una articolo del 1960[1], F. Braudel torna su un tema a lui -ed a noi- particolarmente caro, il problema dell’unità e diversità delle scienze sociali. Schematicamente, la conoscenza umana, si modula su tre ambiti generali. Le scienze naturali si occupano del mondo fisico-chimico e biologico, la filosofia, l’arte e la religione si occupano dell’uomo in quanto tale, le “scienze” umane si dovrebbero occupare di quel territorio in comune in cui l’uomo (psicologia) incontra ed entra in relazione con gli altri uomini (demografia, etno-antropologia, sociologia, linguistica), per fare cose (economia, politica, storia evenemenziale cioè basata su gli “eventi”, date, luoghi, uomini illustri; storia delle idee e delle culture) all’interno di un contesto (geografia) e di un tempo (storia di media-lunga durata). Il cruccio di Braudel è leggere con evidenza che l’oggetto generale di questo gruppo di discipline intermedie è comune ed unico -l’interrelazione, l’organizzazione e l’azione umana, singola e collettiva, nel contesto dello spazio-tempo- ma gli sguardi (ed i metodi di osservazione, analisi e categorizzazione) delle varie discipline sono assai diversi. La specializzazione della varie discipline, istituzionalizzata in dipartimenti non solo incomunicanti ma addirittura in competizione tra loro, sviluppando metodi, patrimoni di conoscenza, linguaggi del tutto eterogenei, crea una babele di prospettive che non arriva mai a sintesi.
Contributo al forum “I comunisti, il blocco sociale, i populismi”
Cari compagni,
anche se non ci è possibile partecipare al convegno su “Comunisti, blocco sociale e populismi” da voi organizzato, riteniamo comunque doveroso mandarvi un nostro contributo perché la vostra lettera di invito non chiama ad un generico dibattito ma individua nodi assai importanti, sui alcuni dei quali qui vorremmo esprimervi il nostro punto di vista.
Per cominciare vogliamo sottolineare un fatto che tutti noi diamo talmente per scontato da non riuscire a coglierne appieno il significato: l’arretramento generale dei comunisti in Occidente deriva soprattutto dalla sconfitta del comunismo storico novecentesco, ed è soprattutto a causa di ciò che i comunisti arrivano disarmati, come voi notate, all’appuntamento con l’attuale crisi del capitalismo. Ci sembra opportuno richiamare questo evento “genetico” perché, ad esempio, il “politicismo” che giustamente criticate (ossia la propensione per il lavoro istituzionale, l’allontanamento dal confronto quotidiano con le masse, ecc. ) può essere veramente superato soltanto se si comprende che esso deriva anche dal fatto che la politica (compresa la nostra politica) da molti anni si svolge “in assenza di orizzonte”, ossia senza il riferimento concreto ad un’alternativa radicale allo stato di cose presente.
A Milano, con “Fondamenta“, il Movimento Democratico e Progressista di D’Alema, Bersani, Speranza, Rossi e Scotto muove i suoi primi passi, all’ombra di un documento programmatico, scritto da Vincenzo Visco: il paradosso è quello di una scissione che nelle intenzioni dei militanti dovrebbe riportare la barra degli ex PCI a sinistra, dopo la svolta liberista renziana, ma che nelle parole dei dirigenti è quasi una “svolta a destra”.
Il documento di Visco, negli anni ’90 come Ministro uno dei responsabili massimi delle politiche ordo-liberiste e di austerità imposte all’Italia, nel descrivere i punti programmatici di Articolo 1, fa immediatamente saltare agli occhi due cose:
1) la globalizzazione viene descritta come un fenomeno naturale, non politico; quindi è impossibile invertire la tendenza. Al massimo si possono effettuare accordi al ribasso per le classi deboli.
2) la UE e l’euro rappresentano capisaldi ai quali è impossibile rinunciare, anzi originariamente, si dice, mentendo, erano progetti di democratizzazione e di gestione sociale della globalizzazione.
L’operazione di «lifting» fatto a suo tempo da Al-Nusra in Siria ha avuto i suoi effetti. Hayat Tahrir Al-Sham, ultima incarnazione del fronte islamista, è sparita dalla blacklist delle formazioni terroristiche individuate dagli Stati Uniti e dal Canada. Un «rebranding» efficace, dunque, che ha dato nuova linfa al gruppo salafita capeggiato da Abu Jaber Shaykh, responsabile di innumerevoli crimini di guerra ai danni della popolazione siriana. La formazione terroristica, a lungo conosciuta come Jabhat Al-Nusra o Fronte Al-Nusra, rappresenta il ramo di Al Qaida in Siria dopo la nascita di Daesh nel 2014.
Fu stata inserita sulla blacklist delle organizzazioni terroristiche statunitensi e canadesi per la prima volta nel 2012. Come rileva la giornalista Vanessa Beeley su MintPress, «con il cambio di nome in Hayat Tahrir al-Sham (HTS), il gruppo è riuscito a ottenere la rimozione dalle watchlist del terrore sia negli Stati Uniti che in Canada. Questo permette ai cittadini di questi paesi di donare soldi ai terroristi; risorse che li consentono di viaggiare, di combattere e di diffondere la loro propaganda senza intoppi». Hayat Tahrir Al-Sham nacque ufficialmente lo scorso 28 gennaio dalla fusione tra le più importanti compagini della galassia islamista: Jabhat Fateh Al-Sham (ex Al Nusra), il Fronte Ansar al-Din, Jaysh al-Sunna, Liwa al-Haqq e il Movimento Nour al-Din al-Zenki.
Caro direttore, amici lettori, autorità competenti.
Vorrei attirare la vostra attenzione su una mia teoria che ogni giorno si dimostra più fondata e che dovrebbe allarmare tutti. Qualcuno ha sciolto dell’acido negli acquedotti, non c’è altra spiegazione. Il tono del dibattito pubblico, i suoi argomenti, le decisioni prese in seguito o sull’onda di quello che si dice al bar o alla fila alla posta (o che ha scritto su Facebook mio cugggino) sembrano meno lucide di un assaggiatore del Narcos o di un chitarrista rock degli anni Settanta.
L’ultimo esempio è il complicato affaire dei vaccini, un argomento importante che è stato trasformato (credo dopo massiccia assunzione di Lsd dai rubinetti) in una guerra tra untori medievali millenaristi vogliosi di strage per malattia e un esercito di crocerossini inventori della penicillina. Ogni voce sensata o ragionevole, da una parte e dall’altra, è stata zittita. Un dibattito sui vaccini da somministrare ai bambini è diventato la caricatura di uno scontro ideologico. Risultato, per non saper né leggere né scrivere: il decreto fatto in fretta e furia, pieno di buchi e di incertezze, spropositato rispetto a quello che le strutture sanitarie e scolastiche potranno fare.
Sono bastate appena poche per portare a galla una serie di informazioni sull’attentato di lunedì a Manchester che, da un lato, hanno messo in discussione la versione iniziale dei fatti proposta dal governo di Londra e, dall’altro, hanno nuovamente rivelato come il responsabile dell’attacco, così come gli ambienti in cui si muoveva, fosse ben noto alle forze di sicurezza britanniche.
La prima tesi ufficiale a essere smontata è stata quella dell’unico attentatore o “lupo solitario” che aveva colpito senza poter essere intercettato dal gigantesco sistema di sorveglianza creato nel Regno Unito. Elementi come la complessità dell’operazione e il tipo di esplosivo usato hanno subito fatto pensare a una rete terroristica con appoggi fuori e dentro il paese, con implicazioni, come si vedrà più avanti, ancora una volta non edificanti per l’intelligence di uno dei numerosi paesi europei colpiti da questo genere di episodi.
La stessa polizia britannica aveva d’altra parte quasi subito annunciato vari arresti di possibili complici del 23enne Salman Abedi, attorno al quale sono emerse informazioni inequivocabili grazie a fughe di notizie provenienti dai servizi segreti americani, francesi e tedeschi.
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Nota preliminare sul carattere di
questo
testo
Lo scorso anno, è apparso sul sito web del gruppo "Exit" un testo do Bernd Czorny, dal titolo "Ernst Lohoff e l'individualismo metodologico", che intende realizzare una critica della teoria della formazione del capitale fittizio che ho descritto nel libro "La grande svalorizzazione" e che rappresenta un cambiamento fondamentale di prospettiva nei confronti della precedente teoria della crisi della critica del valore. Czorny parte dalla mia analisi, e facendo uso delle linee guida metodologiche tracciate da Robert Kurz in "Denaro senza valore", e arriva alla conclusione originale secondo cui la mia analisi categoriale porterebbe ad un nudo empirismo, e sarebbe in gran parte inutile in termini teorici. Quest'affermazione si riflette prontamente in un gruppo della critica del valore della regione di Karlsruhe, che ha valutato diversamente il nostro libro ed ha scritto una risposta a Czorny, nella quale veniva difesa "La grande svalorizzazione". Per quanto gratificante fosse quest'intervento, aveva anche un inconveniente: a suo dire, la valutazione fatta da Czorny era falsa, mentre la teoria del capitale fittizio rappresentata nel nostro libro coincide in gran parte con la posizione di Robert Kurz; ci sono alcune differenze di contenuto relativamente a "Denaro senza valore", ma sarebbero di natura secondaria.
«I tedeschi non
scherzano
mai»: così recita la lapidaria pubblicità di una nota
casa automobilistica tedesca. Migliaia di saggi sul carattere
nazionale
tedesco sintetizzati in uno slogan: è la forza del marketing.
E Trump, che ultimamente si è molto lamentato con i «cattivi
tedeschi» per l’invasione del mercato americano per opera
delle loro automobili, ne sa qualcosa. Scherzi a parte, come
dobbiamo
interpretare l’impegnativa dichiarazione rilasciata ieri da
Angela Merkel in una grande birreria-tendone di Monaco di
Baviera? Leggiamo:
«I tempi in cui potevamo fare pienamente affidamento sugli altri sono passati da un bel pezzo, questo ho capito negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo davvero prendere il nostro destino nelle nostre mani. […] Dobbiamo sapere che dobbiamo lottare noi stessi per il nostro futuro e il nostro destino di europei».
Quando si tratta di scomodare l’impegnativo e “pesante” concetto di destino i tedeschi non scherzano mai. Gian Enrico Rusconi, che di cose tedesche si intende, ha scritto qualche anno fa che «Quando si parla della Germania, i toni drammatici sono d’obbligo». È quindi saggio non attribuire alle parole della Cancelliera di Ferro il significato di un mero esercizio retorico usato a fini elettoralistici, confidando nella scarsa simpatia che il Presidente degli Stati Uniti può “vantare” in Europa in generale e in Germania in particolare – la Russia è un discorso a parte.
I
La lotta politica, almeno nelle cosiddette democrazie occidentali, sembra avvenire solo contro degli usurpatori. Gli avversari vengono dipinti come una degenerazione di qualcosa, una forma corrotta della politica democratica, che ne tradisce radicalmente i principi e, soprattutto, non ha la dignità di un vero progetto ideale, ma o sollecita forze irrazionali delle masse o è semplicemente al servizio del dominio sociale ed economico. Così, per esempio, qualsiasi politica di gestione moderata dell’economia viene etichettata come “neoliberista”, asservita a imperativi sistemici economico-finanziari; oppure viene ricondotta alla pura autoconservazione di una classe dirigente ormai oligarchica; all’estremo opposto, qualsiasi voto popolare che metta in crisi partiti di establishment viene liquidato sbrigativamente come “populismo”, voto di pancia che sollecita i peggiori umori delle masse; ogni voto che rovescia o diserta partiti tradizionali diventa genericamente “voto di protesta”; e ogni appello diretto al consenso popolare, contro l’irrigidimento della rappresentanza formale, è “demagogia”. E così via, in un gioco noioso e prevedibile per cui l’avversario viene sempre ridotto a un fantoccio antidemocratico.
Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Editori Laterza, 2017, pp. 210, € 20,00
Nel 1976 Perry Anderson, nelle sue Considerations on western marxism (tradotto in Italia da Laterza e pubblicato nel 1977 col titolo: Il dibattito nel marxismo occidentale), invitava a prendere atto della scissione epistemologica avvenuta nel campo del marxismo. Da una parte il cosiddetto “marxismo occidentale”, inaugurato nel 1923 dalla pubblicazione dei saggi di György Lukács (Storia e coscienza di classe) e Karl Korsch (Marxismo e filosofia); dall’altra il “marxismo orientale” dei paesi socialisti. Coi lavori di Lukács e Korsch il marxismo inaugurava l’epoca della sua completa maturità filosofica, in grado finalmente di confrontarsi col pensiero borghese su di un piano di parità intellettuale. In Unione sovietica, in Cina, così come nei paesi in lotta contro il colonialismo, il marxismo era andato trasformandosi in una rozza teoria del potere che poco o nulla più condivideva col marxismo propriamente detto.
Questa differenza sostanziale tra i due marxismi era in realtà stata rilevata prima di Anderson dal filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, che già nel 1955 riconosceva una divaricazione lampante tra un marxismo grezzo ma utile alle rivoluzioni anticoloniali (il marxismo orientale),
“Lo dite voi ai ragazzi di Manchester che siamo amici degli sponsor dell’ISIS?” : è questa la domanda posta dal giornalista Fulvio Scaglione, non un pericoloso estremista, ma un pubblicista che è stato per 16 anni, dal 2000 al 2016, il vice direttore di “Famiglia Cristiana”.
La domanda di Scaglione non si deve riferire solo al fatto incontestabile che noi, paesi europei e nordatlantici, siamo alleati con le orribili monarchie del Golfo Arabico: Arabia Saudita, Qatar, Emirati Uniti, Kuwait, Bahrein, finanziatori attraverso decine migliaia di moschee radicali ed “opere caritatevoli” del peggior integralismo islamico, e organizzatori e sostenitori con soldi ed armi di tutti i gruppi terroristi jihadisti. Non si deve riferire solo al fatto che forniamo a questi paesi (all’Arabia Saudita in particolare) enormi quantità di armi come testimoniato dagli accordi di fornitura Italia-Sauditi e dall’ultima gigantesca fornitura degli Stati Uniti ai Sauditi, di cui si servono per le loro aggressioni dirette o indirette a stati sovrani non allineati come lo Yemen o la Siria.
In realtà il gioco di finanziare ed organizzare estremisti islamici fanatici per colpire gli stati indipendenti, socialisti, o comunque scomodi perché non si piegavano al gioco imperialista e neo-colonialista, risale almeno agli anni ’70 del secolo scorso,
Difficile essere più chiari di così: «I tempi in cui potevamo fare pienamente affidamento sugli altri sono passati da un bel pezzo, questo l’ho capito negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani».
Angela Merkel ha scelto un normale comizio elettorale, a Monaco di Baviera, per esplicitare la rottura dell’asse strategico che ha regolato, nel bene e nel male, la vita dei popoli europei nel secondo dopoguerra: la relazione speciale, subordinata ma economicamente vantaggiosa, con gli Stati Uniti.
Solo due giorni fa, al termine del G7, la cancelliera che corre per ottenere il quarto mandato consecutivo, si era limitata a definire “molto difficile, per non dire molto insoddisfacente” la discussione avuta con Trump. In due giorni non si cambia il giudizio politico su questioni così rilevanti; dunque il G7 è servito, agli occhi della Germania, a verificare con mano l’impossibilità di mediare gli interessi del capitale multinazionale con base sul Vecchio Continente con quelli a matrice statunitense.
L’arrivo di Trump alla Casa Bianca – al di là della stramberia complessiva del personaggio – aveva chiarito che una parte fondamentale del capitale statunitense, quella che guadagna (poco) con main street, con l’economia mercantile, non può più andare avanti con il modello fissato nel lontano agosto 1971.
Riflessioni sul fallimento del G7 di Taormina e le sue conseguenze geopolitiche
Ricordo una delle diatribe che divideva negli anni '70 e '80 i trotskysti buoni da quelli cattivi.
I cattivi erano favorevoli alla riunificazione delle due germanie, anche ove fosse avvenuta sotto l'egida di quella occidentale.
I buoni, invece, erano contrari, e per tre ottimi motivi, uno sociale e due di natura geopolitica. La riunificazione su basi capitalistiche avrebbe necessariamente distrutto il tessuto economico collettivistico della DDR causando la sua mezzogiornificazione. Le due ragioni geopolitiche son presto dette: la riunificazione sotto l'egida della Germania occidentale avrebbe sferrato un colpo micidiale immediato all'Unione sovietica (ciò che è avvenuto dopo un paio d'anni) e, sul medio periodo, portato ineluttabilmente alla rinascita di un potente imperialismo tedesco. E questo, in effetti, sta avvenendo sotto i nostri occhi.
Questa rinascita, qui sta il punto, è avvenuta sotto traccia, è proceduta per piccoli passi, camuffandosi sotto le mentite spoglie dell'Unione europea, crescendo sotto l'ombrello della NATO. C'è una connessione causale evidente tra la riunificazione tedesca (1989-90) e il passaggio dalla Comunità all'Unione europea (1992-93).
Il documentario di Toni Andreetta è il bilancio di un’epoca e di una vita: sarà presentato alla mostra del Cinema di Venezia
Sarà anche stato - come diceva lui stesso - «un intellettuale finto e ipocrita» («come tutti gli intellettuali», aggiunge), ma certamente Sabino Acquaviva è stato un uomo fuori dagli schemi, un cattolico capace di grande apertura, un curioso privo di certezze in un mondo culturale che sulle certezze costruiva scelte di campo nette e poco permeabili.
Acquaviva è morto lo scorso dicembre, ma qualcosa del suo pensiero è rimasto in un’opera ultima, che non è un libro ma un documentario intervista con elementi di finzione, che il regista Toni Andreetta ha girato negli ultimi mesi di vita del sociologo padovano.
«Acquaviva era consapevole di essere alla fine» racconta Andreetta «e mi ha chiamato perché voleva dire ancora qualcosa. Io ero stato suo allievo negli anni Settanta, poi avevamo girato insieme un documentario su Padova, ci siamo incontrati molte volte e così è nato questo docu-drama». Realizzato con il Dams di Padova e il contributo della Regione Veneto, il 2 settembre, nei giorni della Mostra del Cinema, verrà presentato all’Excelsior del Lido.
1.
Durante l’ultima campagna elettorale negli Stati Uniti,
l’approccio mainstream ha presentato le parole e le
azioni di Trump come
reazioni errate e puramente impulsive di una persona
emotivamente vulnerabile, “permalosa” e mentalmente instabile.
I suoi avversari hanno
cercato di utilizzare quelle sue espressioni per colpirlo
intenzionalmente dando luogo ad una frenesia di tweets
che, fra l’altro,
tentavano di fornire ulteriori prove dell’inadeguatezza del
personaggio al ruolo in cui si candidava. Sarà stato un
difetto
dell’approccio mainstream, un fallimento del
meccanismo elettorale democratico, oppure di qualcos’altro, ma
ora Trump ricopre
quel ruolo. Ed è ormai abbastanza chiaro che le espressioni
utilizzate durante la campagna elettorale rappresentavano
abbastanza bene quello
che il tycoon intendeva fare. Quindi la domanda è
ora: in che misura Trump potrà attuare il suo ordine del
giorno?
Suppongo che né la leadership democratica, né la base hipster della “resistenza alla tirannia” siano veramente desiderose o in grado di commemorare l’anniversario della rivoluzione russa del 1917 con una vera rivolta su Potomac.
Secondo il ministero della Salute,
nei primi
mesi del 2017 è esplosa un’epidemia di morbillo. Qualcuno parla
già di «incubo». Al 23 maggio si contavano 2.581 casi
dall’inizio dell’anno (lo 0,004% della popolazione nazionale).
In
tutto il 2016 erano stati 866, nel 2015 solo 259. Secondo il
ministro Lorenzin e diversi esperti, il picco sarebbe dovuto
al calo delle vaccinazioni
passate dal 90% (2013) all’85% (2015) di copertura.
Osservando gli anni passati, nel 2008 vi furono 5.312 casi (+793% rispetto all’anno precedente) preceduti da un aumento della copertura vaccinale simmetrico al calo oggi lamentato: dall’86% (2004) al 90% (2007). Nel 2011 i casi erano 4.671 quando ormai la copertura si era ininterrottamente attestata sul 90% o più nei cinque anni precedenti. Su quale base statistica si afferma quindi che l’epidemia del 2017 è dovuta al minor numero di vaccinazioni?
1. Da
Kant
verso il nichilismo idealistico
Esiste ormai una nutrita letteratura critica circa la natura teoretica che Schopenhauer attribuirebbe al nulla e non mancano certo saggi e contributi che tendano a considerare il filosofo del Mondo come una sorta di precursore dell’esistenzialismo heideggeriano o sartriano, collocandolo nella più labile cornice della cosiddetta filosofia dell’esistenza[1]. A parte però le interpretazioni attualizzanti a rebours, più o meno giustificabili da un punto di vista ermeneutico, la metafisica schopenhaueriana esige di essere indagata a partire dalle proprie fonti, nel tentativo di essere restituita al suo contesto storico per comprenderne al meglio la sua peculiarità.
L’analisi storico-critica del concetto di nulla all’interno dell’opera schopenhaueriana è resa però difficoltosa dalla polisemia del concetto di nulla in Schopenhauer, che cede spesso ad ambiguità talvolta intenzionali, dotando i termini nulla (Nichts)[2] e non essere (Nichtsein) di un significato estensivo che consente scivolamenti semantici da un piano teorico ad un altro.
In questi giorni, la République sta vivendo uno dei suoi soliti psicodrammi di anticomunitarismo acuto.
Lo scorso 26 agosto, il Consiglio di Stato francese aveva dichiarato illegali i regolamenti introdotti in numerosi comuni, che vietavano alle donne di fare il bagno indossando qualcosa in più di un bikini.
Così, qualche giorno fa, Rachid Nekkaz, delle cui divertenti imprese abbiamo già avuto occasione di parlare, ha detto che avrebbe organizzato una manifestazione sulla spiaggia di Cannes per ricordare questa decisione.
Immediato divieto di ogni manifestazione da parte della prefettura.
Per cui Rachid Nekkaz ha deciso di rinunciare alla manifestazione e limitarsi a un’allegra nuotatina in mare con una decina di familiari e amici, dove le donne del gruppo avrebbero fatto il bagno indossando il famoso burkini.
La polizia, attenta come sempre alla salvaguardia del comune senso dell’impudicizia, ha fermato le aspiranti nuotatrice all’uscita del loro albergo.
A Parigi, invece, il piccolo Collectif Afroféministe décolonial pour l’ abolition du blantriarcat capitaliste Mwasi sta organizzando, per il 28-29 luglio, un evento chiamato Nyansapo.
Dopo essersi scagliato varie volte contro i mercanti d’armi, Papa Bergoglio la settimana scorsa ha ricevuto in pompa magna il più grosso mercante d’armi del mondo, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Il quale, dopo aver piazzato 110 miliardi di dollari di armi ai principi sauditi, maggiori sponsor del terrorismo islamista, gli ha raccomandato con un solenne discorso ufficiale di combattere il terrorismo islamista.
Basta la parola.
Quello che s’è svolto in Vaticano è stato dal punto di vista mediatico una specie d’incontro fra materia e antimateria. Se Donald Trump è unanimemente disprezzato dai media mainstream, che tifano per il suo impeachment con una furia da ultras, Papa Bergoglio gode d’una estasiata idolatria indiscussa. Persino fra gli opinionisti atei solitamente mangiapreti è considerato un imprescindibile obbligo sociale adorarlo, e dichiararlo l’unico leader credibile del pianeta, l’unica speranza di riscatto per i poveri e i perseguitati.
Se Wojtyla era famoso ma controverso come una rockstar, Bergoglio in arte Francesco non è nemmeno in discussione. È santo subito. A prescindere.
La critica corrosiva di Losurdo nel suo nuovo volume Il Marxismo Occidentale*
Domenico Losurdo si supera ancora. Dopo aver realizzato capolavori storico-filosofici come Controstoria del liberalismo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, La non-violenza. Una storia fuori dal mito e La lotta di classe, uno degli ultimi grandi intellettuali marxisti-leninisti italiani realizza un'opera di cui oggi più che mai si sentiva un bisogno essenziale.
Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, propone una novità dimenticata da molti, fin dalla ripresa della categoria coniata da Maurice Merleau-Ponty negli anni '50 e sviluppata da Perry Anderson negli anni '70: il fatto cioè che il marxismo non coincida esclusivamente con le elaborazioni intellettuali di stampo occidentale, né tantomeno con quelle critiche al sistema dei “socialismi reali”. Già dalla lettura de Il dibattito nel marxismo occidentale di Perry Anderson emergeva chiaramente come la divaricazione che si era venuta creando tra due marxismi (uno “occidentale eterodosso” e uno “orientale ortodosso”) fosse in realtà soprattutto un processo che accentuava la specializzazione settoriale degli autori occidentali su aspetti per lo più marginali e secondari della società, oltre che il distacco sempre maggiore tra teoria e prassi.
Poco prima dell’insediamento ufficiale a gennaio, Trump ha incontrato i capi dell’intelligence statunitense. Nella stessa stanza si erano ritrovati Michael Flynn e James Clapper. Il generale Flynn era stato incaricato di guidare lo staff del National Security Council nella Casa Bianca dell’era Trump. Ma proprio Flynn, nel 2014, era stato licenziato da capo della Dia (Defence Intelligence Agency) dallo stesso Clapper, allora direttore dell’intelligence nazionale. E Flynn, dopo solo 24 giorni di servizio, è stato nuovamente silurato, questa volta dalla stessa amministrazione presidenziale, per il cosiddetto Russiagate. L’accusa è quella di aver taciuto al vice presidente Mike Pence parte del contenuto di conversazioni telefoniche scambiate con l’ambasciatore della Federazione Russa a Washington.
Sarebbe sufficiente, ma non lo è affatto, lo scenario descritto, per annusare quanta “turbolenza” agisca sia all’interno delle agenzie dell’intelligence Usa, sia nei rapporti tra Casa Bianca e i diversi servizi di su cui è strutturato l’immenso, complesso e competitivo sistema degli apparati di sicurezza degli Stati Uniti.
Ma questa dissonanza tra servizi segreti e amministrazioni presidenziali statunitensi, non è un problema ascrivibile solo all’era di Trump.
150 anni fa, alla fine del 1867, Karl Marx ha dato alle stampe in Germania il primo volume della prima edizione di un’opera destinata a diventare centrale nella cultura occidentale: Il Capitale. Quest’opera, com’è noto, ha avuto un enorme impatto, al punto che da essa sono nati partiti politici, movimenti sociali e anche moti rivoluzionari. Ma il capitale a cui guardava Marx era quello che veniva prodotto dalle grandi fabbriche ottocentesche. Ben diverso da quello che si può chiamare il “capitale 2.0”, cioè quello che esce dai numerosi “clic” e dalle centinaia di parole che ogni persona produce quotidianamente sulle sue tastiere. È il capitale che le aziende del settore digitale sfruttano oggi in maniera elevata. E tra queste aziende Google rappresenta un caso particolarmente interessante, perché può essere considerato esemplare. Si spiega così perché è già stato analizzato da una vasta letteratura internazionale e ora ci prova anche un gruppo di studiosi italiani di orientamento semiotico nel volume curato da Vincenza Del Marco e Isabella Pezzini e intitolato Nella rete di Google (FrancoAngeli).
Un volume che cerca di mettere a fuoco i principali aspetti di Google, ma deve fare i conti con il fatto che le aziende del digitale presentano un’elevata complessità.
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Il testo seguente è una versione più ampia di un precedente saggio: Perpetrator or victim? Russia and contemporary imperialism, di Renfrey Clarke e Roger Annis, pubblicato sul sito Links International Journal of Socialist Renewal, nel febbraio del 2016
In tempi recenti, un’aspra
controversia
si è sviluppata in seno alla sinistra internazionale riguardo
al posto occupato dalla Russia nell’odierno sistema
capitalistico mondiale.
Nello specifico, si tratta di una potenza imperialista, parte
integrante del “centro” del capitalismo globale? Oppure le sue
caratteristiche economiche, sociali e politico-militari la
rendono parte della “periferia”, o semi-periferia, globali –
ovvero,
parte della maggioranza dei paesi che, a diversi livelli, sono
oggetto dell’aggressione e del saccheggio imperialisti? [1]
Tradizionalmente, la sinistra marxista ha utilizzato il termine “imperialismo” con un alto grado di discernimento. Dunque, per i marxisti, l’imperialismo non è un qualcosa che emerge misteriosamente quando i leader si lasciano sovrastare dall'”avidità”. Né può essere ridotto alla semplice azione militare esterna, per quanto aggressiva. Per i marxisti, viceversa, l’imperialismo attuale nasce da specifiche caratteristiche dell’ordine economico e sociale dei paesi capitalistici più avanzati.
La classica definizione marxista di imperialismo nell’epoca moderna è stata fornita da Lenin nel suo pamphlet del 1916, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Secondo il punto di vista del leader bolscevico, il capitalismo avanzato emerso nei decenni precedenti presentava le seguenti caratteristiche salienti:
Secondo tecnocrati finanziari, élite politiche e media mainstream, la vorticosa ascesa del nostro debito pubblico – 2.217,7 miliardi al 31 dicembre 2016 – dipenderebbe dal fatto che per decenni tutte e tutti noi abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Ma l’analisi dei dati storici e attuali ci mostra una realtà molto diversa da quella raccontata dalla narrazione prevalente. Proponiamo un capitolo dal volume "Dacci oggi il nostro debito quotidiano. Strategie dell’impoverimento di massa" di Marco Bersani (DeriveApprodi), in questi giorni in libreria
La spirale del debito pubblico tra ideologia e realtà
Al 31 dicembre 2016, il debito pubblico italiano è risultato pari a 2.217,7 miliardi, con un rapporto debito/Pil pari a 132,8%. Si tratta, a dispetto dei proclami di tutti i governi sulla priorità assoluta della riduzione del debito pubblico, di una continua ascesa, che, se collocata nel medio periodo, corrisponde a un innalzamento di 30 punti percentuali del rapporto debito/Pil negli ultimi 10 anni (102,7% a fine 2006).
Come sempre, poiché un elemento essenziale della relazione creditore/debitore è l’interiorizzazione della colpa da parte di quest’ultimo, le spiegazioni che i tecnocrati finanziari, le élite politiche e i media mainstream danno di questa ascesa del debito pubblico, vertono sull’idea che per decenni tutte e tutti noi abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e che continuiamo a farlo, sperperando e sprecando risorse, invece di renderci finalmente consapevoli di come la ricreazione sia finita da un pezzo.
Dopo l’indecorosa débâcle del Partito socialista francese – e mentre la persistente crisi della socialdemocrazia tedesca minaccia di spalancare un’autostrada alla riconferma della Merkel, e della politica “imperiale” tedesca che pesa sulle spalle degli altri popoli europei – sembrano arrivare segnali in controtendenza dall’Inghilterra e dalla Spagna, anche se non è scontato che si tratti di novità dello stesso segno.
Partiamo dal Regno Unito. Uno sgomento articolo di Luigi Ippolito sul Corriere del 30 maggio – “Corbyn il rosso. La rimonta (im)possibile” – è costretto a prendere atto che il presunto, enorme vantaggio (venti punti percentuali!) che i sondaggi attribuivano fino a poco fa ai conservatori nelle imminenti elezioni anticipate sembra essersi dissolto: allo stato parrebbe ridotto a cinque punti, in ulteriore calo. Se Corbyn – anche senza vincere – dovesse ottenere il 35%, scrive l’autore dell’articolo, l’ala blairiana del partito non potrebbe più chiederne la testa e il baratro fra la base, che sostiene il “vecchio” segretario movimentista, e il gruppo parlamentare, espressione del peggior establishment liblab, si farebbe ancora più profondo.
I G7 costituiscono da molti decenni dei monumenti all’inutilità ed allo spreco di pubblico denaro, esibizioni del potere fini a se stesse. Ci sono stati anche G7 “punitivi “, come quello di Genova del 2001, che fu motivato dall’esigenza di terrorizzare e stroncare i movimenti di protesta scoppiati a partire da Seattle nel ’95. Si è trattato comunque di eccezioni ed in genere i G7 hanno lasciato le cose esattamente com’erano prima.
Un G7 che ha invece peggiorato, e di molto, la situazione precedente è senz’altro quello appena svoltosi a Taormina. La dichiarazione più pericolosa uscita dal consesso è stata proprio quella che i media e i governi hanno salutato con maggiore soddisfazione, cioè quella sul terrorismo. La dichiarazione infatti si segnala per le sue omissioni, che costituiscono oggettivamente altrettanti lasciapassare. Nessun accenno, neppure indiretto, ha riguardato infatti i movimenti di capitale che si verificano a partire da due Stati in particolare, Arabia Saudita e Qatar, a favore di organizzazioni del cosiddetto “jihadismo islamico”. Nemmeno i morti negli attentati riescono a commuovere i governi, anzi le persone uccise diventano vittime sacrificali al moloc della libera circolazione dei capitali.
Una liturgia stanca quella del G7, arenato nelle secche di una politica che trasferisce il passato remoto in una cornice apparentemente nuova. Ma niente cambia e questa Europa a trazione germanica non è mai stata in discussione. Herr Schaeuble continuerà a gestire le finanze Ue con le stesse modalità: austerità sugli investimenti pubblici e rat race sulle esportazioni. Taormina, il trionfo dell'apatia politica: nessun accordo sull'ambiente, dove un accordo sarebbe stato fondamentale; solo qualche finto ammiccamento sul commercio globale, perché ogni governante è rimasto inchiodato ai diktat domestici. Dove saremo l'anno prossimo? Rinchiusi in un castello a chiacchierare in pace per l'ennesimo vertice del nulla
Il G7-G8-G20 è il cinepanettone del governo mondiale. Viene sceneggiato e interpretato come il congresso di un generico partito centrista d’Occidente.
Il G7 di Taormina, arenato nelle secche della politica di leader dagli orizzonti corti.
Una stanca liturgia, un contenitore totalmente vuoto che solo qualche emittente televisiva statale e qualche quotidiano mainstream riesce a spacciare come un “passaggio fondamentale”.
Taormina, il G7, i titoloni. Show e sorrisi, esibizione e potere. È un passaggio così trascurabile che non attrae più neanche i contestatori, i quali per troppe volte negli anni Novanta, fino al tragico luglio 2001, hanno vissuto l’assalto a questa kermesse come una sorta di presa della Bastiglia.
Neanche i menestrelli Bono Vox e Bob Geldof vogliono più salire sul palco di questa noiosa messa in scena.
Non avete letto male, il senatore americano John McCain ha detto proprio la frase riportata nel titolo: Putin «è la minaccia più grande, più ancora dell’Isis». E lo ha detto lunedì sera a un media australiano, l'Australian Broadcasting Corporation.
Certo, l’Isis può fare «cose terribili», riconosce il senatore, ma i russi possono distruggere le «fondamenta stesse della democrazia», influenzando le elezioni americane e francesi.
Il senatore ammette di non avere prove che i russi siano riusciti nel loro intento, ma è certo che ci hanno provato e ci riproveranno. «Dunque io considero Putin […] i russi come la più grande sfida che dobbiamo affrontare».
Parole che suonano offensive, quelle di McCain. Offensive nei confronti delle tante vittime del Terrore, non solo quelle di Manchester, ma anche quelle di Parigi, di Nizza… come risultano offensive nei confronti di quei bambini assassinati oggi da un’autobomba davanti a una gelateria di Baghdad, vittime di un attentato rivendicato dall’Isis.
Non solo offensive, anche inquietanti, in particolare per quanto riguarda il teatro di guerra siriano e quello iracheno, dove il Califfato del Terrore ha posto radici.
«Un ordine internazionale basato sulle regole, che promuova la pace tra le nazioni, salvaguardi la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di tutti gli stati e assicuri la protezione dei diritti umani»: questo dicono di volere i leader del G7 svoltosi a Taormina, accanto alla base di Sigonella, centro strategico nel Mediterraneo per le guerre e operazioni coperte Usa/Nato che hanno demolito lo stato libico e cercato di fare lo stesso in Siria, accrescendo il tragico esodo di migranti dei cui diritti umani il G7 si dice preoccupato. Le dichiarazioni ricalcano quelle del Summit Nato di Bruxelles: il G7 è formato dai sei maggiori paesi Nato più il Giappone, principale alleato Usa/Nato in Asia. Non mancano le divergenze economiche e politiche, camuffate da posizioni divergenti su clima e migranti.
Al Summit Nato Trump ha irritato la Merkel e altri, ricordando che «gli Usa spendono per la difesa più di tutti gli altri paesi Nato messi assieme». Ha chiesto con tono perentorio che tutti gli alleati mantengano l’impegno, assunto nel 2014 col presidente Obama, di destinare al militare almeno il 2% del pil.
Finora, oltre agli Usa, solo Grecia, Estonia, Gran Bretagna e Polonia hanno superato tale soglia.
Il Redibellum (legge Renzi-Di Maio-Berlusconi). Un'analisi comparata dell'ennesima truffa antidemocratica
Scrivono i giornali stamattina che
Renzi non è sicuro che l'accordo con M5S sulla legge
elettorale tenga
davvero. E in effetti, accettate le liste bloccate e i
capilista garantiti, create cioè le premesse di un altro
parlamento di nominati, il
subbuglio tra i pentastellati è palpabile. Ma Grillo è già
intervenuto: il web ha parlato e non si osi contraddirlo.
Anche nel dorato mondo di piddinia non mancano i mugugni. Per nobili motivi, ovviamente: i deputati hanno infatti scoperto che una buona parte di loro dovrà andarsene a casa. Orrore, orrore, triplo orrore! Che ne sarà mai del Paese senza di loro! In realtà questi geni della politica avrebbero dovuto saperlo da tempo, dato che il premio di maggioranza del Porcellum che trasformò graziosamente un 29% di voti (della coalizione di centrosinistra) in un 54% di seggi non c'è più da tempo. L'ha cancellato prima la sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale e poi, in maniera definitiva, affossando l'Italicum, il 60% di No al referendum del 4 dicembre. Evidentemente costoro non hanno mai smesso di sognare un'altra legge truffaldina quanto le precedenti. E con il Rosatellum ci hanno provato, ma non poteva andargli bene dato che al Senato i numeri proprio non c'erano.
Di
seguito pubblichiamo –
nell’ambito del dibattito su neo-operaismo e decrescita,
avviato dal testo
di Emanuele Leonardi –
un estratto dal libro di Ottavio Marzocca,
Transizioni senza meta: Oltremarxismo e antieconomia
(Mimesis, Milano 1998). Malgrado la
lontananza nel tempo della sua pubblicazione, questo libro
ha ancora un notevole interesse, poiché l’autore vi esamina
– fra
l’altro – quel passaggio cruciale degli anni Settanta in cui
si consumò la crisi dell’operaismo del decennio precedente.
Qui
ne proponiamo il paragrafo 6 del primo capitolo (pp. 34-39),
nel quale Marzocca ricostruisce il maturare dei due diversi
atteggiamenti verso il lavoro
scaturiti da quella crisi che a sua volta aveva la sua
ragione principale nel declino della “centralità”
dell’operaio massa.
In queste pagine l’autore offre anche indicazioni importanti
sulle ragioni per cui il neo-operaismo, da quel momento,
superò
progressivamente l’uso politico dell’idea di rifiuto del
lavoro.
*****
Così Negri ricostruiva nel 1988 il processo che aveva portato alla presa di coscienza delle trasformazioni qui ricordate [polverizzazione della produzione, capitalismo molecolare, fabbrica diffusa, informatizzazione, etc. – NdR] da parte della componente “anti-istituzionale” dell’operaismo:
Per ripercorrere alcuni
nodi cruciali
attraverso testi presentati nel blog nel corso del tempo potrà
essere utile guardare agli interventi sulla “globalizzazione”
di
Joseph Stiglitz e di Dani Rodrik, ma anche alle classiche
analisi di Saskia Sassen e a qualche altro intervento
significativo, come il testo di
Moretti.
Stiglitz era stato da poco Capo Economista della Banca Mondiale quando scrive, nel 2002, un aspro libretto sulla globalizzazione del “Washington Consensus”, un libro a ridosso dello schock delle crisi asiatiche e dell’ampia ondata di turbolenze finanziarie che precedono e seguono: “La globalizzazione e i suoi oppositori”.
Ma torna sul tema con un altro libro nel 2006, “La globalizzazione che funziona”, nel quale intravede la tempesta che si avvicina. Il punto di attacco, sul quale torna spesso (ad esempio nel recente articolo “Il lato sbagliato della globalizzazione”) è l’analisi di accordi commerciali iniqui e distorsivi guidati dalle aziende multinazionali.
Le recenti parole di Angela Merkel sulla presunta fine della relazione speciale tra Stati uniti e Unione europea non devono essere esagerate nella loro importanza, ma neanche sottovalutate. A differenza dell’Italia o della Ue genericamente intesa, la Germania ha una sua strategia di medio periodo. Una visione – proprio perché strategica – capace di tenere insieme l’aspetto economico con quello politico e militare. Delle due frasi riportate su ogni giornale, tutti si sono concentrati sulla prima («I tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono in una certa misura finiti», riferendosi agli Usa), mentre è la seconda parte ad essere rilevante: «Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani». Due fatti contribuiscono a chiarire il senso complessivo di queste parole. Il primo, economico. Su L’Economia, inserto economico del Corriere della Sera, Giuseppe Bono – ad di Fincantieri – svela la necessità produttiva che soggiace al progetto di costruzione europeista: «Abbiamo fatto quello che si dovrebbe mettere in atto in tanti altri settori [Fincantieri ha appena acquisito il controllo, salvo ritorsioni dell’ultima ora, dei cantieri navali di Saint-Nazaire in Francia, divenendo il più importante gruppo cantieristico navale d’Europa]. Per reggere l’urto della competizione con americani e asiatici dobbiamo consolidare, non c’è altra strada. E’ possibile, ad esempio, che in Europa ci siano in attività 68 compagnie telefoniche mentre gli Usa e la Cina ne hanno tre ciascuno? […]
1. Lo sappiamo già, avendolo tante volte evidenziato: il nodo delle elezioni e della potenziale e conseguente formazione di un prossimo governo sta tutto nell'approvazione della legge di stabilità imposta dall'appartenenza all'eurozona.
C'è chi mostra di averlo capito, e ne predispone un metodo di risoluzione, e c'è che fa finta di non capirlo; e crede così, forse con successo, di potersi tirare fuori dalle responsabilità del più probabile metodo risoluzione del nodo in questione che sta delineandosi.
Ma questo nodo, - e dovrebbero accorgersene tutti, se fossimo in una normale situazione legalitaria, caratterizzata dalla "sovranità democratica del lavoro" prevista dalla Costituzione -, attiene alla decisione fondamentale che spetta agli organi di vertice, cioè, anzitutto, al plesso parlamento-governo: cioè alla decisione (quella, appunto, sulla manovra di stabilità), che più di ogni altra caratterizza l'assetto degli interessi economici e sociali della comunità nazionale e, come tale, che più caratterizza l'indirizzo politico che dovrebbe essere raccordato con la volontà popolare che emerge(rà) dalle elezioni.
2. Invece, il nodo si avvia ad essere risolto in un modo che, come preannunciano molte premesse e dichiarazioni politiche, prescinderà, secondo €uro-prammatica, dall'espressione del voto:
E’ noto che la disoccupazione giovanile in Italia si assesta intorno al 40% e in alcune regioni, soprattutto del Mezzogiorno, supera il 60%. E’ anche noto che, nonostante le politiche di sottofinanziamento delle Università, gran parte di questa popolazione ha un livello di istruzione molto alto, ed è anche noto che la disoccupazione giovanile in Italia dipende in larghissima misura dal fatto che la gran parte delle nostre imprese – di piccole dimensioni, poco innovative – non necessita di manodopera altamente qualificata. I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno impostato le loro politiche formative finalizzandole al depotenziamento della qualità dell’offerta di lavoro. E le hanno legittimate con la retorica dei giovani bamboccioni, choosy, non ‘occupabili’, quasi collocati in un limbo idilliaco di ozio a spese dalle loro famiglie: più tecnicamente è il welfare familiare – troppo generoso – a frenare la ricerca di lavoro. Fra le tante dichiarazioni in tal senso, merita di essere ripresa quella rilasciata dal prof. Andrea Ichino – uno dei più accreditati economisti italiani, rilasciata al Resto del Carlino. Traendo spunto da un episodio di cronaca – i pochi candidati a un’offerta di posto di lavoro di Rayan Air – il docente non esita a proporre la sua diagnosi, con le seguenti parole:
Non sono bastate la legge Calderoli e l’Italicum, le sentenze della Consulta, la sconfitta del referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale: il PD e la sua maggioranza parlamentare eletta in modo costituzionalmente illegittimo perseverano a proporre una legge elettorale, relatore l’On Fiano in Commissione affari costituzionali, fortemente distorsiva della rappresentanza e ciononostante incapace di garantire, nonostante I trucchi, maggioranze omogenee e stabili. Le uniche finalità chiare sembrano quelle di favorire sé stesso come partito cerniera e impedire quanto si può la presenza dei partiti minori. Visioni corte che guardano alle convenienze attuali e agli interessi di fazione e che alimentano ulteriormente ( e forse definitivamente) una crisi istituzionale e politica ormai di sistema.
Si è scritto che la proposta del PD assomiglierebbe alla legge Mattarella (fortemente maggioritaria) e a quella tedesca (proporzionale). Del tutto falso: con lo sbarramento al 5%, il contestuale divieto di voto disgiunto (cioè differente) tra voto al candidato nel collegio uninominale e voto al singolo partito nel proporzionale, con la scomparsa sia al Senato che alla Camera dello scorporo (il meccanismo che favoriva nel proporzionale i partiti minori, coerentemente con l’esigenza di garantire rappresentatività del Parlamento) siamo di fronte ad una ipotesi lontanissima da quegli esempi.
Con Jürgen Habermas, Hans-Georg Gadamer ed altri filosofi, Karl-Otto Apel – recentemente scomparso all’età di 95 anni – ha rianimato la scena filosofica tedesca del secondo dopoguerra, proiettandola di nuovo ai vertici della ricerca internazionale. La sua proposta più originale, quella di determinare una "comunità illimitata di comunicazione" come standard di giudizio per le ingiustizie e le storture del presente, ha riavvicinato la democrazia alla filosofia
In un libro di qualche anno fa, L'avventura della filosofia francese, Alain Badiou ha sostenuto che sarebbe esistito fra il 1943, anno di pubblicazione di L'essere e il nulla di Sartre, e il 1991, anno di apparizione di Che cos'è la filosofia di Deleuze e Guattari, un “momento” filosofico francese, paragonabile per ampiezza di respiro e novità tanto allo sviluppo del pensiero greco fra il V e il III secolo a. C. quanto alla stagione della filosofia classica tedesca, consumatasi fra il XVIII e il XIX secolo. Pur contenendo un'importante verità (lo sviluppo delle idee filosofiche procede più per accelerazioni e brusche sterzate che per accumulazione lineare e progressiva), tale affermazione non è esente da un certo carattere apologetico. Un modo per attenuare quest'ultimo è forse quello di allargare il campo di incidenza dell'affermazione, sforzandosi di reperire nella storia della filosofia un numero molto maggiore di “momenti” altamente creativi.
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Nel lavoro di Romano
Alquati, uno dei
testi più densi e di maggiore interesse politico nel presente
è senz’altro l’inedito Sulla riproduzione della
capacità-umana-vivente oggi. Si tratta di un corposo
manoscritto risalente ai primi anni Duemila finora mai
pubblicato, che anticipa molte
delle trasformazioni sul terreno dei processi produttivi, del
lavoro e della riproduzione che oggi viviamo.
Esistono di Alquati svariati testi, per lo più inediti o pubblicati da piccole case editrici indipendenti, poco o per nulla in circolazione, che un gruppo di ricercatori militanti, a Torino, sta discutendo con l’intento di cogliere l’attualità politica di un pensatore ancora per molti aspetti poco conosciuto. Ed è all’interno di questa discussione che i miei appunti si collocano.
Nel ricco corpus teorico di Alquati, la riproduzione della capacità-umana-vivente rappresenta uno dei baricentri politici, dentro quel modello – o «modellone» come lui stesso lo chiama – di ricerca e analisi sull’odierna «civiltà capitalista», la «società specifica».
Il dollaro sta mutando verso qualcosa di sconosciuto che la FED sembra preparare per porre rimedio alla gigantesca bolla monetaria che avvolge il pianeta, pronta ad esplodere da un momento all’altro.
La politica economica Usa degli ultimi 30 anni ha coperto i deficit commerciali inondando il mondo di biglietti verdi. Ciò ha consentito al PIL americano di crescere nonostante il peso delle importazioni. Difatti, la discesa strutturale dei tassi USA – che dura ormai da quasi tre decenni – rispecchia la costante iniezione di liquidità che la FED ha operato proprio per stimolare il PIL.
L’approccio “monetarista” nel senso di Milton Friedman – al quale peraltro vari Governatori della FED tra cui Alan Greenspan si ispirarono in modo esplicito – nasce dunque dalla consapevolezza che attraverso il dollaro il Governo Federale possa ignorare i vincoli di bilancio che caratterizzano qualsiasi altra economia. Ma tutto questo non può accadere senza turbolenze.
Un bell'articolo di Manfredi De Leo sul bicentenario dei Principi di Ricardo. Questa è la versione finale, una versione preliminare è uscita su il manifesto, 03.06.2017 (il quale ha naturalmente ignorato la versione finale). Il titolo è di De Leo
Nella gelida Europa della Restaurazione, mentre l’ancien régime prova a soffocare la marea populista – così la chiamerebbero oggi – scatenata dalla Rivoluzione Francese, viene alle stampe nel cuore di Londra un’opera a suo modo sconvolgente, i Principi di Economia Politica di David Ricardo.
Era il 19 aprile 1817.
«Il sistema di Ricardo è un sistema di discordie che tende a generare ostilità tra le classi sociali e tra le nazioni»
tuonerà nel 1848 l’economista americano Carey, che denuncia Ricardo come il padre del comunismo ed il suo libro come
«un vero e proprio manuale del demagogo, che punta al potere attraverso ruralismo, guerre e saccheggi».
Ma come ha potuto un ricco borghese liberale, quale Ricardo era, farsi alfiere della lotta di classe?
E la sinistra vera?
Annunciando in TV con la consueta ma ormai imbarazzante spocchia la sua poco attesa ricandidatura, uno Spezzaferro un po' imbolsito e sempre più caricatura del se stesso che fu ha ribadito - se qualcuno ancora facesse fatica a capirlo - che l'aggregazione di forze attorno a Pisapia, con Fratoianni e gli scissionisti riluttanti del PD, ovviamente auspicata anche dal Manifesto e dall'ala concertativa della CGIL, ha un unico e fondamentale obiettivo: "battere Renzi ma per ricostruire il centrosinistra". E dunque ricominciare con quelle politiche antipopolari, euro-atlantiche e guerrafondaie (rossobrune) che ci hanno portati dove siamo e hanno generato Renzi, preparando un ulteriore slittamento a destra in nome del "meno peggio" e della guerra al "populismo".
Le riflessioni che in questi giorni hanno gravitato intorno alla “rivoluzione industriale 4.0”, si prestano a un più ampio tentativo d’analisi focalizzato sul nostro paese che proveremo a dettagliare di seguito, cercando di privilegiare da un lato la sintesi e dall’altro la connessione con il rapidissimo evolversi degli eventi.
Il quadro industriale
Del ruolo interessatissimo che il capitale tedesco potrebbe ritagliarsi nell’opera di svecchiamento della manifattura nazionale è stato già scritto e l’intuizione pare confermata dai fatti.
Qui vogliamo sottolineare come questa presunta nuova opportunità per l’economia nazionale certifichi senza appello la subalternità del nostro sistema produttivo ad interessi materiali “altri”.
Stante, dunque, la situazione attuale, il lavoro in Italia ha due sole alternative:
– la svendita a prezzo di costo fino ad esaurimento scorte (vedasi Almaviva, Alitalia, Ilva);
– il vassallaggio nei confronti del grande capitale centro europeo.
Amo quest’uomo che ogni fibra del mio corpo respinge. Ogni giorno che passa mi si conferma la straordinaria capacità di Trump di mandare all’aria la cristalleria di rappresentanza che costituisce la facciata spendibile e sostenibile delle neo oligarchie, quella che nasconde dietro i luccichii la messa in mora della democrazia e dell’uguaglianza: l’elefante in salotto questa volta ha mandato all’aria gli accordi di Parigi sul clima, suscitando l’immediata reazione degli ambientalisti e anche di quei progressisti a voucher che sono il miglior alleato della reazione. Trump ha semplicemente abbattuto a martellate il muro che separa l’America reale da quella con i graffiti delle buone intenzioni che campeggia in facciata.
Infatti nè Clinton, né Bush, né Obama hanno mai accettato di firmare il protocollo di Kyoto che costituisce il prototipo di questo tipi di accordi e a cui hanno aderito praticamente tutti i Paesi del mondo tranne appunto Stati Uniti e Canada, quest’ ultimo indotto nel 2011 a ritirarsi per poter sfruttare a capofitto le sabbie bituminose, cosa che dimostra al di là di ogni dubbio che ambiente e mercato – profitto sono agli antipodi.
Fior di articolesse per anni ci hanno spiegato delle magnifiche virtù del maggioritario nel ridurre la rappresentanza politica e, di conseguenza, moltiplicare geometricamente la “governabilità”, unico e decisivo mantra dell’Europa neoliberale. Viceversa, negli stessi anni e negli stessi ragionamenti verbosi a quattro colonne, venivamo informati dei malefici guasti che il proporzionale avrebbe portato al già frammentato sistema politico italiano: incremento esponenziale dell’offerta politica, atomizzazione nucleare dei partiti in Parlamento, e non parliamo di formare un governo: impossibile per definizione con un sistema proporzionale. Poi, incredibile! – come direbbe Piccinini – abbiamo scoperto non solo che dal 2005 in Italia vige una legge elettorale proporzionale (la legge Calderoli denominata Porcellum); non solo che la riforma di questa legge, il cosiddetto Italicum, che avrebbe dovuto imprimere la fatidica sterzata governista, era anch’essa una legge proporzionale (pur con la mediazione decisiva del doppio turno); ma anche che il sistema politico più saldo d’Europa, quello tedesco, elegge i suoi parlamentari e i suoi governi con un sistema proporzionale (qui). Inaudito, qualcuno avverta Panebianco e Galli della Loggia: non c’è nessun ritorno al proporzionale, ci siamo già da dodici anni.
Dopo la
sconfitta dei 35 giorni alla Fiat nel 1980, ai cancelli di
Mirafiori venne affisso un cartello scritto a mano. C’era un
volto di Marx stilizzato
e una scritta che diceva: “Avevamo la ragione e la forza. Ci è
rimasta la ragione. Coraggio compagni!”. Sono passati più di
trentacinque anni da quell’episodio decisivo per le sorti del
movimento operaio nel nostro paese. Oggi credibilità e le
possibilità di una opzione comunista nel XXI Secolo – dunque
la ragione e la forza – in una realtà come quella italiana
integrata nella dimensione europea, non possono non fare i
conti con le modificazioni sociali e produttive intervenute in
questi ultimi tre decenni
nella realtà di classe e nella società. Modificazioni oggi
nuovamente e fortemente scosse dalla nuova fase della crisi
sistemica
dell’economia capitalista.
In questi anni di lavoro di inchiesta e confronto ancora in corso sulla ricomposizione di un blocco sociale antagonista – di cui i comunisti dovrebbero tornare ad essere espressione politica e ipotesi strategica di affermazione degli interessi nel nostro paese – abbiamo cercato di individuare i punti in cui la quantità delle contraddizioni può diventare qualità sul piano della lotta per il cambiamento.
… oppure
nordcoreani, iraniani, arabi o cinesi a piacimento. La notizia
è stata data in marzo da Repubblica [1], ma è passata un po’
inosservata. Da qualche tempo Wikileaks pubblica materiale
informatico sottratto alla CIA [2]. E’ la cassetta degli
attrezzi degli hacker USA:
virus e malware per infiltrare macchine windows, mac e linux;
per inserire “fari” nei documenti e tracciarne il percorso
mentre i
giornalisti di mezzo mondo se li passano sottobanco; per
penetrare cellulari iPhone e Android e perfino televisori
Samsung, in modo da spiarci quando
siamo comodamente seduti in soggiorno.
Di che si tratta
Per lo più Wikileaks ha pubblicato manuali di istruzioni (molto chiari e professionali), presentazioni in powerpoint e documentazione d’ogni tipo. Non ci sono virus veri e propri; neppure Assange, nel suo cinico disprezzo verso l’ordine costituito, è dissennato al punto da diffonderli. Ad ogni modo, secondo Wikileaks, la CIA avrebbe perso il controllo di queste armi informatiche, che ora circolano nel Deep Web, alla mercé di lanzichenecchi, di rapinatori, d’ogni risma di seminatori di discordie. Ma Wikileaks ha pubblicato anche il codice sorgente di due applicazioni molto interessanti, Marble e Scribble: cartelle piene di tanti piccoli programmi in linguaggio Python o in C++.
Potrebbero
essere le sue ultime Considerazioni
finali quelle che il governatore Ignazio Visco ha letto
all’assemblea annuale della Banca d’Italia. Il suo mandato
scade infatti tra
pochi mesi e una riconferma non è del tutto certa: dipenderà
dall’evoluzione della situazione politica, che di certo non
appare
tranquilla. Un appoggio importante gli è però già venuto da
Mario Draghi, che quest’anno ha voluto essere presente: un
segnale chiaro da parte del presidente della Bce.
Anche stavolta, come lo scorso anno, la “cifra” più notevole delle Considerazioni è nel nutrito elenco di critiche a vari aspetti della politica europea, che hanno danneggiato non poco il nostro paese. Anche stavolta manca l’indicazione esplicita dei responsabili, che forse non si può pretendere da un organismo tecnico come la Banca d’Italia, ma che per ognuno dei casi ricordati risulta del tutto chiaro a chi abbia seguito le vicende degli ultimi anni: la Germania e i suoi alleati, e la Commissione che alla linea tedesca è del tutto omogenea.
La ‘rottura’ fra Merkel e Trump al G7 di Taormina viene analizzata in questi giorni in tutto il mondo. Non è la prima volta che Germania e Usa hanno interessi divergenti; è la prima volta dal 1945 che i loro leader si mandano pubblicamente a quel paese. È il punto di arrivo di un lungo processo.
La rottura vera è avvenuta sul commercio internazionale, in riferimento al quale Trump ha detto: “I tedeschi sono cattivi, molto cattivi”, toccando corde sensibili. Lo stereotipo del ‘tedesco cattivo’ risale al 1945, e allude alle guerre di aggressione e ai genocidi commessi in quel periodo. Ma i tedeschi hanno riflettuto più di chiunque altro su molti “errori” del passato; e ritengono – a ragione – di essere una nazione profondamente democratica, priva di ambizioni militari, e con una visione ambientalista più illuminata di quella americana.
Ciò detto, le politiche commerciali (in senso ampio) depressive della Germania ed i surplus senza precedenti, l’accumulo di riserve, crediti, e titoli esteri, l’inflazione media 2000-16 all’1,35% (lontana dal 2% concordato), il deliberato mercantilismo stanno facendo strame delle regole di pacifica convivenza (economica) nate intorno al 1945, che persino i cinesi rispettano.
So benissimo quanto sia poco elegante autocitarsi, con il sottointeso, inoltre, di suggerire: «vedete che avevo la vista lunga». Per ragionare, però, su quello che abbiamo oggi sotto gli occhi dobbiamo ragionare anche su quello che ci avevamo ieri e che la politica politicante aveva ignorato e che continua ad ignorare. «Molti commentatori odierni, purtroppo anche da sinistra, scambiano una partita di poker (…) con un mutamento strategico. Scambiano cioè la spuma di superficie mossa da venti incostanti, con il fluire costante delle correnti profonde (…). È sulle culture che lo ispirano, sulle strutture di ogni tipo che lo sorreggono, che vanno misurate le ragioni del ’lungo Nazareno’, non sulle necessità contingenti della tattica» (Le radici profonde del Nazareno, il manifesto, 10 febbraio 2015). Di fronte alla nuova partita di poker dei nostri giorni i cui risultati sembrano invertire la «svolta a sinistra» renziana relativa al metodo di elezione di Mattarella (così fu considerata dai sostenitori del centrosinistra «buono»), si potrebbero usare gli stessi termini dell’articolo di due anni e mezzo fa. E del resto non si sono certo modificate le coordinate che vengono da lontano e che si concretizzano, come ci spiega autorevolmente un ex economista critico, fortemente pentito proprio della dimensione «critica», nella consapevolezza che «entrambi i leader» hanno del «nesso che lega (…) indirizzi europei (…) alle riforme interne che dovranno essere attuate al fine di adeguarsi ad essi» (Il riformismo dei moderati Renzi e Berlusconi, Corriere della sera, 20 maggio 2017).
Ieri dalla Germania, dalla redazione di "Junge Welt", mi chiedevano se ci fossero già reazioni alla nuova legge elettorale con sbarramento al 5% da parte dei comunisti e delle sinistre.
Ho spiegato che queste ultime sono d'accordo con lo sbarramento perché vogliono schiantare ogni concorrenza e preparare l' accordo con il PD dopo il voto.
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Riceviamo dai compagni Cicalese e Violi e volentieri pubblichiamo. Ci auguriamo che la loro riflessione sia di stimolo all'apertura, anche in Marx21.it, di un confronto sulle prospettive che si aprono per l'Europa nella fase attuale caratterizzata dal manifestarsi di stridenti contraddizioni tra le potenze imperialiste dell'Occidente
Con l’idea
di trasformare
l’UE in un blocco di potere indipendente sulla scena politica
mondiale, la Cancelliera Angela Markel non ha raccolto solo
gli applausi
dell’establishment politico interno, rafforzando la sua
posizione in vista delle prossime elezioni, ma ha ricompattato
le fila interne degli
Stati membri: partiti e schieramenti politici aggrovigliati
tra loro, chiamati a recitare la parte dei falsi antagonismi
politici sul piede di
guerra. Anche gli stessi rigurgiti nazional-sciovinisti
sembrano essere stati messi tutt’ un tratto a tacere. Chi
pensava che dopo il
vertice G7 di Taormina la Germania potesse abdicare in favore
di Trump forse si sbagliava di grosso. A nulla sono valse le
forti strida e i frequenti
richiami del Presidente Americano che, dopo aver sistemato
direttamente gli affari in Medioriente, avvicinando gli
alleati storici (Sauditi e
Israeliani) ad ipotetici accordi con i rivali di sempre
(Russia, Cina), ha attaccato con fermezza i tedeschi
servendosi del megafono europeo:
“Abbiamo un enorme deficit commerciale con la Germania,
per di più loro pagano molto meno di quanto dovrebbero per
la Nato e le spese
militari. Ciò è molto negativo per gli Stati Uniti. Tutto
questo cambierà”.
1.
E
dire che ancora a maggio 2011 i conti pubblici dell’Italia
apparivano agli occhi degli esperti talmente in ordine che
l’agenzia di rating
Fitch poteva assicurare che «non c’è nessuna evidenza che la
situazione di bilancio dell’Italia si stia deteriorando»
ed il Commissario Europeo Olli Rehn riteneva che «l’Italia fa
bene il suo lavoro» (“La Repubblica”, d’ora in poi
R., 24.5.2011). Di conseguenza lo spread, il differenziale di
rendimento dei titoli pubblici decennali rispetto ai Bund
tedeschi, veleggiava attorno
ai 180 punti. Eppure in meno di un mese succede qualcosa e
tutto precipita: la situazione finanziaria si fa insostenibile
con lo spread che vola
così all’insù che Moody’s, altra agenzia di rating, si
dichiara «pronta a declassare l’Italia» (R.,
18.6.2011).
Che cosa è successo di così tanto grave nell’arco di quel poco tempo? E’ successo che ha preso il via il complotto della finanza internazionale contro il premier Berlusconi, con l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che vi si accoda ubbidiente. Il fatto è che nei nuovi tempi del terzo millennio non c’è più bisogno di minacciare “rumor di sciabole” (come era stato costume nella seconda metà del Novecento in Italia) per cacciar via un governo; adesso basta uno scuotimento di spread, soprattutto se la regia è all’estero.
Perché è utopico pensare di rendere il sistema capitalistico compatibile con il rispetto dell’ambiente
Negli ultimi anni si è
assistito, nel variegato campo della sinistra anticapitalista,
a una crescente attenzione dedicata ai temi della “decrescita
felice”, sdoganata dalle opere del filosofo ed
economista francese Serge Latouche, il quale, grazie a tale
parola d’ordine, ha
acquisito enorme fama ed è finito per diventare un’icona anche
per alcuni ambienti della sinistra antagonista, oltre che
bandiera
ideologica del Movimento 5 Stelle. Ma la decrescita è
veramente un tema dirompente contro l’attuale modo di
produzione?
Può l’ecologismo alla Latouche essere conciliato nella teoria
di Marx? La decrescita è concretamente realizzabile
nel
capitalismo?
Per poter rispondere a queste domande è necessario risalire alle origini teoriche dell’ecologismo alla Latouche. La formulazione più organica e coerente, e per certi versi acuta, dei motivi ecologisti può essere fatta risalire alla Bioeconomia, teoria economica proposta da Nicolae Georgescu-Roegen (1906-1994) per la realizzazione di un sistema ecologicamente e socialmente sostenibile. Per utilizzare le parole dello stesso Georgescu-Roegen, il paradigma teorico della Bioeconomia si fonda sul presupposto che “la sopravvivenza dell’uomo non è un problema né solo biologico, né solo economico, ma bioeconomico” [1].
Vi propongo una traduzione veloce
dell'articolo di Bo
Rothstein, nella speranza che possa provocare qualche
reazione interessante [Antonio Pagliarone]
A volte gli amori finiscono. La fiamma scompare, la coppia si “allontana” o soffre di quelle che vengono chiamate "differenze inconciliabili". Ciò si verifica non solo tra individui ma anche in politica. Il referendum della Brexit nel Regno Unito, la vittoria elettorale di Donald Trump negli Stati Uniti e il successo di tutti i vari partiti populisti-nazionalisti in molti paesi europei (tra cui in Svezia) dimostrano chiaramente che uno dei matrimoni politici più lunghi deve ormai essere considerato dissolto.
L'alleanza, che dura da più di 150 anni, tra la classe operaia industriale e quella che si potrebbe definire la sinistra intellettuale-culturale è finita. I recenti risultati delle elezioni suggeriscono che questi due soggetti attualmente hanno delle opinioni quasi totalmente diverse su questioni sociali e politiche chiave. In generale, la classe operaia tradizionale è favorevole al protezionismo, al ripristino di un tipo di lavoro che lo sviluppo della tecnologia ha inesorabilmente reso obsoleto e alla produzione rispetto alle questioni ambientali; essa costituisce anche una parte significativa della base che ha determinato il recente aumento delle opinioni contro gli immigranti e della xenofobia.
La scena della folla presa dal panico in piazza San Carlo a Torino, con drammatiche conseguenze, è emblematica della nostra situazione. La psicosi da attentato terroristico, diffusa ad arte dall’apparato politico-mediatico in base a un fenomeno reale (di cui si nascondono però le vere cause e finalità), ha fatto scattare in modo caotico l’istinto primordiale di sopravvivenza. Esso viene invece addormentato col black-out politico-mediatico, quando dovrebbe scattare in modo razionale di fronte a ciò che mette in pericolo la sopravvivenza dell’intera umanità: la corsa agli armamenti nucleari.
Di conseguenza la stragrande maggioranza degli italiani ignora che sta per svolgersi alle Nazioni Unite, dal 15 giugno al 7 luglio, la seconda fase dei negoziati per un trattato che proibisca le armi nucleari. La bozza della Convenzione sulle armi nucleari, redatta dopo la prima fase negoziale in marzo, stabilisce che ciascuno Stato parte si impegna a non produrre né possedere armi nucleari, né a trasferirle o riceverle direttamente o indirettamente. L’apertura dei negoziati è stata decisa da una risoluzione dell’Assemblea generale votata nel dicembre 2016 da 113 paesi, con 35 contrari e 13 astenuti.
1. Ci conforta ("rallegra" sarebbe francamente eccessivo) che dalla Germania arrivi un riscontro alla congettura che avevamo formulato in questo precedente post:
"...la Merkel, (certamente "piccata" a titolo personale per il trattamento ricevuto nella sua visita a Washington), inaugura la, per molti versi clamorosa, linea di esplicito anti-americanismo, giustificato dall'avversione ad personam verso l'attuale POTUS.
...è meglio chiarire in cosa realmente si traducano i "passaggi fondamentali" che la Merkel vorrebbe imporre, reclamando una leadership fondata sullo "stato di eccezione" - cioè sulla (di lei) effettiva sovranità, a ben vedere- determinato dalla situazione conflittuale con Trump...da lei stessa creata (!).
2. Il riscontro è in questo post di "Voci dalla Germania", di cui riporto il passaggio più pertinente al tema:
"a) che Merkel intenda mettere in campo una nuova "dottrina geostrategica" che implica un allontanamento dagli Stati Uniti è altamente improbabile. Angela Merkel è personalmente ancora molto ben collegata con gli Stati Uniti.
Crisi diplomatica senza precedenti nel Golfo Persico. Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi ed Egitto hanno rotto i rapporti diplomatici con il Qatar.
Hanno 48 ore gli ambasciatori del Qatar per uscire dai paesi, nel frattempo sono state chiuse tutte le frontiere aeree e terrestri verso la nazione accusata di sostenere organizzazioni terroristiche e di interferenze negli affari interni del confinante Bahrein. Quest’ultimo, in particolare, accusa il Qatar di «incitamento dei media, il sostegno alle attività terroristiche armate e i finanziamenti legati a gruppi iraniani per sabotare e diffondere il caos in Bahrein». Già dieci giorni fa gli alleati di Riad avevano bloccato le trasmissioni di Al-Jazeera, con sede a Doha, nei loro Paesi e nelle capitali arabe, riporta oggi Stabile su La Stampa, “girano da giorni voci di un intervento delle truppe egiziane e saudite nella penisola, per detronizzare l’Emiro. La Borsa di Doha è crollata, mentre il prezzo del petrolio è schizzato in alto. Il Qatar è uno dei più grandi esportatori di gas al mondo e condivide con l’Iran un enorme giacimento nel Golfo persico, una delle ragioni della sua posizione più accomodante verso Teheran.”
Abbiamo chiesto ad un grande conoscitore dell’area come Fulvio Scaglione, ex vice direttore di Famiglia Cristiana e fonte autorevole su diverse testate, di aiutarci a comprendere meglio la decisione e la posta in gioco.
Il libro
(CG) di Giovanni Arrighi ed
altri coautori, tra i quali Beverly Silver, autrice per parte
sua di un interessante “Le
forze del lavoro. Movimenti operai e
globalizzazione dal 1870”, è come sempre denso ed
interessante. Scritto nel 1999 è il frutto di un lavoro
iniziato dieci
anni prima, dunque nel cruciale 1989, e fa parte di un
progetto di ricerca più ampio sulla traiettoria di sviluppo
del sistema mondiale a
partire dal 1945, che fu diviso in due gruppi: il primo,
condotto sotto il coordinamento di Immanuel Wallerstein, ed il
secondo di Arrighi.
Il gruppo di lavoro di quest’ultimo si è appoggiato al Ferdinand Braudel Center, a Birmingham. Conviene dargli un’occhiata: la tradizione di ricerca movimentata da questa scuola è fortemente interdisciplinare, e prevede di gettare uno sguardo storico sensibile ai fattori sociali, economici ed alla dinamica dei poteri nello scontro delle forze. Di ogni situazione quindi si cerca la ‘struttura’, e di questa le sue radici storiche, ma anche la costante evoluzione. Il metodo, ben visibile in ogni libro di questa scuola, è di andare a cercare sempre le reti di strutture fluidamente permanenti (di “lunga durata”) nelle quali gli eventi avvengono, e le svolte talvolta si manifestano, e inquadrarle in un racconto storico sensibile alla meccanica dei fattori interagenti entro una categoria analitica generale che chiamano “sistema mondo”.
Scriviamo
queste
poche righe per i nostri interlocutori nella sinistra
variamente anticapitalista (le autodefinizioni sono ormai più
numerose che efficaci).
E’ noto infatti che abbiamo messo da tempo al centro della
nostra riflessione sul “potere effettivo” l’Unione Europea, i
suoi
trattati, i meccanismi della governance sull’intero
continente e soprattutto su lavoratori e ceti popolari.
Da cui facciamo discendere una linea di rottura della Ue come condizione minima indispensabile per poter concretamente avanzare verso un cambiamento radicale, in qualche misura socialista.
Sappiamo benissimo che molti (ma sempre meno) continuano a restare aggrappati a vecchi schemi analitici, confondendo – secondo noi – la dimensione “internazionalista” del capitale con quella dei lavoratori. Il movimento operaio è stato sempre internazionalista, fin da quando i capitali erano ancora rigidamente nazionalisti; dunque un sistema di valori universalista non dipende dai confini storicamente determinati esistenti in un certo momento storico. Mentre la lotta politica concreta deve naturalmente da fare i conti con le condizioni date.
L’appuntamento con le urne nel Regno Unito è fissato per l’8 giugno. La lotta al terrorismo entra prepotente nella campagna elettorale, insieme agli altri grandi temi: il divorzio di Londra da Bruxelles, gli sgravi fiscali, il lavoro. May punta sulla securizzazione del territorio, sul controllo capillare e sistematico di internet, fomenta le divisioni. Corbyn chiede che la democrazia non abdichi, contro i terroristi che seminano incertezza e instabilità
Un gioco delle parti, il teatro inglese. Roba da buffoni. La politica ridotta a parodia, come questa “battaglia navale” sul Tamigi, che è farsa e tragedia insieme”. Da Brexit, battaglia navale — il Tredicesimo piano
«I terroristi non faranno deragliare la democrazia. Quelli che vogliono far del male alla gente e dividere le nostre comunità non avranno successo». È il 4 giugno, mancano quattro giorni alle elezioni britanniche (qui il focus sul voto, ndr) e il leader laburista, Jeremy Corbyn, parla a poche ore di distanza dall’attacco terroristico a London Bridge e Borough Market, nel cuore di Londra (il terzo in tre mesi in Gran Bretagna).
È il momento del silenzio di rito, le ventiquattro ore di stop alla campagna elettorale. A interromperlo sono le dichiarazioni di condanna, unanime.
Dopo averli aboliti temporaneamente per evitare un’altra disfatta referendaria, il governo ha reintrodotto i voucher.
Se Renzi tornerà premier, anche la sua controriforma costituzionale rispunterà dalla tomba allo stesso modo.
Smantellare la Costituzione è il compito affidatogli dall’establishment, e il Cazzaro sta facendo di tutto per ottenere una seconda chance di portarlo a termine, benché i suoi stessi committenti non si fidino più di lui.
Le prossime elezioni politiche saranno il secondo tempo del referendum.
Come tutte le riforme renziane, la nuova legge elettorale è una porcheria scritta col culo. È un proporzionale mezzo maggioritario, ma a liste bloccate, un Maggiorinale di costituzionalità molto dubbia che non garantisce né governabilità né rappresentanza, ma soltanto le esigenze speculari dei due partiti più grossi: per il PD poter governare senza dover vincere, per il M5S poter vincere senza dover governare.
Nelle intenzioni di Renzi c’è riesumare la Grossolana Coalizione con Forza Italia, mentre il voto antisistema finisce di nuovo congelato all’opposizione dal Movimento 5 Stelle, e Alfano resta decapitato dalla soglia di sbarramento.
“Un intervento necessario perché altrimenti il sistema economico, non solo bancario, andrebbe in crisi», dichiaravano nell’aprile 2016 il sempiterno presidente di Acri (le fondazioni bancarie) Giuseppe Guzzetti e Claudio Costamagna, presidente di Cassa Depositi e Prestiti, in merito all’avvio del Fondo Atlante.
Fondo di 4,25 miliardi, creato per sostenere la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà e risolvere il problema delle sofferenze, finanziato, fra gli altri, con 500 milioni di Cassa Depositi e Prestiti.
L’intervento salva-banche, sempre secondo i due autorevoli presidenti, si era reso necessario perché l’Italia è un paese molto «bancocentrico», dove le imprese e le famiglie per avere prestiti e mutui si rivolgono alle banche, le quali «se falliscono mandano in crisi l’intero sistema».
Da non credere: dopo aver azzerato in 25 anni il controllo pubblico sulle banche – nel ’92 era pari al 74,5% – ed aver privatizzato persino Cassa Depositi e Prestiti, oggi ci si stupisce che famiglie e imprese per chiedere prestiti vadano in banca.. Ma tant’è.
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Dal 6 all’8 giugno 2017, l’Università della Calabria ospita un convegno internazionale in memoria di Giovanni Arrighi a 30 anni dalla pubblicazione del testo, scritto con Fortunata Piselli, “Capitalist Development in Hostile Environments” (1987) che Donzelli ha recentemente pubblicato in italiano con il titolo: “Il capitalismo in un contesto ostile” (2017)
Grande è la confusione sotto e
sopra il cielo. Ma, con
buona pace di Mao Tse-Tung, questo rende la situazione oggi
pessima, altro che eccellente!
Attraversiamo tempi in cui le bussole del pensiero critico sembrano impazzire, mentre quelle che orientano la politica e la prassi comune segnano avventurosi territori di frontiera,dove difficile è orientarsi e pericoloso è vivere. In essi siamo tutti ributtati a forza, presi nella morsa di tenaglie di odiosi e sistematici ricatti: della propaganda mediatica e dello sfogo frustrato di indignazione moralizzatrice; dello Stato di polizia securitario, sempre più oppressivo, e dell’insicurezza generalizzata provocata dal terrorismo; delle guerre tra settarismi religiosi e delle crescenti contese geopolitiche per l’accaparramento e la gestione delle risorse naturali e strategiche. Intanto, il lavoro si fa sempre più degradante sfruttamento nelle case, nei campi, in fabbrica, in strada, negli uffici e nelle aule dell’accademia. Mentre le minacce della disoccupazione e della precarietà assoluta sono sempre più ampia cappa che opprime potenzialità di benessere condiviso mai state così ricche. Anche per questa via, ci incuneiamo nel paradosso del più poderoso sviluppo della cooperazione sociale che, però – costretto entro i binari che ingiungono universalmente la valorizzazione gratuita del capitale e delle sue forme di potere sociale –, finisce con il preparare e affinare dispositivi di controllo del pensiero e della condotta di tutti come mai la storia ne ha conosciuti.
Recensione a Rivoluzione e Sviluppo in America Latina, a cura di Pier Paolo Poggio, Volume IV di L’altro Novecento. Comunismo Eretico e Pensiero Critico, (Milano: Jaca Book, 2016, pp. 768)
L’ambiziosa
impresa editoriale, curata da Pier Paolo Poggio ed edita dalla
Jaca Book in collaborazione con la Fondazione Luigi
Micheletti, volta ad analizzare il
Novecento attraverso la lente del pensiero critico e del
comunismo sorto in opposizione a quello consolidato e
canonizzato dall’Unione
Sovietica, giunge al IV volume dedicato al continente Sud
Americano (Rivoluzione e Sviluppo in America Latina,
Jaca Book, 2016, pp. 768,
€ 48,00), dopo i precedenti tre volumi dedicati
rispettivamente all’età del Comunismo Sovietico, pubblicato
nel 2010
(L’Età del Comunismo Sovietico. (Europa 1900-1945),
pp. 693), ai Movimenti in Europa, edito nel 2011 (Il
Sistema e
i Movimenti. (Europa 1945-1989) pp. 828) e al
Capitalismo Americano uscito nel 2013 (Il Capitalismo
Americano e i suoi Critici,
pp. 774). L’opera prevede la pubblicazione di altri due
volumi, uno dedicato al tema dell’anticolonialismo e del
comunismo in Africa e
Asia, l’altro sul comunismo e pensiero critico nel XXI secolo.
Come per le precedenti pubblicazioni, e come previsto per le
ultime due, anche
quella oggetto di queste note si avvale della collaborazione
di numerosi studiosi italiani e stranieri, così da delineare
un quadro il
più completo possibile riguardo all’argomento e al dibattito
su di esso esistente a livello internazionale.
Sono passati cento anni da quando Benjamin, in un saggio memorabile, denunciava la miseria spirituale della vita degli studenti berlinesi e esattamente mezzo secolo da quando un libello anonimo diffuso nell’università di Strasburgo enunciava il suo tema nel titolo Della miseria nell’ambiente studentesco, considerata nei suoi aspetti economici, politici, psicologici, sessuali e in particolare intellettuali. Da allora, non soltanto la diagnosi impietosa non ha perso la sua attualità, ma si può dire senza timore di esagerare che la miseria – insieme economica e spirituale – della condizione studentesca si è accresciuta in misura incontrollabile. E questa degradazione è, per un osservatore accorto, tanto più evidente, in quanto si cerca di nasconderla attraverso l’elaborazione di un vocabolario ad hoc, che sta fra il gergo dell’impresa e la nomenclatura del laboratorio scientifico.
Una spia di questa impostura terminologica è la sostituzione in ogni ambito della parola “ricerca” a quella, che appare evidentemente meno prestigiosa, di “studio”. E la sostituzione è così integrale che ci si può domandare se la parola, praticamente scomparsa dai documenti accademici, finirà per essere cancellata anche dalla formula, che suona ormai come un relitto storico, “Università degli studi”.
Forse stupiti per l’ostinato rifiuto dei media (liberi, indipendenti e democratici, va da sé) di occuparsene, sono stati gli stessi dirigenti del Pentagono ad annunciare che le bombe americane in Siria e in Iraq stanno facendo una strage di civili. Nei mesi di marzo e aprile 2017, si legge nell’ultimo rapporto diffuso dalle autorità militari americane, i bombardamenti contro l’Isis sarebbero costati le vite di 332 persone innocenti. A chi come me ha cercato per mesi di attirare l’attenzione sul problema, vien da dire: finalmente qualcuno ne parla! Anche se…
Anche se la stampa atlantista senza se e senza ma è andata per le spicce: ha censurato il Pentagono e buonanotte. Anche se l’ammissione dei militari Usa è una frottola: il numero delle vittime civili ammazzate dalle bombe della coalizione internazionale messa insieme da Barack Obama è di sicuro assai più alto di quanto ora dichiarato. Basta ricordare questo: il 26 marzo 2017 gli Usa ammisero di aver fatto fuori più di 200 persone in un colpo solo distruggendo un palazzo di Mosul che “avrebbe ospitato” anche una postazione dell’Isis. Come possono ora dire che in due mesi le famose “vittime collaterali” sono appena 332? Anche se le più credibili organizzazioni di monitoraggio dei combattimenti avanzano ben altre cifre.
Quanto più gli Stati, soprattutto Usa e Ue, intensificano e ampliano le proprie azioni di guerra contro il terrorismo – in particolare di matrice islamica, jihadista – all’interno dei paesi considerati i focolai principali del terrorismo globale, più si assisterà alla distruzione di vite umane, alla devastazione economica e ambientale, senza neanche riuscire ad eliminare le cause del problema. Anzi, il contrario.
La tragedia si è consumata di nuovo durante il G7 a Taormina (26 e 27 maggio) in cui l’unico risultato di cui possono rallegrarsi i capi di Stato e di governo partecipanti è la “Dichiarazione comune sulla lotta contro il terrorismo”. Cosi, la prima ministra britannica May si è scapicollata a tornare nel suo paese per vendere come un gran successo la firma della dichiarazione. Gli attentati di Manchester e le elezioni politiche di giugno dettano le priorità. Dal canto suo, il guerrafondaio presidente americano Trump, ha riportato a casa non solo quella firma, ma anche numerosi contratti di vendita di armi all’Arabia Saudita, siglati il 21 maggio, per un valore di 110 miliardi di dollari. Secondo i firmatari, le costose armi sono assolutamente necessarie per aiutare l’Arabia saudita a sconfiggere il terrorismo nella regione e difendersi dalle “minacce” dell’Iran.
So benissimo quanto sia poco elegante autocitarsi, con il sottointeso, inoltre, di suggerire: «vedete che avevo la vista lunga». Per ragionare, però, su quello che abbiamo oggi sotto gli occhi dobbiamo ragionare anche su quello che ci avevamo ieri e che la politica politicante aveva ignorato e che continua ad ignorare. «Molti commentatori odierni, purtroppo anche da sinistra, scambiano una partita di poker (…) con un mutamento strategico. Scambiano cioè la spuma di superficie mossa da venti incostanti, con il fluire costante delle correnti profonde (…). È sulle culture che lo ispirano, sulle strutture di ogni tipo che lo sorreggono, che vanno misurate le ragioni del ’lungo Nazareno’, non sulle necessità contingenti della tattica» (Le radici profonde del Nazareno, il manifesto, 10 febbraio 2015). Di fronte alla nuova partita di poker dei nostri giorni i cui risultati sembrano invertire la «svolta a sinistra» renziana relativa al metodo di elezione di Mattarella (così fu considerata dai sostenitori del centrosinistra «buono»), si potrebbero usare gli stessi termini dell’articolo di due anni e mezzo fa. E del resto non si sono certo modificate le coordinate che vengono da lontano e che si concretizzano, come ci spiega autorevolmente un ex economista critico, fortemente pentito proprio della dimensione «critica», nella consapevolezza che «entrambi i leader» hanno del «nesso che lega (…) indirizzi europei (…) alle riforme interne che dovranno essere attuate al fine di adeguarsi ad essi» (Il riformismo dei moderati Renzi e Berlusconi, Corriere della sera, 20 maggio 2017).
Una recensione all’ultimo, magmatico, ma coerentissimo, libro di Massimo De Carolis, “Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà”, Quodlibet, 2017
Dopo
l’attentato suicida di Manchester, Theresa May ha chiesto a
Google, Facebook, Twitter di fare di più per contrastare il
terrorismo. Siamo
di fronte a qualcosa che fino a non troppo tempo fa sarebbe
stato persino inconcepibile: un rappresentante del potere
politico legittimo che chiede a
un’azienda privata di farsi carico di una propria prerogativa,
ovvero rispondere al sentimento politico fondamentale del
bisogno di sicurezza,
altresì detto paura. Una dichiarazione del genere, in fondo,
ormai non ci stupisce (o terrorizza) quanto in effetti
dovrebbe. L’ambizioso
libro di Massimo De Carolis, Il
rovescio della libertà, spiega molto bene perché.
De Carolis va alla radice di quel vero e proprio «congegno di civilizzazione» che è il neoliberalismo: non una semplice copertura ideologica e sovrastrutturale per un capitalismo rapace, ma l’unico esperimento che, ad oggi, avrebbe cercato di dare una risposta operativa all’ormai secolare disagio della civiltà moderna, di cui il principio di sovranità era uno dei perni. Questo congegno, però, sarebbe già fallito in modi abbastanza disastrosi: ecco perché ci troviamo immersi in una società in cui la schmittiana “guerra partigiana” si è ormai sostituita alla guerra fra nazioni e in cui il potere politico è stato strutturalmente marginalizzato, ma solo per avvantaggiare nuovi poteri feudali monopolistici non legittimati democraticamente.
Qual è il modo più opportuno per affrontare la questione delle differenze culturali?
La
questione che intendo affrontare in questo breve scritto è
piuttosto intricata e coinvolge il senso comune (si pensi al
problema dei
migranti), la filosofia e le scienze sociali, in
particolare l’antropologia. In ambito filosofico essa risale
al momento in cui alcuni
hanno sostenuto che non esistono criteri superiori, validi
universalmente, che ci consentano di valutare gli specifici
criteri culturali adottati
dalle diverse culture. Si potrebbe rimandare a questo
proposito a Protagora (V sec. a. C.) e al
suo famoso frammento, la cui
interpretazione è alquanto controversa, “L’uomo è la
misura di tutte le cose” e a Michel de
Montaigne (1533-1592), per il quale il nostro
modo di ragionare non nasce dalla natura, ma dal costume.
Naturalmente questa visione relativistica ha preoccupato la Chiesa cattolica, che nelle figure di papa Wojtila e papa Ratzinger, l’ha condannata in più occasioni, anche perché ha messo in discussione il monopolio della verità assoluta, che essa si attribuisce.
Benché – come si è visto – il relativismo abbia radici antiche e di tutto rispetto, almeno in ambito antropologico si fa risalire alla crisi dell’evoluzionismo e progressismo ottocentesco, che prefiguravano un avanzamento continuo della società umana e che distinguevano tra i diversi livelli culturali raggiunti dalle differenti forme di vita sociale, le quali erano confrontate a loro svantaggio con la “civiltà occidentale”.
Per
situare
nella giusta direzione interpretativa un tema come quello
del rapporto tra ‘popolo’ e ‘moltitudine’ nel pensiero
politico di
Marchesi e per penetrare esattamente il significato che
questo grande intellettuale comunista attribuisce ai due
termini or ora indicati, la ricerca
deve prendere le mosse dalla formazione politica e
letteraria di Marchesi, fissando con la massima nettezza un
punto essenziale: la precedenza che
ebbe, nell’itinerario intellettuale di Marchesi, la
formazione politica rispetto alla formazione letteraria. Che
è poi quanto La Penna,
nel suo icastico profilo biografico di Marchesi, ha
definito, con espressione non meno precisa che elegante,
come l’importanza degli
“incunabula catanesi”1
. Nella ricostruzione genetica del significato dei
termini ‘popolo’ e
‘moltitudine’ non è possibile prescindere dal mondo
storico-culturale in cui essi affondano le loro radici, e
questo mondo è
quello del carduccianesimo giacobino, alimentato dalla
poesia anticonformista e anarchicheggiante di Heine, è
quello del tardo romanticismo e
della scapigliatura, il cui eroe eponimo era l’intellettuale
socialista catanese Mario Rapisardi, poeta di Lucifero e
traduttore di Lucrezio,
professore nella locale università non solo di letteratura
italiana, ma anche di letteratura latina, il quale trasmise
al giovane Concetto
alcune idee-forza, che si ritroveranno poi nella sua
riflessione più matura, come quella dell’opposizione tra
l’uomo e il
cittadino, come la rivendicazione dell’originalità della
letteratura latina rispetto a quella greca ed il binomio
costituito dalla
congiunta avversione per l’arido filologismo e per il bieco
autoritarismo tedeschi.
Pare che, grazie anche al nuovo sistema elettorale, la cosiddetta sinistra radicale si avvii all’ennesimo suicidio, questa volta sotto le insegne di Giuliano Pisapia.
La XFactor del quotidiano La Repubblica, la stessa che aveva lanciato Matteo Renzi, sta ora proponendo come futuro leader l’ex sindaco di Milano. Pisapia ha tutte le carte in regola per essere sostenuto dalla élite economico politica di cui il quotidiano romano è da sempre la punta di diamante. Fu eletto sindaco sull’onda di un movimento, quello arancione, che presentava genuine istanze di cambiamento in un contesto di confusione e smarrimento politico e culturale. La sinistra, alla ricerca di un leader presentabile con la stessa ansia dell’attesa dell’arrivo di Godot sul palcoscenico, pensava di aver trovato nella capitale “morale” l’interprete delle proprie assolute incertezze, così come prima con Ingroia, Bertinotti, Cofferati e, periodicamente con Landini.
Appena eletto Pisapia ha subito chiarito ai poteri forti della città che non avevano nulla da temere, e insieme a Maroni e Renzi ha gestito tutte le cose importanti, dall’EXPO, alla gentrificazione delle aree urbane più redditizie, alla marginalizzazione ulteriore delle periferie e dei poveri.
L’Arabia saudita ed i Paesi arabi gravitanti nella sua orbita hanno sorpreso il mondo con la decisione di isolare per terra, aria e mare, l’emirato del Qatar: il blocco totale è il preludio di un’invasione militare o di una deposizione “morbida” dei regnanti. Si consuma così il primo “colpo di scena” in politica estera dall’insediamento di Donald Trump: alla rivoluzione permanente della coppia Obama-Clinton, fatta di rivoluzioni colorate, ammiccamenti alla Fratellanza Mussulmana e aperture interessate all’Iran, subentra la svolta “reazionaria” della nuova amministrazione. I sauditi prendono la loro vendetta sulla piccola monarchia che cavalcò la Primavera Araba, seminando il caos in Tunisia, Libia, Egitto e Siria con il placet dell’establishment liberal.
Lunedì 5 giugno, un fulmine ha attraversato il panorama internazionale: dopo due settimane di crescenti tensioni, l’Arabia Saudita e la variegata galassia di Paesi mussulmani che dipendono dai suoi petrodollari e/o dalla sua influenza politica (Bahrein, Emirati Arabi uniti, Egitto, Yemen, Maldive, Kuwait, Oman e governo laico-nazionalista libico) hanno annunciato un isolamento totale del Qatar, reo di “finanziare il terrorismo nella regione”.
La rottura delle relazioni diplomatiche col Qatar da parte di Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein è un fatto di pura e semplice politica energetica vista dalla prospettiva dei paesi produttori.
In questo frangente, il terrorismo e le accuse rivolte al Qatar non sono altro che una bandieruola sventolata sul naso dell’opinione pubblica mondiale, ultimamente abbastanza ricettiva sull’argomento per i tanti fatti di cronaca che si sono recentemente susseguiti, ad un ritmo incalzante.
Mentre in Europa e, in generale, in Occidente, la politica energetica viene affrontata per lo più con il punto di vista dei consumatori, che sostengono questo o quel governo in funzione delle concessioni di sfruttamento che gli può garantire, oltreché in termini di sicurezza energetica, i produttori ragionano, molto più concretamente, in termini di potere politico-diplomatico che la preservazione della propria posizione sui mercati mondiali gli garantisce.
Questo è stato fino ad adesso, il punto di vista dei produttori di petrolio medio-orientali, consorziati nell’OPEC, e che, recentemente, è stato messo in pericolo da uno “strano” progetto di intesa, tra Qatar e Iran, sullo sfruttamento del bacino gasifero che entrambi i paesi condividono sotto il Golfo Persico.
Riferisce un vecchio adagio che la verità è sempre rivoluzionaria. A ben vedere, dipende chi la racconta questa verità. Perché a volte emerge dalle pieghe stesse del potere, assumendo tutt’altro valore. L’ex consigliere e assessore comunale Roberto Morassut, oggi parlamentare Pd, si lascia scappare alcuni dati oggettivi sulla realtà romana che i movimenti dicono da anni, ogni volta liquidati come ideologici o nostalgici o chissà cos’altro. Ad esempio sul debito: «bisogna rileggere bene la storia del debito. Nel 2008 il livello di indebitamento pro capite di Roma era inferiore a quello di Milano e Torino. Ma si decise, per colpevolizzare un’intera stagione, di gridare al disastro e scaricare tutti i debiti sul bilancio dello Stato, creando la Bad company del Commissariamento che ha il compito di pagare i debiti. […] La mie domande dunque sono queste : quel debito può essere onorato con strumenti ordinari? La lista dei creditori è certa e verificata? Come restituire capacità di investimento alla macchina pubblica?». Semplici verità ricavabili dalla lettura dei dati sulla città, dal confronto con le sue impietose statistiche. Si scopre così che il debito, come – ripetiamo – andiamo dicendo da anni, è uno strumento tecno-ideologico attraverso cui procedere alla dismissione della spesa pubblica per servizi e diritti e non, come ripetono in coro i media liberali, la colpa da espiare dopo anni di vacche grasse.
Caro professor De Masi prenda lezione dai lavoratori e dalle lavoratrici della Biblioteca nazionale
Domenico De Masi, sociologo del lavoro e del non lavoro, ha recentemente pubblicato un libro, edito da Rizzoli, dal titolo emblematico: Lavorare gratis, lavorare tutti. Una sorta di manifesto (lui lo chiama “testo militante”) con l’obiettivo di “rompere” il mercato del lavoro italiano.
La teoria è semplice e disarmante. I disoccupati dovrebbero offrire gratuitamente il proprio lavoro attraverso una app o qualcosa di simile, in modo da costringere chi lavora a cedere loro alcune ore del proprio tempo di lavoro.
Per la cronaca, De Masi è stato il mio professore, quello con cui mi sono laureata nel 1999 in Sociologia e quello con cui per alcuni anni ho fatto l’assistente all’università di via Salaria a Roma (gratis, ovviamente!). Lo conosco bene e da lui ho imparato molto, nonostante la sua teoria dell’ozio creativo e della fine del lavoro non mi abbiano mai convinto e avessero poco o niente a che fare con i miei studi sull’organizzazione taylor-fordista del lavoro e sul sindacato. A dire il vero, molti anni prima, De Masi era stato il curatore di una interessantissima riedizione degli atti del processo a Frederick Taylor.
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Buongiorno
a tutti.
Desidero innanzitutto ringraziare l’on. Marco Zanni per aver voluto la realizzazione delle ricerche che qui presentiamo e il gruppo parlamentare Europe of Nations and Freedom che ci ospita.
Il focus di queste ricerche è rappresentato dalle asimmetrie che attualmente caratterizzano la regolamentazione bancaria in Europa.
Queste asimmetrie emergono sia con riferimento a quanto è regolamentato nel contesto della Unione Bancaria propriamente detta (o forse impropriamente detta, a giudicare dalle forti asimmetrie e squilibri interni che come vedremo la caratterizzano), sia con riferimento a quanto resta fuori dalla regolamentazione bancaria, ossia lo Shadow banking system, un’area grigia non normata che sta guadagnando terreno rispetto al sistema bancario tradizionale, ipernormato.
Lascio ai ricercatori del Centro Europa Ricerche che prenderanno la parola dopo di me il compito di esporre i contenuti puntuali della nostra ricerca su questi temi.
Qualche
settimana
fa, cogliendo l’occasione del momento di attenzione rivolta
all’esperienza della France Insoumise, avevo provato in
termini generalissimi
a delineare alcuni aspetti che potrebbero essere peculiari di
un’esperienza populista democratica e progressista in
Italia.
Vorrei adesso spendere qualche altra pagina per ipotizzare i
fili che potrebbero andare a comporre la trama del tessuto di
un discorso populista
progressista rivolto al nostro Paese: altrimenti detto,
provare a immaginare in cosa potrebbe consistere una proposta
politica populista e
progressista con caratteristiche italiane. Se il grande merito
del gruppo raccolto attorno a questo sito risiede nell’essere
stati i primi a
teorizzare organicamente la possibilità e finanche
l’opportunità di intraprendere una simile strada in Italia, la
possibilità virtuosa di una sua trasformazione in un fenomeno
popolare risiede nella doppia condizione da
un lato della
traduzione dell’analisi e del metodo populista in una
proposta politica e in un disegno di Paese idonei a
mobilitare le
migliori energie della Nazione in un progetto articolato volto
alla rottura politica e sociale, dall’altro lato (ma non
approfondirò tali
temi in questa sede) nel suo strutturarsi in una
forma organizzativa capillare e adeguata e nel suo
rapportarsi selettivamente con
altre esperienze, già esistenti o in nuce, che si
sviluppino in direzioni compatibili, al fine di congiungere le
forze.
Londra è una città rigidamente divisa in classi sociali e bantustan etnici, compartimenti stagni tanto sovrapponibili quanto impossibili da esondare. Mentre l’inchiesta giudiziaria stabilirà quale è stata la scintilla che ha materialmente scatenato le fiamme alla Grenfell Tower, i motivi dell’incendio già li conosciamo. Il rivestimento, usato per rendere digestibile la visione di questo palazzone agli abitanti dei quartieri ricchi ha preso fuoco in meno di cinque minuti
“London’s burning!
London’s burning! All across the town, all across the night”
vomita nel microfono la voce rabbiosa di Joe Strummer nel
lontano 1977,
quando per dare l’assalto al cielo il proletariato
metropolitano inventa nuove pratiche di sabotaggio che
esondano dai luoghi del lavoro.
Quarant’anni dopo, quando i luoghi del lavoro sono scomparsi o sono stati delocalizzati, e il proletariato metropolitano è stato definitivamente sconfitto nella lotta di classe condotta dall’alto contro i poveri, Londra brucia di nuovo.
“Brucia la città, brucia per tutta la notte”. E’ un rogo di classe. Brucia per tutta la notte la Grenfell Tower, grattacielo di edilizia popolare della zona di Hammersmith. Brucia per tutta la notte Grenfell Tower, e il proletariato urbano crepa, arso vivo o soffocato dal fumo. O lanciandosi dalle finestre.
Sopravvive un bambino che si lancia dal decimo piano. A decine ne muoiono. A decine sono scomparsi, a decine ricoverati in codice rosso.
Sulla carta il progetto di legge di riforma elettorale non è fallito, è stato solo rinviato in commissione e, almeno teoricamente, potrebbe essere resuscitato da una intesa della venticinquesima ora. In pratica questa soluzione è possibile ma ridotta al lumicino. Ma procediamo con ordine, cosa è successo?
L’on di Fi Biancofiore ha presentato un emendamento tendente ad estendere il sistema in votazione anche alla regione Trentino Alto Adige, dove, grazie alle speciali disposizioni costituzionali, è sempre stato in vigore il Mattarellum e non è stato adottato neppure il Porcellum a suo tempo.
Molto interessata alla questione era la Svp, che condizionava il suo voto anche al Senato (dove ha due seggi) al mantenimento del Mattarellum in regione. Lasciamo da parte il merito della questione, e poniamoci un problema: è una questione centrale della legge elettorale al punto che l’approvazione dell’emendamento è tale sa snaturare il testo di legge? Direi proprio di no. Non era toccato alcuno degli aspetti centrali della legge (voto congiunto, clausola di sbarramento, liste bloccate) e, in fondo, lo stesso Pd, con le sue oltre trenta assenze, non sembra prendesse la questione tanto sul serio, in ogni caso la grandinata di franchi tiratori ha toccato anche il Pd. Ed allora, perché prenderla così calda e dichiarare morto il progetto per l’approvazione dell’emendamento Biancofiore.
Troisi l'avrebbe definito "un calesse", altro che ristrutturazione del debito . Mentre la Giunta Raggi discute delle briciole, seguendo i diktat di Cassa Depositi e Prestiti, Decide Roma avanza una proposta chiara ed efficace: audit indipendente sul debito pubblico, disobbedienza ai vincoli finanziari imposti
L’Assemblea Capitolina ha da pochi giorni (25 maggio) approvato un provvedimento sulla gestione del debito (Delibera n° 26/2017). L’Assessore Mazzillo, nel presentare il dispositivo contenuto nella delibera, tronfio di orgoglio, con un pizzico di solennità e senza misurare l’enfasi delle sue parole, si è rivolto «a coloro i quali hanno desiderato e profondamente voluto questa azione di rinascita della città». Voleva fare intendere che con questa prima azione si iniziava a chiudere il cerchio con le promesse della campagna elettorale, quando i five stars andavano dicendo in giro che con loro sarebbe cambiata la gestione politica del debito cittadino.
Confessiamo che nell’ascoltare il primo minuto di questo intervento siamo stati anche noi tentati ingenuamente di pensare: vuoi vedere che a sto giro questi hanno trovato il coraggio di prendere una decisione politica sensata? Poi, andando avanti nell’ascolto della relazione e soprattutto iniziando a leggere i documenti, l’incredulità ha lasciato il posto al rituale refrain di questi tempi duri: anche a sto giro mai una gioia!
A cavallo delle Alpi le veline liberali esultano senza ritegno: battuto il populismo! In realtà, le ragioni della contestazione globale contro i ceti dirigenti liberisti appaiono più forti che mai. In Francia il partito di sistema En Marche! vince le elezioni meno partecipate della storia repubblicana. In Italia la chiara sconfitta Cinque stelle avviene in presenza della peggiore affluenza elettorale degli ultimi decenni. Non siamo in presenza di alcun “recupero” della politica tradizionale allora. Al contrario, se c’è un dato comune alle elezioni tenute contestualmente in Francia e in Italia è proprio il rafforzamento della disaffezione e del disincanto popolare. Le ragioni del “populismo” sono ancora tutte sul terreno e acquistano forza, con buona pace di chi vede in un momentaneo spostamento di voti interno alla borghesia una rivincita di classe. Lo riconosce anche Massimo Nava sul Corriere della Sera: «il successo è determinato dalle debolezze degli avversari, oltre che dalle regole del gioco. Milioni di voti al Fn, oltre ai voti dell’estrema sinistra e socialisti, avranno pochi seggi, ma restano un serbatoio di protesta e opposizione. L’altra faccia della Francia, povera e delusa, non si riconosce nel nuovo blocco sociale che sostiene il giovane presidente».
Inizia oggi a Bologna il G7 sull’ambiente. Un articolo pubblicato un anno fa sul The Guardian da Jason Hickel (pensatore radicale di cui già avevamo apprezzato la chiarezza espositiva) ci offre alcuni spunti semplici ed altrettanto evidenti da proporre all’attenzione sulle tematiche ambientali in giorni in cui respiriamo una rinnovata spinta della retorica “green” istituzionale. Dall’articolo si evince chiaro come una mossa in direzione di un completo rinnovamento delle tecniche di produzione di energia, in modo tale che questa sia totalmente pulita, è una condizione necessaria ma non sufficiente per evitare eventuali catastrofi ambientali. Bisogna, dunque, ripensare il modello di produzione, affinchè esso sia in armonia con le finite risorse ambientali. Un ulteriore pregio (non voluto) dell’articolo di Hickel sta nell’accompagnare il lettore fino a un certo scenario di constatazioni, lasciandogli il compito di fare da solo un ultimo fondamentale passaggio: il ragionamento dell’autore si ferma infatti di fronte all’evidenza che “la decrescita materiale non è incompatibile con alti livelli di benessere umano”, e lascia ai comunisti il dovere (ormai annoso) di sottolineare anche come essa sia però assolutamente incompatibile con il capitalismo. Un sistema basato sull’accumulazione volta alla ricerca del profitto, possibile solo tramite l’estrazione di valore dal lavoro vivo da parte di attori economici in perenne concorrenza tra loro, un sistema che non tiene conto della materialità oggettiva e della finitezza del mondo che ci circonda non è compatibile con una pianificazione sociale della produzione e con un’accumulazione che rispetti l’equilibrio ecologico.
Può un anziano dirigente laburista britannico dalle idee radicali e i toni compassati guidare il suo partito a una rimonta nel periodo di massima egemonia dei conservatori? Secondo molti, era solo fantascienza. Corbyn era “troppo scollato dal mondo reale”, “troppo socialista”, “troppo novecentesco”, “troppo poco mediatico”, dando per scontato che il suo partito sarebbe stato relegato a un ruolo di pura comparsa alle elezioni. Questa prognosi infondata ha costretto in molti a mangiarsi il cappello tra giovedì sera e venerdì mattina, quando il Labour Party ha dimostrato di essere ancora vivo e vegeto, ottenendo molti più seggi di quanti ne avesse ottenuti nel 2015 il più moderato Ed Miliband, e prendendo molti più voti di quanti ne avesse presi nel 2005 l’ex primo ministro Tony Blair, oratore dall’eloquio coinvolgente.
L’impresa ha il sapore dello straordinario soprattutto perché mette un argine alla destra in un periodo in cui la sua ideologia sembrava dilagante, e solo poche settimane dopo che i sondaggi avevano previsto per Corbyn una Caporetto definitiva. Non è una vittoria, ma la rimonta c’è stata e l’attuale debolezza di Theresa May potrebbe di qui a poco aprire lo scenario di nuove elezioni, a cui i Labour si presenterebbero da una posizione di maggior forza.
In
questo articolo vorrei proporre alcune riflessioni a partire
dai contenuti dell’intervento, liberamente visualizzabile sul
canale
Youtube, dal titolo “Politica, verità, testimonianza,
rappresentanza”[1], tenuto da
Massimo Recalcati, noto psicanalista milanese, alla
presentazione della Scuola di Formazione Politica “Pier Paolo
Pasolini” nel maggio di
quest’anno.
Lo psicanalista milanese affronta in questo intervento alcune problematiche a lui particolarmente care, in particolare conduce un’analisi di alcuni movimenti e dinamiche politiche italiane attuali attraverso le lenti della psicoanalisi.
L’intervento in questione inizia con una considerazione sulla suscettibilità ai richiami populisti ed estremisti che aumenta in coloro, persone singole o gruppi che siano, che non si sentono rappresentate dalla politica; idea non nuova questa (basta leggere anche solo un po’ di storia recente) e propugnata tuttora da molti, compresi non pochi rappresentanti del M5S (solo per rimanere tra i principali destinatari delle stilettate di Recalcati), i quali sostengono da sempre di aver dato voce politica a migliaia di persone emarginate e deluse, convogliando un dissenso inascoltato in una forma di espressione democraticamente accettabile.
«Neoliberismo»?
Questa parola associa la novità («neo») con la libertà
(«liberalismo»). Vuol dire
che è necessario essere neoliberisti per essere «assolutamente
moderni» (per usare un’espressione di Arthur Rimbaud) ed
essere anche interamente liberi, ma sempre proporzionalmente
alla libertà di cui deve godere il capitale, come chiedeva
Milton Friedman?
Assolutamente no. Il neoliberismo non è più una novità, ormai,
anche se non è così antico come alcuni sostengono; e
tantomeno ci rende liberi. Anzi, si può dire che esso tenda a
manipolare la nostra libertà in modo tale da impedirci
qualunque scelta di
vita alternativa a quella che surrettiziamente ci impone. Come
dice Foucault, il neoliberismo ci governa attraverso la nostra
libertà.
Una parola alquanto strana
Diciamolo, la parola «neoliberismo» è un termine politico strano, interessante e anche difficile da maneggiare. I neoliberisti non si rivendicano come tali, anzi addirittura respingono energicamente questa definizione.
Della danza dei morti di sinistra che
camminano, in particolare di certi volteggi screanzati
dopo il referendum costituzionale, ci eravamo occupati
il 1°
gennaio. Fece allora capolino la Anna
Falcone. Non era una sortita estemporanea. La
spaccatura (di destra) del Pd
era nell'aria e noi non
fummo
indulgenti...
Infatti ecco che, nella febbre delle elezioni imminenti, esce immancabile l'appello alla resurrezione della sinistra, ovviamente "dal basso", "civicamente", in perfetto stile da anime belle. Firmatari Anna Falcone e Tomaso Montanari. Tossica minestra riscaldata, abbiamo scritto.
Di questo mesto fenomeno si occupa Ferdinando Pastore. Socialista come la Falcone, ma per nulla indulgente verso l'operazione a cui si presta.
* * * *
Da qualche mese si susseguono assemblee, manifestazioni, convention di partiti, di movimenti che avrebbero l’ardire di unire la sinistra, tutte uguali a se stesse. Esse sono condite da continui appelli nei quali si descrive una società ansiosa di vivere in un luogo più gentile e sobrio e che non vede l’ora di vedere all’opera, in Parlamento, dirigenti come D’Alema, Bersani, Fratoianni, Vendola, descritti come dei missionari dediti ad una nuova evangelizzazione civilizzatrice.
Il 10 maggio scorso La Stampa titolava: «Sempre più allergici e malati. Ma a rafforzare i nostri bimbi saranno i microbi africani». L'articolo riportava le conclusioni di uno studio scientifico sulla correlazione tra l'impoverimento dell'ecosistema microbico nell'organismo e l'insorgere sempre più frequente e precoce di malattie autoimmuni nei paesi sviluppati. L'ambiguità del titolo e della tesi non troppo velatamente suggerita nel testo («le popolazioni africane potrebbero aiutarci a recuperar[e] una parte [di quell'ecosistema]») alzava la palla alla redazione di Left, che lo stesso giorno traduceva così la notizia sul suo sito: «L’arrivo dei migranti fa bene alla salute». Punto. Svolgimento:
Non solo la nostra economia, ma anche il nostro sistema immunitario ha bisogno dell’apporto dei migranti. È quanto emerge da uno studio condotto da un team di ricercatori del dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze e pubblicato da la Stampa. Secondo i biologi, i migranti africani portano con loro una serie di batteri, finghi (sic) e microbi che abbiamo perso.
L'occasione era in effetti ghiotta, di sbattere in faccia a «la xenofobia populista» che schifa di stringere la mano a una persona di colore o di viaggiare sul suo stesso treno, la nemesi di una promiscuità dove l'esposizione a «batteri, f[u]nghi e microbi» disseminati dai corpi dei nostri fratelli d'Africa ci riscatterebbe da un declino non solo culturale, ma finanche organico e microbiologico. Un'occasione ghiotta, ghiottissima.
È ancora riconosciuto come capo. Nonostante l’età, è ancora lucidissimo, e in grado di dare ordini.
Giorgio Napolitano è intervenuto a condannare il patto per la legge elettorale, e subito un commando di franchi tiratori del PD ha fatto secco il Tedesco, cioè il disegno di legge concordato dal Cazzaro con le opposizioni.
È stato facile poi mettere la pistola fumante in mano al Movimento 5 Stelle, già incalzato dalle giustificate proteste della sua base, schifata dalla porcheria della quale stava per rendersi corresponsabile.
Un problema che la Lega non ha avuto.
Con tutta la loro rabbiosa intransigenza apparente, gli elettori della Lega sono in realtà fra i nasi più tappati d’Italia. Presunti secessionisti che si fanno andare bene il nazionalismo neofascista.
Presunti moralizzatori che si fanno andare bene Berlusconi.
Gli basta un facile capro espiatorio, e digeriscono di tutto.
Stavolta però l’inciucio è saltato.
Le cose stanno cambiando, non proprio secondo le nostre previsioni e aspettative, ma stanno cambiando e questo conta. Cresce in Europa una sinistra imprevista (Mélanchon e Corbyn) e ci sono due problemi: perché in Italia non ce l’abbiamo e perché non l’abbiamo prevista
I gazzettisti italiani davanti agli exit poll inglesi erano furiosi: come fa a vincere una sinistra “anacronistica”, che vince proprio perché va controcorrente: vuole far pagare di più i ricchi, ripubblicizzare acqua, poste e ferrovie, sopprimere le iperboliche tasse universitarie, migliorare il welfare, curare meglio i malati e smettere di aggredire altri popoli… Sempre più realisti di Renzi, che addirittura impartisce lezioni ai laburisti, opinando (lo sciagurato) che con una candidatura più centrista avrebbero fatto di meglio.
Corbyn (come Mélanchon e Iglesias) è un terribile semplificatore, mescola “arcaiche” parole d’ordine, che però suonano nuove a orecchie disabituate da un ventennio, e domande attualissime, come l’abbattimento dei costi per l’istruzione e l’acqua pubblica. Ha “vergognosamente” sedotto i giovani con promesse “impossibili”, come eliminare i costi annuali di 10.000 pound e oltre per l’istruzione superiore, ha convinto un milione di poveri illusi under 24 a registrarsi come elettori nel giro di pochi mesi e a votare per lui, mentre noi li aiutavamo “realisticamente” con la Garanzia Giovani, la Buona Scuola e il JobsAct.
Da un po’ di tempo, circola la proposta di istituire un “reddito di cittadinanza” o “universal basic income” (UBI). esteso a tutti i cittadini senza distinzione.
O al massimo, esteso ai cittadini secondo criteri razziali, come lo statunitense Movement for Black Lives che propone la necessità di un UBI, riservato però a chi abbia la pelle nera: poiché i trisnonni dei neri della Georgia erano tenuti in schiavitù da un pugno di proprietari terrieri di origine inglese, i discendenti americani dei braccianti lucani o polacchi hanno il dovere di mantenere a vita i nuovi immigrati dal Senegal.
Poi si scopre, come è ovvio, che in ciascuno dei tredici stati originali, c’erano anche famiglie nere libere che possedevano schiavi, a volte anche bianchi. Dimostrando così, meglio di tutti i politicorretti, come i neri possano fare tutto ciò che possono fare i bianchi.
Wikipedia riassume così il concetto del Reddito di Cittadinanza:
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1. Le ragioni dello
scetticismo nei
confronti della nazione
La diffidenza verso il concetto di nazione e la tendenza europeista, entrambe diffuse in diversi settori della società italiana, sono il prodotto della nostra storia recente e meno recente. L’imperialismo italiano, tra gli anni ’80 dell’Ottocento e gli anni ’40 del Novecento, ha fatto della nazione, nella forma ideologica estremistica del nazionalismo, il substrato della sua politica espansionistica. Lo stato liberale e lo stato fascista, senza alcuna soluzione di continuità tra di loro, hanno generato una serie di guerre, dalle prime spedizioni coloniali in Eritrea, Somalia e Libia, alla Prima guerra mondiale, alle guerre d’Etiopia e di Spagna e, infine, alla disastrosa partecipazione alla Seconda guerra mondiale. L’esito di questa tendenza espansionistica è stato devastante sia per le condizioni delle masse popolari sia per le ambizioni dell’élite capitalistica. L’Italia, precedentemente annoverata fra le grandi potenze, subisce nel ’43 una sconfitta pesantissima e umiliante, che ne declassa il rango internazionale. Si è così prodotto un diffuso rigetto verso ogni forma di nazionalismo, che si è esteso al concetto stesso di nazione anche all’interno della sinistra, nonostante la Resistenza contro il nazi-fascismo fosse in primo luogo una lotta di liberazione nazionale.
Appunti del lavoro seminariale svolto dal collettivo di redazione dell’Archivio Luciano Ferrari Bravo
1. L’attuale dibattito
politico e filosofico-politico sembra essere sempre più
segnato dal concetto di populismo, dalle tematiche e
dai fenomeni che gli sono
riconosciuti come propri.
Se del termine populismo sembra difficile formulare una definizione – difficoltà in cui pare incorrere, forse strategicamente, anche Laclau, a partire dall’evidente insoddisfazione per le definizioni che offre nei suoi testi [ci riferiamo qui in particolare a Ernesto Laclau, On Populist Reason, Verso, London 2005; trad.it di D. Tarizzo, La ragione populista, Laterza, Bari-Roma 2008] –, si può forse cercare di inquadrare il termine, e i fenomeni a esso legati, operando uno spostamento dello sguardo: non un solo populismo, ma una serie di populismi (al plurale) che trovano applicazione su un terreno che verrebbe così da essi stessi perimetrato. L’indagine, allora, più che focalizzarsi sul presunto significato del solo concetto di populismo, dovrebbe allargare il suo orizzonte a quello che potrebbe delinearsi come il campo populista.
È una “grande costruzione letteraria”, piena di citazioni e battute di spirito? È “sociologia dell’Ottocento”? È teoria astratta? È un libro di storia? Il Capitale di Carlo Marx è un po’ tutte queste cose insieme e, soprattutto, 150 anni dopo la pubblicazione del Primo Libro, rimane il testo da cui partire per comprendere il presente e immaginare il futuro del capitalismo. Un contributo di Marco Palazzotto
Quest’anno ricorrono i 150
anni della pubblicazione (1867) del Primo Libro del testo che
avrebbe poi cambiato la storia del Novecento, ovvero la
principale opera di Karl Marx:
Das Kapital.
Dopo un secolo e mezzo dalla prima edizione tedesca, ci si chiede se un’opera che ha influenzato la politica mondiale del secolo scorso sia oggi ancora utile ad offrire strumenti di analisi a chi si pone come obiettivo la trasformazione della società in senso più egualitario.
Il Capitale, per il livello di astrazione utilizzato da Marx, non poteva fornire dei consigli politici pratici, mentre è parere consolidato che la teoria del testo più importante del filosofo di Treviri non abbia eguali, ancora oggi, quanto a capacità di comprensione e analisi del modo di produzione capitalistico. Molte delle teorie allora presentate possono essere ancora applicate all’interpretazione di svariati fenomeni sociali.
Parlo ad esempio della crisi quale elemento strutturale del capitalismo, o della scienza e l’automazione come cause di diminuzione del lavoro necessario, tendenza che crea una disoccupazione endemica, ma che allo stesso tempo deve creare le condizioni per l’accumulazione.
La sinistra come al solito è entrata in fibrillazione man mano prendeva corpo l’imminenza della scadenza elettorale. Se la speranza in una quota proporzionale offriva una occasione alle forze minori, lo sbarramento del 5% incuteva giustamente timore. Giustamente non perché non vi sia in Italia una sinistra ampiamente oltre tale quota. Ma perché come al solito si arriva alle scadenze elettorali senza avere alle spalle né un fermento sociale simile a quelli da cui sono nate le recenti esperienze greca e spagnola, né una comune radicalità di intenti paragonabile a quella di Melénchon o persino di Corbyn.
La sinistra italiana, un tempo guardata con invidia dalle sinistre di tutto il mondo, è ora il fanalino di coda, è «invertebrata», quasi non esiste. La preoccupazione diventava allora quella del superare il 5%. E così si parte dalla forma prima che dai contenuti. Dalle alleanze prima che dai programmi. Ed è quasi inevitabile, dopo aver dato a lungo prova di vocazione antiunitaria, dopo non aver saputo capitalizzare la vittoria del 4 dicembre, dopo aver praticato anni di politicismo senza presenza nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle lotte.
Mettersi tutti insieme per saltare l’ostacolo del 5% è sembrata allora l’unica risorsa.
Il partito grillino ha perso le elezioni comunali, momento elettorale che, favorendo la personalizzazione concentrata sul “candidato sindaco”, si presenta oggettivamente faticoso per un soggetto politico che fa del voto d’opinione il suo punto di forza. Ma il M5S paga anche sue responsabilità manifeste: non tanto (o non solo) errori legati alla campagna elettorale più o meno azzeccata o i passi falsi come a Genova. Il problema principale è che più tempo scorre, più il bluff populista perde di appeal perché “costretto” sempre più a misurarsi col potere. Da movimento anti-sistema (almeno così percepito dalla popolazione elettorale) a partito di governo: una traiettoria che lascia dietro di sé molte delle capacità elettorali pentastellate. Detto questo, oltre all’astensionismo strutturale, l’altro dato importante espresso dalle elezioni comunali è la rimonta delle forze di “centrodestra”. La parziale disillusione verso i Cinque stelle non apre alcun margine di recupero per le sinistre, anzi, quei voti in libera uscita grillina sembrano tornare all’ovile forzaleghista. Questo dato, se confermato, certificherebbe due cose: la prima, il M5S non costituisce alcuna diga a una prostesa più consapevole di quei settori popolari che lo hanno votato o lo voteranno; la seconda, che l’indebolimento del M5S favorisce le forze di “centrodestra”, o in ogni caso i partiti di sistema.
Tiene banco la tensione tra Arabia Saudita e Qatar, che ha dato vita a un confronto serrato e alquanto nuovo nell’ambito dell’islam sunnita. L’Arabia Saudita ha accusato il Qatar di sponsorizzare il Terrore: da qui la rottura dei rapporti tra Ryad e Doha, che ha visto gli Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Egitto e Giordania schierarsi con la prima (come anche il governo yemenita riconosciuto a livello internazionale).
In realtà l’accusa mossa al Qatar è un pretesto, come si legge in tantissime analisi che ricordano come i sauditi non sono immuni al vizietto addebitato ai loro avversari (vedi Piccolenote). Allora perché tale iniziativa?
Diversi analisti ne hanno individuato le cause nei rapporti che il Qatar intratterrebbe con l’Iran. Tutto sarebbe nato da un’avventura sfortunata: membri della famiglia reale del Qatar si sarebbero recati in Iraq per una battuta di caccia al falcone e qui sarebbero stati rapiti.
L’emiro Tamim bin Hamad al-Thani avrebbe quindi deciso di pagare un riscatto di un miliardo di dollari a Teheran per ottenere, tramite la sua influenza sulle milizie sciite locali, la liberazione dei propri cari.
Diciamolo: l’impresa di restare fuori da tutti i ballottaggi che contano (tranne Carrara, ma nessuno è perfetto e qualcosa sfugge sempre) non era facile. Ma i 5Stelle – tutti, da Grillo in giù – ce l’hanno messa tutta e hanno centrato l’obiettivo. Litigare dappertutto, polverizzarsi in scissioni e sottoscissioni, infilare un autogol dopo l’altro fino a scomparire da tutte le grandi e medie città al voto e, non contenti, persino resuscitare il ripugnante bipolarismo centrodestra-centrosinistra, con particolare riguardo per il duo Berlusconi (vedi alla voce Graviano) – Salvini (vedi alla voce Le Pen). Questa è roba da professionisti. Chapeau.
Grillo se lo sentiva e infatti nel comizio semideserto a Genova se ne vantava, con una voluttà alla sconfitta quasi poetica, come se la disfatta fosse uno schema lungamente provato in allenamento: “Resteremo fuori da tutto, così nessuno verrà sotto casa a rompermi i coglioni perché il nostro sindaco non piace”. Di questo passo passerà alla storia, mutatis mutandis, come l’erede inconsapevole di quell’altro grande sconfittista che era Riccardo Lombardi, nel ritratto di Indro Montanelli: “Più che il potere, amava la catastrofe, per la quale sembrava che madre natura lo avesse confezionato… con un volto che il Carducci avrebbe definito ‘piovorno’, e di cui nessun pittore sarebbe riuscito a riprodurre le notturne fattezze senza ritrarlo su uno sfondo di cielo livido, solcato da voli di corvi e stormi di procellarie:
“Se l’emancipazione della classi operaie esige il loro concorso fraterno, come possono compiere questa missione quando la politica estera non persegue che disegni criminali e, sfruttando i pregiudizi nazionali, non fa che sprecare il sangue e i tesori dei popoli in guerre di rapina?” Così scriveva Marx nell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione Internazionale degli operai, raccomandava di seguire attivamente la politica estera e di concentrare gli sforzi contro la Russia zarista, “…questa potenza barbarica, la cui testa è a San Pietroburgo e le cui mani sono in tutti i gabinetti ministeriali d’Europa…”.
Oggi la potenza più pericolosa ha la testa a Washington e le mani nei gabinetti ministeriali di ogni continente, e sfrutta, non solo i pregiudizi nazionali, ma anche quelli religiosi.I servizi segreti dei suoi satelliti, Italia in testa, rispondono prima a Washington e solo dopo ai governi locali. Se questa potenza non verrà sconfitta, politicamente o nelle sue guerre per procura, la ripresa del movimento operaio rivoluzionario non sarà possibile, perché trascinerà l’umanità in una guerra mondiale dove metterà in forse persino la sopravvivenza della vita sulla terra. Quando noi omettiamo di denunciare le presunte guerre contro il terrorismo e non diciamo che a Mosul (1), come a Hiroshima con l’atomica, e come anni fa a Falluja, il fosforo bianco distrugge la salute delle generazioni future, se non denunciamo questa criminalità allo stato puro, non ha senso il nostro richiamo a Marx, al socialismo, alla società futura.
Pubblichiamo una introduzione di Saverio Fratini al dibattito sulla teoria marginalista del capitale pubblicata sulla gloriosa rivista Critica Marxista*, che ringraziamo unitamente all'autore. Il tema è molto difficile (anche per me!), ma Fratini ci aiuta a farcene un'idea. Per i più giovani, l'invito è a cimentarsi con questa tematica, a mio avviso la ragione (analitica) più forte per non dirsi marginalisti. Fratini è docente a Roma 3
Ricorre
quest’anno il cinquantesimo anniversario del simposio
“Paradoxes in Capital Theory”, pubblicato nel 1966 sul Quarterly
Journal of
Economics, nel quale furono presentati i risultati di
una controversia scientifica che era in realtà iniziata alcuni
anni prima, con la
pubblicazione, nel 1960, del libro di Sraffa Produzione di
Merci a Mezzo di Merci.
Nel suo libro, Sraffa aveva mostrato che, facendo riferimento ad una situazione caratterizzata dall’uniformità del tasso del profitto in tutti i settori e dalla stazionarietà dei prezzi relativi,[1] il legame tra i prezzi delle merci e le variabili distributive—saggio del salario e tasso del profitto, in particolare—può essere complesso e imprevedibile, tanto che a fronte della variazione della distribuzione in una stessa direzione, ad esempio un continuo aumento del tasso del profitto, il prezzo relativo di due merci può crescere e diminuire a tratti alterni. Ciò, di fatto, svuotava di significato l’idea che diversi metodi di produzione di una certa merce potessero essere ritenuti a maggiore o a minore intensità di capitale,[2] come se si trattasse di una proprietà di natura tecnica. Infatti, dipendendo i prezzi dei beni capitale dal saggio del salario e dal tasso del profitto, l’ordinamento dei metodi di produzione sulla base dell’impiego di capitale per unità di lavoro sarebbe, in generale, cambiato al variare della distribuzione del reddito: il metodo inizialmente a più bassa intensità di capitale può diventare quello a maggiore intensità di capitale per un diverso livello delle variabili distributive.
1. Nel post ALLA
RICERCA DELLA SOVRANITA' PERDUTA:
SALVIAMO (chirugicamente) LA COSTITUZIONE, e
nell'articolato dibattito che ne è seguito, abbiamo cercato di
delineare le misure di
rafforzamento dell'attuale modello costituzionale di fronte
allo svuotamento determinato da ogni genere di trattato
economico che imponga un "vincolo
esterno": in essenza, si tratta di precisare i limiti e le
procedure di verifica democratica della
legittimazione e del modo di esercizio
del potere negoziale di coloro che sono chiamati
a trattare in nome e per conto dell’Italia.
E ciò rispetto ad ogni tipo di trattato internazionale, futuro ma anche passato e ancora in applicazione.
"Messo in sicurezza" questo presupposto imprescindibile di ogni iniziativa negoziale legittima entro il quadro dell'art.11 Cost., in un modo che rifletta, né più né meno, la reciprocità rispetto a quello che reclama (qui pp.2-3) un "contraente" come la Germania rispetto al proprio modello costituzionale, proviamo di conseguenza a ipotizzare in che modo si possano modificare i trattati europei attuali, nell'ambito di qualsiasi strategia volta a renderli sostenibili in coerenza con la tutela della sovranità democratica del lavoro delineata in Costituzione.
1.
L’‘ultimo Engels’: problemi di periodizzazione
Per definire correttamente il modo con cui l’ultimo Engels affronta sia il problema dello Stato che il problema della elaborazione di una strategia del movimento operaio per la conquista del potere è necessario, in primo luogo, risolvere, oltre alle difficoltà che sono proprie di uno studio rigoroso del pensiero dei fondatori del socialismo scientifico, una difficoltà specifica, consistente nel determinare in modo esatto l’argomento che si intende trattare, cioè, nel nostro caso, l’“ultimo Engels”. Così, l’esigenza di circoscrivere tale argomento può portarci, in prima istanza, ad estendere o a contrarre le frontiere cronologiche dell’indagine in funzione di criteri, che possono tutti risultare degni di interesse, senza però che nessuno di essi risulti pienamente soddisfacente. Se, ad esempio, si prende il 1890 come confine, abbiamo, ad un tempo, l’inizio di un decennio e il punto di partenza degli ultimi cinque anni della vita di Engels, in cui si còllocano almeno tre opere di capitale importanza: assieme alla Critica del programma di Erfurt (1891), l’Introduzione alla Guerra civile in Francia (1891) e l’Introduzione alle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1895), cioè due scritti con cui Engels non si limita a presentare le analisi socio-politiche di Marx, ma ne mette in rilievo il valore teorico e ne applica il metodo alla congiuntura specifica di quegli anni1 . Il limite di questa periodizzazione risiede tuttavia nel separare le opere testé citate da altri scritti che, per quanto anteriori, sono strettamente connessi a quelle opere dall’identità del tema, come la famosa Lettera a Bebel del 1875, da cui non si può prescindere se si intende svolgere un serio esame del pensiero di Engels sul problema dello Stato2.
Corbyn è riuscito a fare con il Labour ciò che Sanders non è riuscito a fare con i Democratici: ha trasformato il suo partito in un movimento: questo il commento che il New York Times dedica alla sconfitta di misura – che vale di fatto come una squillante vittoria – di Jeremy Corbyn nelle elezioni inglesi. Contro ogni aspettativa, contro l’unanime ostracismo di media ed élite, contro l’ala destra del suo stesso partito (che controlla la maggioranza del gruppo parlamentare), la quale auspicava una sconfitta per potersene sbarazzare, il “vecchio marxista” ha preso il 40% dei voti (con punte bulgare fra i giovani), sfiorando la vittoria nei confronti dell’algida Theresa May.
Come è stato possibile? Semplice: Corbyn ha saputo infondere entusiasmo in uno stuolo di attivisti che hanno convinto una generazione di ragazzi – i quali altrimenti non avrebbero votato - a sostenerlo; ora questi ragazzi non si professano laburisti ma “corbinisti”. Corbyn, come Sanders, è infatti un leader “populista” capace di coagulare il consenso trasversale di quella marea di cittadini (a partire dalla base sindacale inferocita dal tradimento del New Labour) che non si riconoscono nei partiti dell’establishment.
Ci riesce restituendo speranza con un programma dichiaratamente socialista (rinazionalizzazione delle ferrovie, accesso libero e gratuito all’istruzione superiore, miliardi per rivitalizzare la sanità pubblica – il tutto da finanziare con tasse duramente progressive su imprese e redditi elevati).
Sia chiaro io credo giusto riportare la copertura vaccinale nel nostro paese nei livelli di sicurezza convenzionale, ma dissento sull’imbroglio che il decreto rappresenta. L’imbroglio, vaccini a parte, sono i vaccinatori d’assalto. Per costoro i vaccini sono un treno che passa e che per tante e diverse ragioni di bottega conviene cogliere al volo perché un treno così perfetto non capita tanto di frequente.
Perché “imbroglioni”? Quando la scienza viene usata in modo scorretto per influenzare la politica e quando la politica è preoccupata di sopravvivere a se stessa, allora gli imbroglioni hanno un nome, si chiamano “tecnocrati”.
Si definisce tecnocrazia la tendenza ad affiancare il potere politico non per consigliarlo, secondo competenza, ma per soppiantarlo, assumendo in proprio la funzione decisionale. La razionalità della tecnocrazia che ha ispirato, controllato e validato il decreto è fondata su elementi meramente quantitativi, relegando nel mondo dell’irrazionale, quindi del deprecabile per definizione, tutto ciò che non è quantificabile, quindi tutto ciò che è sociale, culturale, personale.
Lo scandalo dei rapporti con la Russia col quale si cerca di far cadere il tycoon divenuto presidente Usa è un'indagine fumosa, con pochi elementi veri, ad alto rischio bufala. Ed è molto improbabile che porti all'impeachment
Ce la farà quella parte di America che si considera aperta, perbene e democratica a cacciare l’intruso Donald Trump? Forse sì, forse no. Ma se ciò avverrà, non sarà certo in virtù di ciò che ha stabilmente preso il nome di Russiagate. Perché lo “scandalo” dei rapporti tra il Presidente, i suoi uomini e la Russia, e dell’aiuto che il Cremlino gli avrebbe offerto interferendo nel processo elettorale, è come un miraggio: da lontano sei sicuro di vedere un’oasi, da vicino ti ritrovi con qualche illusione ottica e un mare di sabbia.
Il tutto si ripete con le cadenze regolari di quella che, in altri luoghi e in altre situazioni, chiamammo la “macchina del fango”. Prendiamo il Washington Post di ieri: dice di aver saputo da cinque persone che non si possono nominare (comodo, no?) che Robert Muelle (procuratore speciale incaricato di indagare sul Russiagate) vorrà incontrare alcuni dirigenti delle agenzie di sicurezza (e chi altri dovrebbe incontrare?) perché potrebbe persino ipotizzare di indagare su un reato di ostruzione alla giustizia da parte di Trump.
Con l’approvazione del documento finale proposto dall’Esecutivo uscente e l’elezione degli organismi confederali (Consiglio nazionale, Coordinamento nazionale ed Esecutivo nazionale) si sono conclusi questa mattina a Tivoli i lavori del secondo congresso dell’Unione Sindacale di Base. Tutte le decisioni, quando non all’unanimità, sono state adottate a stragrande maggioranza.
L’obiettivo per i prossimi 4 anni è l’articolazione di una proposta e di un progetto che consentano a un sindacato confederale generale di massa, come Usb è, di rispondere alle incessanti mutazioni che pongono sotto continuo attacco la classe lavoratrice.
Il congresso Usb, oltre a salutare con soddisfazione la crescita delle adesioni e i successi nelle ultime elezioni aziendali, ha anche acclamato la nascita della Federazione del Sociale, che racchiude le organizzazioni Asia (casa), Usb pensionati e il neonato Slang, il sindacato lavoratori autonomi di nuova generazione.
Proprio l’affacciarsi di molti giovani è stato sottolineato nelle conclusioni da Pierpaolo Leonardi: “Per noi un motivo di grande vanto. Non siamo soli, abbiamo davanti a noi quattro anni per la formazione del rinnovamento”. I giovani saranno anche i protagonisti dell’evento internazionale che Usb organizzerà a Roma il 2 e 3 novembre, su invito della Federazione Sindacale Mondiale (Wftu): il Congresso mondiale dei giovani lavoratori.
Come finire nella lista nera di un'organizzazione ipergovernativa filoisraeliana. Il caso di Enrica Perucchietti, autrice di False Flag. Un invito a non lasciar passare nessuna intimidazione di questo tipo. Ne va della libertà di parola di tutti
La caccia alle streghe continua. Il mio nome è finito nell'elenco dell'Osservatorio sull'Antisemitismo in quanto sarei "complottista". Sarei inoltre antisemita a causa del mio saggio False Flag (non se ne capisce il motivo).
È evidente che è in atto ed è sempre più violenta una campagna denigratoria e censoria volta a denigrare, censurare, distruggere, piegare chiunque non si allinei con il pensiero unico, il politicamente corretto e soprattutto il potere.
Io non ho mai parlato di "ebrei", semmai ho parlato di personaggi come Soros, o dinastie come i Rothschild non in quanto ebrei ma in quanto addentro a certe dinamiche di potere, dove troviamo molti eminenti cristiani e musulmani loro pari. Se parlo di Soros non è perché ebreo ma in quanto speculatore finanziario. Se non concordo con alcune politiche di Israele, ciò non avviene in virtù di qualche mio spirito antisemita o perché io sia fascista (cosa che tra l'altro, a differenza di personaggi ben più famosi di me, non sono).
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Il capitalismo intrattiene un
rapporto
peculiare, per usare un eufemismo, col mondo naturale. (1)
Karl Marx lo ha riassunto al meglio neiGrundrisse,
dove ha scritto che con
l’ascesa del modo di produzione capitalistico, “la natura
diviene puro oggetto per l’uomo, puro oggetto dell’utilità;
cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa
conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto
come
un’astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto
del consumo sia come mezzo della produzione”. (2) Nella stessa
sezione,
egli nota come “il capitale crea dunque la società borghese e
l’appropriazione universale tanto della natura quanto della
connessione sociale stessa da parte dei membri della società”.
Questo rapporto strumentale col mondo naturale contrasta bruscamente con le modalità attraverso le quali la natura è stata considerata, ed usata, dalle precedenti società umane. Un’interazione inedita con la natura emersa dalle violente trasformazioni sociali che hanno accompagnato lo sviluppo del capitalismo in Europa occidentale, estendendosi con la diffusione di tale sistema al resto dl mondo. Marx ha catalogato le molteplici forme di saccheggio e distruzione perpetuate dal primo capitalismo, nel suo rifare il mondo a propria immagine:
Il libricino
di Anselm Jappe, un
filosofo che insegna in Italia, è del 2013. Appena una
cinquantina di pagine, e pure piccole. In pratica come uno dei
post più lunghi di
questo blog. Tuttavia solleva in modo tutto sommato
interessante dei temi centrali anche se lo fa con un
linguaggio che per molti può essere
desueto, ma in effetti parla di cose che interessano più o
meno tutti.
Quando pone la questione, chiaramente marxiana, del valore ‘astratto’ e di quello ‘concreto’ (o connesso con il lavoro “vivo”, quello che facciamo nel tempo reale, appunto, della vita), e della riduzione di questo ultimo nella piattaforma produttiva del nuovo capitalismo, sta ponendo la questione che il lavoro coinvolge in posizione realmente utile, quindi produttiva, sempre meno e gli attribuisce sempre meno valore, dal momento che sempre più è catturato dal capitale (valore “astratto”) e dalle “macchine” (ovvero dall’insieme tecnico che rende possibile l’inserimento di input di lavoro nel circuito che lo rende scambiabile).
Nella prima
parte di questo articolo abbiamo dimostrato che le bolle
speculative originate sequenzialmente da precise scelte di
politica monetaria hanno
consentito di finanziare il deficit commerciale USA ed
espandere il PIL americano.
Tuttavia, soprattutto l’ultima di queste bolle, quella “monetaria” iniziata nel 2008, ha prodotto quasi $7.000 miliardi di liquidità in 8 anni che è finita in parte nelle maglie dei mercati finanziari e del sistema bancario, in parte in mano a sottoscrittori esteri (Cina e Giappone in primis) ed in parte ha alimentato una straordinaria impennata del debito privato USA (famiglie, imprese e banche) che nel 2016 ha raggiunto il 250% del PIL.
Tutto ciò pone la FED di fronte al maggiore dilemma di sempre: da un lato non può più abbassare i tassi ed espandere così la massa monetaria; dall’altro, non può aumentare i tassi ed evitare la fuga dal dollaro (già in atto per Cina e Giappone) perché questo provocherebbe costi immensi per interessi passivi alla sfera privata e pubblica dell’economia.
Quindi, il dollaro come strumento supremo di politica monetaria è inutilizzabile! Cosa fare?
L’unica possibilità praticabile è quella di un cambio di valuta, dove la vecchia va pian piano ad estinguersi tramite accordi bilaterali soprattutto con i Paesi creditori e la nuova subentra gradualmente secondo regole e termini che consentano alla FED di riacquisire controllo sul sistema monetario.
La disfatta del Movimento 5 Stelle alle comunali è pesante, quanto impossibile da attribuire soltanto agli accrocchi di liste ciniche fra le quali PD e Forza Italia si sono mimetizzati per vincere.
I candidati sindaci del M5S hanno perso dovunque e contro chiunque.
Hanno perso a Palermo contro Leoluca Orlando, che è sindaco da quando Grillo faceva ancora Domenica In.
Hanno perso a Parma contro Pizzarotti, che gli ha inflitto il gol dell’ex.
Hanno perso a Genova, dove si sono inutilmente rimangiati la prima delle loro stesse regole
Hanno perso a Trapani contro due candidati entrambi inquisiti, per corruzione e pericolosità sociale.
Hanno perso a Verona contro la Lega, e la fidanzata di Tosi.
Fino a una settimana fa sembrava che i grillini avessero la vittoria in tasca, che nessuna delle cazzate irresponsabili che combinano potesse davvero danneggiarli.
Cos’hanno sbagliato?
Hanno cercato di sembrare responsabili.
Il padronato è andato completamente in tilt sullo sciopero di venerdì scorso proclamato dai sindacati conflittuali. Con una compattezza senza precedenti – segno inequivocabile della riuscita dell’iniziativa – tutta la borghesia centrosinistra e centrodestra ha lanciato la sua vandea anti-sindacale. Andando completamente nel pallone, nella stessa pagina, negli stessi servizi al telegiornale, negli stessi commenti politici, si dichiarava prima l’esigua minoranza delle sigle promotrici (che, a detta loro, non rappresentavano alcunché nel mondo del lavoro), subito dopo dichiarando il blocco generale delle metropoli. Delle due l’una: o quei sindacati non rappresentano nulla, o i lavoratori hanno aderito in blocco. Ma la schizofrenia padronale ha raggiunto il livello massimo nel tentativo di delegittimare le ragioni stesse dello sciopero: non c’erano motivi comprensibili, dichiaravano all’unisono destra e sinistra, Repubblica e Corriere, Ichino e Camusso. In effetti lo sciopero verteva su due grandi questioni. La prima, la vertenza Alitalia, che vedrà il licenziamento di 2037 dipendenti su circa 11.000 (senza contare il peggioramento delle condizioni per chi rimarrà al lavoro). Undicimila dipendenti che sono il risultato di un quindicennio di tagli, visto che nel 2000 i dipendenti erano 20.000. Effettivamente, uno sciopero senza alcuna ragione. La seconda questione dirimente è la privatizzazione del trasporto pubblico cittadino, in particolare a Roma.
"I voti? Quanti voti? La sinistra ha perso il suo popolo durante i suoi governi, che io chiamo del suicidio. Lo ha regalato all’astensione, alla disperazione, ai Cinquestelle, alla Lega e persino a Fratelli d’Italia. Quindi mi terrei prudente, conterrei le speranze".
Luciano Canfora, il principe della filologia classica e sempre schierato sul limite estremo del pensiero di sinistra, è inesorabile nello stimare le percentuali di successo dell’arcipelago progressista nel caso si ritrovasse unito.
«Forse perché sono troppo vecchio e ricordo il flop dell’unificazione socialista. O perché in mente mi viene lo sfracello di voti che doveva prendere la Margherita quando diede vita al simbolo unico. E poi: flop. Oppure, ricorda?, all’altro sfracello annunciato dal Pd, il partito a vocazione maggioritaria. Walter Veltroni e la Giovanna Melandri ogni sera in tv con questa benedetta vocazione maggioritaria. Si autoproclamavano maggioritari. Mi ricordavano quelli che alla domanda perché il papavero facesse dormire, rispondevano: perché ha la virtus dormitiva. Irresistibile come spiegazione».
Le viene in mente il fallimento delle varie fusioni fredde.
«È la storia che ce lo dice.
I probabili cento morti bruciati vivi nella Grenfell Tower di Londra non stanno suscitando lo scandalo che meriterebbe un strage criminale di tali proporzioni. Forse perché si pensa che la Gran Bretagna sia uno dei paesi più avanzati del mondo e non si riesce a concepire lì un massacro che fa venire in mente quello di Dacca, in Bangladesh, dove centinaia di operai furono travolti dal crollo di un palazzo privo di qualsiasi sicurezza, ove lavoravano per multinazionali come Benetton.
Immaginate se una simile tragedia fosse avvenuta a Roma o Napoli, immaginate cosa avrebbe detto e scritto il palazzo sui guasti storici, sulle arretratezze, sul ritardo dell’Italia. Invece su Londra tutto tace, a parte il doveroso ricordo delle vittime.
Bene lo diciamo noi: la strage della torre è il segno che la Gran Bretagna è un paese sprofondato nella ferocia sociale e civile, un paese dove le enormi ricchezze coprono ancora più grandi ingiustizie e miserie, alimentate da un potere di classe tra i più duri e ottusi al mondo.
Il grattacelo bruciato sorgeva nel quartiere di Kensigton-Chelsea, uno dei più ricchi e famosi della capitale britannica. In quel quartiere era stato costruita negli anni 70 la Grenfell Tower come edificio popolare di proprietà pubblica.
Oggi, prendendo spunto dalla morte di Kohl, mi voglio esercitare in una di quelle decostruzioni delle narrazioni ufficiali che a volte sembrano troppo fantasiose o troppo forzate, ma che comunque contegono un nucleo di verità incontestabile. Parto da una notizia in qualche modo inaspettata che giunge da Berlino: Germania e Austria hanno espresso forti critiche sulle ultime sanzioni statunitensi contro Mosca, dicendo che potrebbero pregiudicare le imprese europee impegnate nella costruzione di gasdotti per portare in centro Europa il gas naturale russo. Impegnate in sostanza a bypassare attraverso il North Stream Ucraina e Polonia, ossia i due Paesi più antirussi per tradizione o per golpe che vi siano sul continente, cosa che come si può immaginare dispiace in maniera eccezionale a Washington.
Ora basta prendere questo fatto, ribaltarlo, tirarne le conseguenze e abbiamo una nuova filigrana di lettura della realtà nella quale l’assalto all’Ucraina, i pasticci in Turchia e successivamente in Iran e Qatar, fanno sì parte della strategia di accerchiamento della Russia per impedire una ripolarizzazione mondiale, ma hanno come importante punto iniziale questioni interne, in pratica il salvataggio delle aziende petrolifere impegnate nel fracking e tutto l’alone di speculazione borsistica attorno ad esse.
Una coscienza culturale europea esiste ed esiste una
serie di manifestazioni di
intellettuali e uomini politici che sostengono la
necessità di una unione europea: si può anche dire che il
processo storico tende a
questa unione e che esistono molte forze materiali che
solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni
questa unione verrà realizzata
la parola nazionalismo avrà lo stesso valore archeologico
che l’attuale municipalismo (Antonio Gramsci, 1931)
A partire dallo scoppio della crisi, non pochi economisti si sono interrogati sui costi e i benefici dell’abbandono dell’euro da parte dell’Italia. Gli argomenti a favore dell’exit sono piuttosto deboli, soprattutto a ragione della impossibilità di prevedere cosa potrebbe accadere. Più in generale, l’intera discussione appare di scarsa rilevanza se si considera che il problema è intrinsecamente politico.
Non vi sono dubbi sul fatto che l’attuale architettura istituzionale dell’eurozona e le politiche di austerità messe in atto negli ultimi anni siano assolutamente irrazionali.
Il confronto di Theodor W. Adorno con il pensiero di Marx è un elemento costante della sua riflessione. Ne parla Stefano Petrucciani nel suo appena uscito "A lezione da Adorno" (manifestolibri), una raccolta dei suoi studi più significativi come interprete di Adorno. Ringraziamo l'autore e l'editore per averci autorizzato a pubblicare il seguente estratto
Un punto d’arrivo molto
interessante di questo “corpo a corpo” è un testo che Adorno
scrive nel 1968; esso viene presentato dal filosofo
francofortese
prima come relazione introduttiva al XVI congresso della
Società tedesca di sociologia che, per ricordare il
centocinquantesimo anniversario
della nascita di Marx, aveva scelto di mettere a tema la
domanda: Tardo capitalismo o società industriale?[1].
Successivamente il testo viene
letto nel grande simposio su Marx che si tiene a Parigi dall’8
al 10 maggio 1968 (mentre la rivolta studentesca è in pieno
svolgimento)
per essere poi pubblicato negli atti del suddetto convegno col
titolo È superato Marx?[2]
[…] Nel modo in cui la interpreta Adorno, invece, la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione è vista principalmente sotto l’angolo visuale della questione della tecnica. Le forze produttive non entrano in contraddizione con i rapporti perché gli sviluppi della tecnica sono determinati dai rapporti capitalistici in cui si inscrivono, e non possono dunque costituire una minaccia per tali rapporti. Già il Marx del Capitale segnalava come lo sviluppo di nuove tecniche di produzione non fosse solo funzionale a una maggiore efficienza, ma ancor più al controllo sul lavoro.
Il
concetto di decoro è
oggi tornato alla ribalta. Utilizzato come giustificazione
delle norme contenute nella Legge Minniti-Orlando,
accostato, come sinonimo, ai concetti di
«vivibilità» e «sicurezza», l’utilizzo di questo termine
occulta malamente un aumento dei poteri discrezionali e
repressivi degli apparati dello Stato (sindaci, questori,
apparati di polizia, ecc.).
In questo testo proviamo a riflettere sulle implicazioni culturali del suo utilizzo, sul suo portato ideologico e su come evitare di cadere nelle grinfie di questo concetto.
* * * *
Ogni nozione paga pegno al proprio tempo e al proprio luogo di origine. Le idee del mondo nelle quali queste prendono vita, ne costituiscono infatti l’essenza più genuina. Per questa ragione non esistono nozioni neutre, parole “libere”. Di più, poiché il senso di un discorso non è frutto della semplice somma delle singole proposizioni, né tanto meno dei singoli termini, ma è dato piuttosto dal lavoro solidale di tutti gli elementi che compongono un discorso (una teoria, una dottrina, una visione della del mondo…), è impossibile o quasi appropriarsi dei concetti senza fare i conti con le implicazioni di cui questi sono portatori.
Si è svolto a Roma un convegno con Francesco Tupone, Fabio Del Papa, Sergio Bellucci, Nino Galloni, Maurizio Acerbo, Michele Mezza, Glauco Benigni, Giulio De Petra e tanti professionisti, sindacalisti, attivisti del mondo digitale per discutere dell’impatto della Robotizzazione e della Intelligenza Artificiale sul lavoro e la vita delle persone
Net Left ha proposto un nuovo appuntamento sull’impatto dell’innovazione digitale nella società, con particolare rilievo a ciò che accadrà al mondo del lavoro. Esperti, giornalisti, economisti, politici e attivisti della rete si sono confrontati per 4 ore portando punti di vista, esperienze e analisi a conforto di ipotesi di lavoro da suggerire al mondo sociale, sindacale e politico.
Nei prossimi anni, il dato non viene più contestato da nessuno, le società umane vivranno l’impatto delle due principali innovazioni rese disponibili dalla potenza delle tecniche digitali: la robotica e l’intelligenza artificiale. Ma cosa significa, per gli assetti sociali, istituzionali, politici, economici, produttivi e di consumo tale impatto? Su questo impatto molte opinioni divergono, spesso in funzione delle culture di provenienza, della capacità di comprensione reale del portato di tale trasformazioni introdotte dal digitale, della età, dell’insediamento sociale e di classe.
Benché appaia come un discorso sulla logica e sul linguaggio, il pensiero di Wittgenstein è profondamente nichilista. Il suo presupposto culturale è la logica-matematica sviluppatasi nel corso del 1800, che sostituisce il linguaggio naturale con un sistema di segni convenzionali, al fine di rendere inequivoche le dimostrazioni matematiche. La matematica ne ebbe bisogno da quando, con il sorgere delle geometrie non-euclidee, l'esperienza non le offriva più un riscontro percettivo; ma la verità consiste proprio in questo riscontro: la crisi della verità matematica provocò una reazione nel senso del rafforzamento della certezza. Nella scienza, infatti, non conta soltanto la verità; non meno importante è la necessità, la dimostrazione con cui si ottiene la certezza. Insomma l'importanza del rigore nelle dimostrazioni, che nei secoli moderni precedenti l'Ottocento ero stato piuttosto trascurato, fu riscoperta con la crisi della verità e questa riscoperta incoraggiò la costruzione di linguaggi artificiali che evitassero le ambiguità dei linguaggi naturali. Con questi sistemi di simboli artificiali si andò a rigorizzare la matematica, ossia a dedurne tutti i teoremi da pochi assiomi, quello che aveva già fatto Euclide nel III secolo a. C. con la matematica greca - con una differenza peggiorativa, però: gli assiomi da cui dipende la matematica moderna non hanno immediata verità, non hanno un'evidenza percettiva come lo spazio, il punto, la retta, hanno con la verità un rapporto soltanto problematico; di per sé rappresentano soltanto le ipotesi necessarie alla validità dei teoremi accettati.
La cosa migliore che mi sia capitata questa settimana è essermi accorto di un grave errore commesso parlando delle elezioni britanniche: fidandomi delle posizioni che c’erano state al momento del referendum sul Brexit, immaginavo che Corbyn, l’unico vero vincitore delle politiche della setttimana scorsa, fosse rimasto sulle blande posizioni favorevoli al Remain, il che naturalmente poneva non pochi interrogativi sul senso da dare alle elezioni inglesi e sulla sincerità nel Labour nel proporre una nuova grande stagione di interventi pubblici e di nazionalizzazioni, nel quadro però di un’Europa che di fatto li vieta, presa com’è dall’ossessione privatistica.
La cosa mi è parsa così strana che mi sono andato a leggere qualche discorso elettorale di Corbyn e ho scoperto che in realtà il leader laburista, senza che queste informazioni giungessero al lettore e tanto meno al telespettatore, aveva già fatta propria la linea del Brexit fin dall’inizio della campagna elettorale, sostenendo che il Regno Unito può star meglio al di fuori della Ue e ribadendo questo concetto in tutte le occasioni anche se distinguendosi nettamente dal brexit xenofobo e proponendo logiche diverse rispetto al blocco dell’immigrazione che era nei sogni dei conservatori.
Maggio è il mese della febbre delle tesine. Ossia: i più di cinquecentomila studenti che tra un mese affronteranno l’esame di stato, ovvero quello che chiamiamo la maturità, devono preparare una breve ricerca di una quindicina, una ventina, di cartelle che, a partire da un certo argomento, s’impegni a toccare più materie possibile. I ragazzi per lo più vanno nel panico: cercano di arrangiarsi. Se hanno cominciato a chiedere lumi già al primo quadrimestre, arrivati a questo punto dell’anno mostrano schemi strampalati con un sacco di frecce.
“Porto il Mistero: così ci metto il velo di Maya in Schopenhauer, l’enigma di Edipo in greco, il codice Enigma in storia, e i numeri irrazionali in matematica, che ne dice prof?”.
Invece di guidarli, correggerli, c’è forse solo da compatirli. “Ho pensato che posso parlare del rapporto tra uomo e natura in tutta la storia”, “Prof, ma se parlo del fascismo poi posso mettere i cereali in biologia per la battaglia del grano?”, “Io volevo fare una tesina con tutti i segni dell’oroscopo, collegando ogni materia a un segno”. “Io porto il Sonno”, “Io porto la Pizza”, “Io porto la Tristezza”, “Io porto un romanzo fantasy che ho scritto”. Senza contare i classici della tesinografia: il doppio, il viaggio, il sogno…
Il 16 giugno i lavoratori della logistica e dei trasporti incroceranno le braccia a seguito dello sciopero nazionale indetto dai sindacati di base per il rinnovo del contratto. Ecco quale è la posta in gioco
Venerdì 16 giugno i lavoratori del settore logistica e trasporti incroceranno le braccia, a seguito dello sciopero nazionale indetto dai sindacati di base, in vista del rinnovo del contratto collettivo di riferimento. Una decisione che conferma l’alto tasso di conflittualità che attraversa l’intero comparto, investito negli ultimi anni da numerose vertenze che hanno riguardato grandi gruppi industriali come Coca Cola, TNT, GLS, Alitalia.
La logistica è diventato il motore di una nuova ondata di mobilitazioni che stanno ridisegnando il perimetro della lotta operaia, trasformando il quadro sindacale e l’intero assetto delle relazioni industriali. In questo contesto, si situano le rivendicazioni dei sindacati di base (Adl Cobas, Si Cobas, Cub, Sgb, Slai Cobas, Usi) che oggi confluiscono in una piattaforma per il rinnovo del CCNL. Tra le richieste avanzate al tavolo delle trattative vi è il riconoscimento del pluralismo della rappresentanza e del diritto a incidere sul sistema di nomina delle RSA e RSU a livello aziendale, nonché un ruolo di primo piano nella contrattazione nazionale.
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Tratto dall'affascinante libro di Mike Davis "La Città di Quarzo" (Manifestolibri - 1993), un potente affresco dedicato al "noir" dove si intrecciano politica, letteratura, cinema e vicende umane, sul grandioso sfondo di una dura e "postmoderna" metropoli, che allora era il futuro e oggi, forse, il passato: Los Angeles.
Ho inserito, naturalmente, musica per i pazienti: Swans, Dead Kennedys, X e Art Pepper
Noirs!
Nel 1935, il famoso scrittore radical Lewis Corey (il cui vero nome era Louis Fraina) annunciò nel suo Crisis of the Middle Class che il «Sogno Jeffersoniano» era moribondo: «Quell’ideale middle class è finita, e non la si può far risorgere. Oggi gli Stati Uniti sono una nazione di lavoratori dipendenti e di diseredati». In un momento in cui contabili senza lavoro e agenti di borsa in rovina stavano in coda per un piatto di minestra a fianco di camionisti e di operai delle acciaierie, il bigottismo middle class degli anni ’20 era ormai costretto a nutrirsi solo di un obsoleto orgoglio di classe. Corey avvertiva che una classe media in caduta verso il basso, «in guerra con se stessa», stava avvicinandosi a grandi passi a un crocevia radicale, dal quale si sarebbe diretta o verso il socialismo o verso il fascismo.
L’evocazione del duplice fenomeno di pauperizzazione e di radicalizzazione della classe media trovava un riscontro letterale e appropriato a Los Angeles nei primi anni ’30, più che in qualsiasi altra parte del paese.
La strana versione del concetto di "lavoro improduttivo" in Robert Kurz e come la sua risposta alle critiche aumenti la confusione
Presentazione
Uno dei dibatti più importanti sull'opera marxiana è quello che tratta della definizione di lavoro produttivo. Fondamentale, ai fini della comprensione più profonda dei significati della critica dell'economia politica, questo dibattito non si è mai trovato ad essere in primo piano fra gli epigoni, gli interpreti o i detrattori di Marx, diversamente da quel che è avvenuto con le polemiche intorno agli schemi della riproduzione, o della trasformazione dei valori in prezzi. Tuttavia, dal punto di vista categoriale, il problema del lavoro produttivo precede dal punto di vista logico: non sarebbe possibile comprendere gli schemi allargati di riproduzione, senza una distinzione rigorosa fra il "lavoro che aggiunge valore" ed il "dispendio improduttivo di forza lavoro" (Marx), così come non ha senso discutere su come il valore si manifesta sotto forma monetaria se non si mette al centro la "sostanza" del valore e, di conseguenza, senza conoscere la differenza fra valorizzazione e capitalizzazione.
Nel corso del XX secolo, alcuni autori hanno affrontato questo tema, come è avvenuto per quel che riguarda Isaak Rubin, nel 1923 (La teoria marxista del valore) ed Ernest Mandel, nel 1967 (Il capitale: cento anni di polemiche sull'opera di Marx), ma entrambe le riflessioni hanno naufragato.
Che cosa
cerca, che
cosa trova, che cosa, al più, spera di trovare o s’impone di
cercare il turista impegnato a farsi un selfie davanti
a
una di quelle cattedrali della simulazione imperfetta che sono
le varie “venezie” in replica sparse per il globo?
Prendiamo The World, il parco a tema vicino a Pechino.
Le Piramidi, il Partenone, i moai dell’Isola di Pasqua. Tutte riproduzioni, certamente. Ma, in scala o meno che siano, queste riproduzioni giocano un ruolo nella costruzione di un immaginario, così come i turisti giocano una parte in qualcosa che eccede questo immaginario sfondando in un campo, il “turismo”, che stentiamo a elaborare a pieno. Tutto suona inautentico, in questo gioco fra ruolo e parte, non fosse che per il fatto che una parte di quel tutto, in qualche modo, resiste e sfugge al circolo, fin troppo vizioso, del “post-”.
Anche del turismo odierno si è parlato in termini di post-turismo, forse perché nel fenomeno del turismo di massa e della nozione di “città turistica” che vi si connette si è tardato a cogliere la valenza epocale e il “post”, in questo come in molti altri casi, è valso da esorcismo.
Non guardo quasi mai la televisione e ci ho messo almeno un giorno per vedere il finto duello, con colpi telefonati, tra Porro e Farinetti, con l’irruzione – questa vera e tagliente – di Marta Fana, ricercatrice di economia a Scienze politiche a Parigi, che affonda accuse al padrone di Eataly. Accuse già comparse su libri, articoli e volantini sindacali, ma che nessuno aveva avuto il coraggio di scagliargli contro in diretta televisiva: sottomansionamenti, formazione pagata dai fondi europei e altre furbate a tutele decrescenti.
Com’è andata potete vederlo qui sotto. Porro ha dovuto ammettere che in realtà di fronte a una critica vera tocca prendere le parti di Farinetti mentre la conduttrice dava l’impressione di voler arginare un torrente che rifiutava di stare nelle briglie di contenimento.
E poi il miracolo: mentre Marta parla, il sorriso di Farinetti si spenge. Il sorriso hungry and foolish si irrigidisce in una smorfia e gli occhi del padrone si fanno piccoli. Farinetti capisce che stavolta non c’è il solito tappeto rosso steso dalla Langa fino allo studio televisivo. E non trova altra via d’uscita che la minaccia, l’uso della querela per imbavagliare l’incauta ricercatrice che continua a snocciolare cifre e fatti. Cifre che parlano di diritti violati, di tutele ridotte, di operai sfruttati.
Dedicando due pagine piene – la due e la tre – allo sciopero dei trasporti del giorno precedente, il Corriere della Sera di sabato 17 giugno lancia l’ennesima crociata contro il diritto di sciopero e di associazione sindacale. Decodificare il messaggio di fondo – cosa aspettiamo a metterli fuorilegge? – è facile, ma vale la pena di leggere fra le righe per approfondirne alcuni aspetti. Partiamo dai titoli. Il pezzo di sinistra, quello che fa la cronaca degli effetti dello sciopero, inalbera sopra il titolo a effetto “Città in coda aerei a terra”, un occhiello che apre così: “Lo sciopero delle sigle minori blocca i mezzi pubblici”, frase che contiene un evidente paradosso: se le sigle sono “minori”, come mai riescono a bloccare i mezzi pubblici e a raccogliere elevate percentuali di adesione da parte dei lavoratori (che a Palermo, rivela lo stesso articolo, hanno toccato il 78%)? Identica considerazione vale per il titolo della pagina di destra, che ospita una lunga intervista al presidente dell’Autorità di garanzia per gli scioperi, Giuseppe Santoro Passarelli: “Bisogna impedire che un sindacatino fermi tutta l’Italia” (sindacatino? Ma allora come fa a fermare tutta l’Italia?).
Il vero problema, sul quale il Corriere glissa, è che “sigle minori” e “sindacatini”, a mano a mano che i lavoratori prendono atto dell’incapacità delle centrali confederali di difenderne gli interessi, tendono a rivolgersi a Cobas, Cub e Unione Sindacale di Base, tanto per citare le sigle più conosciute.
Come da copione, ogni volta che si avvicina una tornata elettorale di una certa importanza tornano a squillare le trombe de “l’unità della sinistra”. L’ennesima messa in scena di una coazione a ripetere stancante quanto inefficace (anche dal punto di vista stesso dei promotori) ha riempito domenica scorsa il teatro Brancaccio a Roma.
Grandi speranze, polemiche, divisioni, applausi e fischi, soprattutto calcoli elettorali. Sì, perché a unire tutti appassionatamente – ma solo fino al giorno dopo le elezioni, poi ognuno andrà per la sua strada – sono soprattutto i calcoli elettorali di quel ceto politico che si compone e scompone da anni in una eterna transumanza da una sigla all’altra, in cerca non di una unità di programmi e di metodi, ma sostanzialmente della rappresentanza istituzionale. Entrare nelle istituzioni, da quando le sinistre si fecero incastrare nei governi di centrosinistra divenendo oggettivamente corresponsabili dei disastri sociali e politici dei vari Prodi e D’Alema, si è fatto molto difficile: perché i sistemi elettorali varati negli ultimi anni sono stati pensati esplicitamente per escludere le sinistre e, particolare di non poco conto, perché queste ultime, nelle loro varie e spesso fantasiose accezioni, hanno perso ogni residua credibilità agli occhi dei loro tradizionali referenti sociali.
Lo è come tutte le grandi stragi che dal 1969, da piazza Fontana, a quella della della stazione di Bologna nel 1980, hanno insanguinato il paese.
Mano fascista, regia democristiana, gridavamo. E voleva dire che sapevamo che le bombe le mettevano sì i fascisti, anche se all'inizio per Milano si inventò la pista anarchica, con Valpreda, per la quale fu ucciso Pinelli. Le bombe le mettevano i fascisti, ma le complicità di stato erano enormi e la sentenza su Brescia ci dà solo il quadro del primo e del secondo livello degli assassini, il bombarolo e il suo protettore nei servizi segreti. Sopra ci sono altri livelli di complicità e coperture nello stato e da parte dello sporco mondo dei servizi USA. E questi ancora l'hanno fatta franca.
Si chiamava strategia della tensione ed era la reazione di una parte dello stato e delle forze e dei poteri reazionari al movimento che stava cambiando il paese a partire dal 1968. E gli USA nel 1967 avevano organizzato il golpe fascista dei colonnelli in Grecia, nel 1973 quello contro il socialista Allende in Cile. Che veniva usato come minaccia contro l'avanzata delle sinistre in Italia, con Kissinger che disse che non voleva gli spaghetti in salsa cilena.
Ha
ragione Pier Luigi Ciocca, sul fatto che l’uscita dall’euro
sarebbe per l’Italia una scelta disastrosa da tutti i punti di
vista? O
ha ragione Alberto Bagnai, secondo cui queste catastrofi
annunciate sono dello stesso tipo di quelle pronosticate per
la Brexit, per il referendum
costituzionale italiano, per l’elezione di Donald Trump, che
non si sono poi verificate? Rispetto a queste posizioni gli
economisti si schierano
in modo trasversale rispetto sia alle scuole accademiche che
alle aree politiche. Una chiara esposizione dell’una e
dell’altra tesi si
può trovare nell’Almanacco di MicroMega in edicola da questa
settimana, con un titolo che è già un programma: “Solo
l’uguaglianza ci può salvare”. Per chi si interessa di queste
tematiche è una vera miniera di idee e di analisi, con
contributi di numerosi studiosi anche di diversi orientamenti.
Ciocca si basa sull’analisi dei comportamenti dei mercati e degli investitori. Le aspettative di svalutazione e inflazione, afferma, farebbero schizzare in alto i tassi d’interesse e crollare i valori patrimoniali; si renderebbe necessaria una politica che darebbe luogo alla terza recessione dal 2007, e questo probabilmente darebbe il colpo di grazia a un sistema bancario già duramente provato. “Le tensioni da economiche diverrebbero sociali, politiche, istituzionali fino a porre a repentaglio le stesse basi democratiche del vivere”.
Bagnai esamina invece ciò che è accaduto in passato in casi assimilabili, e ne trae la conclusione che nulla di tutto questo dovrebbe avvenire. Non una forte inflazione, perché l’esperienza dimostra che la svalutazione del cambio – che non avviene di colpo, ma in un lasso di tempo di alcuni mesi - non si trasferisce sui prezzi: semmai in piccola parte, ma non è neanche detto: dopo la forte svalutazione del ’92, per esempio, l’inflazione scese.
1. Mi
perdonerete se nell'affrontare il problema dello ius
soli svolgerò alcune premesse, traendole da
argomenti già
trattati.
Il problema, come vedremo, è complesso.
Non di meno, se avrete la pazienza di seguire fino in fondo, si tratta di una questione che può essere assunta in una prospettiva diversa da quella che suscita oggi le più grandi (e peraltro legittime) resistenze. E questa prospettiva si può riassumere in un detto: "il diavolo fa le pentole ma non i coperchi".
Tutto, abbastanza naturalmente, parte dalla crisi demografica del nostro Bel Paese...
Ma prima di affrontare un "richiamo" su questo aspetto, mi piace rammentare le parole di Mortati, (per chi si fosse messo "in ascolto" da poche puntate, si tratta del maggior costituzionalista italiano del dopoguerra) il cui senso, vi parrà chiaro leggendo il seguito del post (dalle "Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, pagg.125-126):
Ancora oggi c'è chi sostiene che
Shakespeare sia soltanto un nome fittizio dietro cui si celano
altri autori. In particolare si pensa a Michelangelo Florio,
frate ed erudito
fiorentino, di origine ebraica e siciliana, rifugiatosi a
Londra dopo una serie di peregrinazioni in varie parti
d'Italia per cercare di sottrarsi
alle persecuzioni dell'Inquisizione, dal momento che aveva
aderito al calvinismo. A Treviso abitò nel palazzo di Otello,
un nobile
veneziano che, accecato dalla gelosia, aveva ucciso anni prima
la moglie Desdemona. A Milano s'innamorò di una contessina, Giulietta,
che, dopo essere stata rapita dal governatore spagnolo, decise
di suicidarsi.
Ma si pensa anche al figlio di Michelangelo, Giovanni, nato nel 1553, destinato a diventare un grande linguista e traduttore (conosceva perfettamente italiano, francese, tedesco, spagnolo, inglese, latino, greco ed ebraico, oltre alla lingua toscana e napoletana). Shakespeare sarebbe stato, al massimo, un attore-prestanome, senza talento per la scrittura. La moglie del primo Florio aveva come cognome Crolla- o Scrolla - Lanza, che, tradotto in inglese suona proprio come "shake the speare" (scrolla la lancia).
Abbiamo letto gli appelli di Rifondazione e Possibile a Sinistra Italiana“per una sinistra unita contro questo governo”. Gli appelli di Sinistra Italiana a Mdp che sostiene questo governo. Gli appelli di Mdp “per unire il fronte del No al referendum” a Pisapia che ha votato Sì al referendum. Gli appelli di Pisapia a Renzi (“Non è un mio avversario, il mio avversario è il centrodestra”: cioè l’alleato di Renzi). Gli appelli di Renzi e del Pd a Confindustria e a Berlusconi (“Silvio, lascia Salvini!”). Gli appelli di Berlusconi a Salvini, di Salvini a Meloni, di Meloni a Casa Pound, di Casa Pound a Nina Moric che si candida con la promessa di rispedire gli immigrati a casa loro (se vince, torna in Croazia). Li abbiamo letti tutti gli appelli, compresi quelli, inascoltati, di Cuperlo a Cuperlo: “Se il Pd fa l’accordo con Berlusconi i nostri elettori ci abbandoneranno!”. E torneranno a votare per Berlusconi.
Renzi ha poi sfanculato Mdp (“Ai fini elettorali è ininfluente”: il Pd è in grado di perdere anche senza D’Alema) e ha sfanculato Pisapia (“Con lui solo se lascia D’Alema, da D’Alema e Bersani solo risentimento personale”: vero anche questo, volevano essere loro a sfasciare il Pd). Pisapia ha sfanculato Sinistra Italiana, compiacendosi che “al nostro appello per unire il centrosinistra hanno risposto in molti”.
Quando Montanari dice “mai con il Pd e con il centrosinistra” è in buona fede. D’altra parte, dietro di lui c’è D’Alema, che non potrà più costruire alcun rapporto umano e politico con Renzi.
In verità, sono gli assetti politici del prossimo Parlamento ad escludere, per inutilità, SI/Lista Falcone-Montanari da qualsiasi schema coalizionale. Un Berlusconi che non potrà più fare alleanze con Salvini, che chiede lo scalpo della leadership di centrodestra, potrebbe mettersi insieme al Pd renziano ed alle fronde centriste alfaniane, perché questa è, numericamente, l’unica ipotesi di maggioranza parlamentare fra “sistemici” che possa essere costruita. In questo caso, Pisapia finirà nell’insignificanza, se l’operazione di ricucitura di Prodi e D’Alema non avesse successo, oppure, più probabilmente, si alleerà con questa larga coalizione, facendone la coscienza critica (di facciata). Risucchiando nuovamente tutta o parte di Mdp, e lasciando all’opposizione il resto della sinistra.
Ovviamente, nel caso ipotetico in cui M5S, Lega e Fratelli d’Italia riuscissero a fare una coalizione di antisistemici, a maggior ragione non ci sarebbe alcuna alleanza con il Pd, visto che tutti starebbero all’opposizione per conto loro.
Ma il punto vero è un altro. Il punto vero è sul programma e sulla capacità organizzativa di costruirlo ed imporlo.
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/619/570
Che la teoria di Marx sia una delle poche ad avere qualcosa da dire per dar conto delle dinamiche sociali ed economiche tuttora in atto è dimostrato dal crescente interesse che essa continua a riscuotere, a dispetto di chi la vorrebbe morta e sepolta sotto le macerie del cosiddetto “socialismo reale”.
Tutto ciò nonostante, a livello ufficiale/accademico, si cerchi di farne a meno, anche attraverso una capillare operazione tesa a rimuovere quelle cattedre, quegli insegnamenti, quei corsi che qualcosa avrebbero a che fare con l’autore tedesco e la storia successiva che a lui, a torto o a ragione, si è ispirata. I tempi tuttavia sono maturi per riprendere un discorso interrotto; si tratta di una maturità che sta, più che nei discorsi, nelle cose; concetti come accumulazione, sfruttamento, esercito industriale di riserva (leggi disoccupazione di massa strutturale), capitale finanziario ed ancora lotta di classe, mondializzazione, concorrenza transnazionale ed imperialismo: difficile capire qualcosa del “mondo attuale” senza avere queste categorie alle spalle e l’unica teoria – o una delle poche – che si è assunta la responsabilità di pensare criticamente tutto ciò è quella di Karl Marx.
Jacques Sapir commenta il risultato del secondo turno delle elezioni legislative francesi, da cui è emersa la frattura drammatica tra la soverchiante maggioranza raggiunta da Macron e il paese reale, che per la stragrande parte ha votato altri partiti o non ha votato. La “nuova” (in realtà perfetta prosecuzione ideologica della precedente) maggioranza dovrà dunque governare con un potere ancora maggiore e una crisi di legittimità ancora più grave. Sapir esorta tutte le forze dell’opposizione “sovranista” a combattere una comune battaglia politica nelle piazze – là dove i numeri ci sono
Il consolidarsi dei risultati del secondo turno delle elezioni legislative mostra ancora di più l’ampiezza con cui si è manifestato il rifiuto del voto. Se si sommano astensione, schede bianche e schede nulle – voti, questi ultimi, in forte aumento dal primo al secondo turno (da 500.000 a 2 milioni) – si supera il 61,5%, cifra data dal 57,36% delle astensioni più il 4,20% di schede bianche o nulle. Questo significa che appena il 38,5% degli elettori aventi diritto (ossia 18,31 milioni su 47,58 milioni) ha espresso effettivamente un voto al secondo turno. L’ampiezza del rifiuto del voto, a prescindere da quale forma abbia assunto, spinge a porsi alcune domande sul senso stesso di queste elezioni.
Da qualche tempo molte aziende del tonno in scatola, accompagnate dai turibuli di organizzazioni come Greenpeace legate a una impossibile visione di ecologia senza cambiamento di paradigma produttivo, vi fanno pagare parecchio di più per il tonno cosiddetto sostenibile, ovvero quello pescato a canna, dizione sotto la quale è presumibilmente compresa anche la pesca con reti a circuizione. Ma basterebbe fare due più due per capire che cercare di vendere la stessa quantità di tonno in scatola di prima se non ancora di più non ha assolutamente nulla nè di sostenibile, nè di responsabile dal momento che proprio l’eccesso di pesca di questa specie (4,2 milioni di tonnellate l’anno) sta depauperando i mari: non è certo aggiungendo al normale saccheggio uno sfruttamento che teoricamente dovrebbe essere meno oneroso per la biosfera, che può cambiare la situazione.
Ma, come dire, la nuova tonnara non si trova in mare, ma sulla terra ferma dove la crisi ha reso dispobile manodopera a costi bassissimi che può stare ore a buttare l’amo e a pescare, beninteso nel mezzo di un banco di tonni individuati con tecnologie sofisiticate e mantentuti assieme con trucchi che fanno credere ai tonni di essere in presenza delle loro prede preferite. Uno via l’altro insomma, senza sosta.
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Pubblichiamo la prefazione all’edizione italiana del libro di Pierre Dardot e Christian Laval, Del Comune, o della rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, 2015
La riflessione sui beni comuni si è diffusa
nelle direzioni e nei luoghi più diversi, si insinua in vario
modo nel discorso pubblico,
si è candidata a divenire l’unica via possibile per una
trasformazione rivoluzionaria. La sfida è ardua, come ben si
vede, e
questo libro ne è la prova. E non poteva essere diversamente,
perché attraverso il riferimento ai beni comuni si affronta il
nodo di
questa fase storica che ha visto il ritorno della proprietà
come misura di tutte le cose, nella forma estrema della sua
dematerializzazione,
della sua astratta inafferrabilità come capitale finanziario.
Non è certo un caso che il ritorno dell’attenzione per i beni
comuni
sia avvenuta all’insegna dell’«opposto della proprietà».
Oltre il mercato e lo Stato, oltre il pubblico e il privato. Oltre, dunque, le categorie costruttive della modernità. Dove si colloca questa dimensione?
Ma come deve essere intesa questa opposizione, quali sono i suoi luoghi, quali le sue forme? Questa è una domanda che rinvia a una molteplicità di situazioni, a forme che sfuggono alla riduzione a denominatori comuni, a una ricchezza di esperienze che mostrano una realtà che deve essere analizzata e intesa nelle sue articolazioni.
Ogni grande opera dell'ingegno
umano risente,
inevitabilmente, del suo tempo. Questo è vero anche per Das
Kapital, un monumento dell'ingegno umano che non perde
forza né
attualità con il passare del tempo, e semmai, sull'essenziale,
ne acquista. E tuttavia chi lo affronta non può non sentire
fin da
subito, nella forma dell'esposizione anzitutto, l'eco delle
dispute scientifiche e culturali di metà Ottocento. Non mi
riferisco tanto allo
stile della scrittura che ricevette un'impensabile
stroncatura senza appello proprio dalla più acuta allieva di
Marx, Rosa Luxemburg,
che in una lettera del marzo 1917 ebbe a scrivere: "il
famosissimo primo volume del Capitale di Marx, con il
suo sovraccarico di ornamenti
rococo in stile hegeliano, per me adesso è un orrore"1
. Mi riferisco piuttosto alla struttura, alla sequenza
della esposizione della
materia. E, nello specifico, al modo in cui la materia è
organizzata e esposta nel I Libro. Pongo la questione nel modo
più chiaro
possibile: perché Marx comincia dalla immane raccolta di
merci, cioè dal modo di produzione capitalistico già formato,
dal
capitale-merce come risultato del processo di sviluppo
dei rapporti sociali capitalistici, e non invece dalla
cosiddetta accumulazione
originaria, e cioè dal punto di partenza del modo di
produzione capitalistico? Cosa l'ha obbligato a fare
questa scelta?
Traduciamo qui un’intervista di Le Vent Se Lève a Juan Carlos Monedero, cofondatore di Podemos e professore di scienze politiche all’Università di Madrid
Si sente spesso dire che Podemos
è
nato sulla base di un’«ipotesi populista» costruita a
partire dai lavori del teorico argentino Ernesto Laclau e
delle esperienze
latino-americane. Sei stato uno dei primi fondatori del
partito ad opporsi a questa «ipotesi», considerandola una
“tattica”
più che una “strategia”. In effetti, già in un articolo
apparso nel giugno 2015 presentavi le debolezze di questa
impostazione. Potresti tornare su queste critiche in merito
alla logica populista?
Ernesto Laclau non ha avuto alcuna influenza nella creazione di Podemos: questa è stata un’intellettualizzazione a posteriori. Sapevamo quello che dovevamo fare, non perché un teorico ce l’aveva dettato, ma prima di tutto grazie alle nostre esperienze in Spagna e America Latina: sapevamo che non bisognava più parlare di destra e di sinistra, sapevamo che la vita politica mancava di emozione. Lo sapevamo non per aver letto Spinoza, ma perché potevamo percepirlo grazie alle nostre stesse esperienze.
A Torino, dopo i gravi fatti di ordine pubblico in piazza San Carlo e dopo gli scontri avvenuti nel quartiere Vanchiglia tra “popolo della notte” e forze dell’ordine, i centri sociali vicini al sito www.infoaut.org, che un anno fa avevano appoggiato l’elezione dell’attuale sindaco cinque stelle Chiara Appendino, sconvolti dal fatto assolutamente inedito che ”le promesse della campagna elettorale vengano disattese una dopo l’altra”, tentano un’analisi dei tafferugli. Per spiegarsi il fenomeno incomprensibile per cui, agenti del reparto celere, improvvisamente, in tenuta antisommossa, abbiano iniziato a caricare alla cieca fra i tavolini dei locali della movida famiglie, bambini, studenti ed occupanti dell’Askatasuna, proprio per far rispettare un’ordinanza della sindaca, i redattori di infoaut ricorrono alla teoria del complotto: “la sindaca, i suoi assessori e i suoi consiglieri continuano a cadere volentieri in (…) trappole, (…) innescate dalle opposizioni con polemiche sterili o (…) attrezzate con molta più furbizia da questura e prefettura”1 .
Anche se l’analisi di Infoaut non è del tutto ignara delle vere cause dei disordini, tutte legate alla gestione della crisi economica, i redattori sembrano non riconoscere che, qualunque sia il rappresentante provvisorio installato nei suoi parlamenti (anche se appoggiato dai più radicali fra gli anticapitalisti), “in tempi di crisi, lo Stato si ritrasforma in quello che era nei tempi del suo debutto storico: una banda armata”2 .
Dopo l’abbattimento di un aereo siriano nel proprio spazio aereo, non ci sono più dubbi: l’America ha fatto un atto di guerra con la Siria. L’analisi di Counterpunch è impietosa: non esiste alcuna giustificazione al comportamento del governo americano, che va condannato dai suoi cittadini e dalla comunità internazionale
Gli Stati Uniti sono in guerra con la Siria. Anche se pochi americani vogliono ammetterlo, è implicitamente così da quando l’amministrazione Obama ha iniziato la costruzione di basi e l’invio di truppe speciali americane – che-ci-sono-e-non-ci-sono – ed è così in modo esplicito dal 3 agosto 2015, quando l’amministrazione Obama ha annunciato che avrebbe “consentito attacchi aerei per difendere i ribelli siriani addestrati dagli Stati Uniti da eventuali aggressori, anche se i nemici provengono da forze fedeli al presidente siriano Bashar al-Assad”. Da quando la U.S. Air Force — sotto Trump, ma seguendo la politica dettata da Obama — ha tirato giù un aereo siriano nello spazio aereo siriano, questo è innegabile. Gli Stati Uniti hanno intrapreso esplicitamente un’altra aggressione di un paese sovrano che non poneva alcuna minaccia possibile, figuriamoci effettiva o imminente, per la nazione. Questo è un atto di guerra.
Come atto di guerra, esso è incostituzionale e avrebbe richiesto una dichiarazione da parte del Congresso. Trump la chiederà? Qualche partecipante democratico o repubblicano del congresso la chiederà? Il Papa è un indù?
Le mani (non invisibili) sulle banche venete
Un euro privato contro 6 miliardi pubblici, come scambio ineguale proprio non fa una piega. Non devono averci messo molto i tecnici del sig. Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, a formulare la loro offerta d'acquisto per Veneto Banca e per la Banca Popolare di Vicenza.
La loro operazione sarà durata, sì e no, un paio d'orette. Lorsignori hanno preso due scatole, nella prima (denominata good bank) hanno messo la polpa - gli sportelli, i depositi, i crediti sicuri; nella seconda (denominata bad bank) hanno accatastato le ossa - i crediti deteriorati, quelli comunque considerati a rischio, le obbligazioni subordinate, i rischi connessi alle azioni legali. Per la prima si sono detti disposti a spendere nientemeno che la bella cifra di un euro. Per la seconda chiedono che lo Stato di euri ne sborsi 6 miliardi.
Naturalmente, di fronte a cotanta generosità, la stampa nazionale è già scattata come un sol uomo a ringraziare la munificenza del Messina: gli si dica subito di sì, che i mercati hanno fretta; si prepari la somma richiesta senza indugio, che si tratta di banche mica di pensionati. E, siccome - vedete le complicazioni della democrazia - per spendere quei soldi ci vuole una legge ad hoc, la si faccia subito, ovviamente per decreto, e che il parlamento esegua e zitto.
"Tutti dicono di voler cambiare i trattati dopo, ma pochi cercano di fermarli prima."
Il degrado della nostra democrazia è ben rappresentato dal fatto che uno scontro megalattico stia accompagnando la discussione su una legge all'acqua di rose sullo ius soli, mentre il senato si prepara ad approvare nel silenzio generale il famigerato trattato CETA.
Il trattato è quello stipulato tra Unione Europea e Canadà e serve a far passare liberamente la globalizzazione più selvaggia e distruttiva, travolgendo le poche regole rimaste a difesa dei lavoratori, dei consumatori, dei cittadini. Il succo del trattato è il via libera ai prodotti, ai servizi e alle attività delle grandi multinazionali, secondo le regole loro e del paese più disponibile verso di esse. E se qualche stato dovesse decidere di opporsi in nome delle proprie leggi su lavoro, salute e ambiente, le multinazionali potrebbero citarlo in giudizio in un arbitrato, gestito a condizioni, per esse, di favore.
La extragiudizialità dei grandi fruitori di profitti rispetto agli stati diventa legge, lo stesso privilegio di fronte alla giustizia comune di cui nel Medio Evo gode ano prìncipi e baroni.
Un saggio del 2014, scritto da Jasper Bernes e Joshua Clover, "The Ends of the State", che affronta il problema dello Stato e di una strategia rivoluzionaria, sostiene che una rivoluzione proletaria non può arrivare ad ottenere più di quello che realizza subito inizialmente:
«Come viene sostenuto da noi e da molti dei nostri contemporanei, il fatto di stabilire queste nuove condizioni sociali, nella loro più ampia misura possibile, oggi non solo è il probabile percorso che può essere seguito, direttamente o indirettamente, da un processo rivoluzionario, ma, date le oggettive condizioni materiali, è l'unica speranza per un suo eventuale successo.»
A leggere questo passaggio, sembrerebbe che gli autori (i quali sono collegati ad "Endnotes") stiano dicendo che una rivoluzione proletaria è strettamente limitata a quello che può realizzare inizialmente a partire dalla pura forza della rivoluzione stessa. Dopo l'iniziale onda d'urto, si stabilisce un percorso di sviluppo tipico dell'accumulazione capitalista. Se una rivoluzione proletaria non riesce ad arrivare al pieno comunismo in un colpo solo, diventa allora semplicemente una forma di sviluppo capitalistico?
Per usare un'analogia: se una stella non ha massa sufficiente, essa non produce un buco nero, ma si stabilizza e vive la sua vita come stella nana.
Negli
anni
Settanta siete state le prime a parlare contro il lavoro
domestico mostrando come il processo di accumulazione nelle
fabbriche iniziasse sul corpo
delle donne. Cosa è cambiato in questi anni?
Il lavoro gratuito è esploso, quello che noi vedevamo allora dall’angolatura specifica del lavoro domestico si è diffuso a tutta la società. In verità, se guardiamo alla storia del capitalismo vediamo che l’uso del lavoro non pagato è stato enorme. Se pensiamo al lavoro degli schiavi, al lavoro di riproduzione, al lavoro agricolo dai campesinos ai peones in condizioni di semi-schiavitù, ci rendiamo conto che il lavoro salariato è stato in realtà una minoranza circondata da un oceano di lavoro non pagato. Oggi questo oceano continua a crescere nelle forme di lavoro tradizionali ma anche in forme nuove, perché ora anche per accedere al lavoro salariato devi fare quantomeno una parte di lavoro non pagato. In Grecia mi hanno detto che ormai è necessario fare sei o sette mesi di lavoro non pagato nella speranza di trovare un lavoro pagato, quindi in varie situazioni si ripete la stessa dinamica: ti assumono a titolo gratuito, lavori sei o sette mesi e poi ti lasciano a casa. La coercizione del lavoro non pagato è ormai una pratica sempre più diffusa.
MANAGUA.
L’aggressione
politica, diplomatica e mediatica verso il Venezuela ha ormai
oltrepassato i limiti dell’ossessione. A sostegno di una
opposizione inguardabile,
sostenuta da Washington e dai paramilitari colombiani, sono
scese in campo forze e personaggi di ogni ordine e grado.
Nell’opera di
mistificazione spiccano i media (tra tutti la CNN)
che sulla realtà venezuelana spacciano fake news senza
pudori, realizzando
i loro reportage sotto dettatura dei partiti di opposizione.
A cominciare dal definire una “dittatura” un paese nel quale si è votato 19 volte negli ultimi 15 anni e dove solo in due di queste ha vinto la destra. Stando alla Fondazione di Jimmy Carter - ex presidente USA, non un chavista - il sistema elettorale venezuelano “è il migliore del mondo e vi partecipa l’80% della popolazione avente diritto".
Tra le cose che non vengono raccontate c’è che l’acutizzarsi dello scontro ha origine in un conflitto tra i poteri dello Stato, nato dalla decisione del Tribunale elettorale di non riconoscere la validità dell’elezione di 3 deputati dell’opposizione nella zona amazzonica.
Durante una diretta a Porta a
Porta Luigi Di Maio, candidato in pectore del MoVimento
5 Stelle a premier
e Vicepresidente della Camera, ha detto: “Portiamo avanti i
valori di Berlinguer, di Almirante e della Dc”. Detta così, su
due
piedi, la cosa mi ha fatto francamente ridere. Scomodare i
leader di due fra più importanti partiti protagonisti della
sinistra e della destra
italiana, il PCI e il MSI, uno di sinistra e uno neofascista,
e addirittura la Democrazia Cristiana, che ha governato
l’Italia ininterrottamente
dal dopoguerra al 1992, forse è troppo, ma la scelta non è
stata affatto casuale, dato che Il Fatto Quotidiano –
che
guarda a tale area da quando è diretto da Marco Travaglio –
riportava che è stato «Un modo per ribadire che con i
Cinquestelle si superano le ideologie del passato.» Perché se
da una parte abbiamo la necessità di elaborare in modo
distaccato e
dialettico la storia del Novecento, un bisogno di analisi
storiografiche che apra a nuovi campi d’indagine, qui avviene
l’esatto
contrario. De Maio non si limita, qualunquisticamente, a
mettere sullo stesso piano Enrico Berlinguer, Giorgio
Almirante e uno dei più
importanti partiti centristi di area cattolica, ma eleva
l’oblio della memoria storica a paradigma, usando
l’indistinzione come metro di
misura per rapportarsi col passato, magari non tutto da
buttare.
«La voce minima. Trauma e memoria storica» del filosofo Mario Pezzella. La rimozione dei genocidi del Novecento alimenta fittizie ipotesi riconciliative tra vincitori e vinti. L’orrore scaturito da atti di violenza condiziona le vite di vittime, carnefici e dei loro eredi
Mario Pezzella è un intellettuale, il cui «impegno», per usare una parola antica, al fine di un’etica della trasformazione è pari alla sua raffinatezza culturale e alla sua capacità di far interagire più campi teorici: quali l’estetica letteraria e cinematografica da un lato e la filosofia politica dall’altro, a cui si aggiunge una profonda sensibilità per le tematiche psicoanalitiche, per l’attività di traduttore e l’esperienza della composizione poetica in prima persona. Studioso di Friedrich Hölderlin, Walter Benjamin, Paul Celan, Miguel Abensour, uno dei suoi meriti maggiori è quello, nella sua frequentazione della cultura tedesca ed europea, di essersi tenuto lontano da ogni seduzione e subalternità rispetto al pensiero di Martin Heidegger, alla cui metafisica conservatrice dell’«essere» hanno ceduto invece, com’è ben noto, molti intellettuali, italiani ed europei, che hanno coniugato il medesimo campo d’interessi, tra estetica e filosofia politica.
Con l’ultima sua opera, La voce minima. Trauma e memoria storica (manifestolibri, euro 167), Pezzella torna a stringere le sue competenze e i suoi saperi per proporre una singolare quanto originale compenetrazione di storia e psicoanalisi attorno al tema della rimozione storica.
Ogni elezione si tira dietro la sua necessaria escalation di costituenti più o meno “rosse”. E’ il richiamo della foresta elettorale, quello per cui alla “domanda di sinistra” dovrebbe corrispondere un’offerta conseguente. Si moltiplicano allora i contenitori, tutti certo aperti ed eterogenei, in grado di offrire quello che gli elettori chiedono da tempo: una sinistra che faccia la sinistra. C’è la sinistra radicalmente socialdemocratica e keynesiana; c’è quella umanitaria e pacifista; ci sono le varie sinistre comuniste, quelle imperiali e quelle anti-imperialiste; ci sono quelle rosa, rosé, arcobaleno. Ce n’è insomma per tutti i gusti, per tutte le teorie e per tutti i programmi. Ancora nel 2017 tutto lo spettro del marxismo trova in Italia il suo riferimento politico, ciascuno lamentandosi della mancanza di una proposta “veramente marxista”, ognuno presentandosi come vero e unico comunista. Un circo barnum che negli ultimi anni ha trovato il proprio capro espiatorio nel “populismo”, matrice, a leggere i nuovi Lenin digitali, dei disastri elettorali delle vere sinistre, formidabile metadone padronale capace di alienare i veri interessi dei subalterni indirizzandoli verso false soluzioni di falsi problemi. Non ci fosse il populismo saremmo già al comunismo di guerra, così come venti anni fa non ci fosse stato Bertinotti, o quarant’anni fa non ci fosse stato il Pci. E così via, rimuovendo responsabilità e limiti verso l’altro da sé pur di non procedere mai alla verifica dialettica dei propri errori.
Il lamento che in Italia si leggono poco i giornali trascura che i loro articoli sono una merce tra le altre e che la scarsa domanda può essere indice di cattiva qualità dell’offerta. In effetti gli articoli dovrebbero dare notizie, in realtà si sforzano di diffondere ideologia, quella che protegge gli interessi degli editori. Per questa pesante ipoteca da cui essi sono gravati, la diffusione dei giornali a scuola è sempre da respingere. La scuola infatti non insegna notizie, ma teorie o, nel peggiore dei casi, nozioni: le notizie assumono significato solo nei contesti teorici e devono senz’altro essere risparmiate a chi non li ha ancora acquisiti. C’è ancora un motivo di profilassi: mentre le notizie, come strumenti di campagne ideologiche, suscitano passioni e contrasti, le teorie sono conoscenze oggettive e universali, valide dunque per tutti, in grado di interrogare la ragione e di unire.
Nondimeno, nell’attuale esame di Stato il giornale si è insinuato attraverso due brecce: gli alunni possono redigere i loro elaborati anche in forma giornalistica; inoltre i temi proposti dal MIUR sono corredati da brani tratti per lo più da pagine di quotidiani, anziché da testi qualificati sotto il profilo scientifico ed estetico.
Nell’esame di Stato di quest’anno alcuni dei versi più toccanti della letteratura italiana (‘I limoni’ di Montale) sono soffocati da una spiacevole masnada di brani tratti di preferenza dal ‘Sole 24 ore’.
La settimana scorsa è morto Helmut Kohl, l’ex cancelliere tedesco salutato come il padre dell’attuale Unione Europea. Nelle celebrazioni si sono messe da parte le modalità della fine politica di Kohl, segnata nel 1999 da un mega-scandalo per finanziamenti illegali al suo partito. Si trattava di un giro di tangenti legato ad affari di vendita di armi alla solita Arabia Saudita.
Pochi giorni fa Pierluigi Bersani ancora osava indicare come un modello i partiti tedeschi, secondo lui “interamente” finanziati dallo Stato e quindi abilitati a selezionare una vera classe dirigente. In realtà in democrazia è diventato impossibile fare distinzione tra la politica ed i suoi flussi di finanziamento, nei quali i fondi pubblici rivestono un ruolo marginale. E la situazione, dai tempi di Kohl, si è persino aggravata, dato che è aumentata la mobilità internazionale dei capitali. Se la forza delle cose ha un peso, è evidente che ricevere finanziamenti da questo o da quello condiziona e restringe i margini di manovra, specialmente se il denaro arriva da tangenti su operazioni di import-export, cioè di mobilità dei capitali.
Il denaro non è solo un movente ma una condizione esistenziale e rappresenta un percorso già tracciato per qualsiasi organizzazione complessa.
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Girolamo De Michele: Il rapporto OCSE, la scuola di classe e la società classista
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Quando si parla di reddito di base
(RdB) sarebbe necessario
fare chiarezza, perché il dibattito sia teorico che politico,
soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza,
di base,
minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione,
salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse
proposte, come semplici
etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il
RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento
regolare di un
reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare),
su base individuale (non familiare, come sono spesso i
sostegni al
reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente
dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato
ad un requisito lavorativo o
alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro) [1]. Questa
nuova forma di welfare viene presentata spesso dai
sostenitori come
“la” proposta di politica economica per superare la precarietà
e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di
accumulazione
capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di
crisi.
Tale proposta viene giustificata teoricamente con la ricerca di una giustizia redistributiva (Rawls), del superamento o arginamento della povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (Negri).
USA: lo stato profondo
Quest’articolo ha uno scopo delimitato: esaminare gli orientamenti e le iniziative degli organi dell’Unione Europea (UE), o di suoi influenti rappresentanti, relativamente all’attuale fase della globalizzazione, dopo che dagli USA il presidente Trump ha fatto risuonare il grido America first! Una prima reazione di commentatori, di esperti e anche di militanti della sinistra anticapitalista hanno frettolosamente reagito affermando che il ciclo della globalizzazione si era ormai chiuso e hanno profetizzato il ritorno al protezionismo a difesa degli interessi nazionali. Dunque, fine imminente della globalizzazione e rinascita dei conflitti tra Stati nazionali, chiamati a sostenere i rispettivi capitalismi. Paradossalmente queste posizioni tradiscono una visione tipica dell’ideologia liberale che da Montesquieu in poi ha esaltato il dolce commercio come base per costruire relazioni armoniche e pacifiche tra nazioni ad economia capitalistica, dimenticando che nel mercato mondiale da sempre si sono svolti e, nella sua attuale fase di globalizzazione, si svolgono azioni sia di cooperazione sia di conflitto, anche militare, tra grandi spazi economico-politici.
Affrontare
il tema del lavoro irregolare
presenta ampi margini di complessità legati sia alla natura
del fenomeno, che per definizione si sottrae alle informazioni
ufficiali, sia alle
variegate modalità con cui si presenta.
Stando alle definizioni ufficiali, utilizzate dall’Istat, le unità di lavoro irregolare sono quelle «relative a prestazioni lavorative svolte senza il rispetto della normativa vigente in materia lavoristica, fiscale e contributiva, quindi non osservabili direttamente presso le imprese, le istituzioni e le fonti amministrative»[1]. Dal quadro d’insieme, riportato dall’Istituto Nazionale di Statistica e aggiornato fino al 2014, emerge che il contributo al pil del lavoro irregolare ammonta a 77,2 miliardi di euro, corrispondente a circa il 5,3% del valore aggiunto totale. A questi dati corrisponde una stima di 3 milioni 667mila unità di lavoro irregolare, di cui 2 milioni 595mila relative a posizioni di lavoro subordinato e 1 milione e 72mila a lavoro indipendente (o autonomo).
L’irregolarità aumenta rispetto ai primi anni della crisi (2011) di oltre 100 mila unità, effetto probabilmente dovuto alla tendenza delle imprese a ridurre il costo del lavoro al fine di non essere espulse dal mercato e allo stesso tempo alla disponibilità dei lavoratori ad accettare un rapporto di lavoro anche non regolare per evitare una contrazione drastica del reddito dovuta alla disoccupazione.
Quando la rabbia popolare contro le classi dirigenti non può più essere sedata o repressa, allora bisogna deviarla.
L’establishment adopera quindi la propaganda per reindirizzare la rabbia popolare verso un capro espiatorio, di solito una categoria di emarginati o discriminati che sono già percepiti con ostilità e diffidenza.
Il popolo ci casca sempre.
Non tutto naturalmente, ma una sufficiente maggioranza.
Perché è più facile, più sicuro odiare i mendicanti che sfidare i miliardari.
Un vero partito d’opposizione al sistema, come al Movimento 5 Stelle piace rappresentarsi, dovrebbe denunciare questa manovra, non approfittarne per ramazzare voti.
Un partito che millanta la vocazione salvifica alla verità dovrebbe smascherare questa manipolazione mediatica, non parteciparvi unendosi al coro.
A Grillo però non interessa la coerenza.
Marx essoterico/Marx esoterico: Per mezzo di questi due termini, si vogliono distinguere due differenti interpretazioni dell'opera del vecchio barbuto, essendo una quella accettata tradizionalmente (essoterica), che si basa principalmente su un punto di vista che si costruisce a partire dal lavoro ed il cui oggetto di studio è soprattutto la lotta di classe. Questa interpretazione tradizionale si focalizza sul modo di distribuzione.
L'altra interpretazione, è quella che qui ci interessa, ed è assai meno conosciuta (esoterica). E stavolta non si costruisce a partire dal punto di vista del lavoro, ma, piuttosto, dalla possibilità della sua abolizione. Il Marx esoterico è quello che critica sia il modo di distribuzione che il modo di produzione capitalistico a partire dall'analisi di quelle categorie storicamente determinate che sono il valore, la merce, il denaro, il lavoro, il capitale.
Lavoro: Qui, soprattutto, non bisogna intendere il lavoro come quell'attività, valida in qualsiasi epoca, di interazione fra l'uomo e la natura, come attività in generale. Il lavoro viene qui inteso come l'attività specificamente capitalista auto-mediatizzante, vale a dire che il lavoro esiste per il lavoro e non più per un fine esteriore come, ad esempio, la soddisfazione di un bisogno.
(Blaise Pascal)
Indagine sull’età del turismo è il sottotitolo del libro.
E allora diventa un libro necessario, se come informa l’autore, il settore economico del turismo è quello più in salute dell’intera economia, cresce con percentuali spesso a due cifre, ma il suo peso non viene percepito appieno.
Del settore economico turismo si parla poco, le unità produttive sono spesso di dimensione medio-piccola, i lavoratori non hanno voce.
Esiste anche un altro problema, gli spazi dove poter fare turismo in relativa sicurezza stanno diminuendo di anno in anno, già oggi gli stati dove poter andare diminuiscono anno dopo anno, per esempio la Siria, lo Yemen, e chi più ne ha ne metta.
Se il turismo avesse un peso politico pari al suo peso economico le guerre sparirebbero, chi lavora nel settore del turismo dovrebbe essere l’essere umano più pacifista del mondo, almeno così sembra. E poi scopri che i turisti crescono sempre più, cambiano le destinazioni, il nord Africa è troppo rischioso, il sud Europa ne gode.
Il paese si blocca con lo sciopero dei trasporti: i media bypassano sulle ragioni e parlano di “abuso” e nocività dello sciopero. Ecco l’Italia che vuole annullare il conflitto sociale
Lo sciopero nazionale dei trasporti del 16 giugno indetto dai sindacati di base (CUB, SLAI Cobas, SGB, USI-AIT, ORSA e altri) ha riscontrato una grande risposta e partecipazione dei lavoratori in tutto il Paese come non accadeva da anni, ma a differenza del passato, i mass media non hanno fornito alcuna informazione sulle ragioni dello stesso, anzi, hanno attaccato il diritto di sciopero parlando di “abuso”, di grave “danno nei confronti della concorrenza”, e hanno posto il problema di cosa si possa fare in futuro per evitare che i lavoratori possano agire.
Nonostante gli stessi giornalisti abbiamo riconosciuto che lo sciopero è stato proclamato ed esercitato rispettando le leggi introdotte negli anni ’90 per regolamentarlo, non hanno posto alcuna domanda a coloro che scioperavano né hanno fornito informazioni sulle ragioni chi lo ha indetto e di chi vi ha aderito. Zero assoluto!
Il libricino
a cura di Massimo Maggini,
raccoglie due interventi del “Gruppo Krisis”: un breve saggio
di Norbert Trenkle del 2008, a maggio, di poco antecedente
alla piena
manifestazione della crisi, quando si stava affannosamente da
circa un anno cercando di chiudere i focolai che si aprivano
ora in una banca, ora in
una istituzione assicurativa; un’intervista a Lohoff e Trenkle
del 2012, sul difficile problema del “capitale fittizio”.
Il “Gruppo Krisis” da una trentina di anni si occupa di sviluppare una critica radicale di ispirazione marxista e nasce su iniziativa di Robert Kurz (che è scomparso nel 2012), Ernst Lohoff, Ptere Klein, Udo Winkel, Norbert Trenkle, intorno ad una rivista edita dal 1986. Nel 2004 si avvia una spaccatura tra il gruppo di krisis e Kurz, che fonda una sua nuova rivista, Exit. Una lettura di alcuni motivi di questa divergenza teorica si possono leggere in un articolo di Lohoff pubblicato in italiano da Sinistrainrete, “Due libri, due punti di vista”, in cui mette a confronto le tesi del suo libro “La grande svalorizzazione”, con quelle del libro di Kurz “Denaro senza valore”. Inoltre, sempre su Sinistrainrete, l’intervista di Kurz, “La teoria di Marx, la crisi e l’abolizione del capitalismo”. Degli stessi autori si può leggere in italiano: il “Manifesto per il lavoro”, del 2003, di Kurz, Trenkle, Lohoff; “Ragione sanguinaria”, del 2014, di Kurz sulla critica dell’illuminismo; “Le crepe del capitalismo”, del 2015, di Kurz; “Crisi: nella discarica del capitale”, del 2014, di Trenkle e Lohoff.
Cent’anni dalla grande rivoluzione sovietica: un bilancio storico, un’indicazione per l’oggi
In
occasione del Centenario della Rivoluzione
d’Ottobre, si sta opportunamente riaprendo la
discussione sul significato e il
valore storico di quella straordinaria svolta che ha segnato
di sé l’intero XX secolo e che si riflette, per alcuni
aspetti, a partire
dal mutamento dei rapporti di forza tra aree del mondo, sulla
nostra stessa contemporaneità. In questo quadro è essenziale
approfondire il significato ma anche i problemi di
quella esperienza. Se l’obiettivo della Rivoluzione
socialista era quello di
sottomettere i meccanismi dell’economia alla volontà
cosciente e organizzata delle masse, in vista del
benessere collettivo,
Lenin fu sempre consapevole della difficoltà di tale sfida, in
particolare in un paese arretrato come la Russia del 1917. La
consapevolezza di
tale difficoltà andò crescendo nei mesi e negli anni
successivi alla presa del potere, senza però trasformarsi mai
in una diversa
valutazione sulla svolta dell’Ottobre, anzi sempre ribadendo
la giustezza della scelta fatta, l’opportunità di aver colto
il
momento, di aver sfruttato al meglio le possibilità offerte da
una eccezionale contingenza storica.
All’indomani dell’Ottobre, Lenin individua come “uno dei compiti più importanti” quello di “sviluppare il più largamente possibile questa libera iniziativa degli operai [...] e di tutti gli sfruttati [...] nel campo dell’organizzazione. Bisogna distruggere ad ogni costo – dice – il pregiudizio assurdo [...] secondo il quale soltanto le cosiddette ‘classi superiori’ [...] possono dirigere lo Stato [...].
1.
«Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio
progetti solo per il
passato». Questa frase di Flaiano – uno scrittore le cui
battute vanno prese estremamente sul serio – contiene una
verità su
cui vale la pena di riflettere. Il futuro, come la crisi, è
infatti oggi uno dei principali e più efficaci dispositivi del
potere. Che
esso venga agitato come un minaccioso spauracchio
(impoverimento e catastrofi ecologiche) o come un radioso
avvenire (come dallo stucchevole
progressismo), si tratta in ogni caso di far passare l’idea
che noi dobbiamo orientare le nostre azioni e i nostri
pensieri unicamente su di
esso. Che dobbiamo, cioè, lasciare da parte il passato, che
non si può cambiare ed è quindi inutile – o tutt’al
più da conservare in un museo – e, quanto al presente,
interessarcene solo nella misura in cui serve a preparare il
futuro. Nulla di
più falso: la sola cosa che possediamo e possiamo conoscere
con qualche certezza è il passato mentre il presente è per
definizione difficile da afferrare e il futuro, che non
esiste, può essere inventato di sana pianta da qualsiasi
ciarlatano. Diffidate, tanto
nella vita privata che nella sfera pubblica, di chi vi offre
un futuro: costui sta quasi sempre cercando di intrappolarvi o
di raggirarvi.
Se potevamo considerare la prima vittoria di Macron scontata e immaginarci il povero popolo francese schiacciato in un angolo, le elezioni legislative ci dicono che invece la maggioranza dei francesi non astenuti, circa il 44%, ha ufficialmente dato carta bianca al maratoneta dell’Eliseo. In fondo questo uomo della provvidenza post-ideologica ha ottenuto alle presidenziali poco più del 20% dei voti dei francesi, più o meno la stessa percentuale ottenuta da Le Pen, Fillon e Mélenchon. Le elezioni legislative sono state decisamente più interessanti e il solo a essersene accorto pare essere stato lo stesso Macron. Con toni preoccupati, infatti, ha registrato che parlamento e governo rischiano di diventare una cosa sola. La grande «palude» dei deputati di En Marche sarà costretta a sgomitare per farsi notare in qualche modo, dal momento che è destinata ad approvare senza discussioni le decisioni del presidente e del suo esecutivo, a sua volta subito sottomesso all’accelerazionismo del nuovo enfant prodige della trasparenza, capace di macinare tre ministri in pochi giorni. Quella che appare come una grande vittoria rischia così di trasformarsi nella prova più evidente delle difficoltà di un sistema politico che, non solo in Francia, cerca ostinatamente nell’esecutivo la sua salvezza.
Pubblichiamo una importante lettera sottoscritta da diversi connazionali in Venezuela e inviata agli italiani, sulla strumentalizzazione della “presenza italiana” in questo paese – fatta in più occasioni anche da dirigenti politici e di Governo – e sulla (dis)informazione a senso unico che è rilanciata dai maggiori media italiani sul paese sudamericano
“Care italiane, cari italiani, cari connazionali,
leggendo nei siti on line di gran parte dei quotidiani italiani ed ascoltando i report radiofonici e televisivi emessi dalla Rai e da altre catene, abbiamo purtroppo registrato che rispetto ai fatti venezuelani, vige una informazione a senso unico che rilancia esclusivamente le posizioni e le interpretazioni di una delle parti che si confrontano.
Abbiamo anche letto e ascoltato spesso che l’attenzione prestata alla situazione venezuelana viene giustificata per la presenza in Venezuela di una “consistente comunità italiana o di origine italiana” in sofferenza e che sembrerebbe essere accomunata in modo unanime alle posizioni dell’opposizione.
Noi sottoscrittori di questa lettera, siamo membri di questa comunità.
Scrive Carlo Rovelli sul Corriere (22 giugno) un articolo di apparente buon senso sul terrorismo. Perché ci indigniamo tanto e ci spaventiamo, si legge, per un fenomeno che fa decisamente meno morti degli incidenti stradali? Se un crimine è sempre tale, «perché non ci commuoviamo egualmente per altre morti causate da crimini?» Segue una sacrosanta lista di crimini altrettanto efferati per cui scarseggia tale commozione sociale: donne uccise da mariti gelosi; neri americani uccisi da poliziotti; operai uccisi da direttori dei cantieri, e altri esempi simili. Il motivo, scrive sempre Rovelli, è nella spasmodica attenzione riservata alle morti per terrorismo da parte di media e politici. Ogni morte violenta dovrebbe allarmarci altrettanto, eppure così non è. Relegate nei trafiletti di cronaca nera, le scabrose narrazioni sulle nefandezze omicide riemergono solo se il protagonista è “il terrorista”, svelando peraltro un certo sostrato razzista della nostra cultura massmediatica. Altrettanto giustamente, Rovelli ribalta l’assunto per cui tale spazio viene dedicato al terrorismo perché spaventa la maggior parte della popolazione: «sentiamo il terrorismo toccarci personalmente perché politici e media gli dedicano estrema attenzione». E’ una paura indotta capace di generare insicurezza diffusa, in un circuito politicamente funzionale alla gestione della sicurezza nella società liberale post-democratica.
Il 18 giugno 2017, al teatro Brancaccio di Roma si è svolta un’assemblea quasi pubblica per un’alleanza quasi popolare. Ai compagni del csoa di Napoli è stata rifiutata la parola
Il volo dei gabbiani sul palco del teatro Brancaccio si è pietrificato dopo qualche ora di assemblea nella sala stracolma. Il palco illuminato da una luce rarefatta chiarissima, il minimalismo dei pochi volumi pastello delle poltroncine per sedersi, di altri volumi sparsi ad arte, le camicie bianche sui pantaloni blu dei due ideatori, tutto denota una cura estetica del particolare dello scenario che accoglie il popolo .Gli vuole suggerire un’atmosfera di purezza, un’idea di neo-natalità rasserenante… Alcune sagome di gabbiani appese, creano leggerezza… D’altronde Montanari è uno storico dell’arte. Ad Anna Falcone il compito dell’accoglienza e a Tomaso Montanari il discorso di apertura, davvero un bel discorso che parte dall’articolo 3 della nostra Costituzione:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.”
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Cosa sta
capitando nella nazione più potente del mondo? Le notizie si
susseguono, ora dopo ora, talvolta minuto dopo minuto, le
versioni si accavallano,
le analisi si moltiplicano. Potere esecutivo, potere
giudiziario, potere legislativo si scontrano l'uno contro
l'altro, in una lotta fratricida che
rischia di mettere in empasse la capacità decisionale della
grande nave americana, il cui capitano sembra ormai più
impegnato a
difendersi a colpi di tweet che non a fare il Presidente.
Abituati come siamo al teatrino della politica italiana,
fatichiamo a capire la
gravità della situazione - poco aiutati dai media di casa,
bisogna dirlo. E tuttavia, fattori la cui rilevanza da noi è
considerata poco
più che marginale, negli Stati Uniti possono causare la
disfatta politica di un leader, soprattutto se inviso alla
quasi totalità
dell'establishment. Dunque, la domanda va posta: quali sono i
problemi 'domestici' di Donald Trump, e quali scenari futuri
si prospettano?
La Russia e le elezioni presidenziali
Secondo un'indagine condotta lo scorso anno dalle agenzie di intelligence americane Cia, Fbi e Nsa su ordine di Obama e resa pubblica all'inizio dello scorso gennaio, il presidente russo Vladimir Putin avrebbe ordinato personalmente attacchi informatici ai danni dei partiti americani, allo scopo di influenzare il risultato delle elezioni del novembre 2016.
Il dibattito impegna le sinistre da tempo, alla ricerca di una sintesi tra lotta di classe e per il riconoscimento
Qualcuno ricorderà il
gioco da tavolo Taboo, nel quale i partecipanti devono
indovinare una certa parola senza mai pronunciarla ma
evocandola in vari modi. Nello
stesso modo il dibattito pubblico sembra impegnato da qualche
anno in un’elaborata partita di Taboo pur di non
pronunciare una certa
parola. Chi la pronunciasse rischierebbe di essere accusato di
passatismo, d’intenti polemici, o ancora di voler semplificare
troppo le
questioni sociali; eppure ce l’abbiamo tutti sulla punta della
lingua, pronta a scappar fuori. È la parola “classe”.
Ma cos’è successo a questo termine, dalla storia lunga e gloriosa? Oggi per poter dire la stessa cosa – che non siamo tutti uguali, che c’è chi ha di più e chi ha di meno, e che questo rende sin dall’inizio i nostri destini diversi – si tende a preferire termini come «diseguaglianza» o «strati sociali», che assegnano alla questione un’aria neutralmente statistica. Perché con la classe non vogliamo fare i conti. Nel suo bestseller intitolato Chavs. The Demonization of the Working Class, Owen Jones ha notato che se nel Regno Unito commenti razzisti o omofobi sono ormai da tempo banditi, lo stesso non si può dire di espressioni classiste come chav, grossomodo traducibile con ‘tamarro’ o ‘poveraccio’ — al punto che il termine può essere utilizzato pubblicamente senza conseguenze.
Il Consiglio dei ministri ha varato domenica 25 giugno 2017 in una riunione durata appena 20 minuti il piano di salvataggio delle banche venete, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza, di fatto in fallimento dopo la pessima e truffaldina gestione dei potentati economici locali (Zonin in testa), nonostante il ricorso al Fondo Atlante.
Il provvedimento consentirà di avviare la liquidazione ordinata dei due istituti e aprire la strada alla separazione delle attività con la creazione di una bad bank e creando così le basi per la cessione della parte sana a Intesa San Paolo, secondo gruppo bancario italiano dopo Unicredit.
Per la cifra simbolica di 1 euro, Banca Intesa San Paolo ha così acquistato le due banche. In tal modo, la banca torinese si troverà a disporre di attività finanziarie per circa 8,9 miliardi di euro, attività fiscali per circa 1,9 miliardi di euro, depositi per circa 25,8 miliardi di euro, obbligazioni senior per circa 11,8 miliardi di euro, raccolta indiretta per circa 23 miliardi di euro, di cui circa 10,4 miliardi di risparmio gestito, circa 900 sportelli in Italia e circa 60 all’estero, inclusa la rete di filiali in Romania, 9.960 persone in Italia e 880 all’estero. Non stupisce che il giorno dopo il titolo di Banca Intesa sia in forte rialzo.
In alcuni bar di Atlantic Avenue a Brooklyn le scommesse sulle dimissioni di Trump entro l’anno sono quotate 5 a 1 e quelle prima della scadenza naturale del mandato 2 a 1. Quotazioni che continuano a scendere. Insomma, secondo i bookmakers, nemmeno le dimissioni di Trump farebbero racimolare qualche dollaro perché date per probabili. Sembra sia solo una questione di tempi, che avranno una notevole accelerazione nel caso di una vittoria dei democratici nelle elezioni di medio termine nel novembre 2018. In questa singolare identità di vedute con i bookmakers si muove il ceto politico che conta nel partito Democratico e, a quanto pare, lo stesso Obama. Il quale, seppur chiamato a gran voce da una parte crescente di elettori democratici, per il momento «resiste» a scendere politicamente in campo contro Trump e a prendere in mano le sorti del partito. Un partito, ancora profondamente segnato dalla vittoria di Trump, che delega ai continui scoop della coppia mediatica «New York Times» e «Washington Post» (Russiagate, Fbi, menzogne varie, omofobia, affari illeciti, fisco ecc.) per lavorare ai fianchi The Donald e si affida alla Commissione d’inchiesta con a capo il Procuratore speciale Robert Muller per costruire un impeachment che non sia solo propagandistico. La scelta è di portare alle estreme conseguenze una politica pensata e concepita per interposta persona:
Una nuova indagine del veterano giornalista investigativo americano Seymour Hersh ha confermato nel fine settimana come i presupposti del bombardamento americano del 6 aprile scorso contro una base aerea siriana fossero basati su informazioni totalmente false. Il primo attacco deliberato degli Stati Uniti contro forze del regime di Assad, autorizzato dal presidente Trump, era stata la risposta a un raid in una località controllata dai “ribelli” condotto dall’aviazione siriana con armi chimiche, la cui esistenza, secondo la ricostruzione di Hersh, era stata però smentita anche dai servizi di intelligence americani.
L’80enne giornalista basa come di consueto la sua analisi su informazioni ricavate da fonti anonime all’interno del governo USA. Significativamente, il lungo articolo non è stato pubblicato da una testata americana, ma dalla tedesca Die Welt. Lo stesso giornale tedesco ha rivelato che Hersh aveva proposto la sua indagine alla London Review of Books, che già aveva dato spazio ad alcune delle ultime fatiche del giornalista, ma si era alla fine rifiutata di pubblicarla per le critiche che avrebbe potuto subire dando spazio a posizioni troppo vicine a quelle dei governi di Russia e Siria.
La ricerca di Hersh spiega come l’incursione dell’aviazione siriana del 4 aprile scorso nella città di Khan Sheikhoun fosse stata meticolosamente preparata grazie al lavoro dell’intelligence russa.
I ballottaggi, ovvero l'ennesima certificazione della crisi dell'intero sistema politico
Domenica scorsa ha votato il 46% degli elettori, un 13% in meno rispetto al primo turno delle amministrative. Che è come dire che il 22% di chi era andato alle urne l'11 giugno è restato a casa due settimane dopo. E i risultati, che ci dicono i risultati? Di sicuro il Pd ha perso, ma ha perso anche il centrosinistra alla Pisapia. Il Movimento Cinque Stelle, invece, aveva già pesantemente perso all'andata, ed al ritorno ha incassato solo la vittoria di Carrara. In quanto alla destra si dice abbia vinto, ma guardando alle prossime elezioni politiche si tratta della classica vittoria di Pirro.
In realtà nessun protagonista della politica nazionale di questo sciagurato periodo per il Paese può davvero cantare vittoria. Non può farlo in tutta evidenza il Pd, i cui tentativi di ridimensionare la portata della sconfitta sono semplicemente penosi. Nell'ultimo anno Renzi ha incassato prima la botta di Roma e Torino, poi quella ben più pesante del referendum del 4 dicembre, ed infine - dopo l'ennesima buffonata delle primarie - la perdita (a vantaggio della destra) di ben 12 comuni capoluogo sui 25 in cui si votava.
Una sconfitta da nord a sud, in città simbolo come Genova, o in vecchie roccaforti come Pistoia.
[Il 26 giugno 1967 moriva, a 44 anni, Don Lorenzo Milani. Dedico questo intervento agli studenti e ai colleghi della 5D Servizi Socio-sanitari dell’Istituto Professionale “Elsa Morante”, Firenze]
Una scuola che seleziona
distrugge la cultura.
Ai poveri toglie il mezzo d’espressione.
Ai
ricchi toglie la conoscenza delle cose.
(Lettera a una
professoressa)
Si parla fin troppo di Don Milani, quest’anno. Tutto è iniziato con un paio di articoli molto polemici. Uno di Lorenzo Tomasin sul Sole24ore, che denuncia nella Lettera a una professoressa una cultura del risentimento e dell’odio di classe (qui). Un altro di Paola Mastrocola, che da diverso tempo, periodicamente, accusa il “donmilanismo” di essere il male della scuola italiana, l’inizio di una decadenza che avrebbe portato all’abbandono dello studio serio “delle nozioni”, dell’italiano e della letteratura, a favore di attività di “intrattenimento” vaghe e inutili (qui). Sono seguiti diversi interventi di segno contrario che hanno, a volte con tono un po’ agiografico, difeso l’idea di scuola di Don Milani, o hanno ricostruito con più attenzione il contesto storico (Vanessa Roghi) o il senso del progetto pedagogico (Italo Fiorin); oppure, ultimamente, hanno cercato di pesare meglio i pro e i contro (Franco Lorenzoni). Fino alla visita del Papa a Barbiana, il 20 giugno scorso.
Ricostruire l’unità dei comunisti e non di una sinistra senza identità
La
“Sinistra” è un contenitore categoriale. L’attore sociale
ragiona per categorie che sono logiche semplificative volte al
cosiddetto “risparmio energetico mentale”. In un’ epoca di
spendig review psico intellettuali, non stupisce che la
categoria
politica di cui parliamo non sia affatto riempita di profilo
identitario. Leggendo i giornali chiunque, ormai, può
rientrare in questo
contenitore che a poco a poco sembra assumere le sembianze di
un buco nero dove tutto entra e tutto si perde. Del resto
appartengono alla Sinistra la
socialdemocrazia, il socialismo, il craxismo, il socialismo
rivoluzionario ed il comunismo stesso. Tra le varie famiglie
di questo articolato puzzle
rari sono gli esempi di azione politica volta al superamento
del Capitalismo.
Dentro questa indefinibile nebulosa si sviluppa la riflessione che appassiona le varie anime della sinistra italiana (e di qualche partito comunista) mosse dalla necessità di costruire l’unità della sinistra stessa.
Ma a cosa servirebbe questa unità? Per fare cosa? Concettualmente l’obiettivo è quello di “spostare più a sinistra” l’asse decisionale di future coalizioni sovente costruite con monoliti liberisti che, in un impari rapporto di forza, finiscono per rendere gli alleati invisibili e del tutto inconcludenti sulle principali questioni politiche di loro interesse.
Pubblichiamo
la traduzione di alcuni estratti da un’intervista di Carlo
Spagnolo (Università di Bari) con Geoff ELEY, Università
del Michigan (G.E.), Leonardo PAGGI, Università di Modena
(L.P.), e Wolfgang STREECK, Max-Planck-Institut für
Gesellschaftsforschung,
Colonia (W.S.), già pubblicati in lingua inglese sul Blog
di Sergio
Cesaratto (Università di Siena) [e su Sinistrainrete].
L’intervista sarà prossimamente pubblicata integralmente su
“Le memorie divise dell’Europa dal 1945”, volume
monografico della rivista “Ricerche Storiche”, n. 2/2017.
Questo eccezionale documento è un dialogo illuminante sulle
cause
dell’attuale crisi europea, e sui possibili scenari che si
prospettano per l’Unione, i paesi membri, ed i popoli
europei.
* * * *
1. Fin dai suoi inizi, l’integrazione europea ha incontrato resistenze e attraversato fasi di stasi e di involuzione, ma la crisi odierna presenta caratteristiche inedite e ben più gravi. A partire dalla bocciatura del trattato costituzionale in Francia e Olanda nel 2005 abbiamo assistito alla crescita di movimenti “populisti” nazionali contrari all’immigrazione e alla deregolamentazione del mercato del lavoro, ad una rinascita del nazionalismo in diversi paesi ed al voto a favore della Brexit del 23 giugno (2016).
Per capire la linea di tendenza tracciata da questo voto, occorre familiarizzarsi con due concetti connessi e non tenuti minimamente presenti dalla stragrande maggioranza dei commentatori: “voto in libertà” e “Quarto polo”. Per voto in libertà intendo quei comportamento non riducibili allo schema dei due o tre poli principali e cioè, essenzialmente, astensione e liste civiche distinte dai tre partiti maggiori.
L’astensione ha superato la soglia critica del 50% e, per di più, appare segnata da un grande nervosismo di flussi in entrata ed in uscita. Al primo turno di queste amministrative ha votato meno del 60% (cinque punti in meno delle amministrative precedenti), al secondo turno i votanti sono stati il 46%, cioè circa un 12% è andato ad aggiungersi a quelli che si erano già astenuti (14% in meno delle precedenti amministrative). Il che sindica almeno due tendenze: la crescente insoddisfazione degli italiani per l’offerta politica precedente e la tendenza degli “esclusi” dai ballottaggi a preferire l’astensione al voto fra uno dei due competitori finali. Altro che ritorno al bipolarismo classico! Questo inganno ottico è dovuto all’ortopedia del sistema elettorale che “forza” il comportamento riducendo a competizione bipolare quello che nella società dimostra molteplici tendenze centrifughe.
Un'analisi convincente del neoliberismo ("neoliberalism"), prodotto di «un vero e proprio progetto antropologico» e autore di «uno spettacolare incremento delle disuguaglianze» , con una conclusione disperatamente "riformista". Su La Repubblica, 25 giugno 2017
Fra tante analisi, accuse e difese del neoliberismo, la vera domanda è quella posta da un celebre saggio di Colin Crouch, sulla sua “strana non-morte”. Come ha fatto a sopravvivere al suo palese fallimento, uscendo rafforzato da una crisi che avrebbe dovuto distruggerlo? Perché, dopo tanti avvisi di sfratto, continua a restare il paradigma di riferimento delle politiche globali – una specie di zombie, come lo chiamò Paul Krugman sul New York Times? Se l’interpretazione del neoliberismo si fermasse alle formule correnti che lo dipingono solo come generatore di povertà, nemico della democrazia e fomentatore di conflitti sociali, la sua lunga resistenza resterebbe inspiegata. Probabilmente c’è qualcosa di più da comprendere, prima di contrastarlo con strumenti adeguati al reale livello in cui si muove.
Già Pierre Dardot e Christian Laval, nel loro Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista (DeriveApprodi), fanno un primo passo in questa direzione. Diversamente da quanti vedono nel neoliberismo un meccanismo puramente economico, essi lo considerano un vero sistema di governo della società, che modella in base alle proprie esigenze.
Al di là dei singoli vincitori e sconfitti di queste elezioni comunali, a imporsi è il drastico calo dell’affluenza. Un dato talmente consolidato da risultare ormai strutturale. Eppure (anche) questa volta interessante da rilevare. Da un decennio tutta la politica italiana si esibisce nel tentativo di cambiare la legge elettorale proporzionale per tornare a un maggioritario di volta in volta condito col premio di maggioranza o col doppio turno sul modello francese. Un tentativo sovente posticipato per opportuni calcoli politici contingenti (oggi è la paura di un governo Cinque stelle, ieri la debolezza di Berlusconi o del centrosinistra). Il modello agognato è proprio quello delle elezioni comunali: quando l’elettore conosce personalmente chi scegliere; quando l’elezione determina immediatamente un vincitore e uno sconfitto; quando, infine, la vittoria anche per un solo voto garantisce una inscalfibile super-maggioranza governativa, ecco che lo stesso elettore torna ad affezionarsi alla politica. La débâcle elettoralistica di ieri spazza via la sequela di boiate ideologiche su cui si fonda il delirium governista proposto a media unificati da un trentennio. Ma la rapida sequenza elettorale francese e italiana certifica anche altro. Nei sistemi a doppio turno – in Francia come nelle comunali italiane – al ballottaggio si reca ormai meno della metà della popolazione.
L'ordoliberismo tedesco è sotto accusa. Non più, ormai, solo da parte del 'populismo' - calderone in cui il pensiero mainstream infila ogni forma di opposizione allo status quo - ma anche per bocca di quella politica che si presenta come argine alla stessa deriva populista. Le politiche di austerity imposte ai Paesi dall'Europa si sommano all'impoverimento causato dalla globalizzazione, e i cittadini iniziano a sentirsi rappresentati da forze politiche che propongono un cambiamento in senso nazionalista; per tutta risposta, anche i partiti favorevoli all'Unione europea hanno iniziato a criticarla. Renzi, per restare nell'ambito italiano, da presidente del Consiglio lanciava strali un giorno sì e l'altro pure contro le rigide regole di Bruxelles, che a suo dire bloccavano la già timida crescita economica che iniziava a far capolino, e contro una Germania che continuava a imporre la sua visione ordoliberista a tutti i Paesi della Ue.
Che l'ordoliberismo sia la teoria economica alla base della costruzione dell'Europa, non c'è dubbio, e in casa nostra perfino i grandi media sono arrivati a riconoscerlo e a criticarlo, dopo aver evitato il tema per anni e santificato l'inflessibile schema normativo europeo che, finalmente, metteva fine alla politica di espansione del debito pubblico tipicamente italiana.
L'ordoliberismo ha trasmesso il concetto della competizione totale dalla sfera economica a quella sociale: la sua forza è stata di agire sull'ambiente, modificandolo, mutando di conseguenza il comportamento dell'individuo
Non può essere una semplice coincidenza. Nell’unica giornata di lavoro domenicale per il governo, impegnato nello stendere un decreto che impegna 17 miliardi di soldi statali (l’1% del Pil, in pratica la “crescita” attesa nel 2017) per consentire a BancaIntesa di incamerare gratis due banche venete in pre-fallimento, i ballottaggi per le comunali hanno decretato la scomparsa del Partito Democratico.
Il dato risalta con più nettezza proprio grazie all’astensionismo, che ha ancora una volta battuto i record precedenti. Complessivamente è andato alle urne il 46,03% degli aventi diritto. Ed è noto che le elezioni locali sono il momento di massima mobilitazione delle clientele “popolari”, quelle per cui avere un sindaco o l’assessore “giusto” risolve parecchi problemi nell’arco di un quinquennio.
La prima considerazione politica è dunque relativamente semplice: la delusione o l’ostilità per il mercato politico continua a crescere inarrestabile. Il primo turno aveva eliminato il Movimento 5 Stelle, che sta diventando solo la delusione più recente, grazie all’inconsistenza della Raggi a Roma, alle cantonate “legge e ordine” dell’Appendino a Torino e alla generale impressione di incompetenza assoluta seminata da tutti i suoi esponenti, sia nazionali che locali.
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Il “salvataggio” delle due banche venete, a beneficio di BancaIntesa, grida vendetta già al primo sguardo (vedi qui ). Per esserne sicuri, però, bisogna far parlare gli economisti. Radio Città Aperta ha intervistato Maurizio Donato, docente all’università di Teramo
Grazie della tua
disponibilità.
Aiutaci a capire un pochino meglio di cosa si tratta…
IntesaSanPaolo ha firmato con i liquidatori
della Popolare di Vicenza e
Veneto Banca il contratto di acquisto al prezzo simbolico di
un euro di alcune attività e passività facenti capo alle due
banche venete,
con autorizzazione unanime del consiglio di amministrazione.
Si parla di operazioni di salvataggio delle due banche… A
noi sembra
un grande affare a pochissimo prezzo per Intesa San Paolo.
Però da profani ci affidiamo a te per capire qualcosa di
più.
I profani, come dici tu, ci beccano spesso, perché non c’è dubbio che si tratta di un buon affare in cui sono coinvolti diversi attori, a cominciare dalle banche. E la parola che hai detto – “alcune attività” – è un po’ la parola chiave. Cioè, ci sono attività redditizie e queste Intesa San Paolo ha voluto acquistare, sia pure alla cifra simbolica di un euro, e ci sono attività che sono andate male, crediti irrecuperabili o difficilmente recuperabili. Ed è qui il punto, se vuoi, politico della questione: i debiti irrecuperabili, Intesa San Paolo ha detto: “quelli non li compro, se li accolli la bad bank dello Stato italiano”, cioè i contribuenti, “e noi invece prendiamo solo quello che ci interessa”. E’ interessante perché possano venire fuori questioni che riguardano almeno tre soggetti: il governo italiano, l’Unione europea e la crisi in generale. Se vuoi diciamo qualche parola su ognuna di queste questioni.
Presentazione quaderno n. 7/2017
Quando cadde il muro di Berlino, e i paesi del cosiddetto comunismo reale attraversarono un profondo cambiamento sbarazzandosi dei preesistenti regimi, l’Associazione per la Redistribuzione del lavoro aveva appena avviato il suo cammino con la pubblicazione dei primi due libri dedicati ai profondi mutamenti che stavano intervenendo nel processo della riproduzione del lavoro. Ma il rivoluzionamento politico in corso, col crollo della prima disastrosa esperienza di comunismo, imponeva di non eludere un confronto approfondito con quanto stava accadendo. Il gruppo di ricerca dell’epoca si concentrò così su un’analisi delle cause del crollo di quei regimi e sulle ripercussioni che probabilmente avrebbero avuto sui paesi del mondo occidentale. Questo lavoro, durato tre anni, portò alla pubblicazione di due testi: Dalla crisi del comunismo all’agire comunitario (Editori Riuniti) e L’uomo sottosopra (Manifestolibri), oltre alla pubblicazione di numerosi saggi su giornali e riviste tesi ad approfondire singoli aspetti della questione.
Nonostante quelle riflessioni avessero una buona circolazione non trovarono un terreno favorevole al loro attecchimento, né sollecitarono una confutazione critica. D’altronde, invece di sfociare in un nuovo approccio culturale, la crisi del comunismo si trasformò pian piano in un progressivo sfilacciamento delle precedenti convinzioni e dei valori che le accompagnavano.
Una civiltà che si dimostri incapace di
risolvere i problemi che produce il suo stesso funzionamento è
una civiltà in
decadenza.
Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte ai suoi problemi più impellenti è una civiltà ferita.
Una civiltà che gioca con i propri principi è una civiltà moribonda.
Fatto sta che la civiltà così detta «europea», la civiltà occidentale, così come si è costituita in due secoli di regime borghese è incapace di risolvere i due maggiori problemi generati dalla sua stessa esistenza: il problema del proletariato e il problema coloniale; che deferita alla sbarra della «ragione» come a quella della «coscienza», quella stessa Europa è incapace di giustificarsi; che, quanto più, si rifugia in una ipocrisia sempre più odiosa, tanto più diminuiscono le sue possibilità di ingannare.
L'Europa è indifendibile.
Questa sembra essere la constatazione che scambiano a bassa voce gli strateghi americani.
La cosa in sé non sarebbe grave.
Per
dimostrare che
la globalizzazione è viva e vegeta Franco Russo deve
riconoscere che i processi di internazionalizzazione degli
scambi, della finanza e della
produzione sono sempre stati e sono ancor di più oggi il luogo
di un aspro conflitto in cui i diversi stati usano tutti i
mezzi, compreso il
protezionismo e lo scontro militare, pur di difendere le proprie
imprese. (vedi il saggio
di Franco Russo)
Con il che, però, Franco Russo dichiara che la globalizzazione è morta (o meglio che essa, come il sottoscritto pensa da molto, in realtà non è mai nata). L’idea di globalizzazione contro cui polemizzano i critici non è infatti quella che prende atto dell’internazionalizzazione, ma quella secondo cui tale internazionalizzazione, rafforzando l’interconnessione dei mercati e della produzione, realizza una situazione di sostanziale autoregolazione del mercato che rende superflua o meramente ausiliaria la funzione degli stati nazionali. Lo stesso Russo ci da invece vari esempi di attivo intervento degli stati nazionali nella battaglia competitiva, intervento che può spingersi fino alla guerra: e questo, in sede di polemica spicciola, potrebbe bastare per dire che Franco dimostra il contrario di quello che afferma. Ma qui non si tratta di polemica spicciola, bensì di una discussione che ci accompagnerà a lungo. Bisogna quindi approfondire.
G. Marco D’Ubaldo, Giorgio Ferrari, Gli autonomi – Volume IV. L’Autonomia operaia romana, DeriveApprodi, Roma, 2017, 224 p., € 18.00
Derive Approdi ha dato
alle stampe il quarto volume della serie Gli autonomi.
L’intento è quello di approfondire il racconto di una stagione
politica,
stringendo il focus in modo più serrato sui territori – a
partire da quello romano. I curatori del volume sono Giorgio
Ferrari e G.Marco
D’Ubaldo, storici referenti di due realtà cruciali della
piazza romana: i Comitati Autonomi Operai e il Comitato
dell’Alberone.
La scelta di indagare la “territorialità” delle esperienze dell’autonomia, è senza dubbio adeguata. Non c’è ricostruzione o ragionamento politico sulle “autonomie”, che possa prescindere da questa dimensione – e questo, oltre che per l’oggettività delle vicende storiche, anche per una teorizzazione largamente condivisa in quegli anni: territorio voleva dire lettura della composizione di classe, costruzione degli elementi di programma, adeguamenti dei livelli di organizzazione e di nuovo ricaduta sui territori. “Territorio” voleva dire terreno di verifica costante delle ipotesi di partenza. E non si trattava dell’ideologica suggestione del “riprendiamoci la città”: era piuttosto faticosa e dirompente costruzione quotidiana di vertenze (territoriali, appunto) che dessero al discorso sull’autonomia, gambe sociali e radicamento.
Il libro
del 2016 a cura di Mariana
Mazzucato e Michael Jacobs è certamente ambizioso ed ampio,
coinvolge autori come Joseph Stiglitz, Colin Crouch, Randall
Wray, Andrew Haldane,
William Lazonick, e poi specialisti come Dimitri Zenghelis e
Carlota Pérez, ma anche Stephany Griffith-Jones e Stephanie
Kelton, otto uomini e
cinque donne, considerando anche i coautori.
Malgrado questo apprezzabile esercizio di bilanciamento di genere (migliorabile), il libro è piuttosto disomogeneo, e in alcune affermazioni non pienamente condivisibile, almeno per me, in particolare l’ultimo saggio, di Carlota Perez, che mi pare un “Majone in salsa verde”, è del tutto non condivisibile, mostra molto bene come nel discorso del tecnologo ambientalista (anche se nel caso non californiano) sia ben incorporato lo spirito del tempo.
Lo scopo dichiarato dei curatori è di trovare una comprensione più chiara di come effettivamente “funziona il capitalismo” in aperta critica del mainstream neoclassico (anche se talvolta ci si scivola dietro). A questo fine già nell’introduzione si mette nella prospettiva aperta dalla crisi del 2008, come esito di un lungo processo nel quale sono crollati ovunque gli investimenti e si è registrata una bassa crescita della produttività, i mercati finanziari quindi hanno in quella circostanza contribuito ad allocare male le risorse, sbagliando valutazione di rischio.
Cosa sta
capitando nella nazione più potente del mondo? Le notizie si
susseguono, ora dopo ora, talvolta minuto dopo minuto, le
versioni si accavallano,
le analisi si moltiplicano. Potere esecutivo, potere
giudiziario, potere legislativo si scontrano l'uno contro
l'altro, in una lotta fratricida che
rischia di mettere in empasse la capacità decisionale della
grande nave americana, il cui capitano sembra ormai più
impegnato a
difendersi a colpi di tweet che non a fare il Presidente.
Abituati come siamo al teatrino della politica italiana,
fatichiamo a capire la
gravità della situazione - poco aiutati dai media di casa,
bisogna dirlo. E tuttavia, fattori la cui rilevanza da noi è
considerata poco
più che marginale, negli Stati Uniti possono causare la
disfatta politica di un leader, soprattutto se inviso alla
quasi totalità
dell'establishment. Dunque, la domanda va posta: quali sono i
problemi 'domestici' di Donald Trump, e quali scenari futuri
si prospettano?
La Russia e le elezioni presidenziali
Secondo un'indagine condotta lo scorso anno dalle agenzie di intelligence americane Cia, Fbi e Nsa su ordine di Obama e resa pubblica all'inizio dello scorso gennaio, il presidente russo Vladimir Putin avrebbe ordinato personalmente attacchi informatici ai danni dei partiti americani, allo scopo di influenzare il risultato delle elezioni del novembre 2016.
Il dibattito impegna le sinistre da tempo, alla ricerca di una sintesi tra lotta di classe e per il riconoscimento
Qualcuno ricorderà il
gioco da tavolo Taboo, nel quale i partecipanti devono
indovinare una certa parola senza mai pronunciarla ma
evocandola in vari modi. Nello
stesso modo il dibattito pubblico sembra impegnato da qualche
anno in un’elaborata partita di Taboo pur di non
pronunciare una certa
parola. Chi la pronunciasse rischierebbe di essere accusato di
passatismo, d’intenti polemici, o ancora di voler semplificare
troppo le
questioni sociali; eppure ce l’abbiamo tutti sulla punta della
lingua, pronta a scappar fuori. È la parola “classe”.
Ma cos’è successo a questo termine, dalla storia lunga e gloriosa? Oggi per poter dire la stessa cosa – che non siamo tutti uguali, che c’è chi ha di più e chi ha di meno, e che questo rende sin dall’inizio i nostri destini diversi – si tende a preferire termini come «diseguaglianza» o «strati sociali», che assegnano alla questione un’aria neutralmente statistica. Perché con la classe non vogliamo fare i conti. Nel suo bestseller intitolato Chavs. The Demonization of the Working Class, Owen Jones ha notato che se nel Regno Unito commenti razzisti o omofobi sono ormai da tempo banditi, lo stesso non si può dire di espressioni classiste come chav, grossomodo traducibile con ‘tamarro’ o ‘poveraccio’ — al punto che il termine può essere utilizzato pubblicamente senza conseguenze.
Quando si parla di
reddito di base
(RdB) sarebbe necessario fare chiarezza, perché il dibattito
sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto
confuso: reddito
di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di
autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come
sinonimi delle diverse
proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà,
cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e
specifica: il
pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura,
come è, in genere, il welfare), su base individuale
(non familiare, come
sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per
tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e
incondizionato (non vincolato ad
un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato
del lavoro) [1]. Questa nuova forma di welfare viene
presentata spesso
dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per
superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in
questa nuova
fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione,
oggi, in questo periodo di crisi.
Tale proposta viene giustificata teoricamente con la ricerca di una giustizia redistributiva (Rawls), del superamento o arginamento della povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (Negri).
USA: lo stato profondo
Quest’articolo ha uno scopo delimitato: esaminare gli orientamenti e le iniziative degli organi dell’Unione Europea (UE), o di suoi influenti rappresentanti, relativamente all’attuale fase della globalizzazione, dopo che dagli USA il presidente Trump ha fatto risuonare il grido America first! Una prima reazione di commentatori, di esperti e anche di militanti della sinistra anticapitalista hanno frettolosamente reagito affermando che il ciclo della globalizzazione si era ormai chiuso e hanno profetizzato il ritorno al protezionismo a difesa degli interessi nazionali. Dunque, fine imminente della globalizzazione e rinascita dei conflitti tra Stati nazionali, chiamati a sostenere i rispettivi capitalismi. Paradossalmente queste posizioni tradiscono una visione tipica dell’ideologia liberale che da Montesquieu in poi ha esaltato il dolce commercio come base per costruire relazioni armoniche e pacifiche tra nazioni ad economia capitalistica, dimenticando che nel mercato mondiale da sempre si sono svolti e, nella sua attuale fase di globalizzazione, si svolgono azioni sia di cooperazione sia di conflitto, anche militare, tra grandi spazi economico-politici.
Affrontare
il tema
del lavoro irregolare presenta ampi margini di complessità
legati sia alla natura del fenomeno, che per definizione si
sottrae alle
informazioni ufficiali, sia alle variegate modalità con cui si
presenta.
Stando alle definizioni ufficiali, utilizzate dall’Istat, le unità di lavoro irregolare sono quelle «relative a prestazioni lavorative svolte senza il rispetto della normativa vigente in materia lavoristica, fiscale e contributiva, quindi non osservabili direttamente presso le imprese, le istituzioni e le fonti amministrative»[1]. Dal quadro d’insieme, riportato dall’Istituto Nazionale di Statistica e aggiornato fino al 2014, emerge che il contributo al pil del lavoro irregolare ammonta a 77,2 miliardi di euro, corrispondente a circa il 5,3% del valore aggiunto totale. A questi dati corrisponde una stima di 3 milioni 667mila unità di lavoro irregolare, di cui 2 milioni 595mila relative a posizioni di lavoro subordinato e 1 milione e 72mila a lavoro indipendente (o autonomo).
L’irregolarità aumenta rispetto ai primi anni della crisi (2011) di oltre 100 mila unità, effetto probabilmente dovuto alla tendenza delle imprese a ridurre il costo del lavoro al fine di non essere espulse dal mercato e allo stesso tempo alla disponibilità dei lavoratori ad accettare un rapporto di lavoro anche non regolare per evitare una contrazione drastica del reddito dovuta alla disoccupazione.
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Dopo il
salvataggio delle banche
venete, per l’economista siamo giunti ad un sistema che
privatizza i profitti e socializza le perdite: “L’intervento
dello Stato a
favore dei capitali privati, tra l'altro, implica aumenti
significativi del debito pubblico”. Così boccia la visione
dello Stato come
semplice “ancella” del capitale privato e non vede in Italia
forze politiche capaci di proporre un'alternativa: “A
sinistra del Pd
noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan
del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro
di essi”.
Difendere la Costituzione? “Non basta”.
«Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite». Con una recente intervista in cui dichiarava che alle presidenziali francesi non avrebbe votato «né per la fascista Le Pen né per il liberista Macron» Emiliano Brancaccio aveva diviso il popolo della sinistra. Ora - a partire dal recente provvedimento del governo che in una notte ha stanziato ben 5 miliardi per il salvataggio di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza - l'economista ragiona sulle contraddizioni del nuovo intervento statale in economia, fatto soprattutto di compravendite a favore del capitale privato. Il mondo intorno a noi si trasforma mentre, secondo lui, in Italia la sinistra si attarda in «una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici e ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo».
Il ruolo svolto dalla Germania a
livello
politico ed economico all'intemo del contesto europeo - e, più
in generale, di quello mondiale - è sotto gli occhi di tutti e
nelle
parole di molti di più.
Il nesso che si è affermato tra le sue performance economiche e la sua preminenza politica ha, inoltre, posto la Germania alternativamente come nemico da combattere o come modello da imitare.
La luce del 'miracolo' tedesco non dovrebbe però impedirci di ricostruirne la genesi, considerarne i fondamenti e, così facendo, cogliere la vasta zona d'ombra che, come vedremo, lo avvolge se si guarda alla realtà sociale. Così facendo emergono delle linee di frattura assai diverse: non tanto lungo i confini geografici bensì interne alla società tedesca stessa, che la accomuna a una situazione presente in tutta Europa.
Due eventi possono essere considerati al contempo come spartiacque della recente storia tedesca e come snodi nel processo di edificazione della sua egemonia:
Uno stralcio dell’introduzione di Vladimiro Giacché al volume Lenin, Economia della rivoluzione, Milano, Il Saggiatore, 2017, da oggi in libreria; sono state riprodotte le pagine 14-19, eliminando poche righe di testo, nonché alcune note e riferimenti testuali. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore questa parte del libro è stata pubblicata da Marx XXI e condividiamo su Fattore K
Per creare il socialismo, voi dite, occorre la
civiltà. Benissimo. Perché
dunque da noi non avremmo potuto creare innanzi tutto
quelle premesse della civiltà che sono la cacciata dei
grandi proprietari fondiari e la
cacciata dei capitalisti russi per poi cominciare la
marcia verso il socialismo?
LENIN, Sulla nostra rivoluzione,
17 gennaio 1923
Quando Lenin, il 30 novembre 1917, licenziò per la stampa Stato e rivoluzione, accluse un poscritto in cui informava il lettore di non essere riuscito a scrivere l’ultima parte dell’opuscolo originariamente prevista. E aggiunse: «la seconda parte di questo opuscolo (L’esperienza delle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917) dovrà certamente essere rinviata a molto più tardi; è più piacevole e più utile fare “l’esperienza di una rivoluzione” che non scrivere su di essa».
L’esperienza in questione era iniziata il 25 ottobre 1917 (7 novembre secondo il calendario gregoriano, che dal marzo 1918 sarebbe stato adottato anche in Russia). La notizia era stata comunicata ai cittadini russi attraverso un appello, scritto dallo stesso Lenin, in cui si dava notizia dell’abbattimento del governo provvisorio guidato da Kerenskij e del passaggio del potere statale «nelle mani dell’organo del Soviet dei deputati operai e soldati di Pietrogrado, il Comitato militare rivoluzionario».
Com'è noto il mandato di Mario Draghi come Presidente della Bce scade nell'ottobre 2019. E' noto che i banchieri tedeschi non hanno mai davvero digerito la sua politica monetaria "espansiva" (Quantitative easing), politica che senza dubbio ha evitato il crack del sistema bancario dell'Unione (checché se ne dica a Berlino quello tedesco incluso), quindi la stessa moneta unica.
Critiche a Draghi che sono state reiterate anche di recente.
Il presidente della DeutscheBundesbank Jens Weidmann [nella foto] ha ad esempio affermato a Berlino il 29 maggio scorso:
«Solo per pochi la Coca Cola può fare parte di un regime alimentare sano e la caffeina, al posto di uno stile di vita salutare, alla fine non fa che aumentare i rischi. Per lo stimolo monetario vale lo stesso: può essere usato, come la caffeina, per ‘risvegliare’ l’economia ma un consumo eccessivo porta a rischi e a effetti collaterali nel tempo...Anche la Coca-Cola, come le politiche di sostegno monetario, vengono usate come rimedi per tutti i mali: oltre al suo vero compito, che è quello di mantenere stabili i prezzi, la politica monetaria dovrebbe rafforzare la crescita, abbassare il tasso di disoccupazione, garantire la stabilità del sistema finanziario e, assieme, anche rendimenti adeguati ai cittadini».
Al netto delle analogie gastronomiche, un distillato chimico della dogmatica monetarista teutonica (stabilità dei prezzi come stella polare), un esempio del rapporto patologico che in Germania si ha col denaro.
L’improvvisa conversione del governo al salvinismo, dopo il disastro delle elezioni amministrative, ha qualcosa di patetico, di ipocrita e di perverso insieme: la letterina all’Europa, la minaccia di chiudere i porti alle navi delle cosiddette e soprattutto sedicenti ong che trasportano profughi, l’improvvisa scoperta da parte della stampa di regime che Fayez al-Serraj non è il governo libico e non controlla un bel nulla fanno parte di un ben misero repertorio che svela in ogni caso l’inconsistenza delle parti in commedia assegnate dal regista europeo alle forze politiche che sostengono la Ue e la sua oligarchia. Destra vera e sinistra di fantasia si spartiscono un menù del giorno che cambia a seconda della situazione.
Ma anche senza questo elemento di svuotamento della politica le cose non migliorano di molto e rimane la grande frattura nella realtà: da una parte l’immigrazione accettata o respinta a seconda dei casi, delle parti e delle occasioni cui fa riscontro dall’altra una totale accettazione dei disegni geopolitici che la provocano. E’ del tutto evidente che nessuna reale soluzione è possibile o proponibile a partire da questa schizofrenia: non si può assentire prima alla dissoluzione della Libia, poi al caos medio orientale indotto, poi alla democratica nazificazione ucraina in funzione antirussa, alle perenni rapine in Africa sotto pretesto umanitario, non si può partecipare attivamente a questa narrazione e poi lamentarsi che con l’immigrazione non se ne può più, andando a traino del demagogo più occasionale.
Per i colossi del web è vitale poter acquisire masse di informazioni sempre più grandi, sempre più personali e sempre più aggiornate. Estrarre, mercificare e controllare, come funziona il capitalismo della sorveglianza
Nella Londra di 1984, il solo luogo dove Winston Smith può nascondersi per sfuggire allo sguardo inquisitorio di Big Brother è una piccola intercapedine della sua casa. Asserragliarsi in quel rifugio è l’unica strategia per pensare in modo autonomo fuggendo dall’eterno presente in cui sono costretti gli abitanti di Oceania. La sorveglianza ininterrotta e la sistematica distruzione di tutto ciò che è esperienza e storia annichilisce l’arbitrio, erigendo il riflesso condizionato a norma comportamentale. Nel 1984, lo stato d’emergenza permanente giustifica ogni forma di repressione e rende accettabili le più odiose condizioni sociali. Una comunicazione di massa cacofonica e martellante inverte e mortifica il reale, ad uso e consumo dei governanti. “Guerra è pace. Ignoranza è forza. Libertà è schiavitù”. Più si dimostra contraddittoria e priva di coerenza e più la cultura dominante stringe il giogo al collo delle masse, conformando i pensieri nei loro meandri più profondi.
A sessantotto anni dalla pubblicazione del visionario romanzo di George Orwell, il modo di produzione capitalistico sta attraversando una profonda trasformazione che, a tratti, ricorda lo scenario distopico governato dalla IngSoc. Secondo la sociologa Shoshana Zuboff, il regime di accumulazione che va oggi consolidandosi ha nella sorveglianza uno dei suoi tratti essenziali.
Da qualche giorno la compagna e giornalista del manifesto Geraldina Colotti è vittima di un vero e proprio linciaggio (per fortuna solo virtuale) scatenato dal dissociato Enrico Galmozzi. Poca roba e pure triste, se non fosse che la vicenda ha progressivamente assunto i sordidi caratteri della resa dei conti. A difendere l’attacco gratuito e meschino del dissociato sono infatti intervenuti addirittura diversi colleghi della stessa Geraldina. Mascherato da ambigue disquisizioni sulla deontologia giornalistica s’intravede un linciaggio politico per interposta polemica. Perché tutto questo? Noi siamo inevitabilmente di parte: Geraldina è una “nostra” compagna, mentre Galmozzi è solo un dissociato. Il discorso potrebbe chiudersi qua, eppure sentiamo comunque il bisogno di parlarne perché, nonostante la distanza siderale che divide le nostre posizioni politiche con quelle del manifesto, ne abbiamo un rispetto che travalica questa stessa distanza.
Il manifesto è, o per meglio dire potrebbe essere, ancora uno strumento utile e importante nel dibattito della sinistra. E’ un organo di informazione ma anche un luogo dove pezzi di questo dibattito emergono dal sottosuolo militante nel quale oggi sono forzatamente confinati. Svolge un ruolo politico e pubblico, notevolmente depotenziato dalle scelte politiche di quel collettivo di giornalisti, ma che va salvaguardato e, laddove possibile, orientato verso una pluralità di posizoni in grado di rispecchiare ciò che si muove a sinistra.
1. Perché “Marxismo Oggi”
Più volte nella storia si è assistito a fasi di crisi del marxismo; più volte, anzi, lo stesso marxismo è stato dato per morto. Eppure la materialità e irriducibilità delle contraddizioni reali hanno ogni volta posto di nuovo all’attenzione di studiosi e opinione pubblica, intellettuali e masse, il valore e l’utilità del marxismo come strumento analitico della realtà.
Negli ultimi decenni si è assistito a un’offensiva più decisa, una sorta di destrutturazione-delegittimazione dell’approccio e dello stesso lessico marxista, ad opera dei sostenitori del “pensiero unico” e dalle loro “corazzate” mediatiche. L’ondata neoliberista iniziata già negli anni Settanta, l’omologazione culturale avanzata nel decennio successivo e il crollo del “socialismo reale” nel 1989-91 hanno determinato le condizioni fondamentali per tale controffensiva ideologica, celata dietro il velo della “fine delle ideologie”.
L’approccio marxista veniva il più possibile espunto dalle università, dalle case editrici, dai centri di ricerca, oltre che ovviamente dai mass-media.
L’esistenza di una
classe che non possiede
null’altro che la capacità di lavorare, è
una
premessa necessaria del capitale (K. Marx).
La Comunità non troverà
pace, armonia
e
felicità fin quando non ruoterà attorno
al sole dell’individuo che non conosce
classi sociali.
Socializzare il Capitale non è un’ipotesi come un’altra, ma una vera e propria sciocchezza concettuale, un’assurdità dottrinaria, un ossimoro che si giustifica solo con una profonda ignoranza circa il concetto di Capitale da parte di chi dovesse sostenere il carattere rivoluzionario di quel vero e proprio pastrocchio ideologico. Vediamo, in breve, perché.
Comincio affermando senza alcun tentennamento che un abisso ideale e reale separa il concetto di socializzazione dei presupposti materiali della produzione della ricchezza sociale (mezzi di produzione, materie prime, ecc.) dai concetti di nazionalizzazione e statizzazione (1) di questi stessi presupposti – che nelle sue opere “economiche” Marx definisce «condizioni oggettive di lavoro».
Non la smettiamo un secondo di «fare del comune» e di «essere fatti dal comune». Tutto sta nel sapere quale
A prima
vista sembrerebbe paradossale presentare, nell’ambito di
questa mostra e nel contesto di una conferenza sul comunismo,
una relazione dedicata al
non comune. Per spiegare questa scelta devo cominciare
scartando subito un malinteso. Il non comune di cui parlo non
è l’individuale, il
separato, l’unico. Per abbordare la questione del comune e del
comunismo bisogna uscire dalla concezione che oppone la
comunità alla
solitudine o all’egoismo dell’individuo separato. In molti
discorsi che vengono fatti sul comune, la comunità o il
comunismo,
è come se si trattasse di creare un comune che non esiste,
come se la condizione degli individui nelle nostre società
fosse una
condizione di isolamento da denunciare, e cui dovremmo porre
rimedio. Ci trasciniamo dietro ancora oggi la visione secondo
cui il socialismo e il
comunismo del XIX secolo hanno ereditato il pensiero
contro-rivoluzionario. Questa visione ha fatto della
Rivoluzione francese il compimento della
catastrofe individualista moderna cominciata col
protestantismo e proseguita con l’Illuminismo. Questo
individualismo avrebbe strappato gli
individui alla solidarietà e alla protezione del grande
tessuto sociale costituito dalle gerarchie tradizionali,
trasformandoli in atomi
isolati. Ma conviene uscire da questa drammaturgia tragica
dell’individualismo. Noi non siamo in alcun modo degli esseri
isolati. I nostri
pensieri, i nostri sentimenti, le nostre azioni individuali si
inseriscono in una moltitudine di forme di comunità.
La scorsa settimana il Consiglio d’Europa ha rinnovato per altri sei mesi le sanzioni economiche contro la Russia, prolungando le misure prese dopo l’annessione della Crimea del 2014 e ripetendo l’accusa secondo cui il Cremlino non rispetta gli Accordi di Minsk per la composizione pacifica della questione del Donbass. Sulle motivazioni si può discutere all’infinito. Più interessante discutere sui risultati ottenuti dalle sanzioni, alle quali si dà grande importanza fino a considerarle un’alternativa credibile e incruenta alla guerra. Nel caso della Russia, com’è ovvio, gli spiriti sono assai divisi. Se il lettore si rivolge ai siti più militanti, come quelli dell’Euromaidan aspramente anti-russo dell’Ucraina, o a certe voci della politica americana, troverà un quadro a tinte forti: le sanzioni funzionano, la Russia è sull’orlo del collasso, bisogna insistere e anzi incrementarle. Ma è davvero così? La realtà dice il contrario.
La Russia non ha mollato la Crimea, non cede sul Donbass, mantiene tutto il proprio impegno militare e politico in Siria e dintorni. Questo non vuol dire che essa non paga un prezzo per le proprie decisioni politiche, soprattutto considerato il crollo del prezzo del petrolio che ha impoverito le sue riserve di valuta forte. Ma è un prezzo che le risulta ancora sopportabile, sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista politico.
C’era una volta, in un tempo che oggi sembra lontano lontano, un capitalista (e un capitalismo) dal volto umano e soprattutto umanistico. E che, diversamente dai neoliberali di oggi, non voleva trasformare la società in mercato, la vita in concorrenza di tutti contro tutti e ciascuno in mero imprenditore di se stesso. Un capitalista che certo aveva come suo baricentro l’impresa, ma un’impresa che si poneva al servizio della comunità e degli uomini e che voleva perfino democratizzare se stessa conferendo ai lavoratori e alle istituzioni del territorio la proprietà o la partecipazione alla gestione dell’impresa stessa. Un capitalista diventato per alcuni un mito e in parte certamente lo era (in verità i miti sono sempre pericolosi perché raccontano una verità che non sempre è la verità). Un mito, allora e forse, di nome Adriano Olivetti. Su cui torniamo grazie a un libro scritto da Alberto Saibene – L’Italia di Adriano Olivetti – diviso sapientemente tra storia d’impresa e storia culturale, tra biografia personale e biografia della nazione di quegli anni.
Olivetti, dunque: amato da una minoranza di intellettuali; disamato dagli altri imprenditori (perché troppo anticipatore del futuro o perché troppo diverso dal modello standard); disamato anche (con qualche ragione, a onore del vero) da parte di certa sinistra perché la sua proposta di comunità sembrava contraddire la lotta di classe volendo costruire invece una comunità quasi olistica/organicistica
E’ un dato di fatto che in regime capitalistico i lavoratori sono esclusivamente capitale variabile da sfruttare, possibilmente super flessibili per entrare e uscire dai meccanismi produttivi in base alle necessità di valorizzazione del Capitale. Alla disumanizzazione di questo sistema si aggiunge il rivoltante quadro politico italiano. La recente questione dei voucher evidenzia la meschinità della borghesia italiana, dei politicanti di governo e di opposizione, della ipocrita e fasulla democrazia borghese. Il governo per evitare il referendum sulla abolizione dei voucher, cioè la forma forse più odiosa di abuso del lavoro, li ha prima cancellati per riproporli nuovamente con qualche modifica di facciata.
Ancora peggio è andata in precedenza con la finta contrapposizione tra sindacati e imprenditori per quanto riguarda il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. I sindacati, con il plauso di Confindustria, hanno spacciato per positivo un vergognoso accordo che riguarda oltre 1,6 milioni di lavoratori dell’industria, la categoria di punta tra i salariati, apripista delle novità che riguarderanno anche le altre categorie.
E’ scontato il ruolo attivo di Cgil-Cisl-Uil nel sostenere le esigenze padronali in nome dei sacri interessi dell’economia nazionale, l’esperienza insegna, però mai in passato si era giunti a tanta spudoratezza.
La notizia del prossimo ingresso di Landini nella segreteria nazionale Cgil era annunciata da tempo. L’operazione è parte di un accordo complessivo che consegnerà i metalmeccanici ad una persona di assoluto gradimento di Susanna Camusso. Non c’è alcun motivo di stupore.
Si tratta della formalizzazione della svolta che, sotto la guida autoritaria e dispotica di Landini, ha cancellato con caparbietà e determinazione ogni differenza programmatica, politica e contrattuale tra la Fiom e la Cgil. Occorre andare molto indietro nel tempo per ritrovare un Segreterio generale Fiom eletto in segreteria nazionale Cgil. Una cortesia che non solo non è stata riconosciuta a Sabatini e a Rinaldini al termine del loro mandato alla guida dei meccanici, ma non è stato loro neanche offerto un incarico qualsiasi in confederazione.
Oggi Landini entra, a pieno titolo, in una Cgil che è ai minimi storici della sua credibilità, senza più anima e testa, e in caduta libera di iscritti e rappresentatività. È la Fiom che conquista la cgil o viceversa? Con buona pace di tutti coloro che hanno bisogno di eroi presunti e feticci a cui affidare le ceneri della radicalita’ che fu, la fiom che ha ordinato la battaglia più che decennale, sociale e politica, in difesa del contratto nazionale, della democrazia e del sindacalismo indipendente non esiste più.
Nelle ultime settimane si sono susseguiti sui giornali, sui siti, sui blog e nei convegni, ripetuti appelli a realizzare l’unità delle forze alternative, evitando di commettere gli stessi errori degli ultimi dieci anni, che hanno fatto dissolvere la residua presenza della sinistra radicale nel parlamento del nostro paese. E’ fuori di dubbio che il bisogno di non incorrere nuovamente negli errori del passato sussista, appunto perché, col regresso economico e l’impoverimento di molti, larga parte della società ha finito col trovarsi senza alcuna rappresentanza politica e senza possibilità di incidere per altra via sulla dinamica sociale. Ma né la pura e semplice enunciazione di un bisogno, né la sua ripetizione insistente, possono garantirne la soddisfazione, finché rimangono su un piano ritualistico. Come scrive John Kafka, “i rituali hanno il potere di indurre chi vi partecipa un senso di completamento, la sensazione di aver compiuto un atto che rende soddisfatti e sereni. Ma a volte, e ciò accade nel caso dei comportamenti ritualistici, essi possono invece generare un senso di ripetitività meccanica, che non riesce a conquistarsi un suo significato e anzi lascia l’impressione di essersi cacciati in una successione infinita di atti falliti.”
Per avere qualche speranza di giungere ad un risultato positivo il bisogno deve, dunque, essere formulato in maniera socialmente valida.
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Pubblichiamo la traduzione di un estratto dal nuovo libro di Tariq Ali “The Dilemmas of Lenin“
Perchè Lenin? Per prima cosa
quest’anno è il centenario dell’ultima più grande
rivoluzione d’Europa. A differenza di quelle precedenti la
Rivoluzione d’Ottobre del 1917 trasformò le politiche mondiali
e, nel
processo, trasformò il ventesimo secolo con l’assalto frontale
al capitalismo ed al suo impero, accelerando la
decolonizzazione.
Secondariamente l’ideologia dominante odierna e le strutture
di potere che difende sono talmente ostili alle lotte sociali
e di liberazione del
secolo scorso che la riscoperta di quanta più memoria politica
e storica possibile è di per sé un atto di resistenza. In
questi
brutti tempi persino l’anticapitalismo in offerta è limitato.
E’ apolitico e non storico. Il vero scopo della lotta
contemporanea
non dovrebbe essere di imitare o ripetere il passato ma di
assorbire le lezioni sia positive che negative che offre. E’
impossibile raggiungere
questo scopo però se si ignora il soggetto dello studio. A
lungo, nello scorso secolo, coloro che onoravano Lenin per lo
più lo
ignoravano. Lo santificavano ma raramente ne leggevano gli
scritti. Più spesso che non, e in ogni continente, Lenin è
stato male
interpretato e usato in malo modo per scopi strumentali
proprio dai suoi sostenitori: partiti e sette, grandi e
piccoli che ne reclamavano il
mantello.
Sugli
ultimi raggiungimenti dell’archeologia complessa[1] su cui basare la
proto-storia[2],
ci informa M. Liverani con la riedizione del suo: Uruk, la
prima città, Laterza, Bari Roma, 1998-2017. Il periodo è
quello Antico Uruk
– Tardo Uruk in Mesopotamia, tra il 4000 ed il 3000 dove una
società a doppia circonferenza centro-periferia, ruota intorno
ad una forte
credenza condivisa[3], amministrata da un centro templare.
Questo possiede una sua élite e sua mano d’opera ma si avvale
anche di
corveé generali stagionali per la coltivazione di propri campi
di orzo che poi, sottratto l’automantenimento del centro
templare, viene
accumulato e reinvestito in scopi sociali. In termini di
libertà, concetto caro ai moderni, il popolo era suddito per
le questioni politiche e
fiscali ma libero dal punto di vista economico. Le élite
templari dicendosi suddite degli dei ed amministrando la
credenza condivisa,
accumulavano potere gerarchico sociale. L’economia era mista
tra pubblico e privato, sia nel possesso di terra che nella
sua lavorazione, non
meno che nell’artigianato e nel sistema di scambio esterno
mercantile.
L’emersione di queste prime forme di gerarchia che iniziano la prima complessità delle società sembra provenire da un processo funzionale, l’autorganizzazione sociale trova la via più facile per reggere la propria crescente complessità[4] riducendosi spontaneamente in un centro che quindi non si afferma per coercizione.
La dimenticata rivoluzione finlandese è forse fonte di maggiori insegnamenti che gli stessi avvenimenti del 1917 in Russia, stando alla ricostruzione di Eric Blanc*, che presentiamo nella traduzione di Valerio Torre del blog Assalto al cielo (assaltoalcieloblog.wordpress.com)
Nel secolo appena trascorso, i
lavori di
ricerca storica sulla rivoluzione del 1917 si sono per lo più
concentrati su Pietrogrado e sui socialisti russi. Ma l’impero
russo era
prevalentemente composto da non-russi, e le convulsioni nella
periferia erano solitamente esplosive come quelle del centro.
Il rovesciamento dello zarismo nel febbraio del 1917 scatenò un’ondata rivoluzionaria che inondò immediatamente tutta la Russia. Forse la più eccezionale di queste insurrezioni è stata la rivoluzione finlandese, che uno studioso ha definito «la più esemplare guerra di classe nell’Europa del XX secolo».
L’eccezione finlandese
I finlandesi costituivano una nazione differente da qualsiasi altra sotto il dominio zarista. Appartenuta alla Svezia fino al 1809, quando fu annessa alla Russia, la Finlandia godeva di autonomia governativa e libertà politica ed ebbe infine anche un parlamento proprio, democraticamente eletto. Benché lo zar tentasse di limitarne l’autonomia, la vita politica di Helsinki somigliava più a quella di Berlino che di Pietrogrado.
In un’epoca in cui i socialisti nel resto della Russia imperiale erano costretti ad organizzarsi in partiti clandestini ed erano perseguitati dalla polizia segreta, il Partito socialdemocratico finlandese (Psd) faceva politica legalmente.
La Francia e l’Iran rompono l’isolamento internazionale sui grandi contratti con l’Occidente. L’accordo da 4,8 miliardi di dollari firmato dalla Total con l’Iran per sfruttare insieme ai cinesi della Cnpc il mega-giacimento di gas a South Pars è la prima vera grande sfida alle sanzioni finanziarie confermate da Donald Trump alla repubblica islamica. Segna anche il ritorno di una grande compagnia occidentale in Iran dopo l’accordo sul nucleare del 2015 e l’annullamento delle sanzioni sugli investimenti in Iran nel settore energetico.
Finora gli accordi con Teheran erano stati frenati dal timore che gli americani potessero punire le aziende e le banche occidentali con sanzioni di tipo finanziario e creditizio: questo è il senso profondo di un’intesa economica che costituisce anche un messaggio politico della Francia di Macron. Si tratta ovviamente di un segnale incoraggiante per l’Italia, che in Iran ha 25 miliardi di dollari di contratti pronti a partire e che sono congelati dai timori di sanzioni americane.
L’intesa per South Pars prevede la costituzione di un consorzio dove la Total avrà una quota di maggioranza del 50% mentre il 30% va alla compagnia cinese Cnpc e un quota del 20% all’iraniana Petropars. La Total in concreto effettuerà un investimento da un miliardo di dollari, consistente ma non eccezionale visto che, per fare un esempio nel campo occidentale, in passato l’Eni aveva già attuato in Iran investimenti di questa taglia.
Pur non arrivando alla perfezione del saggio che ammonisce domandando: “ Come si può ridere quando il mondo intero è in fiamme?”, mi riservo il diritto di ribadire che i comici italiani, da Sordi a Villaggio, senza escludere quelli ancora in piena attività come Crozza, hanno contribuito ad accreditare e rafforzare nell’immaginario collettivo la rappresentazione di un popolaccio ignavo e viscido, furbesco e servile, cui è preclusa ogni prospettiva di riscatto e di riscossa. Si tratta di una rappresentazione talmente denigratoria che non poteva non trovare un vasto spazio nei ‘mass media’ padronali.
Dobbiamo pertanto a Villaggio la creazione di personaggi, a partire da quello più emblematico, cioè Fantozzi, che sono, alla lettera, degli idioti, laddove dietro la loro idiozia s’intravede la smorfia dell’autore che li manovra come burattini per veicolare un’interpretazione della società che è di stampo prettamente qualunquista-anarcoide (non la direi anarchica, perché i veri anarchici sono persone serie). In conclusione, il ‘caso Villaggio’ ci insegna, ancora una volta, a capire che il riso comporta un grado elevato di complicità con il potere e con l’ideologia dominanti, il che, ne convengo, non è facile da concedere. Che il riso non castighi i costumi ma li confermi, è certamente duro da ammettere.
Volentieri pubblichiamo questo intervento di Riccardo Achilli, responsabile economia di Risorgimento Socialista e membro della Confederazione per la Liberazione Nazionale (CLN)
Ci sarebbe veramente molto poco da dire sull’happening odierno di Piazza Santi Apostoli. Si è trattato in buona sostanza di un evento di riorganizzazione delle macerie della Sinistra Dem e della componente Popolar-democristiana del Pd, maciullate dal renzismo ma, più di tutto, dalla loro assoluta inadeguatezza storica nell’interpretare la fase e dal grave livello di compromissione dei loro dirigenti, che hanno rappresentato il passaggio liberista, nascosto da finto progressismo, del Pd che ha sostenuto il Governo Monti, la legge-Fornero, che non ha combattuto, preferendo uscire dall’Aula, il Jobs Act.
Casi umani, quasi di interesse psichiatrico, di personaggi oramai senza popolo (la microscopica piazza Santi Apostoli era piena perlopiù di esponenti e militanti di professione del ceto politico targato Sinistra Dem, rimasti dentro il Pd o fuoriusciti, e dell’associazionismo collegato a tale componente, di popolo non vi era pressoché traccia) intenti a difendersi dalla nemesi storica, dopo aver fallito il tentativo di rivendersi come facilitatori da sinistra dell’applicazione del pensiero neoliberista.
Forse non tutti sanno che una davvero ingente massa di prodotti finanziari, genericamente noti come "derivati", grava sull'economia mondiale: un derivato viene definito come "un contratto fra due o più parti contraenti il cui valore appunto deriva dal valore futuro di un bene, di un indice di riferimento o di un soggetto finanziario". Sono diversi i tipi di derivati, dai più noti futures ai meno noti forward contracts, options, warrants, swaps. Molti di questi contratti sono gestiti all'interno di borse regolamentate, ma la stragrande maggioranza no: sono i cosiddetti scambi over the counter, noti con la sigla OTC, che sfuggono quindi a qualsiasi tipo di controllo da parte delle cosiddette istituzioni finanziarie.
La stima del volume complessivo di questi prodotti oscilla tra i 630mila miliardi e 1,2 milioni di miliardi di dollari, rispetto ad un prodotto interno lordo mondiale di 78mila miliardi di dollari, tanto per avere un riferimento all'economia reale. Gli effetti che queste armi della speculazione finanziaria possono avere sull'economia reale lo abbiamo già sperimentato nel 2008, dato che proprio derivati come i collateralized debit obligations (CDO: in sostanza derivati che incorporavano mutui di clienti ad altissimo rischio) ed i credit default swaps (CDS: in sostanza derivati che scommettevano sulla possibilità che un'azienda o un Paese fallisse...) sono stati all'origine della crisi finanziaria mondiale innescatasi quell'anno.
In un testo del 1993 (Cultura e
imperialismo) lo
studioso palestinese Said, nell’indagare la complicità della
cultura occidentale con il progetto egemonico imperialista,
imputava a
Foucault, alla teoria critica della Scuola di Francoforte e in
genere il marxismo occidentale di non essersi dimostrati
«alleati affidabili
della resistenza all’imperialismo», addirittura di fare parte
«di quello stesso, offensivo “universalismo” che ha per
secoli collegato la cultura all’imperialismo».
Sul versante africano, lo storico ed economista Hosea Jaffe (Abbandonare l’Imperialismo, 2008), nel denunciare il più grande «abbandono» della storia dell’umanità, il «terzo mondo» abbandonato dall’imperialismo del «primo mondo», richiamava alla lotta di classe anti-imperialista attraverso un’azione collettiva, politica ed economica di contro abbandono marcata dalla distanza che separa il marxismo-leninismo dal marxismo occidentale. Quest’ultimo, concentrandosi sulla dicotomia socialismo versus capitalismo e avendo amputato il capitalismo della sua radice imperialistica, meritava l’appellativo di «eurocentrico e amerocentrico» e convinceva Jaffe a guardare alla Cina, il paese che ha realizzato la più grande rivoluzione anticoloniale della storia, e alla sua economia «anti-imperialista in sé e nei suoi effetti» quali possibili sostegni di una storia rivoluzionaria alternativa dei paesi anti-imperialisti.
Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo?, traduzione Elena Zuffada, con un intervento di Nadia Urbinati, Università Bocconi editore, Milano 2017, pp. 137
La
questione
attorno alla quale ruota questo saggio scritto da Jan-Werner
Müller, professore di politica alla Princeton University, è il
populismo, un
argomento ormai alla ribalta delle discussioni politiche e che
sta investendo la società attuale, che vede coinvolti i
movimenti di destra come
quelli di sinistra; dal movimento del Front National di Marine
Le Pen a quello greco di Syriza e di Podemos in Spagna; gli
Stati Uniti con Donald
Trump e il movimento cinque stelle in Italia.
L’autore pone il populismo come realtà presente nella politica attuale, contrasto e contrapposizione alla democrazia, laddove il termine viene adoperato o etichettato come «anti-establishment» (p. 5), nel senso che si frappone a una determinata idea politica o ad un progetto politico.
Ciò su cui si pone immediatamente attenzione nel testo è l’idea che l’opinione pubblica ha del populismo o dei movimenti populisti in generale, come di un qualcosa caratterizzato più che altro da contenuti irrilevanti e da una emozionalità e una aggressività che porta i populisti a puntare sul malcontento popolare facendo incanalare la generale frustrazione, in direzione di una opposizione alle politiche europee.
Nell’era del pensiero unico neo-liberista, nella quale appare inverosimile mutare le politiche d’indirizzo economico, presentate alla collettività come necessarie, ineluttabili, dettate dal pilota automatico, si rincorrono, in Italia, tentativi di ricostruzione della sinistra, che di continuo sono progettati mediante appelli alla società civile al fine di attuare la Costituzione italiana
Costituzione,
società civile,
corpi intermedi
Già gli appelli alla società civile, entità astratta e non corrispondente ad alcun blocco sociale, sembrano in aperta contraddizione con lo spirito costituzionale, dato che essi si servono delle medesime caratteristiche di spoliticizzazione della società che sono insite nella prassi neo-liberista: il primato dell’economia sulla politica, il mito del privato rispetto al pubblico, la denazionalizzazione della moneta, lo smantellamento dello stato sociale, l’annientamento dei corpi intermedi ormai chiusi in apparati ermetici ma al contempo innocui e congeniali per il mantenimento dello status quo.
Difatti, proprio quando ci si rivolge alla società civile, si lascia intendere che i diritti sociali, ispirati a principi solidali e non mercantilistici, un tempo protetti dallo Stato, hanno perso la loro funzione politica: quella di dare rappresentanza allo scontro sociale.
Essi sono così sostituiti dagli interessi dei gruppi di pressione, che ancora organizzati in apparati burocratici, in realtà, perseguono fini privati, tendenti al mero profitto economico e trovano terreno fertile nel momento in cui il neo-liberismo ha operato una mutazione sostanziale dell’individuo ormai ridotto a imprenditore di sé stesso e a eterno soggetto desiderante, non più in grado di prendere coscienza delle condizioni di sfruttamento nei rapporti produttivi e di alienazione nella propria condizione esistenziale (1).
In una intervista a Le Monde, la filosofa Chantal Mouffe, vicina a Jean-Luc Mélenchon, rimprovera al nuovo presidente di essere la perfetta incarnazione di una politica che preclude il dibattito, relegando ogni opposizione agli estremi, allo scopo di imporre le idee liberali
Dopo l’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza della Repubblica, i media svengono per l’ammirazione davanti alla novità del suo programma. Superando il divario fra destra e sinistra, egli fornirebbe la soluzione agli eterni blocchi della società francese. La République En Marche (REM) sarebbe portatrice di una rivoluzione democratica atta a liberare tutte le energie delle forze progressiste, fino ad ora imbrigliate dai partiti tradizionali.
È, nondimeno, abbastanza paradossale presentare come rimedio alla profonda crisi di rappresentanza che affligge le democrazie occidentali proprio il tipo di politica che è all’origine stessa di questa crisi. Giacché essa risulta dall’adozione, nella maggior parte dei paesi europei, della strategia della Terza Via, teorizzata in Gran Bretagna dal sociologo Anthony Giddens e praticata dal New Labour di Tony Blair.
Dichiarando obsoleto il divario fra la destra e la sinistra, questa strategia lodava una nuova forma di governance nominata «centrismo radicale».
Il re di Francia è stato chiaro, per i cosiddetti migranti economici, gli italiani non avranno alcun aiuto: se la sbrighino fra loro pezzenti.
Chissà se Renzi ha ancora voglia di chiamarlo “l’amico Macron”, o è troppo impegnato a disegnare grafici a torta, anche se il grafico che illustrerebbe meglio la situazione nella quale si trova il PD è un grafico a merda.
Pur essendosi scelti a vicenda come arcinemesi, Renzi e Grillo stanno dimostrando la stessa attitudine alla negazione dell’evidenza.
Entrambi hanno strenuamente negato la disfatta elettorale alle comunali con imbarazzanti sofismi da Prima Repubblica, e appelli alla compattezza delle truppe vagamente intimidatori.
Il Cazzaro ha cercato contemporaneamente di minimizzarla e di darne la colpa agli scissionisti, nella sua rassegna stampa online che conduce in maniche di camicia blaterando e sudando come un cartomante da Tv locale.
Grillo l’ha definita una vittoria lenta.
Su un migliaio di comuni, il Movimento 5 Stelle ha eletto solo otto sindaci.
Ha preso l’otto per mille.
A questo ritmo avrà la maggioranza dei sindaci italiani nel 2274.
Di permanenza o uscita dall’euro si è discusso molto e male, in questi anni. Alle libere opinioni di commentatori improvvisati si sono aggiunte le petizioni di principio di colleghi che hanno preferito una pigra partigianeria alla fatica della divulgazione scientifica. Il lettore, desideroso di informarsi, si è trovato a scegliere tra sfocati bozzetti di catastrofi o paradisi, il più delle volte privi di riferimenti alla letteratura. Bene dunque ha fatto Luigi Zingales a promuovere una nuova discussione esortando gli studiosi partecipanti a seguire alcune semplici regole della ricerca, tra cui la buona prassi di distinguere tra impressioni personali e tesi supportate da pubblicazioni accademiche, contributi istituzionali, consensus tra gli esperti.
Zingales ci sollecita a valutare innanzitutto i costi e i benefici di un’eventuale decisione dell’Italia di uscire dall’euro. Ai fini di tale calcolo sarà bene evitare un’incresciosa abitudine che andava di moda tra gli accademici qualche anno fa, e che li induceva a esaminare l’economia come fosse costituita da un fantomatico agente unico, rappresentativo dell’intera collettività. Non occorre scomodare Marx per ricordare che in realtà il sistema è formato da attori sociali molto diversi tra loro, ed è quindi necessario chiarire a quali di essi facciamo ogni volta riferimento nelle analisi.
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/621/572
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Marco Gatto: Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell'Italia del Novecento, Quodlibet, Macerata 2016, pp. 192, ISBN 978-88-7462-945-9.
Il libro di Marco Gatto – pubblicato a giugno per la casa Quodlibet di Macerata – indaga il rapporto tra la critica letteraria marxista in Italia e gli spunti (perché soltanto di questo si può parlare) che Gramsci ha saputo offrire su questo tema ai lettori delle sue note carcerarie. Nonostante Gramsci è l'emblematico e suggestivo titolo dell'ultima pubblicazione del ricercatore calabrese che già in passato si era occupato della teoria culturale (prevalentemente letteraria) di ispirazione marxista e del suo declinare, a partire dagli anni Settanta, in àmbiti critici eterogenei ma decisamente più “levigati”, come i Cultural Studies o il decostruzionismo.
Senza correre il rischio di anticipare le conclusioni, ampiamente prevedibili, cui giunge il libro, si deve dire che l'obiettivo dichiarato dell'autore è qui leggere la critica letteraria dal Dopoguerra alla luce di un “tradimento” delle indicazioni gramsciane
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E’ disponibile il quaderno di Guglielmo Carchedi dedicato a “Lavoro mentale e classe operaia”, per una analisi marxista di Internet. Pubblichiamo qui di seguito la prefazione Mauro Casadio al volume curato dalla Rete dei Comunisti e da Noi restiamo. Per l’acquisto dell’opuscolo è richiesta una sottoscrizione di 5 euro scrivendo a: retedeic...@gmail.com.
Lo scontro di classe internazionale
ha
prodotto nel ‘900 una rivoluzione ed una trasformazione
radicale delle classi e del capitalismo. Prima con le
rivoluzioni, che hanno cambiato il
mondo aprendo una prospettiva socialista in Russia, in Cina, e
poi nelle “campagne” che hanno circondato le città ovvero
Cuba,
Vietnam e tutte le altre esperienze antimperialiste. Uno
scontro vero dove una alternativa sociale è emersa e si è
imposta anche se con
i limiti di una trasformazione che doveva fare i conti con
un’assenza di esperienze storiche precedenti.
A questo pericolo “mortale” per l’imperialismo vissuto come la “grande paura” del secondo novecento, perchè cosi era percepito e cosi era effettivamente, il capitalismo ha risposto sul piano politico, militare, ideologico. Solo però, di fronte alla crisi di sovrapproduzione degli anni ’70 si è cominciato a reagire anche sul piano di un cambiamento strutturale del modo di operare del capitale che ha avviato a sua volta una propria “rivoluzione” produttiva e sociale.
ma perché quell’angoscia
s’è fatta chiaro cosciente dolore.
O tempo, scatena ancora
Le parole d’ordine leniniste.
Dobbiamo forse
affondare
In uno stagno di lacrime?”
(Majakovskij)
Quelle che qui seguono sono schematiche osservazioni, spero raccolte con una certa logica e sistematicità, il cui scopo è prospettare una possibilità di lettura d’un groviglio di eventi, quanto mai complicato e dalle molte sfaccettature, che – nonostante certa uggiosa retorica <novista> – costituiscono tuttora la nostra contemporaneità. Che si tratti di una possibilità di lettura significa non solo il limite della mia cultura (ad es., non sono un economista, né uno storico), ma anche che la cosa stessa si dispone secondo diverse prospettive e angolazioni (aspetto questo che certamente non meraviglia chi abbia qualche familiarità con la dialetticità della storia).
Il dibattito sul “populismo di sinistra”, sulla scia delle elaborazioni di Ernesto Laclau, si fa sempre più interessante. Al fine di far confrontare ed esprimere opinioni diverse sull’argomento, riceviamo e ospitiamo un contributo di Giulio Di Donato, autore, con Tonino Bucci, del volume “Quale sinistra?” (Rogas edizioni, 2016)
La tradizione
filosofica, da Platone
e Aristotele in poi, ha sempre pensato l’uomo come un animale
comunitario. La stessa razionalità che il pensiero greco del
logos ha
elevato a tratto specifico della natura umana, è da intendersi
– lo si è visto non semplicemente come “ragione”, ma
anche come “linguaggio”, come propensione a vivere in uno
spazio pubblico di relazioni. Eppure, quel rischio che già a
Platone
doveva apparire come il principale pericolo per la
sopravvivenza della polis greca, il rischio di regressione del
collettivo nel singolare, del
cittadino nella sfera dell’individualità, sembra aver
sopraffatto la politica del nostro tempo. La brama di
possesso, il desiderio
dell’affermazione di sé sugli altri, il prevalere della
pleonexia suonano come una conferma attuale dei timori
platonici, il segno di una
definitiva vittoria delle istanze dell’anima umana più ostili
alla sopravvivenza di una comunità politica.
Siamo allora destinati a ripiegarci nel privato, indifferenti al governo di oligarchie sempre più sottratte al controllo dei governati, senza più possibilità di proiettare nella politica domande di cambiamento della nostra stessa vita? Uno scenario apocalittico al quale la realtà tende ad assomigliare, ma che – per fortuna – non potrà mai realizzarsi del tutto, a meno di un collasso di qualsiasi forma di comunità. Non può esistere una società che riesca ad abolire del tutto la necessità della politica. Nessun sistema istituzionale – per citare il famoso autore de “La ragione populista”, il filosofo argentino Ernesto Laclau – potrebbe spingersi fino al limite di mantenere isolate tra loro le istanze individuali e assorbirle in maniera differenziale all’interno del sistema stesso – cioè senza che si stabiliscano relazioni orizzontali e si formino identità collettive.
Nelle stesse settimane in cui tutto il sistema politico-mediatico cercava di convincere l’opinione pubblica che Alitalia non potesse essere salvata, che in quarant’anni fossero già stati spesi sette miliardi di denaro pubblico, proprio nelle stesse settimane il governo versava nelle casse di Banca Intesa cinque miliardi di denaro pubblico per rilevare le attività di Veneto Banca e Popolare di Vicenza. In altre parole una banca privata, quale è Intesa San Paolo, fagocitava due concorrenti dirette acquisendole coi soldi dello Stato, pagando di tasca propria la simbolica cifra di un euro. Contestualmente, sempre il governo e sempre tramite soldi pubblici, garantiva per altri dodici miliardi di euro le eventuali perdite a cui andrà incontro Banca Intesa nel caso di ristrutturazione delle attività delle due banche incorporate. “Non possono essere lasciati soli i correntisti!”, ammoniva il duo Gentiloni&Padoan, applauditi da tutto il circo liberale che così giustificava la vicenda: “altrimenti sarebbe stato peggio!”.
Nell’ultima legge di bilancio veniva stanziato un finanziamento di 2,7 miliardi di euro pubblici per la ristrutturazione e l’allargamento dell’Aeroporto di Centocelle, luogo dove dimora il Comando operativo interforze, il comando Nato più importante del paese. Contestualmente, il governo stanziava 56 milioni di euro in tre anni per “le periferie”.
Ve lo dico all’inizio dell’estate così che l’autunno non colga nessun impreparato: si sta preparando una nuova stangata sulle pensioni come dimostrano i ben due disegni di legge costituzionale a firma di una cinquantina di deputati che vanno dal Pd (capofila Mazziotti di Cl) a Fratelli d’Italia in un abbraccio corale della destra reazionaria, sotto qualunque etichetta vera o fasulla militi. Dentro questo sciocchezzaio legislativo troviamo tutte le deprimenti considerazioni del liberismo più ottuso, riprese a pappagallo da gente che non sa quello che dice, ma sa benissimo quello che fa. In poche parole le pensioni per via costituzionale dovrebbero essere improntate a criteri “di equità, ragionevolezza e non discriminazione tra le generazioni”, una frasetta che forse all’uomo della strada potrà apparire innocua e persino di buon senso, ma che in sostanza annuncia una stagione di totale arbitrio sulla consistenza dei trattamenti pensionistici, sugli anni necessari a conseguirli e infine sull’età a partire dalle quali potranno essere erogati.
Siccome siamo nel campo della pura trascrizione di ordini fatta da amanuensi subalterni alla ricerca di assoluzioni, di alibi e di mascheramenti, non manca il ridicolo e demenziale elemento della discriminazione generazionale che oltre ad essere un assurdo, non viene presa in considerazione da nessun documento economico ed è persino snobbato dal presidente dell’Inps Boeri
Si dice che il Jobs Act sia il fallimento del governo di Renzi e del suo prestanome perchè ha aumentato la disoccupazione portandola oltre l’11% (quella giovanile al 37%). Fallimento? L’obiettivo è perfettamente raggiunto, vi assicuro che in Ue stanno battendo le mani all’Italia.
Perchè? C’ è un parametro nei trattati di austerity dell’Unione europea – quella di cui se ne vorrebbe disgraziatamente “di più” – si chiama NAIRU ( il tasso di disoccupazione “naturale”), che per l’Italia prevede una disoccupazione “naturale” tra il 12,7% e il 10,5% da qui al 2020.
Se badate bene, mentre leggete questo fatto agghiacciante sentirete una vocina nell’orecchio: “ce lo chiede l’Europa”, dice la vocina. Sarebbe il momento di dire a voce alta e senza più indugi: “no”. Al Pd, al suo governo e all’Unione europea.
Ogni ulteriore incertezza è un disoccupato in più e contratto precario, ricattabile e sottopagato in più stipulato.
I grandi analisti fanno finta di non capirlo, dopotutto fanno il loro mestiere: ammantano di verità oggettiva quelli che sono bassi interessi di classe (dei padroni, ovviamente).
Siccome il catalogo delle ipocrisie planetario si arricchisce ogni giorno di più, servirebbe una bussola, un tutorial su YouTube, o almeno un rinnovo periodico del vocabolario. Il trucchetto funziona sempre: se non si riescono a cambiare le cose si cambiano le parole. Le parole nuove vengono ripetute e quindi accettate, e così, ecco che il migrante non è più migrante semplice, ma si divide in migrante perseguitato e migrante economico, con il corollario che il primo è un migrante vero, e l’altro una specie di furbacchione che non vuole lavorare al suo paese, è povero e cerca di esserlo meno andando via di lì.
Col suo piglio neogollista da glaciale sciuparepubbliche il presidente francese Macron l’ha detto meglio di tutti: “Come spieghiamo ai nostri cittadini, alla nostra classe media, che all’improvviso non c’è più un limite?”. Perfetto e di difficile soluzione, in effetti: come spiegare a gente che borbotta se trova più di tre persone in fila alla cassa dell’Autogrill che ci sono migliaia di uomini e donne che vengono qui sperando finalmente di mangiare qualcosa? Mentre Macron diceva quelle cose (notare l’equazione “cittadini” uguale “classe media”), nei boschi tra Ventimiglia e Mentone era in corso una poderosa caccia all’uomo con i cani lupo alla ricerca di qualche decina di migranti passati clandestinamente in Francia.
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1/2017, dal titolo "L'egemonia dopo Gramsci: una riconsiderazione" a cura di Fabio Frosini. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1017/951
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Quando con Domenico Losurdo e Fabio Frosini abbiamo deciso di varare la rivista “Materialismo Storico” e abbiamo cominciato a costruirne il Comitato scientifico, tra i primissimi nomi ai quali ci siamo rivolti c’è stato subito quello di André Tosel, con il quale in passato tante volte avevamo collaborato - ricordo tra le altre cose il convegno di Nizza della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx su L 'idée d’époque historique, del settembre 2000 - e al quale ci legava non solo un’immensa stima culturale ma anche un grande affetto.
André accolse con entusiasmo la proposta e ci incoraggiò nella nostra iniziativa inviandoci per l’occasione due testi inediti. Il primo è stato pubblicato sul numero 1-2/2016 della nostra rivista, con il titolo Althusser e la storia. Dalla teoria strutturale dell’intero sociale alla politica della congiuntura aleatoria e ritorno (pp. 161-84). Il secondo è un saggio sul mancato incontro intellettuale di Lefebvre con Gramsci, che pubblichiamo in questa circostanza.
Adesso che André ci ha lasciati. Continueremo nei prossimi numeri a pubblicare i suoi lavori inediti in Italia: ci sembra il modo migliore e culturalmente più fecondo per ricordare un intellettuale e un compagno al quale tanto dobbiamo e che tanto ci mancherà [Stefano G. Azzarà].
* * * *
Per quanto ne sappiamo, la questione dei rapporti tra il pensiero di Henri Lefebvre e quello di Antonio Gramsci non è mai stata studiata. Il punto interrogativo è particolarmente giustificato dal momento che l’autore dei Quaderni del carcere è assai poco citato nell’opera sovrabbondante di Henri Lefebvre.
È
necessario sul piano politico e prima ancora sul piano teorico
il superamento di una visione unilaterale della realtà, che
guardi unicamente o
al livello statale o a quello sovrastatale. In ogni fase
storica va definito qual è il rapporto concreto che lega i
livelli statale e
sovrastatale dell’accumulazione di capitale. Nell’epoca del
capitalismo globalizzato lo stato nazionale non si eclissa, si
trasforma. Le
funzioni che è più utile tenere al suo interno e sulle quali
il controllo della classe dominante è più saldo, vengono
rafforzate. Viceversa, vengono delegate a organismi
sovrastatali le funzioni il cui controllo da parte della
classe dominante è più
debole o incerto o la cui modifica è richiesta dalle
caratteristiche della fase dell’accumulazione capitalistica.
La conseguenza principale dell’unione economica e valutaria europea (Uem) non è stata l’eliminazione della sovranità nazionale dello stato, ma la modificazione dei rapporti di forza tra le classi all’interno dello Stato, a favore dello strato di vertice e internazionalizzato del capitale. Di conseguenza, l’obiettivo politico principale della classe lavoratrice nel contesto europeo non è tanto la rivendicazione della sovranità nazionale, quanto il recupero e l’allargamento dei livelli precedenti di sovranità democratica e popolare.
Su Sinistrainrete è stato
pubblicato un interessante dibattito a distanza tra Franco
Russo, autore di un
articolo dal titolo “L’Unione
Europea nella globalizzazione” e Mimmo Porcaro,
che replica con “La
UE e l’Italia dentro la ‘fine’ della globalizzazione”.
Il saggio di Franco Russo cerca di esaminare le reazioni di organi della Ue, e suoi rappresentanti, alla sbandierata politica americana all’insediarsi di Trump. La tesi alla quale reagisce è quella (certamente prematura) che il ciclo della globalizzazione si sia chiuso, e si stia affacciando una nuova fase di protezionismo e difesa degli interessi nazionali. Secondo Russo questa idea nasconde in seno quella che il commercio senza protezioni, il “libero commercio” (sul quale abbiamo letto la posizione di Engels nel 1888), sia in sè portatore di pace e relazioni armoniche. Invece per l’autore, ma evidentemente anche per il “generale” (come era soprannominato Engels), nel mercato mondiale si svolgono sempre scontri egemonici: il libero commercio è intrecciato con i poteri imperiali, politici e militari (all’epoca inglesi) e con la competizione, non meno del protezionismo. Ma per Russo la particolarità contemporanea è che questa costante competizione, nelle attuali condizioni, avviene tra “grandi spazi economico-politici”.
La storia si presenta sotto forma di tragedia con Renzi e ora anche di farsa con Pisapia
Insieme in piazza sabato 1 luglio, il sindaco della “rivoluzione arancione” di Milano, arriverà scortato dalle fantomatiche 300 officine da lui fondate in giro per l’Italia (e anche Europa), a dimostrazione della sua capacità di risolvere il problema della mancanza di lavoro. Non si sa, però cosa abbiano prodotto e che salario percepiscano.
Ma forse hanno delegato il capo e i suoi sodali e finalmente le maestranze potranno godersi il meritato riposo.
A Milano succedeva, che subito dopo l’investitura a Sindaco, Pisapia provvedeva a chiudere l’“Officina per la città” troppo rumorosa, perché le maestranze che avevano contribuito alla vittoria della “sinistra” chiedevano di partecipare alla realizzazione del programma elettorale, sostituendola con selezionati e fidelizzati “Comitati per Milano”.
“…. mi sembra che le aspettative per quella democrazia partecipativa al governo municipale, enunciata nel programma elettorale di Pisapia, che sembrava essere stata concretamente avviata in forma organizzata con la costituzione della “Officina per la città”, siano state deluse con il suo scioglimento subito dopo le elezioni.” Emilio Battisti, “Arcipelago Milano”, 9 gennaio 2013.
Dall’apparente ossimoro della Cina «globale ma nazionalista», passando per la decostruzione politica, economica ed estetica della Nuova Via della Seta, fino al concetto di «global governance» di Xi Jinping, un libro per orientarsi tra i fenomeni geopolitici destinati a plasmare il mondo globalizzato che la potenza asiatica si propone di guidare
«Il fatto che per gli occidentali la Cina fosse soprattutto il paese saccheggiato dai paesi stranieri e dal Giappone a seguito della decadenza di un impero in putrefazione, non significa che i cinesi non abbiano il senso della propria storia».
Con queste parole, a pagina 40 del suo Cina globale (edizioni manifestolibri, 96 pagine, 8 euro) Simone Pieranni dà al lettore l’indispensabile passepartout cognitivo per affrontare la lettura di questo breve saggio, dedicato al ruolo della Cina nella contemporaneità della politica globale.
Pieranni, che da quasi un decennio si occupa di Cina per il quotidiano «il manifesto», ha vissuto a lungo nella Repubblica popolare e sa bene come l’interpretazione delle trame della politica interna ed estera di Pechino non possa prescindere dalla cornice storica in cui diverse generazioni di leader cinesi, dal 1949 a oggi, le hanno via via dipanate.
Dalla rassegna stampa di Eurointelligence la copertura del convegno “The Italian Public Debt in the Eurozone“ organizzato dal Movimento 5 Stelle alla Camera dei deputati con la presenza di importanti esponenti del mondo economico e finanziario europeo, tra cui lo stesso direttore di Eurointelligence Wolfgang Munchau, oltre ad Alberto Bagnai e Brigitte Granville che hanno presentato lo studio di cui si parla nell’articolo. Come sempre, Munchau spera in un mutamento dell’orientamento politico della Germania che renda l’euro sostenibile, paventando i costi (soprattutto per il sistema finanziario europeo) di un Italexit. Quello che viene sottolineato come veramente importante da Eurointelligence è comunque la grande rilevanza politica dell’evento, la serietà del dibattito e soprattutto il fatto che si discuta ormai apertamente dell’insostenibilità dell’eurozona, tema che solo poco tempo fa era considerato un tabù.
* * * *
Il Movimento Cinque Stelle ha organizzato al parlamento italiano una conferenza che ha avuto grande risalto, sul futuro del debito italiano nell’area dell’euro;
Luigi di Maio, leader del gruppo parlamentare del M5S, è sembrato prendere le distanze dallo scenario dell’euro exit, dimostrando però interesse per soluzioni alternative, come i sistemi di valuta parallela e i meccanismi di default;
Sarà un trionfo per il presidente Trump quando, il 6 luglio, arriverà in visita a Varsavia. La Polonia, assicura la Casa Bianca, è «fedele alleato Nato e uno dei più stretti amici dell’America».
In effetti è la punta di lancia della strategia Usa/Nato che ha trascinato l’Europa in una nuova guerra fredda contro la Russia. In Polonia, dove è stata trasferita in gennaio la 3a Brigata corazzata Usa, è schierato in funzione anti-Russia, sotto comando Usa, uno dei quattro gruppi di battaglia Nato «a presenza avanzata potenziata».
La Polonia ha anche il merito di essere uno dei quattro paesi europei della Nato che hanno realizzato l’obiettivo, richiesto dagli Usa nel 2014, di spendere per il militare oltre il 2% del Pil. In compenso, annuncia Varsavia, la Polonia non contribuirà al «Fondo per la difesa» lanciato dall’Unione europea il 22 giugno.
La Polonia del presidente Duda ha quindi agli occhi di Washington tutte le carte in regole per assumere un altro impegnativo incarico, quello di lanciare e guidare l’«Iniziativa dei tre mari», un nuovo progetto che riunisce 12 paesi compresi tra il Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico: Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Ungheria, Cechia, Austria, Bulgaria, Romania, Croazia, Slovacchia e Slovenia.
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Introduzione
Per 'teoria del valore' si possono intendere due cose distinte: la determinazione quantitativa dei rapporti secondo cui le merci vengono scambiate sul mercato, cioè dei loro prezzi relativi; oppure la ricerca dell'origine del valore delle merci, dunque l'indagine circa il fondamento stesso, l'oggetto e il metodo del discorso economico. Circa la sostanza che conferisce valore alle merci, le due spiegazioni rivali possono essere definite l'una 'oggettiva', l'altra 'soggettiva'. La prima riconduce il valore delle merci al lavoro che direttamente o indirettamente è stato impiegato per produrle: essa sarebbe oggettiva in quanto il lavoro impiegato per produrre una merce dipende dalle tecniche di produzione adottate, e queste in ogni dato momento sono date. La seconda spiegazione del valore delle merci nega che questo dipenda da loro proprietà intrinseche: il valore delle merci dipenderebbe dall'apprezzamento, da parte dei singoli soggetti, dell'attitudine dei beni economici a soddisfare i bisogni.
La teoria del valore utilità intende spiegare i prezzi delle merci a partire da quanto appare sul mercato; la teoria del valore lavoro, a partire da quanto avviene nella sfera della produzione.
Sono già passati circa
dieci
anni dall’inizio dell’ultima crisi finanziaria che ha messo in
ginocchio l’economia mondiale, soprattutto occidentale. Una
delle
trasformazioni sociali, politiche e culturali più evidenti che
sta segnando la fase attuale (e terminale?)[1] della
società capitalista è la presa di coscienza dei limiti,
intrascendibili, e dei fallimenti, irreversibili, del progetto
social-democratico e liberale. Le procedure democratiche e il
sistema dei diritti non sembrano più soluzioni adeguate, o
quantomeno
sufficienti, per domare la volontà di potenza e violenza delle
classi dominanti, mediare le relazioni con il “diverso”,
godere
delle libertà rese disponibili dal capitalismo tenendone sotto
controllo, allo stesso tempo, le derive (auto)-distruttrici.
A destra, si cercano nuove ricette appellandosi a rozzi demagoghi o a nuove ladies di ferro. L’obiettivo principale è quello di rimuovere tutto ciò che appare sopraggiunto solo di recente: nuove forme di vita e religione arrivate con gli ultimi copiosi flussi migratori, nuove preoccupazioni, per esempio sul futuro del pianeta, cui la scienza ci mette ora di fronte, o nuovi generi sessuali, fluidi, aperti, negoziabili.
Il legame tra le origini del capitalismo e lo sviluppo della crisi ambientale. Una rilettura dell’Antropocene attraverso l’analisi di Jason W. Moore e la proposta di una lettura storica, e non solo geologica, delle relazioni che co-costituiscono uomo e natura
In una recente conferenza, Donna
Haraway
ripropone un’espressione di Virginia Woolf, «Think we must! We
must think!»,[1] per chiedere di
osservare le proprie abitudini di pensiero e di linguaggio
poiché, velate da un’apparente normalità, sono alla base delle
principali discriminazioni di genere e semplificazioni che
rendono impossibile pensare il presente. Nel corso della
conferenza, la propulsiva spinta
che accompagna il discorso di Haraway la condurrà a parlare di
Chthulucene, argomento che verrà ripreso nella seconda parte
di questo
saggio. La riflessione qui presentata comincia invece
dall’osservazione, grazie alle analisi di Jason W. Moore,
teorico del Capitalocene, delle
problematiche sorte dall’avvento dell’Antropocene: un’era
geologica ormai accettata dal sentire comune, in cui l’uomo
diventa
attore principale di cambiamenti irreversibili sulla natura.
«Shut down a coal plant, and you can slow global
warming for a
day;
shut down the
relations that made the coal plant, and you can stop it for
good»
Jason W. Moore
La periodizzazione storica dell’Antropocene vede al suo inizio la progettazione della macchina a vapore.
Piano piano, senza voler avere una ricetta, che non ha nessuno, vorrei però fare una brevissima riflessione sul senso di una lista unitaria di sinistra. Chi la difende non può non rendersi conto che essa, nel migliore dei casi, e cioè se riuscisse a entrare in Parlamento, trattenendo un elettorato da un lato troppo governista per accettare la quota radicale, e dall’altro troppo radicale per tollerare i Pisapia-Bersani, si sfascerebbe un minuto dopo il voto.
I pisapii-bersanian-speranzosi cadranno di nuovo vittima della fascinazione del blocco unico anti-populisti che andrà da Renzi a Berlusconi passando, per ineludibili esigenze aritmetiche, anche da loro, magari cercando una formula che gli salvi la faccia (no a Renzi premier e sostegno esterno caso per caso, senza ingresso organico nella maggioranza). I numeri sono evidenti: il blocco FI-Alfano-Pd arriva si e no al 42-44%, troppo poco per governare il Paese, per cui saranno chiamati alle armi anche gli Insiemisti, fino a D’Alema (compreso) con quel 5-6% che possiedono. Anche perché è difficile che si ricostituisca un blocco di centrodestra tradizionale (che comunque non avrebbe nemmeno esso i numeri per fare maggioranza). Una legge elettorale proporzionale, che sarà quella con cui andremo al voto, consentirà di costituire una larghissima coalizione ex post, cioè dopo il voto.
Le due tappe della trasferta europea del presidente cinese, Xi Jinping, che hanno preceduto il vertice del G20 ad Amburgo hanno evidenziato ancora una volta il processo di consolidamento di blocchi strategici ed economici a livello globale sempre più svincolati dall’influenza degli Stati Uniti e dagli equilibri che avevano presieduto allo sviluppo del capitalismo internazionale nel secondo dopoguerra.
Il presidente cinese ha dapprima incontrato per l’ennesima volta Vladimir Putin a Mosca, dove i toni di entrambi i leader sono stati molto ben calibrati per dare estremo rilievo alla solidità delle relazioni bilaterali. I due hanno dato particolare enfasi al potenziale in termini di stabilità internazionale della partnership sino-russa, in contrapposizione alla portata destabilizzante della condotta americana, ancora più evidente dopo l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump.
Molti osservatori hanno individuato nella dichiarazione congiunta di Xi e Putin sulla crisi nordcoreana un momento importante nella formazione di un’alleanza strategica in grado di confrontarsi con gli Stati Uniti. Soprattutto, la proposta di Mosca e Pechino intende gettare le basi per un negoziato che porti a una soluzione pacifica dello scontro nella penisola di Corea, mentre la condotta di Washington rischia di spingere sempre più i protagonisti del conflitto verso una rovinosa soluzione militare.
Dopo il commento di Gi.M. dedicato a Milano e alla parabola di Giuliano Pisapia pubblicato su Effimera questa mattina, aggiungiamo un breve testo di Salvatore Palidda sul risultato delle elezioni a Genova (e in altri comuni interessati dalle amministrative), segnate dalla pesante sconfitta della “sinistra” e dal prevalere dell’astensionismo: “La pseudo-sinistra che s’é alternata a Berlusconi dopo la fine dei 40 anni DC non ha smesso di pensare ad andare al potere imitando la destra”. Da leggere insieme, tra assonanze e differenze
*****
L’11 e il 25 giugno 2017, 9.172.026 italiane e italiani avrebbero dovuto votare il loro sindaco e il loro consiglio municipale in 1.004 comuni, di cui 25 capoluoghi, otto con più di 100 mila abitanti e 161 con più di 15 mila. Palermo, Genova Padova, Verona e Taranto le città le più importanti. 4,3 milioni di elettori dovevano votare al ballottaggio. Al primo turno ha votato il 58% degli aventi diritto e al ballottaggio solo il 46%. Come hanno segnalato numerosi osservatori, la destra è riuscita a realizzare una netta rivincita rispetto alle elezioni locali del 2012 e soprattutto ha vinto comuni considerati“feudi storici della sinistra”, quali Genova, Sesto San Giovanni (la Stalingrado d’Italia) e altri ancora.
Breve
premessa
(2017). Gli amici, e compagni, di PalermoGrad mi
chiedono un testo che ‘introduca’ all’incontro del 11 luglio
sull’attualità del Capitale (qui
i dettagli
dell’incontro), a 150 anni dalla
pubblicazione del primo libro. Scartabellando tra vecchie
cose, è saltato fuori questo mio
pezzo su Karl Korsch: testimonianza di un interesse e (per
molti versi) di una sintonia mai rinnegati per il
consiliarismo, e per quel filone marxiano
e non marxista (la distinzione si deve a Maximilien Rubel)
che da Luxemburg va a Paul Mattick e, appunto, Korsch. È un
testo scritto per un
gruppo di studio a Torino, a Palazzo Nuovo (non ricordo in
che corso), quando l’università era aperta fino alle 23 per
facilitare la
frequenza degli studenti-lavoratori, nel lontano 1976 (fanno
giusti giusti 41 anni …). Le mie pagine possono forse
utilmente fungere da
‘apripista’ ad una ben più sostanziosa “Introduzione” di
Karl Korsch alla ripubblicazione in Germania del primo libro
del Capitale nel 1932. Il testo venne tradotto da Gian
Enrico Rusconi nella raccolta di scritti di Korsch
intitolata Dialettica e scienza nel
marxismo. Molte delle tesi di quella “Introduzione”, come
anche del Karl Marx di pochi anni dopo, hanno retto al
tempo, e rimane da
chiedersi in che misura sia vero che il Capitale “per molti
aspetti solo ora inizia a vivere il suo tempo”. Altre, com’è
naturale, vanno messe in discussione, come cerco di
accennare nel mio scritto. Quello che è certo è che, come
anche Korsch non manca di
rilevare, la teoria di Marx non è strettamente economica, è
più propriamente di scienza sociale in senso lato eppure
profondo,‘una teoria storica e sociologica’ che mal sopporta
gli steccati disciplinari, che certo non si superano con un
vuoto stile
inter-disciplinare (vale qui la lezione di Adorno).
Nell'ambito della riattivazione contemporanea delle risorse critiche interne all'analisi marxista del capitalismo, un posto preminente spetta alla ricerca di Erik Olin Wright, per la sua attenzione al problema della definizione e della registrabilità empirica delle classi. Per agevolare la comprensione del lavoro di Olin Wright, pubblichiamo, accanto a un'intervista recentemente effettuata a cura di Lorenzo Zamponi e Marta Fana, anche una presentazione complessiva di Denise Celentano della sua figura intellettuale
Che fine ha fatto
oggi, la classe
operaia, e quali speranze ha di costruire un’alternativa al
capitalismo? Ne parliamo con Erik Olin Wright, docente di
sociologia
all’Università del Wisconsin, importante marxista americano
contemporaneo, nonché studioso, da oltre 40 anni, delle
classi sociali
e delle loro trasformazioni. Wright è stato a Firenze per un
seminario organizzato da COSMOS, il centro studi sui
movimenti sociali della
Scuola Normale Superiore, dove ha presentato la sua proposta
strategica: dimenticare sia il gradualismo socialdemocratico
sia la rottura comunista, e
investire su un lungo processo di erosione del capitalismo,
che permetta di costruire nel tempo alternative in grado di
sostituirlo.
* * * *
Secondo l’ultimo rapporto Istat, la classe operaia in Italia è morta. Lei pensa che sia così? La classe operaia è morta, nel XXI secolo?
Molto dipende da ciò che si intende per “la classe operaia”. Ci sono modi di definire la classe operaia secondo cui effettivamente è in declino in termini di percentuale della popolazione. Se si definisce la classe operaia come i lavoratori manuali dell’industria, allora la classe operaia è indubitabilmente in calo in termini di numeri, e forse lo è al punto che la sua morte può essere annunciata dal vostro istituto di statistica. Ma quella è una definizione particolare della classe operaia in un’economia capitalistica.
Il 4 luglio 2017, Xi Jinping è stato accolto a Mosca da Putin nel loro ventunesimo incontro ufficiale, utile per coordinare le prossime mosse di un G20 che si preannuncia delicato per i temi internazionali sul tavolo
I più di venti accordi firmati tra Russia e Cina ammontano ad oltre dodici miliardi di dollari di investimenti, cifre importanti per due nazioni che definiscono le proprie relazioni bilaterali come le più equilibrate e fondamentali al mondo oltre ad aver raggiunto livelli di cooperazione senza precedenti. La facilità con cui vengono siglati accordi complicati e di ampio spettro sottolinea il livello di fiducia reciproca tra Putin e Xi Jinping. Nel loro terzo incontro annuale sono state anche affrontate le tematiche più spinose sul tavolo internazionale in vista del G20 di Amburgo. L’intento è coordinare i prossimi passi sulla scena mondiale per esprimere un punto di vista comune su molte tematiche, rafforzando così reciprocamente le proprie posizioni. È il caso di vicende come Siria e Corea del Nord.
A proposito di tensioni internazionali, il G20 di Amburgo vedrà finalmente materializzarsi l’incontro più atteso dell’anno, tra Donald Trump e Vladimir Putin. I temi discussi non sono stati notificati dalla Casa Bianca o dal Cremlino ma è probabile che Siria e Corea del Nord saranno al centro degli scambi tra i due leader.
Stravolgendo alcune tradizioni istituzionali molto consolidate in Francia – in particolare abolendo l’intervista in cui il presidente si rivolge direttamente al popolo il 14 luglio – Macron calpesta lo spirito e la lettera della Costituzione e manifesta tutto il suo disprezzo per il popolo e per i suoi stessi sostenitori, al punto da configurare un silenzioso colpo di stato. D’altra parte, argomenta Jacques Sapir sul sito francese Causeur, Macron non dà importanza alla sovranità nazionale, di cui il popolo è depositario, ed è quindi costretto a distruggerne i simboli: tanto più che – a causa dell’astensione altissima – non può appoggiarsi a una reale maggioranza popolare che l’abbia votato.
La messa in opera del “sistema Macron” continua, sia nella sua dimensione formale, sia in quella informale. Le due dimensioni ci confermano la natura autoritaria del sistema, sotto la ostentata maschera della “benevolenza”. Gli incidenti che si sono moltiplicati in Parlamento, dove La République en Marche e i suoi alleati monopolizzano la maggior parte dei seggi, con la decisione del Presidente di rivolgere un messaggio al Congresso (Assemblea Nazionale e Senato) riunito a Versailles, non sono di buon auspicio. I progetti di ordinanze e di leggi completano il quadro.
Roberto Festa, L’America del nostro scontento, Elèuthera, Milano, 2017, 181 pp., € 15,00
«l’America che ha creato Trump non è poi troppo diversa da quella che ha prodotto Obama […] Make America Great Again non è uno slogan molto diverso da Yes We Can: entrambi ugualmente illusori e carichi di aspettative che nessuna realtà traballante potrà mai soddisfare» (Roberto Festa, pp. 8-10)
Roberto Festa, nel suo ultimo libro, L’America del nostro scontento (2017), racconta le diverse reazioni, incontrate attraversando gli Stati Uniti, alla vittoria elettorale di Donad Trump a ridosso del suo insediamento. A tali testimonianze l’autore aggiunge, nella seconda parte del volume, la narrazione di alcune storie di luoghi simbolo della vita americana. Il volume si chiude con il racconto di una settimana passata a New York nell’estate del 2016, quando in città «si parlava molto di matrimoni omosessuali e di adozioni e sulle pagine domenicali del “New York Times” i gay si facevano fotografare vestiti di bianco sui prati fioriti; nei bar e nelle saune e sulle spiagge di Fire Island il vero oggetto di discussione era però una pillola, il Truvada, che permette di non avere più paura dell’AIDS e di tornare a fare sesso come negli anni Sessanta» (p. 12). Queste pagine finali sono state scritte prima del ciclone Trump e a rileggerle ora, sottolinea Festa, «sembrano una straordinaria fuga in avanti ma anche una sorta di gran ballo nella prima classe del Titanic» (p. 12).
Intervista all'analista politico che in tempi non sospetti aveva predetto la vittoria di Trump: «Dopo le elezioni non è cambiato nulla, gli Stati Uniti sono più divisi dell'Italia»
«L’America bisogna conoscerla direttamente…» dice un po’ sornione Andrew Spannaus, mentre gli ricordiamo una mattinata di ormai 8 mesi fa. Quel mercoledì 9 novembre, all’alba, quando arrivò la notizia della ormai certa vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali, che lasciò di stucco, per usare un eufemismo, la stragrande maggioranza dei commentatori. Tra i meno sorpresi, mentre già dalla serata di martedì si divideva tra uno studio televisivo e uno radiofonico, c’era appunto Spannaus, che aveva dato alle stampe sei mesi prima un libro che sembrava una provocazione: Perché vince Trump (Mimesis). Figlio degli Usa ma sposatosi in Italia con un’italiana, giornalista e analista di politica internazionale, direttore del sito transatlantico.info, Spannaus pubblica ora, sempre per le edizioni Mimesis, La Rivolta degli elettori. Il ritorno dello Stato e il futuro dell’Europa.
* * * *
Spannaus ci riprova? Quale pronostico vuole tentare?
«Il libro è un’analisi che parte dai due shock politici del 2016, la vittoria di Trump e la Brexit, allargando lo sguardo all’Europa.
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La Piattaforma Eurostop diventa un movimento sociale e politico. La sfida è “cambiare il Paese con i tre No all’Euro, all’Unione Europea, alla Nato”: analizziamo come e perché
E’ il primo
Luglio e al CSOA Intifada di Roma si parla
di euro, di Ue e di Nato. Tre spine nel fianco per la libertà
dei popoli e per la loro sovranità, a cui rispondere No,
perentoriamente NO. Tra i relatori, Giorgio
Cremaschi (ex Fiom), Manuela Palermi
(Pci), Sergio Cararo (Rete dei comunisti) e Paola Palmieri
(USB). Alle cui analisi
sul tema si sono susseguiti numerosi interventi di alcuni
protagonisti del mondo politico, giuridico, sindacale e
sociale fra cui il giurista Paolo
Maddalena, Ugo Boghetta e
Bruno Steri (ex Prc) e il sociologo Carlo
Formenti, nel corso della lunga mattinata che
termina con la votazione degli aderenti ad Eurostop sulle
carte costituenti vertenti su
identità, programma e modello organizzativo.
L’atto costituente ha trasformato quella che era una Piattaforma Sociale nata già due anni fa in un movimento sociale e politico che si batte per l’abbandono dell’Euro e la rottura della UE e della NATO. Temi centrali che spaccano l’opinione pubblica dando adito ad alcune domande. La questione della sovranità popolare ha ancora senso oppure è “superata” dall’Unione Europea? L’economia capitalistica mondializzata ha prodotto il sorgere anche di un polo imperialista europeo?
Proponiamo, per gentile concessione dell’Editore Colibrì, l’introduzione di Lelio Demichelis (sociologo e studioso del fenomeno tecno-capitalista nei suoi molteplici aspetti) al nuovo libro a sei mani di Piero Coppo, Stefania Consigliere e Paolo Bartolini “Cose degli altri mondi. Saperi e pratiche del divenire umani”.
Piero Coppo è medico, neuropsichiatra e padre dell’etnopsichiatria in Italia, Stefania Consigliere è filosofa e ricercatrice in Antropologia presso l’Università di Genova, Paolo Bartolini è analista filosofo e collaboratore di Megachip.
Buona lettura!
«Perché mai gli sfruttati non
si ribellano? E se la radice di ogni valore (e in primis
proprio quello del denaro) sta nell’immaginario degli
umani,
perché sembra impossibile uscire dall’orizzonte capitalista?
L’elemento più inquietante di tutti è, infatti, proprio
quest’adesione collettiva alla catastrofe, l’assenso alla
nostra servitù», scrive Stefania Consigliere.
E ancora: «C’è un divenire capitale degli umani (e un prender forma umana da parte del capitale) che è la parte più temibile di tutta questa storia (…): siamo la punta più avanzata di un colossale esperimento di cattura delle anime, che non passa più solo per l’imposizione violenta, come avveniva nel dominio classico, ma per l’adesione – rassegnata o entusiasta – a un regime pulsionale e concettuale molto soft, che si presenta come la quintessenza della libertà stessa. (…). Qualcosa che, svuotando i soggetti delle loro forze, li assoggetta a un volere esterno e malevolo.
I. Come
l’opera di
Platone sullo Stato, il libro di Machiavelli sul Principe,
il Contratto sociale di Rousseau, anche l’opera di
Marx, Il
capitale deve la sua grande e duratura efficacia al
fatto che ad una svolta storica ha colto ed espresso in tutta
la sua pienezza e
profondità il nuovo principio irrompente nell’antica
configurazione del mondo. Tutti i problemi economici, politici
e sociali, attorno ai
quali si muove teoricamente l’analisi marxiana del Capitale,
sono oggi problemi pratici che muovono il mondo e intorno ai
quali viene
condotta in tutti i paesi la lotta reale delle grandi potenze
sociali, gli Stati e le classi. Per aver compreso a tempo che
questi problemi
costituivano la problematica determinante per la svolta
mondiale allora imminente, Karl Marx si è rivelato ai posteri
come il grande spirito
preveggente del suo tempo. Ma neppure come massimo spirito del
suo tempo egli avrebbe potuto cogliere teoricamente questi
problemi e incorporarli
nella sua opera, se essi non fossero già stati nello stesso
tempo posti in qualche modo anche nella realtà di allora, come
problemi
reali. Il destino singolare di questo tedesco del Quarantotto
fece sì che egli, scagliato fuori dalla sua sfera d’azione
pratica dai
governi assoluti e repubblicani d’Europa, grazie a questo
tempestivo allontanamento dalla retriva e limitata situazione
tedesca, venisse
inserito proprio nel suo autentico peculiare spazio storico
d’azione.
Il populismo dall’alto nel nostro Paese non funziona. Questa la lucida presa d’atto di due editorialisti di rango del Corriere della Sera, Aldo Cazzullo e Massimo Franco, sulle pagine del quotidiano in edicola lo scorso 28 giugno Prima di entrare nel merito dei loro articoli, tuttavia, credo occorra premettere alcune riflessioni sul quadro politico globale che è venuto delineandosi nella prima metà dell’anno in corso. Dopo le batoste incassate con la Brexit, l’elezione di Trump e il disastroso (per Renzi) esito del referendum italiano sulle riforme costituzionali, e a fronte delle apprensioni generate dall’ascesa di movimenti antiglobalisti di sinistra e di destra (da Sanders a Mélenchon, passando per Podemos e Marine Le Pen), abbiamo assistito al progressivo rinsaldarsi di un fronte “antipopulista” mondiale costituito dai maggiori partiti tradizionali (conservatori, socialdemocratici, centristi), non di rado uniti in grandi coalizioni trasversali, e sostenuto a spada tratta da tutti i media mainstream.
Il dato interessante è che questa Santa Alleanza, mentre in alcuni casi ha ottenuto risultati mediocri (vedi il mancato trionfo conservatore ai danni di Corbyn), ha funzionato alla grande laddove, a guidare la controffensiva, non sono stati i vecchi partiti, bensì, come è avvenuto in Francia, formazioni inedite camuffate da movimenti anticasta e guidate da giovani leader
L’astensionismo ha superato il 50%. Ormai la maggioranza degli aventi diritto al voto si tiene lontano il più possibile dalla scheda elettorale, come fosse una mail di phishing.
50%. È un dato che colpisce. Com’è possibile che ci siano ancora così tanti italiani disposti a votare per questo branco di grotteschi cialtroni noti come la nostra classe politica?
Come fanno a fidarsene, come fanno a sopportarli, come fanno anche solo a distinguerli?
Un milione di liste.
Un solo obiettivo: il potere.
Un solo padrone: il mercato.
Una sola preoccupazione: bloccare le inchieste, giudiziarie e giornalistiche.
Un solo slogan: “Basta negri”.
Promessa vana, oltre che infame.
Perché l’Europa ci ha chiuso fuori.
Ci hanno chiesto di approfondire meglio e nel merito le ragioni della nostra critica a Fusaro contenuta in questo articolo http://www.linterferenza.info/editoriali/a-proposito-di-fusaro/ e allora siamo tornati sull’argomento.
A tal proposito, può aiutarci questo suo intervento a “La Zanzara” segnalatomi da un amico: https://youtu.be/7tqxMAJOrzQ
Ora, Cruciani e Parenzo (uno di destra e l’altro di “sinistra”, entrambi accomunati dall’amore per il neoliberismo), per come la vedo io, sono due nullità e anche due individui decisamente squallidi, al confronto dei quali Fusaro è sicuramente un gigante.
Ciò detto, in questa intervista a La Zanzara mi pare che il “nostro” abbia esplicitato con estrema chiarezza il suo pensiero che, a buon titolo, può essere definito borghese nel senso proprio del termine.
Fusaro fa un’operazione che dal mio punto di vista non ha senso, per la semplice ragione che è strutturalmente impossibile. E cioè separa nettamente il capitalismo finanziario da quello produttivo (tipica concezione di alcune correnti filosofiche liberali e borghesi, sia di destra che di sinistra), attribuendo una valenza negativa al primo e una valenza positiva al secondo. Come se il capitalismo finanziario (che oggi la fa da padrone nel mondo, senza però dimenticare l’enorme ruolo svolto oggi ad esempio dai grandi apparati militari industriali, quindi dal capitalismo “produttivo” ) non fosse il prodotto di quello cosiddetto produttivo.
Cresce la disoccupazione, ma ci dicono che va tutto bene. Il padronato è d’accordo, perché intanto accumula più facili profitti
Va tutto bene. Aumentano i disoccupati, ma va tutto bene. Lo dicono anche esponenti del governo; lo affermano alte cariche del Partito democratico. A maggio rispetto ad aprile si sono persi 51mila posti di lavoro, ma non c’è da preoccuparsi, lascia intendere il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, dal momento che “dopo il forte aumento registrato ad aprile, la diminuzione degli occupati registrata a maggio non muta le tendenze di medio-lungo periodo dell’occupazione”. Sulla stessa lunghezza d’onda tutto il PD, che esprime coralmente lo stesso ottimismo di Poletti, sia pure con toni differenti: un po’ smorzato quello di Cesare Damiano, per il quale “I dati vanno valutati nel medio-lungo periodo. Saranno importanti le scelte del Governo nella prossima legge di Bilancio sul tema del lavoro”; addirittura entusiasta quello espresso dalla vicepresidente del gruppo PD alla Camera, Alessia Morani: “Io direi che per valutare davvero la bontà o il fallimento di una scelta politica sia più utile giudicare i risultati anno su anno. Oggi siamo comunque a +800.000 posti di lavoro rispetto al 2014”.
Peccato che posti di lavoro non sia sinonimo di occupati (basti pensare che nel 2016 i 9.434.743 rapporti di lavoro attivati hanno interessato 5,5 milioni di lavoratori)
Gli
sviluppi
delle ultime settimane rimuovono la nebbia che oscurava gli
obiettivi di politica estera della classe dominante USA. Una
serie di eventi
apparentemente non correlati fanno luce sulle finalità dei
responsabili politici in un'era di intensificazione delle
rivalità
internazionali. Più oltre, sta diventando chiaro che il
Presidente Trump sta ora parametrando la politica estera al
consenso della classe
dirigente; il suo allontanarsi dalla linea è stato
sostanzialmente posto sotto controllo.
In febbraio scrissi sulle implicazioni del cambiamento largamente ignorato dello status degli USA, da paese in cerca di energia ed importatore di petrolio, a paese esportatore netto e commerciante in tutte le risorse energetiche.
Gli USA hanno ancora una posizione significativa, ma in contrazione, nell'esportazione internazionale del carbone. Naturalmente, l'uso del carbone è sia terzo in importanza tra gli idrocarburi, sia in contrazione (la produzione del carbone ha avuto la caduta internazionale con la percentuale più alta nelle statistiche del 2016). Tuttavia, le importazioni di petrolio sono diventate essenziali per rifornire i critici bisogni di trasporto degli USA, così come la massiccia macchina militare nella metà del ventesimo secolo.
Alain Badiou: Lacan. Il Seminario. L’antifilosofia 1994-1995, Ed. it. a cura di Luigi Francesco Clemente, Napoli-Salerno, Orthotes, 2016, pp. 212, euro 20, ISBN 978-88-9314-027-0
Nel 2016 è stato pubblicato in
traduzione italiana il seminario tenuto da Alain Badiou
nell’anno accademico 1994-1995 sull’antifilosofia di Lacan.
Questo terzo momento
di una “tetralogia antifilosofica” (p. 5), che ha visto come
protagonisti autori quali Nietzsche, Wittgenstein e san Paolo,
non fa che
confermare la profonda convinzione di Badiou per cui ogni
filosofo contemporaneo che si rispetti debba necessariamente
misurarsi, nel corso del
proprio itinerario filosofico, con lo psicoanalista francese
e, soprattutto, con la sua interpretazione della filosofia (p.
8).
Fu Lacan stesso a dichiarare di essere un “antifilosofo”, e questo è certamente all’origine del debito reale di Badiou nei suoi confronti. La ricerca di Badiou, infatti, oltre a delineare un’autonoma ed originale ontologia, proprio a partire da quell’affermazione lacaniana è stata indotta, in modo sistematico, alla chiarificazione di ciò che caratterizza un pensiero antifilosofico.
A conferma di ciò questo seminario non presenta un’esposizione organica dell’opera lacaniana, ma si concentra soprattutto sull’analisi dei fondamenti della sua antifilosofia.
Qualche insegnamento dalla crisi
bancaria della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca:
1) Il governo italiano, la Banca d'Italia e la Regione Veneto (a guida leghista) si sono dimostrati clamorosamente incapaci prima di vigilare e di prevedere tempestivamente la crisi, e poi di gestirla. Hanno perso tempo molto prezioso. Il risultato è che la crisi delle due banche è peggiorata rapidamente, che le due banche sono state costrette a chiudere, che lo stato ha sborsato e sborserà molti miliardi in più di quanto previsto, usando ovviamente i soldi dei contribuenti. Alla fine le banche venete sono fallite e le loro attività - quelle buone - sono state cedute (regalate?) per un euro a un'altra banca privata, Banca Intesa. Mentre lo stato si è sobbarcato tutte le attività negative e deteriorate. E' difficile che potesse andare peggio di così.
2) Occorreva nazionalizzare prontamente le banche venete e gestirle come banche pubbliche di sviluppo per rilanciare l'economia nazionale e i territori. Il governo invece ha gettato le perdite sulle spalle dei contribuenti per lasciare tutti i vantaggi e i profitti a Banca Intesa.
Mentre il governo Hollande aveva fatto della partenza di Assad una priorità assoluta, Emmanuel Macron ha dichiarato che la destituzione del presidente siriano non è affatto una precondizione. Qualche giorno prima era la Germania che condannava le sanzioni americane contro la Russia. Storico, specialista del mondo slavo e professore all’INALCO, Bruno Drewski è uno degli esperti intervistati nel nostro ultimo libro, Le monde selon Trump?. Ci parla del cambio di rotta di Macron così come delle relazioni in mutamento tra gli Stati Uniti e l’Europa.
* * * *
Emmanuel Macron ha dichiarato che “la destituzione di Assad non è affatto una precondizione”. Un cambio di rotta importante per la Francia. Come lo spiega?
Penso che l’evoluzione della situazione in Siria imponga oggi alle autorità francesi di dare prova di realismo. A meno di non impegnarsi in una guerra totale a vantaggio degli stessi terroristi responsabili degli attentati in Francia, non possono più ignorare che l’esercito siriano sta vincendo la guerra.
Anche se Israele e gli Stati Uniti fanno di tutto per ritardare questo scenario.
Con la direzione Pd i giochi congressuali si sono riaperti, con Orlando che rifiuta la tregua ed attacca apertamente e con Franceschini che passa decisamente all’opposizione. Al contrario (stando a quel che dice la stampa), sembra che Emiliano propenda per un accordo con il segretario, in cambio di essere lui a fare le liste per la Puglia. Tuttavia, non crediamo che sia questo il maggiore ostacolo sulla via di Renzi: i suoi oppositori forse non hanno i numeri anche con il passaggio di Francescini e poi, potrebbe esserci il contro passaggio di emiliano. Soprattutto non hanno la determinazione, il coraggio, la tempestività necessari a portare sino in fondo l’operazione. Ma, anche se magari non combineranno nulla, possono efficacemente destabilizzare il partito, incoraggiare ulteriori uscite (e già ne stanno piovendo dappertutto) e pregiudicare la campagna elettorale.
Ma il problema più serio del fiorentino è un altro: c’è un’aria di licenziamento intorno a lui. Le sue recenti posizioni sull’Europa non piacciono affatto ai poteri forti che ormai non sanno come liberarsene. Ha iniziato Napolitano, dopo il referendum, con la durissima intervista sul messaggero, ma ormai anche i toni di vecchi amici come Scalfari o Bazoli non sono più quelli di una volta.
Partito tedesco e partito americano nella direzione del Pd
I commenti alla direzione del Pd di ieri si sprecano: renziani ed antirenziani, il prevedibile (e previsto) smarcamento del furbetto di Ferrara (i sorci si preparano ad abbandonare la nave), l’eccitante discussione sulle future alleanze (nei bar non si parla d’altro). C’è invece un tema che viene alquanto rimosso, quello del rapporto con l’Unione Europea, esemplificato in due passaggi nodali del discorso di Renzi: il no all’incorporazione del Fiscal Compact nei Trattati europei, la necessità di una diversa regolamentazione dell’immigrazione.
Naturalmente Renzi va sempre preso con le molle, pronto com’è a dire una cosa e a fare l’esatto contrario. Ma i suoi critici nel Pd non sono certo migliori, anzi. Se non altro l’ex presidente del consiglio parla di questioni cruciali, mentre gli altri discettano di Pisapia…
Partiamo dai migranti che attraversano il Mediterraneo. Sul punto l’Italia ha preso in questi giorni (in ultimo ieri al vertice di Tallinn) le abituali bacchettate sui denti dagli altri paesi dell’Unione, nessuno dei quali si è detto disponibile ad aprire i propri porti o comunque a condividere, in qualche modo, l’onere dell’accoglienza. In sintesi: sul tema, come su tanti altri, non esiste una qualsivoglia solidarietà europea. E, a questo punto, chi si attarda a prenderne atto non ha più giustificazione alcuna. Amen.
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Riflessioni sulla lettura di D.L.Smail, Storia profonda, Bollati Boringhieri, Torino, 2017
Daniel Lord Smail, professore ad
Harvard, ha ereditato dal padre (a sua volta professore di
storia) una passione istintiva per la -grande storia naturale
dell’umanità-.
Portata avanti l’indagine nei corsi si è risolto a buttare giù
una introduzione per un volume di storia naturale che ne
riportasse
i contenuti ma poi si è accorto che l’una e l’altra,
introduzione e storia, metodo e contenuto, avrebbero dato vita
al classico
mattone sulle seicento pagine. Ha quindi deciso di scrivere
una libro di sola riflessione metodologica sull’ipotesi di
“storia
profonda”, la riunificazione di tutti i domini della storia
(geologia, biologia, paleoantropologia, linguistica e storia
dei fatti umani) alla
ricerca di quel sfuggente oggetto che è la fenomenologia
dell’umano.
Il tempo che prendiamo in esame, la sua durata o estensione, è la condizioni di pensabilità prima della profondità storica. Darwin non avrebbe mai potuto intuire e poi sviluppare la sua teoria, se poco prima i geologi non avessero cominciato a dilatare a dismisura il tempo naturale. Fu in un certo senso, lo sviluppo urbano a portare a quegli scavi da cui affiorarono resti atipici di animali che infiammarono il dibattito sulle classificazioni ai tempi di Cuvier.
La nozione
di
ideologia è una delle categorie fondamentali del pensiero di
Marx e di Engels. In particolare essa svolge un ruolo molto
importante nel
processo di elaborazione e di genesi della concezione
materialistica della storia. Il superamento e la critica da
parte di Marx e di Engels delle
posizioni filosofiche e politiche del gruppo della cosiddetta
“sinistra hegeliana”, alla metà degli anni ’40
dell’Ottocento, prende le mosse, infatti dalla nozione di
“ideologia tedesca”. Con essa i due fondatori del materialismo
storico
intendono evidenziare il carattere essenzialmente speculativo
e soggettivistico del pensiero filosofico-politico dei
“giovani hegeliani” e
in particolare della loro pretesa di avviare un processo di
rinnovamento sociale e politico della Germania sul mero
terreno delle “idee” e
della “filosofia”. Nel primato della filosofia rivendicato
dalla sinistra hegeliana Marx ed Engels individuano un
fondamentale elemento di
continuità con l’idealismo di Hegel e insieme il riflesso
della condizione di arretratezza sociale e politica della
Germania rispetto
alla Francia e all’Inghilterra. In realtà una critica reale,
effettiva dell’ordine di cose esistente non può non
presupporre
per loro la fuoriuscita dal terreno della filosofia e del
“pensiero puro”.
La critica tedesca – scrivono Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca – non hai abbandonato, fino ai suoi ultimi sforzi, il terreno della filosofia.
Il referendum per l'indipendenza della Catalogna del prossimo 1 ottobre e lo strano caso dello strabismo di Eurostop
Con l'assemblea costituente svoltasi a Roma il 1 luglio EUROSTOP da coordinamento si è trasformato in soggetto politico unificato.
Il 21 giugno scorso Programma 101 spiegava le ragioni che impedivano l'adesione al nuovo soggetto politico —Perché i nostri compagni non confluiranno in Eurostop.
Una delle ragioni fondamentali con cui Programma 101 declinava l'invito a far parte del nuovo soggetto politico unificato era il netto rifiuto di EUROSTOP di rivendicare (e lottare per) la piena sovranità nazionale del nostro Paese. Un rifiuto giustificato in nome del principio supremo dell'internazionalismo proletario. A poco è valso segnalare che in assenza dell'aggettivo, ovvero del soggetto proletario come forza dirigente, il sostantivo diventa un dogma appeso al nulla, finisce anzi per giustificare come progressista l'unico internazionalismo realmente esistente, ovvero il mondialismo delle plutocrazie capitalistiche che in effetti stanno prendendo a picconate gli stati nazionali.
A poco è valso spiegare che sono proprio le frazioni dirigenti delle élite dominanti italiane, in nome del loro internazionalismo cosmopolitico, ad agire come longa manus dell'imperialismo tedesco che in nome di una più forte Unione europea soggioga gli altri stati come suoi protettorati.
Le novità nel campo della regolamentazione del mercato del lavoro continuano a sorprenderci, ma non ci colgono impreparati. Le nostre perplessità in riferimento all’abrogazione dei voucher sono state confermate ieri, quando sono riapparsi sulla scena sotto nuove forme, che però manifestano le medesime problematiche che ne avrebbero dovuto sancire la fine perenne. Così non è stato, a quanto pare. I voucher per natura eccedono le regole tecniche e formali che tentano di limitarne gli abusi. Non esiste nessun escamotage normativo che riesca a contenerne gli effetti e forse è proprio per questo che a Confindustria piacciono così tanto. Sono utili da sempre per gestire in un modo del tutto informale i rapporti di lavoro: il mercato del lavoro attuale non può proprio farne a meno e infatti sono tornati per la loro qualità di eccellente strumento di governo del tempo di lavoro, perfettamente funzionale ad aggirare forme di resistenza che ancora vengono messe in campo da parte di lavoratrici e lavoratori. Sebbene i buoni lavoro non siano certo gli unici responsabili della precarietà, di sicuro sono stati e continuano a essere un modello esemplare da seguire per disciplinare le forme contrattuali, livellare i salari e adeguare le modalità di messa al lavoro ai capricci della produzione, affinché le aziende non sprechino nemmeno un centesimo.
«Cina globale» di Simone Pieranni per manifestolibri. La via della seta che conduce a una società cinese della conoscenza. Un progetto che si scontra con la perdurante leadership degli Stati Uniti
Simone Pieranni ci offre, in un rapido scritto, l’immagine della Cina globale (manifestolibri, pp. 95, euro 8). Ci propone cioé la questione del presentarsi della Cina sull’orizzonte globale e si interroga su cosa significhi. Fino ad un decennio fa, prima della grande crisi, una tale questione si sarebbe detta inverosimile (anche per i «pochissimi» che, come Giovanni Arrighi, se l’erano posta con toni profetici). Oggi invece, corrisponde ad una urgenza dell’intelligenza geopolitica. Centralità globale della Cina, dunque? La cosa puo essere analizzata da due punti di vista. Da un lato, considerando la continuità della grande rinascita della nazione cinese: una rinascita costruita e gestita dal Pcc e collegata sempre di più, ad una identità fantasmata in un lontano passato imperiale, prima dell’epoca delle umiliazioni, prima della vergogna coloniale subita a partire dal diciannovesimo secolo, capace di ritrovare una forte dinamica. Questa vocazione la Cina la trova a partire dalla grande crisi del 2008. Essa è l’unico grande paese industriale che subisce la crisi in maniera secondaria: ciò le permette oggi di esprimere una politica globale, da «grande potenza».
Il primo faccia a faccia in assoluto tra Donald Trump e Vladimir Putin, avvenuto venerdì a margine del G20 di Amburgo, ha rinvigorito negli Stati Uniti la campagna anti-russa condotta dai principali media e da esponenti politici democratici e repubblicani. L’incontro tra i due presidenti è stato infatti seguito da una lunga serie di dichiarazioni tra il preoccupato e il minaccioso, ma tutte riconducibili allo sforzo di una parte significativa della classe dirigente d’oltreoceano per bloccare sul nascere la possibile collaborazione tra Mosca e Washington su alcuni dei più delicati scenari di crisi internazionale.
Con un tempismo attentamente studiato, nel fine settimana il New York Times ha ricordato i guai di Trump sul fronte delle relazioni con la Russia, proponendo una nuova escalation delle pressioni sulla Casa Bianca. Il giornale, in prima linea assieme al Washington Post nella battaglia contro l’amministrazione repubblicana, ha pubblicato una rivelazione che, secondo gli autori, aggiungerebbe elementi concreti all’accusa di collusione tra il clan del presidente e ambienti governativi russi.
In realtà, il contenuto della più recente “esclusiva” del Times non mantiene come al solito nulla di quanto promesso dai titoli sensazionalistici o dalle osservazioni degli autori.
1.
L'immancabile
Repubblica, adiuvata criticamente dalla
Stampa, riporta la ormai nota
(quanto trita) replica di Moscovici all'uscita di Renzi
sull'aggiramento/modifica del fiscal compact:
Accoglienza tiepida se non fredda a Bruxelles per la proposta lanciata da Matteo Renzi di tenere il deficit al 2,9% per cinque anni per liberare risorse per spingere la crescita economica. "È interesse dell'Italia continuare a ridurre il deficit per ridurre il debito pubblico che pesa sulle generazioni future e impedisce di investire: ogni euro per far fronte al debito è un euro in meno alla scuola, agli ospedali, all'economia", ha detto il commissario agli affari economici Pierre Moscovici prima di entrare all'Eurogruppo.
Soffermiamoci, per l'ennesima volta, sul concetto espresso nella parte evidenziata della dichiarazione (in automatico) di Moscovici.
C'è un punto che i giornaloni si guardano bene dal cogliere, limitandosi a lamentarsi genericamente che la reazione delle istituzioni UE sarebbe stata nettamente diversa, e ben più possibilista, se fossero stati Macron o la Merkel a sollevare la questione del "ritorno a Maastricht" (ipotesi altamente inverosimile, dato che il fiscal compact è il figlio necessitato delle programmatiche asimmetrie provocate dall'euro).
Non da oggi
la
questione degli immigrati è una questione centrale nel
dibattito politico. Fiumi di inchiostro per “analizzare” il
fenomeno e non
mancano, ovviamente, proposte per risolvere il problema. Ma
sempre dal punto di vista di chi quel fenomeno lo “subisce”.
Il mio punto di
vista differisce anche da chi da sinistra e dall’estrema
sinistra lo affronta con la testa per terra e le gambe
all’aria.
E’ noto anche a chi ha frequentato poco o per niente le università che fin dall’Impero Romano venivano fatti affluire nelle città che si espandevano centinaia di migliaia di schiavi dal Nord Africa, cioè operai che dovevano erigere opere colossali senza mai comparire per il loro contributo nella storia in quella fiorente civiltà. La cosa è proseguita per tutti i secoli successivi sempre con lo stesso criterio: pagare il meno possibile la mano d’opera perché risultasse meno costoso il prodotto finito. Citerei per tutti l’esempio di quel Brunelleschi che licenziò tutti gli operai che costruivano la cupola della Basilica di Santa Maria del Fiore a Firenze semplicemente perché chiedevano maggiore protezione per le impalcature, visto che morivano tutti i giorni per cadute dovute alle precarie condizioni di lavoro e ricevevano come premio una bara di legno per la sepoltura.
La questione del denaro, nell'opera matura di Marx, è stata oggetto di grandi controversie. E non sembra che siano arrivate alla fine. Si cerca qui di compiere uno sforzo per chiarire la confusione fra il denaro inteso come "misura del valore" ed il denaro visto come "modello per i prezzi". Si ritiene che questo qui pro quo si trovi all'origine della tesi secondo cui la teoria del denaro di quest'autore sia diventata anacronistica. Da una parte, si pensa che, per Marx, il denaro si configuri soprattutto, necessariamente, come una merce reale, ad esempio l'oro. E che la cartamoneta, per il fatto di non essere niente di più che una rappresentazione del denaro-oro in circolazione, dev'essere per questo ufficialmente convertibile in quello. Dall'altro lato, si vede che il denaro circolante oggi risulta essere puramente fiduciario, vale a dire, come non convertibile in oro. Il testo che segue sostiene non solo che quest'opinione è sbagliata, ma afferma anche che gli argomenti sostenuti da Marx vengono in generale equivocati
1. Introduzione
La questione del denaro nell'opera matura di Marx è stata al centro di controversie che non appaiono essere arrivate ad una conclusione positiva. Lo stesso denaro, in quanto una delle categorie più centrali delle teorie che si sforzano di cogliere il capitalismo, è stato al centro di polemiche interminabili. Marx stesso sottolinea nella sua opera maggiore, facendo riferimento al suo stesso tempo ed ai migliori autori, che in generale mancava chiarezza nella comprensione di questo oggetto misterioso. Ora, sembra che il passare del tempo non abbia migliorato tale situazione che - sembra, al contrario - è peggiorata e di molto.
È noto che esistono autori non marxisti e perfino autori marxisti che ritengono inadeguata, per la comprensione di questa forma sociale nel capitalismo contemporaneo, la teoria del denaro che si trova nel Capitale.
Jacques Sapir commenta a caldo sul suo blog Russeurope i risultati del G-20 di Amburgo. Secondo l’economista francese Stati Uniti, Russia e Cina ne escono più forti, grazie anche alla nuova intesa tra Putin e Trump. Mentre il vero perdente è l’Unione europea, campione del libero scambio più integrale, sconfitta dalla dichiarazione finale del summit, che riconosce ai singoli Stati la possibilità di reagire con misure autonome a comportamenti illeciti in campo commerciale. Secondo Sapir “è innegabile che l’incontro di Amburgo ha ufficialmente messo agli atti l’esistenza di un mondo multipolare, un mondo su cui nessun Paese può rivendicare il diritto di dettare legge né esercitare il potere”. Alla diplomazia francese, conclude, non resta che smaltire la sbornia mondialista
L’incontro del G-20, che si è tenuto dal 7 al 9 luglio ad Amburgo, ha dimostrato l’ attuale esplosione delle relazioni internazionali. Ha inoltre evidenziato la posizione più forte sia di Paesi come gli Stati Uniti, sia della Cina e della Russia. E ha messo agli atti l’incapacità dei paesi dell’Unione Europea di fare avanzare la loro agenda di una cosiddetta “governance globale” basata sulla negazione della sovranità dei singoli Stati.
Una vittoria di Vladimir Putin?
In particolare, tre punti di questo incontro sono significativi.
1.
Da dove proviene la critica della dissociazione-valore? In che misura il suo punto di partenza è la teoria critica? Essa è stata socializzata al tempo dei cosiddetti nuovi movimenti sociali, essendo stato per me, il movimento delle donne, i punto di riferimento centrale. Quel che allora è accaduto, come una volta lo ha descritto Silvia Bovenschen, nei primi giorni del movimento delle donne: «Abbiamo convenuto che il mondo era differente». Tuttavia, ben presto mi ha colpito quello nella teoria critica viene chiamata "falsa immediatezza". La natura/l'ecologia, la questione femminile, ecc. erano ora separate da quelle che erano le intenzioni originarie della critica del capitalismo. In un best-seller degli anni 1980 dal titolo "Technik und Herrschaft" ["Tecnologia e Dominio"], il problema del dominio veniva ora dislocato sulla tecnologia e la madre natura diventava il vero punto di riferimento del femminismo per alcune parti del movimento delle donne. In tale contesto, nella prima metà degli anni 1980, mi sono imbattuta ne "La Dialettica dell'Illuminismo", che sembrava offrire un punto di partenza per quella che era, già a partire dal 1968, la "questione primordiale" del femminismo: come coniugare Marx e il femminismo, e la questione ecologica e le altre questioni con la repressione della natura interiore?
Torna Don Winslow, ormai a rischio serialità. Il filone è quello della corruzione nella polizia e negli apparati burocratici del potere statunitense, d’ambientazione newyorkese (Missing. New York) ma diverso dalla sua narrativa sul narcotraffico (California, Messico). La storia è basilare: Dennis Malone è un poliziotto scelto a capo di un’unità d’élite della polizia di New York, la task force di Manhattan North creata col compito di stroncare i cartelli della droga che imperversano ad Harlem. Si scopre che non solo tutti gli appartenenti a questo corpo scelto hanno legami con i cartelli del narcotraffico, ma che nel frattempo si muovono essi stessi come vero e proprio cartello, sequestrando e rivendendo droga. In questa spirale perversa che risucchia torti e ragioni tutti sono complici, dai colleghi ai diretti superiori, dall’Fbi alla politica municipale. La conclusione rimanda alle consuete domande della narrativa winslowiana, riguardo al labile (labilissimo) confine tra il potere legale e il contropotere criminale, tra presunti buoni e altrettanto immaginati cattivi.
In questo romanzo Don Winslow ci dice alcune cose sostanziali. La prima, che la corruzione dilaga anche tra chi dovrebbe combatterla. La seconda, che tale corruzione riguarda tutti i livelli del potere burocratico, da quelli direttamente organizzativi ai piani alti della politica.
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Dopo aver pubblicato l’articolo sulla moneta fiscale di Bossone, Cattaneo, Costa e Sylos Labini, anche Enrico Grazzini interviene sull’argomento e commenta alcune delle diverse proposte sul campo
In questo
articolo mi propongo di chiarire perché l’architettura della
moneta unica europea è strutturalmente squilibrata e genera
crisi. E
perché la moneta fiscale, nella versione pubblicata da
Micromega e promossa dal compianto Luciano Gallino, possa
rappresentare la soluzione ai
problemi dell’euro. Mentre altre versioni di moneta fiscale
possono invece essere impraticabili.
Le cause genetiche e strutturali della fragilità dell’euro sono queste:
1. La moneta europea è diventata la leva principale per imporre l’egemonia tedesca sulle economie periferiche, ovvero lo strumento per imporre una forma di colonialismo commerciale, monetario e finanziario. E’ noto che l’euro è stato creato a Maastricht con criteri dettati dalle classi dirigenti tedesche, cioè a immagine e somiglianza del marco, una delle monete più forti e stabili al mondo insieme al franco svizzero e allo yen giapponese. L’euro, in quanto moneta creata per essere forte e stabile, come il marco, non solo contrasta l’inflazione ma è intrinsecamente deflattivo e comprime lo sviluppo della maggior parte dei paesi dell’eurozona. Tuttavia per l’industria tedesca, molto competitiva, l’euro è una moneta debole, svalutata rispetto al vecchio marco, e favorisce perciò il surplus commerciale con l’estero. Grazie all’euro, la Germania può praticare senza eccessivi vincoli la sua politica mercantilistica: e con i suoi surplus esporta disoccupazione e deflazione.
Se il socialismo scientifico segnò
una svolta dì portata decisiva nella storia del movimento
operaio internazionale, scoprendo l'"algebra della
rivoluzione", non vi è
dubbio che le tesi del III congresso del P.C.d'I.
(denominazione, questa, che non è affatto equivalente a quella
di PCI, giacché indica
non un partito nazionale, ma la sezione nazionale di un
partito mondiale), tenutosi in condizioni di illegalità a
Lione tra il 20 e il 26
gennaio 1926, costituiscano la più avanzata e matura
formulazione, attraverso un organico sistema di equazioni, del
problema della rivoluzione
proletaria nella storia del movimento operaio italiano.
In effetti, a chiunque chieda quali siano i testi con cui sia possibile formarsi un'idea esatta dell'autentica tradizione comunista, proletaria ed internazionalista, del nostro Paese non si può che consigliare di leggere e rileggere, cioè studiare, questo scritto fondamentale che segnò la vera nascita teorico-politica del P.C.d'I., sia come attiva sezione dell'Internazionale Comunista sia come fattore operante della dinamica nazionale, attraverso la rottura con l'estremismo settario ed opportunista di Bordiga [1].
Pochi anni fa Mario Monti definiva la Grecia il più grande successo dell'Euro. Ora anche il nostro paese raggiunge quei vertici di vittoria, con il dilagare della povertà in dimensioni mai viste, se non subito dopo la guerra.
A spiegare i 14 milioni di poveri servono, ma non bastano, i 7 milioni di disoccupati. Infatti milioni di lavoratori precari e supersfruttati non riescono, pur lavorando, a raggiungere un reddito dignitoso. Pochi giorni fa Renzi, intraprendendo la sua battaglia mediatica contro il fiscal compact, ha detto che tre anni fa l'italia ha vinto con la UE. Immaginiamo se avessimo perso! La realtà è che le politiche di austerità e distruzione dei diritti sociali della Unione Europea, di cui l'euro è lo strumento fondamentale, hanno davvero vinto. La miseria e la disoccupazione diffusa permettono di pagare il lavoro sempre meno e di guadagnare sempre di più a grandi imprese, finanza, super ricchi. Se poi i governi colpiscono il lavoro con Jobsact e misure simili, tutto diventa ancora più facile per chi ha il capitale.
E infatti in Italia poco più dell'1% della popolazione oggi detiene quasi un quarto di tutte le ricchezze del paese.
Sempre più ricchezza va a sempre meno persone e si trasferisce dai paesi impoveriti a quelli più ricchi. In questi giorni le banche tedesche festeggiano 1,34 miliardi di profitti extra incassati con la usura esercitata sulla Grecia.
La logistica riguarda lo spostamento di persone e merci, l’utilizzo e la ridefinizione degli spazi. L’imperatore Traiano ne aveva già compreso l’importanza durante le sue campagne militari. Lo studio del posizionamento sul terreno, delle fonti di approvvigionamento di acqua e altre risorse vitali per il mantenimento delle truppe, così come la capacità di condurre campagne militari in luoghi lontani per molto tempo, avevano decretato il successo nella conquista della Dacia. Lo storico militare Martin Van Creveld sostiene invece che la logistica militare è nata tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Settecento come reazione alla tirannia del saccheggio degli eserciti per le loro necessità. La logistica si è poi estesa anche al settore civile collegato alla produzione e alla circolazione delle merci. Il trasporto in passato era visto come un qualcosa di esterno alla produzione mentre oggi viene incluso nel processo produttivo. Prima era un semplice costo ora aumenta il valore delle merci. La logistica nell’ambito del commercio è diventata fondamentale grazie alle esternalizzazioni che, va ricordato, non avvengono solo tra Stati diversi ma anche all’interno di questi come conferma l’esempio degli Stati Uniti.
La rivoluzione logistica
Anche se la logistica è considerata una branca specifica delle arti militari o delle scienze economiche, a partire dagli anni cinquanta del Novecento
Massimo De Minicis riflette sulla natura del lavoro nell’epoca delle piattaforme digitali e sulla sua difficile classificazione come lavoro autonomo o subordinato. Riprendendo alcune antiche suggestioni di Alain Supiot e Mario Tronti, De Minicis sostiene che la differenza tra le due tipologie di lavoro consiste più che nella presenza di forme di eterodirezione nell’esecuzione della mansione nelle caratteristiche delle cooperazione produttiva del lavoratore in un’organizzazione collettiva del lavoro (Labour platform) concepita da altri e per altri
Bagliori di Sapienza
pratica ci colgono e ci
coglieranno ancora
in questo lungo tramonto a cui è
condannata la scienza dei padroni…
(Mario Tronti, Operai e
Capitale, 1966 )
Dalla fine degli anni ’70 la sempre maggiore tecnologizzazione della produzione ed il rinnovamento dell’organizzazione scientifica del lavoro rappresentano gli assi strategici della nuova organizzazione della produzione. Si realizza, così, un processo di scomposizione dello spazio e del tempo produttivo, assicurando una perfetta coincidenza tra aumento della produttività e contenimento della pressione salariale.
Alcune riflessioni sull’Europa e sull’ordoliberalismo a partire da un libro recente
«Governance»
è una delle parole maggiormente
utilizzate nel lessico politico contemporaneo.
Ricorre con frequenza nei documenti ufficiali dell’OCSE, della
Banca Mondiale e
dell’Unione Europea e designa il passaggio dalle forme
decisionali verticistiche e «Stato-centriche del policy
making (tipiche
del fordismo)» a forme di coordinazione politica ed economica
orizzontali in cui i programmi da attuare vengono concordati
attraverso reti che
intrecciano diversi livelli: locale, regionale, statale,
europeo e globale. Inserendosi nell’ampio novero di studi
governamentali sul
neoliberalismo, il libro di Giuliana Commisso, dal titolo La
genealogia della governance: Dal liberalismo all’economia
sociale di mercato
(Asterios, 2016), si pone l’obiettivo di far
luce sul significato e i limiti della
governance, espressione
nient’affatto disinteressata di un mondo che si vorrebbe
post-ideologico. A tale
scopo l’autrice individua nelle categorie concettuali
foucaultiane lo strumento più adatto per ripercorrerne
l’origine e si cimenta
in un impegnativo riepilogo dei principali nodi teorici del
pensatore francese, riuscendo a restituire la complessità del
«dispositivo
potere-sapere», a ricostruire la nascita della ragion di Stato
nella sua accezione di pratica di governo e ad evidenziare il
passaggio da questa
alla governamentalità liberale prima e a quella neoliberale
poi.
1. La
questione Trump
È normale che le elezioni presidenziali negli Stati Uniti alimentino aspettative e timori nei confronti di questo o quel candidato al ruolo di leader della superpotenza mondiale. Tuttavia Barack Obama e Donald Trump hanno suscitato reazioni emotive fuori dell’ordinario e cariche di un’enorme valenza politica. Da Obama, il messia nero, tanti si aspettavano la liquidazione del cosiddetto neoliberismo, allora sprofondato nella più grave crisi del dopoguerra, e un nuovo New Deal. A Trump è invece imputato l’intento di voler operare un fondamentale cambiamento del sistema politico degli Stati Uniti, di voler alterare, se non la sacrosanta e più che bicentenaria Costituzione formale, la Costituzione materiale del Paese; da qui i discorsi su un nuovo regime variamente aggettivato: populista, autoritario, bonapartista, criptofascista, fascista… E ciò non soltanto per via delle sue proposte ma - forse ancor più - per l’impressione suscitata dal suo stile comunicativo, dall’immagine che egli ha voluto trasmettere.
Se la memoria non m’inganna un tale livello di emotività, che potrebbe dirsi isterico, non si verificò neanche a proposito delle elezioni di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, una coppia che realmente segnò una discontinuità storica.
«Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno».(Mt. 5, 37)
Ad oggi, non è necessario fare una ricerca approfondita per avvertire una crescita vertiginosa dell’uso del termine «complottismo» nell’ambito della discussione pubblica; in particolare, la morte del sociologo Zygmut Bauman (9 gennaio 2017) ha segnato suo malgrado un punto di svolta per la diffusione di termini quali fake news o «post-verità», termini accuratamente svuotati di senso in modo che ognuno potesse interpretarli a proprio piacimento. Che si parli dell’abuso della farmacovigilanza, della dittatura dello spread, dei rettiliani, dell’utilizzo dei big data, della burocrazia europea a Bruxelles, delle scie chimiche, del condizionamento dei mezzi di comunicazione di massa, dei chip sottopelle, degli avvistamenti delle sirene, dell’influenza degli interessi delle lobbies oppure dell’operato di George Soros, tutto questo è ricondotto pacificamente sotto la categoria onnicomprensiva del “complotto” e da qui, una volta ridipinto con qualche tinta naïf, viene delegittimato come una sorta di recrudescenza oscurantista da Alto Medioevo (Polibio avrebbe parlato di «oclocrazia») che i Lumi del «buon senso» hanno tardato a dissolvere una volta per tutte.
Uno degli “story telling” più frequenti riguarda la quota del PIL dovuta agli immigrati, con quantificazioni che cambiano a seconda del narratore. Gli immigrati dunque compenserebbero il calo di natalità e l’invecchiamento della popolazione italiana. Ma, come spesso capita, la questione è un po’ più complicata. Nel dopoguerra in Italia vi è stato un progressivo aumento della natalità, che ha trovato il suo picco nel 1964. La data è significativa poiché coincide con la prima grave crisi economica dopo il Boom degli anni precedenti. Si vuole spesso attribuire l’andamento della natalità a cause culturali ma, sta di fatto che, in base ai dati italiani, ciò non ha riscontro. Alla fine degli anni ’80 vi fu persino un nuovo picco delle nascite nel Nord Italia, in coincidenza con il buon andamento delle aspettative economiche. Al Sud questo aumento della natalità non ebbe riscontro perché le aspettative erano opposte; anzi, il calo irreversibile della natalità nelle regioni meridionali cominciò proprio negli anni ’80 e coincise con la deindustrializzazione del Meridione. L’austerità al Sud era cominciata da due decenni ed i primi pareggi di bilancio operati dai governi negli anni ’80 furono ottenuti proprio con il taglio drastico degli investimenti pubblici nelle regioni meridionali.
Tutta la vicenda Trump con i suoi aspetti inquietanti, angosciosi, ma anche farseschi per una democrazia che pretende di essere un modello, ha rilanciato al massimo grado un tema che si è affacciato all’inizio degli anni ‘90 e ha acquistato forza man mano che le bugie per la guerra, i patriot act, le invasioni, le rivoluzioni indotte, l’uso strumentale del terrorismo diventavano centrali nella politica americana: ovvero quello dello “stato profondo”, della governance reale di una elite che manipola i governi visibili in vista dei propri interessi e che quando non riesce a far eleggere chi vuole cerca ogni modo e ogni pretesto per colpirlo. Tuttavia lo stupore e l’inquietudine nascono soltanto dallo scoprire delle crepe nella mitologia della democrazia americana che in realtà non è mai stata ciò che si pensa: l’elitarismo e il settarismo, sono la base sulla quale il Paese è stato costruito.
In realtà non c’è alcun bisogno di ricorrere a nozioni esoteriche o di evocare i simboli massonici nel dollaro e quant’altro faccia parte di questa contro mitologia ingenua e complottista, basta leggere “The American Journey : A History of the United States” , un testo universitario tra i più diffusi, per trovare un’illustrazione (senza tuttavia una spiegazione) di quell’ideologia repubblicana che normalmente nei nostri testi scolastici viene in qualche modo affiancata alla Rivoluzione Francese con la quale ha tuttavia in comune pochissimo.
Per un
lungo
periodo le analisi sulle trasformazioni produttive si sono
concentrate sullo spostamento delle strutture produttive dal
cosiddetto nord al sud del
mondo. In particolare a partire dal 1990, lo spostamento di
capitali dall’Europa occidentale, Nord America e Giappone
verso l’Asia,
l’Europa orientale e l’America Latina ha subito una forte
accelerazione grazie soprattutto alle imprese multinazionali.
Negli anni
più recenti, tuttavia, alcuni studi basati sulle catene del
valore e sulle reti di produzione globali (Barrientos et. al.
2011; Henderson et
al. 2002) hanno sottolineato come le strutture produttive si
siano articolate, anche geograficamente, in modo molto
complesso. In questo articolo
presentiamo i risultati di due ricerche rispettivamente sul
settore elettronico e su quello delle calzature, per
evidenziare come le reti produttive
globali si sviluppino non solo dal nord al sud del mondo, ma
anche in direzione inversa. In particolare sosteniamo che
l’organizzazione di
queste reti è basata sul contesto socio-istituzionale delle
diverse aree mondiali e sulla composizione della forza lavoro.
Breve biografia di una parola e del suo successo. E’ possibile meritare qualcosa, che sia premio o castigo, senza il concorso dell’Altro?
Nel
mio gruppo – da quando abbiamo iniziato a lavorare sulla valutazione,
sull’INVALSI, sul servizio nazionale di valutazione – ci
siamo sempre mantenuti su due piani di ricerca.Con
appartenenze politiche e
sindacali diverse e un retroterra marxista in comune,
abbiamo puntato la barra sui cambiamenti antropologico
culturali indotti dal neoliberismo,
cornice senza la quale è impossibile comprendere quel che è
avvenuto e avviene nella scuola. In questo orizzonte di
senso abbiamo
lavorato agli aspetti tecnici, ai dispositivi: i test, i
frameworks europei, le guide a questo e quest’altro,
provando a smascherarne la falsa
ideologia scientifica, oggettiva, che li ispira.
Anche oggi, nella comunicazione che segue, mi muoverò su due livelli, una disamina sul merito, come metafora funzionale alla elaborazione di un consenso idiota, nel senso che non sa le parole, e un breve commento di carattere giuridico in cui, di quelle stesse parole, proverò a dare eco.
* * * *
Due parti, diverse per registro e per riferimenti. In entrambe gli attori sono quelli che si muovono intorno alle vicissitudini del merito, come parola chiave e complesso di pratiche.
L’ipotesi, a quanto sembra anticipata dal nuovo libro di Matteo Renzi, e dunque in parte strategia editoriale, in parte elettorale, di forzare le regole del “Fiscal Compact”, cancellando l’impegno in esso presente di ridurre il debito nei termini del 60% del rapporto debito/Pil secondo un percorso preordinato, mi sembra contenere un grave errore, che però ha del metodo.
Questa ipotesi, che è fatta della materia delle nuvole, si può riassumere come una forma di “reaganomics”: ridurre le tasse in modo accelerato, al prezzo di creare nell’immediato deficit, con la speranza (ovvero il sogno) che questo determini crescita per effetto dell’espansione della spesa privata. Sappiamo che non ha funzionato, e peraltro era accompagnata nella pratica da una enorme espansione di spesa pubblica militare (il programma dello “scudo spaziale”).
Ma nel nostro contesto, che è del tutto diverso, suona a dirla tutta in modo alquanto più pericoloso: più che un sogno rischia di tramutarsi in un incubo. Infatti dentro la camicia di forza delle regole europee e della carenza di sovranità che ne deriva, solo tentare di forzare per cinque anni, con una sfida manifesta e palese, i dogmi che consolidano il dominio insieme nazionale e di classe del grande capitale e della casalinga sveva (purché “risparmiatrice”, ovvero titolare di un qualche gruzzoletto da far fruttare), può portare a reazioni inconsulte “di tipo greco”.
Le strisce blu per il parcheggio a pagamento sono indicative. Dell’efficienza di una giunta comunale? Del senso civico degli abitanti? Della funzionalità di un quartiere? No. Sono indicative del classismo dell’attuale società e dell’egemonia culturale dominante. Questa configurazione sociale si caratterizza nella preminenza progressiva della merce su ogni altro elemento e nella mercificazione di tutti i rapporti compresi quelli sociali ed affettivi, ogni elemento del vivere ha un valore di scambio e come tale ha una collocazione all’interno del fluire del metabolismo neoliberista.
Ogni azione o provvedimento che passa attraverso il denaro è classista e come tale dovrebbe essere immediatamente percepito dalle classi subalterne. Il fatto grave è che spesso invece neanche ce ne accorgiamo e riproduciamo continuamente tutti i ruoli della divisione sociale capitalistica, tutti i ruoli degli apparati politici e ideologici capitalistici e patriarcali. Il neoliberismo ha conquistato al mercato tutti i territori, ha ridotto tutto a merce, compreso il lavoro, la natura, la sostanza vivente e quindi anche l’immaginario e la mente e ha colonizzato ogni aspetto del nostro quotidiano e così è successo che anche la così detta sinistra di movimento abbia auspicato e appoggiato provvedimenti classisti facendo propria la lettura dominante e anzi facendosene sponsor.
Recensione a Piotr Zygulski, Il meccanico del marxismo. Introduzione critica al pensiero di Gianfranco La Grassa, Pistoia: Petite Plaisance, 2016
Si arricchiscono di un nuovo contributo gli studi sul marxismo e post-marxismo italiano grazie alla recente pubblicazione di Piotr Zygulski dedicata al pensiero di Gianfranco La Grassa (Il meccanico del marxismo: Introduzione critica al pensiero di Gianfranco La Grassa, Pistoia: Petite Plaisance, 2016), già docente di Economia nelle Università di Pisa e Venezia. Questo testo è il frutto degli studi per una tesi in Storia del Pensiero Economico sul lavoro di un professore di economia che non può dirsi “economista” in senso stretto, anche solo in quanto marxista (o post-marxista che dir si voglia). Un esercizio eterodosso quindi, in una facoltà in cui dominano paradigmi ortodossi, ma eterodosso anche all’interno degli studi marxisti se si pensa che nonostante l’interesse dimostrato da importanti studiosi (come evidenziato puntualmente nel lavoro) non era mai stata dedicata una monografia al professore di Conegliano ormai giunto a quasi mezzo secolo di pubblicazioni. Ma Zygulski non è nuovo a questo tipo di imprese, se si pensa al suo precoce lavoro consacrato al pensiero di Costanzo Preve (Costanzo Preve: la passione durevole della filosofia, Pistoia: PetitePlaisance, 2012) anch’egli un eretico del comunismo novecentesco.
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Parlare di
Partito Comunista qui ed ora non è certo cosa facile e da
l’idea di parlare di un altro mondo e di un’altra epoca tanto
è
stata devastante la storia delle organizzazioni comuniste di
questi ultimi decenni in Italia ma anche nel resto
dell’Europa. Questa
constatazione e lo stato d’animo che ne deriva, che ha spinto
molti militanti a rivolgersi verso altri orizzonti anch’essi
bruciati in
tempi molto rapidi, ci deve invece spingere ad operare un
salto di qualità teorico nell’affrontare la questione del
partito che in
realtà è la questione di come le classi subalterne resistono e
reagiscono allo stato attuale delle cose. Parlare di partito
significa
dunque parlare della classe con cui abbiamo a che fare, reale
e non mitologica, ma significa avere anche una idea dei
processi generali e di quelli
storici che stanno modellando il mondo attuale.
Se abbiamo dato una lettura dei processi storici legata al rapporto contraddittorio tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione individuando fasi egemoniche e fasi di crisi non possiamo non leggere sotto questa luce anche la storia delle organizzazioni del movimento operaio.
Negli
ultimi mesi
sono stati pubblicati due libri che trattano della povertà e
del debito: due condizioni oggi sempre più interdipendenti e
strutturali.
Il primo è un bel saggio di Marco Fama, giovane ricercatore dell’Università della Calabria: Il governo della povertà ai tempi della (micro)finanza (Ombre Corte, Verona, 2017, pp. 180, Euro 15,00, prefazione di Stefano Lucarelli, postfazione di Carmelo Buscema).
Il titolo è già di per sé esplicito. Marco Fama ha condotto ricerche sul microcredito, sulla finanziarizzazione, sulla povertà e sullo sviluppo rurale in Messico e Nicaragua durante il suo dottorato in sociologia dei fenomeni politici[1]. Ha potuto così acquisire una solida base analitica per estendere il discorso sul fenomeno della povertà anche ai paesi occidentali a capitalismo maturo. Al punto che nel primo capitolo l’autore compie una vasta panoramica delle trasformazioni dei mercati finanziari come strumento di biopotere sugli individui.
Il concetto di povero ha sempre avuto un significato ambiguo e ambivalente.
Le riflessioni di Salvati sullo stato della
democrazia in Occidente sono da par suo penetranti e piene di
suggestioni analitiche. Il
suo punto di vista, anche dove non convinca pienamente, è
innegabile che contenga sempre un elemento di verità. Non
sono, tuttavia, le
singole affermazioni - delle quali, appunto, accetto il
contenuto di verità - a spingermi a scrivere queste note, ma
la necessità di
inquadrare meglio il senso complessivo dell’articolo e
l’ispirazione che muove quelle riflessioni, in una sorta di
ragionamento ad alta
voce. Non ho capito se il suo bersaglio polemico (o meglio la
correzione di giudizio che Salvati auspica) sia diretto a
coloro che ripropongono
l’adozione integrale di un approccio «socialdemocratico», o
indirizzato a demitizzare il «mito» dei «Trenta
gloriosi» dal punto di vista della qualità democratica, a
introdurre una categoria di giudizio da non dare per acquisita
(l’eccezionali-tà delle condizioni esterne), o a mettere in
guardia da facili semplificazioni di analisi di un fenomeno
complesso.L’incipit è una domanda sulle ragioni che spieghino
il coro di analisi sul peggioramento odierno della qualità
democratica nei capitalismi occidentali. Salvati non è
evidentemente convinto che quel peggioramento vada preso per
scontato, non perché
non veda gli aspetti problematici della democrazia oggi, ma
perché ritiene che nei due secoli in cui è stata il sistema
politico
prevalente ha manifestato, talvolta anche con maggiore
gravità, i problemi che oggi appaiono così evidenti.
Intervista al geografo marxista sulla traiettoria del suo pensiero e gli snodi politici del presente
L’intervista è stata realizzata giovedì 29
giugno a Bologna, dove Harvey era presente per la Summer
School «Sovereignty
and Social Movements» organizzata dall’Academy
of Global Humanities and
Critical Theories
. Abbiamo evidenziato col grassetto i
passaggi politici a nostro avviso
più significativi dell’intervista, che spazia
dall’interpretazione di Marx all’analisi del capitalismo,
dalla relazione tra
mutazioni dello Stato e della città nel contesto neoliberale
fino a una riflessione sui movimenti. Su di essi il geografo
marxista analizza in
particolare la dinamica di repentina diffusione delle
mobilitazioni urbane a livello globale, come la sequenza di
insorgenze del 2011-2013, indicando
la necessità di cogliere quali elementi di profondità
l’abbiano resa possibile. È su questo elemento che ci pare
Harvey
ponga una delle domande cruciali, ossia quale politica sia
possibile costruire su questi processi. Una domanda tutt’ora
senza risposta ma sulla
quale rimane decisivo continuare ad interrogarsi.
Una versione ridotta di questa intervista è uscita su Il Manifesto il 13 luglio col titolo "Il contropotere è cittadino".
* * * *
I: Cominciamo dalle origini della tua elaborazione, che parte da Cambridge - dove non ti muovevi all'interno di un approccio marxiano – e a fine anni Sessanta muove sulla sponda opposta dell'Atlantico, a Baltimora.
Ricevo da Riccardo Achilli il seguente testo che sono lieto di ospitare sul blog [av]
“Le
nazioni
più ricche sono tenute ad accogliere, NELLA MISURA DEL
POSSIBILE, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle
risorse necessarie alla
vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di
origine. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di
cui sono
responsabili, possono subordinare l'esercizio del diritto di
immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare
AL RISPETTO DEI DOVERI DEI
MIGRANTI NEI CONFRONTI DEL PAESE che li accoglie.
L'immigrato E' TENUTO A RISPETTARE con riconoscenza il
patrimonio materiale e spirituale del paese
che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai
suoi oneri". Catechismo della Chiesa Cattolica,
passo
2.241.
Premessa: l’insufficiente stato dell’arte della riflessione a sinistra
Il tema dell’immigrazione è di grande criticità nel pensiero della sinistra. Di fronte alla crescita di ciò che, con una certa superbia intellettuale, si etichetta come “populismo di destra” o xenofobo, che in tutta Europa (e non solo, basti pensare a determinati temi posti da Trump nella campagna elettorale degli USA) si è radicato in una quota non indifferente delle classi popolari che dovrebbero essere la base di rappresentanza stessa della sinistra, essa balbetta. Balbetta per motivi comprensibili, per certi versi “nobili”.
La
comunicazione di Renzi
Mentre Berlusconi e Grillo sono divenuti dei politici-star in tempi relativamente lunghi, Renzi ci è riuscito in tempi straordinariamente brevi. Per poterlo fare, egli ben presto ha creato un proprio brand politico personale, usando tutti gli strumenti più aggiornati del marketing. Ingredienti simbolici di questo brand sono il primato del merito e del talento, l’autenticità, la gioventù, l’innovazione, il cambiamento, le nuove tecnologie, ecc. Lo stesso cognome di Renzi è trasformato in un logo: una r frecciata, indicante appunto la svolta e il cambiamento, che appare nel suo sito personale (cfr Barile Brand Renzi, 2014, p. 26 sgg. e 82 sgg).
Renzi, a partire almeno dalla sua partecipazione alle “Invasioni Barbariche” nel 2008, accumula capitale comunicativo anche grazie alla conoscenza di esperti di immagine e di spettacolo (p.es. Giorgio Gori, già a capo di Canale 5 e il regista Fausto Brizzi). Ma anche grazie alla sua capacità di associare la propria immagine a star come Benigni e Jovanotti.
Se il socialismo scientifico segnò
una svolta dì portata decisiva nella storia del movimento
operaio internazionale, scoprendo l'"algebra della
rivoluzione", non vi è
dubbio che le tesi del III congresso del P.C.d'I.
(denominazione, questa, che non è affatto equivalente a quella
di PCI, giacché indica
non un partito nazionale, ma la sezione nazionale di un
partito mondiale), tenutosi in condizioni di illegalità a
Lione tra il 20 e il 26
gennaio 1926, costituiscano la più avanzata e matura
formulazione, attraverso un organico sistema di equazioni, del
problema della rivoluzione
proletaria nella storia del movimento operaio italiano.
In effetti, a chiunque chieda quali siano i testi con cui sia possibile formarsi un'idea esatta dell'autentica tradizione comunista, proletaria ed internazionalista, del nostro Paese non si può che consigliare di leggere e rileggere, cioè studiare, questo scritto fondamentale che segnò la vera nascita teorico-politica del P.C.d'I., sia come attiva sezione dell'Internazionale Comunista sia come fattore operante della dinamica nazionale, attraverso la rottura con l'estremismo settario ed opportunista di Bordiga [1].
Dopo aver pubblicato l’articolo sulla moneta fiscale di Bossone, Cattaneo, Costa e Sylos Labini, anche Enrico Grazzini interviene sull’argomento e commenta alcune delle diverse proposte sul campo
In questo
articolo mi propongo di chiarire perché l’architettura della
moneta unica europea è strutturalmente squilibrata e genera
crisi. E
perché la moneta fiscale, nella versione pubblicata da
Micromega e promossa dal compianto Luciano Gallino, possa
rappresentare la soluzione ai
problemi dell’euro. Mentre altre versioni di moneta fiscale
possono invece essere impraticabili.
Le cause genetiche e strutturali della fragilità dell’euro sono queste:
1. La moneta europea è diventata la leva principale per imporre l’egemonia tedesca sulle economie periferiche, ovvero lo strumento per imporre una forma di colonialismo commerciale, monetario e finanziario. E’ noto che l’euro è stato creato a Maastricht con criteri dettati dalle classi dirigenti tedesche, cioè a immagine e somiglianza del marco, una delle monete più forti e stabili al mondo insieme al franco svizzero e allo yen giapponese. L’euro, in quanto moneta creata per essere forte e stabile, come il marco, non solo contrasta l’inflazione ma è intrinsecamente deflattivo e comprime lo sviluppo della maggior parte dei paesi dell’eurozona. Tuttavia per l’industria tedesca, molto competitiva, l’euro è una moneta debole, svalutata rispetto al vecchio marco, e favorisce perciò il surplus commerciale con l’estero. Grazie all’euro, la Germania può praticare senza eccessivi vincoli la sua politica mercantilistica: e con i suoi surplus esporta disoccupazione e deflazione.
Alcune riflessioni sull’Europa e sull’ordoliberalismo a partire da un libro recente
«Governance»
è una delle parole maggiormente
utilizzate nel lessico politico contemporaneo.
Ricorre con frequenza nei documenti ufficiali dell’OCSE, della
Banca Mondiale e
dell’Unione Europea e designa il passaggio dalle forme
decisionali verticistiche e «Stato-centriche del policy
making (tipiche
del fordismo)» a forme di coordinazione politica ed economica
orizzontali in cui i programmi da attuare vengono concordati
attraverso reti che
intrecciano diversi livelli: locale, regionale, statale,
europeo e globale. Inserendosi nell’ampio novero di studi
governamentali sul
neoliberalismo, il libro di Giuliana Commisso, dal titolo La
genealogia della governance: Dal liberalismo all’economia
sociale di mercato
(Asterios, 2016), si pone l’obiettivo di far
luce sul significato e i limiti della
governance, espressione
nient’affatto disinteressata di un mondo che si vorrebbe
post-ideologico. A tale
scopo l’autrice individua nelle categorie concettuali
foucaultiane lo strumento più adatto per ripercorrerne
l’origine e si cimenta
in un impegnativo riepilogo dei principali nodi teorici del
pensatore francese, riuscendo a restituire la complessità del
«dispositivo
potere-sapere», a ricostruire la nascita della ragion di Stato
nella sua accezione di pratica di governo e ad evidenziare il
passaggio da questa
alla governamentalità liberale prima e a quella neoliberale
poi.
1. La
questione Trump
È normale che le elezioni presidenziali negli Stati Uniti alimentino aspettative e timori nei confronti di questo o quel candidato al ruolo di leader della superpotenza mondiale. Tuttavia Barack Obama e Donald Trump hanno suscitato reazioni emotive fuori dell’ordinario e cariche di un’enorme valenza politica. Da Obama, il messia nero, tanti si aspettavano la liquidazione del cosiddetto neoliberismo, allora sprofondato nella più grave crisi del dopoguerra, e un nuovo New Deal. A Trump è invece imputato l’intento di voler operare un fondamentale cambiamento del sistema politico degli Stati Uniti, di voler alterare, se non la sacrosanta e più che bicentenaria Costituzione formale, la Costituzione materiale del Paese; da qui i discorsi su un nuovo regime variamente aggettivato: populista, autoritario, bonapartista, criptofascista, fascista… E ciò non soltanto per via delle sue proposte ma - forse ancor più - per l’impressione suscitata dal suo stile comunicativo, dall’immagine che egli ha voluto trasmettere.
Se la memoria non m’inganna un tale livello di emotività, che potrebbe dirsi isterico, non si verificò neanche a proposito delle elezioni di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, una coppia che realmente segnò una discontinuità storica.
Per un
lungo
periodo le analisi sulle trasformazioni produttive si sono
concentrate sullo spostamento delle strutture produttive dal
cosiddetto nord al sud del
mondo. In particolare a partire dal 1990, lo spostamento di
capitali dall’Europa occidentale, Nord America e Giappone
verso l’Asia,
l’Europa orientale e l’America Latina ha subito una forte
accelerazione grazie soprattutto alle imprese multinazionali.
Negli anni
più recenti, tuttavia, alcuni studi basati sulle catene del
valore e sulle reti di produzione globali (Barrientos et. al.
2011; Henderson et
al. 2002) hanno sottolineato come le strutture produttive si
siano articolate, anche geograficamente, in modo molto
complesso. In questo articolo
presentiamo i risultati di due ricerche rispettivamente sul
settore elettronico e su quello delle calzature, per
evidenziare come le reti produttive
globali si sviluppino non solo dal nord al sud del mondo, ma
anche in direzione inversa. In particolare sosteniamo che
l’organizzazione di
queste reti è basata sul contesto socio-istituzionale delle
diverse aree mondiali e sulla composizione della forza lavoro.
Breve biografia di una parola e del suo successo. E’ possibile meritare qualcosa, che sia premio o castigo, senza il concorso dell’Altro?
Nel
mio gruppo – da quando abbiamo iniziato a lavorare sulla valutazione,
sull’INVALSI, sul servizio nazionale di valutazione – ci
siamo sempre mantenuti su due piani di ricerca.Con
appartenenze politiche e
sindacali diverse e un retroterra marxista in comune,
abbiamo puntato la barra sui cambiamenti antropologico
culturali indotti dal neoliberismo,
cornice senza la quale è impossibile comprendere quel che è
avvenuto e avviene nella scuola. In questo orizzonte di
senso abbiamo
lavorato agli aspetti tecnici, ai dispositivi: i test, i
frameworks europei, le guide a questo e quest’altro,
provando a smascherarne la falsa
ideologia scientifica, oggettiva, che li ispira.
Anche oggi, nella comunicazione che segue, mi muoverò su due livelli, una disamina sul merito, come metafora funzionale alla elaborazione di un consenso idiota, nel senso che non sa le parole, e un breve commento di carattere giuridico in cui, di quelle stesse parole, proverò a dare eco.
* * * *
Due parti, diverse per registro e per riferimenti. In entrambe gli attori sono quelli che si muovono intorno alle vicissitudini del merito, come parola chiave e complesso di pratiche.
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Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00
A
sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia
(Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la
nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire
una sorta di oggetto volante non identificato della teoria
politica e della
critica radicale dell’arte, della cultura e della società
capitalistica avanzata.
Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo non è certo facile” come afferma Gianfranco Marelli al termine del suo lungo, dettagliato, appassionato e sofferto studio di quello che può essere ancora definito come uno dei movimenti più radicali della seconda metà del ‘900 e forse l’unico le cui principali formulazioni possano ancora costituire, almeno in parte, un’eredità immarcescibile per l’azione sociale antagonista nel secolo in cui siamo entrati, quasi senza accorgercene, ormai da un ventennio.
Gianfranco Marelli si occupa dell’argomento da più di venti anni e l’attuale pubblicazione di Mimesis costituisce la ristampa, ampliata e arricchita (72 note a piè di pagina e 50 pagine in più rispetto alla precedente) del testo pubblicato per la prima volta nel 1996 dalle Edizioni BFS di Pisa.
Un nuovo regime di
produzione che
mette a valore l’autonomia e l’autoimprenditorialità; una
nuova società dell’io; una nuova economia che si poggia sul
lavoro gratuito: questa è l’immagine superficiale
dell’economia politica ai tempi del neoliberalismo. Poi c’è il
dominio violento che fa leva sul potere pastorale; la rete
come modello dello sfruttamento; il lavoro salariato malpagato
e ricattato: questa è
la faccia nascosta del regime del salario attuale,
quel puzzle di condizioni di vita e lavoro dentro e contro cui
siamo costretti a
muoverci. Guardando da entrambe le prospettive il
neoliberalismo appare come un enigma irrisolto, eppure proprio
la convivenza di due modelli
inconciliabili sembrerebbe costituire la ricetta del suo
successo senza storia e senza fine. Lungi dall’essere
un insieme monolitico e
onnicomprensivo, il neoliberalismo si dà
sotto vesti differenti, in luoghi sconnessi. Di
volta in volta, mostra un
lato diverso per ingannare gli astanti, convincendoli di poter
trovare la soluzione allo sfruttamento, anzi, meglio, la
chiave per innescare la
rivolta, se solo si posizionassero correttamente. In questa
rincorsa al nuovo paradigma, si rischia di perdere la bussola
per strada.
Dieci anni fa cominciava a muoversi la colossale frana finanziaria che avrebbe portato, tra l’altro, al tracollo di Bear Stearns e al fallimento di Lehman Brothers, due tra le maggiori banche d’affari del mondo. In un ciclo economico alimentato principalmente dal debito privato, la fragilità finanziaria finì per avere un formidabile impatto sull’economia reale. Dopo Lehman, l’economia mondiale cambiava decisamente passo, entrando in una profonda recessione. A quel punto, si manifestava fatalmente la vulnerabilità della politica economica nell’area euro fino al punto da mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa della moneta unica.
La lunga crisi non è affatto archiviata. Passata la recessione, la crescita negli Stati Uniti è stato troppo modesta per poter riagguantare il sentiero tendenziale (FIGURA 1).
A monte, converrebbe ragionare sui motivi che spingono il principale partito euro-liberista ad impegnarsi in una battaglia parzialmente in favore della cittadinanza per i migranti. A valle, molto più prosaicamente, il tentativo è stato prontamente accantonato per ragioni elettorali. Le stesse, d’altronde, che ne avevano consigliato l’approvazione. Gli apparenti sbandamenti politici del Pd (un giorno ricalca le posizioni della Lega, il giorno dopo s’intestardisce sul diritto di cittadinanza; un giorno fa sua la battaglia antifascista col ddl Fiano, l’altro consente ai nazisti di manifestare nelle periferie romane; con Gentiloni e Padoan presenta la sua veste tecno-europeista, con Renzi contesta il Fiscal compact; eccetera) sono frutto di una precisa strategia politico-elettorale. Il Pd prova cioè a presentarsi come vero e proprio partito della nazione occupando il centro della politica. Per altri versi, è la stessa strategia del M5S, attentissimo a riequilibrare il proprio posizionamento quando le polemiche politiche lo schiacciano ora a destra, ora a sinistra. Tutti i soggetti politici che mirano a governare rifuggono come la peste un posizionamento ideologico: non è la guerra di posizione a pagare di questi tempi, ma il continuo movimento di sottrazione dell’elettorato altrui. Il problema sta nel non caderci, come pure troppo spesso accade. Ovviamente il discredito generale e trasversale che investe il Pd, almeno a sinistra, è talmente profondo che risulta irrecuperabile, e questo è un fatto assodato anche tra gli stessi dirigenti democratici.
Si può vivere in una società
senza gerarchie, in libertà, senza burocrazia statale sopra di
noi, senza divisioni del lavoro artificiali, senza deleghe in
bianco, con
giustizia e senza leggi, in un’economia del dono, senza la
proprietà privata (escluso quelli personali e di usufrutto e
con i beni in
comune), senza religione, senza "katechon"1e sopratutto, senza ritornare al neolitico
e l’anarchia con la legge del più forte?
Si può!
Dal passato un possibile futuro.
I principi cardine.
1. Il telos2delle comunità e delle persone sono le relazioni animate dall’armonia e dalla prosperità.
2. La normale divisione naturale del lavoro.
3. L’uomo non è un atomo economico/psicologico ma è una relazione (questo come presupposto antropologico) che vive in comunità di persone.
4. I sistemi di (non) proprietà e scambio sono fondati sui beni comuni e le regole del dono.
5. I posti di responsabilità sono a rotazione e vanno a chi coniuga buon senso e sapienza.
Homi Bhabha
Homi Bhabha
Jean-Luc Nancy
1. «Il tempo in cui c’era l’Altro è passato». Comincia così, con il solito tono ieratico, L’espulsione dell’Altro di Byung-Chul Han. Questa ulteriore dichiarazione di morte – dopo quella di Dio e quella dell’Uomo – non è semplicemente un incipit a effetto quanto piuttosto la chiave di lettura del pensiero dell’autore tedesco di origini coreane rintracciabile anche (se possibile in maniera ancora più enfatica) nel Profumo del tempo e, più in generale, lungo l’intero corso della sua riflessione – non a caso, in quarta di copertina dell’Espulsione dell’Altro si afferma, correttamente, che «questo nuovo saggio [...] è una sorta di summa delle sue opere precedenti». Per Han, quindi, c’è un tempo prima e un tempo dopo (la morte/espulsione de) l’Altro, due tempi che si contrappongono frontalmente.
Ricostruire il partito per riorganizzare la riscossa, quella vera. Le riflessioni dello storico Fulvio Lorefice nel suo primo libro “Ribellarsi non basta. I subalterni e l’organizzazione necessaria”
“Per tutti i diavoli, vedo bene la divina pazienza della nostra gente, ma la loro divina furia, dov’è?” A questa domanda attualissima del Galileo brechtiano, prova a rispondere Fulvio Lorefice con Ribellarsi non basta. I subalterni e l’organizzazione necessaria, Bordeaux, 2017 pag. 100, 12 euro.
In questo suo primo libro lo storico catanese dell’età contemporanea, autore di pregevoli saggi sulla storia degli Stati Uniti e della formazione del melting pot, dimostra come l’assenza di ribellione in questa fase che segue la sconfitta dell’esperienza comunista novecentesca, deriva principalmente dalla mancanza di organizzazione dei subalterni, più precisamente della sua forma più efficace: il partito politico.
Ribellarsi è giusto, ma non basta. Ed è quasi impossibile senza l’organizzazione.
Nonostante argomenti teorici robusti non manchino per giungere a questa conclusione, il giovane studioso che è anche dirigente e militante, preferisce analizzare alcune esperienze recenti, valutandone limiti e potenzialità.
In alcuni suoi scritti di fine anni
’50,
l’operaista Romano Alquati modella alcune categorie essenziali
per le analisi sull’ organizzazione capitalistica del lavoro e
la
conflittualità operaia: la più importante di queste è
sicuramente la “composizione di classe”. Infatti è
possibile leggere l’intero percorso operaista a partire dalla
teoria composizionista, sviluppo della teoria marxiana sulle
classi, fornendo le
basi per l’avvento delle figure storiche di Tronti e di Negri.
Essa consiste nell’analisi del nesso tra connotati oggettivi e
soggettivi
della forza lavoro, cioè tra una particolare composizione
tecnica e una specifica composizione politica. La prima
designa i livelli sociali di
produzione, la quantità e la qualità dei bisogni della forza
lavoro; la seconda considera i comportamenti politici, sociali
e morali in
grado di determinare bisogni e forme di lotte necessarie alla
classe operaia.
A distanza di molti anni, la teoria composizionista rimane uno dei temi operaisti più riconosciuti, soprattutto per il rilievo che assumerà a partire dagli sviluppi del pensiero trontiano in Classe Operaia. In seguito all’esperienze in fabbrica statunitensi e francesi, per Romano Alquati l’inchiesta sulla composizione di classe coincideva con l’intervento politico: essa si doveva far carico di organizzare la lotta operaia. Da questa connessione nasce la pratica di inchiesta ideata da Alquati: la con-ricerca.
Questi appunti si confrontano con l’articolo di Alessandro Visalli, Poche note sulla questione dell’immigrazione: della svalutazione dell’uomo. apparso sul suo blog e segnalatomi da Cristiana Fischer (E. A.)
Ma
in sostanza che dice o suggerisce Visalli sulla questione dei
migranti?
Vediamo prima il suo ragionamento. Con l’integrazione nell’Europa e la mondializzazione, Il sistema produttivo italiano (io aggiungerei ‘capitalista’), risulta «schiacciato da una parte dalla pressione competitiva generata dai prodotti ad alta specializzazione e contemporaneamente basso costo del nord Europa […] e dall’altra da quelli a media specializzazione e basso prezzo derivanti dai mercati asiatici». E si sta dividendo in almeno tre settori: uno piccolo che si trova delle nicchie nel gioco competitivo internazionale e occupa sempre meno lavoratori; un altro, che si rivolge al mercato interno, esporta prodotti poveri e a bassa tecnologia, non fa investimenti e sfrutta sempre più intensamente i lavoratori; e uno enorme – quello dei servizi – dov’è «massima la frammentazione, la precarietà, e la bassa produttività e dove gli investimenti sono assolutamente nulli».
A questo punto entrano in scena i migranti. Visalli ricorre a uno studio del 2014 dell’ Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) per dirci che per loro «l’Italia negli ultimi quindici anni è il paese con maggiore capacità di attrazione» proprio «a causa di una persistente domanda di forza lavoro a bassa qualifica e bassi salari».
Un mio amico indiano racconta una
storia
riguardo all’aver guidato una vecchia Volkswagen Beetle dalla
California alla Virginia durante il suo primo anno negli Stati
Uniti. In una
singolare tempesta di ghiaccio in Texas è finito fuori strada,
lasciando l’auto col parabrezza rotto e portiere e parafanghi
malamente
ammaccati. Quando è arrivato in Virginia ha portato l’auto in
una carrozzeria per una stima della riparazione. Il
proprietario le ha dato
un’occhiata è ha detto: “E’ irrecuperabile”. Il mio amico
indiano è rimasto sconcertato: “Come può
essere irrecuperabile? L’ho appena guidata fin qui dal Texas!”
La confusione del mio amico era comprensibile. Anche se “irrecuperabile” suona come una specie di termine meccanico, è in realtà un termine economico: se il costo della riparazione è superiore a quanto varrà l’auto dopo, la sola scelta economica “razionale” e portarla dallo sfasciacarrozze e comprarne un’altra.
Nelle “società a perdere” del mondo industrializzato, questo è uno scenario sempre più comune: il costo di riparazione di stereo, elettrodomestici, utensili elettrici e apparecchi di alta tecnologia supera il prezzo di comprarne di nuovi.
Premettiamo due cose: realisticamente andremo a votare con il Consultellum e nessuno prenderà il 40% necessario al premio di maggioranza. Voteremo con il Consultellum anche se, forse, potrebbero esserci i tempi, ancorché stretti, per un rabbercio di legge elettorale, perché non c’è maggioranza possibile: Renzi non è più interessato ad un maggioritario –anche se fa finta di credere che potrebbe prendere il 40%- perché sa che corre il serio rischio di arrivare secondo e, se dovesse esserci una nuova scissione, terzo. E non è interessato ad alcun tipo di coalizione (basta vedere come ha trattato Pisapia, Franceschini e Orlando) perché a lui interessa solo trasformare, anche nominalmente, il Pd nel suo partito personale e, siccome proprio scemo non è, ha interesse a gestire questo passaggio con un sistema proporzionale.
Berlusconi non ha alcun interesse al ritorno delle coalizioni perché tutto vuole meno che avere Salvini fra i piedi e vuole tenersi le mani libere. Per cui tira fuori il famigerato tedesco (che coi è un tedesco all’amatriciana) per dire qualcosa ma non credendoci. Al massimo gli andrebbe bene alzare la soglia di sbarramento, ma i centristi si imbestialiscono e anche Renzi non ha tutto questo interesse a concederglielo.
Da “Basta tasse” ad “Aiutiamoli a casa loro”, Avanti, il presunto nuovo libro-manifesto politico di Matteo Renzi, è fatto con gli avanzi della Lega.
La cosa non dovrebbe stupire nessuno.
Sotto la verniciata ipocrita di fuffa politically correct, il Cazzaro è sempre stato profondamente reazionario, e lo hanno abbondantemente dimostrato tutte le sue iniziative politico-economiche, dal Jobs Act all’abolizione dell’Articolo 18, da Salvabanche e Pacchetti Sicurezza, al tentativo di smantellare la Costituzione antifascista per istituire una dittatura della maggioranza relativa, dall’alleanza organica coi Marchionne e i Berlusconi, all’arrogante disprezzo che ha sempre dimostrato nei confronti di sindacati e movimenti, dei rari giornalisti non leccaculo, e in definitiva di chiunque e qualsiasi cosa anche solo d’un millimetro alla sua sinistra, compresi gli innocui devoti di Padre Pisapio che adesso il PD vorrebbe fagocitare per la ripicca di sottrarli alle fauci di D’Alema.
Il conservatorismo borghese reazionario di matrice berlusconiana del quale il Cazzaro è un tardo sottoprodotto ormai però non basta più. E Renzi lo ha capito.
Serge Latouche - Usa e getta. Le follie del'obsolescenza programmata (2013, Bollati Boringhieri)
Nel film Prêt à jeter, di Cosima Dannoritzer, si vede un ragazzo alle prese con una stampante che non ne vuole sapere più di funzionare. Il tipo si rivolge a un centro assistenza autorizzato, dove gli rispondono che il costo della stampante nuova è praticamente lo stesso della riparazione. Il ragazzo è testardo: cerca in rete e scopre che il problema sta in un chip “messo appositamente nella macchina per farla bloccare dopo 18.000 copie”. Il ragazzo trova un software distribuito gratuitamente sul web da un internauta russo, che annulla il contacopie della stampante e la fa ripartire.
È esattamente quello che è successo a me. Ed è un episodio analogo a un altro che mi è capitato di recente. Vado dall’elettrauto e gli domando: “Scusi, ma perché la prima automobile che ho posseduto non ha mai avuto bisogno che le cambiassi la batteria? Mi bastava rabboccare la stessa con l’acqua distillata…”. E lui: “Signore, ha visto che adesso le batterie, nell’alloggio dell’acqua distillata, sono tutte sigillate? Si è mai domandato perché?”.
Nato. La ministra Pinotti ha annunciato ieri la realizzazione di una grande opera a Napoli: l’Hub per il Sud che costituirà la base operativa per la proiezione di forze terrestri, aeree e navali. Dal capoluogo campano partirono la guerra alla Libia nel 2011 e operazioni militari in Siria
L’annuncio non poteva essere di quelli più ufficiali, «efficaci» e pesanti: è infatti arrivato dalla ministra italiana della Difesa Roberta Pinotti, nell’incontro bilaterale col capo del Pentagono, «cane pazzo»James Mattis, che si è svolto, in pompa magna, martedì a Washington.
Chi dice che scarseggiano gli investimenti nel Mezzogiorno? La ministra Pinotti ha annunciato ieri la realizzazione di una grande opera a Napoli: l’Hub per il Sud.
Dopo l’incontro con il capo del Pentagono James Mattis, martedì a Washington, ha dichiarato: «Siamo soddisfatti che sia stata accolta la nostra richiesta di trasformare il Comando Nato di Napoli in Hub per il Sud».
Il comando di cui parla è il Jfc Naples, il Comando della Forza congiunta alleata con quartier generale a Lago Patria (Napoli), agli ordini dell’ammiraglia statunitense Michelle Howard che, oltre ad essere a capo del Comando Nato, è comandante delle Forze navali Usa per l’Europa e delle Forze navali Usa per l’Africa.
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Cinzia Arruzza insegna Filosofia presso la New School for Social Research di New York. Il suo libro più recente è Storia delle storie del femminismo (con Lidia Cirillo, 2017). Tra gli altri suoi testi ricordiamo Le relazioni pericolose (2010) e Il genere del capitale (nella Storia del Marxismo a cura di S.Petrucciani) che è stato uno dei Libri dell’Anno 2016 di PalermoGrad.
Puoi dirci in breve
qualcosa sulle
esperienze della tua formazione intellettuale e politica?
Questa è una domanda difficile, perché sono diventata un’attivista all’età di tredici anni, e a partire da allora questo fatto non ha mai smesso di dare forma alla mia vita, nella sua interezza. Se dovessi identificare le esperienze che hanno maggiormente influito sul mio impegno politico e sul mio modo di pensare, potrei fornire l’elenco che segue. Anzitutto, il fatto di provenire da una famiglia povera siciliana, il che mi ha messa a contatto con l’ingiustizia e le diseguaglianze di classe, con il sessismo, con il razzismo culturale ‘soft’ nei confronti della gente del meridione (specialmente negli anni Novanta, quando la Lega Nord ebbe un’impennata sulla base di un programma antimeridionale). Quando avevo meno di vent’anni, i punti di svolta nel mio processo di politicizzazione furono le conversazioni con un insegnante di storia e filosofia della scuola superiore, che era un vicino di casa e un amico, la lettura del Manifesto del partito comunista, quella di Stato e rivoluzione di Lenin, e la partecipazione, da studentessa della scuola superiore, alla lotta degli operai di una fabbrica della Pirelli della mia città, che stava chiudendo e stava licenziando centinaia di operai che non avevano alcuna speranza di trovare un altro lavoro, dato il livello di disoccupazione in Sicilia.
Nicola
Porro ha letto – o
riletto – Il Capitale di Vilfredo Pareto, un saggio
critico scritto dall’eminente sociologo ed economista italiano
nel 1885, e
ripubblicato quest’anno dall’editore Aragno, e ne è rimasto
letteralmente estasiato: «È favoloso vedere la
lucidità di Pareto e scorgere in alcune sue critiche al
marxismo, alcuni tic che ancora contraddistinguono il pensiero
dominante e
collettivistico di oggi». Già solo questo ammirato giudizio ci
fa comprendere quanto poco Porro abbia compreso Il
Capitale
marxiano, e questo, come vedremo, anche sulla pessima scia di
Pareto (1). Con quanta superficialità e assenza di cultura
storica Porro si
approccia a Marx e al cosiddetto marxismo è ben rivelato dagli
spassosi passi che seguono: «Alla fine dell’Ottocento Karl
Marx
è una star. È un Saviano [che faccio, rido?], si parva licet
[ah, ah, ah!], su scala globale: è la cosa giusta, scritta nel
momento giusto, e appoggiata dai salotti giusti. Sono in pochi
a contestarlo [come no!]. Il socialismo è agli inizi, ma gode
di grande
fama». Ai «salotti giusti» è sufficiente aggiungere i «poteri
forti» i «giornaloni» e i salotti
radical-chic, ed ecco Marx trasformato in un Bertinotti
qualunque, in un protagonista della scena politico-mediatica
dei nostri miserabili tempi. Ma
che film storico ha visto il signor Porro? Affari suoi,
comunque, e del resto lui scrive per un pubblico che non vuole
ragionare criticamente, ma
desidera piuttosto intrupparsi in una delle tifoserie che
movimentano la scena politica di Miserabilandia.
Sedici anni dopo il G8 di Genova, dopo la “macelleria messicana” messa in opera dalle varie polizie in campo, dopo il massacro nella scuola Diaz, dopo le torture a Bolzaneto, dopo l’omicidio di Carlo Giuliani, ci sono molti punti fermi che distruggono la “credibilità democratica” di uno Stato, dei suoi governi in tutto questo tempo, degli organi repressivi a partire dai massimi gradi.
1) L’Italia è stata più volte condannata, per quei fatti, dalla Corte europea di Strasburgo; molti dei torturati erano infatti cittadini stranieri incensurati nel loro paese, almeno uno (Lorenzo Guadagnucci) era un giornalista professionista nell’esercizio del suo mestiere. Impossibile dipingerli come black bloc.
2) Diversi agenti di polizia e funzionari sono stati condannati anche dalla magistratura italiana per alcuni dei fatti lì accaduti, sotto gli occhi delle telecamere e nel segreto delle stanze di caserma. Non tutti e non per i reati maggiori effettivamente commessi, come fu subito evidente.
3) Questi poliziotti condannati hanno ormai terminato il periodo di “interdizione dai pubblici uffici” e stanno per rientrare nei ruoli; quindi ricominciare a trattare questioni di “ordine pubblico” con uno spirito che – anche nel migliore dei casi – non potrebbe davvero esser definito “equilibrato e sereno”.
Di fronte alla crescente disoccupazione le forze politiche “progressiste” non riescono a proporre altro che il “reddito d’inclusione”. Perché questa parola d’ordine non è compatibile con un “Programma Minimo” comunista
Il presente articolo trae spunto dal materiale didattico (lucidi) preparato da Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma, e presentato ad un seminario “Sull’attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l’Università Popolare A. Gramsci, nell’anno accademico 2016-2017. Si desidera ringraziare il prof. Laise per i commenti alla prima stesura del presente articolo.
* * * *
Negli ultimi decenni il dibattito sui temi economici è stato sistematicamente inquinato dall’utilizzo di vari miti e credenze pseudo-scientifiche spacciati per dati acquisibili attraverso la scienza economica. I principali argomenti sfruttati in maniera strumentale per sviare l’opinione pubblica sono la “Fine del Lavoro” umano, per cui viene indicato come responsabile l’incessante sviluppo tecnologico, e la “Decrescita Felice”, secondo cui sarebbe possibile realizzare un sistema capitalistico migliore, ovvero in grado di permettere una maggiore tutela dell’ambiente.
Un’ottima analisi di Loris Caruso sui borborigmi politico-partitici nello spazio ‘a sinistra del PD’ è apparsa il 18 luglio sulle colonne del Manifesto, un giornale che si sta spendendo per facilitare il dialogo fra i pezzi di ceto politico occupato in una estenuante discussione attorno al tema dell’”unità a sinistra”. Il nostro Sirio Zolea ha già ampiamente sviscerato il tema e spiegato perché questa discussione è non solo sterile ma dannosa. La nostra posizione è sempre stata chiara: “unire la sinistra” non ha altro scopo che legittimare la formazione dell’ennesimo listone occupato da segreterie politiche sempre più autoreferenziali, il cui bacino di voti è unicamente legato ad un termine (“sinistra”) che non gode più di alcuna presa fra il popolo.
Un siffatto listone potrebbe avere come unico risultato l’ennesimo ingresso in parlamento di rappresentanti di queste segreterie per formare un gruppo parlamentare condannato alla marginalità o, peggio, indaffarato nel tentare un successivo dialogo con quei pezzi del Partito Democratico che, per opporsi tatticamente a Renzi, ricomincerebbero a ciarlare di ‘centrosinistra’, di ‘Ulivo’, di ‘Unione’. Tutte cose di assoluta irrilevanza sostanziale per il 99% dei cittadini. Al tempo stesso, questo listone vedrebbe impegnati migliaia di attivisti le cui energie potrebbero essere utilizzate in progetti ben diversi.
Sedici anni fa le proteste contro il vertice. Torture, impunità e risarcimenti statali risibili
«Dai un calcio al G8» era intitolato il torneo che vedeva fronteggiarsi Attac Italia e Attac Francia il 18 luglio 2001 in Piazza Fontana Marose a Genova. Con tutte quelle reti una partita ci stava bene. Quando erano arrivati i poliziotti Attac Francia vinceva 2 a 1. Per questo, nella speranza i «nostri» pareggiassero, gli agenti avevano chiuso un occhio e consentito continuasse la partita.
UN CLIMA di relativa disponibilità come quello che si respirava il giorno successivo in occasione del corteo dei migranti, mi racconta Roberto Mapelli ¬ presidente dell’associazione culturale Punto rosso e presente a Genova 2001 con Attac Italia. Poi il buio. Il 20 luglio Roberto Mapelli, fermato per identificazione, finisce nella caserma di Bolzaneto insieme a Mark Christopher Harrison.
Entrambi sono stati malmenati, tanto che l’Harrison, ripetutamente colpito alla testa, fatica a reggersi in piedi e finisce col perdere i sensi. Al loro arrivo una persona in divisa grigia grida «frocio di merda, comunista bastardo, appena entri ti spacco la faccia».
MAPELLI È IL PRIMO A SALIRE i tre gradini di Bolzaneto e ad attraversare due file di agenti tra insulti e sputi. All’ingresso è condotto in una stanza con Mark Harrison, Roberto Michele, due ragazze tedesche e un ragazzino italiano.
La recente pubblicazione del lavoro
di
Guglielmo Carchedi “Sulle orme di Marx. Lavoro mentale e
classe operaia”, da parte delle Rete dei Comunisti e Noi
restiamo, è una
scelta politica- editoriale che non passa inosservata.
Quello di Carchedi è un lavoro che, in piena continuità con la sua elaborazione, potremmo definire di “frontiera”, il cui ancoraggio al metodo analitico marxiano, alla dialettica, si impone prepotentemente nella ricerca di categorie analitiche idonee a comprendere il modello di accumulazione nella attuale fase di sviluppo. Non dovrebbe essere necessario ma, a scanso di equivoci, non si tratta di un lavoro di filosofica teoretica, una speculazione intellettualistica sulla conoscenza, bensì di una ponderata e articolata, pur nella sua forma sintetica dell’opuscolo, indagine sulla funzione della conoscenza nel processo di produzione del valore e del ruolo svolto dall’appropriazione capitalistica del sapere, conoscenza-informazione, nel punto più alto del generale processo di produzione nell’attuale modello di accumulazione, la cosiddetta economia digitale.
Le trasformazioni tecnologiche di Industria 4.0 ci pongono di fronte due strade: subire questo progetto di trasformazione guidato dall’interesse di pochi oppure tentare di guidarlo nell’interesse di tanti. Un dibattito in vista del G7 di settembre a Torino
Sono nomi
di
computer ad alta potenza di calcolo, software, start
up, piattaforme: YuMi, StasMonkey, Watson, Tug,
Sedasys, Coursera,
Shutterstock, Digits, Warren, e-discovery, Baxter, Iamus,
Workfusion, Sawyer. Rappresentano il presente dell’innovazione
e l’anticipazione
di un futuro probabile dove il lavoro umano diminuirà.
49% [1]o 47%[2]le ipotesi più radicali, 9% [3]quelle più caute, 35%[4] per chi preferisce una via di mezzo: dietro le percentuali i posti di lavoro che verrebbero bruciati dall’innovazione tecnologica. Tecnologie delle reti e dell’informazione, robot, macchine potentissime, big data: è più o meno questa la ricetta che si aggira per il mondo promettendo rivoluzioni digitali e industrie 4.0.
Chi minimizza ricorda l’introduzione del telaio meccanico a fine Ottocento e l’automazione degli anni ‘70 e ‘80: sembrava la fine del mondo ma era solo l’inizio di qualcosa di nuovo. Si bruciano posti di lavoro ma si ritrovano da altre parti. Ma assai più del “vissero tutti felici e contenti” sembra convincere la narrazione a la “Houston, abbiamo un problema”.
A guardarla da vicino, questa rivoluzione guidata da algoritmi intelligenti, sembra davvero un’altra storia.
1. In un articolo intitolato significativamente
"Il partito democratico rimane sull'orlo del collasso", Zero
Hedge cita Bloomberg in un
passaggio che mi pare riassuma il punto fondamentale:
"Un presidente come Donald Trump che ha i sondaggi di gradimento storicamente più sfavorevoli, può almeno consolarsi per questo: Hillary Clinton sta facendo peggio.
La rivale democratica del 2016 è vista con favore solo dal 39 percento degli Americani nell'ultimo Bloomberg National Poll, due punti sotto allo stesso Presidente in carica! Si registra così il secondo peggior indice di gradimento per la Clinton da quando viene seguita da questo tipo di sondaggio nel settembre 2009.
La ex segretaria di Stato era sempre stata una figura controversa, ma questa inchiesta mostra che ha addirittura perso di popolarità tra quelli che l'avevano votata a Novembre.
Più di un quinto dei votanti per la Clinton affermano di avere una visione negativa di lei. Per fare un paragone, solo l'8 percento dei probabili votanti per lei dichiaravano di sentiri così nel sondaggio finale di Bloomberg prima delle elezioni, mentre solo il 6 percento dei votanti per Trump asseriscono ora di valutarlo in modo sfavorevole.
Nel paese dove secondo i media mainstream non ci sarebbero né la democrazia né la libertà d’espressione ieri Cecilia Garcia Arocha, la rettrice dell’Università Centrale del Venezuela, ha diffuso per conto della Mud i dati sulla presunta affluenza del “plebiscito” contro Maduro. Prima di concentrarci sui numeri sarebbe bene però riflettere sulle informazioni che questa notizia porta in sé, e che invece, volutamente, i nostri mezzi d’informazione nascondono mentre il ceto politico di certa sinistra non riesce proprio a vedere. In quale “regime” la rettrice di un importante ateneo potrebbe coordinare per conto dell’opposizione le operazioni di voto in una consultazione paraelettorale contro un presidente legittimamente eletto? Una cosa del genere sarebbe solo ipotizzabile in Italia o negli Stati Uniti? Ve lo immaginate il rettore della Sapienza che insieme a quello della Statale di Milano coordinano le operazioni di voto in un referendum contro Mattarella? E poi, quale “dittatura” ha mai permesso di allestire tranquillamente 1933 seggi, di fatto illegali oltre che illegittimi, sul suo territorio? Una volta trovata la risposta a queste domande passiamo ai numeri forniti dagli stessi antichavisti.
Sì, ma le cure? Voglio dire: ottima, davvero notevolissima per rigore scientifico e fluidità d’intuizione la diagnosi del professor Recalcati, pubblicata sulla rivista scientifica Repubblica. Meticolosa l’anamnesi, sopraffina l’analisi, univoca la diagnosi: tutti quelli a cui sta sulle balle Matteo Renzi sono matti. Chi non vuole bene a Matteo e non lo ricorda nelle sue preghiere è matto. Chi dubita di lui è matto. In poche parole: sono tutti matti.
Ora, io ho da fare, ho degli impegni, una vita mia, e vorrei evitare di finire in un ospedale psichiatrico guardato a vista dalla Serracchiani, e quindi mi dichiaro subito renziano di ferro. Dottore, mi dica cosa devo applaudire e io applaudo, giusto per non essere scambiato per matto. Chiarita la posizione personale, veniamo ai problemi tecnici. Io credo che con questa faccenda dei matti si possa davvero rilanciare il Paese. Ecco come.
Censimento dei matti. Prima di affrontare il problema dei matti è meglio sapere quanti sono. Il 4 dicembre si sono autodenunciati 19.419.507 matti. Poi ci sono i matti che non hanno votato al referendum, quelli che non sanno nemmeno chi sia Matteo Renzi e persino molti che hanno votato sì e sono diventati matti dopo.
Provate a immaginare che qualcuno vi dia un pugno in un occhio e come se non bastasse vi rubi il portafoglio. Provate a immaginare che alle vostre rimostranze costui vi rida in faccia e vi dica che siete dei vecchi scemi, così scemi e così vecchi da credere che ci vuole il gettone per telefonare. Perché odiarmi? dice il rapinatore.
Sulla prima pagina di Repubblica (dove se no?) Massimo Recalcati cerca oggi (17 luglio) di spiegarci perché quelli della sinistra non sanno far altro che odiare il bravo Matteo Renzi. La ragione per cui quelli della sinistra lo odiano è che lui ha mostrato che la sinistra è un cadavere. Ecco allora che quelli della sinistra (chi saranno poi questi della sinistra non s’è capito) si imbufaliscono come certe tribù dell’Africa nera (il paragone è di Recalcati).
Io non so se sono uno della sinistra, non so bene cosa voglia dire, e Recalcati non perde il suo tempo a spiegarmelo. Io preferisco definirmi come un lavoratore truffato dalle politiche del neoliberismo che hanno decurtato il mio salario di insegnante, hanno distrutto la scuola in cui insegnavo e mi hanno costretto ad andare in pensione diversi anni più tardi di quanto prevedeva il mio contratto.
Poi ecco un tipo che mi dice che per telefonare non occorre più il gettone. Sarà per questo che odio Matteo Renzi?
Il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte” è intitolato “Un’altra Europa”, per cui il lettore si aspetta le consuete argomentazioni delle sinistre radicali che auspicano un’evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie e/o una svolta di centottanta gradi nella politica economica dell’Unione. Ma gli oltre dieci articoli raccolti nel fascicolo vanno in tutt’altra direzione: queste illusioni riformiste vengono infatti criticate da vari punti di vista; in particolare a partire: 1) dall’analisi della natura costitutivamente oligarchica della Ue e dei principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco che ne ispirano il progetto; 2) dalla messa a fuoco delle contraddizioni del processo di globalizzazione e del conseguente acuirsi del conflitto interimperialistico fra grandi potenze; 3) dalla presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e Paesi della area mediterranea e dell’Est europeo; 4) dall’affermazione della necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra Paesi periferici. Per ragioni di spazio, non posso dare conto di tutti gli articoli e delle argomentazioni dei rispettivi autori, per cui mi concentrerò in particolare sui temi trattati negli interventi di Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo e Giorgio Cremaschi, nonché in quello firmato congiuntamente da Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai.
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Non
è un segreto che il collasso del comunismo internazionale,
avvenuto dal 1989 al 1991, abbia costretto su posizioni
difensive molti
marxisti. Ciò che viene meno compreso è il perché siano stati
così tanti altri a cogliere l'opportunità per
abiurare alcuni di quelli che erano i principi più venerati
del marxismo. Perry Anderson, in un saggio sorprendentemente
ammirativo su Francis
Fukuyama, scritto nel 1992, concludeva valutando sobriamente
quello che rimaneva del socialismo. Al centro della politica
socialista - egli scriveva -
c'era sempre stata l'idea che un nuovo ordine di cose sarebbe
stato creato da una classe operaia militante, «la cui
auto-organizzazione
prefigurava i principi della società a venire.» Ma nel mondo
reale, questo gruppo «era diminuito in dimensioni ed in
coesione.» Non è che si fosse semplicemente spostato
dall'Ovest sviluppato ad Est; anche a livello globale, notava,
«la sua
ampiezza relativa proporzionalmente all'umanità diminuisce
costantemente.» La conclusione era che uno principi
fondamentali del marxismo
era sbagliato. Il futuro ci offriva una sempre più piccola,
disorganizzata classe operaia, incapace di realizzare il suo
ruolo
storico.
Mentre
è in atto l’osceno balletto del rinvio della legge sullo jus
soli, con la retromarcia del governo Gentiloni e
l’annessa
gara a chi, tra M5S, Lega, Forza Italia e la restante congrega
anti-immigrati, l’ha provocata, proviamo a mettere qualche
punto fermo basilare a
riguardo, parlando – è consentito ancora? – da comunisti
internazionalisti.
Anzitutto per ricordare come fu impostata e risolta la questione un secolo fa nella Russia sovietica. Art. 2 della Costituzione: “In conseguenza della solidarietà tra i lavoratori di tutti i paesi, la Repubblica socialista sovietica federativa russa riconosce tutti i diritti politici dei cittadini russi a coloro che risiedono nel territorio della Repubblica russa, hanno un lavoro e appartengono alla classe operaia. La Repubblica socialista sovietica federativa russa riconosce inoltre il diritto dei soviet locali di garantire la cittadinanza a questi stranieri senza complicate formalità”. Questo è quanto. Altro che la celebre Costituzione italiana nata dalla resistenza!
Per noi che abbiamo come principio-guida fondamentale la solidarietà tra i lavoratori di tutti i paesi, le lavoratrici e i lavoratori immigrati in Italia, e non solo i loro figli, dovrebbero vedersi riconosciuti tutti i loro diritti politici, incluso il diritto alla cittadinanza (se ritengono di avvalersene).
Il 19 luglio il Presidente
dell’INPS, Tito Boeri, ha tenuto un’audizione
informale presso la
Commissione Migrantidella Camera dei Deputati (qui il
link all’evento). Il
messaggio che propone, rispondendo anche ad alcune delle
numerose critiche che gli sono giunte in seguito alla
pubblicazione del XVI
Rapporto annuale
dell’Istituto di alcuni giorni fa è che bisogna, per
salvaguardare l’equilibrio dei conti della previdenza nel
medio periodo,
regolarizzare quanti più lavoratori immigrati possibile, in
parte sottraendoli all’attuale condizione di lavoro nero
causata dal loro
status di clandestini. In linea generale andrebbe promossa da
ora in avanti una immigrazione regolare e mirata ai settori di
maggiore utilità.
Il resto lo farà il mercato.
Viceversa chiudere le frontiere, costringendo tutti i migranti a introdursi come “richiedenti asilo”, anche quando non ne hanno i requisiti, con l’effetto di stazionare a lungo in una condizione giuridica che gli impedisce la stabilizzazione, ha effetti solo negativi, perde le opportunità che pure l’immigrazione potrebbe garantire, e potrebbe in prospettiva addirittura “distruggere il sistema di protezione sociale”.
Riceviamo da Samir Amin la sua riflessione sul risultato delle elezioni francesi. Ne proponiamo la traduzione ai nostri lettori
La democrazia elettorale pluripartitica, gioiello della modernità democratica in Europa e negli Stati Uniti, si è incancrenita ed è sulla strada del suo declino. La dittatura esercitata dal capitale dei monopoli finanziari ha visibilmente annichilito la portata e il senso delle elezioni. La Francia ne aveva già fatto esperienza qualche anno fa: il popolo francese aveva rifiutato con un referendum la proposta di Costituzione Europea; questo non ha disturbato il governo e il parlamento che l’hanno adottata il giorno dopo! La lezione che il popolo francese ne aveva tirato era molto semplicemente che il voto aveva perduto la sua portata decisiva, non valeva più la pena si andare alle urne. Le elezioni presidenziali dell’Aprile 2017 e i due turni delle elezioni legislative dell’11 e del 18 Giugno 2017 ne sono la testimonianza.
Le astensioni sfiorano ormai il 60% del corpo elettorale! Mai visto nella storia della democrazia occidentale. In queste condizioni, sebbene Macron sia stato eletto Presidente e sebbene disponga di una maggioranza assoluta nel nuovo Parlamento, il voto positivo in suo favore non oltrepassa il 16% dei cittadini, raccolti nel privato, in seno al ceto medio e tra gli imprenditori – un ceto sociale naturalmente “pro-capitalista”, reazionario socialmente; non rappresenta un “maremoto” come lo presentano i media dominanti.
La donna anziana apre lentamente la porta, lasciandola socchiusa.
– Signora, lei è italiana? – Chiede l’uomo. La donna annuisce. L’uomo spinge la porta e irrompe nell’appartamento, seguito da un cameraman.
– Mentre il governo spreca miliardi per mantenere gli immigrati clandestini nel lusso più sfrenato – proclama – ecco in che condizioni sono costretti a vivere i pensionati italiani – fa segno al cameraman di girare una panoramica della stanza – Questo è un tugurio, un vero porcile.
– Ma come si permette?
– No signora, lei non si deve vergognare, è lo Stato che si deve vergognare. Sa che ogni immigrato clandestino costa agli italiani 35 mila euro al giorno?
– 35… mila?
– Albergo a 5 stelle, cucina gourmet, televisione satellitare, idromassaggio… sa che il Corano a chi sbarca in Italia promette anche 77 vergini?
Non mi sono mai piaciute le teorie cospiratorie che tendono a sostituire con qualche facile succedaneo logiche complesse e che inevitabilmente finiscono per diventare facile preda dei cecchini mediatici anti post verità. Tuttavia nella complessità delle cose esistono anche i complotti, di quelli proprio a tutto tondo grazie ai quali le logiche di fondo fanno balzi in avanti,e servono per giunta chiarirle a stesse. Uno di questi, risalente al secolo scorso, probabilmente la madre di tutti i complotti liberisti è stato recentemente svelato dalla giornalista Nancy MacLean in un libro pubblcato un mese fa da Penguin: “Democracy in chain: the deep history of the radical right’s stealth plan for America”.
Nel 2013 la MacLean si è imbattuta in una casa deserta nel campus della George Mason University di Virginia, una di quelle università destinate a fabbricare classe dirigente più che a creare conoscenza, nella quale giacevano gli archivi di un uomo morto inquello stesso anno e che ai più è sconosciuto: James McGill Buchanan. Probabilmente non avrebbe fatto troppo caso alla scoperta se per prima cosa non avesse trovato una pila di lettere riservate riguardanti milioni di dollari trasferiti all’università dal miliardario Charles Koch,
In questi mesi la Rete dei
Comunisti ha
avviato un dibattito sul ruolo dei comunisti oggi, dibattito
necessario per rimettere di nuovo a confronto militanti
provenienti da diverse esperienze
e provare ad elaborare un linguaggio condiviso.
Chi scrive ha partecipato al dibattito facendone principalmente resoconti che facilitassero questa elaborazione. Tuttavia si sente il bisogno anche di esprimere il proprio personale punto di vista. E fare una prima sintesi problematica di tutti gli stimoli che il termine “comunista” porta con sé, a dispetto delle caricature che si fanno a questo termine creando a piè sospinto il proprio tascabile partito.
Questo contributo è tratto da un intervento proposto in occasione della conferenza internazionale Logistics: Labour, Infrastructures, Territories, tenutasi il 3 e il 4 Aprile 2017 e organizzata dal Dipartimento di Filosofia, Sociologia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova[1]
Ci siamo trovate a maturare la
nostra coscienza
civica, il nostro impegno sociale all’interno di u
contesto dominato da un linguaggio che non siamo
noi a parlare.
È il linguaggio che parla noi, perché è
un linguaggio costruito e manipolato retoricamente
per definire i
confini in quel mondo: i diritti che hai,
quanto li puoi esercitare,
le relazioni che costruisci e
il modo di gestirle. Se tu
contravvieni ai codici ne
vieni espulsa perché quel mondo
è costruito come
narrazione per essere il mondo. E
quando sei fuori
da quell’universo ti viene anche strappata la
lingua
per dire quello che ti è successo e ti viene
rovesciata
addosso la responsabilità. La frusta
dell’oltre, appunto.
da Il bene, il male
e i loro
campioni;
Luca Rastello
La montagna ha partorito un ircocervo. Sarebbe infatti improbabile definire “topolino” le sentenze del processo nato come Mafia Capitale ma derubricato ad “associazione a delinquere con fini corruttivi”. Le motivazioni della sentenza chiariranno, ormai a telecamere spente e taccuini riposti, quale sia stato il percorso con cui il tribunale di Roma sia arrivato a questa conclusione.
Balza agli occhi il contrasto tra la pesantezza delle condanne e la materia criminale da sanzionare. Se si esclude che l’organizzazione che ha agito su Roma sia riconducibile alla mafia, suscita più di qualche perplessità una sentenza con condanne di questa portata. E’ la stessa perplessità che avevamo già espresso al momento della richiesta dell’accusa. Le leggi che fino ad ora hanno codificato il modello criminale mafioso hanno seguito un loro percorso storico e giuridico, che ha fissato le caratteristiche salienti per cui un’associazione – sul piano giuridico – può essere considerata mafiosa. Il modello criminoso appurato in questo processo, a lume di naso, è di un tipo “nuovo”, a suo modo “originale”; dunque ancora non ci sono le leggi “giuste” per caratterizzarlo. L'”associazione a delinquere” è forse insufficiente, ma sembra l’unica fattispecie in qualche modo assimilabile, secondo il codice penale.
Messo il segreto da Washington sui risultati delle ispezioni per controllare come le ogive Usa vengano gestite e sorvegliate. La segretazione decisa con l’avvio della sostituzione delle vecchie atomiche con la nuova bomba B61-12
I risultati delle periodiche ispezioni per controllare come le armi nucleari statunitensi vengano gestite, mantenute e sorvegliate sono, da ora in poi, top secret: secondo la Federation of American Scientists di Washington, lo ha deciso il Pentagono, dichiarando che in tal modo «si impedisce agli avversari di conoscere troppo riguardo alla vulnerabilità delle armi nucleari Usa».
In realtà, commentano gli esperti della Federation of American Scientists (Fas), i rapporti sulle ispezioni finora diffusi non contenevano dati classificati. Erano però emersi problemi relativi alla sicurezza delle armi nucleari e al comportamento del personale addetto alla loro gestione.
Quindi da ora in poi nessuno, al di fuori di una ristretta cerchia nel Pentagono, potrà avere notizie sul grado di sicurezza dei siti, come Aviano e Ghedi Torre, in cui sono stoccate da anni armi nucleari statunitensi.
Lo scopo fondamentale della decisione del Pentagono è però un altro: non facendo più sapere dove vengono effettuate ispezioni, esso non rivela più, neppure indirettamente, dove sono installate le armi nucleari.
Di male in peggio. La straordinaria salva di incendi di questi giorni ha mostrato definitivamente l’idiozia della riforma Madia (lo so fa rima, ma è talmente appropriata…) che ha eliminato i forestali per farli diventare carabinieri, in una sorta di “razionalizzazione” dadaista che mischia cose che non c’entrano nulla. Il disastro di questa inconsulta riforma che ha inciso su un sistema già fragile, si era già annunciato con i terremoti dell’estate scorsa, dove sono mancati i mezzi, ma adesso è esploso mettendo a vista il marcio che si nasconde in questo vaso di Pandora.
Intanto c’è da comprendere con quale criterio i Carabinieri che hanno avuto in eredità i mezzi, abbiano deciso di destinare molti elicotteri antincendio ad altro servizio (con spese di trasformazione) , lasciando scoperto un servizio essenziale; come mai a più di un anno di distanza da questa fusione si sia ancora in pieno marasma di attribuzioni fra l’arma, i vigili del fuoco e la protezione civile così che gli uomini della forestale con competenza nella lotta agli incendi non sono nella posizione di intervenire. C’è anche da capire perché aerei e elicotteri debbano essere gestiti da sette società private, sei italiane e una britannica a capitale spagnolo che chiedono 15 mila euro per un’ora di Canadair e 5 mila per un’ora di elicottero, richieste da strozzo che ha fatto volare soprattutto i loro bilanci.
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Lo scontro si va acuendo di giorno in giorno, sotto la spinta degli Stati Uniti a sostegno della destra golpista
Vi
riproponiamo l’analisi complessiva della situazione, per
come esce fuori dall’incontro stampa di qualche giorno fa
tra analisti che il Sud
America lo conoscono davvero.
Un incontro Stampa organizzata da ADIATV, Radio Città Aperta, Contrapunto Internacional e Rivista Nuestra America, con la partecipazione del professore dell’università Sapienza di Roma, Luciano Vasapollo e del giornalista Achille Lollo, profondi conoscitori del contesto latino americano, fa il punto sulla situazione in Venezela.
Come l’imperialismo attacca violentemente la costruzione “del Territorio Libero di America”.
* * * *
ADIATV – Il piano per destabilizzare il governo bolivariano di Nicolas Maduro, definito Freedom-2, fu implementato in Venezuela dagli agenti della CIA durante il governo del democratico Barak Obama. Oggi con il repubblicano Donal Trump cosa è cambiato?
Luciano Vasapollo: ” Assolutamente nulla! Freedom 2 ha ricevuto una silenziosa conferma da parte di Donald Trump, poiché in termini di geo-strategia, quando si tratta di colpire chi non vuole sottomettersi al comando imperiale, non ci sono differenze tra democratici e repubblicani.
Il testo di questo breve
ed
esplosivo saggio venne scritto originariamente a metà del 1500
da un giovane men che ventenne secondo quanto riferito dal suo
grande amico,
personale ed intellettuale, Michael de Montaigne. L’originale,
aveva un doppio titolo, quello del Discorso che divenne poi il
suo unico e
conosciuto titolo ed un altro “Le Contr’Un” che si potrebbe
tradurre come “Contro l’Uno”. La tesi è nota e
già spiegata nel concetto di “servitù volontaria”: nella forma
di gerarchia che informa le relazioni umane e sociali la
funzione è certo dall’alto verso il basso ma la formazione
originaria del sistema è probabilmente dal basso verso l’alto.
Montaigne che rimase folgorato dalla tesi sosteneva che
Etienne l’aveva scritta addirittura a sedici anni, forse
diciotto. Possibile?
In fisica, si ritiene che dopo i trenta anni nessuno più avrà facoltà di avere idee originali. Il motivo è semplice, più si va avanti nell’età, più la mente assorbe schemi di pensiero esterni, storici e sociali, meno si ha facoltà di mantenere uno sguardo genuinamente stupefatto sulle cose, uno sguardo pulito ed originario, non ancora strutturato da vari tipi di fantasmi teorici. Del resto, nella favola “I vestiti nuovi dell’imperatore” scritta da Andersen nel 1837, chi ha la sfrontatezza di dire la verità semplice ovvero che “… il Re è nudo!” è appunto un bambino. Il bambino non ha ancora introiettato la convenzione sociale di dire quello che si pensa col sistema mentale attraverso cui tutti pensano. Quel sistema non può dire che il Re è ridicolo e quindi sostiene la finzione in maniera così vasta e pervasiva da far della finzione una realtà intersoggettiva che nelle umane società, è spesso la verità di fatto.
In più, La Boétie, crebbe in un milieu culturale fortemente influenzato dall’Umanesimo rinascimentale italiano, rappresentato nel suo ambiente dal vescovo del suo paese natale che era un cugino della famiglia Medici, il vescovo cattolico fiorentino Niccolò Gaddi.
Pubblichiamo la traduzione di un articolo del filosofo francese Alain Badiou pubblicato in un supplemento speciale del quotidiano L’Humanitè dedicato alla Rivoluzione d’Ottobre
Voglio enfatizzare un punto che sembra essere stato dimenticato oggi, dopo l’apparente trionfo del capitalismo a livello mondiale: la rivoluzione russa del 1917 è stato un evento senza precedenti nella storia della specie umana.
A questo proposito, vale la pena ricordare che la storia dell’umanità è piuttosto breve, tutto considerato. Si tratta di circa 200.000 anni, che non è molto rispetto ai milioni di anni in cui i dinosauri hanno dominato il nostro pianeta. Possiamo affermare che, in questa breve sequenza, c’è stata fondamentalmente una sola “rivoluzione” fondamentale: la rivoluzione neolitica. Questa rivoluzione ha significato strumenti molto più efficaci, un’agricoltura stanziale, una nozione stabilizzata della proprietà del terreno, la ceramica, la possibilità di una eccedenza alimentare che permetteva l’esistenza di una classe dirigente inattiva, la conseguente creazione dello stato, della scrittura, del denaro, delle tasse, il perfezionamento (grazie al bronzo) degli equipaggiamenti militari, il commercio a lunga distanza … Tutto questo risale a qualche millennio fa e siamo ancora in questo stesso punto.
Scene di lotta di classe estiva nel ponente ligure, sequestri di borse frigorifere, pullman fermati ai caselli autostradali, inferrate e cancelli a proteggere le spiagge libere, che sono ormai francobolli di sabbia incollati tra miglia e miglia e miglia di spiagge private. L’emergenza, come al solito, sono i migranti, ma non quelli dei barconi che attraversano il mare, no, i migranti economici che da Milano, partono su torpedoni della speranza, dieci, venti euro il biglietto, con la folle ambizione di andare al mare almeno un giorno, una domenica, e spendere poco. A leggere le cronache estive della settima potenza mondiale, la battaglia è solo all’inizio e si tratta di fronteggiare con vigili, carabinieri, vigilantes privati, ordinanze e divieti, l’orda dei poveri spinti dall’invidia sociale e da un’assurda ambizione: fare il bagno.
Ora si sa che “poveri” è parola scomoda e respingente. Va bene per le statistiche e i titoli che li danno in forte aumento, ma poi quando arriva il povero in carne, ossa e infradito, che si porta la sua birra e il suo panino per stare qualche ora spiaggiato come tutti gli altri, come i non poveri, la cosa appare intollerabile. A Laigueglia, per dirne una, chiudono la spiaggia libera alle otto di sera, in modo da impedire che i poveri in arrivo dalle città sistemino gli asciugamani prima che sorga il sole, per prendere posto.
L’Italia brucia, la siccità strangola l’agricoltura e perfino Roma rischia il razionamento dell’acqua. Le conseguenze dei cambiamenti climatici – che i movimenti denunciano da tempo immemorabile – si fanno evidenti anche in Italia. Altrove lo sono da tempo ma i media continuano a raccontare, ad esempio il Nordafrica, come una realtà lontana. Quelle nefaste conseguenze peseranno per decenni, eppure, puntualmente, ci si stupisce del fatto che le stagioni non siano più quelle di una volta e la siccità e le alluvioni non siano ormai eventi estremi quanto straordinari. L’acqua è una risorsa limitata e la natura ha tempi di rigenerazione non accelerabili. A maggior ragione quando i nodi vengono al pettine, non è possibile affidare le soluzioni agli interessi privati di chi dell’acqua ha fatto il nuovo business su cui riprendere l’accumulazione finanziaria. Ventisette milioni di italiani lo avevano detto in modo netto nel 2011: l’acqua non può essere gestita dal mercato. Quel che oggi abbiamo di fronte è il suo miserabile fallimento. Ci sono alternative? Un intervento pubblico sul dissesto idrogeologico dei nostri territori e un piano per migliorare le reti idriche costerebbero complessivamente 15 miliardi e produrrebbero 200 mila posti di lavoro pulito e socialmente utile
Dentro l’Italia che brucia, dentro l’agricoltura sfiancata dalla siccità, nel disastro ambientale del lago di Bracciano e del possibile razionamento dell’acqua a Roma Capitale, spiace dover dire ancora una volta «i movimenti l’avevano detto».
Dicembre
2016. A Port Said (Egitto) una pattuglia di polizia avvista
una bambina coperta di stracci insanguinati che corre tra le
macerie di un
edificio abusivo in demolizione. Avvicinatisi, gli ufficiali
vi trovano altre persone: un regista, due cameraman, un
ragazzino e la famiglia della
piccola, il cui sangue si rivela poi essere vernice rossa. Il
gruppo finisce in commissariato. Lì il regista confessa ai
poliziotti l'intenzione di realizzare e distribuire un
finto reportage sulla crisi umanitaria di Aleppo, la città
siriana a lungo assediata
dall'esercito governativo di Bashar al-Assad.
Nello stesso mese gli oppositori del regime siriano diffondono sui social network la fotografia virale di un'altra bambina in corsa tra i cadaveri. Nonostante la maccheronica didascalia che la accompagna («It's not in Hollywood This real in syria»), l'immagine è in realtà tratta da un videoclip della cantante libanese Hiba Tawaji. Due anni prima, il 10 novembre 2014, il tema era stato declinato anche da una troupe cinematografica norvegese con un cortometraggio intitolato «Eroico ragazzo siriano salva la sorella da una sparatoria». Prima di ammettere che il film era un falso girato a Malta con attori professionisti e fondi inspiegabilmente pubblici, gli autori avevano incassato più di 5 milioni di visualizzazioni e scatenato l'indignazione di pubblico ed esperti per l'«uso di cecchini contro i bambini piccoli» da parte dell'esercito siriano.
Due proposte di legge
La Commissione Affari costituzionali della Camera ha da poco iniziato l’esame di due proposte di modifica dell’articolo 38 della Costituzione, nella parte in cui menziona il diritto alla pensione e precisa che alla sua attuazione “provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”. Con la prima proposta, sottoscritta da parlamentari di maggioranza e opposizione, dal Pd ai Fratelli d’Italia, si vuole puntualizzare che il diritto alla pensione si attua “secondo principi di equità, ragionevolezza e non discriminazione tra le generazioni”1. La seconda proposta è stata presentata da deputati del Pd e ha un contenuto simile: vuole precisare che “il sistema previdenziale è improntato ad assicurare l’adeguatezza dei trattamenti, la solidarietà e l’equità tra le generazioni nonché la sostenibilità finanziaria”2.
Molti hanno accolto con entusiasmo il richiamo alla solidarietà tra generazioni, considerato una novità positiva per i pensionati di domani. Proprio su questo aspetto deve avere insistito una velina a cui evidentemente si deve un titolo molto gettonato dalle testate, che hanno sbrigativamente parlato di “norma salva-giovani”. Sono però mancate analisi più approfondite su una vicenda di notevole portata e impatto, tutto sommato passata sotto silenzio.
Foreign Policy pubblica un estratto dell’ultimo libro di Thomas Ricks, che spiega come dopo l’anno 1984 il celebre romanzo di Orwell non abbia visto scemare, ma al contrario aumentare, il suo carattere di attualità. Se nei tanti totalitarismi del mondo il riferimento a Orwell è evidente, è nei paesi occidentali, e soprattutto negli Stati Uniti post-11 settembre, che Ricks ritrova le corrispondenze più sottili: il perenne stato di guerra, combattuta in territori lontani, con qualche sporadico “missile” che piomba sulle città; l’idea che la guerra dovrà essere combattuta per sempre senza che possa essere vinta definitivamente; il controllo invasivo del pensiero e dell’opinione, tramite algoritmi sempre più automatici, lontani e inappellabili
Alcuni critici sostenevano che dopo l’anno 1984 la rilevanza di George Orwell sarebbe andata diminuendo. Nel 1987 Harold Bloom scriveva che il più grande romanzo di Orwell sul totalitarismo, 1984, rischiava di diventare un libro storico, un po’ come la Capanna dello Zio Tom. Anche il critico letterario Irving Howe, un grande sostenitore di Orwell, pensava che 1984 avrebbe presentato per le future generazioni “un interesse più che altro storico”.
Eppure, invece di affievolirsi, la popolarità di Orwell sta crescendo in tutto il mondo. Il fatto che il contesto storico di 1984 sia ormai trascorso sembra avere “liberato” il romanzo, rendendo chiaro che il suo messaggio si riferisce a un problema universale dell’umanità moderna.
Mentre il consigliere/genero del presidente Trump, Jared Kushner, è apparso per la prima volta lunedì di fronte a una delle due commissioni del Congresso incaricate di indagare sui presunti legami tra l’amministrazione repubblicana e la Russia, lo scontro interno alla classe politica americana ha fatto segnare un altro aggravamento in seguito all’accordo bipartisan sull’approvazione di nuove sanzioni contro Mosca di cui la Casa Bianca avrebbe fatto volentieri a meno.
Il pacchetto che contiene ulteriori misure punitive nei confronti di entità russe era stato approvato quasi all’unanimità nel mese di giugno dal Senato di Washington. Alla Camera si era però arenato, ufficialmente per questioni tecniche ma in realtà a causa delle perplessità di alcuni deputati repubblicani poco inclini a votare una misura che avrebbe potuto mettere in imbarazzo l’amministrazione Trump.
L’appartenenza al partito non ha comunque impedito la ormai molto probabile risoluzione del percorso parlamentare delle nuove sanzioni. Anzi, come previsto, la legge è stata scritta in modo da rappresentare precisamente una sfida alla Casa Bianca sulla questione del cosiddetto “Russiagate”.
Nel pacchetto di sanzioni, che dovrebbe approdare in aula alla Camera dei Rappresentanti già martedì, sono incluse misure punitive anche contro l’Iran e, al contrario della versione iniziale licenziata dal Senato, la Corea del Nord.
Recentemente, il commissario straordinario alla revisione della spesa, Yoram Gutgeld, ha dichiarato che la spending review ha prodotto risparmi per 30 miliardi di euro negli ultimi quattro anni. Come lo stesso Gutgeld riconosce, ha consentito di ridurre l’indebitamento netto dal 3% del Pil nel 2013 all’attuale 2,4%, secondo una tabella di marcia che prevede il conseguimento del pareggio di bilancio, sia in termini nominali che strutturali, nel 2020. Le ultime stime fornite dall’Istat, peraltro, confermano questa tendenza, giacché il rapporto deficit/Pil nel primo trimestre di quest’anno sarebbe il più basso dal 2000 (-0,6% rispetto allo stesso periodo del 2016) e migliore sarebbe anche il saldo primario (differenza tra entrate ed uscite, al netto degli interessi sul debito), prendendo in considerazione lo stesso periodo.
Fonte: MEF
Un successo, o no?
Capitalismo delle piattaforme è una
definizione precaria che ambisce a ricomporre la realtà in
frammenti che viviamo
ogni giorno. In virtù della sua precarietà,
l’espressione si presta a evocare un mondo di mezzo, uno
stadio di transizione che
inizia con la crisi degli anni Settanta senza aver ancora
concluso il suo ciclo, senza cioè aver raggiunto un assetto
stabile che lo
identifichi con precisione, come l’assetto fordista rendeva
identificabile il capitalismo industriale. Più precisamente,
lo suggerisce
Benedetto Vecchi nel suo ultimo volume, con il quale vorremmo
dialogare a distanza (Il capitalismo delle piattaforme, Manifestolibri,
2017),
agli assetti certi il capitalismo delle piattaforme preferisce
quelli a geometria variabile: è un agglomerato per sua natura
instabile, rifiuta
le vecchie «regolazioni» e mette a valore la presenza di
identità diverse e non immediatamente riconducibili a unità,
spacciando per ambivalenze quelle che sono le sue
contraddizioni. In questo modo va dritto al cuore degli
uomini: può dominarli perfino fuori
dai tradizionali luoghi dello sfruttamento e fare a meno
dell’intermediazione delle cose, grazie soprattutto
all’intermediazione
immateriale della Rete.
“C’è un quadro di Paul Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova unangelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa losguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovesciaai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti ericomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
Così Walter Benjamin interpreta la celebra tela del pittore Paul Klee.
“L’attesa perpetuamente insoddisfatta della salvezza … un’attesa in cui l’essere umano è trascinato dal tempo e dal progresso, lasciando alle spalle le tragedie e gli orrori di cui i dominanti sono stati capaci, seminando morte e distruzione ovunque. Redimere questi orrori, cioè dare senso e rendere giustizia alle vittime, non è un compito che viene assunto e garantito dalla divinità o dalla storia dell’umanità. Le macerie della storia restano mute, non trovanogiustificazione … la storia dell’umanità è rimasta storia di sangue e morte. Così l’Angelo di Klee guarda angosciato il passato, mentre il vento (il tempo) lo spinge via, quando vorrebbe restare tra quelle vittime per tenerle strette asé, per garantire ad esse un significato di qualche tipo[1].
Mannaggia, tutto ciò che ci serve è incostituzionale! Maledizione, chi ce lo ricorda non ha nemmeno torto! Peggio ancora: i tentativi di colpire al cuore la Costituzione modificandone la seconda parte falliscono, come si è visto il 4 dicembre. Che fare allora? Ma è semplice, bisogna cambiare direttamente la prima parte della Carta del 1948. Oddio, forse tanto semplice non è, visto come la pensa la maggioranza degli italiani. Ma non vorremo mica, noi liberali, sottostare al volere della plebe. Dunque si proceda in altro modo. Ad esempio scardinando l'impianto costituzionale a partire da un bel dibattito (leggasi da una massiccia campagna mediatica) sulla flat tax. Questo, in buona sostanza, il ragionamento proposto da quel gentiluomo di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 21 luglio.
Il suo è un editoriale importante, perché indica da un lato che l'attacco delle éÉÉlite alla Costituzione non è certo archiviato (e questo lo sapevamo), dall'altro che l'assalto frontale agli stessi Principi Fondamentali ha bisogno di un nuovo Cavallo di Troia che ne consenta lo stravolgimento. La flat tax, appunto.
Ma seguiamo brevemente il discorso del Panebianco, che ha se non altro il merito di dire senza falsi pudori qual è l'obiettivo di lorsignori: quello di far corrispondere la costituzione formale a quella materiale, scolpendo una volta per tutte, anche nella pietra costituzionale, le "ragioni" del dominio di classe.
E’ emersa una tendenza inquietante che pochi sul web stanno osservando, presi come sono da MMT ovvero, minchiate monetarie torinesi, quelle che gli ubriaconi sbiascicano appunto alle 2 di notte al Santa Giulia se non viene l’Appendino a torgliergli pure il cicchetto.
La prima tendenza inquietante è la cannibalizazzione di Amazon del terziario occidentale.
Cresciuta a pane e terziario, la mia generazione trovava già scritto nel sussidiario delle medie che l’indice di sviluppo di una nazione si rileva nella terziarizzazione dell’economia e nello scenario post-industriale, ovvero:
i cinesi ci fanno le scarpe (in tutti i sensi) a 2 euro il paio e noi tramite un giro di giostra di intermediari le vendiamo a 120 euro (se va bene) in vetrina.
Ora con Amazon il giro degli intermediari è stato completamente scavalcato.
In America dopo gli scheletri delle industrie abbandonate sta comparendo un nuovo fenomeno: lo scheletro dei centri commerciali abbandonati perchè sotterrati dalla concorrenza di Amazon.
Abituati a ragionare in termini di geopolitica, non ci siamo resi conto che il mondo non è conteso tra la Cina, la Russia e l’America (l’Europa è in modalità vacanza dal 1945) ma tra Amazon E-Bay, Paypal, Google, Facebook e recentemente Instagram.
Ne “I cieli e i gironi del lusso” due sociologi e un’antropologa conducono un’articolata indagine, all’incrocio tra inchiesta sul campo e saggio specialistico, al fine di fare luce sul “dietro le quinte” del settore della moda, attraverso scandaglio e critica dei processi produttivi e delle condizioni lavorative dispiegate in Italia e – di conseguenza al proliferare delle reti globali – su scala internazionale
Il marchio è di un’attrazione fatale, seduce. Il vestito calza bene, come le scarpe, danno conforto alla propria immagine. Sull’etichetta si legge “made in italy”, dicitura rassicurante, garanzia di qualità.
Quello che l’occhio e i sensi non possono scorgere né percepire è il livello profondo, cioè tutta quella lunga e articolata filiera che soggiace alla merce prima che essa diventi tale.
Ne I cieli e i gironi del lusso – volume a cura di Davide Bubbico, Veronica Redini e Devi Sacchetto – due sociologi e un’antropologa conducono un’articolata indagine all’incrocio tra inchiesta e saggio al fine di fare luce sul “dietro le quinte” del settore della moda, attraverso scandaglio e critica dei processi produttivi e delle condizioni lavorative dispiegate in Italia e – di conseguenza al proliferare delle reti globali – su scala internazionale.
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Alberto Bagnai: Cinque anni dopo: Macron e gli squilibri francesi
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Paolo Ciofi: La cultura della Costituzione per ripensare la sinistra
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Recensione a Terrorismo e modernità di Donatella Di Cesare pubblicata nel n.4 di Qui e ora
Rispetto all’ormai sterminata
bibliografia sull’argomento, il libro di Donatella Di Cesare
merita di essere letto, studiato e discusso, soprattutto da
chi nutre
velleità rivoluzionarie. La tesi di fondo è la seguente: il
terrorismo non è un “mostro”, un flagello che si abbatte
dall’esterno sulla nostra società, ma parte integrante della
storia del moderno Stato democratico. Il merito di questo
libro è
mettere allo scoperto il tabù che lo Stato moderno cela dentro
di sé.
«Terrorismo» è un termine di cui lo Stato ha il monopolio, così come ha il monopolio della violenza. Scrive Di Cesare, «Solo lo Stato esercita il potere di qualificare, definire, nominare. Solo lo Stato può dire ad altri “terrorista” E, per converso, nessuno può applicare allo Stato questo nome, a meno di non dichiararne apertamente l’illegittimità e comprometterne la sovranità».
Nell’ottica statuale, il terrorismo verrebbe solo dal basso. Insomma, per lo Stato non ci sono dubbi: il terrorismo è quello di ribelli, anarchici, autonomi, brigatisti, e poi oggi quello di islamisti e jihadisti. D’altra parte, è pur vero che oggi nessun rivoluzionario si definirebbe mai “terrorista”.
Da Rocca, una rivisitazione prospettica dell’“economia keynesiana” alla luce delle dinamiche socio-politiche contemporanee – inclusa la spesso estrema debolezza delle classi lavoratrici – e in relazione con le tattiche economiche del “socialismo scientifico” marx-engelsiano
La situazione economica mondiale
analizzata
in Dietro
le quinte dell’economia internazionale (Rocca
n. 12/2016) sollecita delle riflessioni da cui poter poi
sviluppare delle
proposte alternative che affrontino pienamente i suoi nodi.
Mentre la tendenza alla “stagnazione secolare” non devia affatto – in sintonia con l’imperversare del neoliberismo nelle scelte economiche di quasi tutti i governi del globo – molti aspetti della situazione ricordano il mondo che John M. Keynes si trovava davanti negli scorsi anni ’30: un mondo dominato dal liberismo e pertanto caratterizzato da un ruolo molto limitato della pubblica amministrazione (P.A.), e tanto più proprio nel campo economico, contrassegnato da frequenti e drammatiche crisi cicliche collegate soprattutto a delle fasi di sovrapproduzione, di riadattamento ai continui cambiamenti tecnologici e di debolezza creditizia e monetaria.
Keynes mise in luce come, specialmente nelle fasi di crisi, la P.A. potesse non solo regolare con più duttilità e acume il credito e la moneta, ma anche utilizzare la spesa per investimenti e servizi pubblici e la redistribuzione dei redditi dalle classi privilegiate a quelle economicamente in difficoltà come stimoli “anticiclici” che risollevassero l’andamento economico e la produzione, accrescendo l’indebolita domanda complessiva di beni e servizi.
Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, il Saggiatore, 2017, pp. 521, € 29,00
“Quando trionferemo su scala mondiale utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine” scriveva Lenin a quattro anni di distanza dalla presa del Palazzo d’Inverno. L’immagine evocava lo stravolgimento economico atteso dall’emergere di una società comunista in cui i beni principali sarebbero diventati liberi e lo stesso denaro avrebbe perso le sue funzioni di misura dei valori, di mezzo di circolazione e di tesaurizzazione. Tuttavia, aggiungeva Lenin, “quel periodo è di là da venire.” Gli scritti curati da Vladimiro Giacché in Economia della rivoluzione si collocano all’interno di questa forbice storica: in queste pagine infatti il profilo del rivoluzionario russo è quello del padre costituente e soprattutto dello statista costretto a calare la teoria marxista in un contesto emergenziale di guerra e sottosviluppo.
Vladimiro Giacché limita il suo lavoro di selezione agli scritti economici posteriori alla Rivoluzione d’Ottobre suddividendoli in tre periodi: quello riguardante i primi sei mesi di potere sovietico, il comunismo di guerra e la Nuova politica economica (Nep). Il pensiero di Lenin nel corso di queste tre fasi subisce evoluzioni, sia a causa delle emergenze del momento che per gli esiti delle sperimentazioni cui i singoli provvedimenti economici venivano sottoposti.
Quando Aleppo fu presa dopo mesi di assedio, in una battaglia infernale tra forze governative ed alleati e ribelli mescolati agli islamisti di Al Qaeda, i media di tutto il mondo si concentrarono sull’orrore che la città aveva vissuto. Una vera e propria carneficina, in cui ai numerosi morti si univa la distruzione di una città, ormai completamente perduta, e dove la vita sembrava essersi fermata con la guerra e destinata a non ritornare più. Aleppo fu uno degli strumenti con cui la stampa decise di attaccare Assad e l’alleato russo per la guerra in Siria. Marce, appelli, “pray for Aleppo” e dichiarazioni pubbliche si mescolavano in un complesso sistema di denuncia di una carneficina intollerabile, come se la guerra, purtroppo avesse mai ammesso sconti. In sei anni di guerra in Siria e in Iraq gli orrori sono stati indicibili e il sangue, da una parte e dall’altra, è stato un fiume: eppure, per l’Occidente, solo Aleppo meritava di essere segnalata, perché in quel caso era Assad a compiere il massacro.
Si dirà che è stato giusto così, che la tragedia di Aleppo andava denunciata. Ed è stato sacrosanto, perché di fronte a migliaia di morti, profughi, violenze e distruzione, il mondo non poteva rimanere a guardare. E ben vengano denunce e richiami internazionali, se servono effettivamente a dare un barlume di speranze di fronte all’oscurità di una tragedia in corso.
Marco, compagno e amico che stimiamo tanto, non ce ne vorrà se "rubiamo" dalla sua pagina facebook questa sua amara riflessione.
Contiene una dichiarazione che sa di resa che deve far riflettere e che pur comprendendo non condividiamo. Che la sinistra politicamente corretta, compresa quella radicale, sia sia prigioniera di una visione globalista e cosmo-liberale, è fatto evidente. Ma che la situazione si oramai pregiudicata, al punto da ritenere che ogni discorso razionale sull'immigrazione diventi una pezza d'appoggio alle forze razziste e xenofobe, questo, almeno noi, non lo crediamo. E non abbiamo nessuna intenzione di farci spaventare dagli anatemi di una sinistra che ha divorziato dal suo stesso popolo
«Devo confessarvi una cosa.
Chi mi conosce un po', sa che ho sempre detestato la retorica multiculturalista della sinistra bene e che ho sempre aborrito (e criticato) quella sulla necessità economica dell'immigrazione. Questo non da ieri, ma da una quindicina d'anni almeno, quando molti futuri cripto-nazionalitari si facevano i dreadlocks e si ingozzavano di piadine al ragù al locale ristorante etiope.
Avevo persino discusso, con un collega, la possibilità di dedicare uno scritto all'impatto dei flussi migratori sulle condizioni di lavoro e di vita delle fasce più svantaggiate della classe lavoratrice italiana.
Domenica 30 luglio si vota per l’Assemblea Costituente mentre aumenta la violenza paramilitare dell’opposizione che lancia l’offensiva contro il governo chavista e annuncia che non riconoscerà l'esito delle elezioni (appoggiata da Usa e Colombia). Una conversazione con l’attivista venezuelano Jose Miguel Gomez per comprendere cosa accade in questo momento decisivo per il futuro del paese latinoamericano
Come ha segnalato la scorsa settimana Marco
Teruggi da Caracas
meno di due settimane fa Trump ha minacciato
sanzioni contro il Venezuela se il governo procede con il
processo Costituente, mentre le
opposizioni di destra hanno annunciato un governo parallelo,
la volontà di impedire le elezioni della Costituente e un
aumento della
mobilitazione che in questi giorni è stata un flop,
principalmente basata sull’azione paramilitare minoritaria.
Due settimane fa si sono
tenute le prove di forza dei due schieramenti: le
elezioni-farsa di un referendum dell’opposizione (che non ha
dato prova pubblica alcuna dei
numeri di votanti annunciati e ripetuti dai media
internazionali) e contemporaneamente le elezioni di prova
della Costituente, completamente
invisiblizzate dalla stampa internazionale in cui hanno
votato milioni di elettori.
Incontriamo a Buenos Aires Jose Miguel Gomez, co-fondatore della Comuna Pio Tamayo e della fabbrica autogestita di proprietà comune Proletarios Unios di Barquisimeto, a pochi giorni dalle elezioni dell’assemblea costituente. Lo abbiamo conosciuto due anni fa in Venezuela durante l’incontro internazionale Economia dei Lavoratori, uno spazio di riflessione, dibattito ed organizzazione tra ricercatori e studenti, lavoratori e lavoratrici dell’autogestione, delle fabbriche recuperate, delle cooperative, dei sindacati conflittuali impegnati nelle lotte per una economia dei lavoratori.
Sono state le politiche
della
cosiddetta austerità la causa della Grande Recessione?. Se non
ci fosse stata nessuna austerità non ne sarebbe conseguita
alcuna
depressione o stagnazione per quel che riguarda le principali
economie capitaliste? Se è così, ciò significa che le
politiche dei
governi "austeri" sono state solo follia, del tutto basata
sull'ideologia e sul cattive scelte economiche?Per i
keynesiani, la risposta a tutte queste
domande è "sì". E sono i keynesiani quelli che dominano il
pensiero della sinistra e del movimento operaio come
alternativa alle
politiche pro-capitaliste. Se i keynesiani hanno ragione,
allora la Grande Recessione e la conseguente Lunga Depressione
avrebbero potuto essere
evitate con un sufficiente "stimolo fiscale" all'economia
capitalista per mezzo di una maggiore spesa pubblica in
direzione di un deficit di bilancio
(vale a dire, facendo a meno di equilibrare la spesa
governativa e non preoccupandosi della crescita dei livelli
del debito).
È certamente questa la conclusione di un altro articolo del centro-sinistra britannico, The Guardian. L'autore, Phil McDuff, sostiene che mantenere bassi i salari e tagliare la spesa pubblica, com'è stato fatto dai governi degli Stati Uniti e del Regno Unito, fra gli altri, è stata un'idea di "economia zombie" che è stata «continuamente screditata ma che continua a farsi strada camminando con andatura ondeggiante e barcollante nel nostro discorso pubblico.»
In soccorso delle dichiarazioni di Renzi sul Fiscal Compact è arrivato il giudice costituzionale Giuliano Amato, il quale non si è limitato a criticare dal punto di vista economico quell’accordo europeo votato dal parlamento italiano nel 2012. Amato si è spinto infatti sino ad ipotizzare l’incostituzionalità della parte del Fiscal Compact accolta nella Costituzione, in quanto sancire il principio del pareggio di bilancio sarebbe in contrasto con quanto proclamato dai primi articoli della Carta Costituzionale.
In realtà l’incostituzionalità dell’inserimento del pareggio di bilancio nella Carta fondamentale è riscontrabile persino oltre questa considerazione di Amato, in quanto rappresenta un nonsenso giuridico per una Costituzione “democratica” la pretesa di dettare ai governi una specifica linea di politica economica e soltanto quella. Sarebbe altrettanto un assurdo se fosse stato costituzionalmente proclamato il principio contrario, cioè il disavanzo di bilancio. Al di là delle questioni costituzionali, per quello che contano, appare quantomeno strano che un ceto politico abbia accettato di limitare preventivamente la sua capacità di spesa, quindi il suo potere reale.
Anche dal punto di vista strettamente economico i nonsensi del Fiscal Compact si sprecano. Nel 2012 la spesa pubblica già rappresentava oltre il 50% del reddito nazionale. Di fronte a questa constatazione la risposta mainstream è quella di privatizzare.
Si scrive siccità, si legge profitto: la battaglia suicida di Roma tra piddini di rito palazzinaro e cinquestelle sotto assedio con i primi che tagliano gli emungimenti da Bracciano (del tutto marginali peraltro) e gli altri che prefigurano il razionamento dell’acqua ai rubinetti (attuata peraltro già da giugno in 20 comuni suburbani, senza che la cosa abbia suscitato il minimo allarme), è solo in parte dovuto all’assenza di precipitazioni e al caldo senza tregua: costituisce invece un caso particolare di due aporie del mondo neoliberista ovvero quella che riguarda il non senso di consegnare ai privati i servizi universali e quella di livello più generale che vede lo scontro tra consumo necessario all’accumulazione potenzialmente infinita del capitale e risorse planetarie limitate.
Quest’ultima è probabilmente la causa generale dell’estremizzazione del clima che provoca alluvioni e siccità, il quadro nel quale si colloca la situazione di Roma in questa lunga estate calda e in quelle che verranno sempre più spesso nel quadro della desertificazione dell’Italia centrale, ma la causa contingente consiste nel fatto che quasi la metà dell’acqua che dovrebbe giungere nella capitale (dal 41 al 44 per cento) si perde per strada a causa del pietoso stato della rete idrica: se tutto funzionasse come si deve anche le situazioni più critiche potrebbero essere superate molto più facilmente e senza alcun bisogno di razionamenti nè a Roma, né in provincia.
Ad aprile, quando Macron fu trionfalmente eletto con il 62% dei voti, feci una scommessa: che la popolarità del nuovo e brillante capo di stato della Francia sarebbe durata anche meno di quella di Hollande, per non dire di Sarkozy. Mi pare di aver vinto la scommessa: i sondaggi, a solo un mese dalle politiche che gli hanno regalato una maggioranza inaudita, la sua popolarità è calata di colpo di 10 punti. Peggio di lui solo Chirac nel 1995, ma il povero Chirac doveva reggere il confronto con un grande Presidente come Mitterand, mentre Macron deve confrontarsi solo con quell’ectoplasma di Hollande.
Eppure credo che i francesi non sappiano apprezzare le qualità di questo nuovo presidente: ad esempio sceglie bene le scarpe, osservatele bene.
Il quadro europeo attuale è questo: Inghilterra premier la May che non è sopportata neppure dal suo partito, Francia Macron di cui s’è detto, Spagna Rajoy che regge solo perché gli spagnoli si sono stufati di votare a ripetizione, Italia sede vacante, e, in mezzo a tutti questi, la Merkel che, pur essendo una discreta massaia che eccelle nel bucato, sembra Bismarck. Peraltro va detto che dopo di lei sarà il diluvio perché si scorge solo una folla di mediocri ciabattini.
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Robert Kurz è
stato un
filosofo ed editore della rivista di critica marxista “Exit”,
scomparso nel 2012, in
questo testo,
tradotto in
italiano la piccola casa editrice radicale Bepress
raccoglie alcuni saggi
dell’autore che si collocano nell’ultimo biennio di lavoro.
Cioè diversi anni dopo la spaccatura con il resto del “Gruppo
Krisis”, ed in
particolare con Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, che abbiamo
già letto in “Terremoto
nel mercato
mondiale”.
Abbiamo letto la critica della propensione alla liquidità ed il rapporto con il tempo nella bella ricostruzione della finanza e delle sue aporie compiuta da Amato e Fantacci in “Fine della finanza” (che sono autori di scuola keynesiana e non marxisti). La questione si può riassumere nella messa a valore e scambio del tempo, e nello sforzo costante di neutralizzare l’incertezza, contro ogni evidenza e contro ogni ragionevolezza. Persino un economista neoclassico, già Governatore della Banca d’Inghilterra negli anni della crisi, Mervyn King, ammette in “La fine dell’alchimia”, quando cade dalla carica, che così non è possibile andare avanti; che quindi i continui rinvii dovranno essere sostituiti da qualche forma di razionalizzazione che sottragga al denaro parte della sua funzione di riserva di valore.
Luglio 2001, Genova, grandi manifestazioni di
massa e riots contro un G8 che pretende di rappresentare una
sorta di governo mondiale della
globalizzazione. La prima manifestazione è quella dei
migranti, aperta da uno striscione che reclama la libertà di
movimento, una
libertà senza confini. Un ragazzo viene ucciso. E non può
essere dimenticato. Migliaia di persone non accettano il
simulacro di una
democrazia globalizzata.
Luglio 2017, Amburgo, grandi manifestazioni di massa e riots contro un G20 che registra l’impossibilità di un governo politico della globalizzazione. Uno striscione ricorda le migliaia di migranti morti in mare (si parla di 30 mila negli ultimi quindici anni), mentre un altro invoca la fine della guerra contro i migranti. Molti sono gli arresti immotivati. Troppi attivisti e troppe attiviste sono ancora in carcere. E anche questo non può essere dimenticato. Al vertice sono presenti capi di governi dichiaratamente autoritari e nessuno se ne stupisce. L’illusione democratica si è dissolta, le decisioni vengono prese lontano dagli schermi senza provocare scandalo. La globalizzazione del capitale ha schiantato ogni possibile mediazione politica mondiale.
(...guest post di Charlie Brown...)
Non vi è nulla di particolarmente francese nella STX , una multinazionale delle costruzioni navali di matrice norvegese. Ciò nonostante il Re Sole repubblicano ne ha nazionalizzato l'unità francese adducendo a motivazione interessi strategici nazionali.
In Italia, due banche fondamentali per la salute della seconda area industriale del Paese sono state cedute nummo uno ad una banca privata più grande, la quale ha pure preteso ed ottenuto una cospicua dote pubblica . Una colossale distorsione della concorrenza avvenuta sul filo di lana e dopo un lunghissimo, dannosissimo stallo tra le autorità regolamentari de Leuropa . Il tutto per evitare in Italia il tabù della nazionalizzazione, che invece sarebbe stata la soluzione più logica e meno distorsiva della concorrenza (né si dica che nazionalizzare sarebbe stato come stappare il vaso di Pandora: governo ed analisti dicono in coro che l'operazione veneta è stato "l’happy end per le banche italiane").
Dedico questa recensione ad Abdul Qsder Abu al-Fahem, primo prigioniero palestinese morto dopo essere stato nutrito con la forza nel carcere di Ashkelon, era il 1970.
Il libro è dedicato a Stefano Chiarini, Vittorio Arrigoni e Maurizio Musolino, tre persone che dedicarono la loro vita alla causa palestinese.
C’è chi scrive per convincere, per indurre altri a fare determinate scelte, c’è chi scrive affinché i lettori abbiano gli elementi per conoscere, riflettere, scegliere.
Con “Cinquant’anni dopo. 1967-2017. I territori palestinesi occupati e il fallimento della soluzione dei due Stati”, Chiara Cruciati e Michele Giorgio, giornalisti de Il Manifesto, dimostrano di appartenere alla seconda categoria di scrittori. Le loro biografie lo confermano chiaramente.
L’occasione sono i 50 anni dalla guerra dei “Sei giorni” del 1967, quindi dall’inizio dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, ovvero di quel territorio in cui i palestinesi avrebbero dovuto programmare il loro Stato, ma l’ombra si estende fino a 100 anni prima, con la dichiarazione di Balfour.
Nessun fantasma sembra aggirarsi per l'Europa. In compenso, sempre più forza-lavoro vi gira in bici, ma guai a dirlo in termini chiari; meglio metterla così: amanti delle passeggiate in bici, che tra una pedalata e l’altra consegnano una merce a qualche cliente.
Così i lavoratori di Foodora, app tedesca nata nel 2014, tramite la quale è possibile ordinare da alcuni ristoranti pasti a domicilio. A fare le consegne sono giovani in bicicletta, pagati 2,70€ a consegna. Non lavoratori, non fattorini, piuttosto, secondo la definizione aziendale, “un team giovane di studenti che lavora nel tempo libero, facendo sport”.Avrebbero potuto aggiungere che anche loro, i manager, cercano profitti solo per ammazzare il tempo. Che birbanti!
Scrive Marx ne Il Capitale che il «lavoro delle donne e dei fanciulli è stata la prima parola dell’uso capitalistico delle macchine» ben possono oggi possono essere utili anche degli studenti in bicicletta.
App: è il nome dell’interfaccia utente, per l’appunto, di macchine. “Applicazioni” per esteso, front-end di servizi, rappresentano le variante cooperativa (alcuni direbbero: “in condivisione”) dei software: permettono la connessione in tempo reale di individui di ogni parte del pianeta; agili ed essenziali, sono divenute in breve tempo parte integrante dei processi di distribuzione e vendita di merci materiali o immateriali.
Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00
“I passi falsi che compie un reale
movimento
rivoluzionario sono sul piano storico
incommensurabilmente
più fecondi e più
preziosi
dell’infallibilità del miglior
comitato centrale”
(Rosa Luxemburg)
Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il 1918 appare ancora di sorprendente attualità. Non solo per i commenti “a caldo” che dalle sue pagine è possibile raccogliere ma, e soprattutto, per comprendere come tale esperienza rivoluzionaria sia stata liquidata tanto da chi, ieri ed oggi, l’ha voluta osteggiare quanto da coloro che l’hanno voluta e continuano ad esaltare.
Tanto da far sì che a cent’anni di distanza siano realmente pochi gli scritti e le ricostruzioni critiche, ovvero tese a ricostruirne fasi, errori, vittorie, possibili esperienze sia da rivalutare che da abbandonare o da rifiutare decisamente.
Sanno che
cosa
stanno facendo? Quando il Congresso statunitense adotta
sanzioni draconiane mirate principalmente a indebolire il
presidente Trump e a escludere
qualsiasi mossa che migliori le relazioni con la Russia, si
rendono conto che le misure corrispondono a una dichiarazione
di guerra economica contro i
loro cari “amici” europei?
Che lo sappiano o no, ovviamente se ne fregano. I politici statunitensi considerano il resto del mondo come l’entroterra degli Stati Uniti, da sfruttare, prevaricare e ignorare con impunità.
La proposta di legge H.R. 3364 “Contrastare gli avversari degli Stati Uniti mediante sanzioni” è stata adottata il 25 luglio da tutti i membri della Camera dei Rappresentanti, salvo tre. Una versione precedente è stata adottata da tutti i Senatori, salvo due. L’approvazione finale con proporzioni a prova di veto è una certezza.
Questo sbrocco del Congresso scalcia in tutte le direzioni. Le principali vittime saranno probabilmente i cari, amati alleati europei degli Stati Uniti, in particolare la Germania e la Francia.
Troppo tardi. La resistenza tedesca e francese contro le nuove sanzioni alla Russia decretate da Washington che colpiscono al cuore l’economia europea potrà dare ben pochi risultati dopo anni e anni di resa, anzi di attiva complicità alle violazioni americane del diritto internazionale: Jugoslavia, Afganistan, Irak, Yemen, Siria, Ucraina, Libia tanto per citare solo i casi più clamorosi. Questo atteggiamento favorito dalle vacue e irresponsabili oligarchie continentali che si sono fatte Nato, ha creato i presupposti per l’arbitrio a tutto campo di Washington che oggi colpisce in prima istanza chi lo ha permesso e favorito.
Non c’è alcun dubbio che le nuove sanzioni anti Russia votate quasi all’unanimità dalla camera dei rappresentanti Usa, costituisce un salto di qualità sullo scenario globale, non sono più un delirante e immorale tentativo di far pagare a Mosca la tracotanza americana e la resistenza russa all’accerchiamento, non costituiscono più una perdita secca per la bilancia commerciale occidentale, ma rappresentano un vero e proprio attentato al futuro dell’ economia europea e al suo futuro bloccando di fatto la sua espansione sui mercati asiatici e tentando di sostituire il gas russo con quello di scisto americano, molto più costoso in termini di denaro (67% in più perciò preparatevi alle nuove bollette) e di subalternità:
31 luglio 1992. Venticinque anni di sconfitte
Sono passati 25 anni dall'abolizione della scala mobile, quel meccanismo di indicizzazione che permetteva l'adeguamento automatico dei salari all'inflazione. Fu cancellata definitivamente dal protocollo del 31 luglio 1992, firmato a Palazzo Chigi dal governo Amato, i tre sindacati confederali e la Confindustria. Fu il primo di una lunga serie di accordi di concertazione, che nel corso degli anni 90 aprirono la strada a un peggioramento complessivo delle condizioni salariali e contrattuali dei lavoratori e delle lavoratrici.
Dopo 25 anni il bilancio è semplicemente disastroso. Anche se, ironia della sorte, il cerchio si chiude con la reintroduzione di un sistema di calcolo dei salari molto simile a quel meccanismo, la cui abolizione diede inizio a questa lunga serie di sconfitte. Infatti, in un contesto per certi versi opposto a quello di allora, con un’inflazione ormai prossima allo zero, il contratto nazionale dei metalmeccanici ha reintrodotto in via sperimentale una sorta di scala mobile alla rovescia, con aumenti solamente e strettamente legati all’IPCA (inflazione reale depurato dai prezzi dei carburanti), tanto da determinare un aumento in busta paga di appena 1,7 euro lordi al mese.
Un sistema perverso, viste le condizioni, ben lontano nei fatti da quello che negli anni 80 i padroni e il governo fecero di tutto per abolire e i sindacati troppo poco per difendere. Un sistema funzionale, come l’accordo del ’92, a tener fermi i salari nominali e fare quindi diminuire quelli reali.
L’invenzione della storia regionale in una Italia che smarrisce il filo della democrazia
La mozione del consiglio regionale della Puglia per l’istituzione di una "Giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia" è soltanto l’ultima tappa della complessiva riscrittura delle memorie pubbliche a cui stiamo assistendo in tutta Europa dal 1991. Pierre Nora, in Come si manipola la memoria (2016) nota che in Francia, nel secolo dal 1880 al 1980 erano state istituite appena sei commemorazioni; dal 1990 al 2005 altre sei, con una accelerazione impressionante degli interventi politici e legislativi sul passato nel sec. XXI. Due sono i pilastri di questa revisione, il riconoscimento delle vittime, emerso attorno alla centralità dell’Olocausto, e la condanna dei totalitarismi. Insieme alla scoperta delle rimozioni e degli oblii precedenti, e dei limiti delle narrazioni dei vincitori, emergono manipolazioni di breve respiro mentre il passato diventa oggetto dei media e non più dominio degli storici di professione. Alla storia si chiede giustizia invece che spiegazione, il passato si trasforma in una prateria di ingiustizie, con un effetto di sradicamento del rapporto tra nuove memorie ed esperienze nazionali.
Intervista all’economista Sergio Cesaratto sui macrotemi dell’economia europea e su come e perché uscire dalla morsa del capitalismo europeo
“Un’altra
Europa non è possibile in quanto le entità politiche e
monetarie sovranazionali hanno
un’insopprimibile impronta liberista e sono funzionali a
smantellare gli spazi nazionali in cui si esprime il
conflitto sociale che, se
regolato, è il sale della democrazia” (S.Cesaratto).
Per capire la crisi più lunga che l’Europa sta attraversando, le cause del crollo delle economie nazionali e il perché dovremmo pensare, sapendo che non sarà un percorso facile, a liberarci dalla gabbia dell’Europa e dell’euro, proviamo ad andare a lezione di economia. L’intervista che segue a Sergio Cesaratto professore ordinario di Economia internazionale, Politica monetaria europea e Post-Keynesian Economics presso l’Università di Siena, autore del saggio “Sei lezioni di economia”, offre un panoramica sui macrotemi dell’economia e sulle dinamiche originarie che hanno portato il mondo del lavoro e l’economia europea in un loop da cui è necessario uscire al più presto.
* * * *
Professor Cesaratto, lei è un economista eterodosso rispetto agli economisti marxisti che ritengono ancora oggi valida la legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. Ci può spiegare in breve in cosa consiste il suo disaccordo sulla teoria del valore?
Se ne discute da 150 anni, difficile rispondere in poche righe.
Per
aver condiviso questa vignetta di Biani sono stato sospeso da
Facebook per 24 ore. La vignetta è una parodia di un manifesto
fascista e razzista del
'44. Non è difficilissima da capire.
Niente di grave, s'intende, il mio ban: e sarà capitato a tutti o quasi quelli che qui mi leggono. Un po' come alle medie, quando la prof ti mandava in corridoio o dietro la lavagna una ventina di minuti per punizione.
Ci trattano come dei ragazzini, i padroni della rete. Sanno che loro sono onnipotenti, noi nelle loro mani. La nostra possibilità di parlare - di diffondere le nostre opinioni - è in mano a un ignoto poliziotto che è allo stesso tempo legislatore e giudice.
Un poliziotto-giudice-legislatore che esercita il suo potere in assoluto e che non sempre è intelligentissimo: quando ho chiamato Facebook, mi hanno risposto che probabilmente il "revisore" (così vengono chiamati, quelli che impongono i ban) che mi ha messo in punizione non parlava italiano e non ha capito.
Questo almeno è quanto mi ha detto l'ufficio stampa di Facebook, a cui come giornalista - quindi "privilegiato" - mi sono rivolto.
Così come mi sono rivolto a Luca Colombo, country manager di Facebook in Italia, insomma il numero uno dell'azienda in questo Paese. Che sostiene di non sapere nulla di ban e sospensioni, lui non se ne occupa, «non so nemmeno se a sospendere sia un algoritmo o una persona».
Il campione del liberalismo europeista nazionalizza un’impresa per difendere gli interessi francesi. Jacques Sapir mette in luce sul suo blog Russeurope come questa smaccata contraddizione mostri da una parte l’assenza di una coerente linea politica nel governo di Philippe e Macron, dall’altra che la nazionalizzazione di STX è probabilmente una mossa puramente propagandistica, priva di sostanza
Il governo ha deciso di “nazionalizzare” la società cantieristica STX (1). Questo potrebbe sorprendere, da parte di un governo che, finora, si era fatto notare soprattutto per le sue posizioni ispirate al più puro liberalismo economico. L’obiettivo dichiarato è quello di “difendere gli interessi strategici della Francia.” Il governo fino a oggi era proprietario del 33,33% del capitale, insieme a un diritto di prelazione in scadenza sabato 29 luglio. È proprio questo diritto che il governo ha deciso di esercitare, dopo il fallimento delle trattative con la società italiana, Fincantieri, che doveva acquisire una quota del capitale (2).
Il caso STX e il conflitto franco-italiano
L’esecutivo ha cercato di negoziare un modello “50-50” che bilanciasse gli interessi francesi (lo Stato, l’ex Gruppo navale DCNS, BPI-Francia e i dipendenti) e quelli italiani nel finanziamento dei Chantiers de l’Atlantique, mentre l’accordo originale assegnava al campo italiano il 55% del capitale di STX France.
Mentre scrivo questo pezzo, gli abitanti di Roma e dei comuni del lago di Bracciano non sanno ancora cosa succederà nei prossimi giorni: si inseguono tavoli e cabine di regia fra la Regione Lazio, che con decreto ha deciso di bloccare i prelievi di acqua dal lago di Bracciano per scongiurare un disastro ambientale, Acea, che ha conseguentemente deciso il razionamento dell’acqua per un milione e mezzo di abitanti di Roma, il Comune di Roma, che assiste imbarazzato, e il Governo, che potrebbe dichiarare lo stato di calamità.
In nessun caso, ai cittadini e alle comunità locali viene data voce. Al contrario, sembrano essere utilizzati come scudi umani dentro un conflitto di interessi particolaristici che va dagli interessi finanziari di Acea, che non possono tener conto dei vincoli ambientali, al conflitto tutto “politicista” fra Regione Pd e la grillina Roma Capitale.
Che i cittadini siano ostaggi di altri interessi è reso del tutto evidente dal comportamento di Acea, perché delle due l’una: come fa Acea a dichiarare di prelevare dal lago di Bracciano una quantità irrisoria di acqua e nello stesso tempo a minacciare, se quel prelievo viene bloccato, il razionamento per un milione e mezzo di abitanti? Le due cose non stanno insieme, e tanto meno la strumentalizzazione sottesa alla privazione di un diritto fondamentale come l’acqua.
È senza dubbio «merito» del governo di Matteo Renzi e in special modo della legge Madia, la quale, tra tante disposizioni contro la tutela ambientale, ha anche previsto la soppressione del Corpo forestale dello Stato, se gli incendi boschivi di questa estate hanno superato del 500 per cento gli incendi dell’estate scorsa. Detta legge, infatti, affida lo spegnimento degli incendi soltanto ai Vigili del fuoco, e non ai Carabinieri, anche se si tratta di Carabinieri ex forestali, dotati di grande professionalità in materia, e passati in quest’Arma. È quanto si ricava dall’ordine emesso il 7 luglio dal Generale Comandante Antonio Ricciardi in ordine alle «procedure operative per gli interventi in caso di incendi boschivi». Peraltro, gli ex forestali passati ai Carabinieri sono 6.400, mentre soltanto 360 forestali, sono passati nei Vigili del fuoco abilitati allo spegnimento degli incendi (vedi l’articolo di Giampiero Calapà, pubblicato da il Fatto Quotidiano del 15 luglio 2017).
Si tratta, oramai di una serie infinita di danni che i nostri governanti arrecano al territorio e al Popolo italiano, con lo scopo evidente di favorire innominabili interessi economici particolari. È chiaro che, a questo punto, si pone indilazionabile il problema della responsabilità, non solo politica, ma anche giuridica del Legislatore.
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Sapir propone un’interessante rassegna dei gravi problemi teorici che smentiscono la pretesa dell’economia neoclassica dominante di essere scienza e la squalificano in una costruzione ideologica di un mondo irreale di eleganze matematiche, nel quale gli individui possono evitare legami istituzionali semplicemente abbandonandosi all’avidità, che genera a loro insaputa un sistema neutro, privo di solidarietà e di conflitto
La teoria neoclassica, ossia la teoria
dell’equilibrio generale, continua a permeare numerosi
commenti o riflessioni.
Questo è particolarmente chiaro per quanto concerne il
«mercato» del lavoro, e la volontà dell’attuale governo di far
passare, «di forza» se fosse necessario, tutta una serie di
misure che riporterebbero i lavoratori a una situazione di
isolamento, che
è proprio quella descritta dalla teoria neoclassica. Infatti
quest’ultima ignora le istituzioni oppure cerca di ridurle a
semplici
contratti, benché esse siano ben altra cosa.
Bisogna dunque tornare su questo paradigma dell’equilibrio, e più fondamentalmente su ciò che si chiama la Teoria dell’Equilibrio Generale o TEG. È chiaro che non si tratta di una congettura facilmente confutabile o, in tutti casi, che essa non è percepita come tale nella professione. Eppure il suo irrealismo ontologico pone un vero problema. Costruita attorno alla descrizione di un mondo immaginario, essa serve nondimeno ad alcuni di guida per comprendere la realtà. Facendo questo, essa si svela come un’ideologia (una «rappresentazione del mondo»), e una ideologia al servizio di interessi particolari, e non come una teoria scientifica.
Lo sciopero dei professori universitari
programmato per il prossimo settembre – con la sospensione
degli esami di profitto nella sessione
autunnale – sta suscitando numerose polemiche perché
interpretato come una rivendicazione corporativa di lavoratori
privilegiati, con
stipendi elevati. E’ opportuno ricordare che la decisione di
scioperare deriva da anni di vertenze con il Ministero per
avere riconosciuti gli
scatti stipendiali fermi dal 2011: trattative che non hanno
portato ad alcun esito. Ed è opportuno anche ricordare che, a
partire dal 2015,
alle altre categorie del comparto pubblico è stato accordato
il riconoscimento a fini giuridici degli anni di blocco: ci si
riferisce ai
docenti delle scuole, ai medici, al personale degli enti di
ricerca. E’ necessario poi precisare che un professore
universitario con venti anni
di anzianità guadagna circa 2000 euro netti mensili e che un
suo collega di altri Paesi europei guadagna almeno cinque
volte tanto. A
ciò va aggiunto – e non è cosa di poco conto – che i fondi per
la ricerca, in molte sedi, sono stati pressoché
azzerati, a seguito dei tagli al sistema formativo, praticati
con la massima intensità nelle sedi universitarie meridionali,
che prosegue
ininterrottamente da quasi dieci anni. Il Fondo di
finanziamento ordinario – ovvero il finanziamento statale che
costituisce la principale fonte
di entrata delle Università – si è ridotto di circa 10
miliardi dal 2010 al 2016.
Insomma, è vero o no che il capitale non riesce più a valorizzarsi attraverso la vendita delle merci? E che questo è il primum movens della crisi che colpisce la maggioranza di noi tutti? E' vero o no, in altri termini, che la cosiddetta "crisi finanziaria" è in realtà l'effetto di una crisi di sovrapproduzione? Sì, è vero: e non tanto e non solo perchè "ce lo insegna Marx" ma perchè chiunque si sottoponga allo sforzo di un minimo approfondimento della letteratura economica internazionale (un fiume di parole) può constatare che tale consapevolezza giace nell'inconscio del capitale allo stesso modo di un ricordo o di una scena primaria vittima della rimozione nell'inconscio freudiano.
Dunque, il capitale "sa" - ma nella maniera vile e ipocrita che gli è solita - che l'economia da esso generata poggia sulla sabbia. Spesso, nei periodi di crisi, tale consapevolezza è affiorata: la soluzione roosveltiana del '29 e il pensiero economico di Keynes ne costituiscono, credo, due delle maggiori testimonianze nel ventesimo secolo. Ma il capitale è il capitale: non ci si può aspettare che si superi o si neghi da sè, così come non si può chiedere a un nevrotico di prendere coscienza, senza, appunto, l'intervento di un altra "coscienza", dei problemi che lo affliggono. Allora viene la tentazione di prendere per buona la seguente domanda: chi è, o chi può essere, "l'analista" del capitale? Chi può "aiutarlo"? Ma è una domanda sbagliata e, dunque, non prevede risposte.
Pubblichiamo un pezzo di Gloria Baldoni apparso su inutile, ringraziando l’autrice e la rivista
Winchester, 18 luglio 1817: probabilmente stroncata da una malattia del sistema endocrino chiamata morbo di Addison (ma alcuni suggeriscono un ben più romanzesco avvelenamento da arsenico), muore Jane Austen. Dietro di sé lascia sei romanzi, tutti pubblicati anonimamente, frammenti e opere giovanili in quantità, nessun marito, uno stuolo di nipoti, un carteggio chilometrico che la prudente sorella Cassandra si preoccupa per buona parte di dare alle fiamme, e un’eredità tutta da costruire.
Stiamo galoppando verso il cuore del Diciannovesimo secolo, tra vent’anni salirà al trono la regina Vittoria, il romanzo sociale è alle porte: niente è più facile che dimenticarsi di Jane Austen e delle sue storielle di matrimoni, ma questo non avviene. Piuttosto il contrario: tutti i più grandi scrittori si misurano con lei. Walter Scott la ammira, mentre le Brönte ne criticano la ristrettezza di sguardo. Mark Twain motteggia che una biblioteca vuota ha almeno il pregio di non contenere nessun romanzo di Jane Austen, mentre Henry James, impegnato in una polemica con Emerson, lo accusa con disprezzo di non interessarsi a lei. Virginia Woolf adora in egual misura la brillantezza del suo ingegno e la perfezione del suo stile, mentre Auden è scandalizzato dalla sua audacia nel maneggiare questioni di denaro («beside her Joyce seems innocent as grass», si lamenta in una poesia).
Morte ai vecchi di Bifo-Geraci è un romanzo sul controllo. Sul controllo sociale, ovviamente, ma prima ancora sul controllo del sensibile. O meglio sul controllo sociale attraverso il controllo del sensibile.
Il romanzo racconta la storia di gruppi di ragazzi che si trovano ad avere sottopelle un chip con il quale si scambiano messaggi. I messaggi controllano i loro comportamenti seguendo le dinamiche di un sistema complesso e gli fanno commettere le azioni più efferate.
Bifo-Geraci hanno elaborato in forma letteraria quella che possiamo chiamare cultura della complessità, in particolare la cultura che si fonda sulla swarm intelligence, l’intelligenza di sciame.
Una buona rappresentazione dell’intelligenza di sciame è quella che vediamo nelle dinamiche dei grandi sciami di uccelli che la sera tracciano nel cielo delle figure apparentemente fluide e sempre diverse. Queste figure sono in realtà generate da delle relazioni differenziali completamente codificate, che possono essere riprodotte in algoritmi e rimesse in scena con simulazioni numeriche. Si tratta quindi di una fluidità apparente, ma in realtà assolutamente controllata.
Il controllo diventa così invisibile e la pelle diviene il suo nuovo territorio.
Per mettere subito le cose in
chiaro, non
prendo nemmeno in considerazione le tesi di chi dice che in
Venezuela, con la formazione di un’Assemblea costituente, sia
in gioco la
sopravvivenza della democrazia (e lo dice chi, da quasi
vent’anni, ha sostenuto che nel paese vigesse una dittatura).
In gioco la democrazia lo
è, ma non per mano dei costituenti.
Si tratta di intendersi, in via preliminare, sul significato del termine “democrazia”. Per i greci, che hanno inventato la parola, era il potere del “demos”: non il popolo generico, bensì il “popolo minuto”, gli strati più deboli economicamente della società. In questo senso, gli Stati Uniti, che permettono la competizione elettorale solo a candidati abbastanza ricchi per presentarsi alle urne, non sono mai stati e non sono una democrazia. Quanto al resto dell’Occidente, il meccanismo elettorale seleziona oligarchie dotate di vita propria, senza possibilità di verifica, fino al voto successivo, dell’effettiva obbedienza degli eletti alla volontà dei votanti. Non mi ci soffermo, sono critiche già note dai tempi di Rousseau. Divenuta consapevole dello stato effettivo delle cose, la popolazione dell’Occidente vota sempre meno. E l’Unione Europea, fondata su centri di potere privi di controllo e su un parlamento inutile, consolida la sfiducia. E’ lo sfascio del modello governativo liberale.
Cultura
imprenditoriale, personalizzazione dei percorsi, enfasi
sull’auto-attivazione nel lavoro sono al centro del disegno di
legge sul reddito di
cittadinanza del M5S e sono parte integrante di un ordine del
discorso che mira a far interiorizzare la normalità della
precarietà
lavorativa. Per questo, secondo gli autori del libro Reddito
di cittadinanza: emancipazione dal lavoro o lavoro coatto?
quel disegno va
conosciuto, discusso e contestato
Il Reddito di cittadinanza è, nelle enunciazioni, una misura volta a dare dignità a milioni di persone, che il M5S ha posto all’ordine del giorno. Ma gli strumenti previsti dal suo disegno di legge sono contestabili: dall’obbligo per i beneficiari di documentare una ricerca attiva di lavoro non inferiore a due ore giornaliere, a quello di accettare qualsiasi lavoro se dopo un anno non hanno trovato un’occupazione.
Dignità lesa e sconquasso del mercato del lavoro. È già successo. In Gran Bretagna i poveri sono costretti al lavoro coatto gratuito, altrimenti perdono il sussidio; in Germania devono accettare, per lavori che vengono loro imposti, salari miserevoli a cui viene aggiunto il sussidio.
Da molti anni è diffusa una poesia (la leggende vuole che sia apparsa per la prima volta come graffito sui muri di Monaco) che recita: “La tua auto è giapponese e il tuo caffé è brasiliano. Il tuo orologio è svizzero e il tuo walkman è coreano. La tua pizza è italiana e la tua camicia è hawaiana. Le tue vacanze sono turche, tunisine o marocchine. Cittadino del Mondo, non rimproverare il tuo vicino di essere straniero.”
In poche righe, la poesia riassume la contraddizione della sinistra di fronte all'immigrazione: dato che c'è la libera circolazione di merci e capitali, ci deve essere anche la libera circolazione degli individui. Questo primo punto è palese. Il secondo punto è nascosto: ovviamente parlare di libera circolazione delle persone è un eufemismo per parlare di libera circolazione della forza-lavoro.
Negli ultimi tempi sono almeno due gli avvenimenti politici di primo livello che hanno messo in crisi la retorica da “Cittadino del mondo”: la Brexit e il ciclo elettorale francese.
In entrambi i casi le forze di sinistra hanno rotto con la tradizionale accettazione del binomio “libera circolazione dei capitali – libera circolazione della forza-lavoro”.
Fate una prova: andate su Google, cercate una qualunque parola, memorizzate i risultati della prima e seconda pagina e copiateli in una cartella. Poi quando vi capita di poter mettere le mani su un altro computer ripetete esattamente l’operazione e vedrete che i risultati sono completamente diversi. Gli algoritmi di ricerca che hanno reso famoso Google e ne ha fatto un golem del web hanno un rovescio della medaglia ovvero si adattano a quello che il sistema pensa che voi stiate cercando non a quello che cercate e dunque mostra cosa diverse a utenti diversi. E’ un sistema che pare facilitare di molto le cose all’inizio, ma che a lungo andare vi crea una bolla di navigazione che può essere quanto mai riduttiva e che in definitiva si rivela l’idea per la diffusione di contentuti publicitari di ogni genere, espliciti o nascosti.
Sono sistemi adottati anche da vari social che alla fine producono ricavi giganteschi da questa trasformazione del web in prateria di vendite e di spot: una cosa a cui siamo abituati, ma che diventa nefasta quando dal piano puramente commerciale si scivola in quello politico come è accaduto nella primavera scorsa, quando Google è scesa in campo a fianco dell’informazione maistream decidendo di utilizzare un nuovo e particolare algoritmo per rendere più difficile agli utenti l’accesso a siti considerati portatori di fake news
Martedì 25 luglio, in un castello alle porte di Parigi, il neo-presidente francese ha ricevuto i due massimi rappresentanti della martoriata Libia: il premier Faiez Al-Serraj, installato a Tripoli, ed il generale Khalifa Haftar, basato in Cirenaica. L’incontro, mirato a tracciare un percorso di riconciliazione nazionale, ha scatenato un’inaspettata indignazione del governo e della stampa italiani, solitamente allergici ai toni “nazionalisti”: la reazione è ancora più sospetta se si considera che l’attacco al “Macron-De Gaulle” è partito dagli stessi ambienti che hanno montato il caso Regeni. Col summit parigino, il presidente francese ha legittimato il generale Haftar, vicino a Mosca ed al Cairo: la nostra Italietta è stata invasa da un’ondata di francofobia su ordine di Londra.
Come l’Italietta francofobica di Francesco Crispi…
Profitti in calo, mercati saturi, domanda asfittica, commercio mondiale stagnante, rendono il mondo cattivo: è questa una verità universalmente accettata da storici e geopolitici, non soltanto di scuola marxista. Se a questo contesto si aggiungono alcune criticità mai sperimentate prima (anni e anni di denaro a costo zero e la più grande bolla finanziaria di tutti i tempi in nuce), si può capire perché l’attuale panorama internazionale sia così deteriorato, teso e torbido: si registrano frizioni non soltanto tra il blocco atlantico e quello euro-asiatico (Siria, Ucraina e Nord Corea), ma addirittura dentro lo stesso schieramento euro-atlantico che, lungi dall’essere monolitico,
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Alessandro Visalli: Riletture sulla globalizzazione: Stiglitz, Rodrik, Sassen, …
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In occasione della
recente
pubblicazione, in lingua inglese (Review of Political
Economy, Vol. 27, n. 2, 2015), di parti dello studio di
Pierangelo Garegnani dal titolo "Il
problema della domanda effettiva nello sviluppo economico
italiano (1962), originariamente commissionato dalla SVIMEZ
a Garegnani, la SVIMEZ, in
collaborazione con il Centro di Ricerche e Documentazione
‘Piero Sraffa’, ha organizzato, il 14 ottobre 2016,
l’incontro sul tema
"Il ruolo della domanda nello sviluppo: il Mezzogiorno
italiano, i Sud del mondo e la crisi dell’Europa."
L’intento è stato quello di realizzare una “rivisitazione” di quel contributo, e tramite esso di sviluppare un suo approfondimento ed un confronto di tesi che sottendono al confronto tra politiche dell’austerità ed economia dello sviluppo.
L’incontro di studio, tenutosi presso la Scuola di Economia e Studi Aziendali dell’Università Roma Tre, è stato aperto dall’Introduzione di Sergio Cesaratto (Università degli Studi di Siena). Hanno fatto seguito gli Interventi di Adriano Giannola (Presidente della SVIMEZ), Carmelo Petraglia (Università della Basilicata), Franklin Serrano (Università Federale di Rio de Janeiro), Antonella Palumbo (Università degli Studi Roma Tre).
Una lettura della psicoanalisi di Freud dal punto di vista della critica della dissociazione-valore
Introduzione
Questo articolo si basa su due motivazioni. La prima è quella di determinare la matrice psicosociale del soggetto borghese sulla base di una lettura della psicoanalisi di Freud dal punto di vista della critica della dissociazione-valore. Lo sfondo di questa rischiosa scommessa è la visione secondo la quale la società capitalista è realmente prodotta dalla dinamica oggettiva della forma della dissociazione-valore, ma da questo non ne consegue alcun determinismo dello sviluppo sociale, dovuto alla relazione dialettica fra valore e dissociazione. Ciò significa soprattutto che il pensare, l'agire ed il sentire delle persone non possono essere derivati direttamente dalla forma della dissociazione-valore - e tuttavia l'organizzazione capitalista viene prodotta da persone che riproducono quotidianamente nel loro pensare, agire e sentire le categorie astratte della dissociazione-valore, senza che siano coscienti di questo. Il che solleva la questione di come le categorie astratte vengono interiorizzate nel sentire, pensare ed agire delle persone, o, detto in altre parole, come il soggetto in generale diventa soggetto.
La società capitalista ha come
uno dei suoi tratti principali l’opacità. Se nei vecchi modi
di produzione precapitalisti l’oppressione e lo sfruttamento
dei
popoli saltava all’occhio e persino acquisiva un’espressione
formale e istituzionale in gerarchie e poteri, nel capitalismo
prevale
l’oscurità e, con quella, lo sconcerto e la confusione. Fu
Marx che con la scoperta del plusvalore ha stracciato il velo
che nascondeva
lo sfruttamento a cui erano sottoposti i lavoratori “liberi”,
emancipati dal giogo medioevale. Ed è stato sempre lui a
denunciare
il feticismo delle merci in una società dove tutto diventa
merce e quindi tutto si presenta fantasmagoricamente davanti
agli occhi della
popolazione.
Quanto detto sopra rientra nella negazione del ruolo della CIA nella vita politica dei paesi latinoamericani, ma non solo di quelli. Il suo permanente attivismo è inevitabile e non può passare inosservato ad un occhio minimamente attento. Parlando della crisi in Venezuela – per fare l’esempio che ora ci preoccupa – e le minacce che incombono su questo paese fratello, non si nomina mai l’“Agenzia”, salvo in poche e isolate eccezioni.
La confusione che la sociedad capitalista genera con la sua opacità e il suo feticismo fa nuove vittime nel campo della “sinistra”.
«Per la sinistra ogni società è costitutivamente divisa al proprio interno, perché ci sono interessi contrapposti e contraddizioni intrinseche. […] Tutte [le strategie della sinistra] si basano sulla convinzione che la società sia in partenza divisa e diseguale e le cause della diseguaglianza siano endogene. […] Per la destra, invece, la nostra società era un tempo armoniosa e concorde, ma oggi non lo è più per colpa di agenti esterni, intrusi, nemici che si sono infilati e confusi in mezzo a noi e ora vanno ri-isolati ed espulsi». Diciamolo subito, questa concezione delle identità politiche, espressa da Wu Ming 1 in un dialogo con Giuliano Santoro ed Enrico Manera a partire dal lavoro di Furio Jesi, è gravemente insufficiente. Non sbagliata, ma integralmente da respingere sul piano della strategia politica, perché strutturalmente minoritaria e, in buona parte, anti-storica. Una visione tipica del contesto da cui il pur eccellente collettivo di scrittori e intellettuali bolognesi proviene, quello della stagione aurea dei centri sociali italiani degli anni ’90 la cui cultura politica ha in seguito profondamente influenzato il movimento no-global di Seattle e Genova, almeno nella sua versione europea (molto meno in quella sudamericana, per altro vincente). Un’immagine dell’articolazione sociale che in Italia e in Europa ha condotto a un sistematico elogio, quando non a un’idolatria, delle identità politiche di parte (siano esse classi, generi etc.), intese come minoranze subalterne in un mondo ostile.
La missione Pinotti-Usa mira a stoppare Haftar e il riscatto libico. ONG: code di paglia lunghe da Timbuctu al canale di Sicilia
Qualcuno irride alla “missione farlocca” di Gentiloni-Pinotti-Mogherini-Stato Profondo Usa in Libia. Di farlocco qui c’è soltanto quel Trump che ogni due per tre deve rinnegare qualcosa o qualcuno in cui crede e sbattere i tacchi davanti ai 14 servizi segreti, al Pentagono e ai predatori multinazionali, per evitare che continuino a scuoiarlo a forza di mostruose balle tipo Russiagate (al “manifesto”, che si beve tutto, non dispiaccia se giuriamo che non è vera neanche una virgola, tantomeno una parola e l’intera faccenda diventa grottesca all’evidenza delle ininterrotte interferenze dei servizi e media Usa in tutte le istituzioni ed elezioni del mondo). Ma il pattugliatore italiano con nave d’appoggio, che costituiscono la Grande Armada spedita dai nostri feldmarescialli a Tripoli, è volta a garantire che il fantasmino Al Serraj, con la sua truppa di scorticatori di neri a Misurata (cari ai Medici Senza Frontiere che li hanno sostenuti durante tutta la mattanza in Libia), possa continuare a fingere, con l’ONU e gli Usa, che a Tripoli vi sia un governo e che quel governo non debba essere sfiorato neanche con un dito dal generale Khalifa Haftar, autentico liberatore della Libia e intralcio alla sua ricolonizzazione e spartizione.
Qual è il vero rischio, o la vera e ultima conseguenza dell’inasprimento delle ostilità fra Washington (e i suoi alleati) e Mosca? Che la Russia, inevitabilmente, scelga l’Oriente come suo luogo naturale di crescita e sviluppo, allontanandosi dalla collaborazione con l’Europa. Se questo è l’obiettivo principale della geopolitica statunitense, cioè fare in modo che Mosca non sia più un Paese europeo o a cavallo di Asia ed Europa, ma che sia isolato dall’Occidente, l’ulteriore conseguenza, tutt’altro che positiva per gli Stati Uniti, è che si rinsaldi l’asse eurasiatico tra Mosca, Pechino e Teheran. Una prospettiva che già da tempo si stava delineando nel contesto mondiale, e che la politica statunitense degli ultimi mesi sta inevitabilmente rendendo una realtà ineluttabile per il destino di queste tre nazioni e dei loro alleati dell’Asia. In pochissimi giorni, il Congresso americano ha varato sanzioni contro Russia, Iran e Corea del Nord e non sono mancate dichiarazioni contro la Cina per non aver risolto il problema di Pyongyang uniti ai rafforzamenti militari nei mari dell’orbita cinese.
Queste azioni hanno confermato l’esistenza di larghi settori della politica americana, il cosiddetto deep-State, che non considera auspicabile una pacificazione fra Washington e questi competitor internazionali, ma che al contrario vuole una recrudescenza del conflitto in vari ambiti, da quello militare a quello commerciale ed energetico.
Fateci caso: dovunque ci sia una democrazia retta da forme di sinistra popolare l’informazione occidentale parla di dittatura o ne insinua il sospetto, ma quando si tratta di dittature di destra o di reperti medioevali evita ogni definizione. C’è ovviamente una scala con punti intermedi che variano a seconda degli interessi e delle intersezioni geopolitiche, ma al momento attuale diciamo che agli estremi di questa unità di misura della disinformazione occidentale ci sono da un lato l’Arabia Saudita punto zero di un servilismo solidificato attorno al silenzio e dall’altro il Venezuela punto di ebollizione della sottomissione all’impero. Tanto in ebollizione che spesso e volentieri in questa acque agitate si opera uno scambio truffaldino tra la violenza della destra e la sopportazione del chavismo.
Siccome non si tratta di idee e nemmeno di opinioni, ma di campagne pagate dagli inserzionisti del caos, non c’è speranza che qualche fatto anche il più solare ed evidente possa indurre a ripensamenti, nemmeno le impiccagioni e le decapitazioni in Arabia Saudita per non parlare delle stragi in Yemen o il fatto che in Venezuela le elezioni per la costituente siano state un grande successo per Maduro e per la democrazia reale nel Paese sudamericano, con più di otto milioni di votanti che hanno sfidato le squadracce fasciste, pardon democratiche, decise a sabotare un evento così disdicevole e totalitario come un’ elezione.
C’è una teoria marxista della
conoscenza? Ci sono brani di Marx che si possono integrare in
una teoria della conoscenza, c’è la concezione materialistica
della storia
(quella espressa ad esempio nell’Ideologia tedesca)
che ha anche aspetti rilevanti per una teoria della
conoscenza, ci sono gli scritti
engelsiani (l’Anti-Duhring e la Dialettica della
Natura) ma una vera e propria questione di teoria della
conoscenza la abbiamo
con la polemica tra il realismo epistemico (conoscitivo) di
Lenin (di ispirazione engelsiana), il marxismo di ispirazione
neokantiana di Plechanov e
l’empiriomonismo di Bogdanov (variante del cosiddetto
empiriocriticismo di Mach e Avenarius). A questa polemica
hanno fatto riferimento tutta
una serie di scritti sia in Urss che in occidente, ma da essa
hanno tratto ispirazione anche pensatori del marxismo più o
meno eretico (si
pensi ad Alfred Sohn Rethel, ad Adam Schaff e di conseguenza
agli studi incentrati sul linguaggio, sulla sua natura sociale
e sulle sue implicazioni
cognitive di Ferruccio Rossi Landi oppure si pensi alla
conoscenza come pratica teorica di Althusser). Nell’elaborare
una teoria marxista della
conoscenza e del lavoro intellettuale bisogna tenere presente
questi dibattiti che ci hanno preceduto.
Fincantieri: arruolati nella guerra alla Francia, o uniti nella lotta internazionalista ai padroni e ai governi di Roma e Parigi? Due note sulla vicenda Fincantieri/Chantiers de l’Atlantique, a partire dai fatti
I fatti
sono noti. Macron ha
deciso di nazionalizzare “a tempo” i Chantiers de l’Atlantique
di Saint-Nazaire: non vuole che Fincantieri, che li ha appena
comprati, abbia il controllo su di essi. Pretende che il
controllo sia a metà: 50-50, invece che 67-33 a favore des
italiens.
Altrimenti, minaccia, non se ne fa nulla.
Immediata la reazione del boss di Fincantieri, Bono: “Siamo italiani ed europei, ma non possiamo accettare di essere trattati da meno dei coreani” (stava dicendo: da meno dei musi gialli, ma si è trattenuto per via dei grossissimi affari in ballo con la Cina). Altrettanto secco il ministro Calenda: “Non accettiamo di ridiscutere sulla base del 50-50”. Intorno, il coro della ‘libera stampa’ a suonare la stessa canzone, stesse note, stesse parole, ritornelli, etc., e gonfiare le vene del nazionalismo italiano, dell’orgoglio nazionale italiano contro lo sciovinismo francese e Macron, fino a ieri il bel salvatore dell’Europa, divenuto ora un secondo orrido Marine Le Pen…
Fin qui, niente di particolare, salvo una rettifica di una certa importanza da fare. Certo: è scontro tra stato-capitale francese/stato-capitale italiano, con la posta primaria delle grandi navi di lusso e, soprattutto, delle maxi-commesse belliche – lo chiarisce bene Bono: “I principali programmi militari sono quelli navali.
Gli ideali europeisti mascherano gli interessi
nazionalistici dei potenti. Il presidente francese Emmanuel
Macron con grande tempestività ha
deciso di nazionalizzare Stx, il maggiore cantiere navale
francese, pur di non farlo cadere in mano italiana; e Macron
in terra libica gioca da solo,
senza l'Europa e contro l'Italia, su petrolio e immigrazione.
La Francia fa come sempre i suoi interessi e, proprio come la
Germania, se ne frega
dell'Europa quando è in ballo il suo tornaconto. La lezione è
chiara: anche l'Italia deve finalmente difendere la sua
sovranità e
i suoi interessi nazionali proteggendo con forza e
intelligenza i suoi asset strategici e introducendo una sua
moneta parallela.
Macron in Libia lavora per favorire l'azienda petrolifera francese Total e cerca di soffiare all'ENI il petrolio libico grazie alla sua estesa presenza militare in nord Africa e alla (peraltro inutile) opera diplomatica per l'accordo tra i due leader libici Sarraj e Haftar. In Francia Macron rinnega gli accordi sottoscritti tra Finmeccanica e Stx e in un battibaleno nazionalizza Stx per non cedere la sua industria cantieristica navale all'italiana Finmeccanica. Invoca (tra l'altro forse giustamente) gli interessi strategici della Francia in campo industriale e militare.
Se fosse in atto l’inizio d’una zombie apocalypse, sappiamo che i media mainstream farebbero di tutto per nasconderla e dissimularla il più a lungo possibile, innanzitutto per evitare il panico.
Dovremmo quindi imparare a riconoscerne da soli i principali segnali.
1) Irrazionali e imprevedibili esplosioni di violenza individuale, spesso con armi improvvisate, i cui esecutori vengono sbrigativamente eliminati, e derubricati come lupi solitari, terroristi o psicopatici.
2) Razionamento idrico, per aumentare i controlli negli acquedotti sospettati di diffondere il contagio.
3) Incendi diffusi. Bruciare i cadaveri dei rianimati sarebbe infatti il modo più veloce per occultarli, e cercare di arginare il contagio. I falò organizzati in zone disabitate finirebbero spesso per degenerare, sfuggendo al controllo. Allarmi di nubi tossiche verrebbero lanciati per allontanare i curiosi.
4) Intensificarsi parossistico e pretestuoso del controllo poliziesco sulle piazze reali e virtuali, con brutali retate nelle zone di assembramento, e tentativi di controllare e censurare le notizie che circolano su internet.
L’annuncio da parte di Vladimir Putin del provvedimento relativo al taglio del personale diplomatico americano in Russia è stata la conferma nei giorni scorsi dell’ulteriore deterioramento in atto delle relazioni tra Mosca e Washington. La mossa del Cremlino è la diretta conseguenza del recente voto del Congresso USA sul nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia ed è stata con ogni probabilità attentamente calibrata per mandare un chiaro messaggio oltreoceano sull’esaurirsi della pazienza di Mosca in relazione a un possibile allentamento delle tensioni che aveva fatto intravedere l’amministrazione Trump.
La riduzione di 755 unità tra gli addetti alle sedi diplomatiche degli Stati Uniti in territorio russo è stata definita senza precedenti dalla stampa americana, anche in confronto con episodi simili registrati durante la Guerra Fredda. Il fatto poi che lo stesso Putin abbia spiegato l’iniziativa nel corso di un’intervista alla televisione russa la dice lunga sull’importanza del gesto per il governo di Mosca.
Putin, va ricordato, si era astenuto dall’adottare ritorsioni sul finire del 2016, quando l’amministrazione uscente del presidente americano Obama aveva espulso dagli USA decine di diplomatici russi a causa delle presunte interferenze di Mosca nelle presidenziali di novembre. In quell’occasione, il presidente russo aveva optato per un atteggiamento prudente e di attesa, confidando in un cambio di rotta almeno parziale dell’amministrazione repubblicana entrante.
«Ciò che avviene oggi in Libia è il nodo di una destabilizzazione dai molteplici aspetti»: lo ha dichiarato il presidente Emmanuel Macron celebrando all’Eliseo l’accordo che «traccia la via per la pace e la riconciliazione nazionale». Macron attribuisce la caotica situazione del paese unicamente ai movimenti terroristi, i quali «approfittano della destabilizzazione politica e della ricchezza economica e finanziaria che può esistere in Libia per prosperare». Per questo – conclude – la Francia aiuta la Libia a bloccare i terroristi. Macron capovolge, in tal modo, i fatti.
Artefice della destabilizzazione della Libia è stata proprio la Francia, unitamente agli Stati uniti, alla Nato e alle monarchie del Golfo. Nel 2010, documentava la Banca mondiale, la Libia registrava in Africa i più alti indicatori di sviluppo umano, con un reddito pro capite medio-alto, l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e del 46% alla terziaria. Vi trovavano lavoro circa 2 milioni di immigrati africani. La Libia favoriva con i suoi investimenti la formazione di organismi economici indipendenti dell’Unione africana. Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – si accordarono per bloccare il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa (moneta che la Francia impone a 14 sue ex colonie africane).
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