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Processo per genocidio

17/01/2024
di Luciano Beolchi

L’11 gennaio 2024 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja
ha ascoltato per bocca della delegazione sudafricana il contenuto
della denuncia del Sudafrica contro Israele in merito alla violazione
della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine
di genocidio del 1948.
Tre ore di udienza cui ha fatto seguito il giorno successivo la replica
di Israele.
Della prima le reti internazionali hanno dato ragguagli
e l’hanno commentata.
La seconda è stata trasmessa in diretta per tutta la sua durata.

Ad ascoltare le due parti sono 15 giudici indicati dai rispettivi governi
cui si aggiungono due membri a rappresentare le due parti in causa:
Dikgang Ernest Moseneke per il Sudafrica e Aharon Barak per Israele.
Del consesso di 15 magistrati fanno parte quelli nominati dai membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza:
USA, Cina, Russia e Francia cui si aggiungono Giamaica, Australia,
Brasile, Germania, India, Giappone, Libano, Marocco, Slovacchia, Somalia e
Uganda.

La Corte Internazionale di Giustizia è un organo della Nazioni Unite e le
sue sentenze decisioni e pareri sono sottoposte – per l’irrogazione di
eventuali sanzioni – alle decisioni dell’Assemblea, e sono sempre
condizionate dal diritto di veto dei membri del Consiglio di Sicurezza.
Così è stato nel 2003 quando l’Assemblea aveva chiesto alla Corte un
parere urgente circa la legalità o meno della costruzione del muro in
Cisgiordania.

Nel giro di poche settimane la Corte aveva rilasciato il suo parere
denunciando la grave illegalità di quell’atto che configurava
un’annessione di fatto della Cisgiordania, ma nessuna azione era seguita
da parte delle Nazioni Unite a causa del veto degli Stati Uniti.

Lo stesso è prevedibile capiti nel caso attuale, sia che Israele non
rispetti l’eventuale ingiunzione della CIG a cessare le operazioni
militari e ad astenersi dal commettere atti genocidari;
sia che, alla fine di un lungo processo che potrebbe durare anni, la Corte
riconosca Israele colpevole del crimine imputatogli.

In questo caso tuttavia il riconoscimento di un intento genocidario,
oltre a essere una condanna morale di peso incalcolabile, potrebbe avere
molteplici ricadute sul piano delle relazioni internazionali;
e anche il recente dispositivo approvato dalla Camera dei Comuni del Regno
Unito che vieta qualsiasi campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani
faticherebbe a ottenere lo stesso risultato alla Camera dei Lord1.

Diverso il caso della Corte Penale Internazionale – l’Istituto che in
marzo ha emesso mandato di cattura contro Vladimir Putin.
La Corte Penale Internazionale non è organo delle Nazioni Unite e, entro
certi limiti, è autonomo da essa ed è per questo motivo che il Procuratore
Generale Kahn è corso a rassicurare le autorità israeliane, in maniera del
tutto irrituale, che nessun provvedimento sarà aperto contro di loro;
né alcuna inchiesta sarà avviata, qualunque cosa possano fare.
Ma anche questa licenza di uccidere potrebbe soffrire di fronte a una
pronuncia della Corte di Giustizia sfavorevole a Israele.

Si cominciano a fare i conti su come saranno deliberati i voti dei
diciassette magistrati rispetto a un provvedimento restrittivo d’urgenza
(restraint) che sarebbe per Israele una sconfitta devastante anche perché
il procedimento non prevede appello e tale decisione potrebbe giungere a
breve.

I magistrati giudicanti sono nominati in quella posizione dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite per la durata di nove anni – dopo essere
stati indicati dai rispettivi governi – ed è evidente, per quanto siano
formalmente liberi nelle loro decisioni, che quella posizione di
dipendenza li subordina in qualche modo non formale alle decisioni dei
governi.

Israele chiede ai governi amici di pronunciarsi come tali, in modo da
esercitare pressione sui magistrati da loro nominati.
I magistrati nominati da Stati Uniti, Francia, per dire dei membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza, difficilmente voteranno per il
restraint.
Lo stesso vale per Germania, Giappone e Australia.
Dell’Uganda sono noti i rapporti d’affari di lunga data con Israele.
Con il voto di Israele sarebbero già sette voti su diciassette contro la
condanna.

Dall’altra parte dovremmo trovare Sudafrica, Somalia e Libano e
probabilmente Giamaica. Gli occidentali contano molto sugli scheletri
nell’armadio di Russia e Cina:
ma sembrano non tenere conto che pur trovandosi in una situazione per
certi versi simile il governo turco non ha esitato a schierarsi con la
Palestina;
e saremmo a 6. Restano da vedere le posizioni dell’India – che comunque è
un pilastro dei BRICS – del Marocco, della Slovacchia e del Brasile che
difficilmente si schiererà contro la Palestina. E saremmo con ciò 8 a 6,
con tre incerti.
Ma il Marocco fa parte di un mondo arabo e islamico che potrebbe
abbandonare solo in cambio del Sahara, isolandosi per i prossimi 50 anni e
senza comunque avere la sicurezza che gli occidentali rispettino
l’accordo.
Corte Internazionale di Giustizia e Tribunale Penale internazionale

Come abbiamo cercato di spiegare in numeri precedenti di questa rivista la
sede naturale in cui dibattere un procedimento come quello richiesto dal
Sudafrica sarebbe stata la Corte Penale Internazionale;
quella stessa che ha emesso mandato di cattura internazionale contro Putin
e che avrebbe potuto fare la stessa cosa contro Netanyahu con almeno una
trentina di validi motivi per utilizzare nei suoi riguardi lo stesso
trattamento usato per Putin.
Così non è stato e anzi il procuratore Khan si è precipitato in Israele
per rassicurare dirigenti ed esercito che hanno immunità permanente
qualunque cosa facciano.

Restava la Corte Internazionale di Giustizia organo delle Nazioni Unite a
differenza del precedente che dal 1947 ad oggi ha trattato circa 200 casi,
nella maggior parte dispute frontaliere tra stati confinanti. In pochi
casi è stata chiamata in causa per problemi più strettamente politici.
Iniziativa sudafricana2

Il 29 dicembre 2023, il governo del Sudafrica ha formalmente accusato lo
Stato israeliano di violazione della convenzione internazionale contro il
genocidio.
Il governo israeliano ha riempito d’insulti quello sudafricano,
chiamandolo avvocato del diavolo e definendo l’accusa un’assurda, sporca
calunnia (absurd, bloody libel).
Ha però deciso di intervenire nel procedimento, visto che non è riuscito
a cancellarlo, come invece ha già ottenuto dalla Corte Penale
Internazionale che ha concesso un provvidenziale salvacondotto nonostante
lo Stato d’Israele non abbia sottoscritto lo Statuto di Roma della Corte
medesima.
Ben vengano dunque le guarentigie graziosamente offerte dal procuratore
Khan sempre al servizio dei potenti.

Altra faccenda quella della Corte Internazionale di Giustizia perché la
Convenzione del 1948 contro il genocidio è sottoscritta da entrambi gli
stati e dunque il procedimento andrebbe avanti anche se Israele non si
presentasse, a differenza di quanto prevede lo Statuto di Roma della CPI.
La ICJ esiste dal 1946 ed è, a differenza della CPI, organo giudiziario
delle Nazioni Unite.

È dunque sorta precedentemente alla Convenzione contro il genocidio che
in linea di principio dovrebbe afferire alla CPI. La ICJ è nota per
dirimere le controversie tra stati e il Sudafrica ha dichiarato che tale
controversia esiste perché la RSA ha accusato Israele di genocidio con una
nota ufficiale, accusa che Israele si è limitato a respingere.
Avrebbe potuto, per evitare il procedimento internazionale, avviare in
base a quella denuncia un procedimento interno, ma ha evitato di farlo.
Entrambi gli stati aderiscono alla Convenzione del 1948 contro il
genocidio.

Il Sudafrica ha dettagliato le violazioni commesse dallo stato ebraico.
Dal 7 ottobre nella Striscia di Gaza, Israele ha ucciso oltre 20.000
palestinesi di cui il 70% donne e bambini (nel procedimento Israele
cercherà di sostenere che si sono uccisi da soli o che li ha uccisi
Hamas);
ha causato l’evacuazione forzata di 2 milioni di palestinesi (popolazione
civile);
ha costretto alla fame e alla sete la popolazione assediata, prodotto
danni fisici, traumi psicologici, trattamento inumano e degradante, non ha
provveduto e anzi ha deliberatamente compromesso adeguati vestiti, rifugi,
igiene fino all’uccisione dei rifugiati [e dei prigionieri];
ha devastato il sistema sanitario fino a distruggere [più della metà]
degli ospedali e ambulanze uccidendo medici e infermieri, distrutto la
vita comune dei palestinesi;
sradicato la memoria storica e ucciso figure preminenti della società
civile;
non ultimo, ha compromesso la nascita stessa dei palestinesi attraverso la
violenza riproduttiva inflitta alle donne palestinesi, ai neonati, agli
infanti e ai bambini.

Per la Convenzione del 1948:
“Vi è genocidio se vi è l’intenzione di distruggere in tutto o in parte
un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale” (art. 2).
Per dimostrare che vi è dolus specialis il documento riporta dichiarazioni
di esponenti israeliani dal presidente Herzog al primo ministro Netanyahu,
ai comandanti militari fino a esponenti le cui opinioni non sono state in
alcun modo contrastate (violando in tal modo l’obbligo alla prevenzione
del genocidio).
Riporta a questo proposito espressione come “Lotta tra i figli della luce
e i figli delle tenebre”.
Si evoca il destino di Amalek;
i palestinesi sono disumanizzati, si nega la distinzione tra miliziani e
civili fino a “invocare la cancellazione di Gaza dalla faccia della
terra”.

Il Sudafrica è consapevole che “l’atto di genocidio è parte di un
continuum” come teorizzato dall’intellettuale ebreo Raphael Lemkin che ha
coniato l’espressione. Il documento, che condanna l’attacco del 7 ottobre,
lo inserisce nel contesto di 75 anni di apartheid, 56 anni di occupazione
e i 16 del blocco di Gaza.
Sulla base dell’articolo 41 dello Statuto della Corte Internazionale di
Giustizia, il Sudafrica chiede “Provvedimenti provvisori che ingiungano
Israele di fermare la guerra e prevenire il genocidio”.

Sulla base della sua giurisprudenza la Corte non deve stabilire se la
violazione della Convenzione “esiste”, ma solo se è “almeno plausibile”,
ossia “fondata su una possibile interpretazione della Convenzione”, se c’è
insomma un rischio reale di genocidio.
Su una decisione di questo genere della Corte Internazionale di Giustizia
(ICJ) non ci sarebbero diritti di veto del Consiglio di Sicurezza

Il procedimento

La denuncia sudafricana è contenuta in un esposto di 84 pagine consegnato
il 29 dicembre alla Corte Internazionale di giustizia dell’Aja.
I sei legali della delegazione sudafricana che hanno parlato a favore
della denuncia:

Adila Hassim: rischio di atto di genocidio e vulnerabilità perpetua
derivante
Tembeka Ncgukatoibi: sul presunto intento genocida
John Dugard: giurisdizione di merito
Blinne Nì Ghràlaigh (irlandese): urgenza e potenziale danno
irreparabile3
Max du Plessis: diritti attualmente minacciati
Vaughan Lowe: misure provvisorie richieste

Ad aprire e a chiudere le argomentazioni legali è stato l’ambasciatore del
Sudafrica nei Paesi Bassi, Vusimuzi Madonsela.
Dopo di lui è intervenuto il ministro della giustizia del Sudafrica
Roland Lamola, che ha dichiarato:
“Il Sudafrica riconosce la continua Nabka del popolo palestinese
attraverso la colonizzazione israeliana a partire dal 1948”.

La guida della difesa di Israele è affidata all’avvocato britannico
Malcolm Shaw KC4.
Secondo il dissidente ebreo Norman G. Finkelstein bandito da Israele per
aver pubblicato L’industria dell’Olocausto dove definiva Israele stato
suprematista ebraico, c’è poco da aspettarsi dalla CIG che fotografa essa
stessa i rapporti di forza a livello internazionale anche nella
composizione del collegio giudicante.

Dopo il procedimento orale, la Corte delibera a porte chiuse e pronuncia
la sentenza in seduta pubblica. La sentenza è definitiva, vincolante per
le parti in causa e inappellabile (al massimo può essere soggetta a
interpretazione o, alla scoperta di un nuovo fatto, a revisione).
Ogni giudice che lo desideri può allegare un parere alla sentenza.

Firmando la Carta, uno Stato membro delle Nazioni Unite si impegna a
rispettare la decisione della Corte in ogni caso in cui sia parte in
causa.
Inoltre, poiché un caso può essere sottoposto alla Corte e deciso da essa
solo se le parti hanno in un modo o nell’altro acconsentito alla sua
giurisdizione sul caso, è raro che una decisione non venga applicata.
Uno Stato che ritenga che la controparte non abbia adempiuto agli
obblighi che gli incombono in virtù di una sentenza pronunciata dalla
Corte può sottoporre la questione al Consiglio di Sicurezza, che ha il
potere di raccomandare o decidere le misure da adottare per dare
esecuzione alla sentenza:
da questo punto di vista Israele è in una botte di ferro.
Precedenti attività e coinvolgimenti della CIG

Alla Corte non viene chiesto di stabilire se la condotta di Israele
costituisca genocidio, ma se gli atti presentati configurano violazione
della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio, così come era stato
per il caso Gambia contro Myanmar5 preso in esame dalla stessa Corte nel
2022.

Negli interventi della delegazione sudafricana, che hanno ridotto al
minimo audio e video per rispetto dei palestinesi, si sono citati:
centinaia di famiglie multigenerazionali spazzate via, l’ordine di per sé
genocida di evacuare oltre un milione di persone (compresi bambini e
anziani, feriti e infermi, in 24 ore senza alcuna assistenza e con
bombardamenti sulle vie dichiarate sicure).
Umiliazione dei prigionieri, sadismo dei soldati israeliani.
Negazione all’ingresso di aiuti umanitari.
Nel 2023 l’International Court of Justice ha ammesso solo due casi:
quello di Gaza e Nicaragua vs. Colombia.

Il precedente spesso citato, rispetto al quale si dice che Israele non
accettò il processo è relativo a un parere richiesto dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite nel 2003 sulla legittimità del muro costruito
da Israele, potenza occupante, nei territori occupati.
La Corte dichiarò che la costruzione era illegale perché costituiva
un’annessione di fatto di territori occupati dello stato di Palestina.
In quell’occasione Israele decise semplicemente di ignorare il parere
della Corte di Giustizia, sostenuto dagli Stati Uniti che bloccarono col
loro veto qualsiasi iniziativa delle Nazioni Unite.
Gli europei e le violazioni del diritto internazionale

Ai tempi del tribunale Russell, che aveva messo sotto accusa gli Stati
Uniti per la guerra in Vietnam gli europei avevano un ruolo importante
nella lotta per la libertà, la pace e la giustizia. C’erano
organizzazioni, comitati, giornali, partiti, governi e stati.
Oggi l’Europa è finita tristemente in fondo al plotone degli stati
reazionari bianchi, con pochissime e traballanti eccezioni, in Irlanda,
nella Penisola Iberica e poco altro.

Il fatto che il Sudafrica abbia preso coraggiosamente l’iniziativa di
sfidare con Israele le nazioni bianche coloniali e neocoloniali è
significativo di dove va il mondo progressista e di dove dovrebbero
collocarsi i progressisti di tutto il mondo, quale che sia il colore della
pelle.
Del resto i bianchi non si sono serviti per secoli di eserciti di negri?
E perché i bianchi non dovrebbero schierarsi con i negri in nome di un
ideale di libertà e progresso che l’Europa non rappresenta più, né nelle
sue componenti dichiaratamente reazionarie e fasciste, né in quelle che si
pretendono socialiste democratiche e liberali, ma tutte quante schierati
nei plotoni della NATO, al servizio dell’unico imperialismo sopravvissuto
in forze, quello americano, con i suoi vassalli, valvassori e valvassini.

Siamo alla prime battute del processo per genocidio ed è evidente che
Israele e i suoi sostenitori sono in imbarazzo.
Gli europei ancora di più degli americani, anche perché il rapporto della
maggior parte degli europei e dei loro governi con Israele è un rapporto
opaco dettato da motivazioni inconfessabili e taciute.

Da una parte sono tra i più scalmanati sostenitori di una politica
genocida contro i palestinesi, disposti ad accettare ogni eccesso e ogni
violenza in nome di un diritto alla difesa che toccherebbe solo agli
israeliani, senza confini e limiti;
e contemporaneamente guardano con protettivo orgoglio a questa superstite
colonia bianca in terre barbare, degna erede di quattro secoli di
colonialismo europeo. Una di quelle motivazioni inconfessabili di cui
dicevamo.

Dall’altra parte buona parte degli europei sono sostenitori di governi e
partiti che si dichiarano eredi diretti dei partiti che approvarono e
appoggiarono lo sterminio degli ebrei, tedeschi in testa, ma in buon buona
compagnia. Scalmanati amici di Israele ed epigoni di massacratori di
ebrei.

I tedeschi non furono i soli a organizzare e praticare lo sterminio:
con loro ci furono quasi tutti i governi europei dell’epoca e non solo
ristrette frange collaborazioniste.
I governi sloveno, croato, ungherese e rumeno;
i governi collaborazionisti baltici, norvegese e francese;
gli italiani e i belgi.
Alcuni di loro agirono in proprio ed ebbero forte sostegno popolare quasi
ovunque, tanto è vero che ancora oggi si va ad onorare la minoranza – e
non la maggioranza – dei giusti.

Quegli stessi partiti e i loro epigoni e eredi diretti promulgano leggi
speciali contro chiunque faccia mostra soltanto di dubitare che dei
cittadini polacchi o ungheresi o ucraini abbiano in qualsiasi modo
collaborato allo sterminio degli ebrei; e sono quegli stessi governi che
erigono monumenti ed esaltano le virtù guerriere delle formazioni
sterminatrici di ebrei, comunisti e partigiani; gli ustascia, le croci
frecciate, la guardia di ferro, i banderas.

Sono quegli stessi governi che sostengono in massa gli eredi e gli epigoni
delle formazioni fasciste ucraine e che accolgono a braccia aperte i
nazisti dichiarati di Azov e formazioni simili.
Ad oggi in Ucraina, è fatto divieto di parlare del massacro di 500.000
ebrei tutti ammazzati in loco.
E infatti dall’Ucraina come dalla Romania non partirono i treni
dell’olocausto: ucraini e romeni fecero tutto in casa, con le loro mani.
E questo è il secondo motivo per cui il rapporto degli europei con
Israele non è onorevole e immacolato come si vorrebbe far credere.

E non sono le uniche macchie sull’onore dell’Europa e degli europei che
crimini sulla coscienza ne hanno molti; a cominciare dallo schiavismo e
dal colonialismo: eppure non rinunciano a voler insegnare le regole della
democrazia all’universo mondo a suon di cannonate.

Noi siamo stati tra quelli che hanno riconosciuto il sacrificio dei popoli
sovietici, in quella che a giusto titolo i sovietici hanno chiamato grande
guerra patriottica e che li vedeva aggrediti in quanto razza slava
inferiore, sovietici, ebrei e comunisti;
e ad assalirli non c’erano solo i tedeschi;
c’erano italiani, ungheresi e rumeni e in loro appoggio fascisti svedesi,
belgi, norvegesi, baltici, spagnoli e francesi.

La storia ci dice che se l’Europa non venne sommersa dall’onda nera fu in
massima parte merito dell’Armata Rossa e della resistenza antifascista.
Quella stessa resistenza della quale i tanti partiti fascisti europei – di
governo e non – tutti grandi sostenitori di Israele, sono i più grandi
denigratori e avversari.
E i cosiddetti democratici e liberali gli tengono bordone:
non è cancellata la vergogna del parlamento europeo che quasi
all’unanimità dichiarava i comunisti, anima e martiri di tutte le
resistenze europee, corresponsabili della Seconda guerra mondiale.
Eppure a presiedere il parlamento in quel momento c’era una buona e onesta
persona come David Sassoli.

Purtroppo quella connivenza sciagurata con le forze europee più
reazionarie e fasciste macchia la sua memoria, almeno quanto lo
stravolgimento storico operato da Benigni che nel suo film più celebre fa
liberare Auschwitz dai carri armati americani.
E forse non rimarrà nella storia ma non è affatto onorevole la firma che
dopo 100 giorni di massacri indiscriminato dei civili a Gaza persone per
bene hanno apposto per su un documento che denuncia le violenze sulle
donne ebree commesse il 7 ottobre, dopo che nei giorni successivi
all’attacco di Hamas tutti i giornali avevano titolato sui 50 neonati
decapitati, orrore estremo di cui si è persa ogni traccia.

Adesso viene sostituito al precedente un altro orrore estremo e persone
equilibrato dovrebbero quanto meno chiedere un’inchiesta su tutti i
crimini che si stanno compiendo, chiedere le prove, proporre quella
commissione d’inchiesta che gli israeliani hanno sempre negato: senza
lasciarsi compromettere in affermazioni propagandistiche incaute. Le
colombe non stanno sempre dalla parte della ragione.

Lo aveva imparato a sue spese Colin Powell la cui memoria è per sempre
disonorata dall’aver dichiarato il falso alle Nazioni Unite e sarà
disonorata anche la colomba Aharon Barak che Netanyahu ha scelto per
rappresentare Israele come giudice ad hoc in un processo di cui ci sono,
tante, troppe prove.
Scelto tra gli avversari più accaniti delle sue leggi liberticide,
momentaneamente rinviate dalla Corte Suprema in attesa che il governo le
ripresenti a una Corte modificata nella sua composizione e che si sa fin
d’ora che sarà più disponibile dell’attuale.

Leggi liberticide di Netanyahu

L’11 gennaio è cominciato con il processo che dava seguito alla denuncia
presentata dal Sudafrica contro Israele il 29 dicembre. Non è un caso se
il 1° gennaio la Corte Suprema ha respinto come liberticide una parte
delle norme approvate alla Knesset da Netanyahu e dalla sua coalizione e
che avevano provocato nel 2023 una vasta opposizione tra gli israeliani
ebrei. La loro bocciatura che parte da una Corte che registra una
maggioranza di misura di giudici liberali sorprende fino a un certo punto.

Se era prevedibile che a due giorni di distanza dal deposito dell’atto di
accusa sudafricano e a meno di dieci dall’inizio del processo la Corte non
se ne uscisse con l’approvazione di una legge liberticida, questo non è
stato un gran sacrificio per i conservatori che infatti hanno evitato di
gridare all’antisemitismo e al tradimento dell’ebraismo come avrebbero
fatto in condizioni ordinarie.

La Corte infatti è composta di 15 membri, otto cosiddetti liberali e
sette sicuramente ultra conservatori, ma a giorni due dei cosiddetti
liberali si ritirano – la presidente Esther Hayut e il giudice Anat Baron
– e saranno sostituiti da due candidati governativi, modificando il
rapporto di forza in 9 a 6 a favore dei conservatori e la legge sarà
ripresentata dalla Knesset con ottime probabilità di essere questa volta
ratificata diventando così una delle 14 leggi fondamentali che
sostituiscono la Costituzione che Israele non si è data perché in quanto
stato teocratico giudica che è già la Bibbia la carta fondamentale del
paese.

Del resto fin dai tempi delle discussioni accanite sulle legge dello stato
nazione, tanto il presidente di Israele Reuven Rivlin che il procuratore
generale di stato avevano protestato dicendo, il primo, che la legge era
un’arma nelle mani dei nemici di Israele e il secondo mettendo in guardia
contro le sue conseguenze internazionali.

È fuori di dubbio che se la Corte di Giustizia non avesse accettata la
denuncia del Sudafrica, la legge liberticida sarebbe passata sull’onda
emotiva del 7 ottobre, mentre l’inizio del processo per genocidio, quale
che sia il suo esito, ha convinto a nascondere la spazzatura sotto il
tappeto, in attesa di tempi migliori per cui lavora unito tutto il blocco
occidentale. E c’è da dubitare che la colomba Barak, che ha accettato di
difendere Israele di fronte alla Corte di Giustizia sia l’immacolata
colomba che ci vogliono far credere.

Dietro la decisione della Corte Suprema c’è sicuramente un patto per cui
Barack accettava di esporsi nella delegazione israeliana in cambio del
mantenimento di quel criterio di ragionevolezza per la quale aveva
lavorato negli 11 anni di presidenza della corte suprema, dal 1995 al
2006.
A differenza di Colin Powell di cui non si capiva se fosse ingenuo, un
fesso o un complice.

Le leggi liberticide di Netanyahu non sono l’unico caso tra le democrazie
occidentali di quello che il diritto anglosassone chiama Constitutional
Backsliding, arretramento Costituzionale, che dà un indirizzo autocratico
ai rapporti tra i poteri dello stato, in particolare tra magistratura e
governo, magistratura e parlamento.

Le leggi liberticide presentate dal governo Netanyahu erano state
approvate dalla Knesset nonostante la considerevole opposizione popolare
che aveva tenuto impegnato il paese per i primi nove mesi dell’anno e sono
la logica conseguenza della legge fondamentale del 2018, quella che
definisce Israele stato ebraico e democratico, una contraddizione in
termini perché, come scriveva Haaretz se lo stato è ebraico non è
democratico perché non esiste eguaglianza con quella parte considerevole
dei suoi cittadini che ebrei non sono e con quelli che volessero
abbandonare la religione ebraica; e se è democratico non può essere
ebraico perché una democrazia non può garantire privilegi e diritti
speciali a una parte dei suoi cittadini sulla base della loro origini
etnica.
Così si esprimeva il giornale israeliano.

Sempre Haaretz il 24 luglio 2023 a proposito dell’approvazione da parte
della Knesset della legge sullo stato nazione (che definisce Israele la
patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità
riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a
statuto speciale), scriveva che finalmente presenta il sionismo per quello
che è: nazionalismo su base etnica e razzista.

Creare comunità riservate agli ebrei vuol dire dare loro la possibilità di
espellere gli elementi sgraditi, una nakba legalizzata e “democratica”,
con tutti gli sporchi affari che incalzano dietro questa libertà:
saccheggi, furti, espropri per cifre irrisorie la cui denuncia viene
chiamata antisemitismo; e tanti saluti. Forse che l’arabo è mai stato
trattato come lingua ufficiale, come lo svedese in Finlandia e il tedesco
in Italia?

La legge sullo stato nazione era stata approvata il 19 luglio 2018 dalla
Knesset. Cosa c’è di nuovo nel 2023?
La riforma giudiziaria approvata dalla Knesset prevede tra l’altro di
emendare il comma 2 dell’articolo 74 della Basic Law sulla Knesset che
vieta la candidatura al parlamento di chi inciti al razzismo.

La riforma in questione mirava a delimitare il potere della Corte Suprema
di Gerusalemme e in particolare il ruolo della Corte nello sviluppo
ordinamentale d’Israele, i cui portati la proposta riforma vuole
espressamente delimitare.
La proposta interviene su 5 fondamentali aspetti del sistema
costituzionale israeliano.

La prima dimensione attiene alla modalità di selezione dei giudici
nell’ordinamento. L’attuale proposta mira a riservare alla maggioranza di
governo potere esclusivo nella nomina dei magistrati, compresi quelli
della Corte Suprema.

La seconda dimensione del proposto intervento sottrae alla Corte
Suprema la verifica di costituzionalità delle leggi fondamentali, quelle
di valore costituzionale.

In terzo luogo, pur riconoscendo alla Corte Suprema la verifica di
costituzionalità delle leggi ordinarie, le si sottrae di fatto anche
quella prerogativa riconoscendo alla Knesset il potere di sovvertire a
maggioranza semplice le decisioni della Corte Suprema.

La quarta dimensione del proposto intervento riguarda il criterio di
ragionevolezza, che è quello bocciato dalla Corte Suprema con decisione 1°
gennaio 2024. Il criterio di ragionevolezza si può ridurre grosso modo a
everythings is justiciable: anche la sicurezza nazionale e le questioni
militarie quindi anche Nethanyahu e tutto il suo governo diventano
perseguibili in Israele.

Il quinto punto dell’intervento riguarda il ruolo dell’Attorney
General, organo monocratico di Common Law, ma che assume nell’ordinamento
israeliano originale postura: un po’ dentro e un po’ fuori dall’autorità
di governo. La proposta è di ridurne il ruolo da consigliere indipendente
del governo a consulente ed esecutore di disposizioni governative.

Qualunque cosa possa succedere…

I quindici magistrati della Corte Internazionale di Giustizia chiamati a
decidere della denuncia presentata dal Sudafrica contro Israele per reati
gravissimi in atto, hanno una responsabilità molto più grande di quella
che media e governi occidentali tendono a riconoscere loro, come se si
trattasse di un ordinario contenzioso tra stati per una questione di
confini o per l’estensione delle acque territoriali.

Così non è, e il discorso vale soprattutto nel caso che in questa
decisiva fase preliminare venga respinto il restraint, cioè un
provvedimento d’urgenza che imponga il cessate il fuoco immediato.
Supponiamo che il restraint non arrivi e tutto venga rinviato a una
sentenza che se mai fosse pronunciata arriverà forse tra vent’anni e forse
mai e in ogni caso sarà ignorata da una delle parti in causa.

Una decisione di questo genere, una decisione pilatesca o non-decisione
avrebbe un impatto forte sull’opinione pubblica di tutto il mondo non
occidentale, non suonerebbe neutra e verrebbe letta così:
qualunque cosa succeda, va bene così.

Nel momento in cui un intero popolo chiuso come bestie in gabbia venisse
lasciato alla merce’ di massacri quotidiani spietati e sadici che sono
sotto gli occhi di tutti, i magistrati occidentali si prenderebbero una
tremenda responsabilità verso le popolazioni civili dei loro paesi, tanto
più se i loro governi cedono al ricatto di Israele prendendo una posizione
formale che niente e nessuno impone loro di prendere.
Una non decisione vorrebbe a significare che non ci sono più regole e
tanto meno c’è qualcuno che possa pretendere che siano rispettate.

Nel momento in cui tranquillamente seduti si propri scranni, quei quindici
magistrati decidessero che il più mostruoso sanguinoso e prolungato atto
di terrorismo non merita neanche l’invito a che si cessi la strage è
evidente che questa decisone presa a maggioranza da francesi, inglesi,
americani, tedeschi, australiani, senza considerare i loro possibili
alleati, suonerebbe anche più pesante di una formale ordinaria
dichiarazione di guerra, di quelle che da molti decenni non fa più
nessuno. E per di più dichiarazione di guerra senza limiti e confini
riguardo al coinvolgimento di civili e di inermi.

Di sicuro qualche anima bella tratterà queste nostre parole come una
minaccia, ma sia ben chiaro che l’autore non intende minacciare nessuno,
tanto meno i magistrati della corte di Giustizia ai quali auguriamo lunga
e prospera vita.
Non ci sembra neanche giusto diffondere il loro nome come di sicuro
farebbe il governo d’Israele a parti invertite se fosse nelle loro mani la
decisione di continuare la strage di cittadini israeliani inermi.
In quel caso potremmo star sicuri che Israele garantirebbe loro vita
lunga e prospera?

Chi per mestiere o per qualsiasi ragione pratica la storia sa che in
passato sono bastati pretesti molto meno pesanti per scatenare guerre
sanguinose e stragi dell’umanità.
Per di più gli stati occidentali che la divinità rende stupidi come suole
fare con chi vuole rovinare sembrano orientati a rinunciare anche alla
foglia di fico dell’indipendenza della magistratura, lasciando in capo ai
soli magistrati le decisioni prese.
E invece no, su minacciosa pretesa di Israele assumono in prima persona
la responsabilità delle decisioni da prendere, come hanno già fatto le
Germania e il Canada.

E la stessa opinione pubblica occidentale è convinta che i morti di Gaza
siano così poco importanti per il resto del mondo come sono per gli
occidentali, che alla perdurante strage non si ribellerà o perché sono
troppo deboli o pusillanimi o perché li si può comprare con poco.

O semplicemente perché sono negri senz’anima e senza sentimenti come ha
insegnato per secoli il civile occidente mentre praticava schiavitù e
colonialismo in nome della sua civiltà superiore.
Sarà un processo lungo

E già si sentono gli elogi per Israele che accetta di difendersi nel
processo e non dal processo, come ha fatto nei passati settantacinque anni
ogni volta che ha potuto. Ma in questo caso non può, perché il
procedimento andrebbe avanti anche in contumacia.

Israele ha sempre respinto ogni proposta di indagini obiettive e neutrali
sulle accuse di esecuzioni extragiudiziali, rapimenti, torture, detenzioni
arbitrarie, omicidi volontari di giornalisti e di agenti di organizzazioni
umanitarie.
Hanno giustificato la distruzione di un ospedale ribattendo che Israele è
una democrazia e le democrazie non distruggono gli ospedali.
Forse non tirano neanche le bombe atomiche.
Hanno pronunciato le frasi sciagurate della prima Intifada:
ai ragazzini che tirano le pietre spezzategli gambe e braccia;
ed era un primo ministro laburista a dirlo, non era Netanyahu.

Sono quelli che le inchieste se le fanno da soli e sono bastati due
minuti per chiudere quella sul bombardamento che ha ucciso più di cento
civili in un colpo solo a Gaza:
qualcuno ha sbagliato bomba.
Spiacenti.
Quel qualcuno ha un nome, ha ricevuto un ordine, doveva seguire un
protocollo o in Israele le bombe si distribuiscono dal droghiere? Cosa le
è rimasto?
Poca roba.
È andato via quasi tutto.
Allora mi dia quel che ha. A domani.
E così ci si dispiace anche per i tre ostaggi israeliani uccisi con fredda
determinazione, in più fasi.
C’era troppo rumore, i soldati erano stressati.
Queste sono le indagini condotte dall’esercito, sullo 0.7 % delle denunce
ricevute.
Per il resto niente, sempre che uno si arrischi a presentare denuncia ai
soldati israeliani che i sudafricani accusano di sadismo e torture
sistematiche.
Per una richiesta di commissione d’indagine internazionale

Il 7 ottobre la stampa e le televisioni annunciavano che 40 neonati erano
stati decapitati dai barbari assassini e tutti i giornali occidentali
avevano dato al fatto la massima evidenza. Poi la notizia era sparita. Non
c’erano prove, non c’erano foto, non c’erano testimoni, non c’erano
inchieste, non c’erano neonati, non c’era niente di niente.

Dopo quasi tre mesi da fatti esplode sui giornali un’altra notizia, anche
se questa volta solo i giornali di estrema destra non osano sbatterla in
prima pagina.
I barbari assassini e disumani – e quindi ben venga che siano trattati
come tali – della decapitazione in serie dei neonati erano passati ai più
orrendi crimini di massa sulle donne.
Sono i bianchi che rispettano le donne, non i negri palestinesi che sono
tutti assassini e meritano di andare in Congo con gli altri negri uguali a
loro.
1.200 firme, secondo il Corriere della Sera, ha raccolto l’appello a
riconoscere il femminicidio di massa commesso da Hamas sulle donne il 7
ottobre.
L’obiettivo è arrivare a una denuncia per crimini contro l’umanità che
faccia da contraltare alla denuncia ben più circostanziata e provata mossa
dal Sudafrica nei confronti dello Stato di Israele.

Nei tempi recenti le balle più stratosferiche hanno fatto scuola:
dalla denuncia del possesso di armi di distruzione di massa inventato da
Bush, Colin Powelli e Tony Blair per giustificare il massacro di Saddam
Hussein e della sua famiglia ai quaranta neonati con le teste mozzate.

“Qui non si tratta di entrare nell’idea del conflitto e di immischiare
giudizi politici: non si può tacere”.
Queste le parole di un abile propagandista come Ruth Shammah.
Parliamo solo di noi, e di quello che noi vogliamo si dica di noi, non
parliamo di politica e di 75 anni di crimini e di duemila bombardamenti.
Sono stati commessi abusi indicibili! Più indicibile di cinquanta neonati
con le teste mozzate? Sono in corso delle inchieste? Quelle inchieste che
avrebbero dovuto fare gli oltre cento reporter uccisi a Gaza e i 150
funzionari e dipendenti dell’ONU appositamente eliminati per togliere di
mezzo testimoni?

L’Onorevole Quartapelle invoca:
“Il governo italiano metta a disposizione risorse investigative per
investigare su questo tipo di crimine”. Solo quelli di cui è accusato
Hamas, s’intende, a sostegno di chi risorse ne ha più che in abbondanza,
anche di tipo investigativo e in sovrappiù ha ricevuto il pieno partigiano
sostegno del procuratore della Corte Penale Internazionale che ha
garantito al governo israeliano che non deve avere nulla da temere.

Dietro a loro Ilaria Borletti Buitoni: “In Occidente soffiano venti
antisemiti fortissimi”.
Forse che le stragi di civili a Gaza ne abbiano qualche responsabilità?

Sottoscrive anche Salvatores, su un diverso generico bersaglio: “È stato
un massacro inaccettabile. Penso che Nethanyahu sta sbagliando”. Uno
sbaglio o una lucida politica criminale, sostenuta dalla maggioranza del
popolo israeliano?

E perché dunque “esprimere dolore e riprovazione per le donne oggetto di
violenze”, ma senza una parola per donne e bambini palestinesi oggetto di
mille violenze?
Non stupisce che tra le adesioni ci siano la ministra della Pari
Opportunità, Eugenia Roccella, MEB e Mara Carfagna, Letizia Moratti e
Giovanna Melandri, tutte monocole e strabiche di lunga data.
Né altri sempre pronti a mobilitarsi dalla parte dei bianchi offesi:
Ambra Angiolini, Vittorio Sgarbi, Marco Tronchetti Provera, Dacia
Maraini, Ferruccio De Bortoli, Carmen Llera Moravia, a conferma che c’è
sempre un fronte bipartisan di borghesia bianca pronto a consolidarsi
quando si tratta di difendere politiche razziali e razziste.
Dispiace per una persona per bene e di grande correttezza come Augias.
Ma perché non chiedere quanto meno un cessate il fuoco e una commissione
d’indagine internazionale, di quelle che Israele rifiuta di accogliere da
75 anni?

Che significa fare un’inchiesta?
Significa quanto meno accertare se è poi vero che il ministro della
sicurezza nazionale israeliana Ben-Gvir ha dato precise indicazioni dopo
il 7 ottobre di “vendicarsi contro i prigionieri palestinesi”, e se ha
detto che “per ogni giorno trascorso senza il rilascio di un prigioniero
israeliano, un detenuto palestinese deve essere giustiziato”.

E nel caso queste direttive e dichiarazioni venissero accertate, gli
omicidi dei sette detenuti palestinesi giustiziati in carcere dal 7
ottobre potrebbero trovare un mandante.
Il settimo ha un nome Abdel Raman Bassem el Bash, 23 anni di Nablus
secondo la dichiarazione congiunta della Commissione per gli affari dei
prigionieri e il club dei prigionieri palestinesi.
Sette sono i martiri ma centinaia le violenze e torture che vengono
segnalate da tutte le prigioni (Megiddo, Gilboa, Ofer, Beersheba e Damon,
in particolare). Contemporaneamente a queste morti, c’è un numero
imprecisato di altri morti tra i detenuti nel campo di Jde Taman a Gaza.

Se è vero che viene utilizzato lo stadio come prigione, perché la UEFA
che sovraintende alla Federazione israeliana non dice nulla?
I detenuti sono sottoposti a torture, trattamenti umilianti e degradanti.
Fame, sete, privazione del sonno, aggressioni con i cani, cibo gettato a
terra e calpestato dalle guardie, il tutto alla ricerca ossessiva dei
combattenti di Hamas e per la scoperta e distruzione dei tunnel.

Human Rights Watch ha un responsabile per il quale è già stata scritta la
sentenza; per ora continua a ripetere che “la ricerca dei combattenti di
Hamas non giustifica gli abusi sui lavoratori cui era stato concesso il
permesso di lavorare in Israele”. Perché su di loro? Perché sono quelli
che gli israeliani conoscono meglio, perché sono in grado di minacciare e
maltrattare le loro famiglie, sono i più indifesi e, per gli israeliani,
l’anello debole della catena.

Michelle Randawa, responsabile di HRW ha chiesto di loro, ma nessuna
risposta è venuta dagli israeliani. Haaretz riporta continue denunce di
aggressioni, violenze, torture, ma le riporta come fossero considerate
eccezioni senza neanche domandarsi quale livello bisognerà raggiungere per
stabilire che c’è del metodo in quella follia.

Delle oltre 200 detenute palestinesi vittime di torture e di aggressioni
sessuali, le anime belle di Occidente non si curano di loro come non si
curano della deputata del FPLP arrestata per la quarta volta perché
“appartenente a un’organizzazione terrorista e per propaganda sovversiva”,
né si curano degli oltre quattrocento morti e tremila arresti in
Cisgiordania dal 7 ottobre anche se l’Ong israeliana Hamoked parla di uso
sistematico della violenza nelle carceri in sovrappiù ai 244 omicidi
commessi a partire dal 1967.

Luciano Beolchi

https://transform-italia.it/processo-per-genocidio/

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Diffidate dei poveri mentecatti, odiatori di professione, bugiardi
xenofobi nazifascioidi dai mille nick
che per farsi leggeggere le loro Fake News utilizzano anche il mio nick

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