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[cit] "La persona depressa" di D.F. Wallace

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Davide Pioggia

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Jan 11, 2003, 2:44:36 PM1/11/03
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Riporto qui di seguito parte di un racconto di David Foster Wallace.

Il racconto, che si intitola "La persona depressa", fa parte della
raccolta "Brevi interviste con uomini schifosi", pubblicata in Italia da
Einaudi.

Wallace ha un modo talmente particolare di presentare la psicologia dei
suoi personaggi che qualunque introduzione tesa a dare spiegazioni non
può che disturbare la lettura è privarla dei numerosi "livelli" che essa
può offrire.

Sarebbe quindi opportuno evitare qualunque introduzione (come quella che
sto scrivendo) e lasciar parlare l'autore. Se non fosse che egli
possiede una tale capacità di "spellare" i suoi personaggi che
qualcuno - che si trovi in una condizione psicologica particolare o non
sia abituato a certe forme stilistiche - potrebbe risentirsi, in
particolare qualora si trovasse a riconoscere in sé alcuni aspetti
caratteriali di questi personaggi, o qualche altra affinità.

Questo esito a mio avviso sarebbe fuorviante, perché frutto di un
approccio riduttivo alla lettura di Wallace. Lo scrittore non cerca di
stabilire chi ha "ragione" e chi ha "torto", ed il sarcasmo - a tratti
feroce - con cui esamina la persona depressa non viene risparmiato a
nessuno: né ai terapeuti, né alla famiglia.

Ciò che egli cerca di fare è - a mio avviso - di eliminare da tutta la
situazione quella coltre di buonismo che, nell'istante in cui assegna i
certificati di vittime e carnefici (o traumatizzati e traumatizzatori)
ai vari attori della scena, impedisce loro di uscire dai loro ruoli, e
di sostituire alle figure fantastiche e mitologiche del Bene e del Male
delle *persone reali*.

Ad esempio su questo ng si "affacciano" spesso persone che si trovano
quotidianamente ad attraversare il buio della depressione.

Come è noto, non è facile né aiutare chi si trova in queste condizioni
né aiutar-si quando vi ci si trova. Un passo importante e decisivo può
essere forse il fatto di riuscire ad entrare in contatto con tutta la
"violenza" che avvolge questi stati d'animo. Tutta.

Di solito la persona depressa è in grado di sentire vivamente la
violenza che il mondo esercita o ha esercitato su di lei. Ma
difficilmente riesce a percepire che il "nemico" è (anche) "dentro". E'
solo entrando in contatto (anche) con la *propria* violenza che si può
tentare di interrompere quel circolo vizioso che fa percepire tutto ciò
che ci viene fatto come un atto violento, percezione che a sua volta
genera risentimento e violenza.

Ciò non esclude che "abbiano cominciato loro". Ma se non si vuole
affondare forse si potrebbe prendere in considerazione la possibilità di
dover essere noi a "smettere".

Saluti

=============================

La persona depressa, di D.F. Wallace

La persona depressa viveva un terribile e incessante dolore emotivo, e
l'impossibilità di esternare o tradurre in parole quel dolore era già
una componente del dolore e un fattore che contribuiva al suo orrore di
fondo.

Disperando, dunque, di descrivere il dolore emotivo o di esprimerne
l'assolutezza a chi la circondava, la persona depressa descriveva invece
circostanze, passate e attuali, legate in qualche modo al dolore, alla
sua eziologia e causa, sperando se non altro di riuscire a esprimere
agli altri qualcosa del contesto di quel dolore, la sua - per così
dire - forma e struttura. I genitori della persona depressa, per
esempio, che avevano divorziato quando lei era piccola, l'avevano usata
come una pedina nei loro giochi morbosi. Da piccola, la persona depressa
aveva necessitato di cure odontoiatriche, e ciascun genitore aveva
preteso - a buon diritto, date le ambiguità medicee legali della
normativa sul divorzio, aggiungeva sempre la persona depressa
descrivendo la dolorosa battaglia fra i genitori riguardo alle spese per
le sue cure odontoiatriche - che fosse l'altro a pagare. E la rabbia
velenosa di ciascun genitore per il meschino, egoistico rifiuto
dell'altro a pagare ricadeva sulla figlia, costretta a sentire e
risentire da ciascun genitore quanto l'altro fosse egoista e incapace di
amare. Tutti e due i genitori erano benestanti e ciascuno, a tu per tu
con la persona depressa, aveva detto che, naturalmente, al momento di
sborsare per tutte le cure odontoiatriche di cui la persona depressa
necessitava non si sarebbe tirato indietro aggiungendo che era,
fondamentalmente, una questione non di soldi o di dentatura ma di
«principio». E la persona depressa si premurava sempre, cercando da
adulta di descrivere a un'amica fidata le circostanze della battaglia
relativa ai costi delle cure odontoiatriche e il dolore emotivo che
quella battaglia le aveva lasciato in eredità, di concedere che poteva
darsi benissimo che agli occhi di ciascun genitore si trattasse davvero
di quello (cioè di una questione di «principio»), anche se purtroppo
quel «principio» non teneva in nessun conto le esigenze o i sentimenti
della figlia nel ricevere il messaggio emotivo che per i genitori quel
meschino avere la meglio sull'altro era più importante della sua salute
maxillofacciale e dunque rappresentava, visto da una certa angolazione,
una forma di trascuratezza o di abbandono per non dire di maltrattamento
bell'e buono, un maltrattamento chiaramente legato - qui la persona
depressa aggiungeva quasi sempre che la sua terapeuta concordava su
questo giudizio - alla cronica disperazione senza fondo che lei da
adulta sopportava ogni giorno e nella quale si sentiva intrappolata
senza scampo. Questo non era che uno degli esempi. La persona depressa
inseriva mediamente quattro richieste di scuse ogni volta che raccontava
al telefono alle amiche di sostegno questo tipo di dolorose e lesive
circostanze del passato, nonché una sorta di preambolo dove cercava di
descrivere quanto fosse doloroso e spaventevole non sentirsi capace di
tradurre in parole neanche il dolore straziante della depressione
cronica e dover invece ricorrere al racconto di esempi che potevano
risultare, si premurava sempre di ammettere, tediosi o autocommiserativi
o farla sembrare una di quelle persone con l'ossessione narcisistica per
la propria «infanzia dolorosa» e «vita dolorosa» che sguazzano nelle
proprie miserie e insistono a propinarle tirandola noiosamente per le
lunghe ad amiche che cercano di dimostrare sostegno e incoraggiamento, e
le annoiano e le disgustano.

Le amiche che la persona depressa contattava per ricevere sostegno e
cercare di aprirsi e esternare se non altro la forma contestuale
dell'incessante agonia fisica e dei sentimenti di isolamento si
aggiravano sulla mezza dozzina e subivano alterne rotazioni. La
terapeuta della persona depressa - che aveva sia una specializzazione
sia una laurea in medicina e dichiarava di essere l'esponente di una
scuola terapeutica che sottolineava l'importanza nel viaggio dell'adulto
affetto da depressione endogena verso la guarigione di coltivare
regolarmente i rapporti con una comunità di sostegno formata da persone
affini - definiva queste amiche il Sistema di Sostegno della persona
depressa. La mezza dozzina circa di membri a rotazione di questo Sistema
di Sostegno in linea di massima erano o conoscenze che risalivano
all'infanzia della persona depressa o ragazze con le quali aveva
condiviso la stanza nelle varie fasi della sua carriera scolastica,
donne incoraggianti e relativamente indenni che ora vivevano nelle città
più disparate e che per lo più la persona depressa non vedeva da anni, e
che per lo più chiamava la sera tardi, in interurbana, in cerca di
esternazione e sostegno e di una manciata di parole ben calibrate che
l'aiutassero a inquadrare in una prospettiva realistica la disperazione
della giornata e a trovare un punto di equilibrio e a raccogliere le
forze per affrontare l'angoscia emotiva del giorno dopo, e con le quali,
quando telefonava, la persona depressa per prima cosa si scusava di dare
il tormento o di apparire noiosa o autocommiserativa o disgustosa o di
distoglierle dalla loro vita interurbana attiva, vibrante e largamente
indolore.

La persona depressa si faceva anche un dovere, quando contattava i
membri del suo Sistema di Sostegno, di non riferirsi mai a circostanze
tipo la battaglia infinita dei genitori per le sue cure odontoiatriche
come alla causa della sua ininterrotta depressione da adulta. Il «Gioco
delle Colpe» era troppo facile, diceva; era patetico e spregevole; e
poi, di «Gioco delle Colpe» ne aveva avuto fin sopra i capelli, le era
bastato sentire quegli stronzi dei genitori per tutti quegli anni, le
colpe e le recriminazioni senza fine che i due si erano scambiati per
lei, attraverso lei, usando i sentimenti e le esigenze della persona
depressa (cioè della persona depressa da piccola) come munizioni, come
se i sentimenti e le esigenze che per lei avevano un valore non fossero
altro che un campo di battaglia o un teatro del conflitto, armi che i
genitori ritenevano di poter schierare l'uno contro l'altro. Avevano
manifestato molto più interesse e passione e disponibilità emotiva
nell'odio reciproco di quanto ciascuno ne avesse mostrato nei confronti
della persona depressa, da piccola, come lei stessa, la persona
depressa, confessava ancora di sentire, qualche volta.

La terapeuta della persona depressa, la cui scuola terapeutica rifiutava
il transfert come risorsa terapeutica e dunque rifuggiva deliberatamente
da confronti e dichiarazioni ipotetiche e da qualunque teoria basata
sull'«autorità» giudicante, normativa, in favore di un modello
bioesperienziale più neutrale e dell'uso creativo dell'analogia e della
narrativa (compreso, senza per questo essere imperativo, l'uso di
burattini, materiale scenico e giocattoli di polistirolo, gioco delle
parti, scultura umana, rispecchiamento, psicodramma, e, nei casi
appropriati, intere Ricostruzioni dell'Infanzia meticolosamente
sceneggiate e illustrate) aveva impiegato i seguenti farmaci nel
tentativo di aiutare la persona depressa a trovare un po' di sollievo
dall'acuto disagio affettivo e per proseguire nel suo (cioè della
persona depressa) viaggio verso una parvenza di vita adulta normale:
Paxil, Zoloft, Prozac, Tofranil, Welbutrin, Elavil, Metrazol combinati
con una terapia elettroconvulsiva unilaterale (durante un corso di
trattamento volontario bisettimanale riservato ai degenti di una clinica
regionale per Squilibri della Personalità), Parnate con e senza sali di
litio, Nardil con e senza Xanax. Nessuno aveva procurato un qualche
sollievo significativo dal dolore e dalle sensazioni di isolamento
emotivo che rendevano ogni ora di veglia della persona depressa
un'indescrivibile inferno in terra, e molti degli stessi farmaci avevano
avuto effetti collaterali che la persona depressa aveva trovato
intollerabili. Al momento la persona depressa prendeva solo dosi
quotidiane minime di Prozac, per le difficoltà a concentrarsi, e di
Ativan, un leggero tranquillante che non dà assuefazione, per gli
attacchi di panico che rendevano le ore trascorse in quel luogo
tossicamente disfunzionale e privo di sostegno dove lavorava un vero
inferno in terra. La terapeuta esternava gentilmente ma insistentemente
alla persona depressa la sua (cioè della terapeuta) convinzione che la
migliore medicina in assoluto per la sua (cioè della persona depressa)
depressione endogena fosse coltivare regolarmente i rapporti con un
Sistema di Sostegno che la persona depressa sentiva di poter contattare
per esternare contando su un interesse e un sostegno incondizionati.
L'esatta composizione di questo Sistema di Sostegno e i due o tre membri
«centrali» più speciali, più fidati, col passare del tempo subirono un
certo numero di cambiamenti e di rotazioni, che la terapeuta aveva
incoraggiato la persona depressa a considerare come perfettamente
normali e positivi, perché era solo assumendosi i rischi e esponendosi
alle vulnerabilità necessarie ad approfondire i rapporti di sostegno che
un individuo era in grado di scoprire quali amicizie potevano far fronte
a quali esigenze e a che livello.

La persona depressa sentiva di potersi fidare della terapeuta e fece uno
sforzo concordato per essere il più possibile completamente aperta e
onesta con lei. Ammise con la terapeuta di essere sempre estremamente
cauta nell'esternare a chiunque chiamasse in interurbana di notte la sua
(cioè della persona depressa) convinzione che fosse lagnoso e patetico
attribuire il suo costante, indescrivibile dolore di adulta al divorzio
traumatico dei genitori o all'uso cinico che questi avevano fatto di lei
mentre ciascuno fingeva ipocritamente di tenere a lei più dell'altro. I
suoi genitori, in fondo - come la terapeuta aveva aiutato la persona
depressa a capire - avevano fatto del loro meglio date le risorse
emotive di cui disponevano all'epoca. E poi, in fondo, aggiungeva sempre
la persona depressa, con una debole risata, alla fine le cure
odontoiatriche che le servivano le aveva avute. Le ex amiche e compagne
di stanza che costituivano il Sistema di Sostegno spesso esprimevano
alla persona depressa il desiderio che fosse un po' meno dura con se
stessa, al che la persona depressa spesso reagiva scoppiando
involontariamente a piangere e dicendo che lo sapeva benissimo di essere
la classica conoscente sgradevole che è un po' lo spauracchio di tutti
perché è il tipo che ti chiama alle ore più impensate e attacca a
parlare di sé e spesso ci vogliono vari tentativi maldestri prima di
riuscire a riagganciare. La persona depressa diceva di essere
spaventosamente consapevole di rappresentare un triste fardello per le
amiche, e durante le chiamate interurbane si faceva sempre un dovere di
esprimere l'immensa gratitudine che provava per il fatto di avere
un'amica da chiamare per esternare e ricevere sostegno e
incoraggiamento, per quanto brevemente, prima che le esigenze della vita
piena, gioiosa, attiva dell'amica in questione avessero
comprensibilmente la precedenza e richiedessero che lei (cioè l'amica)
riagganciasse.

Le strazianti sensazioni di vergogna e inadeguatezza che la persona
depressa viveva chiamando in interurbana i membri sostenitori del
Sistema di Sostegno a tarda notte e scaricandogli addosso i suoi goffi
tentativi di tradurre in parole almeno il contesto globale della sua
angoscia emotiva erano un problema sul quale la persona depressa e la
terapeuta lavoravano moltissimo nel tempo che trascorrevano insieme. La
persona depressa confessava che ogni volta che l'amica comprensiva con
la quale si trovava a esternare alla fine confessava che lei (cioè
l'amica) era terribilmente desolata ma non c'era modo di evitarlo doveva
assolutamente riattaccare e alla fine si staccava le dita bisognose
della persona depressa dal risvolto dei pantaloni e riagganciava per
tornare alla sua vita interurbana piena e vibrante, la persona depressa
se ne restava quasi sempre seduta ad ascoltare il vuoto ronzio d'ape
della linea libera sentendosi ancora più isolata e inadeguata e
spregevole di quanto non si sentisse prima di telefonare. Queste
sensazioni di tossica vergogna nel contattare gli altri in cerca di
sostegno e comunione erano problemi con i quali la terapeuta
incoraggiava la persona depressa a stabilire un contatto e a esplorarli
in modo da poterli poi esaminare nei particolari. La persona depressa
ammetteva con la terapeuta che quando lei (cioè la persona depressa)
faceva un'interurbana a un membro del Sistema di Sostegno quasi sempre
si figurava la faccia dell'amica, al telefono, che assumeva
un'espressione che era un misto di noia e pietà e repulsione e colpa
astratta e quasi sempre lei (cioè la persona depressa) credeva di
avvertire, nei silenzi sempre più lunghi dell'amica e/o nella tediosa
ripetizione delle solite frasi d'incoraggiamento, la noia e la
frustrazione che la gente sente sempre quando qualcuno gli si appiccica
addosso - come un peso. Confessava che ogni volta immaginava
perfettamente l'amica in questione sobbalzare sentendo squillare il
telefono a tarda ora, o durante la conversazione guardare impaziente
l'orologio o rivolgere agli altri nella stanza con lei (cioè gli altri
nella stanza con l'«amica») i gesti silenziosi e le smorfie disperate di
chi è in trappola, gesti e espressioni impercettibili che si facevano
sempre più estremi e disperati man mano che la persona depressa andava
avanti all'infinito. Il tic o l'abitudine personale più evidente della
terapeuta della persona depressa consisteva nell'unire la punta delle
dita sul grembo mentre ascoltava attentamente la persona depressa e nel
manovrare pigramente le dita in modo da formare con le mani accoppiate
varie forme chiuse - per esempio cubo, sfera, piramide, cilindro
dritto - con l'aria poi di studiarle o contemplarle. Alla persona
depressa quell'abitudine non piaceva, anche se si affrettava a ammettere
che era soprattutto perché attirava la sua attenzione sulle dita e le
unghie della terapeuta e la portava a confrontarle con le proprie.

La persona depressa aveva esternato sia alla terapeuta sia al Sistema di
Sostegno il ricordo, fin troppo chiaro, al terzo anno di collegio, di
una volta che aveva visto una compagna di stanza parlare al telefono
della loro stanza con un ragazzo sconosciuto e lei (cioè la compagna di
stanza) faceva delle facce e dei gesti di disgusto durante la
telefonata, e questa compagna di stanza sicura di sé, popolare e
attraente alla fine aveva fatto rivolgendosi alla persona depressa la
pantomima esagerata di qualcuno che bussa alla porta, continuando la
pantomima con espressione disperata finché la persona depressa non aveva
capito che doveva aprire la porta della stanza uscire e bussare
rumorosamente alla porta aperta così da fornire alla compagna di stanza
una scusa per riagganciare. Nel periodo scolastico la persona depressa
non aveva mai fatto parola dell'episodio della telefonata di quel
ragazzo o della pantomima menzognera di quella particolare compagna di
stanza - una compagna di stanza con la quale la persona depressa non
aveva mai minimamente legato o fatto amicizia e verso la quale aveva
provato un risentimento amaro, servile, tale da far si che la persona
depressa disprezzasse se stessa, e dopo che quell'interminabile secondo
semestre del secondo anno era finito non aveva fatto il minimo tentativo
di mantenere i contatti - ma lei (cioè la persona depressa) aveva
esternato il ricordo angoscioso dell'episodio a molte amiche del Sistema
di Sostegno, e aveva esternato come si sarebbe sentita
incommensurabilmente orribile e patetica se fosse stata al posto dello
sconosciuto ragazzo senza nome all'altro capo del filo, un ragazzo che
cercava in buona fede di assumersi un rischio emotivo e contattare e
cercare di stabilire un legame con la compagna di stanza sicura di sé,
inconsapevole di essere un peso non gradito, pateticamente inconsapevole
della silenziosa pantomima di noia e disgusto all'altro capo del filo, e
come la persona depressa avesse in orrore forse più di qualsiasi altra
cosa il fatto di trovarsi nella posizione di essere l'altra presenza
nella stanza alla quale devi fare riferimento per aiutarti a escogitare
una scusa per riagganciare. Di conseguenza la persona depressa implorava
sempre l'amica al telefono di dirle all'istante se lei (cioè l'amica)
cominciava a sentirsi annoiata o frustrata o disgustata o se pensava di
avere cose più urgenti o interessanti da fare, di essere per l'amor di
Dio completamente franca e diretta e di non stare al telefono con la
persona depressa un solo istante in più di quello che lei (cioè l'amica)
era assolutamente lieta di trascorrere. La persona depressa sapeva
benissimo, naturalmente, assicurava alla terapeuta, quanto un simile
bisogno di rassicurazione potesse risultare patetico agli occhi degli
altri, come con tutta probabilità venisse preso non come un invito
dichiarato a riattaccare ma di fatto come una supplica bisognosa,
autocommiserativa, spregevolmente manipolatoria affinché l'amica non
riagganciasse, non riagganciasse mai. La terapeuta [1] si faceva
scrupolo, ogni volta che la persona depressa esternava la preoccupazione
per come certe dichiarazioni o gesti potessero «sembrare» o «apparire»,
di dare sostegno alla persona depressa nell'indagare come la facevano
sentire tali convinzioni su come lei «sembrava» o «risultava» agli occhi
degli altri.

Era umiliante; la persona depressa si sentiva umiliata. Diceva che era
umiliante fare un'interurbana a tarda ora a un'amica d'infanzia che
chiaramente aveva altro da fare e una vita da condurre e un rapporto di
coppia vibrante, sano, intimo, coinvolgente; era umiliante e patetico
stare sempre a scusarti perché secchi qualcuno o sentire che devi
profonderti in ringraziamenti per il semplice fatto che una ti è amica.
I genitori della persona depressa avevano finito col dividere le spese
per le sue cure odontoiatriche; alla fine i loro avvocati avevano
nominato un arbitro per definire il compromesso. L'arbitraggio si era
reso necessario anche per negoziare un programma di divisione delle
spese per il collegio e i campeggi estivi con corsi di Sana
Alimentazione e le lezioni di oboe e la macchina e l'assicurazione sui
sinistri per la persona depressa, nonché un intervento di chirurgia
estetica per correggere una malformazione alla gobba anteriore e alla
cartilagine alare del naso della persona depressa che le aveva fatto
venire una straziante proboscide rincagnata e che, insieme
all'ancoraggio odontoiatrico esterno che doveva portare ventidue su
ventiquattro, facevano sì che quando si guardava negli specchi delle
varie stanze di collegio quelli le restituivano un'immagine che chiunque
avrebbe trovato ributtante. E come se non bastasse, l'anno che il padre
della persona depressa si era risposato, lui - o in un raro slancio di
affetto incondizionato o per un coup de gráce che stando alla madre
della persona depressa era inteso a rendere il suo senso di umiliazione
e inutilità totale - aveva pagato in toto per le lezioni di equitazione,
i pantaloni da cavallerizza, e un paio di stivali dal costo esorbitante
indispensabili affinché il penultimo anno di collegio la persona
depressa venisse ammessa al Circolo di Equitazione, che fra i suoi
membri annoverava l'unico esiguo gruppetto di ragazze del collegio dalle
quali la persona depressa si era sentita, come una sera davvero orribile

a tarda ora aveva confessato in lacrime al padre al telefono, anche solo
lontanamente accettata e che erano dotate di un minimo di simpatia e
compassione e insieme a loro la persona depressa non si era sentita
soltanto una nasona dalla faccia imbracata fuori luogo e rifiutata al
punto da farle sentire come un gesto quotidiano di enorme coraggio anche
il solo fatto di uscire dalla stanza per andare a mangiare in
refettorio.

L'arbitro sul quale gli avvocati dei suoi genitori si erano finalmente
accordati per farsi aiutare a definire i compromessi relativi ai costi
per far fronte alle esigenze dell'infanzia della persona depressa era
uno stimatissimo Specialista nell'Appianamento di Conflitti, tale Walter
D. («Walt») DeLasandro Jr. Da piccola, la persona depressa non aveva mai
conosciuto e nemmeno intravisto Walter D. (« Walt ») DeLasandro Jr.,
anche se le avevano mostrato il suo biglietto da visita con tanto di
invito tra parentesi all'informalità - e nel corso dell'infanzia le era
capitato di sentire invocare quel nome un'infinità di volte, unito al
fatto che per i suoi servizi fatturava la bellezza di 130 dollari
all'ora più le spese. Nonostante gli schiaccianti sentimenti di
riluttanza da parte della persona depressa - che sapeva benissimo quanto
risultasse simile al «Gioco delle Colpe» - la terapeuta l'aveva
fortemente sostenuta ad assumersi il rischio di esternare ai membri del
Sistema di Sostegno un'importante conquista emotiva che lei (cioè la
persona depressa) aveva ottenuto durante un Weekend di Ritiro per una
Terapia Esperienziale Incentrata sul Bambino che c'è in Te dove la
terapeuta l'aveva sostenuta ad assumersi il rischio di iscriversi e
concedersi senza preconcetti a quell'esperienza. Nella Sala di
Psicodramma per Piccoli Gruppi durante il Weekend di Ritiro per una
T.E.I.B.T., gli altri membri del suo piccolo gruppo avevano interpretato
il ruolo dei genitori della persona depressa e di altre persone
significative per i genitori compresi gli avvocati e miriadi di altre
figure emotivamente tossiche legate all'infanzia della persona depressa
e, nella fase cruciale dell'esercizio di psicodramma, avevano lentamente
circondato la persona depressa, stringendosi e accalcandosi sempre più
intorno a lei e impedendole di scappare o evitarlo o minimizzare, e
aveva (cioè il piccolo gruppo aveva) recitato delle battute pre-scritte
tese a evocare e risvegliare il trauma bloccato, che quasi
immediatamente aveva travolto la persona depressa in un'ondata di
angosciosi ricordi emotivi e in un trauma sepolto da tempo col risultato
di fare emergere il Bambino che c'era dentro la persona depressa e di
scatenare una furia catartica che aveva spinto la persona depressa a
colpire ripetutamente una pila di cuscini di velours con una mazza di
schiuma di polistirolo urlando oscenità e rivivendo le ferite emotive in
putrefazione e soffocate da tempo, una delle quali [2] consisteva in una
profonda rabbia residuale per il fatto che Walter D. («Walt »)
DeLasandro Jr. era stato capace di fatturare ai suoi genitori 130
dollari all'ora più le spese per farsi mettere al centro a interpretare
il ruolo del mediatore e assorbire la merda da tutte due le parti mentre
lei (cioè la persona depressa, da piccola) aveva dovuto prestare in
buona sostanza gli stessi servizi coprofagici più o meno quotidianamente
gratis, per niente, e non solo era di una volgarità ingiusta e
inopportuna far sentire una bambina emotivamente sensibile obbligata a
prestare certi servizi ma per giunta i genitori gliel'avevano rivoltato
contro cercando di far sentire lei, la persona depressa stessa, da
piccola, in colpa per il costo esorbitante dei servizi di Walter D.
DeLasandro Jr., lo Specialista nell'Appianamento dei Conflitti, come se
le zuffe e le spese reiterate di Walter D. DeLasandro Jr. fossero colpa
sua e loro se le fossero assunte solo nel suo viziato nasuto dentuto
interesse invece che semplicemente per quella cazzo di incapacità
completamente morbosa dei suoi cazzo di genitori a comunicare e
esternare onestamente e risolvere i loro morbosi problemi disfunzionali
tra loro. Quell'esercizio e la rabbia catartica avevano permesso alla
persona depressa di entrare in contatto con alcuni problemi di
risentimento davvero nodali, aveva detto il Facilitatore del
Piccolo-Gruppo al Weekend di Ritiro per una Terapia Esperienziale
Incentrata sul Bambino che c'è in Te, e avrebbero potuto rappresentare
una svolta decisiva nel viaggio della persona depressa verso la
guarigione, se la rabbia e la scazzottata ai cuscini di velours non
avessero lasciato la persona depressa cosí emotivamente annientata e
prosciugata e traumatizzata e imbarazzata da sentire che la sua unica
scelta era di saltare su un aereo e tornarsene a casa quella sera stessa
perdendosi il resto del Weekend T.E.I.B.T e l'Esame da parte del
PiccoloGruppo di tutti i sentimenti e i problemi riesumati.


NOTE:

[1] Le sagome multiformi che le dita accoppiate della terapeuta
assumevano somigliavano quasi sempre, secondo la persona depressa, a
varie forme di gabbie geometricamente diverse, un'associazione che la
persona depressa non aveva esternato alla terapeuta perché il suo
significato simbolico sembrava troppo dichiarato e sciocco per sprecarci
il tempo che avevano a disposizione. Le unghie delle mani della
terapeuta erano lunghe e proporzionate e ben curate, mentre quelle della
persona depressa erano mangiate in modo coatto e talmente corte e
maciullate che certe volte spuntava la carne viva e cominciavano a
sanguinare spontaneamente.

[2] (Cioè una delle ferite purulente).

=======================

[continua?]

Vincenzo Del Piano

unread,
Jan 12, 2003, 7:13:10 AM1/12/03
to

"Davide Pioggia" <dpio...@AUGElibero.it> ha scritto nel messaggio
news:Eu_T9.108126$Ou4.3...@twister2.libero.it...

> Riporto qui di seguito parte di un racconto di David Foster Wallace.
> Il racconto, che si intitola "La persona depressa", fa parte della
> raccolta "Brevi interviste con uomini schifosi", pubblicata in Italia da
> Einaudi.

> [cut]

Gentile Davide,
comincio "dalla fine", dicendo -quanto/come possibile- qualcosa sul
personaggio "principale" (chè c'è una "coralità" da non perdere d'occhio
...) della vicenda.
Non è per "furore diagnostico" che credo determinante/necessario definire
quella persona *una depressa rivendicativa* (che è *categoria diagnostica
psichiatrica*), ossia una persona che tenta
("legittimamente/prevedibilmente" *in quanto* "patologicamente") di
scaricare/attribuire l'origine del suo disagio sugli altri; su *tutti* gli
altri ... ed è affatto indifferente che il "personaggio del coro" al quale
si riferisce di momento in momento sia l'una o l'altra persona: fa pare del
"coro" al quale il depresso rivendicativo attribuisce (storicamente o
contingentemente) il suo stato del momento; non appare ininfluente
che -quando manca altro su cui fondare la sua "rivendicativa lagnanza"- la
protagonista del racconto trovi modo di appuntare l'attenzione sul
silenzioso gesticolare della terapeuta (... e segnali -così- anche *altri*
disturbi oltre a quello depressivo, ma non abbiamo spazio/tempo ...).
La pur lucida e illuminante (e verosimile) "demistificazione/denuncia" di
D.F.Wallace tiene -a parere mio- in troppo scarsa considerazione questa
"premessa", e tende a porsi *unilateralmente* e dallo *esterno* (il che in
parte delegittima sul piano logico/operativo la sua critica) dalla parte
della protagonista, della quale trascura l'atteggiamento principale che
potrebbe essere definito come di una che "E' CAPITATA NELLA SUA VITA PER
CASO". Tutto/tutti sembrano muoversi attorno alla protagonista che sembra
non avere alcun ruolo determinante in *nessuna* delle vicende che la
riguardano ... salvo *rivendicativamente* riservarsi il diritto di *fuggire
da* e *respingere i* tentativi di coinvolgimento operati dai famigerati
"altri", infierendo -anzi!- contro di loro, ed accusandoli proprio di questo
tentativo, del quale *non vede altro* che la presunta "violenza", e
"rivendicativamente" non denunciando altro che l'inefficacia, che tale si
produce/manifesta proprio in conseguenza della fuga ...
Ora, dal punto di vista "tecnico" è facile (?) rendersi conto che questo
tipo di depresso si pone sistematicamente nella (*inattaccabile*) condizione
di scaricare la *sua* contraddizione sullo "altro" di turno, tra cui
"eccelle" il terapeuta, "rivendicamente" accusato di non ottenere l'effetto
richiesto; e voglio anche aggiungere il "dettaglio" che il depresso di
questo tipo *non attacca mai l'altro esplicitamente* lagnandosi di qualcosa
che possa essere eliminato, ma ***sembra*** cercare/trovare ***in sè*** i
motivi di disagio (vedi le *ricattatorie/inconsciamente (?) insincere*
"fantasie" sulla possibilità di essere "di disturbo") e -come è intuibile-
"rincara la dose" della responsabilità che gli altri devono assumersi: cosa
dovrebbe dire, la persona chiamata a tarda sera? quali/quante rassicurazioni
sarebbe *tenuta* a dare (nella logica del "diritto" del depresso
rivendicativo)?
(ed è appena il caso di osservare che persino la "resipiscente generosità"
del padre in occasione dei ricchi doni fatti alla figlia, sono da questa
interpretati come un ulteriore "danno psicologico" ...)
Se si trascura questa condizione (addirittura *esistenziale*) della
protagonista ... a parere mio si perde il filo conduttore della vicenda, che
è *altro* da quanto appare ...


> Lo scrittore non cerca di
> stabilire chi ha "ragione" e chi ha "torto", ed il sarcasmo - a tratti
> feroce - con cui esamina la persona depressa non viene risparmiato a
> nessuno: né ai terapeuti, né alla famiglia.

Come detto (e a parere mio) ... "ne risparmia" troppo alla protagonista;
facendo il che, *non la aiuterebbe* certo se ella fosse una sua paziente.
Infatti (anche per non essere frainteso, e creduto "indifferente" al dolore
della situazione) la questione è *come fare* per ripristinare una
*centralità* della persona stessa nella sua vita, facendola uscire dalla
(delirante, totalizzante) lettura di una collocazione *casuale* nella sua
vita stessa, che la rende sostanzialmente *assente* e sempre "estranea ai
fatti"; come far accettare alla protagonista la *sua responsabilità
personale*? senza che trovi queste responsabilità *esclusivamente* in "altro
da sè"? ... il che -è intuibile- esclude ogni progettualità "in proprio", e
ipostatizza una "aspettativa" (rivendicativa) *esclusivamente* sugli altri?


> Ciò che egli cerca di fare è - a mio avviso - di eliminare da tutta la
> situazione quella coltre di buonismo che, nell'istante in cui assegna i
> certificati di vittime e carnefici (o traumatizzati e traumatizzatori)
> ai vari attori della scena, impedisce loro di uscire dai loro ruoli, e
> di sostituire alle figure fantastiche e mitologiche del Bene e del Male
> delle *persone reali*.
>
> Ad esempio su questo ng si "affacciano" spesso persone che si trovano
> quotidianamente ad attraversare il buio della depressione.
>
> Come è noto, non è facile né aiutare chi si trova in queste condizioni
> né aiutar-si quando vi ci si trova. Un passo importante e decisivo può
> essere forse il fatto di riuscire ad entrare in contatto con tutta la
> "violenza" che avvolge questi stati d'animo. Tutta.

Anche *la propria*; infatti (come ben indichi) è *questo* il punto.


> Di solito la persona depressa è in grado di sentire vivamente la
> violenza che il mondo esercita o ha esercitato su di lei. Ma
> difficilmente riesce a percepire che il "nemico" è (anche) "dentro". E'
> solo entrando in contatto (anche) con la *propria* violenza che si può
> tentare di interrompere quel circolo vizioso che fa percepire tutto ciò
> che ci viene fatto come un atto violento, percezione che a sua volta
> genera risentimento e violenza.
>
> Ciò non esclude che "abbiano cominciato loro". Ma se non si vuole
> affondare forse si potrebbe prendere in considerazione la possibilità di
> dover essere noi a "smettere".

Non potrei essere più d'accordo ;-))
Nondimeno ... quanto è vero che "hanno cominciato loro"? O, *quante volte* è
vero, e si pensa che sia andata *sempre* così?
E ... infine (ma -secondo me- primariamente per importanza, ma mi pare che
anche tu pensi allo stesso modo), *cosa importa* ADESSO chi ha cominciato?
Non sarà prevalente per importanza *l'uscita* dalla condizione depressa? Non
sarà il caso -ADESSO- di lasciar perdere (chè, tanto, "quel ch'è fatto è
fatto") ... e rimboccarsi le maniche per trovare un proprio nuovo
equilibrio?
Nonostante la (nota) mia propensione a "scavare nei contenuti inconsci" con
tutta la necessaria attenzione al "passato" ... a parere mio, ciò che
*smuove* dalla patologia depressiva (ma forse anche delle "altre") è *lo
sguardo orientato al futuro*, con la sufficiente *indifferenza* rispetto
alla *nevrotica* (anch'essa!) pretesa che qualcun "altro" ammetta/riconosca
colpe, o "si penta" del male fatto.
C'è sempre il momento in cui diventa necessario dire tra sè e sè "chi se ne
frega" di come è andato ... e anche di chi ha cominciato ... e (molto poco
freudianamente :-)) persino di "perchè" è stata "questa o quella"
l'interpretazione che se ne è data, o perchè è andata così. Con grande
rispetto del lavoro psicoterapico (dei Colleghi e mio) che -secondo me- deve
tendere ad ottenere *questo* risultato ... l'uscita dalla patologia
depressiva è inizialmente rappresentato dalla decisione di "non pensarci
più" ...

Grazie dell'attenzione.
Ciao Davide; ciao a tutti.
--
Vincenzo

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