Il processo di Norimberga era ancora in svolgimento - la sentenza
contro i criminali nazisti fu pronunciata il 1ottobre 1946 - quando, il
3 maggio 1946 a Tokyo, iniziarono le udienze del “Tribunale militare
internazionale per l’estremo oriente” che doveva giudicare i criminali
giapponesi, responsabili dell’aggressione al continente asiatico e agli
Stati Uniti (“Il conflitto intercapitalistico Giappone-Usa 1941-1945”;
Rinascita, 15 febbraio 2002). Con la dichiarazione finale sulla
Conferenza del Cairo, resa il l dicembre 1943 da Roosevelt, Churchill e
Chiang kaiShek, le “Tre grandi alleate” (Usa, Inghilterra e Cina
nazionalista), dopo aver respinto qualsiasi intenzione di espansione
territoriale», avevano dichiarato di combattere per «fermare e punire
l’aggressione del Giappone».
Le parole sono pietre. Una parola, come ha scritto Carlo Levi, «è una
realtà, una cosa che agisce».
Il presidente americano Harry Spencer Truman, succeduto a Roosevelt il
12 aprile 1945, fondandosi sul verbo “punire”, aveva deciso di dar vita
al tribunale internazionale, comunemente detto “di Tokyo”, incaricandone
il generale Douglas Arthur Mac Arthur il quale ne annunciò la
costituzione il 16 gennaio 1946 e ne pubblicò la “Carta” il successivo
26 aprile.
Roosevelt era stato il convinto sostenitore del processo di Norimberga
in Europa; Truman voleva un giudizio che documentasse e punisse le
responsabilità dei “malfattori gialli” per l’aggressione agli Stati
Uniti nel Pacifico. Del resto il proposito punitivo era stato espresso
nel messaggio, quello della perenne “infamia” dell’impero giapponese,
rivolto da Roosevelt al Congresso il giorno dopo Pearl Harbour: «per il
futuro non mancheremo di prendere le misure necessarie contro i pericoli
di simili forme di tradimento». E a Norimberga il procuratore generale
americano Robert Houghwout Jackson aveva definito la guerra di
aggressione come «la più grande minaccia della nostra epoca», affermando
un principio di perdurante validità nel diritto internazionale. Era
l’intuizione della necessità, per l’avvenire, di un organo superiore di
giustizia internazionale; Jackson infatti definiva una “disgrazia” il
fatto che il giudizio dovesse essere reso dalle nazioni vittoriose
contro il nemico vinto. Oggi invece gli Usa hanno fermato il cammino
della Corte penale internazionale decisa dalla Confèrenza dei
plenipotenziari dell’Onu nel 1988. E intanto alcuni segnali negativi
fanno temere che il diritto internazionale possa essere sottoposto al
dominio delle portaerei. Questo significherebbe tornare all’egemonia
dello stesso potere industriale-militare che dopo Norimberga aveva
ottenuto la destituzione del generale americano Telford Taylor,
sostituto d’accusa. La colpa di Taylor era stata la sua requisitoria
contro lo stato maggiore germanico. Negli Stati Uniti c’erano infatti
ambienti militari che manifestavano solidarietà con il militarismo
tedesco; più tardi, in quel brutto clima politico, il ‘giudice americano
di Norimberga, Francis Biddle, sarà addirittura definito «assassino» da
un editore di estrema destra, Robert McCormik, portavoce di quegli
ambienti.
Anche quando la politica estera americana cambia, «il Pentagono è sempre
quello». Sarà questa, venti anni più tardi, l’analisi di John Kemìeth
Galbraight a proposito del potere industriale militare.
Truman era per molti versi condizionato dai metodi sbrigativi di quel
potere. Ma sosteneva la necessità di offrire agli imputati, a Tokyo
come già a Norimberga, il massimo di garanzie, perché voleva mettere la
Casa Bianca al riparo da ogni possibile contestazione di mancato
rispetto di principi di civiltà giuridica. Erano preoccupazioni fondate
se Frank Murphy, giudice della Corte Suprema, aveva pronunciato parole
dure quando, su condanne di due corti marziali, erano stati giustiziati
due generali giapponesi, Masaharu Homma e Tomoyuki Yamashita. Infatti
dopo Pearl Harbour la conquista delle Filippine rappresentava per i
giapponesi una assoluta necessità strategica. Ma durante quella
offensiva Homma aveva consentito atrocità efferate contro i prigionieri
filippini e americani. E’ stato scritto che la ferocia era un modo di
vivere dell’ufficiale e del soldato del Sol Levante; e massimo era il
loro disprezzo per i nemici che si arrendevano. Inoltre Homma agiva con
proposito di rappresaglia perché Mac Arthur, comandante supremo alleato,
si era ritirato con forze ancora ingenti nell’interno di Luzon mentre
Yamashita e lo stato maggiore nipponico speravano che la caduta della
allora capitale Manila ponesse fine alla campagna delle Filippine. Dal
momento che questo non era avvenuto, circa 70.000 prigionieri alleati
furono costretti alla “marcia della morte” di Bataan. Nell’impervio
cammino di novanta chilometri da Mariveles a San Fernando furono
lasciati morire circa 17.000 prigionieri ammalati e denutriti; molti
furono decapitati con spade da samurai o assassinati con colpi di
baionetta o con tecniche di karate. In prevalenza erano filippini, più
di 2300 erano americani. Il giornale Tribune di Manila, controllato
dagli invasori, con tragica ironia scriveva che le forze imperiali
giapponesi erano andate oltre i loro doveri dando da mangiare agli ex
nemici. Homma si era arreso il 14 settembre 1945. Una Corte marziale,
riunita a Manila il 3 gennaio 1946, lo aveva si condannato a morte e la
Corte suprema degli Stati Uniti aveva rigettato il suo appello.
L’esecuzione avvenne il 3 aprile 1946 a Los Banos di Luzon. Al di là del
rifiuto giapponese a riconoscere le convenzioni sui prigionieri, Homma
aveva infranto ogni superiore principio umanitario. Ma la qualità di
osservatore presso gli inglesi in Francia durante la prima guerra
mondiale e li la croce militare dell’impero britannico, conferitagli
quando era addetto militare a Londra nel 1930, gli valsero una fine
“militare”, cioè la fucilazione alla quale il generale giapponese cercò
di sfuggire invocando, con il ricorso alla Corte suprema americana,
quei principi di giustizia che egli aveva ferocemente calpestato. In
quella circostanza il giudice Murphy, che dal 1933 al 1936 era stato
governatore delle Filippine, aveva parlato di «spirito di vendetta».
Successivamente gli storici parleranno di «punto focale dell’odio e
della vendetta», ma per interpretare i sentimenti, mai venuti meno, dei
reduci re Bataan e dalla prigionia in Giappone. Intanto anche
Yamashita, il conquistatore di Singapore, denominato “la tigre della
Malesia” durante quella campagna, dopo essersi arreso il 25 agosto
1945, era stato impiccato, previa degradazione, il 23 febbraio 1946. La
Corte marziale, acquisite le prove delle atrocità compiute su civili e
prigionieri, lo aveva condannato per violazione delle leggi di guerra.
Già militante nel partito fascista del generale Araki, Yamashita aveva
incontrato Hitler a Berlino nel 1937 ed era diventato nazista. Quando
fu giustiziato, un altro giudice della Corte suprema, Wiley Rutledge,
aveva parlato di offesa alla Costituzione americana. Nel frattempo
anche il vice-ammiraglio Shigematsu Sakaibara, « che aveva fatto
fucilare 96 civili americani a Wake, era stato impiccato mentre sorte
analoga, per uguali responsabilità, era toccata ad altri ufficiali di su
marina del Nippon.
Dal momento che le corti marziali avevano applicato le leggi di guerra
ma a guerra conclusa si stava delineando un ml conflitto tra esigenze
storiche no e ragioni giuridiche.
Ecco perché nei propositi di Truman il processo di Tokyo, pur restando
uno strumento di punizione, doveva essere realizzato con le regole del
garantismo. L’idea punitiva era stata ribadita nella Conferenza di
Potsdam del 17 luglio-2 agosto ta~ 1945: mentre Churchill insisteva
perché l’ultimatum al Giappone, per essere più efficace, garantisse
l”’onore militare” del Sol Levante, Truman aveva risposto che dopo Pearl
Harbour i giapponesi non avevano onore militare. E intanto l’istituzione
del Tribunale per l’estremo oriente finiva per influenzare il nascente
dibattito sulla liceità dell’uso dell’arma nucleare. Americani e inglesi
sostenevano che l’impiego delle due atomiche su Hiroshima e Nagasaki si
era reso necessario per il rifiuto della resa incondizionata del
Giappone e per la certezza della disperata resistenza che i suoi soldati
avrebbero opposto non soltanto in battaglie campali ma, «in ogni buca e
in ogni camininamento». Il sacrificio della popolazione delle due città,
tragico anche per le indicibili, successive sofferenze dei
sopravvissuti, avrebbe in ultima analisi evitato oltre un milione di
morti americani e giapponesi. E’ invece opinione prevalente che Truman e
il premier britannico, informato e consenziente, abbiano utilizzato
quello che proprio Churchill definì «il Grande Fatto Nuovo che ora
dominava la scena» (la scoperta dell’energia atomica) per tenere lontana
l’Urss mentre il Pacifico veniva assoggettato all’influenza americana.
Anche se il diritto internazionale dell’epoca non vietava l’uso
dell’atomica - né poteva, data la novità dell’arma -per la tesi del
divieto sono stati prospettati sia il principio di preclusione delle
sofferenze superflue sia quello che proibisce il coinvolgimento
indiscriminato di civili e militari. Ma non sono mancati, persino nella
stessa giurisprudenza giapponese, orientamenti di segno contrario.
Continuità e rottura tra lo Statuto di Norimberga e la Carta di Tokyo.
L’identità di previsioni come fondamento della continuità storica, le
differenze istitutive come segno della rottura politica.
Le comuni previsioni riguardavano i crimini contro la pace (preparazione
di guerre di aggressione); i crimini di guerra (violazioni delle norme
relative al diritto bellico); i crimini contro l’umanità (compimento di
atti inumani contro la popolazione civile).
Venivano chiamati a rispondere i capi e i complici del complotto per
commettere, isolatamente o in unicità di disegno, i delitti indicati. A
Tokyo l‘elencazione delle imputazioni fu più ampia rispetto a
Norimberga, per la vastità della guerra nel continente asiatico che
aveva coinvolto undici paesi costretti a combattere contro 1’
aggressione del Dai Nippon. Le differenze nascevano dai procedimenti
istitutivi. Infatti il processo di Norimberga fu deciso con l’accordo
del 30 ottobre 1943 tra Gran Bretagna, Usa e Urss, posto a fondamento
dello Statuto del tribunale redatto l’8 agosto 1945. L’intesa tra le
potenze vincitrici sulla Germania nazista aveva avuto come collante
anche la preoccupazione che Hitler potesse disporre e far uso per primo
di armi atomiche. La lettera di Albert Einstein a Roosevelt in data 2
agosto 1939, ipotizzando tale possibilità, preoccupava gli Stati Uniti
ancora lontani dalla guerra. Ecco perché l’accordo tra gli alleati restò
a base del processo di Norimberga anche quando vi furono dissensi di
merito come quello espresso dal giudice sovietico Nikicenko contro
l’assoluzione dei nazisti Schacht, Papen e Fritzsche. Invece il processo
di Tokyo fu organizzato dagli Usa in piena autonomia; come fu evidente
quando, con lo scopo di americanizzare il Giappone sconfitto, Truman e
Mac Arthur esclusero l’imperatore Hirohito dal processo dove la sua
presenza come principale imputato era richiesta da Nuova Zelanda,
Australia, Cina, Urss e dalla stessa Inghilterra.
Fu la ragion di stato americana a salvare dal capestro Hirohito, il
quale, divenuto imperatore nel 1926, aveva le principali responsabilità
nella guerra di aggressione, in tutta l’Asia, cominciata con l’attacco
alla Manciuria neI 1931 e proseguita sino alla pugnalata di Pearl
IIarbour.
Una precisa chiamata di correo (nessun giapponese si sarebbe mai, né mai
si era opposto a qualsiasi volontà dell’imperatore) era stata fatta in
sede di udienza preliminare dall’imputato Hideki Tojo il quale,
cumulando durante il conflitto con gli Stati Uniti le funzioni di
ministro della guerra e di supremo comandante militare, aveva finito per
assumere poteri dittatoriali. Mac Arthur, nel costringere Tojo a una
piena ritrattazione (l’imperatore non immaginava in alcun modo la
preparazione militare), aveva addotto il timore di tragiche sommosse,
risultato secondario rispetto al disegno strategico i cui sviluppi
politici furono subito evidenti, come lo sono oggi, nei rapporti
Usa-Giappone. C’era in ballo il consolidamento dell’egemonia americana
in tutta l’area del Pacifico, conquistata attraverso una sanguinosa
guerra aeronavale e terrestre, dalla quale peraltro l’economia americana
usciva con risultati e con prospettive di forte rilancio. E l’imperatore
trovò molto utile rinunciare alla natura ritenuta divina e assumere un
ruolo di collezionista di farfalle cui corrispondeva la rinuncia
americana a stringere il capestro sul suo collo ormai umanizzato.
Gianfilippo Benedetti
La Rinascita
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sergio ha scritto:
> Norimberga e Tokyo: due processi internazionali consegnati alla storia
> da oltre mezzo secolo, ma anche oggi di grande significato politico.
Sono d'accordo, anche D'Alema dovrebbe essere processato per crimini
contro l'umanità e la pace.