di Roberto Brusadelli
«Le scritte antisemite alla sede Rai? Le racconto un fatto di quasi
cinquant’anni fa. Era il ’58 o il ’59. Renato, gìà uscito dal Pci, si era
rivolto all’Eni per un impiego. Quando lessero la scheda con i dati
personali, gli chiesero se fosse ebreo. Alla risposta affermativa, gli
replicarono: spiacenti, ma sa, dobbiamo mantenere buoni rapporti con i Paesi
arabi. E pensare che lui, l’arabo, lo conosceva pure».
Una vita con il vuoto fatto intorno. Lui, Renato Mieli, il “traditore”,
l’intellettuale di spicco che aveva lasciato il Partito comunista dopo i
fatti d’Ungheria; ma anche il discendente di una famiglia di italiani
israeliti che aveva fatto fortuna in Egitto ed era stata colpita dalla
subdola persecuzione delle autorità arabe, fino alla scelta obbligata della
partenza, senza un soldo né una prospettiva. Lei, Bianca Dalle Nogare,
appassionata compagna per 35 anni «alla cui intelligente collaborazione devo
tanto», come si legge nella dedica al suo libro più celebre, Togliatti 1937.
Sinistra, ma anche democristiani e moderati, compresa la Confindustria;
mondo editoriale e giornalistico; ebrei, Islam e Occidente. Un percorso a
ostacoli fatto di utopie rivoluzionarie, grandi menzogne ammannite alle
masse, piccole codardie personali, ipocrisie istituzionali e private viltà.
Il falso eretto a ideologia, strumento di lotta politica, fondamento di
carriere. «Renato era un po’ aristocratico: in fondo, gli interessava
essenzialmente capire per sé. Poi comunicava, certo, ma se ciò non serviva
ad aprire gli occhi, bè, non se ne crucciava più di tanto». Lei, Bianca,
forse in questo gli somiglia: sa di aver colto tante verità, ma è anche
sicura che a molti non interessi abbandonare l’abito mentale del
pregiudizio. E ne parla con rabbia, sì, ma raffreddata dal distacco.
- La sua biografia, signora, è una specie di “cattiva coscienza” per i
comunisti nostrani.
«Lo è stata fin dall’inizio. Ricordo l’epoca del matrimonio con Giangiacomo
Feltrinelli (si sposarono nel ’47, nda). Frequentavamo due diverse sezioni
del Pci qui a Milano: lui era in quella più calda. Mi dissero che sarebbe
stata buona cosa se lo avessi sorvegliato: stile sovietico, insomma.
Naturalmente gli dissi che non ero il tipo della custode, né lui si sarebbe
mai fatto mettere le briglie da nessuno. Ma ricordo anche la scena con mia
suocera, la terribile Giannalisa, che si batteva il petto perché l’unico suo
figlio maschio era comunista. Dopo un po’ le replicai: “La colpa è sua. Se
l’ha educato per non esserlo, perché mai lo è diventato?”».
- Come furono i suoi rapporti dopo la fine della vostra unione?
«Posso confidarle questo. Quando Mosca mandò degli emissari in Italia per
convincerlo a non pubblicare Il dottor Zivago lui propendeva per il no,
perché gli avevano fatto capire che potevano rivalersi su Pasternak e la
famiglia. Gli feci osservare che era esattamente il contrario: diventato uno
scrittore di fama internazionale, Pasternak non sarebbe più stato toccato.
Colse subito la verità del mio giudizio e il libro, certo non solo grazie a
questo, uscì».
- Poi è iniziato il suo lungo sodalizio con Renato Mieli. Direttore de
l’Unità a Milano, stretto collaboratore di Togliatti, oratore che attirava
la gente, un intellettuale poliedrico, laureato in Fisica, poliglotta, mille
competenze e altrettante curiosità. Poi, lo strappo, l’abbandono della
Chiesa madre marxista, le porte chiuse in faccia, l’isolamento personale
prima che politico.
«Eravamo infetti. Dico eravamo perché anch’io lasciai il Pci allora, anzi un
po’ prima di lui. E pensare che, con grande doppiezza, proprio a Renato,
assieme ad Antonio Giolitti, fu affidato il compito di scrivere le tesi
dell’VIII Congresso, quello del dopo-Stalin.
--------------------------------
Inviato via http://usenet.libero.it