e-mail gaeb...@tin.it
Se il pericolo può essere prevenuto, eliminato o ridotto al livelli
accettabili successivamente alla fase analizzata, tale la fase non è un
PCC, ma tutt'al piu' un punto critico (importante e' identificare
correttamente il rischio determinato dal pericolo); nel caso sia un punto
critico, il PCC relativo (1 o 2) dovrà (sottolineato 18 volte) trovarsi,
appunto, in una fase successiva.
Chi vi costringe a ragionare in termini di PCC1 e PCC2? un punto critico di
controllo e tale, punto e basta!
Ciao.
--
Posted from mta2.iol.it [195.210.91.152]
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Gaetano Bordonaro <gaeb...@tin.it> scritto nell'articolo
<71t4v7$aue$1...@nslave1.tin.it>...
Paolo ha scritto:
Scusa Paolo se mi intrometto ma ci sono parecchie imprecisioni in quanto
affermi.
Un punto di sorveglianza critico (CCP) non può essere "risolto". Per
definizione (vedere Codex) deve essere *tenuto sotto controllo*.
I "punti critici" non esistono nel Codex. Esistono i Punti di sorveglianza
(control point, CP) e i punti di sorveglianza critici (critical control point,
CCP).
Non necessariamente la fase successiva che elimina il pericolo è un CCP.
Può esistere una fase che, anche se non espressamente prevista per questo
motivo, elimina un pericolo (ad esempio alcuni trattamenti termici concepiti
per scopi esclusivamente tecnologici che, accidentalmente, eliminano batteri o
sostanze chimiche). In questo caso non ci sono rischi per il prodotto finito e
non ci sono CCP.
D'accordo sull'ormai superata distinzione tra CCP1 e CCP2 e sulla necessità
della sorveglianza su ogni CCP.
Ciao
--
Massimo Tarditi <arc...@inrete.it>
Biologo - Perito Chimico Industriale
Consulenze in Igiene e Microbiologia degli Alimenti
http://massimotarditi.8m.com (in allestimento)
OK1: un PCC, per sua definizione, DEVE (sottolineato 18 volte) essere
*tenuto sotto controllo* attraverso attività gestionali preventive e/o di
monitoraggio (con "risolto" facevo riferimento all'identificazione, da
parte del gruppo di lavoro, delle modalità per: tenere sotto controllo ...,
ma effettivamente rileggendolo, poteva risultare come lo hai inteso tu).
OK2: i punti critici non esistono nel Codex, ma nella 155 (art. 3) c'è
anche una specie di definizione: "decisioni da adottare riguardo ai punti
critici individuati, cioè a quei punti che possono nuocere alla sicurezza
dei prodotti" e ancora "individuazione ed applicazione di procedure di
controllo e di sorveglianza dei punti critici" e nella famosa circolare:
"L'autocontrollo potra' considerarsi completo quando vengono previste anche
le misure correttive da adottarsi a seguito del mancato rispetto delle
condizioni prefissate per ciascun punto critico"; si parlo di punti critici
anche su qualche fonte bibliografica come ad esempio lo Scotti Bassani
(schede 1-2/94) al capitolo "Applicazione del sistema HACCP" si legge"...
infatti, talvolta una misura di controllo adottata a livello di un punto
critico riduce la necessità di adottarne altre a livello dei punti
precedenti della catena di operazioni", e ancora "Guida alla progettazione
e applicazione del Sistema HACCP - a cura del SGS (capitolo 2.7:
Identificazione dei punti critici") ed infine il SAGI nella presentazione
parla di "decisioni da adottare riguardo ai punti individuati che possono
nuocere alla sicurezza degli alimenti: "punti critici". Mi sembra che di
punti critici si parli, mentre di punti di "sorveglianza" non con
altrettanta ridondanza; fare solo la sorveglianza e' un po' limitativo, ma
credo si debba controllare (in senso di governare, gestire, ecc.) e fare
sorveglianza (cioe' verificare il corretto funzionamento
dell'autocontrollo, adeguato e funzionale per il prodotto/processo come
definito dal campo d'applicazione dello studio).
Scusa Massimo, ma non ho capito bene a cosa di riferisci "Non
necessariamente la fase successiva che elimina il pericolo è un CCP. Può
esistere una fase che, anche se non espressamente prevista per questo
motivo, elimina un pericolo (ad esempio alcuni trattamenti termici
concepiti per scopi esclusivamente tecnologici che, accidentalmente,
eliminano batteri o sostanze chimiche).
Forse, con il tuo esempio, ti riferisci al processo di sterilizzazione (ad
esempio di prodotto in BS) che oltre ad avere scopi tecnologici (cottura e
miscelazione del prodotto) ha lo scopo fondamentale di renderlo appunto
sterile (eliminando il pericolo che puo' essere identificato dal C.
botulinum, senz'altro originatosi in precedenza alla fase di
sterilizzazione), quindi sicuro e "a lunga scadenza";
In tale caso, sono necessarie azioni preventive quali la valutazione del
trattamento termico per avere un F0 di sicurezza, la manutenzione e la
taratura delle autoclavi e delle Pt100 nonché azioni di monitoraggio con la
registrazione e l'approvazione di tutti i cicli di sterilizzazione e la
misurazione del livello di cloro libero residuo dell'acqua di
raffreddamento; mi sembra che questo sia proprio un PCC, (infatti il
pericolo era di natura igienico sanitaria) non esistendo nulla dopo che mi
permetta di abbattere il rischio
Se è un pericolo (anzi un rischio) per la salute del consumatore deve
essere gestito o in quella fase o in una fase successiva. Se invece è un
pericolo tecnologico, non centra con quello di cui stiano parlando.
Se ho inteso male, attendo con curiosità il tuo chiarimento.
Ciao
Paolo ha scritto: (rispondo interrompendo qua e là...)
>
> OK2: i punti critici non esistono nel Codex, ma nella 155 (art. 3) c'è
> anche una specie di definizione: "decisioni da adottare riguardo ai punti
> critici individuati, cioè a quei punti che possono nuocere alla sicurezza
> dei prodotti" e ancora "individuazione ed applicazione di procedure di
> controllo e di sorveglianza dei punti critici" e nella famosa circolare:
> "L'autocontrollo potra' considerarsi completo quando vengono previste anche
> le misure correttive da adottarsi a seguito del mancato rispetto delle
> condizioni prefissate per ciascun punto critico";
E' vero. Ed è errato. Il linguaggio della 155 all'art. 3 è farcito di errori
concettuali e semantici. E nelle definizioni (art. 2) mancano le definizioni di
CP, CCP, ecc.
Ad esempio un punto (di controllo) critico non è "un punto che può nuocere alla
sicurezza degli alimenti" bensì un punto (fase, operazione) in cui un pericolo può
essere eliminato o ridotto a livelli accettabili. Magnifico esempio di Dino
Spolaor (che so leggerci...).
punto di pericolo: latte crudo (pericolo patogeni)
punto di controllo critico: pastorizzazione
Il Codex (unica norma accettata internazionalmente) parla di "control point" e di
"critical control point". Suggerisco l'uso di un dizionario italiano-inglese ai
funzionari del Ministero della Sanità.
> si parlo di punti critici anche su qualche fonte bibliografica come ad esempio
> lo Scotti Bassani
> (schede 1-2/94) al capitolo "Applicazione del sistema HACCP" si legge"...
> infatti, talvolta una misura di controllo adottata a livello di un punto
> critico riduce la necessità di adottarne altre a livello dei punti
> precedenti della catena di operazioni", e ancora "Guida alla progettazione
> e applicazione del Sistema HACCP - a cura del SGS (capitolo 2.7:
> Identificazione dei punti critici") ed infine il SAGI nella presentazione
> parla di "decisioni da adottare riguardo ai punti individuati che possono
> nuocere alla sicurezza degli alimenti: "punti critici".
Lo Scotti Bassani fa dell'ottima divulgazione ma NON è un ente autorizzato ad
emanare norme tecniche.
La SGS è un organismo privato senza nessuna autorità in materia. Quello che
scrivono ha valore interno. Come quello che scrivo io nel mio laboratorio. Direi
che farebbero bene ad attenersi al Codex (norma ufficiale), invece di emanare loro
norme. A maggior ragione essendo organismo di certificazione (legittimamente
possono - e devono - invece stabilire le loro regole di valutazione di sistemi già
realizzati).
Mi pare che in molti vogliano fare il boia e l'impiccato.
La definizione del SAGI è sbagliata (vedere sopra).
> Mi sembra che di
> punti critici si parli, mentre di punti di "sorveglianza" non con
> altrettanta ridondanza; fare solo la sorveglianza e' un po' limitativo, ma
> credo si debba controllare (in senso di governare, gestire, ecc.) e fare
> sorveglianza (cioe' verificare il corretto funzionamento
> dell'autocontrollo, adeguato e funzionale per il prodotto/processo come
> definito dal campo d'applicazione dello studio).
>
Il termine "sorveglianza" è un termine utilizzabile per far capire la differenza
tra "controllo" e "avere il controllo". E' il primo termine che trovo sul mio
dizionario (garzanti) in traduzione di "control". Rendono benissimo l'idea, come
dici, anche "gestione, dominio".
>
> Scusa Massimo, ma non ho capito bene a cosa di riferisci "Non
> necessariamente la fase successiva che elimina il pericolo è un CCP. Può
> esistere una fase che, anche se non espressamente prevista per questo
> motivo, elimina un pericolo (ad esempio alcuni trattamenti termici
> concepiti per scopi esclusivamente tecnologici che, accidentalmente,
> eliminano batteri o sostanze chimiche).
>
> Forse, con il tuo esempio, ti riferisci al processo di sterilizzazione (ad
> esempio di prodotto in BS) che oltre ad avere scopi tecnologici (cottura e
> miscelazione del prodotto) ha lo scopo fondamentale di renderlo appunto
> sterile (eliminando il pericolo che puo' essere identificato dal C.
> botulinum, senz'altro originatosi in precedenza alla fase di
> sterilizzazione), quindi sicuro e "a lunga scadenza";
Non mi riferivo a questi tipi di processo, che sono evidentemente CCP e vanno
trattati come tali (e come ben descrivi nel tuo messaggio).
Pensiamo alla produzione di patatine fritte in sfoglia. La frittura è determinante
per ottenere le patatine fritte, e l'immersione in olio bollente elimina i
patogeni presenti, sicuramente. Questo non lo considero CCP (se non, forse, dal
punto di vista tecnologico: croccantezza, doratura, ecc.). Esiste un pericolo
(patogeni nelle patate, nelle fasi precedenti) ed esiste una fase successiva che
lo elimina, pur non essendo questa fase un CCP. Questa è una mia opinione, basata
sulla lettura del Codex. Se le patate entrano nell'olio i patogeni sono eliminati
(dimostrabile con challenge-test o modelli predittivi). Se non entrano non sono
patate fritte. Quindi o niente pericolo o niente patate.
>
> Se ho inteso male, attendo con curiosità il tuo chiarimento.
>
> Ciao
>
Spero che l'esempio abbia chiarito il concetto. Attendo comunque altri pareri su
quella che, ripeto, è una mia opinione, scientifica ma personale.
Effettivamente esiste un problema linguistico -concettuale dell'HACCP
,che è stranamente sottovalutato.
La terminologia e definizione impropria di "punto critico" si trova
non solo nel d.leg.vo.155/97 art.2 lett. ma in tanti documenti , sia
prettamente tecnici che stanno venendo fuori (manuali, linee guida),
sia specificamente normativi: nella direttiva cee 93/43 art.3 , ( che
dopo quattro anni la nostra 155/97 copia quasi alla lettera) ) è
addirittura esplicitata la definizione in modo inequivocabile e non
sembrerebbe solo un problema di errata traduzione.
Eppure se andiamo a vedere il Codex e i documenti ufficiali americani e
canadesi più recenti sull'argomento(vedi ad esempio il CODE FOOD-97 o
le linee guida del NACMCF), facilmente reperibili in rete, è molto
difficile che si trovi la nozione d "punto critico"( dovrebbe essere
critical point) , ma come dice Tarditi c'è unicamente l'indicazione di
CP (control point)e di CCP(critical control point).
Il primo serve a controllare o meglio gestire un pericolo individuato
mediante misure di tipo generale ,quali le pratiche di igiene,i piani
di sanificazione ,GMP e simili. Il CP non è essenziale ,nel senso che
la mancanza del controllo non provoca rischi alla salute . Il
secondo,invece è essenziale e per questo l'applicazione della specifica
misura di controllo-gestione avviene tramite un apparato ben più
complesso,fatto di monitoraggio, limiti critici , azioni correttive
,ecc.,insomma il cosiddetto sistema dei critical control
points.
Sotto questa accezione dunque la" criticita "più che alla localizzazione
del punto in sè o del pericolo sembra riferisi al momento del
controllo -gestione(o sorveglianza),alla necessità garantista di
controllo del pericolo.E' critico il controllo non il punto. ( anche
rispetto alla posizione del pericolo non c'è fissità: il controllo
puo localizzarsi sia in coincidenza ,sia prima ,sia dopo il pericolo
stesso.Viene stabilito di volta in volta.)
Allora, perchè nei documenti (soprattutto italiani) troviamo l'uso del
termine" punto critico", con il significato per lo più di fase,momento
,procedura che porta un pericolo alla sicurezza degli alimenti? Qui il
focus della "criticità" non è tanto sulla necessità del
controllo-gestione ,ma sulla posizione del punto e del pericolo: la
criticità sta nella coincidenza posizionale di entrambi.E' solo un
errore o una differenza semantica?
E' una diversità di scuola metodologica ( gli autori francesi mi pare
che usano termini ancora diversi) che vuole attenuare il peso gravoso
dei CCP ? ,o forse una necessaria evoluzione e perfezionamento della
materia e della relativa terminologia che è comunque provvisoria ,cosi'
ad esempio l'abbandono della diversificazione concettuale di
CCP1- CCP2 .
Si possono citare al riguardo altri termini mal usati o ignorati
dalla nostra normativa regolamentare. Ad esempio "Hazard" tradotto
impropriamente con il termine rischio ,anzichè in prima istanza con
pericolo. Rischio ha già una accezione valutativa probabilistica ,che è
invece un momento successivo dell'hazard analysis(cioè, dopo che è
stato individuato viene fatta la valutazione/quantificazione del
pericolo in termini di gravità e rischio (probabilità di evenienza).
Oppure il termine" piano "(Haccp) che non appare in nessun riferimento
normativo italiano, sempre sostituito con il termine generico di
sistema, metodo,oppure con lo striminzito e non impegnativo
"protocollo"(vedi circolare applicativa n.11/98), mentre la
nozione di piano (plan) che darebbe una connotazione costruttivistica e
di specificità alla procedura è riscontrabile diffusamente nei
documenti tecnici internazionali.
Il problema fondamentale è che probabilmente non si tratta solo di una
questione lessicale da risolvere con il dizionario.
Mi pare che tutta questa ambiguità anche concettuale ,l'interesse a non
standardizzare neanche le definizioni dei termini di base sottende una
forte resistenza politica -commerciale all'introduzione della nuova
metodica preventiva o comunque a ridurla ad una semplice incombenza
burocratica.
Allo stesso modo , passando dal formale al sostanziale, vediamo (anche
nei manuali) il proliferare incontrollato di" protocolli " Haccp
fotocopia con 8-10-12 CCP, assurdi , ingestibili e quindi inutili ,
sicuramente frutto di poca chiarezza metodologica e scarsa volontà
programmatoria .
Cosi pure i soliti e inutili campionamenti degli alimenti che erano
usciti dalla porta dell'HACCP ,stanno rientrando dalla finestra ( vedi
la circolare applicativa della 155/97 e l'ultima normativa sui
campionamenti nelle macellerie)
Mi fermo qui, perche rischio di diventare polemico e di scivolare in
altri eventuali argomenti di discussione.
Saluti a tutti
Riccardo Sciacco.- Treviso
--
Posted from mta04-acc.tin.it [212.216.176.35]
> Massimo ha scritto:
Lo Scotti Bassani fa dell'ottima divulgazione ma NON è un ente autorizzato....
La definizione del SAGI è sbagliata (vedere sopra).
Il Codex (unica norma accettata internazionalmente) parla di "control
point" e di"critical control point". Suggerisco l'uso di un dizionario
italiano-inglese ai funzionari del Ministero della Sanità.
Dalle tue parole si rileva, giustamente, che molta bibliografia (Legge
compresa, ma non il FLAIR) in Italia interpreta (male, o con troppa
fantasia) il Codex (qui però siamo in Italia), ma poi nel "tuo" Manuale
(approvato dal Ministero della Sanità) al paragrafo 6.5 (Analisi dei rischi
ed individuazione dei punti critici e dei limiti critici) si legge:
"L'individuazione dei punti critici è il settimo passo dell'HACCP, secondo
le procedure definite dal Codex Alimentarius" con lo stesso tenore che poi
si legge in molta bibliografia (in italiano). In realtà, a questo punto
(critico?), non so quanto sia utile il sofisma sui "principi massimi", ma
piuttosto credo sia importante avere ben chiaro il concetto e la differenza
tra (come tu citi):
- punto di pericolo (o punto di controllo, o punto a rischio - valutando
l'entità del pericolo -, o punto critico, o punto fai un po' tu …);
- punto di controllo critico.
> Riccardo ha scritto:
Mi pare che tutta questa ambiguità anche concettuale .....
... vediamo (anche nei manuali) il proliferare incontrollato di" protocolli
" Haccp fotocopia con 8-10-12 CCP, assurdi , ingestibili e quindi inutili
,sicuramente frutto di poca chiarezza metodologica e scarsa volontà
programmatoria .
Cosi pure i soliti ....
Sono d'accordo e non vorrei che la "sterile" discussione sui "principi
massimi" porti a trascurare proprio quanto descritto da Riccardo; si stanno
leggendo molti manuali (molti, ma non tutti) di corretta prassi (in draft,
o approvati) con "vagonate" di punti di controllo critici, chili di
registrazioni da fare, litri di beverone sulla teoria dell'igiene
alimentare (utili, ma reperibili da altre fonti), senza una traccia che
permetta di giustificare le scelte fatte in merito ai predetti punti di
controllo critici: l'albero delle decisioni è il più delle volte solo
citato nella parte descrittiva, ma ho seri dubbi che sia stato veramente
utilizzato per identificare i punti di controllo critici (alcune volte
presenti proprio in tutte le fasi del processo) e comunque le relative
motivazioni sono spesso di difficile interpretazione.
> Massimo ha scritto:
Pensiamo alla produzione di patatine fritte in sfoglia. La frittura è
determinante per ottenere le patatine fritte, e l'immersione in olio
bollente elimina i patogeni presenti, sicuramente. Questo non lo considero
CCP (se non, forse, dal
punto di vista tecnologico: croccantezza, doratura, ecc.). Esiste un
pericolo(patogeni nelle patate, nelle fasi precedenti) ed esiste una fase
successiva che lo elimina, pur non essendo questa fase un CCP.Questa è una
mia opinione, basata sulla lettura del Codex. Se le patate entrano
nell'olio i patogeni sono eliminati(dimostrabile con challenge-test o
modelli predittivi). Se non entrano non sono patate fritte. Quindi o niente
pericolo o niente patate.
Io la vedo così (anche la mia è, ovviamente, un opinione); domanda: I
"patogeni nelle patate (prodotto finito)"sono un pericolo per il
consumatore finale che si gusta le patatine fritte? (Il consumatore finale
corre il rischio di mangiarsi "patate e patogeni"?). SE la risposta è NO
questo non è un pericolo per il consumatore finale e quindi non ha senso
proseguire con il ragionamento (in ogni caso, sarebbe bene motivare, con i
dati raccolti sul prodotto dal gruppo HACCP durante le fasi iniziali
dell'analisi - relativi agli ingredienti, al prodotto finito, al processo,
ecc.). SE la risposta è SI, bisogna determinare il punto di controllo
critico e per questo c'è l'albero delle decisioni.
Ciao.
--
Posted from mta2.iol.it [195.210.91.152]
Paolo ha scritto:
>
> Dalle tue parole si rileva, giustamente, che molta bibliografia (Legge
> compresa, ma non il FLAIR) in Italia interpreta (male, o con troppa
> fantasia) il Codex (qui però siamo in Italia), ma poi nel "tuo" Manuale
> (approvato dal Ministero della Sanità) al paragrafo 6.5 (Analisi dei rischi
> ed individuazione dei punti critici e dei limiti critici) si legge:
> "L'individuazione dei punti critici è il settimo passo dell'HACCP, secondo
> le procedure definite dal Codex Alimentarius" con lo stesso tenore che poi
> si legge in molta bibliografia (in italiano). In realtà, a questo punto
> (critico?), non so quanto sia utile il sofisma sui "principi massimi", ma
> piuttosto credo sia importante avere ben chiaro il concetto e la differenza
> tra (come tu citi):
>
> - punto di pericolo (o punto di controllo, o punto a rischio - valutando
> l'entità del pericolo -, o punto critico, o punto fai un po' tu …);
>
> - punto di controllo critico.
>
A forza di sentire ripetere una cosa va a finire che la si assimila, e questa
prima o poi sfugge. Touché.
Tra l'altro il titolo del capitolo non è mio. E' imposto dal Ministero con la
circolare 1/98 e io ho semplicemente spiegato il punto della circolare. Nella
prima stesura del manuale (da me volontariamente corretta, emendata, rivista allo
spuntare della circolare 1/98, prima dell'invio al Ministero) tutta questa parte
non c'era. Ci si rivolge a commercianti al dettaglio, non ad accademici di
Francia, o dei Lincei.
Sono d'accordo sul fatto che è bene conoscere la differenza concettuale, più che
il nome appropriato da dare.
>
> Sono d'accordo e non vorrei che la "sterile" discussione sui "principi
> massimi" porti a trascurare proprio quanto descritto da Riccardo; si stanno
> leggendo molti manuali (molti, ma non tutti) di corretta prassi (in draft,
> o approvati) con "vagonate" di punti di controllo critici, chili di
> registrazioni da fare, litri di beverone sulla teoria dell'igiene
> alimentare (utili, ma reperibili da altre fonti), senza una traccia che
> permetta di giustificare le scelte fatte in merito ai predetti punti di
> controllo critici: l'albero delle decisioni è il più delle volte solo
> citato nella parte descrittiva, ma ho seri dubbi che sia stato veramente
> utilizzato per identificare i punti di controllo critici (alcune volte
> presenti proprio in tutte le fasi del processo) e comunque le relative
> motivazioni sono spesso di difficile interpretazione.
>
Qui dissento. L'albero delle decisioni (assente nella prima stesura del mio
manuale, inserito su richiesta del Ministero in seguito, durante l'iter) è
applicabile solo ad una situazione specifica (intesa come una realtà aziendale,
non una categoria di attività) e il Codex stesso ne raccomanda l'uso "non in tutti
i casi". In sostanza "prendere con le molle" l'albero.
I manuali di corretta prassi devono suggerire i possibili punti di controllo, la
prassi igienica per gestirli e, se necessario, una guida a identificare quelli
critici. In ogni azienda si interverrà poi utilizzando le nozioni fornite dal
manuale.
>
> Io la vedo così (anche la mia è, ovviamente, un opinione); domanda: I
> "patogeni nelle patate (prodotto finito)"sono un pericolo per il
> consumatore finale che si gusta le patatine fritte? (Il consumatore finale
> corre il rischio di mangiarsi "patate e patogeni"?). SE la risposta è NO
> questo non è un pericolo per il consumatore finale e quindi non ha senso
> proseguire con il ragionamento (in ogni caso, sarebbe bene motivare, con i
> dati raccolti sul prodotto dal gruppo HACCP durante le fasi iniziali
> dell'analisi - relativi agli ingredienti, al prodotto finito, al processo,
> ecc.). SE la risposta è SI, bisogna determinare il punto di controllo
> critico e per questo c'è l'albero delle decisioni.
>
Due opinioni che portano comunque ad un solo risultato, se applicate: prevenire un
danno al consumatore. Mangerei le patatine dell'industria da te assistita con la
stessa tranquillità con cui mangerei le mie (se hai considerato anche i rischi
chimici e fisici, ovvio). Anzi non le mangerei (non mi piacciono le patatine!).
Per chiarezza, sempre dal Codex, noi DOBBIAMO considerare la possibile presenza di
patogeni nella materia prima ("describe product": passo preliminare 2). Questi
possono esistere ma non possono, secondo entrambi i ragionamenti, logici,
pervenire nel piatto del consumatore (o nel sacchetto).
Ciao