Un articolo interessante...
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COME FINIRÀ L’ERA DEL PETROLIO
IL COLLASSO DEL VECCHIO ORDINE PETROLIFERO
DI MICHAEL T. KLARE
Countercorrents.org
Qualunque sia l’esito delle proteste, sommosse e ribellioni che stanno
ora spazzando il Medio Oriente, una cosa è certa: il mondo del
petrolio sarà trasformato in maniera definitiva. Dobbiamo considerare
tutto ciò che sta accadendo come solo il primo tremore di un terremoto
del petrolio, che scuoterà il nostro mondo fin nelle sue parti più
profonde.
Per un secolo dalla scoperta del petrolio nel sud-ovest della Persia
prima della prima Guerra Mondiale, le potenze occidentali sono
ripetutamente intervenute in Medio Oriente per assicurare la
sopravvivenza dei governi autoritari dediti alla produzione di
petrolio. Senza tali interventi l’espansione delle economie
occidentali dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’attuale ricchezza
delle società industrializzate sarebbe inconcepibile.
Qui, in ogni caso, sono riportate notizie che dovrebbero essere in
prima pagina in qualsiasi giornale nel mondo: il vecchio assetto del
petrolio sta morendo e con esso vedremo la fine del petrolio
accessibile e a buon mercato – per sempre.
La fine dell’età del petrolio
Proviamo a misurare cosa è effettivamente a rischio nel tumulto
corrente. Per iniziare, non c’è praticamente alcun modo di rendere
piena giustizia al ruolo cruciale svolto dal petrolio del Medio
Oriente nell’equazione energetica mondiale. Sebbene l’economico
carbone abbia alimentato l’iniziale Rivoluzione Industriale, con le
ferrovie, le navi a vapore, le industrie, il petrolio a buon mercato
ha reso possibile l’automobile, l’industria aeronautica, i sobborghi,
l’agricoltura meccanizzata e l’esplosione della globalizzazione
economica. E mentre un pugno delle maggiori aree produttrici di
petrolio ha lanciato l’Era del Petrolio – USA, Messico, Venezuela,
Romania, l’area attorno a Baku (in ciò che un tempo era l’impero russo
zarista) e le Indie orientali olandesi – è stato il Medio Oriente che
ha spento la sete mondiale per il petrolio fin dalla Seconda Guerra
Mondiale.
Nel 2009, l’anno più recente per cui sono disponibili tali dati, BP ha
riferito che i produttori nel Medio Oriente e nel Nord Africa insieme
hanno prodotto 29 milioni di barili al giorno, cioè il 36% della
fornitura totale mondiale – e persino questo non dà l’idea
dell’importanza di tali regioni nell’economia del petrolio. Più di
ogni altra zona, il Medio Oriente ha incanalato la sua produzione nei
mercati di esportazione per soddisfare le voglie energetiche di
potenze importatrici di petrolio come Stati Uniti, Cina, Giappone e
l’Unione Europea. Stiamo parlando di 20 milioni di barili esportati
ogni giorno. Confrontiamoli ai 7 milioni di barili esportati della
Russia, il maggiore singolo produttore mondiale, ai 6 milioni del
continente africano e al misero milione del Sud America.
Come succede, i produttori mediorientali saranno persino più
importanti nei prossimi anni perché possiedono, secondo stime, i due
terzi delle restanti riserve di petrolio non ancora sfruttate. Secondo
le recenti proiezioni del Dipartimento di Energia USA, il Medio
Oriente e il Nordafrica forniranno insieme approssimativamente il 43%
dell’approvvigionamento di petrolio greggio entro il 2035 (rispetto al
37% del 2007) e produrranno persino una quota ancora maggiore del
petrolio esportabile mondiale.
Per porre la questione senza mezzi termini: l’economia mondiale
richiede un aumento dell’offerta di petrolio a prezzi accessibili. Il
Medio Oriente da solo può provvedere a tale fabbisogno. Ecco perché i
governi occidentali hanno a lungo appoggiato regimi autoritari
“stabili”nella regione, occupando ed addestrando le proprie forze di
sicurezza. Ora questo invalidante ordine pietrificato, il cui successo
più grande è stato produrre petrolio per l’economia mondiale, si sta
disintegrando. Non contate su alcun nuovo ordine (o disordine) per
fornire abbastanza petrolio a buon mercato per preservare l’Età del
Petrolio.
Per capire perché questo sarà così, è necessaria una piccola lezione
di storia.
Il colpo di stato iraniano
Dopo che la Anglo-Persian Oil Company (APOC) scoprì il petrolio in
Iran (allora conosciuta come Persia) nel 1908, il governo britannico
ha cercato di esercitare un controllo imperialista sullo stato
Persiano. A capo di tale impulso c’era il Primo Lord della Marina
Winston Churchill. Dopo aver ordinato la conversione dal carbone al
petrolio delle navi da guerra britanniche prima della Prima Guerra
Mondiale e aver deciso di porre una significativa fonte di petrolio
sotto il controllo di Londra, Churchill orchestrò la nazionalizzazione
dell’APOC nel 1914. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale,
l’allora Primo Ministro Churchill curò l’allontanamento dello Shah
vicino alla Germania Reza Pahlavi e l’ascesa di suo figlio, il 21enne
Mohammed Reza Pahlavi.
Sebbene incline ad esaltare i suoi (mitici) legami con il passato
impero Persiano, Mohammed Reza Pahlavi fu un docile strumento degli
inglesi. I suoi sudditi, tuttavia, risultarono sempre meno disposti a
tollerare l’asservimento ai feudatari imperiali di Londra. Nel 1951,
il Primo Ministro Mohammed Mossadeq, democraticamente eletto, si
guadagnò il sostegno del parlamento in merito alla nazionalizzazione
dell’APOC, che fu ribattezzata Anglo-Iranian Oil Company (AIOC).
L’iniziativa fu molto popolare in Iran ma causò panico a Londra. Nel
1953, per salvaguardare il loro gioiello, i leaders britannici
cospirarono in modo infame con l’amministrazione del presidente
americano Dwight Eisenhower e con la CIA per progettare un colpo di
stato per deporre Mossadeq e riportare in Iran lo Shah Pahlavi dal suo
esilio a Roma, una storia raccontata recentemente con grande sfarzo da
Stephen Kinzer nel suo “All the Shah’s Men” (“Tutti gli uomini dello
Shah)”.
Fino alla sua deposizione nel 1979, lo Shah esercitò una dittatura
spietata sulla società iraniana, in parte grazie al cospicuo aiuto
dell’esercito Usa e della polizia. All’inizio schiacciò la sinistra
laica, alleata di Mossadeq, quindi l’opposizione religiosa, guidata
dall’esilio dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini. A causa della loro
brutale esposizione al carcere e ai proiettili della polizia, forniti
dagli Stati Uniti, gli oppositori dello Shah iniziarono a detestare la
sua monarchia e Washington in egual misura. Nel 1979, naturalmente, il
popolo iraniano scese per le strade, lo Shah fu deposto e l’Ayatollah
Khomeini prese il potere.
Molto può essere imparato da questi eventi, che hanno portato
all’attuale stallo nelle relazioni tra USA ed Iran. Il punto chiave da
capire, però, è che la produzione di petrolio iraniana non si riprese
mai dalla rivoluzione del 1979-1980.
Tra il 1973 e il 1979 l’Iran aveva raggiunto una produzione vicina ai
sei milioni di barili di petrolio al giorno, una delle maggiori al
mondo. Dopo la rivoluzione, l’AIOC (ribattezzata British Petroleum o
più tardi semplicemente BP) fu nazionalizzata e di nuovo i manager
iraniani si fecero carico della gestione della compagnia. Per punire i
nuovi leader iraniani, Washington impose pesanti sanzioni economiche,
ostacolando gli sforzi della compagnia per ottenere tecnologia ed
assistenza straniere. La produzione di petrolio crollò a due milioni
di barili al giorno e, persino tre decenni più tardi, si aggirava solo
intorno a poco più di quattro milioni di barili al giorno, anche se il
paese possiede la seconda più grande riserva mondiale di petrolio dopo
l’Arabia Saudita.
I sogni dell’invasore
L’Iraq ha seguito un percorso simile. Sotto Saddam Hussein, la
compagnia petrolifera di stato Iraq Petroleum Company (IPC) produceva
fino a 2,8 milioni di barili al giorno fino al 1991, quando la Prima
Guerra del Golfo contro gli USA e le seguenti sanzioni fecero scendere
la produzione a mezzo milione al giorno. Anche se dal 2001 la
produzione è di nuovo risalita a circa 2,5 milioni di barili al
giorno, non ha mai raggiunto i picchi precedenti. Mentre il Pentagono
preparava un’invasione all’Iraq alla fine del 2002, comunque, insiders
dell’amministrazione ed esuli iracheni ben inseriti, parlavano
sognanti di una età dell’oro che sarebbe arrivata, in cui le compagnie
petrolifere straniere sarebbero state invitate a tornare nel paese, la
compagnia statale petrolifera sarebbe stata privatizzata e la
produzione avrebbe raggiunto livelli mai visti prima.
Chi può dimenticare lo sforzo che l’amministrazione Bush e i suoi
funzionari a Bagdad hanno messo in atto per avverare il loro sogno?
Dopo tutto, i primi soldati americani che avevano raggiunto la
capitale irachena avevano assicurato l’incolumità del palazzo del
Ministero del Petrolio, anche se avevano permesso ai saccheggiatori
iracheni di regnare sovrani nel resto della città. Il Ten. Paul Bremer
III, il proconsole poi scelto da Bush per supervisionare la creazione
di un nuovo Iraq, portò sul posto un team di dirigenti petroliferi
americani per supervisionare la privatizzazione dell’industria
petrolifera del paese, mentre il Dipartimento per l’Energia degli USA
previde fiduciosamente nel maggio 2003 che la produzione irachena
sarebbe cresciuta a 3,4 milioni di barili al giorno nel 2005, 4,1
milioni entro il 2010 e 5,6 milioni entro il 2020.
Nulla di tutto ciò è naturalmente accaduto. Per molti iracheni, la
decisione degli USA di mettersi immediatamente a capo del Ministero
del Petrolio è stata un punto di svolta istantaneo che ha trasformato
il possibile sostegno per il rovesciamento di un regime tirannico in
rabbia ed ostilità. La presa di posizione di Bremer per privatizzare
la compagnia petrolifera di stato ha similmente prodotto una feroce
reazione nazionalista tra gli ingegneri petroliferi iracheni, che
hanno sostanzialmente affondato il piano. Abbastanza presto è
scoppiata un’insurrezione Sunnita su larga scala. La produzione di
petrolio è rapidamente crollata, attestandosi a soli 2 milioni di
barili al giorno tra il 2003 e il 2009. Durante il 2010 essa è
finalmente tornata a 2,5 milioni di barili – ben lontana da quella
sognata di 4,1 milioni di barili.
Non è difficile disegnare una conclusione: gli sforzi da parte di
stranieri per controllare l’ordine politico in Medio Oriente per il
bene della produzione del petrolio genereranno inevitabilmente
pressioni compensative il cui risultato sarà una minore produzione.
Gli USA e le altre potenze che guardano le insurrezioni, ribellioni e
proteste che si accendono attraverso il Medio Oriente dovrebbero
infatti essere cauti: qualunque sia la loro volontà politica o
religiosa, le popolazioni locali tirano sempre fuori una feroce,
appassionata ostilità verso il predominio straniero e, messe alle
strette, sceglieranno l’indipendenza e la possibilità di libertà
piuttosto che una maggiore produzione di petrolio.
Le esperienze in Iran e Iraq possono non essere paragonate in modo
usuale a quelle in Algeria, Bahrain, Egitto, Iraq, Giordania, Libia,
Oman, Marocco, Arabia Saudita, Sudan, Tunisia e Yemen. Comunque ognuno
di loro (e altri paesi similmente suscettibili di essere coinvolti nei
tumulti) mostra alcuni elementi di identico stampo politico
autoritario e tutti sono connessi a livello del petrolio. Algeria,
Egitto, Iraq, Libia, Oman e Sudan sono produttori di petrolio; Egitto
e Giordania difendono oleodotti vitali e, nel caso dell’Egitto, un
oleodotto cruciale per il trasporto del petrolio; Bahrein e Yemen come
l’Oman occupano punti strategici lungo le maggiori rotte del petrolio.
Tutti hanno ricevuto sostantivi aiuti militari dagli USA e/o ospitano
importanti basi militari. E, in tutti questi paesi, lo slogan è sempre
lo stesso: “Il popolo vuole che il regime cada”.
Due di questi regimi sono già caduti, tre sono traballanti e gli altri
sono a rischio. L’impatto sui prezzi mondiali del petrolio è stato
rapido e spietato: il 24 di febbraio, il prezzo per il greggio North
Brent, un punto di riferimento del settore, ha sfiorato i 115 dollari
al barile, il prezzo più alto dalla crisi economica dell’ottobre del
2008. Un altro greggio di riferimento, il West Texas Intermediate, ha
varcato, per poco e sinistramente, la soglia dei 100 dollari.
Perché i Sauditi sono la chiave
Finora il maggiore produttore mediorientale di petrolio, l’Arabia
Saudita, non ha mostrato palesi segni di vulnerabilità, o i prezzi
sarebbero saliti persino di più. Tuttavia, la casa reale del vicino
Bahrain è attualmente in guai seri; decine di migliaia di manifestanti
– oltre il 20% del suo milione e mezzo di persone – sono scesi più
volte per le strade, nonostante le minacce di aprire il fuoco, in un
movimento per l’abolizione del governo autocratico del re Hamad ibn
Isa al-Khalifa e la sua sostituzione con un governo autenticamente
democratico.
Questi sviluppi sono particolarmente preoccupanti per la leadership
Saudita perché il cambiamento in Bahrain è guidato dalla popolazione
Sciita, a lungo abusata, contro una radicata élite Sunnita al potere.
Anche l’Arabia Saudita ha al suo interno – sebbene non come in Bahrain
– una popolazione a maggioranza Sciita che ha sofferto la
discriminazione dai governanti Sunniti. C’è la preoccupazione a Riyadh
che le manifestazioni esplose in Bahrain possano diffondersi
nell’adiacente e ricca provincia dell’Arabia Saudita – l’unica area
dove gli Sciiti formano la maggioranza -, diventando una grossa
minaccia per il regime. In parte per prevenire ogni ribellione da
parte dei giovani, il vecchio re 87enne Abdullah ha appena promesso 10
miliardi di dollari, che sono parte di un pacchetto di 36 miliardi di
sovvenzioni per aiutare i giovani cittadini sauditi a sposarsi ed
ottenere case ed appartamenti.
Anche se la ribellione non arriverà in Arabia Saudita, il vecchio
ordine del petrolio del Medio Oriente non potrà essere ricostruito. Il
risultato è sicuramente un declino di lungo termine nelle
disponibilità future di petrolio esportabile.
Tre quarti dei 1,7 milioni di barili di petrolio che la Libia produce
al giorno sono stati rapidamente ritirati dal mercato non appena le
agitazioni sono iniziate. Gran parte di esso può rimanere fuori dal
mercato per un tempo indefinito. Egitto e Tunisia si attende che
ripristino presto la produzione, modesta in entrambi i paesi, ai
livelli precedenti alle manifestazioni, ma è improbabile che
abbraccino l’idea delle grandi joint-ventures con imprese straniere
che potrebbero aumentare la produzione, indebolendo il controllo
locale. L’Iraq, la cui maggiore raffineria è stata gravemente
danneggiata dai ribelli la scorsa settimana, e l’Iran non mostrano
segni di poter incrementare significativamente la produzione nei
prossimi anni.
Il giocatore cruciale è l’Arabia Saudita, che ha appena aumentato la
produzione per compensare le perdite libiche sul mercato globale. Ma
non aspettiamoci che questo duri per sempre. Supponendo che la
famiglia reale sopravviva all’attuale ciclo di sconvolgimenti, dovrà
deviare la maggior parte della sua produzione giornaliera per
soddisfare il crescente consumo interno e di carburante per le locali
industrie petrolchimiche che potrebbero soddisfare una popolazione in
rapida crescita, inquieta con impieghi meglio retribuiti.
Dal 2005 al 2009 i sauditi hanno consumato circa 2,3 milioni di barili
al giorno, lasciandone 8,3 milioni per l’esportazione. Solo se
l’Arabia Saudita continuerà a fornire almeno tale quantità ai mercati
internazionali, il mondo potrebbe persino soddisfare i suoi bisogni
previsti di petrolio a buon prezzo. Questo non è probabile che si
verifichi. I reali Sauditi hanno espresso riluttanza per aumentare la
produzione molto al di sopra dei 10 milioni di barili al giorno,
temendo danni ai loro settori rimanenti e quindi un calo nei profitti
futuri per la loro numerosa stirpe. Allo stesso tempo, l’aumento della
richiesta interna si prevede che consumerà una sempre crescente quota
della produzione netta del paese. Nell’aprile 2010 l’amministratore
delegato della compagnia di stato Aramco, Khalid al-Fahlil aveva
previsto che il consumo interno potrebbe raggiungere l’incredibile
cifra di 8,3 milioni di barili al giorno entro il 2028, lasciando
soltanto pochi milioni di barili per l’esportazione, con la garanzia
che, se il pianeta non rivolgerà l’attenzione ad altre fonti
energetiche, ci sarà fame di petrolio.
In altre parole, se si traccia una traiettoria ragionevole dagli
sviluppi attuali nel Medio Oriente, essa è già con le spalle al muro.
Dato che nessuna area è capace di rimpiazzare il Medio Oriente come
primo produttore mondiale di petrolio, l’economia stessa del petrolio
deperirà – e con essa l’economia mondiale nel suo complesso.
Dobbiamo considerare il recente aumento dei prezzi del petrolio come
solo un lieve tremore che annuncia un terremoto petrolifero prossimo a
venire. Il petrolio non sparirà dai mercati internazionali, ma nei
prossimi decenni non raggiungerà mai i volumi necessari a soddisfare
la domanda mondiale prevista e ciò significa che, più presto che
tardi, la scarsità sarà la condizione dominante dei mercati. Solo il
rapido sviluppo di fonti energetiche alternative e una drammatica
riduzione nel consumo di petrolio potrebbe risparmiare al mondo le più
gravi ripercussioni economiche.
Michael T. Klare è docente di studi sulla pace e sulla sicurezza
all’Hampshire College, un regolare TomDispatch e l’autore del recente
“Rising Powers, Shrinking Planet”. Un film-documentario del suo
precedente libro, “Blood and Oil” è disponibile presso la Media
Education Foundation. Per ascoltare l’ultima intervista TomCast di
Timothy MacBain in cui Klare spiega come la scarsità delle risorse è
il motore delle proteste e molto altro sul nostro pianeta, cliccate
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Titolo originale: "The Collapse of the Old Oil Order "
Fonte:
http://www.countercurrents.org
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