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Tra Battisti e gli ultimi Beatles

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Jun 19, 2020, 8:30:04 AM6/19/20
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Tra Battisti e gli ultimi Beatles anche l'ossessione mundial finì in hit
parade

Il 1970 fu un anno di passaggio sia per la canzone italiana, in cui
convivevano i successi di Morandi, Nicola Di Bari e Guccini; sia per
quella internazionale tra rock e disco. Ma fu Fausto Cigliano con
"Ossessione 70" a trasformare quella nazionale in un tormentone nostalgico
“Domenghini e Mazzola, Boninsegna e Rivera/in panchina, in panchina, con
Zoff”. A pochi giorni dalla conclusione della spedizione messicana della
nazionale italiana, Fausto Cigliano lanciava un inno – tormentone
intitolato non a caso Ossessione ’70. Una bossa nova che celebrava le
imprese degli uomini di Valcareggi e che conteneva già il germe della
nostalgia per una stagione irripetibile e, soprattutto, per una partita
come Italia – Germania 4 a 3, sublime rappresentazione dell’epica
calcistica. Così, in mezzo ai successi della stagione, si infilava anche
questa cantilena un po’ scherzosa e un po’ malinconica che
inconsapevolmente preannunciava la poderosa accelerazione del pallone
nell’immaginario collettivo del Paese che nel giro di qualche anno
avrebbe sostituito le vite dei calciatori a quelle delle teste coronate,
degli attori, dei cantanti e dei divi tv nei sogni da rivista popolare.

Una sporcatura, quella lanciata da Cigliano, in una liturgia musicale
segnata settimanalmente dalla hit parade e celebrata alla radio dalla
voce di Lelio Luttazzi, testimone della trasformazione del gusto
popolare dal beat dei primi anni 60 all’avvento di rock e cantautori.
L’Italia, in quei mesi (diciamo fino alla finale col Brasile e poco
oltre), era ai piedi di Lucio Battisti: all’inizio dell’anno la canzone
più acquistata era Mi ritorni in mente, mentre nei giorni del mondiale
dominava la classifica l’amore disperato di Fiori rosa, fiori di pesco,
un 45 giri che sul retro ospitava Il tempo di morire con la sua
scandalosa richiesta: una moto in cambio di un sì.

Un balzo lunare per un Paese dove la censura interveniva con
imbarazzante frequenza in tutto il mondo dello spettacolo. Ma in quei
mesi, a parte la fuga in avanti verso i sapori internazionali (lo
spirito del tempo, verrebbe da dire, con le proposte dalla periferia
dell’impero) segnata da Venus degli olandesi Shocking Blue, dai favolosi
Beatles con Let It Be, che però il 10 aprile annunciarono al mondo la
fine della loro corsa, e dai greci Aphrodite’s Child di Demis Roussos e
Vangelis con It’s Five O’Clock, la tradizione nostrana trovava comunque
uno spazio rilevante: i classici di quel primo semestre 1970 erano Ma
chi se ne importa di Gianni Morandi, vincitore di Canzonissima, La prima
cosa bella di Nicola Di Bari, brano secondo classificato a Sanremo, e
Chi non lavora non fa l’amore, trionfatore proprio al festival tra
feroci polemiche per il testo del brano, che sembrò controcorrente
rispetto alle lotte sindacali di quel periodo.

A breve sarebbero saliti al n.1 della hit parade Renato (dei Profeti)
con Lady Barbara, Domenico Modugno con La lontananza e di nuovo Battisti
con Anna. Ma l’abitudine a guardare e ascoltare fuori dai confini si
confermava con il successo degli irresistibili Mungo Jerry con In The
Summertime, di Sympathy dei Rare Bird e di nuovo degli Aphrodite’s Child
con Spring Summer Winter and Fall.

Ma i cambiamenti degli anni 60 rispetto alle modalità di ascolto della
musica e alla sua funzione sociale e culturale avevano radicato
l’abitudine di andare oltre l’usa e getta del 45 giri: il 33 giri era
entrato nella case con grande veemenza. E quella del 1970 era la
stagione di Due anni dopo di Francesco Guccini, che a fine anno
raddoppierà con L’isola non trovata; di Gabriella Ferri, che con il suo
disco omonimo si imponeva sempre più come la vera innovatrice della
tradizione romana; e di Domenico Modugno, che trasformava La lontananza
anche in un Lp.

L’onda lunga del rock internazionale stava intanto arrivando in tutta la
sua potenza: il 1970 è l’anno di Bitches Brew di Miles Davis, un
passaggio fondamentale per tutta la musica del Novecento. Al momento non
se accorsero in molti, soprattutto in Italia, ma la scia di
quell’intuizione è arrivata fino a noi. E a proposito di cantautori, in
quei mesi uscivano Deja vu di Crosby, Stills, Nash & Young, un disco che
avreste potuto trovare in qualsiasi casa, Sweet Baby James di James
Taylor e Ladies of the Canyon di Joni Mitchell.

I futuri fan dell’hard rock si innamoravano di In Rock dei Deep Purple
(era il disco di Child in Time), quelli del progressive di In the Wake
of Poseidon dei King Crimson, quelli del cantautorato esplosivo di Elton
John con un pezzo guida come Your Song, quelli del rock già classico di
Moondance di Van Morrison, di Live at Leeds degli Who, di Morrison Hotel
dei Doors e di Band of Gypsys di Jimi Hendrix, impegnato nella sua
purtroppo incompiuta trasformazione. Da lì a fine anno sarebbero
arrivati Atom Heart Mother dei Pink Floyd, All Things Must Pass di
George Harrison, After the Gold Rush di Neil Young e Trespass dei
Genesis. Gli anni 70 erano arrivati.

Quella era anche la stagione dell’ultimo epitaffio dei Beatles, l’album
Let It Be, pubblicato dopo mille traversie e con uno scioglimento
traumatico e ormai inevitabile, e quella di ABC dei Jackson 5, dove già
spiccava la figura di un bambino capace di focalizzare su di sé
l’attenzione di tutti: Michael Jackson. Finiva un’epoca e si entrava
direttamente in un’altra.
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