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Viaggio a Gomel (Bielorussia)

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ennn

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Dec 22, 2003, 5:38:58 AM12/22/03
to
Copio incollo dalla Gazzetta di Parma

saluti
maurizio

-------------

IL RACCONTO DI UNA TOCCANTE ESPERIENZA

Viaggio a Gomel con i bambini bielorussi, dove anche la povertà è dipinta
d'azzurro.

Da svidanja Belarus. Il charter della Belavia, la compagnia aerea
bielorussa, doveva decollare dall'aeroporto di Montechiari alle ore 19,00;
ha un ritardo però di tre ore. Il Tupolev proviene da Gomel ma, per mancanza
di carburante, dovrà atterrare prima a Brest per rifornirsi.
L'aeroporto è animato da centinaia di bambini provenienti dalla zona di
Chernobyl che rientrano a casa dopo un soggiorno terapeutico in Italia.
Ripenso con nostalgia a tutte le volte in cui anch'io li ho accompagnati qui
e li ho visti sfilare uno ad uno verso il controllo di sicurezza per poi
sparire e ripenso che tutte le volte che avrei voluto trattenerli. Ma ora
sono con loro e, per una volta, non li vedrò sparire; raccolgo i loro
sguardi un po' sorpresi, ma sorridenti.

A bordo dell'aereo ho subito la conferma che questo sarà un viaggio anomalo;
mi basta guardare intorno per incominciare a capire verso cosa sto andando.
Invano aspetto la hostess che illustri ai passeggeri le norme di sicurezza
da eseguire in caso d'emergenza ed invano aspetto un vassoio con qualcosa da
mangiare: mi viene offerto solo un bicchiere d'acqua. Istintivamente cerco
sotto il sedile il giubbino salvagente: c'è, ma non sorvoleremo il mare. Ed
allora trovo rifugio negli occhi rassicuranti di questi bambini.

L'arrivo all'aeroporto di Minsk è alle due del mattino. Immediatamente mi
colpisce la mancanza di luce e, in seguito, anche quella di taxi.

Il doganiere richiede il motivo del mio soggiorno in Bielorussia: «turismo»?
Rispondo: «affetto». Sì, affetto verso i due bambini che ospito per un mese
all'anno nella mia casa. Non mi capisce. "Sì, turismo". Non si viene qui per
turismo, forse per affari, ma qui non c'è nulla che possa attirare un
turista ed è per questo che non citerò alberghi, ristoranti e nemmeno
monumenti.

Serghiei, l'interprete che mi accompagnerà, mi sta aspettando. La sua
presenza si renderà indispensabile; la lingua inglese qui non ha avuto
fortuna, nessuno la parla e, tantomeno, nessuno la scrive. Poiché le
indicazione dei luoghi sono solo in cirillico senza di lui sarebbe
difficile, se non impossibile, muoversi.

La strada che collega l'aeroporto a Minsk è larga e ben asfaltata, non c'è
traffico ed è buia; sono però le tre di mattina. La capitale sotto l'effetto
delle luci soffuse mi fa una buona impressione: grandi palazzi con facciate
neoclassiche, parchi, lunghi viali ed un fiume che l'attraversa. Una città
decisamente moderna, ma la luce del giorno mette a nudo tutta la realtà.
Scopro che i bei palazzi visti la notte precedente appartengono tutti a
ministeri, KGB, università, banche e Presidenza. Ben diversi sono quelli
dove vive la popolazione: parallelepipedi grigi ed anonimi, ed è sufficiente
guardare le finestre per immaginare l'interno.

Le strade, almeno quelle, rimangono sempre larghe; il traffico, per lo più
costituito da vecchie auto, vecchie corriere e vecchi autobus, non è
certamente caotico ma, nonostante questo, l'aria è pesante.

Ci immettiamo sulla strada M5 che porta a Gomel, 350 km. I cartelli stradali
indicano la velocità massima di 90 kmh; mi aspettavo buche e manto stradale
sconnesso: invece mi devo ricredere. E' già autunno ed i boschi che
costeggiano la strada mostrano i colori più belli: querce, pioppi, aceri,
abeti rossi, macchie rosse e gialle, e poi ci sono le betulle dai tronchi
bianchi. Scopro qui che non deriva da loro il nome Russia Bianca. In verità
su questa definizione, risalente alla metà dell'Ottocento, esistono diverse
interpretazioni: Bianca perché accettò molto presto il cristianesimo; Bianca
perché occupò i territori liberi dall'invasione dei tartari; oppure Bianca
per il colore della sabbia che caratterizza il paesaggio. Scopro anche che
nulla di questo è certo: ma poco importa.

Alternati ai boschi grandi distese pianeggianti di coltivazioni, senza quasi
nulla oramai di coltivato, fatta eccezione per le patate: di cui è ora
momento della raccolta. Mi raccontano che è stata una buona annata, che il
raccolto è abbondante e che i Kolchoz, le fattorie statali, le venderanno a
prezzi più bassi allo Stato tanto bassi che il contadino che ha in uso un
piccolo appezzamento di terreno non riuscirà a vendere le proprie. L'unica
speranza che gli rimane è che, dopo la vendita, il Kolchoz sia in grado di
pagargli lo stipendio in arretrato di tre mesi; uno stipendio magro quello
del contadino, 40.000 rubli in media, circa 18 euro. e sarà la patata che,
distillata, si trasformerà in Vodka e servirà ad aiutarlo a dimenticare la
miseria. La definiscono l'acqua della Bielorussia; è la bevanda nazionale e
viene, infatti, bevuta come l'acqua. Quella buona è inodore, viene servita
in piccoli bicchieri e va bevuta tutta d'un fiato. Guai a lasciarne perchè
quella che rimane porta lacrime. Come l'acqua si beve prima, durante e dopo
i pasti ed anche a colazione. Rifiutare di bere con loro è un'offesa ed
io,forse, qualche volta l'ho fatto.

I palazzoni di Minsk sono ormai lontani; lungo la strada, ai margini dei
boschi, si intravedono, dietro gli steccati, piccole case di legno dai tetti
spioventi, con piccole finestre sormontate da cornici traforate simili a
pizzi. Quasi tutte sono dipinte, e hanno il pozzo dell'acqua sul davanti.
L'azzurro cielo predomina e lo stesso colore lo ritrovo nei piccoli cimiteri
tra gli abeti dei boschi. Azzurre sono le croci, così come i recinti che
delimitano le tombe all'interno dei quali, una panca ed un tavolino
serviranno alla famiglia, nel giorno dei morti, per consumare il pasto.

Guardando queste case mi viene spontaneo pensare a quella di Hansel e Gretel
ma, quando mi avvicino, la fiaba svanisce e tutto il romanticismo finisce
quando vi entro. Un poster gigante, riproducente un camino con cornici e
fotografie sulla mensola, un vaso con i fiori e un quadro, serve a
nascondere le crepe del muro. Una tovaglia nasconde un tavolo sgangherato,
un telo ricopre un divano sfondato ma, quando esci dalla casa per andare al
bagno, non c'è niente che possa nascondere il buco scavato nella terra. Ed
allora forse c'è la vodka che aiuta a nascondere tutto ed a dimenticare
questa miseria senza speranza.

Sono queste le case dei villaggi, prevalentemente in legno od in muratura,
ma senza intonaco. I più fortunati hanno l'acqua corrente in casa, non
certamente calda; qualcuno ha la stufa a legna, altri la legna la mettono in
un piccolo spazio dentro la cappa del camino. Non c'è niente in questi
villaggi: non ci sono negozi, bar e nemmeno una chiesa. Hanno però i boschi,
e sarebbe già qualche cosa se non fosse che, inchiodati ai tronchi degli
alberi, cartelli a fondo giallo con il simbolo delle radiazioni ed il
divieto di accesso, mi ricordano che sono in una zona contaminata.

Presa dalla curiosità, mi ero completamente dimenticata delle radiazioni. E'
difficile pensarci, forse perché non ne avverti la presenza, ma il problema
Chernobyl è sempre attuale e resta ancora da risolvere. Il sarcofago della
centrale nucleare sprofondato di quattro metri è pieno di crepe e buchi dai
quali fuoriescono polveri radioattive ed esiste il rischio di una possibile
reazione a catena a causa dell'uranio tuttora presente all'interno. Non meno
inquietante è la possibilità del crollo del sarcofago, situazione che
provocherebbe un secondo grande incidente. Il problema Chernobyl, ora come
allora, riguarda anche noi e i circa sessantamila bambini che ogni anno
escono dalla Bielorussia per le «vacanze di risanamento» nelle varie nazioni
europee, ci impediscono di dimenticare: ma questo non può bastare. Per
questi bambini il Governo bielorusso prevede il soggiorno di un mese,
definito di riposo, nei loro sanatori, ma molti di essi sono proprio nelle
zone contaminate.

La mia meta si sta avvicinando. Un cartello dal nome impronunciabile indica
che sono arrivata: è qui che vivono i bambini che tanto bene conosco, ma la
gioia non è senza timore ed imbarazzo quando mi invitano ad entrare in casa.
Incontro le famiglie e ritrovo in loro la mia stessa gioia, lo stesso
timore, lo stesso imbarazzo. Speravano che io andassi a trovarli, ma non
credevano che l'avrei fatto. Arrivano i vicini, le maestre. Mi aspettano
nella scuola di Tursk, Gadilovichi ed in quella del sanatorio. E' un tam
tam: è arrivata l'Italiana. Nella scuola di Tursk mi sta aspettando Viktor,
il direttore: mi offre un mazzo di fiori ha grandi mani callose da
contadino, comprendo che tutto era organizzato. Ci sono molti dei bambini
che vengono ospitati a Parma, con le loro mamme. Per l'occasione tutti hanno
indossato l'abito bello: le bambine hanno grandi fiocchi bianchi fra i
capelli e mazzi di dalie in mano. Un maestro suona la fisarmonica ed i
bambini ballano e cantano. Mi invitano ad entrare: c'è povertà, ma dipinta,
anche qui, d'azzurro. Questa povertà non impedisce loro di imbandire la
tavola; tutti hanno contribuito al pranzo e tutti insieme lo consumiamo. Non
c'è più imbarazzo e nemmeno timore parlano, domandano, piangono. Sono felici
ed io con loro.

Sono costretta a lasciarli, mi aspettano nelle altre scuole dove tutto sarà
identico: altri bambini, altre mamme ed altri pranzi. Sorrido pensando alla
mia preoccupazione circa la mancanza di ristoranti nei villaggi. Un ultimo
brindisi, mi chiedono di ritornare, prometto che tornerò. Da svidanja,
«arrivederci»; mi correggono: «a presto». Sì, a presto Belarus; sono stata
felice qui.

Renata Borelli

Comitato di Parma

Fondazione «Aiutiamoli a vivere»

Albertuan au travail

unread,
Dec 22, 2003, 7:30:22 AM12/22/03
to

"ennn" <en...@iol.it> ha scritto nel messaggio
news:bs6hlp$1ei$1...@lacerta.tiscalinet.it...

> Copio incollo dalla Gazzetta di Parma
>

Mi ricorda qualcosa.......................................


--
A1

se sbavi dalla voglia di scrivermi
scarabocchia cosi': sordi[underscore](at)libero.it


marcaval

unread,
Dec 22, 2003, 11:21:30 AM12/22/03
to
ennn ha scritto:

> Copio incollo dalla Gazzetta di Parma

Grazie Maurizio, questa č l'ennesima dimostrazione che a Parma c'č ancora
anche gente che crede nei valori giusti e onesti della solidarietą.
Ti allego questo indirizzo : http://www.geocities.com/casalbarbato/

Ciao Marco

--

questo articolo e` stato inviato via web dal servizio gratuito
http://www.newsland.it/news segnala gli abusi ad ab...@newsland.it


Matteo Grazzini

unread,
Dec 22, 2003, 12:17:51 PM12/22/03
to
Dal sito di Legambiente Prato


di Anna Bardazzi


Introduzione

Quando ho realizzato che sarei partita per la Bielorussia, ho pensato subito
che il miglior modo per lasciare agli altri qualcosa di questo incredibile
viaggio potesse essere solo qualcosa di scritto. Scrivendo ogni sera, in
quei nove giorni, ciò che avevo visto e ciò che avevo provato. Avevo pensato
di portare con me un computer portatile, ma vari problemi logistici mi hanno
impedito di farlo. Così la sera, con tanta buona volontà, mi mettevo a
scrivere su un quaderno. Lo feci le prime due sere a Minsk, ma quello che
scrivevo non mi piaceva poi molto. Ero troppo stanca e una volta in camera
preferivo dormire. La decisione di smettere mi venne imposta da un
improvviso buio. La prima sera a Gomel, ancor prima di andare a letto, venne
tolta la luce, come succede spesso (per una questione di risparmio
energetico, è un fatto amministrativo, non privato). Così mi ritrovai a non
poter scrivere, e non lo feci nemmeno la sera dopo, né quelle seguenti.
Così, tutto quello che troverete scritto qui di seguito, è frutto di ricordi
e di qualche appunto volante. Spero di essere riuscita a descrivere nel
migliore dei modi il mondo bielorusso del dopo Chernobyl. Il mondo in cui
vivono, nascono e crescono i bambini che ogni anno ospitiamo o semplicemente
conosciamo anche per caso sul mare.
Voglio chiedere scusa a coloro che si sentiranno offesi ogni volta che
descriverò qualcosa in modo negativo. Non è mia intenzione offendere, ho
solo cercato di descrivere la realtà così com’è, per far capire meglio a chi
leggerà. Anzi, voglio ribadire che ho un enorme rispetto per i posti e le
persone dove sono stata. Nonostante la povertà e le condizioni di vita non
delle migliori, riescono ad andare avanti in maniera dignitosa e ad essere
spesso meglio di noi, che abbiamo molto più di loro.
Voglio inoltre precisare che quando parlo di “noi”, in riferimento a
donazioni, raccolte e cose del genere, mi riferisco alla sezione di
Legambiente di Prato e a tutte le persone che hanno preso parte al progetto
Chernobyl in tutti questi anni.
Infine, spero solo che il mio messaggio arrivi. Perché il Progetto Chernobyl
vada avanti. Perché nessuno si dimentichi quel 26 aprile del 1986, c’è
bisogno di ricordare e di descrivere cos’è veramente. Io ci ho provato, e il
mio sogno è quello di riuscire a coinvolgere qualcuno. Spero di esserci
riuscita, almeno un po’.

La partenza

Era la fine di gennaio del 1999, quando partirono per quel viaggio che avevo
sognato di fare anch’io. Ma non potevo andare, a soli 16 anni e 8 mesi, con
problemi alimentari e di sonno. Non avrei retto l’emozione, l’impatto con la
nuova realtà, con il dolore, la tristezza, la povertà. Il primo febbraio del
2003 ho vent’anni, otto mesi e 15 giorni, e sto per partire. Sono una donna,
e mi sento finalmente in grado di fare questo viaggio. Non so cosa mi
aspetta, ma il desiderio di rivederli si mescola ad un’ansia pre-volo, alla
paura di star male, alla paura di trovare qualcosa di diverso. Mi sono fatta
un’idea. Tramite i racconti, la storia, le fotografie. Tramite il cuore
della mia mamma, le sue parole, il suo sguardo mentre mi coinvolgeva. Ma
credo che certe situazioni possano essere capite solo se viste con i propri
occhi e vissute sulla propria pelle. Questo viaggio inizia, il primo
febbraio 2003. Sto partendo per Minsk, capitale di quella Bielorussia che
ogni giorno cerca di fare un passo per migliorare ma che resta indietro,
affanna, ansima, soffre. E ci guarda come un bambino di fronte ad un enorme
negozio pieno di giocattoli. Noi siamo la ricchezza, siamo quelli dell’
ovest, siamo gli italiani. Ma soprattutto siamo genitori di bambini che
vediamo un mese, un mese soltanto durante tutta la nostra vita. E che domani
rivedrò ancora, perché finalmente mi sono fatta coraggio e ho deciso di
partire anch’io.

Minsk

In quasi ventuno anni ho già viaggiato abbastanza. Merito dei miei genitori
che mi hanno sempre portato in giro con loro, e merito del mio carattere. Ho
visto paesi, villaggi, spiagge, montagne, campagne, sole, pioggia, ricchi,
poveri. Ma Minsk non è niente di tutto quello che ho visto. Ha l’aspetto
della grande capitale, la forma è quella. Palazzi antichi, ampi viali. Ma
tutto sembra fermo a mezzo secolo fa. Dalla metropolitana ai grandi
magazzini, dai ristoranti alle tradizioni, tutto è surreale perché sembra di
trovarsi in un’epoca ormai lontana e passata.
Per chi arriva in aereo, poi, l’idea c’è subito al primo colpo d’occhio.
Appena entri e stai per passare la dogana, il buio ti assale, una luce
flebile illumina pochi agenti della milizia, un ingresso di marmo sembra
quasi una tomba monumentale di un nostro cimitero. Nell’aeroporto ci siamo
solo noi, pochi italiani che non capiscono la lingua ma che, soprattutto,
hanno le valigie stracolme di sogni e le tasche piene di Euro o Dollari. Se
sei fortunato ti chiedono quanti soldi porti, se non lo sei ti fanno aprire
la valigia, ti fanno tirare fuori tutto e magari si inventano anche il modo
per guadagnare qualche centesimo, raccontando di multe o quote da pagare una
volta entrati in Bielorussia. E questo non perché siano particolarmente
rigidi nei controlli, non perché non riescono a capire attraverso i raggi x
cosa ci portiamo dietro, ma solo perché sperano, sognano, incrociano le dita
perché magari possono trovare qualcosa anche per loro, che tanto a noi
italiani non serve poi così tanto.
L’aeroporto di Minsk è buio, silenzioso e lento. Noi sette, appena arrivati,
siamo pieni di luce, chiacchieroni e agitati.
Le due persone che impareremo ad apprezzare enormemente e di più in tutto il
viaggio sono lì che ci aspettano. Tatiana e Igor, una l’interprete l’altro l
’autista, sono il primo conforto in una città che non assomiglia, se non per
numero di abitanti, a nessuna di quelle a cui siamo abituati.
Per quanto possa sembrare paradossale, per una modica cifra di quasi 27mila
lire al giorno – la calcolai dividendo la spesa totale, comprensiva di
pernottamento, prima colazione e telefonate in Italia dalle camere –
dormimmo per due notti nel miglior albergo di Minsk. In centro, tra il
palazzo del presidente Lukashenko, il teatro ed altri edifici importanti. Un
hotel, dicevano, riservato solo a certi gruppi o a certi personaggi. Quindi
noi eravamo lì come “vip”. L’hotel – dal nome impronunciabile Oktyabrsky -
era alto dieci piani, con una facciata rossa e beige. Le stanze non erano il
massimo, vista la categoria (quattro stelle?) e l’arredamento si potrebbe
anche definire scadente. Ma comunque l’ambiente era molto tranquillo, come
tutto in Bielorussia, e solo il sabato sera, a cena, si sentivano volare le
risate di commensali allegri. E come tutto, di lì a poco me ne sarei accorta
sempre di più, come tutto anche il nostro hotel per vip era incredibilmente
buio e silenzioso. Qualsiasi piano, qualsiasi sala, in qualsiasi momento
(fatta eccezione per la cena del sabato sera, appunto).
Quando andai a dormire, dopo un’esilarante serata in compagnia di donne
bielorusse mangiando caviale e pesce fritto, non riuscivo a chiudere occhio.
E mi stupii, ancora non ero abituata, dell’incredibile calma che avvolgeva
quella città, una capitale con due milioni di abitanti, in un sabato sera
nemmeno troppo gelido. Qualche risata, due auto che passano, ma niente più.
Una delle cose più strane, quando ti trovi a 25 gradi sotto lo zero, è che
non senti freddo. Se c’è il sole, non tira vento e addosso hai un piumino,
sciarpa, guanti e cappello, puoi andare in giro senza rischiare di
congelare. E’ meglio che da noi. Qua l’umidità ti entra nelle ossa e
soprattutto quando si alza il vento stare fuori è terribile. La mia prima
mattina in Bielorussia è stata fresca, assolata e cristallina. Cristallina
perché mi sono girata, ho guardato il sole che mi stavo lasciando alle
spalle mentre camminavo per la strada e ho visto milioni di miliardi di
cristalli di ghiaccio che brillavano nel cielo. Piccoli, piccolissimi, che
soltanto il sole poteva illuminare. L’aria limpida, tersa, era trasparente
davvero. Poi però senti che fai fatica a sbattere le palpebre e ti accorgi
che la colpa è di quei cristalli. Ti si sono attaccati alle ciglia e te le
hanno congelate. E poi i capelli che spuntano per sbaglio dal cappello,
pieni di brina come le auto all’alba. Bianchi come fossi un’anziana, gelidi
e ghiacciati al tatto. Se non fosse per questi piccoli particolari, per le
lastre di ghiaccio che devi stare attento altrimenti scivoli, per i fiumi
ghiacciati, per il fiato stile fumo di sigaro, non ti renderesti mai conto
di quanto fa realmente freddo.
Ma vedere Minsk di domenica mattina, con il sole alto nel cielo azzurro,
senza odore di smog o rumore di auto che passano, è uno spettacolo raro e
rilassante. So che tra ventiquattro ore sarà già tutto diverso, e mi godo la
calma che riesco a cogliere in questa passeggiata.
Tra palazzi antichi, ristoranti dismessi, sottopassi di metropolitane (e
metropolitane) bui, ci sono i grandi magazzini. Non esistono negozi, né d’
abbigliamento né di nessun altro genere. L’iniziativa e la proprietà privata
sono ancora privilegio di pochi coraggiosi o benestanti, che mettono su un
localino al massimo. I centri commerciali, invece, sono palazzoni che dall’
esterno non li riconosci neanche, che hanno scalinate fatiscenti che portano
a piani fatiscenti, dove commesse poco invogliate – sono dipendenti statali,
non puntano al guadagno della vendita – vendono oggetti dai prezzi
bassissimi e dai valori reali più differenziati. Sei bicchierini da vodka,
circa tre euro e mezzo. Una tovaglia ricamata, circa cinque euro. Un
rossetto di una marca straniera, quanto da noi. I gioielli d’ambra, una vera
sciocchezza. Tre collane enormi, e dico enormi, 50 dollari. A Milano ne ho
vista una che da sola costava più di settecento euro. Ti chiedi come possono
vivere così male se la vita costa così poco. Realizzi poi che il loro
stipendio si aggira intorno ai cento, centocinquanta dollari al mese (quando
va bene bene) e ad un tratto ti rendi conto di tutto.
Intanto, al caldo, anzi al bollore dei grandi magazzini, la brina nei
capelli si scioglie, lasciandomeli umidi. E il rimmel mi cala dagli occhi,
come se avessi già pianto.

Minsk – Gomel circa 315 Km (nella neve)

I primi tre giorni di viaggio, intendo da quando siamo partiti dall’Italia,
sono trascorsi molto tranquillamente. Dopo il sabato, è arrivata una
domenica da turisti, in cui abbiamo girellato per la capitale. Con me la
Fiorella e l’Ombretta e Marco, con la Tatiana come insostituibile guida. Gli
altri tre, Massimo, l’Elisabetta e la MariaPia, erano andati in un paese non
troppo lontano da Minsk. Dovevano andare a trovare una famiglia, due
bambini, e non importava che andassimo tutti insieme. Il nostro grande
pensiero, quando facevamo visita ai bambini, era che le famiglie ci
accogliessero con troppa euforia. Troppa euforia che equivale a pranzi
smisurati e soprattutto costosissimi. Non era tanto il fatto di dover
mangiare, bere, rimangiare, ribere (insomma, anche questo ci “spaventava”),
quanto appunto la preoccupazione per le enormi spese che le famiglie
dovevano sostenere per accoglierci nel migliore dei modi. Inutile tentare di
far capire loro che non era certo un pranzo a renderci felici, quanto
piuttosto un abbraccio, uno sguardo ancora o l’affetto di persone realmente
sincere. Per questo quella domenica andarono in tre, per evitare tutto
questo.
Ma fummo fortunati anche in seguito. Il lunedì partimmo alla volta di Gomel,
verso sud. Le temperature erano bassissime e purtroppo la vista era limitata
da un piccolo inconveniente: i vetri del pullman di Igor erano completamente
ghiacciati, dall’interno. A nulla valsero i tentativi con vari strumenti di
rendere la visibilità migliore. C’era un solo punto dove i vetri erano del
tutto scongelati. Il parabrezza ed una parte dei finestrini lato conducente
e lato passeggero. La mia fortuna è stata stare davanti la maggior parte del
tempo, e ho visto, ma visto veramente tante cose.
Ho visto le strade ghiacciate su cui nessuno utilizza le catene. Ho visto i
carri trainati da cavalli, ho visto blocchi della polizia, ho visto gente a
fare l’autostop, ho visto cartelli con falci e martelli, ho visto centinaia
di scritte in cirillico, ho visto camion portare tronchi lunghi il doppio
del mezzo stesso, ho visto sconfinate distese di neve che adesso ne ho la
nausea, ho visto foreste verdi, foreste bianche, ho visto caminetti accesi
in case solitarie, ho visto cani girellare per strada, ho visto persone in
attesa a fermate dell’autobus isolate, ho visto laghi completamente
ricoperti di neve e ho visto fiumi ghiacciati. Di una cosa però non mi
accorsi subito. Quando svoltammo a metà strada per fare una piccola sosta,
entrammo in un bar – così diceva l’insegna – che faceva parte di un
minuscolo nucleo di case. Fuori c’erano cinque o sei cani di tutte le
dimensioni che ci saltarono addosso, in cerca di cibo, caldo e affetto. Una
volta dentro al bar, c’era chi andava in bagno, chi voleva da mangiare, da
bere. Era un posto abbastanza pulito, ma non c’era molta gente. Le uniche
persone erano sedute in una seconda stanza, dalla quale vedemmo uscire una
ragazza molto giovane e dall’aspetto molto povero. Visto che non aveva
calze, ma solo un piumino e un paio di stivaletti, decidemmo di prendere un
po’ di collant che avevamo nel pullman per darli alle ragazze del bar. Per
loro sono un accessorio molto costoso e quindi molto pregiato. Ci sembrò un
gesto naturale, che loro apprezzarono in maniera più che stupita. Ci venne
detto (le due in questione siamo io e la Fiorella), che quel bar dove ci
eravamo fermati altro non era che un casino (nel senso di casa chiusa) e che
le ragazze a cui ingenuamente avevamo regalato le calze erano semplici
prostitute.
Questo fatto mi lasciò pensierosa per tutto il resto del viaggio (anche dopo
ma in maniera più lieve, tutto ciò che ho visto in seguito ha affievolito di
gran lunga questo accaduto). Quella ragazza col piumino era forse anche più
giovane di me. E gli uomini che aspettavano seduti in quella seconda stanza
non erano né facoltosi, né vecchi, né così disperati. L’ambiente era
naturale. Il paese piccolo. A chilometri di distanza non c’era niente. Era
un circolo, qualcosa che ruotava, qualcosa che veniva fatto all’interno di
otto, magari sedici mura, tutto restava in famiglia. E’ una cosa triste,
pensare che quella ragazza non avrà un destino migliore.

Gomel

Gomel è una provincia a sud di Minsk. Non è come la capitale, ma ci sono
molti abitanti e non manca niente. L’aspetto è meno imponente, più “moderno”
, nel senso che mancano i palazzi antichi o comunque ce ne sono ben pochi.
Ma l’atmosfera surreale è sempre la stessa. Forse Gomel è ancora più buia,
perché più trafficata, perché più a sud. Perché la neve per le strade è
sporca e non è candida come quella di Minsk. Perché passi di fronte ad un
edificio, e mentre ti spiegano che è l’università ti chiedi cosa mai di così
sgradevole vi si possa svolgere al suo interno. Gomel è più caotica, meno
silenziosa, più arrabbiata. Si legge bene la povertà, tra le case costruite
con mille sacrifici e i casermoni popolari fatiscenti con migliaia di
campanelli. E’ una provincia strana, dove al supermercato se vuoi del pesce
puoi sceglierlo vivo, ammassato e scuro in un grande acquario dietro il
banco gastronomia. Dove esiste un grande magazzino triste, con poche cose,
con molto caos. Niente signorone impellicciate della domenica mattina, solo
qualche mamma che compra un peluche o qualche figlio che compra il pane.
Vogliamo fare due acquisti, ma non c’è molta scelta. I prezzi sono gli
stessi di Minsk – alcuni anche più alti, almeno per gli oggetti che
interessano a noi, porcellane, vetro, matriosche, ambra – ma i materiali
sono più scadenti e può capitarti che la commessa di fronte ad una tua
richiesta risponda che non ha quello che cerchi, ma che forse – magari –
domani ce l’avrà. I bambini ti chiedono qualche moneta “straniera”, qualche
adulto ti si avvicina speranzoso. Chiedono elemosina, vogliono mangiare.
Donne anziane spalano la neve fuori dall’entrata del centro, altre vendono
stivali coperte con un impermeabile di nylon. Fai una foto, per immortalare
qualcosa che qua non vedrai mai e loro ti guardano in modo strano, come se
si sentissero offese.
Le strade di Gomel non hanno molta illuminazione. Nemmeno i grandi viali che
collegano il centro – quale centro? – alla periferia. Qui ci sono i palazzi
delle case popolari, con le finestre accese, che fanno un po’ di luce.
Altrimenti, in quelle vie dove sorgono piccole casette colorate e curate,
tutto è completamente buio.
Non siamo andati in albergo. Tramite l’associazione collegata a Legambiente
siamo riusciti a trovare una sistemazione migliore. A Gomel c’è un solo
hotel decente (per la nostra concezione di decente), il Turist. Quest’anno
vogliono circa quaranta euro a notte (per persona, ovvio) e a noi sembra
davvero troppo. Tanto più che la struttura non è delle migliori, anzi.
Dicono – chi c’è stato – che sia poco pulito, pieno di prostitute che
cercano di abbordare qualsiasi uomo presente, con camere piccole e male
arredate. E dei turisti se ne approfittano davvero. Per un bielorusso, pare
che costi una cifra irrisoria, tipo un dollaro. Ma a parte questo, il
rapporto qualità prezzo era davvero incredibile ed indecente. Così ci siamo
trovati a dormire – e a vivere – in una casetta davvero niente male. Tutti e
sette, insieme, per i cinque lunghi giorni.
Ma Gomel, per quanto possa apparire cupa e povera, ha anche altri aspetti.
Per me personalmente, uno di sicuro è il fatto che ci viva Elena. Elena è la
seconda bambina che abbiamo ospitato da quando abbiamo aderito al Progetto
Chernobyl. “Bambina” si fa per dire, ormai. Dalla prima volta che l’ho vista
sono passati ben sette lunghi anni – era il 1996 – e adesso è ormai una
donna. Vive a Gomel a casa della sorella, sposata con un bambino di due
anni, in uno di quei casermoni bui e con qualche finestra illuminata di cui
parlavo prima. Ha 19 anni e studia giurisprudenza. Lei occupa la gran parte
di quei motivi affettivi che mi hanno spinto a fare questo viaggio, un po’
per la paura di non vederla mai più, un po’ per i desiderio di riabbracciare
una cara amica. Ma di lei parlerò più tardi.
Gomel ha anche qualcos’altro, che ho scoperto solo alla fine, il giorno del
rientro a Minsk. E’ il parco. Un parco bianco, tranquillo, pieno di vita
espressa in natura. Gli scoiattoli che cercano da mangiare, i corvi giganti,
le donne che spalano la neve attorno agli alberi e ai prati, la chiesa
ortodossa al cui interno si celebrano riti religiosi di tutto rispetto.
Finalmente vedo come anche qui, dove tutto sembra lasciarsi andare agli
avvenimenti, succeda qualcosa di visibilmente bello. Qualcosa che per la
prima volta, dopo cinque giorni in quella città, mi fa pensare che la gente
abbia almeno un pezzo di terra dove rifugiarsi quando il caos, la neve
sporca, le corse al supermercato, le file per prendere l’autobus ti
riempiono la giornata. In questo parco, al cui ingresso sorge una statua
enorme di Lenin, tutto è veramente pulito. Se gli altri posti che avevo
visto fino ad allora mi sembravano rappresentare a pieno quello che nel mio
immaginario potevano essere le conseguenze della fame e di Chernobyl – i
poveri e l’aria, le strade, i palazzi sporchi – appena entrata nel parco mi
sono resa conto che un piccolo pezzo di candore c’è anche qui. Qui non ti dà
l’idea della presenza delle radiazioni nell’aria, qui la gente passeggia,
prega, fa canottaggio su un fiume mezzo (mezzo davvero, proprio a metà)
ghiacciato su una cui sponda altri fanno sci di fondo, qui la gente fa
merenda in un piccolo chiosco caldo, pulito, moderno. E’ stato bello passare
l’ultima mattina del nostro viaggio a Gomel nel parco. Almeno per qualche
minuto – almeno io – mi sono dimenticata le strade buie, le case popolari in
cui sono anche entrata (e quelle sì che per le scale sono buie, sarebbero
rifugio per delinquenti e malviventi), mi sono dimenticata per un po’ di
quegli autobus sgangherati, arrugginiti, di quei tram che facevano
scintille, di quei pulmini ad uso taxi il cui biglietto costa solo 500 lire,
ed ho dimenticato quell’immagine della neve scura e sporca che non avevo
visto a Minsk.
Non avrei mai pensato che, dal lunedì, giorno dell’arrivo, al sabato, giorno
del rientro a Minsk, avrei visto cose, luoghi e situazioni sempre peggiori.
Fu una delle prime cose che disse Massimo. “Da oggi andiamo sempre a
peggiorare”. E aveva ragione.

Vietka

Il martedì è stato il primo giorno di visite. Destinazione Vetka, cittadina
a circa venti minuti d’auto da Gomel, dove abitano i bambini che sono venuti
a Prato nel 1999 e nel 2002, quindi anche quelli più “recenti”. E’ la prima
visita, appunto, quindi soprattutto io, l’Ombretta, Marco e l’Elisabetta, al
nostro primo viaggio, siamo emozionatissimi. Non sai come comportarti, come
reagire quando vedi i bambini, i genitori che ti sei immaginato a lungo,
cosa dire, cosa fare se non ti capisci, ti chiedi se apprezzeranno i regali
che hai portato loro, ti chiedi come sarà la scuola dove studiano, la casa
dove vivono, il paese dove hanno passato fino ad allora la loro esistenza.
Ma ormai nel momento in cui siamo scesi dal pullman e abbiamo messo piedi
sulla nostra prima strada di Vietka, non c’è più tempo per questo tipo di
domande.
Appena entriamo a scuola abbiamo subito l’impressione che qualcosa non vada.
Infatti è così. Nessuno ci aspettava, almeno non per quell’ora. Non è stato
preparato niente, né il tè, né la recita dei bambini, né tantomeno sono
state avvisate le famiglie. La scuola è molto semplice, è l’intervallo, e
ragazzoni quasi maggiorenni si mescolano ai piccoli dell’asilo. La cosa che
ci arriva subito all’occhio – o per meglio dire al naso – è il cattivo
odore. Non c’è il profumo dell’eccessivo deodorante o del dopobarba di
qualche professore, non c’è l’odore di spaghetti o di pollo arrosto. E’ un
odore strano, forse di mangiare, forse di una struttura vecchia, forse è
qualcosa con cui puliscono tipo candeggina. So solo che è l’odore che mi
accompagnerà per tutta la settimana, e che, nel mio immaginario di “turista”
, rimarrà nella mia testa come l’odore di Chernobyl. Lo sentirò ovunque,
nelle case, nelle scuole, negli ospedali, sulle persone, persino nella zona
proibita, che è uno spazio aperto e niente più. E si farà più acuto man mano
che scenderemo verso sud, e raggiungerà il suo punto massimo a Braghin. Ora
che sto qui a scrivere, e ci ripenso, non posso far altro che pensare a
quanto siamo stati stupidi, a volte, insensibili. Soprattutto le prime volte
che ci siamo trovati di fronte a quell’odore. Io davvero non so cosa fosse.
Non mi schifava, anche se in realtà sono molto schizzinosa e sento
particolarmente i cattivi odori. Mi faceva male, perché forse lo associavo
all’odore della morte, della povertà. Forse per me era – ed è – l’odore di
quelle radiazioni che non si vedono ma che ci sono. Nell’aria, nella terra,
nel cibo. Vietka è stato il mio primo vero impatto con ciò che è e con ciò
che ha fatto Chernobyl in questi diciassette anni.
Dopo una lunga attesa nel teatrino della scuola, finalmente fanno entrare i
bambini. Eravamo preoccupati perché ci avevano detto che molti non ci
sarebbero stati, che erano in sanatorio. Alla fine però entrano, piccoli e
dolci, con delle sciarpone tirate sul viso e dei cappotti ingombranti. Ci
sono le bambine della Fiorella, Irina, Alina e Caterina. C’è la mia Dasha,
Sergej, c’è Ilia e ci sono tutti. Le foto, i baci, gli abbracci. Quando sei
lì, dopo che ti sei chiesto cosa fare, come comportarsi, quando sei lì viene
tutto da sé. E ti senti bene anche solo a restare a guardare, ad immortalare
un momento con l’obbiettivo, e in quel momento non c’è neanche più il
cattivo odore, e siamo tutti felici perché per pochi minuti ci passerà di
fronte quel mese che abbiamo passato insieme, e i bambini si rendono conto
che noi siamo lì anche per loro, ma che anche dall’Italia li pensiamo, come
quelli che sono rimasti a casa, che ogni anno scrivono, telefonano, pensano.
E’ bello restare a guardare quello che succede, le giovani maestre contente
che sorridono e ci ringraziano, i bambini che scoprono di essere stati nella
stessa famiglia, l’idea di andare a mangiare tutti insieme.
E’ questo che abbiamo fatto. Ci eravamo preoccupati tanto sul da farsi a
pranzo. Degli inviti a casa che avremmo ricevuto. Ma le famiglie non sono
state avvertite, e a parte i bambini che lo hanno fatto all’ultimo momento.
Non c’è altra alternativa che andare al ristorante. Ci dicono che ce n’è uno
lì vicino, e così, una volta salutati l’Ombretta e Marco che mangeranno da
Ilia e Massimo e l’Elisabetta anche loro invitati in famiglia e dopo aver
aspettato il ritorno della MariaPia che era andata all’ospedale a trovare il
suo bambino con la bronchite, andiamo a mangiare. Una porta molto che a
vederla non dà proprio l’idea di ingresso di un ristorante, un guardaroba
incustodito, una scala e poi la sala. Ci guardano strano, il locale è
praticamente vuoto ed è tardi. Ci uniscono i tavoli, siamo in tredici. Io,
la Fiorella, la Tatiana, Igor, la MariaPia, sette bambini più una mamma. Ci
dicono che hanno un menu fisso e a noi va bene, basta mangiare e passare un
po’ di tempo insieme. Il posto è molto spoglio, si nota bene che la
conduzione è statale. E poi fa freddo. Come nella scuola, anche qui c’è un
gran gelo, tanto che devo pranzare con la sciarpa. Ed è strano, perché in
tutti i locali chiusi c’è molto caldo e non mi è più capitato di soffrire
quel freddo. Forse perché fuori ci sono 25 gradi sotto lo zero e la sala è
troppo grande per essere scaldata da dei piccoli radiatori. Comunque
mangiamo. Antipasto, brodo, carne con contorno, tè e qualcuno panna cotta. I
bambini sono sereni, mangiano con appetito e difficilmente qualcuno lascia
qualcosa nel piatto. Le posate non sono delle più pulite ed il cibo non è
dei più invitanti. Ma non importa. Ci danno da bere un succo di mela gassato
color giallo fosforescente e per me, che di bibite analcoliche me ne
intendo, è qualcosa che non riesco a mandar giù, come il brodo. Ma non
importa. Siamo lì, tutti insieme, e dobbiamo goderci il momento,
probabilmente non ricapiterà più.
Quando usciamo paghiamo il conto, e sono solo 32mila lire. Con quei soldi,
lo stato paga il cibo, lo stipendio e in più ci guadagna. Non riesco a
capire come sia possibile. Intanto è arrivato il momento del primo addio. Se
fino ad allora i bambini si erano un po’ trattenuti, una volta sul pullman
fanno di tutto per dimostrarci il loro amore. Ci mandano baci, ci salutano
con la mano, ci guardano con gli occhi speranzosi di un arrivederci. E’
difficile stare a guardare mentre loro si allontanano. Allora è meglio
girarsi e guardare da un'altra parte, per distrarsi, per far finta che tutto
comunque sia bello. Allora ti giri, per le strade non c’è nessuno, e sei
richiamato ancora dal rumore del pullman di Igor che se ne sta andando.
Guardi, ancora, e ti viene da piangere perché loro non smettono di
salutarti.

Scerstin

Dopo la visita a Vietka facemmo un salto anche a Scerstin. E’ un paesino non
troppo distante, molto piccolo, ma ovviamente c’è una scuola. Quando
scendemmo dal pullman, decine di bambini e qualche maestra ci aspettavano
già all’entrata. Faceva un freddo tremendo e loro stavano lì, immobili, in
attesa di salutarci, con dei sorrisi sinceri che ci scaldarono il
pomeriggio. Ci aspettavano da ore, tanto che ci avevano preparato il pranzo.
A Scerstin Legambiente ha dato dei soldi, circa tre milioni delle vecchie
lire, che sono stati investiti in due computer. Due bei computer che
permettono loro di imparare quel minimo di nozioni, almeno ai più grandi.
Dopo la consueta visita tra le aule ed uno spettacolino in una palestra
niente male, ci portarono in una stanzina dove dei banchini si erano
trasformati per l’occasione in una tavola imbandita. Quello era il nostro
pranzo, il secondo della giornata, che arrivava circa alle cinque del
pomeriggio. Le portate erano tantissime, e a dire il vero anche buone,
sicuramente meglio di quelle del ristorante di Vietka. Ma i piatti in cui
mangiavamo erano di acciaio, come quelli che da bambina usavo per fare i
dolcetti delle bambole, e le posate erano un po’ appiccicose. La nostra
fortuna – se così si può chiamare – è stata che in nelle case e nelle scuole
di quei piccoli villaggi l’illuminazione è una cosa preziosa. Non ci sono
sprechi, e fino al buio totale non vengono accese le luci. Spesso non sono
loro a spegnerle, ma lo stesso Stato che in qualche modo raziona l’energia
elettrica. Così, tra un boccone e un altro, non vedevamo bene cosa ci fosse
in fondo ai bicchierini di vodka, né cosa rendesse appiccicose le posate.
Riuscimmo a mangiare ben poco, anche perché cavolo, polpette, barbe rosse e
pollo non sono proprio il massimo a quell’ora della giornata. Avemmo la
“faccia tosta”, se così si può dire, di chiedere alle gentilissime
signore-maestre se potevamo portare via un po’ di dolce. Loro, sempre
gentilmente, accettarono con entusiasmo e una volta tagliato a fette ce lo
misero in una scatola. Peccato che la scatola fosse quella di un bel paio di
scarpe, compresa di carta in cui avvolgere le fette. Raccontato così, o come
ce lo riraccontiamo noi sette, fa molto ridere. Soprattutto perché ogni
mattina, con quel dolce, preso dalla stessa scatola, ci facevamo colazione e
con gusto. Però se ci si ferma a riflettere sull’umiltà, sull’entusiasmo di
quelle donne (una delle quali, abbastanza sovrappeso, aveva incisivi e
canini d’oro, ed era difficile, anche se cattivo, parlarle senza ridere,
soprattutto quando si mise a cantare) nel regalarci un po’ del loro lavoro.
A quella tavola così povera ma dignitosissima guardavi, ascoltavi, e capivi
quanto fossero felici di averti lì con loro. Non è facile da spiegare,
perché tutte le persone che ci incontravano ci accoglievano con gioia, e
perché può sembrare normale, detto così. Ma quando ti ritrovi abbracciata a
qualcuno che ti ringrazia per quel poco che hai fatto che per loro è un’
immensità, allora ti senti davvero felice, allora capisci che quello che hai
fatto è valso veramente, ma veramente la pena. E’ stata la prima ed ultima
volta in cui abbiamo mangiato in una scuola. Con quell’odore, quel buio, ma
tanti, tanti sorrisi pieni d’affetto.

Novozibkov (Russia)

Il mercoledì partimmo per la Russia. Non c’era il sole, ma io ero
particolarmente felice. Anche se ho voluto infinitamente bene – e continuo a
volerne – a tutti i bambini che ho avuto e conosciuto, la mia piccola Galina
avrà sempre un posto speciale. So che non sono discorsi da fare, e so che
sia io che la mia famiglia non faremmo mai qualcosa a suo vantaggio per poi
svantaggiare gli altri cinque. Ma lei, piccola piccola, con quegli occhi
azzurri, quei dentini in fuori, quel suo modo si sospirare ed i suoi
abbracci lunghi e teneri, spesso mi viene in mente. Rappresenta per me tutto
l’amore, la gratitudine, la voglia di stare insieme, di una bambina di 11
anni nei miei confronti. Io, che sono abbastanza scorbutica, poco
affettuosa, e che con i bambini ho sempre fatto quello che potevo
brontolando ed arrabbiandomi se ce n’era il bisogno, con lei non riuscivo a
dire no. Quando mi chiedeva di portarla in motorino sotto casa, o quando mi
chiedeva di staccarmi dai miei amici per stare con lei. Ti si attaccava alle
gambe, ti stringeva, sospirava ed poi esclamava “Ah, amore”. Ecco, lei
rappresenta ciò che significa per me la dolcezza. So che tutti i bambini
sono dolci, a modo loro, ma lei lo era in modo particolare. E sono stata
felice di scoprire che ancora oggi, a 16 anni, sempre piccolina come una
bimba, non è cambiata per niente. Non è cambiata nell’abbraccio, nel modo di
parlare. Io ho amato tutti i bambini che sono entrati in casa mia, ma lei si
faceva amare, forse perché ha due genitori anziani, forse perché le
ricordavo la sorella maggiore. Ognuno è fatto a modo suo, e il modo di
Galina mi è piaciuto subito.
Quando arrivammo in Russia ci fermammo subito all’hotel. Davanti ad un lago
ghiacciato ( uno spettacolo veramente bello), con qualche stanza e un gran
via vai. La reception aveva delle grate di ferro a disegno floreale, una
poltrona e noi nove, compresi la Tatiana e Igor, che facevamo una grande
confusione. Tutti sapevamo che il 1998, l’anno degli arrivi dalla Russia,
era stato un anno perfetto. Senza problemi né complicazioni. L’emozione
quindi credo fosse molta. Penso che però anche il fatto di trovarsi in quell
’albergo, soprattutto per chi non c’era stato come me, l’Ombretta, Marco e l
’Elisabetta, aumentasse l’euforia. Non per chissà quale motivo, piuttosto
per la fatiscenza della struttura. Era pulito, tranquillo (anche se la notte
sentimmo molti passi in corridoio) ma molto, molto povero. Le stanza erano
su uno stile non ben classificabile, la porta della camera in cui dormivamo
io e la Fiorella non si chiudeva (dormimmo con la porta accostata), nel
letto avevo una macchia enorme, il bagno aveva a malapena un water ed un
lavandino in condizioni abbastanza decenti, la televisione sembrava dover
saltare in aria da un momento all’altro. C’era tutto, in quella camera, ma
non era proprio il massimo. Questo non ci creò certo un problema, visto che
noi non eravamo certo lì per godere dei servizi alberghieri o chissà cos’
altro. Noi eravamo lì per i bambini, i genitori, gli insegnanti che da un
anno, qualcuno anche da più, ci aspettavano a braccia aperte.
Una cosa molto carina che ho visto, sempre se di “cosa carina” si può
parlare, è la pesca sul lago ghiacciato. Non so se fosse precisamente una
pesca, quando andammo in avanscoperta non c’era la Tatiana e quindi non
capimmo una parola. Una decina di uomini, sulla cinquantina, ubriachi al
punto giusto (c’erano alcune bottiglie di vodka sparse in terra) estraevano
dai buchi fatti nel ghiaccio con seghe e fuoco, attraverso un retino
lunghissimo, i vermiciattoli rossi con i quali, poi, avrebbero pescato.
Questa è stata almeno la nostra interpretazione. La cosa carina ci fu nel
momento in cui si accorsero della nostra presenza, del nostro interessamento
e soprattutto del desiderio di fare fotografie che avevamo. Appena impugnata
la macchina, appena messi in posa, ci saltarono letteralmente addosso
volendo comparire a tutti i costi nell’obbiettivo. Fu molto divertente,
perché a prescindere dal tasso alcolico che avevano nel corpo, i pescatori o
futuri tali dimostravano vero entusiasmo, anche troppo (fu difficile infatti
staccarseli di dosso). Fu un modo carino per conoscere la cittadina russa
dopo che erano trascorsi pochissimi minuti dal nostro arrivo.
Novozibkov è diversa dalle città o dai villaggi che avevo visto fino a quel
momento. E’ più solare, all’apparenza meno povera, c’è qualche “negozio”
(almeno mi pare d’aver visto qualcosa di simile passando col pullman), le
chiese, molta gente per le strade, qualche auto in più. La spiegazione credo
stia nel fatto che siamo in Russia, anche se in uno degli angoli più
sconfinati.
Ci sono due scuole dalle quali sono venuti i bambini. La prima sembra
abbastanza grande, davanti ci sono degli orti e delle serre con i vetri
rotti, tutti ricoperti di neve. Entriamo, e ci portano nella classe dove ci
sono una parte dei bambini. Quando varco la porta ho la sensazione che una
donna mi abbia chiamato per nome, ma il mio sguardo cerca quello di Galina.
Non la riconoscevo finché la Fiorella mi dice “Guarda Anna, Galina!”. E io
rimango a bocca aperta. E’ diventata una piccola donna, e si è truccata, si
è tinta i capelli. Per questo non la riconoscevo. Cercavo una testolina
bionda e non la trovavo. Ci siamo abbracciate, poi mi ha presentato la sua
mamma, che ho scoperto essere la donna che mi aveva chiamato per nome. Mi
aveva riconosciuta dalle fotografie. Dopo i primi saluti ci portano a fare
un giro della scuola. Galina non mi lascia un secondo la mano, e a volte la
sento sospirare e penso che non è cambiato proprio nulla, nonostante i suoi
sedici anni ed i miei ventuno. La scuola è grande come sembrava vista da
fuori, ci mostrano le aule e soprattutto i loro vanti: la stanza dei
computer e la piscina. Passando per i corridoi sentiamo l’inconfondibile
odore, che però purtroppo qui si mescola anche al cattivo odore che proviene
dai bagni. E’ difficile trattenere il respiro, non fare versacci, ma guardi
loro e vedi che non battono ciglio e ti rendi conto che ci sono abituati e
che per una volta puoi abituarti anche tu. Ci portano a vedere la piscina. E
’ buia, come sempre, e l’acqua è torba, scura, la cambiano una sola volta l’
anno. Non credo ci siano depuratori, né tantomeno useranno cloro. Solo c’è
molto caldo, lungo le pareti sono affissi dei lunghi radiatori blu che si
intonano con la piscina. Passiamo dagli spogliatoi e vediamo i phon
attaccati al muro con le spine penzoloni e l’aspetto stile anni cinquanta,
arrugginiti e stanchi di essere usati. Vedendo queste piccole cose ti
accorgi di cosa hanno bisogno. I phon, una seggiola, dei cuscini, le casse
per il computer. Tante piccole cose che puoi portare la prossima volta, o
che puoi raccogliere e mandare tramite pacco.
Dopo andiamo nell’aula dei computer. E’ molto bella e anche molto curata. I
computer sono nuovi e hanno l’accesso ad internet. Per ora non tutti possono
utilizzarli o imparare, ma pian piano toccherà a tutti. Dopo la visita ci
carichiamo nel pullman con bambini ed insegnanti, destinazione altra scuola
dove ci aspettano ancora altri bambini.
Questa è una scuola diversa, qui insegnano arte. Gli alunni disegnano,
colorano, scolpiscono, e per farlo pagano un dollaro al mese più le spese
per il materiale. Già questa è una scuola a pagamento. Mentre nelle altre nn
si paga, i libri sono presi “a noleggi” e spesso i ragazzi delle superiori
lavorano la terra (così ci hanno raccontato a Vietka) e i genitori riparano
aule, banchi e sedie, qui invece si occupano solo di arte.
Ci accolgono in un’aula magna, abbastanza grande e carina. Ci sono dei
bambini ormai cresciuti, io riconosco Tamara, che venne sempre nel 1998 a
casa della Fiorella. La prima femmina che ha preso. Dopo un po’, eccoci al
giro della scuola. La differenza con le altre si notava subito, il preside,
i bambini, il modo di lavorare. Tutto era lievemente diverso.
Dopo questo piacevole tour, poi, decidiamo di andare a pranzo. Io a casa di
Galina con la Tatiana, mentre tutti gli altri se ne vanno a casa di un’altra
Galina, l’insegnante. Dicono che non c’è bisogno del pullman, viene il babbo
a prenderci con l’automobile. Quando lo vedo parcheggiato lì, fuori dalla
scuola, mi scappa un sorriso, e scappa anche a tutti gli altri. Non so come
faremo ad entrarci, in cinque adulti. La mamma si posiziona davanti, io e la
Tatiana dietro, io con Galina in collo completamente contorta. E’ buffo ma
anche tremendamente dolce. Quest’uomo, pensionato, con tre figli, due dei
quali studiano all’università di Mosca, con un’auto che solo quattro anni fa
non aveva nemmeno ma di cui oggi va più che fiero. Solo quattro anni fa
perché quando andò la mia mamma, nel 1999, fu l’autobus a portarli a casa,
nessuna auto. Come casa, immersa nella neve assieme a tante altre, non era
male. Soltanto molto, molto piccola. Come tutti i loro edifici c’era una
grande dignità in ogni piccolo angolo. Era la prima casa che vedevo, e non
avevo ben idea di come potesse essere. Un cucinotto-ingresso, un
salottino-ino, una saletta da pranzo e poi penso due camere. Per tre persone
non mi sembrava poi tanto piccola, ma fino a poco tempo fa ci abitavano in
cinque, di cui quattro adulti. Mi resi conto solo dopo di quanto piccole
fossero le stanze e soprattutto le camere da letto di quelle abitazioni. A
malapena ci entravano due letti (se i figli erano due), ma due letti molto
diversi dai nostri. Due letti nei quali devi dormire rannicchiato, dai quali
i piedi ti escono fuori. E ti chiedi com’è possibile dormire in qualcosa
lungo nemmeno un metro e mezzo (quando va bene) e largo nemmeno uno. E non
dormirci una notte, una settimana, ma un’intera vita.
Ci sedemmo a tavola, una tavola molto piccola che non riusciva a contenere
tutte le portate che man mano spuntavano dal cucinotto-ingresso. Galina
seduta su una poltrona, il suo babbo che monopolizza la Tatiana parlando di
politica, io che faccio cenno che il pranzo mi piace, Galina che mi guarda e
sospira. In fondo mi sento come a casa. Quando mi accompagnarono a casa dell
’altra Galina, dove ci aspettavano tutti, il babbo mi baciò e mi ribaciò,
per ringraziarmi, preso dall’euforia, per salutarmi, perché sapeva che non
mi avrebbe più rivisto. La mia mamma mi aveva avvertita: “Da Galina ti
baciano tutti in bocca, anche la babuska”. Io me ne ero dimenticata, e quest
’uomo apparentemente sulla settantina mi baciava cercando di centrarmi la
bocca, e io ignorantemente e un po’ ridendo dentro mi scansavo. Fu molto
comico, ma poi pensai che era una loro tradizione e che come tale forse
avrei dovuto rispettarla. Le donne salirono con noi, la bambina non mi
lasciò, la mamma andò ad aiutare lavare i piatti.
Anche gli altri avevano mangiato molto, l’aria era allegra e spensierata,
fuori era già buio (anche se era molto tardi, considerando che là c’è un’ora
in più rispetto alla Bielorussia e due rispetto all’Italia). Mentre
cercavano di farci mangiare ancora, gli altri decisero di alzarsi e di
andare a casa di una bambina. Io rimasi lì, ero appena arrivata e la figlia
dell’altra Galina voleva conoscermi, perché cinque anni fa le avevo
regalato, tramite sua madre, delle foto di Leonardo di Caprio. Così, con la
mia Galina in una mano, e con Irina da una parte, passai le ultime ore di
quella giornata in Russia. Vennero a riprendermi, parlammo ancora, Igor
bevve una bottiglia di vodka e poi tutti insieme, ma proprio tutti, Galina e
la mamma, Galina e la figlia e il marito, le altre donne e insegnanti,
tornammo verso l’albergo a piedi, dove già si erano fermati i Calissi e la
Fiorella. Tanto per finire in bellezza la serata ci mettemmo a cantare come
pazzi “O sole mio” davanti all’hotel, un po’ per sfogare la tensione di una
giornata tanto piena, un po’ per concludere con una risata. Perché “O sole
mio”? Chiedete e vi sarà spiegato. Ci salutammo e andammo a letto senza
cena.
La mattina poi, alla partenza, di nuovo tutte le donne erano lì ad
aspettarci. Abbracciai Galina per circa cinque minuti di fila, finché la sua
mamma la fece staccare e io mi decisi a montare sul pullman.

Stolbun

Se lasciare Novozibkov mi faceva soffrire, l’idea di andare a Stolbun mi
rallegrava almeno un poco. E’ il villaggio di Elena, e quindi avrei
conosciuto suo padre, il preside della scuola e sua madre, avrei visto dove
aveva abitato fino a due anni prima.
Durante il viaggio, che non durò poi molto e che con l’effetto del fuso
orario (in Russia c’è un’ora in più rispetto alla Bielorussia) sembrò durare
ancora meno, ci fermammo lungo una strada impressionante. Era molto freddo e
tirava un freddo gelido che smuoveva gli alberi. Ci fermammo, appunto, per
respirare un po’ e per qualche scatto in fretta. Davanti a noi c’erano delle
ciminiere, una specie di zona industriale, in lontananza delle persone che
contrattavano. E poi il bianco. Tutto, ma proprio tutto, era ricoperto di
bianco. E quel vento che ti tagliava la pelle e piegava gli alberi, ti
permetteva a malapena di restare in piedi. Mi sembrò per la prima volta,
realmente, di trovarmi nella steppa. Eravamo in un posto desolatissimo, e
quello che ci si prospettava davanti non sembrava tanto meglio.
Arrivati a Stolbun ci fermammo, per fare una foto, in mezzo ad una specie di
rotonda. Premetto che per rotonda intendo uno spazio di manto stradale non
ben segnalato dove il senso di marcia è da scegliere a proprio piacimento.
Ci fermammo perché nel mezzo a questa simil-rotonda c’era un monumento come
tanti ce ne sono in tutta la Bielorussia e nel pezzo di Russia che avevamo
visto. Un monumento ai caduti, credo, dedicato alla vittoria contro i
nazisti che riportava falce e martello, il simbolo del comunismo e la data,
1941-1945. Quando poi vidi le foto del matrimonio della sorella di Elena mi
spiegarono che tutti i novelli sposi di Stolbun si fanno immortalare nel
giorno delle nozze con quel monumento alle spalle. E ovunque, in ogni
paesino, perfino sulle insegne in pietra che segnalano i nomi dei villaggi,
vengono rappresentati quella data e quel simbolo. Portare a casa quindi un’
immagine di qualcosa che faceva e fa ancora così parte della loro cultura ci
sembrò una specie di atto dovuto, per chi condivideva certe idee ma anche
per chi non le aveva mai condivise.
Poco più in là c’era un mercato, dove le solite donnone vendevano generi
alimentari, vestiti, scarpe, articoli per la casa. Non c’erano auto, solo
tanta povertà e tanta gente che doveva comprare da vivere. Nei villaggi non
ci sono negozi, né grandi magazzini, e l’unico modo di fare acquisti senza
spostarsi è quello di comprare alle bancarelle. Donne e uomini coperti con
cappottoni e colbacchi facevano la fila per un pezzo di pollo, per trovare l
’occasione, per cercare di andare avanti. E nella loro quotidianità ci
guardavano con aria attonita. Noi eravamo turisti e stavamo lì a curiosare
della loro vita. Volevamo scattare qualche fotografia (un viziaccio che però
ci ha permesso di documentare benissimo il nostro viaggio attraverso le
immagini) e loro ci lanciarono segnali chiari di disappunto. Così risalimmo
sul pullman e ci dirigemmo verso la scuola. La prima cosa che i “veterani”
mi indicarono, a pochi secondi dal nostro arrivo alla scuola, furono dei
casottini di legno all’aperto. Io molto ingenuamente chiesi cosa fossero, ma
la risposta fu alquanto ovvia e scontata. I bagni. O almeno, i bagni fino a
poco tempo prima, ovvero fino a quando non hanno costruito quelli nuovi, all
’interno della scuola, grazie ai soldi da noi raccolti.
La scuola di Stolbun è più o meno come le altre. Scura, o meglio, buia, e
anche lì c’è cattivo odore. Ma c’è comunque un’enorme differenza. Ha un
preside, senza nulla togliere a tutti gli altri, che si dà da fare in
maniera incredibile. Oltre a mantenere in ordine la struttura – questo lo
avevamo notato ovunque – ci sono tante piccole cose che lo rendono geniale.
Il piccolo museo di scienze naturali, con tanto di animali imbalsamati e
piante secche. Una stanza per dormire con il soffitto decorato in stile
artistico che “allieta il sonno dei ragazzi”, per il quale ha pagato una
multa salata, essendo tali “vezzi” vietati in un edificio pubblico. Un
tavolo per il ping pong, una grande palestra, gli attaccapanni per tutti.
A Stolbun ci accolsero tutti a braccia aperte. Fu nel 1996 che per la prima
volta quei ragazzi vennero a Prato, e adesso sono tutti grandi. Io dovevo
vedere Masha (Elena abita a Gomel), ma non c’era.
In compenso, visitammo qualche aula, soprattutto dei bimbi delle elementari.
Quei visi così innocenti, così piccoli. Una bambina con due stupendi fiocchi
rossi tra i capelli, un’altra con le codine, un’altra ancora con le calze
colorate. E i maschietti, curiosi e vispi come si è solo a quell’età. Ci
fecero anche uno spettacolino, nel teatro della scuola. Un ragazzo delle
superiori ci cantò qualche canzone, aveva una voce molto bella. Tre bambine,
avranno avuto sui sette anni, cantarono altre canzoni per piccoli, e tutto
fu molto divertente. Se ne stavano tutte e tre l’una accanto all’altra,
guardando ovunque ma mai verso di noi, dondolandosi un po’ al ritmo del
pianoforte suonato da una maestra. Mi ricordai così tutti gli spettacoli che
i bambini avevano fatto alla fine del mese di permanenza, e mi si strinse il
cuore.
Dopo la visita andammo tutti (a parte la Fiorella che venne trascinata a
casa da Svetlana, la mamma di Aliosha, il “bambino” oggi 17enne che ospitò
nel ’96) a casa del preside. Finalmente vedevo le quattro mura che per
diciotto anni avevano visto crescere Elena, che la avevano vista nascere,
imparare, parlare, ridere, piangere, dormire. E conoscevo la sua mamma, le
loro abitudini. Avevo modo di parlare, di esprimere l’affetto che provavo
nei loro confronti e di lasciarmi abbracciare e coccolare e riempire di
ringraziamenti. Non sto a raccontare tutto il pranzo, che di per sé fu uno
dei migliori. Mangiammo bene, ma anche il clima fu splendido. Non eravamo
stati mai così tanti in una casa, e tutto filò liscio per tutto il tempo
trascorso a tavola. Ridemmo, qualcuno si commosse di fronte al mio
discorso – come potevo non farne uno, in quella famiglia – ed io guardai ed
imparai ogni minimo angolo di quella casa, per ricordarmi un posto in cui
sempre e comunque mi sarei sentita come a Prato. La mamma mi fece vedere
anche i suoi animali, la mucca, i maiali, i tacchini, i polli, un gattino
rachitico. E’ straordinario rendersi conto di quanto queste persone vadano
orgogliose di ciò che hanno. Non come noi, che roviniamo tutto, che
maltrattiamo gli animali, che non abbiamo rispetto per un muro, un’auto. E
mentre mi guardava scattare foto ai suoi animali, a tutti i suoi averi, io
mi sentivo felice perché sapevo che in quel momento lei mi considerava come
una figlia, una figlia che dopo tanti anni era riuscita ad incontrare. E mi
fece sfogliare album di foto, in cui l’altra figlia si sposava, o in cui
Elena si diplomava. Fu tutto molto bello, forse anche molto sentimentale, ma
andava bene così.
La vacanza stava per finire. Eravamo stati in un villaggio in cui tutti ci
conoscevano, in cui tutti ci volevano bene. Il freddo dei lastroni di
ghiaccio ci aveva bloccato, il vento del nord ci aveva letteralmente
congelati, ma l’amore, l’entusiasmo e la vitalità di quella gente ci sciolse
in pochi minuti.
Nel gelo di una sera di febbraio, lasciammo Stolbun per rientrare a Gomel.
Era la notte prima dell’ultima visita. Il giorno dopo ci aspettava Braghin e
un po’ per la stanchezza, un po’ per l’idea che la fine si stava avvicinando
e un po’ per l’attesa della parte più dura del viaggio, un po’ per tutto
questo la voglia di ridere stava cominciando a diminuire. Eravamo tutti
consapevoli che quella frase, “da oggi andrà sempre peggio”, pronunciata d
Massimo il primo giorno, non era affatto una frase buttata lì, tanto per
fare.

Hoiniki

La giornata di Hoiniki, e poi di Braghin, la ricorderò come una delle
giornate più istruttive della mia vita. Ho imparato alcuni dei valori più
importanti nell’esistenza di un individuo, e questo lo devo a persone che
prima nemmeno conoscevo. I bambini di Hoiniki sono venuti a Prato nel 2000,
anno in cui io riospitai Elena. Per questo non avevo nessuno ad aspettarmi,
al contrario di tutti gli altri. Come villaggio mi diede subito l’
impressione di essere molto povero, particolarmente povero, ed anche poco
ordinato. Sparsi un po’ ovunque c’erano bambini che giocavano o vagavano per
strada come fosse domenica, e l’asfalto, quasi inesistente, era ricoperto di
strati di neve come se nessuno passasse mai a spalare. Anche la scuola non
mi sembrò delle migliori. Non ci fecero fare il solito tour, ma ci portarono
direttamente in un teatrino, dove ci aspettavano i bambini con qualche
genitore. Le maestre ci diedero dei pensierini (a me toccò una specie di
quadretto con raffigurati dei fiori di velluto e plastica) e ci fecero un
discorso di benvenuto. Eravamo visibilmente stanchi, e la giornata che ci si
prospettava davanti non sembrava essere delle migliori. Dopo i saluti, io,
la Fiorella e la Tatiana ci unimmo all’Ombretta e Marco che erano stati
invitati a casa di Ilia. Così ci incamminammo a piedi, visto che il pullman
l’avevano preso gli altri e visto che la casa doveva essere vicina. Tanto
vicina non era. Camminammo per circa venti minuti, ma fu una passeggiata che
a qualcosa servì. Non ero mai stata così a lungo fuori dal pullman in un
villaggio, e passai tra le case guardando per bene. Vedendo come erano fatti
i pozzi da cui ogni giorno tiravano su l’acqua, camminai scansandomi al
passare di qualche carro trainato da buoi o da pony, accelerai il passo per
star dietro a Ilia, tanto timido quanto entusiasta di poter ospitare, anche
se solo per poche ore, i loro secondi genitori. Ilia e la sua famiglia
sarebbero un esempio meraviglioso per tutti. Ancora oggi, mentre scrivo e
quindi ricordo, mi viene da piangere come quando li salutai prima di andar
via. Una casa modesta, in cui ognuno si divide i compiti. Una camera
piccolissima, una cucina che si erano comprati grazie alla vendita di un
vitellino partorito da una mucca comprata grazie ad un regalo dell’Ombretta
e di Marco. Una macchina da cucire ottenuta nello stesso modo, una tavola
piccolissima in cui però entrammo in nove, con i bambini, Ilia e suo
fratello, che si alzavano di continuo per portarci da mangiare, per non
farci mancare mai niente. Avevano cucinato loro, insieme alla madre, e nei
loro occhi, oltre alla bellezza straordinaria che avevano, si vedeva la
timidezza dell’età e la felicità del momento. Quel quadretto familiare mi
rimarrà nel cuore sempre come esempio di grande forza. In cui entrambi i
genitori lavorano per portare avanti la baracca, in cui i figli, tornati da
scuola, aiutano i genitori. In cui ancora i genitori hanno fatto un lavoro
eccellente crescendo i propri figli, e in cui gli stessi figli sanno
ricambiare quelle cure. Dopo il pranzo, fatto di discorsi, di
ringraziamenti, di guance rosse per l’imbarazzo, di cibo delizioso e di
occhi umidi, ci portarono fuori per farci vedere quello che avevano. La loro
mucca, grazie alla quale potevano permettersi qualche spesa in più (vedi la
cucina e la macchina da cucire), gli altri animali, delle corna di animale
trovate dal padre che avrebbero voluto regalare a Marco. Ridevamo, c’erano
tanti abbracci, nei loro occhi si leggevano la soddisfazione e l’amore. Non
andai in bagno, perché mi fecero vedere (la Fiorella e l’Ombretta), un
cabinotto di legno con un buco che dava sulla terra. Non ci andai perché non
ne avevo il bisogno, ma comunque mi fece un po’ effetto pensare che quello,
per 365 giorni l’anno, rappresenta quello che noi abbiamo al chiuso della
casa, al caldo d’inverno e al profumo d’estate. Penso all’acqua corrente
della doccia, a quante volte mi lavo le mani durante la giornata, anche con
l’acqua calda, penso alle docce che mi faccio, ai lunghi bagni. Penso a
quanto sono fortunata, e mentre salgo sul pullman, e bacio Ilia, la sua
mamma, il suo fratellino, il suo papà, ho tanta voglia di piangere. Ho visto
una famiglia degna di essere chiamata tale, che va orgogliosa di una mucca e
che vive in completa armonia nonostante le sfortune che la vita le ha
portato. Nonostante la povertà, nonostante Chernobyl, loro sono una vera
famiglia, e questo credo sia davvero esemplare.

Braghin

Dopo il pranzo un po’ “così” di Hoiniki a casa di Ilia, dove eravamo stati
incredibilmente bene da stare male, non ci andava nemmeno tanto di parlare.
Tanto più che poco tempo dopo saremmo stati a Braghin quindi ci saremmo
avvicinati alla zona proibita, e quindi anche a Chernobyl. Il sempre peggio
si stava avverando, e nell’aria si sentiva benissimo. Arrivammo a Braghin
nel primo pomeriggio e ci fermammo in una specie di sede distaccata della
scuola. Non avevamo la visita all’ospedale, forse per fortuna, e ci
risparmiammo molte angosce, almeno credo. Ci accolsero delle insegnanti, che
dopo i soliti convenevoli ci portarono a visitare la vera scuola. Ci
raccontarono cos’era Braghin prima di Chernobyl e cos’è adesso, anche se si
poteva vedere benissimo anche stando in silenzio. Tutto era veramente
spoglio e a giro non c’era nessuno. La cosa che mi colpì di più, anche se mi
duole ammetterlo, fu l’odore che avvertì appena entrata nella scuola. Era
così acuto, come mai l’avevo sentito in nessun posto fino ad allora, che a
qualcuno venne anche il gesto di tapparsi il naso. Io la interpretai in modo
molto ingenuo e forse fantasioso: più ci avvicinavamo alle zone della morte,
più quell’odore si faceva intenso. E lì era davvero insopportabile. Tanto
più che ci tennero molto nella scuola, a vedere palestre, mense, aule.
Avevamo perfino paura che calasse il sole e che, di conseguenza, non
potessimo più visitare la zona proibita. Ma dopo un po’ ripartimmo, ed una
insegnante venne con noi. Ci fermammo in una piazza, di fronte ad un
edificio, ed aspettammo parecchio tempo. Pensammo a dei problemi, e così fu.
Non ci avevano accordato il permesso per entrare, così in via eccezionale
potevamo visitare solo la parte iniziale, quella che dalla sbarra porta a
qualche centinaia di metri più in là (forse un paio di chilometri o poco
più, non saprei).

La zona proibita

Fu una delusione non poter andare troppo in là. Ma quei pochi metri mi hanno
comunque lasciato un’idea chiara di cosa era quel posto. E’ la zona più
colpita, adiacente a Chernobyl, al confine con l’Ucraina, che venne fatta
evacuare solo tre giorni dopo l’esplosione del reattore. Centinaia di
famiglie hanno perso una casa, molte persone di lì a poco hanno perso la
vita. Altre sono tornate per non rimanere per la strada e si sono ritrovate
a vivere di nascosto per non essere scoperte.
Quello che ho visto in un’ora là dentro, penso sia quello che c’è nell’
immaginario di ognuno di noi quando si parla di città fantasma, di case
abbandonate, di deserto e disperazione. Sembrava la scena di un brutto film,
un film che parla di morte, di povertà che genera povertà, di dolore, di
famiglie distrutte, di vite spezzate, di sogni infranti.
Descrivere quello che ho visto è difficile, molto. Perché tutto sembrerebbe
meno peggiore di com’è realmente. Case abbandonate, strade cancellate da
diciassette anni di niente, pozzi distrutti, tetti crollati. E poi qualche
scarpa qua e là, una teiera arrugginita, una lampada a olio, qualche
straccio, porte rotte. Gli alberi spogli, l’aria scura, i cavi della luce
tagliati, l’orizzonte offuscato, le erbacce contro cui devi lottare per
farti strada. Un monumento blu e rosso, con la solita data 1941-1944 ci
ricorda che anche lì c’era un paese. E se provavi a chiudere gli occhi e ad
immaginarti come poteva essere quel posto prima del 26 aprile 1986, non ci
riuscivi davvero. E poi quel silenzio agghiacciante. Volevamo parlare, per
interromperlo, ma non riuscimmo. Non ci venivano le parole. Increduli,
spaventati e soprattutto tristi, scattammo qualche foto, rimanemmo immobili
a guardare quello che in fondo rappresentava ciò che avevamo fatto, noi di
Prato come molti altri in Italia ed in altri paesi, fino ad allora a favore
della causa Chernobyl. Quello era il nostro motivo, quello che tante persone
non conoscono nemmeno e che nemmeno si immaginerebbero. Il 7 febbraio del
2003 posso dire di aver visto cosa significa la morte e cosa porta nella
vita della gente. E, anche se sembra scontato detto così, non mi è piaciuto
per niente. Ho visto una delle cose più brutte che esistano al mondo. Ho
visto la fine di centinaia, di migliaia di innocenti per mano di qualcosa di
indefinibile. Di quella nuvola che ancora oggi fa del male e che ne farà
ancora e ancora e ancora.
Quando venimmo via dalla zona proibita, il cielo era giù buio. Il nostro
viaggio era praticamente finito, e adesso volevamo solo tornare a casa.
Durante il viaggio nessuno disse niente. Forse per la stanchezza o per la
tristezza, forse per entrambe. Fatto sta che, vedendo dormire tutti, ma
proprio tutti, decisi di scrivere due cose. Perché l’emozione di quel
momento non svanisse mai.

“E’ stata la prima volta in cui, durante tutto il viaggio, nessuno ha voluto
parlare. Così, in silenzio, tutti si sono lasciati addormentare. Dietro di
noi qualcosa che un tempo era veramente bianco. Oggi la neve, attraverso i
vetri delle case abbandonate, mi è sembrata crudele. Ma so che la colpa di
tutto questo non è sua.”

Non so quanto tutto questo sia comprensibile. Ma è come mi sentivo in quel
momento. Gomel si riavvicinava, la sera avrei cenato con Elena, sua sorella,
suo cognato ed il suo nipotino, ed anche gli altri avrebbero visto persone
care. Ma l’immagine di Braghin e della zona proibita, erano qualcosa di
tremendamente brutto da ricordare, ma anche di tremendamente difficile da
dimenticare. Soprattutto in un pullman in cui tutti dormono ed il silenzio
non è mai abbastanza zitto.

Il rientro

La mattina del sabato partimmo per Minsk. Ci lasciavamo dietro, oltre al
buio di Gomel, cinque giorni di lacrime, risate, abbracci, amore, regali,
pranzi, freddo. E salutammo quella città nel migliore dei modi, vedendo il
suo parco. Quella che era stata la nostra vita per centoventi ore adesso
cambiava di nuovo all’improvviso. E mi sentivo come quando stavo per
prendere l’aereo, come quando ero nervosa per la partenza. Adesso volevo
solo tornare a casa, riabbracciare i miei genitori, dormire nel mio letto,
parlare con le persone che erano la mia vita normale. Volevo solo
raccontare. Raccontare con le parole, con le foto, più di duecento. E
scrivere. Volevo correre a casa per scrivere, avevo paura che svanisse
tutto. Ma mentre lo pensavo, mi rendevo conto che non era possibile. Che
quei giorni in Bielorussia sono e resteranno uno dei momenti più intensi e
più significativi della mia vita.
Il viaggio per Minsk fu più breve che all’andata, o almeno mi sembrò così.
Era caduta molta neve, soprattutto quella notte, e ovunque era tutto bianco.
Ci fermammo in un’abetaia e lo spettacolo che avevamo davanti superava di
gran lunga la nostra immaginazione. Era veramente tutto bello. E come fui
felice di salutare Gomel vedendo il suo parco, fui felice di salutare le
campagne bielorusse, quelle strade su cui avevo passato ore e ore in su e in
giù per villaggi, con quella vista così candida, armoniosa e serena.
E a Minsk fu lo stesso. Tutto era bianco. Tutto sembrava più bello grazie
alla neve. Passammo un sabato all’insegna della malinconia, conoscemmo i
figli della Tatiana e di Igor e la domenica mattina partimmo.
Fu difficile lasciare Minsk.

L’ospedale di Gomel

Ho voluto lasciare alla fine l’ospedale di Gomel, perché volevo che vi fosse
posta un’adeguata attenzione. Quello che ho visto e che ho provato la sera
che ho visitato l’ospedale di Gomel non è facile da raccontare. Ci andammo
dopo Vietka, e ad attenderci c’era il medico che un tempo era primario del
reparto di pediatria. Adesso non lo è più, perché purtroppo ha avuto dei
problemi di salute. Dopo le presentazioni, i ringraziamenti e le
comunicazioni riguardanti le due culle termiche in arrivo da Prato
(acquistate grazie alla raccolta di fondi), il dottore ci portò a fare il
consueto giro. Ma qui non eravamo in una scuola. Non c’erano bambini che
disegnavano. Non c’erano teatrini e spettacoli. Non c’erano mense colorate.
C’erano solo tanti bambini malati, piccoli, alcuni a letto, in letti
talmente piccoli da farci entrare a malapena un ragazzino di massimo otto
anni. Ho visto una bambina che sembrava in miniatura, con delle gambe corte
e magrissime, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. L’odore, quell’
odore, c’era anche lì, e si mischiava ai medicinali e al cibo da ospedale. I
corridori erano bui, ma letteralmente bui. Le autoambulanze erano dono di
associazioni sparse per l’Europa, tedesche, italiane. I bambini erano
tristi, alcuni sorpresi, alcuni ignari. Prendevano le nostre caramelle con
la golosità dell’infanzia. Ora più che mai mi riesce difficile trovare le
parole per descrivere quel posto. E perché, mi hanno detto, non ho visto il
reparto di neonatologia. Non credevo che in un paese così vicino a noi, in
una città più grande di Prato, potesse esistere una situazione tale. E non c
’è sporcizia, o degrado, o chissà cos’altro. C’è semplicemente povertà. E in
più tanti bambini malati. Malati di cuore, soprattutto.
Se penso che due cullette termiche sono costate ben quattordici milioni
delle vecchie lire, e se penso a quanto è difficile fargliele avere, mi
sento veramente inutile. Io che mi lamento del mio ospedale, che mi lamento
per una fila al pronto soccorso. Io che ho la salute, che ho i soldi per
curarmi, che ho una struttura che può curarmi. Adesso capisco come mai i
bambini, una volta arrivati in Italia, vengono sottoposti a visite e
controlli e nell’eventualità anche a cure. Ora capisco quanto questo sia
utile, e almeno un po’ mi torna il sorriso.

Ringraziamenti

Ho deciso di inserire una serie di ringraziamenti, per chi ha reso possibile
questo viaggio e ha contribuito alla sua buona riuscita. Perdonatemi se mi
dimenticherò di qualcuno. Farò il possibile per rammentare tutti, ma non so
se ne sarò capace.
Grazie ai miei genitori, che mi hanno accontentato. Alla mia mamma che mi ha
consigliato e che mi ha fatto capire quale fosse il momento giusto per
partire e al mio babbo che ha accettato, anche se un po’ titubante, ed ha
deciso di investire un capitale per permettermi di fare questa meravigliosa
esperienza.
Grazie a Massimo, Elisabetta, Fiorella, Maria Pia, Ombretta e Marco. Perché
sono stati compagni di viaggi incredibili, perché nonostante fossi la più
piccola non mi hanno mai trattata come tale. Perché non mi sono mai sentita
a disagio, perché con loro ho condiviso momenti unici. Per le lacrime e per
le risate, per i rimproveri ed i sostegni. Siete stai grandi.
Grazie a Tatiana, che ci ha accompagnato e tradotto per nove lunghi giorni.
Che ha saputo ascoltare le nostre lamentele, ridere alle nostre battute,
cogliere ogni piccola sfumatura. Perché non ci ha fatto mai mancare niente e
perché ci ha sempre fatto trovare tutto perfetto.
Grazie a Igor, che ci ha guidati per nove lunghi giorni. Ci ha portato
ovunque, ci ha fatto da interprete pur non parlando italiano, ci ha fatto
ridere da morire, ci ha portato le borse della spesa, ci ha consigliato cosa
comprare e ci ha presentato due delle bambine più belle del mondo, le sue
figlie. E perché è riuscito a non arrabbiarsi nemmeno quando ha dovuto
smontare completamente lo sterzo del pullman dopo che la chiave si era rotta
nella toppa.
Grazie a tutte le insegnanti, collaboratrici, gli insegnanti, i presidi, le
presidi e tutti coloro che fanno parte del personale scolastico di Vietka,
Scerstin, Novozibkov, Stolbun e Hoiniki. Per la disponibilità, l’affetto
dimostrato, l’entusiasmo e i mille preparativi.
Grazie alle famiglie di tutti i bambini. Che abbiamo conosciuto, che ci
hanno ospitato, che ci hanno offerto il pranzo, la cena, che ci hanno fatto
passare del tempo con i loro figli, che ci hanno mandato baci, saluti,
lettere.
Grazie a tutti i bambini che ci hanno accolto a braccia aperte, che hanno
cantato per noi, che hanno pianto, hanno gioito per una foto, per un regalo.
Grazie a Legambiente, che a Prato porta avanti ormai dal 1994 questo
bellissimo progetto, che ogni anno aiuta decine di bambini, che regala un
sogno alle future generazioni di una terra distrutta.
Grazie a tutte le famiglie italiane che hanno voluto ospitare anche solo per
una volta un bambino.
Grazie a tutti coloro che pur non ospitando nessuno hanno contribuito e
contribuiscono a portare avanti il progetto e a far stare bene i bambini
lontani da casa.
Grazie a Matteo, infine, perché mi fa venire voglia di scrivere e perché mi
ha sorretto prima, durante e dopo il viaggio.


saver

unread,
Dec 22, 2003, 4:41:14 PM12/22/03
to

"ennn" <en...@iol.it> ha scritto nel messaggio

...


> IL RACCONTO DI UNA TOCCANTE ESPERIENZA

[...]

Grazie per questo racconto Maurizio.
un caro saluto.
Saverio

Anna

unread,
Dec 23, 2003, 8:46:40 AM12/23/03
to
"ennn" <en...@iol.it> wrote in message news:<bs6hlp$1ei$1...@lacerta.tiscalinet.it>...

> Copio incollo dalla Gazzetta di Parma
>
> saluti
> maurizio
>
> -------------
Il mio ragazzo ha inoltrato tutto il mio racconto, che, ahimé, è anche
troppo lungo per essere letto in questa sede. Spero comunque che possa
arrivare all'autrice di quello da te inserito, per condividere
un'esperienza a dir poco unica.
Sono disponibile per scambi di opinione.
Grazie ancora per aver ricordato cosa sia Cernobyl e cosa possa
significare aver visto con i propri occhi.
Buon Natale e buon anno
Anna

ennn

unread,
Dec 23, 2003, 9:51:13 AM12/23/03
to
> Il mio ragazzo ha inoltrato tutto il mio racconto, che, ahimé, è anche
> troppo lungo per essere letto in questa sede.

Ciao Anna,
io l'ho molto gradito e non penso di essere stato l'unico :-)

>Spero comunque che possa
> arrivare all'autrice di quello da te inserito, per condividere
> un'esperienza a dir poco unica.

Se vuoi inviarglielo penso che lo possa ricevere all'indirizzo del Comitato


di Parma
Fondazione «Aiutiamoli a vivere»

pa...@aiutiamoliavivere.it
indicando appunto che è per Renata Borelli
http://www.aiutiamoliavivere.it/


> Sono disponibile per scambi di opinione.
> Grazie ancora per aver ricordato cosa sia Cernobyl e cosa possa
> significare aver visto con i propri occhi.

Se avro' bisogno di Info pratiche sicuramente ti terro' presente come
riferimento.

> Buon Natale e buon anno
> Anna

Altrettanto a Te, e ancora grazie per il bel racconto.
:-)

maurizio

Una Sorella

unread,
Jan 5, 2004, 1:16:09 PM1/5/04
to
On Mon, 22 Dec 2003 11:38:58 +0100, "ennn" <en...@iol.it> wrote:

>Copio incollo dalla Gazzetta di Parma
>
>saluti
>maurizio

Da poco più di un anno sono legalmente un'orgogliosa sorella di due
ragazzi bielorussi....legalmente perchè oramai da 9 anni, cioè dalla
prima volta che li abbiamo ospitati in casa nostra, lo ero già nel
cuore.
Non ho avuto ancora la fortuna di visitare il loro paese, ma l'ho
vissuto soprattutto attraverso il racconto dei miei genitori ed è
impressionante quanto i racconti le sensazioni che prova chi va in
Bielorussia si rassomiglino così tanto.
Quello che noi diamo a loro non rappresenta neanche un centesimo di
quello che questi ragazzi danno a noi, in termini di affetto ed
insegnamento di vita.
Mi fa piacere vedere pubblicizzate queste asociazioni che si occupano
di offrire a ragazzi davvero bisognosi una vacanza terapeutica e
l'amore di una famiglia (sono molti purtroppo a non averlo).
Un saluto,

Una sorella come tante

Anna

unread,
Jan 6, 2004, 7:43:53 AM1/6/04
to
Carissima sorella, se vuoi e se me lo permetti posso chiamarti anch'io
così. Io ospito sempre ragazzi diversi, in genere femmine (una volta
ho fatto tornare una ragazza e una volta ho ospitato un maschietto) ma
è proprio vero che ti entrano nel cuore fino a farli diventare parte
di te. Sono ciò che di più caro porto dentro, perché mi hanno
insegnato l'amore, perché visitando le loro case ho capito cosa
significa vivere. A meno 25 gradi i loro abbracci mi hanno scaldata, e
non importava se li conoscevo o se li incontravo per la prima volta.
Il popolo bielorusso è ciò che di più bello ho incontrato viaggiando.
Ti consiglio vivamente di andare da loro, nelle loro scuole, nelle
loro case. Ti tratteranno come una regina, piangerai a dirotto,
sognerai di non lasciarli più. Ci tornerei adesso, se potessi, ma ho
21 anni e per ora non posso permettermelo economicamente.
Ma davvero, se devi scegliere tra un'isola calda e la caotica Gomel,
ti consiglio quest'ultima, almeno una volta. E ti consiglio Vetka,
Stolbun, Hoiniki, Braghin. Se poi decidi di non partire, o comunque di
aspettare, puoi sempre leggere "Preghiera per Cernobyl", di Svetlana
Aleksievic. E' una scrittrice bielorussa che dà voce alla sua gente.
Posso chiederti di dove sei? Io di Prato.
Ti auguro buona fortuna, a te e ai tuoi fratelli.
Un abbraccio, Anna

Una Sorella

unread,
Jan 7, 2004, 3:28:10 PM1/7/04
to
>Se poi decidi di non partire, o comunque di
>aspettare, puoi sempre leggere "Preghiera per Cernobyl", di Svetlana
>Aleksievic. E' una scrittrice bielorussa che dà voce alla sua gente.

Grazie del suggerimento, non l'avevo mai sentita prima d'ora.

>Posso chiederti di dove sei? Io di Prato.

Vivo a Roma

>Ti auguro buona fortuna, a te e ai tuoi fratelli.
>Un abbraccio, Anna

Grazie Anna, buona fortuna anche a te per tutto quello che fai e farai
per i "nostri" fratelli :-)

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