Google Groups no longer supports new Usenet posts or subscriptions. Historical content remains viewable.
Dismiss

Le infamie del colonialismo fascista in Libia

69 views
Skip to first unread message

sergio

unread,
Aug 18, 2004, 4:11:20 AM8/18/04
to
Le infamie del colonialismo italiano in Libia sono state quasi sempre
rimosse in Italia. Anzi, ai responsabili si erigono monumenti. Ecco
qualche testo per non dimenticare

L'INFAMIA DELLE DEPORTAZIONI
Da: "Gli italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi"
di Angelo Del Boca, Laterza, 1991, cap. IV
L'esproprio delle zavie
Proseguendo il riordino organizzativo della colonia e la lotta senza
quartiere contro la Senussia, nella prima decade di maggio del 1930
Graziani adotta un altro provvedimento particolarmente severo: il
raggruppamento coatto delle popolazioni indigene nelle vicinanze dei
presidi italiani. Con questa misura presa contemporaneamente al
razionamento dei viveri, il vice governatore della Cirenaica confida di
disseccare la principale sorgente che alimenta la ribellione. Ha così
inizio la prima, biblica migrazione dai territori dell'altipiano verso le
zone più sicure della costa. Quasi 900 tende Abid vengono riunite nella
piana di Barce; 1400 tende Dorsa intorno a Tolmeta; altre 3600 tende, che
prima erano sparse sino a el Mechili, vengono raggruppate fra Cirene e
Derna. Ma non si tratta di un provvedimento definitivo, poiché tanto De
Bono che Badoglio hanno in mente una operazione più vasta e radicale, che
porti allo sgombero totale del Gebel Achdar. Questa di maggio, dunque, è
soltanto la prova generale della deportazione in massa che verrà fatta tra
luglio ed agosto.

Si è appena conclusa questa operazione quando Graziani, con il consenso di
Badoglio e di Roma, applica una nuova misura: I'esproprio integrale dei
beni mobili ed immobili delle zavie senussite. Il provvedimento, già allo
studio da un paio di anni, era sempre stato rinviato perché si temeva di
turbare la coscienza religiosa delle popolazioni libiche e di commuovere
l'opinione pubblica musulmana (1), poiché le zavie erano, prima che organi
di propaganda politica e di collegamento tra le popolazioni e i ribelli,
centri spirituali ed assistenziali. Le ultime perplessità vengono però a
cadere nel maggio del 1930 quando lo scontro con la Senussia si fa totale.
« Mai il governo italiano si è trovato in vera lotta armata di fronte alla
Senussia come lo è attualmente; - scrive Badoglio a De Bono - mai la
Senussia ha fatto appello come ora a tutti i suoi aderenti per averne
aiuti materiali e morali al fine di constrastare il nostro dominio; mai è
ricorsa a intimidazioni, a minacce, a violenze di ogni genere per
sollevarci contro i nostri sudditi. A questa decisa azione di ostilità, è
giusto e doveroso contrapporre da parte nostra un identico atteggiamento
Le mezze misure non giovano a nulla. Quando si è in guerra, non è lecito
avere degli scrupoli e conservare al nemico le proprietà da cui ricava i
mezzi per continuare la lotta » (2).

Il 29 maggio reparti di carabinieri invadono simultaneamente le sedi di
tutte le zavie (3), traggono in arresto 31 capi zavia e pongono i sigilli
sulle proprietà della confraternita. I capi religiosi sono dapprima
confinati in un campo nei pressi di Benina; poi, sembrando imprudente
mantenerli in Cirenaica, il 28 settembre vengono imbarcati sul
cacciatorpediniere Stocco ed awiati ad Ustica (4). Nel bando diramato agli
indigeni il 2 giugno, Graziani spiega i motivi del grave provvedimento e
soggiunge: « Da oggi siete tutti liberati dal pagamento della zacat, anzi
chi lo farà ugualmente, sarà considerato reo di tradimento e punito perciò
con la morte » (5). Per Omar al Mukhtàr il colpo è durissimo. In pochi
giorni egli si vede privato prima del sostegno delle popolazioni, poi del
supporto delle zavie, che gli fornivano, con le decime, senti di ogni
genere ed informazioni. Comunque non si abbatte e fa sapere che non
concluderà alcuna pace che sia in contrasto con gli interessi della
Senussia e che « combatterà sino alla morte » (6).

Il patrimonio confiscato è enorme. Si tratta di centinaia di case e di
quasi 70 mila ettari della miglior terra della Cirenaica. Per fare qualche
esempio, la sola zavia di Bengasi ha 8 immobili e 2 mila ettari di orti e
giardini; quella di Tilimum ha 12 immobili ed una rendita di 15 mila lire
annue nette; quella di Marada possiede 11 giardini e 517 palme sparse
nell'oasi; quella di Tocra 19 immobili; quella di Mrassas 15 mila ettari
(7). Secondo le stime fatte fare da Graziani il reddito annuo delle zavie,
escluse quelle di Giarabub e di Cufra, supera le 200 mila lire, gran parte
delle quali finivano nelle casse della ribellione. « Considero pertanto la
chiusura delle zavie - scrive Graziani a Badoglio il 14 giugno - un
provvedimento fondamentale per lo stroncamento della ribellione» (8)

Nel timore, però, che il provvedimento provochi l'indignazione e la
collera delle popolazioni musulmane, Graziani chiede a Mohammed er-Ridà di
stilare e di divulgare un documento a favore della chiusura delle zavie.
Il Senusso, ormai incapace di opporsi alle sempre più frequenti pressioni
degli italiani, accetta l'incarico e dirama un comunicato con il quale
sconfessa l'operato dei suoi fratelli Mohammed Idris e Ahmed esh-Sherif,
invita i ribelli a sottomettersi « al caro Graziani », che è « un padre
compassionevole, clemente, misericordioso e giusto » e soggiunge: « Il
sequestro dei beni della Senussia e la loro confisca oggi è un
provvedimento giusto, poiché lo hanno causato i miei fratelli. Essi
pertanto sono i responsabili di fronte ai capi della Confraternita per il
male che hanno fatto » (9). A favore della misura si schiera anche il
direttore del giornale bengasino « Berid Barca », Mohammed Mohesci.
L'articolo di questo collaborazionista è quanto di più servile si possa
immaginare. Egli definisce le zavie « consolati del nemico » e si
meraviglia che siano state chiuse soltanto ora e non nel 1923 dopo la
abrogazione degli accordi con la Senussia. « La chiusura di queste zavie -
scrive inoltre - mentre sopprime un mezzo non indifferente di connivenza
coi ribelli, ritorna a vantaggio della grande maggioranza dei sottomessi
in quanto elimina una grave causa che dava luogo all'accusa di connivenza.
[...] Non esageriamo dicendo che la parola confisca significa in questo
caso liberazione di tali beni religiosi dalle mani degli usurpatori » (10).

Tolte alla ribellione le principali fonti di finanziamento, Graziani
decide di sferrare una grande offensiva contro i ribelli, convinto di
poter ripetere i successi ottenuti in Tripolitania e di poter mettere una
buona volta le mani su Omar al-Mukhtàr. Meditando sul suo passato
fortunato e sul fatto che ha piegato ad uno ad uno tutti i capi della
guerriglia, Graziani scrive: « Siccome io sono stato seme pre un po'
mistico [...], sono stato sempre convinto che questo sia avvenuto non per
semplice caso umano, ma per una volontà ed una ispirazione superiore
legittimante in me la certezza che i ' capi ribelli sarebbero tutti finiti
per le mie mani ' » (11). Con queste convinzioni, il 16 giugno 1930
Graziani lancia quasi tutte le forze presenti in Cirenaica contro i duar
di Omar che stanziano nella regione del Fayed, a sud di Cirene. Ma ancora
una volta Omar riesce a sgusciare tra le truppe del colonnello Spatocco,
che attaccano da nord, e quelle del colonnello Maletti, che incalzano da
sud. Il rastrellamento dura fino alla fine di giugno, ma senza alcun
risultato apprezzabile.

Il 20 giugno, mentre le operazioni nel Fayed sono ancora in corso,
Badoglio invia a Graziani una lunga lettera con la quale critica duramente
l'operato del vice governatore e gli impartisce nuove direttive intese ad
imprimere una netta svolta alla lotta contro la Senussia. « Ho voluto
lasciar compiere a V.E. questo primo ciclo operativo senza un mio diretto
intervento, - scrive Badoglio - sia per non intralciare l'opera, sia anche
per corrispondere al desiderio di V. E. che mi ha telegrafato di rimandare
la mia venuta costì a ciclo operativo chiuso. Ma è mio stretto dovere ora
intervenire, perché la responsabilità dell'azione viene direttamente a me,
prima di giungere al ministero ».

Chiarito l'ordine delle responsabilità, Badoglio analizza l'azione
condotta nel Fayed da Graziani e tutte le operazioni che l'hanno preceduta
a partire dal 1923 per giungere a concludere « che le manovre chiamate a
largo raggio sono sempre fallite e saranno sempre, finché durano le
attuali condizioni, destinate al fallimento ». Due sono le cause
essenziali del ricorrente insuccesso: «Il vigilantissimo servizio di
protezione e di informazione dei ribelli » e la straordinaria abilità di
Omar al Mukhtàr, il quale non si lascia mai cogliere da « megalomania
guerriera » e, « da freddo e sereno valutatore delle sue forze e delle
conseguenti possibilità, rifiuta il combattimento e disperde le sue forze
[...]. Se V.E. esamina la storia di tutte le operazioni, - continua
Badoglio, calcando non poco la mano - vede che sovente abbiamo preso delle
greggi, ma non abbiamo mai inferto colpi severi all'avversario, appunto
per la persistenza delle condizioni suaccennate ».

Se dunque la controguerriglia tradizionale non dà alcun frutto, bisogna
adottare, precisa Badoglio, altri metodi, anche se severissimi o
addirittura catastrofici per i libici: « Bisogna anzitutto creare un
distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e
popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo
provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta
sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo
perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione
della Cirenaica ». Per realizzare il distacco territoriale tra ribelli e
sottomessi, prosegue Badoglio, « urge far rifluire in uno spazio ristretto
tutta la popolazione sottomessa, in modo da poterla adeguatamente
sorvegliare ed in modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa
e i ribelli. Fatto questo, allora si passa all'azione diretta contro i
ribelli » (12).

Cinque giorni dopo aver scritto questa lettera, che provocherà la
deportazione dal Gebel di 100 mila arabi, Badoglio si incontra con
Graziani ed insieme concertano le modalità per effettuare l'operazione,
che non ha forse precedenti nella storia dell'Africa moderna. Badoglio non
è però il solo responsabile di questa infamia (13). Il ministro De Bono
sollecitava questa misura estrema da tempo e non ci risulta che Mussolini
abbia avuto qualche scrupolo nell'approvarla. Badoglio è soltanto il
cervello che ha teorizzato i vantaggi della deportazione, l'uomo che ha
messo in moto l'ingranaggio letale. E' certo, tuttavia, che egli imbocca
la via della repressione più spietata dopo che il suo doppio gioco è stato
smascherato da Omar al-Mukhtàr. C'è indubbiamente, nella sua scelta di un
provvedimento che può condurre, come condurrà, allo sterminio di un
popolo, un fatto personale, un rancore sordo, che spartirà con Graziani.
Entrambi non saranno soddisfatti che quando vedranno il corpo del vecchio
Omar oscillare appeso alla forca, nella piana di Soluch.
I lager della Sirtica
Il provvedimento di sgombero della Cirenaica non colpisce le popolazioni
dell'intero territorio. Ne sono escluse quelle urbanizzate (circa 50 mila
persone), quelle stabili intorno ai centri costieri (10-15 mila) e inoltre
quelle delle oasi dell'interno (5-10 mila), le prime perché più fidate, le
altre perché facilmente controllabili e comunque lontane dalle regioni
dove più viva è la ribellione. Vengono invece deportate tutte le
popolazioni nomadi e seminomadi, per un complesso di 90-100 mila persone,
a seconda delle stime (14). Deciso il 25 giugno, dopo l'incontro a Bengasi
tra Badoglio e Graziani, lo sgombero totale dell'altipiano comincia a
compiersi due giorni dopo e il 7 luglio, come apprendiamo da un telegramma
di Badoglio a De Bono, è in pieno svolgimento senza che Omar al-Mukhtàr vi
si possa opporre. Scrive Badoglio: « Gli Auaghir sono tutti riuniti fra
Giardina, Soluch e Ghemines. Ho loro parlato assai severamente ieri
mattina. Domani sarà ultimato il concentramento dei Braasa, Darsa e Abid
fra Tolmeta e Tocra. Martedì si inizierà lo spostamento degli Abeidat.
Questo imponente movimento sarà ultimato verso il 20. [...] La raccolta
dell'orzo sull'altipiano sarà terminata con la fine dei movimenti di
concentramento, cosicché nessun indigeno dovrà più trovarsi
sull'altipiano, e chiunque sarà incontrato sarà passato per le armi come
ribelle » (15).

Nella stessa giornata del 7 luglio Badoglio emana il foglio d'ordine n.
151 riservato ai comandanti militari e ai funzionari civili della colonia.
Con questo documento, che rivela un linguaggio nuovo, più scopertamente
brutale, Badoglio informa i suoi collaboratori che la popolazione indigena
ha accolto il grave provvedimento « senza alcuna reazione, anzi con supina
obbedienza, come con uguale sentimento aveva subito il ritiro delle armi.
Essa ha perfettamente compreso che la forza è nelle mani del Governo, non
solo, ma che il Governo è deciso a qualsiasi estremo provvedimento pur di
ottenere l'esecuzione perfetta degli ordini impartiti ». Dopo aver
raccomandato di esercitare la massima vigilanza intorno ai campi di
concentramento che si stanno costituendo, « giacché ogni minimo
allentamento frustra tutta l'efficacia dei provvedimenti in corso e
prolunga la ribellione», Badoglio precisa come si dovrà d'ora innanzi
combattere l'ultima campagna contro i duar di Omar.

« Bisogna assolutamente bandire il sistema arabo della sparatoria da
lontano », scrive Badoglio. L'avversario va agganciato, va aggredito
all'arma bianca. E se riesce a sottrarsi all'accerchiamento, va subito
organizzato l'inseguimento, che non deve conoscere limiti ed «essere
feroce, inesorabile. Deve essere una vera caccia al ribelle nella quale
sarà redditizio ogni atto della più sfrenata audacia » (16).

Tra giugno e luglio viene completata l'evacuazione del primo e del secondo
gradino del Gebel, il che provoca il vuoto intorno ad Omar al-Mukhtàr,
ormai costretto a rifornirsi soltanto in Egitto. Un testimone di questo
esodo forzato, Federico Ravagli, lo descrive con versi assai modesti, che
hanno il solo intento di perfezionare il mito di Graziani:

« D'oltre confine arrivan armi e messi
sul Gebel, dove la rivolta ha sede;
non son le zavie i templi de la fede,
non son fedeli e puri i sottomessi.

Genti, alla costa! », disse: e senza ambagi
un'immonda migrò biblica schiera,
sottratta a l'odio ai morbi ed ai contagi.

E perché un varco sol non fosse aperto,
gettò di ferro un'ispida barriera
da Solum a le soglie del deserto (17).

Completato il trasferimento delle popolazioni dal Gebel alla costa,
Graziani si accorge che il distacco tra sottomessi e ribelli non è però
completo. Non è cessato del tutto, infatti, né il pagamento delle decime,
né le fughe dai campi degli uomini validi per riempire i vuoti dei duar.
D'accordo con Badoglio, Graziani applica allora misure più radicali e, fra
queste, il trasferimento dei campi di concentramento nel sud bengasino e
nella Sirtica, regioni notoriamente fra le più inospitali. « Il paese di
el Magrun - riferisce il giornalista Os. Felici - è sorto sulla terribile
piana riarsa, senza una mica d'ombra, appunto per raccogliere i nomadi.
Graziani ha pensato che, a cominciare dal luogo, essi debbono avere la
sensazione precisa del castigo » (18).

Il materiale documentario sulla deportazione delle popolazioni cirenaiche
è assai scarso e quel poco che è finito negli archivi di stato è
generalmente reticente. Non c'era, in realtà, da gloriarsi dell'operazione
e questo forse spiega la carenza dei documenti. Per cui non siamo in grado
di descrivere il calvario di tutte le tribù. Disponiamo soltanto di
un'ampia e dettagliata relazione sull'esodo degli Auaghir, grazie alla
solerzia del commissario regionale di Bengasi, Egidi. In base a questo
rapporto, apprendiamo che il 27 giugno reparti di carabinieri e di ascari
eritrei fanno sgomberare i centri di Tocra, di Bersis e di Mebni e ne
avviano le popolazioni verso il campo provvisorio di Driana, che dista una
cinquantina di chilometri. Dopo una sosta di qualche giorno, il 4 luglio
gli Auaghir riprendono la marcia scortati dagli ascari. Sono alcune
migliaia, in grande maggioranza donne, bambini e vecchi. Al loro seguito 2
mila cammelli, che trasportano le loro povere masserizie. In coda alla
carovana il bestiame della tribù, circa 6 mila capi, cioè quel poco che si
è salvato dalle razzie e dalle controrazzie.

La carovana segue l'itinerario Driana - Sidi Mansur - Benina en-Nauaghia
- Hosc el Ghetaan - Ghemines. Forse duecento chilometri, ma per vie
impervie ed in regioni semidesertiche. Sin dai primi giorni di marcia, i
più vecchi e i più deboli tendono a staccarsi dalla colonna. Ma gli ordini
sono severissimi. Si legge nella relazione: « Non furono ammessi ritardi
durante le tappe. Chi indugiava, veniva immediatamente passato per le
armi. Un provvedimento così draconiano, fu preso per necessità di cose,
restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro
beni. Anche il bestiame che, per le condizioni fisiche, non era in grado
di proseguire la marcia, veniva immediatamente abbattuto dai gregari a
cavallo del nucleo irregolare di polizia che avevano il compito di
proteggerlo e di custodirlo » (19).

l percorso fra Driana e Ghemines viene compiuto in dodici giorni. Di
questa marcia della morte non sappiamo altro. Nessuno ha tenuto il computo
dei ritardatari abbattuti con una fucilata. Né il commissario regionale di
Bengasi, né i capi della tribù degli Auaghir. Comunque la dimensione è
quella dell'eccidio, come vedremo più avanti quando cercheremo di fare un
po' di conti. Ma il calvario non termina a Ghemines. La destinazione
finale è Soluch. Altri cento chilometri di deserto, di pene, di cedimenti,
di morte. E quando gli Auaghir giungono a destinazione, vengono ammassati
in un grande campo circondato da una doppia barriera di filo spinato. Dal
quale non usciranno per tre anni.

Non diversi debbono essere stati i trasferimenti delle altre popolazioni.
Ma il primato della sofferenza spetta senza alcun dubbio agli Abeidat e ai
Marmarici, che in pieno inverno sono costretti a compiere una marcia di
1100 chilometri dalla Marmarica alla Sirtica. Gli Abeidat e i Marmarici
erano stati concentrati nel campo di Ain el Gazala, nelle vicinanze di
Tobruk. Ma non si erano rassegnati, come gli altri, al loro destino ed
avevano deciso di defezionare in massa d'accordo con Omar al-Mukhtàr che
agiva nei dintorni. Il complotto era stato però scoperto nel dicembre del
1930 e sventato. Per punizione Graziani ordina il trasferimento dei 6500
Abeidat e Marmarici nella Sirtica e sceglie, per la marcia che dura alcuni
mesi, la stagione più inclemente. «Questo energico provvedimento
all'estero fece versare torrenti d'inchiostro e fu condannato come barbaro
- scrive Imerio da Castellanza -. Del resto, riflettendo che le genti
della Marmarica sono nomadi, una marcia un po' più lunga non era poi un
castigo sproporzionato allo scopo che Graziani voleva ottenere, cioè la
pacificazione della colonia» (20).

Vediamo ora dove sono dislocati i campi di concentramento. Secondo una
relazione di Graziani del 2 maggio 1931, cioè a trasferimento ultimato,
risulta che i lager più importanti sono concentrati nel sud bengasino e
nella Sirtica. L'accampamento più grande è quello di Marsa Brega, che
raccoglie 21.117 fra Abeidat e Marmarici. Seguono Soluch, con 20.123
Auaghir, Abid, Orfa, Fuacher e Mogàrba; Sidi Ahmed el Magrun, con 13.050
tra Braasa e Dorsa; el Agheila, con 10.900 fra Mogàrba, Marmarici e
parenti dei ribelli in armi; Agedabia, con 10 mila persone, di cui non si
specifica la tribù; el Abiar, con 3123 Auaghir. Complessivamente, dunque,
questi sei lager raccolgono 78.313 cirenaici (2l). Ai quali vanno aggiunti
i confinati nei campi minori di Derna (145 tende), di Apollonia (1354), di
Barce (538), di Driana (225), di Sidi Chalifa (130), di Suani el Terria
(100), di en Nufilia (375) e i due di Bengasi, Coefia e Guarscia (245).
Calcolando quattro persone per tenda, si hanno altri 12.448 confinati, che
portano il totale generale a 90.761 (22). Ma non è finita. Bisogna tenere
conto delle persone abbattute durante le marce di trasferimento e dei
morti nei lager, per denutrizione, malattie e tentativi di fuga, nei primi
mesi di prigionia. La cifra totale dei deportati sale così a non meno di
100 mila.

Questa cifra rappresenta esattamente la metà degli abitanti della
Cirenaica, se teniamo per buono il censimento turco del 1911, che dava una
popolazione di 198.300 anime (23). Se si considera che altri 20 mila
cirenaici hanno lasciato il paese per rifugiarsi in Egitto, si deve
calcolare che soltanto poche decine di migliaia di persone non hanno
conosciuto i rigori della deportazione e della detenzione. Rigori che
provocano un numero altissimo di decessi. Dalla già citata relazione del
commissario regionale di Bengasi, Egidi, apprendiamo infatti che i reclusi
del campo di Soluch scendono, in poco più di un anno, da 20.123 a 15.830,
e quelli di Sidi Ahmed el Magrun da 13.050 a 10.197 (24). Quando le
autorità italiane compiono il 21 aprile 1931 il primo vero censimento,
condotto con tecniche moderne, scoprono che gli indigeni sono soltanto 142
mila. In venti anni, in altre parole, la popolazione ddla Cirenaica è
diminuita di circa 60 mila unità: 20 mila per l'esodo verso l'Egitto, 40
mila per i rigori della guerra, della deportazione e della prigionia nei
lager. In nessun'altra colonia italiana la repressione ha assunto, come in
Cirenaica, i caratteri e le dimensioni di un autentico genocidio (25).

Entriamo ora in uno dei lager, quello di Sidi Ahmed el Magrun, ed
ascoltiamo ciò che ci riferisce un giornalista fascista, Os. Felici, certo
non sospetto di simpatia per i reclusi. «Il campo ha la forma di castrum
romano - scrive -. Ogni lato misura milleduecento metri. Dentro, vi sono
otto quadrati, disposti in maniera che, davanti ad ogni gruppo di due di
essi, vi è altrettanto spazio libero da poter ospitare gli animali. Ogni
quadrato conta da quindici a venti file. Tutto è numerato e specificato.
Si sa così quali genti ospitino i quadrati, divisi l'uno dall'altro da
ampie strade, e le file. Vi è il capo del campo, vi sono i capi quadrato,
vi sono i capi fila. Tutti, si badi bene, indigeni » (26).

I tredicimila reclusi di Sidi Ahmed el Magrun vivono in tende, come, del
resto, gli abitanti di tutti gli altri campi. «Che cosa siano le tende non
è possibile dire - scrive Os. Felici -. Le vele marinaresche più provate e
rabberciate non avrebbero nulla da invidiare. Le pezze di Arlecchino sono
infinitamente minori delle pezze che la donna beduina s'industria ad
applicare a queste case del deserto»(27). Descritte le abitazioni, Felici
si chiede: «Come mangia tutta questa gente? Parte di essa è tesserata. E
la tessera dà diritto a ritirare ogni dieci giorni tanto orzo in ragione
di mezzo chilo a testa»(28). Con razioni così scarse non si vive. E poiché
il governo della Cirenaica non intende sobbarcarsi il mantenimento dei
reclusi, gli uomini validi vengono impiegati nella costruzione di strade e
le donne nella coltivazione di alcuni orti sorti nelle vicinanze dei
lager. Altri confinati badano al bestiame e si muovono scortati da reparti
di ascari o di carabinieri.

Anche negli altri campi le condizioni economiche delle popolazioni sono
poverissime ed ogni giorno si combatte per la sopravvivenza. Di questo
diffuso malessere c'è traccia anche nelle relazioni governative, anche se
esse, come è ovvio, tendono a celare le vere dimensioni del dramma.
Scrive, ad esempio, il commissario regionale di Bengasi: «Le condizioni
economiche della popolazione di Soluch non sono troppo floride: il
predonaggio con le sue razzie ridusse sensibilmente l'ingente numero di
bestiame che, specie gli Abid e gli Orfa, avevano. L'allontanamento dalle
loro terre, tanto opportuno e necessario per la sicurezza del territorio,
ha contribuito, sia pure in misura tenue, a peggiorare le condizioni»(29).
Ben più crudeli ed amare sono le testimonianze dei sopravvissuti. «Ci
davano poco da mangiare - riferisce Reth Belgassem -. Dovevamo cercare di
sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo
stanchi per lavorare»(30). «Ricordo la miseria e le botte - racconta a sua
volta Mohammed Bechir Seium -. Ogni giorno qualcuno si prendeva la sua
razione di botte. E per mangiare ricordo solo un pezzo di pane duro del
peso di centocinquanta o al massimo duecento grammi, che doveva bastare
per tutto il giorno»(31).

Pessime anche le condizioni sanitarie dei lager. A Soluch, per ventimila
internati, c'è soltanto un medico, il quale, per giunta, deve anche badare
ai tredicimila reclusi del campo di Sidi Ahmed el Magrun. A Marsa Brega,
dove sono confinati ventunomila cirenaici, «il servizio sanitario ?
confessa lo stesso Graziani ? è attualmente disimpegnato da un sezione
fissa di sanità, che lavora sotto il controllo del medico di Agheilat, che
si reca a Marsa Brega un paio di volte per settimana»(32). Una
vaccinazione antivaiolosa di massa riesce a bloccare questo flagello, ma
non altre epidemie. Nel marzo del 1933 il commissario regionale di
Bengasi, Egidi, avverte Graziani che a Soluch si sta diffondendo il tifo:
«A me e al signor direttore di sanità sembra che il periodo di attesa
caldeggiato da codesta direzione sia superato: il tifo petecchiale esiste
e si estende. Prego codesta onorevole direzione di volermi fornire le
istruzioni ed i mezzi necessari per fronteggiare l'epidemia»(33).

Non bastassero la fame e le epidemie, nei campi i guardiani esercitano
ogni sorta di violenze. Racconta Reth Belgassem, recluso ad el Agheila:
«Le nostre donne dovevano tenere un recipiente nella tenda per fare i loro
bisogni. Avevano paura di uscire. Fuori rischiavano di essere prese dagli
etiopi (34) o dagli italiani. Non lasciavamo mai sole le nostre donne. Le
tenevamo chiuse tutto il tempo anche se l'odio dei guardiani era quasi
tutto rivolto agli uomini» (35). Un tentativo di fuga, un atto di
ribellione, il rientro tardivo nei campi sono quasi sempre puniti con la
morte. «Le esecuzioni avvenivano sempre verso mezzogiorno in uno spiazzo
al centro del campo e gli italiani portavano tutta la gente a guardare -
riferisce Reth Belgassem -. Ci costringevano a guardare mentre morivano i
nostri fratelli»(36). «Ogni giorno uscivano da el Agheila cinquanta
cadaveri - racconta Salem Omran Abu Shabur -. Venivano sepolti in fosse
comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre.
Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che
morivano di fame o di malattia»(37).

Di questa tragica realtà poco trapela in Italia, dove, del resto, si hanno
scarse notizie anche sulla guerra libica, che si trascina, dimenticata, da
vent'anni. E quel poco che trapela passa attraverso il filtro severo della
censura o viene deformato dagli organi della propaganda. Così, per
«L'Oltremare», il campo di Soluch è una specie di paradiso dove fioriscono
l'ordine e una disciplina perfetti» e dove «regna ovunque l'igiene e la
pulizia»(38). Anche per Giuseppe Bedendo, il cantore delle gesta di
Graziani, i lager sono istituzioni benefiche, per le quali il
vice governatore non ha proprio nulla da vergognarsi, al contrario:

Jè dette da magna, tutto jè dette,
medichi, medicine, garze, benne,
jè dette stoffe pè fasse le tenne
e jè spedì financo le ricette.

Era concentramento, era galera?
Quello ch'à fatto, no, nun era abbuso! (39).

E pazienza che questi giudizi vengano espressi durante il fascismo. Ma
anche dopo il crollo della dittatura c'è chi, come il generale Canevari,
scrive: «Noi non abbiamo mai creato 'campi di concentramento ' in
Cirenaica, ma solo delle ' riserve ' in campi splendidamente sistemati e
forniti di tutto il necessario, dalle tende di lana di cammello nuove agli
impianti igienici, ai servizi idrici, ecc. In tal modo il governo italiano
sottraeva i ' sottomessi ' al tremendo dilemma: o rifornire i ribelli o
cadere sotto le loro vendette, e perciò li salvava anche dalle conseguenze
dei loro atti. [...] Dopo la permanenza negli accampamenti preparati da
Graziani, le popolazioni della Cirenaica tornarono alle loro terre di
coltivazione e di pascolo rinnovate dalla scienza e dalla scuola»(40).

Le scuole e i collegi per i bambini abbandonati sono appunto indicati
dalla storiografia fascista come un innegabile titolo di merito. Nel
collegio di Soluch, ad esempio, sono stati raccolti 375 ragazzi e 125
ragazze. Secondo il commissario Egidi, essi fruiscono di un «vitto
speciale », costituito da tè e pane al mattino; una minestra a mezzogiorno
e un pezzo di pane alla sera; due volte alla settimana un pezzo di carne
(41). E' pochissimo, ma è sempre di più di quello che ottengono gli adulti
nei campi. Inoltre i maschi ricevono lezioni pratiche di agricoltura,
mentre le ragazze seguono corsi di taglio e cucito. «Come marciano e
sfilano! ? osserva Os. Felici in visita al collegio ? E come i loro
esercizi sono perfetti! Perfetti tanto, da parere quasi meccanici. Nel
saluto, nell'andatura, essi hanno un non so che di lievemente
caricaturale, come se, più dello spirito, fossero persuasi della forma di
ciò che imparano. Ma quale materia di soldati non è in questi
ragazzi?»(42). Ce n'è molta, infatti. Graziani è il primo ad accorgersene.
E subito moltiplica questi collegi sino a costituirne una dozzina, con
2800 elementi. E saranno i migliori serbatoi di volontari per i
battaglioni libici in via di ricostituzione.

Orfani di ribelli, segregati in collegi caserme agli ordini di severissimi
sottufficiali dell'esercito italiano, in pochi anni essi perdono ogni
legame affettivo e culturale con il Gebel che li ha generati. Come pazze
marionette, essi si esibiscono in perfetti esercizi ginnici davanti alle
autorità e cantano, tra gli altri inni del regime, due preghiere, I'una
dedicata al re, l'altra al duce. La prima dice: «Il nostro Re si chiama
Vittorio Emanuele. E' chiamato anche il Re Vittorioso, perché egli è il
capo dell'Esercito che ha vinto i nemici d'Italia. Egli è molto sapiente,
coraggioso, buono. Durante la grande guerra egli fu alla fronte con i suoi
soldati e non ebbe mai paura. Egli vuole bene al suo popolo, lo aiuta nei
suoi bisogni e lo consola nelle sue sventure. Emanuele vuol dire 'mandato
da Dio' e il nostro Re venne proprio mandato da Dio per far grande
l'Italia ». Quella dedicata al duce, dice: «S. E. Mussolini è il grande
Capo, il nostro Duce. Duce è chi guida, chi va avanti per insegnare la
strada buona. [...] Ha dato a noi la coscienza del nostro destino,
l'orgoglio di essere figli d'Italia. Signore, noi ti preghiamo, proteggilo
tu!»(43).

Ancora ieri seguivano trotterellando il cavallo del padre ribelle tra le
forre e le foreste del Gebel. Oggi, di colpo, sono diventati figli
d'Italia. E sembrano orgogliosi di esserlo. Di pregare devotamente per il
Re e il Duce. Di essere uguali, o quasi, agli altri ragazzi della
penisola, che cantano le stesse canzoni, che pregano per gli stessi
semidei. Hanno tra i 9 e i 15 anni. Quasi nessuno è stato alla scuola
coranica. Sono lavagne pulite sulle quali si può scrivere di tutto. Di lì
a quattro anni, sufficientemente indottrinati, i più grandicelli
sceglieranno con gioia la carriera militare e finiranno in Etiopia, con la
divisione Libia. Saranno delle perfette macchine da combattimento. Dei
perfetti galli assassini. Da Gianagobò a Dagahbur non faranno un solo
prigioniero (44). Mentre i ragazzi imparano ad uccidere, gli adulti, nei
campi, ricevono, con il sussidio di minacce e di botte, un solo
insegnamento: quello di sollevare il braccio nel saluto romano. E lo fanno
di continuo, come tanti automi. Os. Felici ne è tanto meravigliato e
sconvolto, che scrive: «Saluti, saluti. E' tutto un sollevamento di
braccia nell'atto del saluto romano. Non ho mai veduto tanti, tanti
saluti. Chi siede, si alza e saluta. Ora che scrivo, ho dinanzi agli occhi
come una selva di braccia levate, tutte protese nel saluto romano»(45).

Dopo aver costruito questo universo concentrazionario, che Marie Edith De
Bonneuil definisce «visione da incubo» (46), nonostante la sua sconfinata
ammirazione per il fascismo, Graziani si accorge che, malgrado le misure
radicali che ha adottato, Omar al-Mukhtàr continua a ricevere le decime,
seppure in misura minore. La sua attenzione si appunta perciò sui notabili
della Cirenaica sospetti di conservare legami con la Senussia e il 6
novembre 1930 ordina l'arresto di 120 capi e il loro internamento nel
campo di Benina. Nel comunicare a Badoglio la sua decisione, Graziani
dice: «Le popolazioni potranno così essere realmente governate senza capi
e con la diretta influenza dei commissari, a fianco dei quali saranno
messi dei mudir, che cercherò di trovare tra i vecchi sciumbasci dei
battaglioni libici e zaptiè»(47).

Qualche mese dopo, nel maggio del 1931, a repressione quasi ultimata,
Graziani rivela tutta la sua soddisfazione in un documento riservato al
ministro De Bono. «I campi sono ormai sulla via della definitiva
sistemazione, ? scrive ? e mentre assicurano l'eliminazione della
connivenza dei sottomessi con i ribelli, preparano per il prossimo domani
una popolazione più docile ed abituata al lavoro, che sicuramente si
attaccherà per ragioni di interesse ai nuovi territori nei quali è stata
trasferita, perdendo l'abitudine al nomadismo e acquistando i gusti e le
esigenze delle popolazioni sedentarie, sulle quali necessariamente deve
fondarsi e svilupparsi il programma di pacificazione e valorizzazione
della Cirenaica»(48). La reclusione nei campi durerà mediamente tre anni.
Gli ultimi lager saranno sciolti nel settembre del 1933. Dei centomila che
erano partiti dal Gebel, ne torneranno a casa sessantamila. Forse di meno.
Si va a Cufra
La creazione dei campi di concentramento e la loro dislocazione lontano
dal Gebel, due fatti che provocano la cessazione del finanziamento locale
della ribellione, pongono Omar al-Mukhtàr in una situazione di estrema
difficoltà. A partire dal luglio del 1930 sempre più frequenti sono
infatti i suoi appelli a Mohammed Idris ed ai fuorusciti libici che vivono
in Egitto. Ma il loro aiuto è scarso e comunque insufficiente a mantenere
in armi i duar di Omar, anche se i loro effettivi sono stati drasticamente
ridotti. Il colonnello Nasi li valuta, in questo periodo, tra i 500 e i
600, e soggiunge: «Il profano, o comunque l'osservatore superficiale, non
può non chiedersi come mai 13 mila uomini non riescano, in quattro e
quattr'otto, a farne fuori 500. A questa semplicistica domanda conviene
rispondere altrettanto semplicemente: appunto perché sono solo 500
ribelli, dispersi, però, in un territorio grande due volte l'Italia. [ ...
] Il nemico principale non è qui il ribelle, è l'immensità del territorio,
la mancanza di strade. In taluni scacchieri la sete: ecco il solo, grande
nemico»(49).

Colpita alla radice, l'organizzazione ribelle deve modificare la propria
struttura e la propria tattica. Omar è infatti costretto a frazionare i
duar, a spostarli di continuo, a tenere le sue forze in potenza senza mai
impegnarle seriamente. Come giustamente fa osservare Nasi, da tempo Omar
ha abbandonato la speranza di poter ricacciare gli italiani alla costa e
non intende altro che «dimostrare al mondo che è capace di mantenere in
Cirenaica uno stato di brigantaggio per il quale la vita normale non è
possibile e confida che noi si debba, ancora una volta, scendere a patti»
(50). A rendergli la vita difficile da luglio Graziani gli mette alle
calcagna Giuseppe Malta, uno dei giovani colonnelli che più si sono
distinti nella controguerriglia in Tripolitania. Affiancato dai tenenti
colonnelli Piatti e Marone, dai maggiori Lorenzini e Ragazzi e dall'ex
capitano turco Akif Msek, Malta non dà tregua ai ribelli per tutta
l'estate e l'autunno del 1930, battendoli l'8 ottobre all'uadi es-Sània,
qualche giorno dopo a Bir Zeitun e il 2 novembre a Caf el Telem (51).

Le perdite dei ribelli in questi scontri, un centinaio, non sono
altissime, ma oramai non ci sono più a portata di mano i sottomessi a
fornire i rimpiazzi. Per rincuorare i suoi uomini, Omar fa circolare la
notizia che i Sef en-Nasser sono in arrivo da Cufra con 500 uomini. Ma a
questa storia non crede nessuno. Omar è irrimediabilmente solo, con la sua
fede, la sua ostinazione, i suoi duar che ogni giorno che passa si vanno
assottigliando. Badoglio aveva previsto questa lenta agonia e il 9
settembre 1930 invia a Graziani questo caloroso plauso: «Dal rapporto
settimanale vedo che la caccia ai beduini continua con risultati notevoli
e che i rifornimenti dal confine si fanno sempre più difficili (52). La
linea, dunque, è quella buona. Occorre che tutti si convincano che la
nostra divisa è attualmente: ' non mollare '. Sarà questione di tempo, ma
questa volta la ribellione si esaurirà. Bravo Graziani, continui!» (53).

Mentre Graziani non dà tregua ad Omar al-Mukhtàr, Abd el Gelil Sef
en-Nasser e Saleh el Atèusc, che si sono rifugiati nell'oasi di Taizerbo,
cercano di dare una mano ad Omar compiendo frequenti scorrerie nel
sud cirenaico tra la Sirtica e le oasi di Gialo. L'11 giugno, ad esempio,
una quarantina di Mogàrba e di Zueia, comandati dal figlio di Saleh el
Atèusc, si impadronisce a Sneiah Hamed di 200 cammelli. Il 3 luglio, a
Udeiat el Hod, una ventina di Mogàrba al comando di Abd Rabba el Goder
compie una nuova razzia. Ma sono missioni suicide, perché sulle oasi di
Gialo veglia il colonnello Maletti, che si è creato una fama per i suoi
inseguimenti celeri ed implacabili. Comunque Graziani non sopporta neppure
questi colpi di spillo e medita subito un'adeguata rappresaglia.

Come obiettivo sceglie Taizerbo, una grande oasi a 250 chilometri a
nord ovest di Cufra, dove è convinto si siano concentrati tutti i ribelli
fuggiti dalla Tripolitania. I1 31 luglio quattro apparecchi Romeo, al
comando del tenente colonnello Roberto Lordi, partono da Gialo e puntano
sulla lontana Taizerbo. Giunti sull'oasi, che comprende una decina di
nuclei abitati, gli aerei lasciano cadere il loro carico, costituito da 24
bombe da 21 chili ad iprite, da 12 bombe da 12 chili con esplosivo e da
320 bombe da 2 chili. La stampa italiana dà molto rilievo al micidiale
bombardamento (54), ma tace, ancora una volta, sull'impiego dei gas, che
hanno causato nell'oasi morti ed un indescrivibile panico.

Sugli effetti del bombardamento abbiamo la testimonianza di un libico
raccolta il 13 novembre 1930 dal comandante della tenenza dei carabinieri
di el Agheila, Vincenzo Cassone, ed inviata a Roma dal tenente colonnello
Lordi. Essa dice: «Come da incarico avuto dal signor comandante
l'aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle Mohammed bu
Ali, Zueia di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento
effettuato a Taizerbo. Il predetto, proveniente da Cufra, arrivò a
Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento e seppe che quali
conseguenze immediate vi furono quattro morti. Moltissimi infermi invece
vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo
ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a
specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da
vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di
liquido incolore. Rimaneva cosi la carne viva priva di pelle, piagata»(55).

In seguito al bombardamento, Abd el Gelli Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc,
con i loro uomini, si ritirano su Cufra, decisi a giocare nell'oasi la
loro ultima carta prima di sconfinare in Egitto. Ma anche per Cufra i
giorni sono contati. Già il 16 maggio Badoglio aveva scritto a De Bono:
«Cufra sta diventando il centro di raccolta di tutto il fuoruscitismo
libico. Essa inoltre resta ancora a segnare il dominio temporale della
Senussia in casa nostra. Più si ritarda l'occupazione e più la situazione
diventerà grave. Io rivolgo viva preghiera a V. E. affinché voglia
insistere presso il Capo del Governo per avere lo stanziamento occorrente.
Occorrono sei milioni. Quando si pensi a quello che è costata
l'occupazione di Giarabub, si deve concludere che la mia richiesta è molto
parsimoniosa» (56).

In attesa del finanziamento, Graziani fa bombardare anche Cufra. Il 26
agosto quattro Romeo si portano infatti sul grande arcipelago di oasi e,
come riferisce Graziani, «due apparecchi bombardarono el Giof, altri due
et-Tat, producendo visibilissimo effetto. Molte case crollarono. Fu
lanciata oltre mezza tonnellata di esplosivo. Successive informazioni
dettero che le perdite subite dalla popolazione non furono gravi, ma il
panico invase tutti, compresi i capi, i quali capirono come il cerchio si
incominciasse a stringere intorno a loro» (57). Un paio di settimane dopo,
il 9 settembre, De Bono torna alla carica con Mussolini per ottenere i sei
milioni necessari all'impresa e così giustifica la richiesta: «Cufra ha
assunto, in questo momento, una particolare importanza quale vero e
proprio centro dei traffici che mantengono in vita la ribellione in
Cirenaica. A Cufra, poi, risiedono, e naturalmente operano, esponenti
importanti non soltanto del senussismo cirenaico, ma anche dell'ormai
stroncata ribellione tripolitana. [...] Chiedo pertanto a V. E. il
consenso per eseguire questa operazione militare, che non presenta rischi
e difficoltà, se non dal punto di vista logistico, ma che ha importanza
notevolissima per la soluzione dell'annosa questione cirenaica» (58).

Qualche giorno dopo Mussolini accorda il suo consenso e subito ha inizio
la preparazione dell'impresa, che dura cento giorni e viene affidata al
generale Ronchetti, al quale tocca risolvere un problema logistico mai
prima di allora affrontato nel deserto. Per rifornire le tre colonne che
convergeranno su Cufra egli deve provvedere al trasporto, con autocarri e
cammelli, di ben 20 mila quintali tra viveri, carburanti, lubrificanti,
munizioni e materiali vari. La prima operazione che Ronchetti deve
compiere, intanto, è quella di riconoscere il terreno. Egli fa perciò
compiere alcune ricognizioni dell'itinerario Gialo - Bir Zighen e del
percorso Uau el Chebir - Uau en-Hamus - Taizerbo. In base ai dati
raccolti, si accerta che la colonna principale, che partirà da Agedabia,
avrà davanti a sé un terreno facile, camionabile, per 640 chilometri, fino
ai pozzi di Bir Zighen. Gli ultimi 180 chilometri, invece, presentano
maggiori difficoltà perché al piatto serir si sostituisce una barriera di
dune mobili. Anche le altre due colonne, che partono rispettivamente da
Zella e da Uau el Chebir, dovranno compiere un percorso difficile, ma
comunque praticabile. A preparazione ultimata, il corpo di spedizione
risulta composto da 654 nazionali (ufficiali, sottufficiali e truppa) e da
3321 ascari, con 378 automezzi, una sezione di autoblindate, 7 mila
cammelli, 3 cannoni, 70 mitragliatrici e 25 aerei da ricognizione e da
bombardamento. Una forza almeno dieci volte superiore a quella
dell'avversario.

A Cufra, intanto, si attende con comprensibile inquietudine l'imminente
attacco italiano. La preoccupazione è tanto più viva in quanto nella città
santa del senussismo non c'è la concordia. Scems ed-Din, che fa parte
della famiglia senussita essendo figlio di Ali el Chattabi, è contrario
alla resistenza e vorrebbe andarsene in Egitto con tutta la popolazione
delle oasi. Contrari a questa decisione sono invece il capo locale degli
Zueia, Abd el Hamid bu Matari, i capi dei Mogàrba Saleh el Atèusc e Rhmed
bu Sceaeb e il capo degli Ulad SuIeiman Abd el Gelil Sef en-Nasser.
Insieme essi possono disporre di una mehalla forte di 600 uomini, con una
buona dotazione di armi moderne ed un abbondante munizionamento. Essi sono
perciò decisi di dare combattimento agli italiani alle porte di Cufra,
contando sul loro affaticamento dopo il difficile percorso fra le dune
mobili. A rinfrancarli nella loro determinazione, in dicembre giunge a
Cufra un messo latore di una lettera di Ahmed esh-Sherìf con la quale egli
investe dei pieni poteri Saleh el Atèusc e Abd el Gelil Sef en-Nasser.
Questo intervento dell'ex Gran Senusso tronca il di verbio. Scems ed-Din,
con alcuni ikhuàn, prende la strada dell'Egitto. Gli altri capi si
preparano a resistere sbarrando le strade di accesso a Cufra (59).

Il 20 dicembre 1930 la colonna principale del corpo di spedizione, che
comprende i reparti del tenente colonnello Maletti e dei maggiori
Lorenzini e Rolle, lascia Agedabia per Gialo, dove giunge, a scaglioni,
tra il 22 e il 27. Una furiosa tempesta di sabbia, che danneggia autocarri
e autoblinde, provoca un ritardo di tre giorni, cosicché la colonna non
sarà pronta a ripartire, dopo la revisione delle macchine, che il 31
dicembre. II 9 gennaio è ai pozzi di Bir Zighen, mentre le colonne
secondarie, partite da Zella e da Uau el Chebir, raggiungono Taizerbo I'11
gennaio. Commentando questo secondo sbalzo, Graziani può con orgoglio
sostenere che il corpo di spedizione «in 10 giorni attraversò, con marcia
ammirevole per regolarità e disciplina, i 400 km di desolato serir che
separano Gialo da Bir Zighen senza lasciare indietro, nel lungo e non
facile percorso, né un uomo, né una macchina. La perdita si ridusse ad un
centinaio di cammelli» (60).

Il 12 gennaio 1931 Graziani si trasferisce in volo da Bengasi a Bir Zighen
per assumere l'effettiva direzione delle operazioni nella fase conclusiva
dell'impresa. Due giorni dopo viene ripresa l'avanzata verso sud. La
colonna Maletti, partita da Bir Zighen, e la colonna Campini, che si è
mossa da Taizerbo, marciano su itinerari mano a mano convergenti e vengono
mantenute in contatto dagli aerei. AlI'alba del 19 gennaio, mentre sono in
vista delle prime oasi di Cufra, il loro distacco è quasi annullato.
Qualche ora dopo, verso le 10, uno degli aerei in servizio di collegamento
avvista la mehalla ribelle, che si è attestata sul margine settentrionale
dell'oasi di el Hauuari, arroccandosi su alcune colline.

II combattimento si accende subito furioso. Maletti cerca di prendere la
mehalla tra due fuochi. I ribelli, dal canto loro, applicando la loro
tattica tradizionale, si aprono a ventaglio e cercano di avvolgere le ali
dello schieramento avversario. Ma troppo grande è la sproporzione tra le
forze in campo. Dopo due ore di aspri combattimenti i ribelli sono
costretti a cedere e si ritirano prima nell'oasi di el Hauuari, dove
tentano ancora una breve resistenza, poi verso le oasi maggiori di et-Tag
e di el Giof. Ma oramai la loro è una fuga disordinata che, come vedremo,
non si arresterà che in Egitto o nel Tibesti. Sul terreno hanno lasciato
un centinaio di morti, tra i quali il capo degli Zueia, Abd el Hamid bu
Matari. Da parte italiana, due ufficiali e due ascari morti e 16 feriti
(61).

Subito dopo ha inizio l'inseguimento dei ribelli, sia da parte di reparti
cammellati che dell'aviazione. In questo implacabile inseguimento,
condotto per giorni e giorni e in tutte le direzioni, poiché i ribelli e
le loro famiglie si sono frazionati, si completa la strage dei difensori
di Cufra. Graziani parla di altri 100 uccisi, di 14 passati per le armi e
di 250 prigionieri, compresi le donne e i bambini. Ma il bilancio
complessivo è molto più alto. Micidiale, come sempre, l'aviazione, che
parte alla caccia con 25 apparecchi. Scrive uno dei piloti, Vincenzo
Biani: «Partiti all'alba da Bir Zighen, gli apparecchi riconoscono sul
terreno le piste dei ribelli in fuga e le seguono, finché giungono sopra
gli uomini; le bombe hanno scarso effetto dato che il bersaglio è
estremamente diluito, ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia;
mirano ad un uomo e lo fermano per sempre, puntano un gruppo di cammelli e
li abbattono. [...] II gioco continua per tutta la giornata; il giorno
dopo si ripete; il terzo giorno anche; tutte le possibili vie di ritirata
sono esplorate e battute fino alla distanza di trecento chilometri, fino a
quando cioè si può avvistare l'ultimo fuggiasco. Le carovaniere della
sperata salvezza diventano un cimitero di morti abbandonati, che nessuno
penserà mai a sotterrare» (62).

Mentre Graziani e Badoglio (giunto in volo da Tripoli) festeggiano a Cufra
il loro successo (63), gli scampati al combattimento di el Hauuari e al
successivo inseguimento si dirigono in gran parte verso il confine
egiziano, gli altri verso il Tibesti e il Borcu. Saleh el Atèusc, con i
suoi uomini e le loro famiglie, raggiunge el Auenat, l'ultima oasi con
buona acqua in territorio libico, e più tardi i pozzi di el Merga. Da
questo momento, mal consigliato da una guida infida, Saleh el Atèusc, con
la sua gente, sbaglia cammino e comincia ad errare nel deserto alla
disperata ricerca di acqua e di cibo. Vaga per 70 giorni cercando invano
l'accampamento di nomadi che gli era stato segnalato. «Nel frattempo ?
racconta ? macellavamo i pochi cammelli rimastici per estrarre dalla loro
vescica quel poco di liquido che vi si trovava, liquido che distribuivamo
ai più assetati per salvarli da una morte sicura. Ben 170 persone hanno
trovato la morte per la sete ed i superstiti sarebbero certamente morti se
la provvidenza non ci avesse assistiti nell'avviarci in una località dove
trovammo un sacco di farina, uno di zucchero e the» (64).

Avvistati finalmente da una pattuglia di soldati inglesi, i ribelli
vengono disarmati e avviati al posto di frontiera di Bu Mungar. In seguito
vengono trasferiti in autocarro, su loro richiesta, nella valle del Mio, a
el Minya, dove si accampano nella proprietà di Ali bey el Masti, grande
protettore dei libici fuorusciti. «Dal nostro arrivo in questa località, ?
riferisce ancora Saleh el Atèusc ? altre 17 persone hanno trovato la morte
per forti diarree provocate indubbiamente dall'abbondanza del vitto
consumato dopo un così lungo periodo di completa privazione» (65). Meno
tragica, invece, la peregrinazione di Abd el Gelil Sef en-Nasser e della
sua gente. Anch'essi toccano i pozzi di el Auenat e di el Merga e poi si
perdono nel deserto al confine tra l'Egitto e il Sudan. Ma il loro incubo
dura poco, perché vengono subito rintracciati dalle pattuglie
anglo-egiziane ed avviati anch'essi a el Minya (66).

La notizia che la città santa di Cufra è caduta nelle mani di Graziani e
che i suoi difensori sono stati in gran parte massacrati riempie di dolore
e di sdegno le popolazioni del mondo islamico. Il 9 febbraio 1931 il
grande quotidiano del Cairo «Al Ahràm» pubblica un articolo dal titolo I
martiri della fede , nel quale si afferma, tra l'altro: «Il bilancio
italiano sarà forse arricchito dal denaro che produrranno i beni
confiscati ai senussiti, ma l'onore conta più del denaro ed è più caro dei
propri figli» (67). «La Nation Arabe», dal canto suo, scrive: «Noi
chiediamo ai signori italiani [...], i quali ora si gloriano di aver
catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di
abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante:
' Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà? ' Nei tempi moderni non sono
consentiti questi metodi medioevali e certo essi non rialzeranno il
prestigio del fascismo e dell'Italia agli occhi del mondo» (68).

In Cirenaica l'occupazione di Cufra produce un'impressione ancora più
profonda. Lo stesso Graziani ammette che «gli indigeni l'hanno vista con
animo addolorato per il carattere squisitamente mistico che quell'oasi
conservava». Graziani avanza anche l'ipotesi che la perdita di Cufra
«potrebbe rinfocolare anziché affievolire lo spirito religioso che
infiamma i combattenti del Gebel, tesi in un'ultima volontà di resistenza
pur di mantenere alto il simbolo senussita». Egli è anche convinto che ora
gli aiuti dall'Egitto si riverseranno in misura maggiore sul Gebel,
proprio per mantenere viva la rivolta nell'ultimo lembo di Cirenaica
libera. E conclude il suo dispaccio a Badoglio dicendo: «Mi compete perciò
il dovere di reagire subito a qualsiasi senso di ottimismo possa
ingenerarsi nei riguardi delle conseguenze della recente occupazione che,
a mio parere, rimarranno circoscritte ad un fatto locale, se pur di
indubbio valore morale» (69).
NOTE
(1) Il primo cenno all'esproprio delle zavie è contenuto in una lettera di
Federzoni a Teruzzi del 15 giugno 1928. Il ministro chiedeva al
governatore di presentargli un progetto per l'indemaniamento dei beni
delle zavie e lo pregava di «togliere all'indemaniamento il carattere di
provvedimento preso in odio alla religione» (ASMAI, Libia, pos. 150/7, f.
16. Lettera n. 5179). Di studiare il problema veniva dato l'incarico al
capo dell'Ufficio fondiario, il giudice Adolfo Fantoni. Si vedano i suoi
rapporti: Relazione e schema di decreto circa l'acquisizione delle terre
al patrimonio della colonia al fine della colonizzazione, Bengasi, 28
novembre 1928, n. prof. 1019; La natura giuridica degli auqaf delle zavie
senussite della Cirenaica, Bengasi, 11 agosto 1930, n. prof. 8825 (in
DLPA).

2 ASMAI, Libia, pos. 150/7, f. 16. Lettera n. 10891 del 19 agosto 1930.

3 Fatta eccezione per la zavia di Giarabub, poiché la località era
riconosciuta luogo santo anche da molti musulmani che non aderivano alla
setta della Senussia. Le zavie erano 49, così distribuite: 3 nella zona di
Bengasi, 2 a el Abiar, 2 a Soluch, 8 a Barce, 6 ad Agedabia, 7 a Cirene,
11 a Derna 4 a Tobruk, 1 a Giarabub e 5 a Cufra.

4 Insieme ai capi zavia fu confinato anche Hassan er Ridà, sulla cui
fedeltà Graziani nutriva molti dubbi (ASMAI, Libia, pos. 150/8, f. 25.
Tel. 2968 del 17 agosto 1930).

5 Cit. in R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 126.

6 ASMAI, Libia, pos. 150/8, f. 29. Graziani a Badoglio, tel. 2055 del 5
giugno 1930.

7 Ivi, pos. 150/7, f. 15. Fernando Valenzi, Relazione sull'accertamento
del patrimonio delle zavie senussite in Cirenaica, 14 aprile 1931.

8 Ivi, pos. 150/8, f. 25. Lettera n. 2230.

9 Ivi, pos. 150/7, f. 16. Allegato ad una lettera di Graziani a Badoglio,
n. 2143, del 7 giugno 1930.

10 Ibidem. L'incarico di predisporre l'accertamento del patrimonio delle
zavie e il loro assorbimento da parte del demanio della colonia fu
affidato al consigliere di Corte d'Appello Fernando Valenzi.

11 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 149.

12 ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2.

13 Il 1° luglio 1930 Badoglio inviava a De Bono una lunga relazione con la
quale lo metteva al corrente delle decisioni che aveva preso riguardo la
deportazione degli indigeni. In questo documento, che ripete ed amplia le
considerazioni fatte nella lettera a Graziani del 20 giugno, Badoglio, tra
l'altro, tracciava un ritratto di Omar al-Mukhtàr particolarmente
positivo: «La ribellione si impernia su di un uomo che gode di un'autorità
e di un prestigio assoluti. Omar al-Mukhtàr non divide il suo potere con
alcuno. Ha solo luogotenenti devoti e disciplinati. Non è quindi possibile
adoperare il solito sistema di incunearsi tra le gelosie, le rivalità, gli
odi, che sempre esistono quando vi sono capi diversi. In tutti i momenti
ed in ogni circostanza la sola sua ferma volontà detta legge. E'
abilissimo come comandante e come organizzatore (ACS, Carte Graziani, b.
1, f. 2, sottof. 2).

14 Per un accurato studio sulle deportazioni e la vita nei lager, si veda
G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica, cit., pp. 155 89.

15 ASMAI, Libia, pos. 150/21, f. 90. Tel. 146, riservatissirno personale.

16 Ivi, pos. 150/22, f. 98.

17 F. Ravagli, Alba d'impero, cit., p. 59.

18 Os, Felici, Terra nostra di Cirenaica, Sindacato italiano arti grafiche
Roma 1932, pp. 4344.

19 ASMAI, vol. V, Inventari e supplementi, pacco 5. Commissariato
regionale di Bengasi, Relazione sugli accampamenti, 28 luglio 1932, p. 4.

20 Imerio da Castellanza, Orizzonti d'oltremare, Berruti, Torino 1940, pp.
133 34.

21 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, rapporto n. 1058
del 2 maggio 1931.

22 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., cartina annessa alla p. 104.

23 Secondo uno studio eseguito dal colonnello Enrico De Agostini nel
1922-23, gli abitanti della Cirenaica erano 185.400. Evans Pritchard dava
una cifra leggermente superiore, che si avvicinava a quella del censimento
turco. Secondo un'altra valutazione (Annuario statistico italiano 1928),
gli abitanti erano 225.000.

24 Relazione sugli accampamenti, cit., pp. 13 e 24.

25 Lo stesso flagello si abbatté sul bestiame, che era la principale
risorsa della Cirenaica. Rochat calcola che perirono il 90/95 per cento
degli ovini, caprini e cavalli e l'80 per cento dei bovini e dei cammelli
(G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica, cit., p. 161).
Uno dei rari funzionari che cercò di contenere la furia distruttrice di
Graziani fu il commissario Giuseppe Daodiace. Nel chiederne il rimpatrio,
Graziani così scriveva al MAI: «La forma mentis del dottor Daodiace era
inveterata nei vecchi sistemi ed egli è stato sempre da me violentato
perché seguisse i nuovi. Mai naturalmente ho detto quale sforzo mi sia
costato incanalare la volontà del funzionario in questione ai metodi nuovi
da me attuati e da lui non approvati». «Che io non li approvassi -
scriveva Daodiace a Brusasca il 7 gennaio 1951 - risulta dalle tante e
ripetute mie proteste, scritte ed orali, per il fatto che non si facevano
mai prigionieri in occasione di scontri fra le nostre truppe e i ribelli e
si fucilavano anche donne e bambini. Non posso precisare in che anno, un
gruppo di zaptiè, ai quali era stato ordinato la fucilazione di 36 fra
donne e bambini di un attendamento, si presentò a me per protestare,
facendomi conoscere che se fosse loro stato impartito nuovamente un ordine
consimile avrebbero preferito disertare» (AB, b. 44, f. 236).

26 Os. Felici, op. cit., p. 44. L'autore fa intendere che si trattava di
guardiani estratti dalla stessa popolazione di reclusi. Ma non era così.
Si trattava invece di libici che già avevano servito come ascari
nell'esercito italiano.

27 Ivi, p. 45.

28 Ibidem.

29 Relazione sugli accampamenti cit., p. 20.

30 E. Salerno, Genocidio in Libia, SugarCo, Milano 1979 p. 90.

31 Ivi, p. 99.

32 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, rapporto

33 ACS, Carte Graziani, b. 4, f. 8, sottof. 8. Relazione di Egidi al
Governo della Cirenaica, 6 marzo 1933. Migliaia di detenuti furono colpiti
anche da deperimento organico, da oligoemie, da dissenteria bacillare e da
elmintiasi.

34 Il testimone allude agli ascari reclutati in Africa Orientale. Tra di
essi, infatti, numerosi erano gli etiopici delle regioni settentrionali.

35 E. Salerno, op. cit., p. 91.

36 Ivi p. 90.

37 Ivi p.95

38 «L'Oltremare», n. 4, aprile 1931, p. 151.

39 G. Bedendo, Le gesta e la politica del generale Graziani, Edizioni
generali CESA, Roma 1936, p. 196.

40 E. Canevari, op. cit., pp. 334 35. Ma il resoconto più reticente ed
avvilente sui campi è quello di Giuseppe Bucco e Angelo Natoli, autori di
L'organizzazione sanitaria nell'Africa Italiana, della serie L'Italia in
Africa, edito nel 1965 dal ministero degli Affari Esteri. Gli autori non
accennano mai ai campi di concentramento, ma li gabellano come
attendamenti spontanei. Si legga, ad esempio, che cosa scrivono del
famigerato lager di Soluch (p. 316): «La maggior parte degli Auaghir
transumanti viveva, prima di raccogliersi nella zona di Soluch, nelle zone
carsiche e boscose del Gebel». Il corsivo è nostro.

41 Relazione sugli accampamenti, cit., pp. 21 22.

42 Os, Felici, op. cù., p. 47.

43 Ivi, pp. 48 49.

44 A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista
dell'impero, cit., pot 666 80.

45 05. Felici, op. cit., pp. 44 45.

46 «L'Illustration», 4 novembre 1933: Vers la farouche Senoussi, p.312.

47 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. 3D. 3912 del 4 novembre 1930 Nello
stesso telegramma Graziani consigliava di non inviare i nuovi arrestati ad
Ustica, perché l'isola, già zeppa di deportati libici, rischiava di
diventare un covo di intrighi.

48 Ivi. Rapporto n. 1058, cit.

49 Guglielmo C. Nasi, La guerriglia e l'impiego delle truppe in Cirenaica,
in Governo della Cirenaica, Organizzazione marciante, Pavone, Bengasi 1931
p. 56.

50 Ivi, p. 57.

51 In uno di questi scontri cadeva Fadil bu Omar, luogotenente di Omar
al-Mukhtàr e suo consigliere più ascoltato.

52 Il traffico con l'Egitto si svolgeva in questo modo. I ribelli
conducevano il bestiame razziato o di loro proprietà verso il confine e,
qui giunti, barattavano con i contrabbandieri oppure con fuorusciti libici
il loro bestiame in cambio di tè, tabacco, farina, indumenti, armi e
munizioni. Ad un dato momento, il ministro italiano al Cairo, Cantalupo,
avvertì Graziani che, da notizie in suo possesso, alcuni contrabbandieri
sbarcavano viveri ed armi sulla costa della Cirenaica. Graziani promosse
un'indagine, per poi affermare che la notizia era falsa (ASMAE, Libia, b.
5, f. 6).

53 Cit. in Luigi Goglia, Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua
all'impero, Laterza Roma Bari 1981, p. 352.

54 Si veda, ad esempio, Sandro Sandri, L'esplorazione e il bombardamento
di Cufra «Gazzetta del Popolo», 14 settembre 1930.

55 Cit. in E. Salerno, op. cit., pp. 60 61.

56 ASMAI, Libia pos. 150/ó, f. 14. Lettera n. 1148, riservatissima. Si era
anche tentato di inviare un intermediario a Cufra per invitarne gli
abitanti ad arrendersi senza combattere, ma De Bono non era convinto
delI'efficacia di questa operazione e infatti fu lasciata cadere (ivi. De
Bono a Badoglio, tel. 3591 dell'a giugno 1930).

57 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 170.

58 ASMAI, Libia, pos. 150/ó, f. 14. Lettera n. 66641.

59 Anche Mohammed Idris aveva inviato un suo corriere a Cufra per
sconsigliare Scems ed-Din di evacuare l'oasi (ASMAE, Libia, b. 1, f. 8.
Telespr. 24293/1139 del 20 dicembre 1930).

60 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 192.

61 Graziani riconobbe il valore dell'avversario. Scrisse: «La mehalla
ribelle [...] pur essendosi trovata di fronte a forze molto superiori di
quelle contro le quali riteneva di cover combattere, si batté con audacia
ed accanimento singolari e non cedette se non quando si vide
irreparabilmente sopraffatta e quando capì che se avesse insistito sarebbe
stata presa fra due fuochi e totalmente annientata» (R. Graziani,
Cirenaica pacificata, cit., p. 201). Si vedano, per l'impresa di Cufra,
anche il libro di Dante Maria Tuninetti, II mistero di Cufra, Calcagni,
Bengasi 1931; e l'articolo di Giorgio Menzio, Come giungemmo a Cufra,
«Nuova Antologia», marzo 1937.

62 V. Biani, op. cit., pp. 243 44

63 Graziani non lesinò negli autoelogi. Scrisse che «l'occupazione di viva
forza dell'oasi di Cufra rappresenta la più grande operazione sahariana
che sia stata mai compiuta». E ancora: «In questa impresa, si assomma lo
sforzo dei capi e dei gregari, sforzo eroicamente compiutosi nel
silenzioso sacrificio del deserto, e che deve essere cantato ed esaltato
come fonte inesauribile di forza e di bellezza morale» (R. Graziani,
Cirenaica pacificata, cit., pp. 203 e 205).

64 ASMAE, Libia, b. 1, f. 8. Cantalupo a MAE, telespr. 1551/482 dell'8
maggio 1931. Il racconto di Saleh el Atèusc fu raccolto da un informatore
egiziano al soldo della nostra legazione al Cairo.

65 Ibidem. Quando la carovana di Saleh el Atèusc fu avvistata e portata in
salvo dal funzionario inglese ed esploratore M. P. A. Clayton, era ridotta
a 37 persone. Clayton salvò anche la carovana guidata da Mohammed Mittah.
Secondo i calcoli dell'esploratore inglese, i libici persero nel deserto
alcune centinaia di uomini. Per i suoi salvataggi, Clayton ricevette una
decorazione (cfr. «Bourse Egyptienne» del 4 giugno 1931). Nel 1941 il
maggiore Clayton guiderà i primi raid contro le basi italiane della
Cirenaica.

66 ASMAE, Libia, b. 1, f. 3. Cantalupo a MAE, telespr. 1960/615 del 12
giugno 1931.

67 La traduzione dell'articolo in ASMAE, Libia, b. 1, f. 7.

68 «La Nation Arabe» n. 2, febbraio 1931: L'impérialisme italien en
Tripolitaine. L'occupation de Koufra.

69 ASMAI, Libia, pos. 150/ó, f. 14. Tel. 270 del 30 gennaio 1931.


--

questo articolo e` stato inviato via web dal servizio gratuito
http://www.newsland.it/news segnala gli abusi ad ab...@newsland.it


mar

unread,
Aug 18, 2004, 5:58:07 AM8/18/04
to
Re: Le infamie del colonialismo fascista in Libia (le nostre dei nostri
simili)


sergio

unread,
Aug 18, 2004, 7:00:58 AM8/18/04
to
Il 18 Ago 2004, 11:58, "mar" <mailmar...@yahoo.it> ha scritto:
> Re: Le infamie del colonialismo fascista in Libia (le nostre dei nostri
> simili)
>

se tu ti senti simile ad un fascista e' affar tuo.

--------------------------------
Inviato via http://arianna.libero.it/usenet/

mar

unread,
Aug 18, 2004, 3:43:58 PM8/18/04
to

"sergio" <jd...@a.com> ha scritto nel messaggio
news:80Z181Z48Z200Y1...@usenet.libero.it...

guarda che forse tuo nonnoera tesserato!
altrimenti non mangiava e forse tu non saresti nato
ci pensi?


mai più frontiere

unread,
Aug 18, 2004, 3:55:19 PM8/18/04
to

mar wrote:

> guarda che forse tuo nonnoera tesserato!
> altrimenti non mangiava e forse tu non saresti nato
> ci pensi?

penso solo che mio pro.zio era CONFINATO.

mar

unread,
Aug 18, 2004, 4:54:39 PM8/18/04
to

"mai più frontiere" <nonri...@hotmail.com> ha scritto nel messaggio
news:HuOUc.44472$1V3.1...@twister2.libero.it...
>
>
> mar wrote:
>
> > guarda che forse tuo nonno era tesserato!

> > altrimenti non mangiava e forse tu non saresti nato
> > ci pensi?
>
> penso solo che mio pro.zio era CONFINATO.

vedi?
in un modo o nell'altro in quel periodo o eri fascista oppure confinato
quindi ho ragione quando dico che i casini fatti siamo un pò tutti
responsabili purtroppo
altrimenti i nostri padri o nonni dovevano scappare o disubbidire senza
vigliaccheria tutti
così mussolini rimaneva solo con i suoi pagliacci neri
ma spesso la gente è vile
:-)
>


mar

unread,
Aug 18, 2004, 5:22:32 PM8/18/04
to

"sergio" <jd...@a.com> ha scritto nel messaggio
news:80Z181Z48Z200Y1...@usenet.libero.it...

> Il 18 Ago 2004, 11:58, "mar" <mailmar...@yahoo.it>
ha scritto:
> > Re: Le infamie del colonialismo fascista in Libia (le nostre dei nostri
> > simili)
> >
>
> se tu ti senti simile ad un fascista e' affar tuo.

no dal momento che erano tutti italiani
čaffare nostro
inutile negarlo

sergio

unread,
Aug 18, 2004, 6:56:52 PM8/18/04
to
mar ha scritto:

> "sergio" <jd...@a.com> ha scritto nel messaggio
> news:80Z181Z48Z200Y1...@usenet.libero.it...
> > Il 18 Ago 2004, 11:58, "mar" <mailmar...@yahoo.it>
> ha scritto:
> > > Re: Le infamie del colonialismo fascista in Libia (le nostre dei nostri
> > > simili)
> > >
> >
> > se tu ti senti simile ad un fascista e' affar tuo.
> >
> > --------------------------------
> > Inviato via http://arianna.libero.it/usenet/

> guarda che forse tuo nonnoera tesserato!

tesserati ci saranno stati i tuoi di nonni. I miei erano e sono ancora
antifascisti.

sergio

unread,
Aug 18, 2004, 7:01:48 PM8/18/04
to
mar ha scritto:

> "sergio" <jd...@a.com> ha scritto nel messaggio
> news:80Z181Z48Z200Y1...@usenet.libero.it...
> > Il 18 Ago 2004, 11:58, "mar" <mailmar...@yahoo.it>
> ha scritto:
> > > Re: Le infamie del colonialismo fascista in Libia (le nostre dei nostri
> > > simili)
> > >
> >
> > se tu ti senti simile ad un fascista e' affar tuo.

> no dal momento che erano tutti italiani
> čaffare nostro
> inutile negarlo

mi spiace per te ma gli italiani non erano tutti fascisti, quindi per
quanto mi riguarda sara' affar tuo, jacopino.

mar

unread,
Aug 18, 2004, 7:30:19 PM8/18/04
to
> > >
> > > se tu ti senti simile ad un fascista e' affar tuo.
>
> > no dal momento che erano tutti italiani
> > čaffare nostro
> > inutile negarlo
>
> mi spiace per te ma gli italiani non erano tutti fascisti, quindi per
> quanto mi riguarda sara' affar tuo, jacopino.


ma come?
tutti gli italiani non erano fascisti?
finalmente qualcuno lo dice..........

0 new messages