>Esiste una regola semplice per capire quando necessita mettere l'accento
>acuto e quando quello grave, senza bisogno di andare a cercare nel
>vocabolario?
Il discorso lo avevo affrontato io ed in diverse riprese. Per noi
siciliani, a meno di non aver fatto un corso di dizione, e'
praticamente impossibile riconoscerli. Daltronde questa caratteristica
l'abbiamo presa dagli spagnoli e quindi non da ieri. Fai come me,
normalmente segno solo le parole tronche con l'apostrofo, per le
altre, se proprio non posso farne a meno, le cerco sul vocabolario. Ma
sono dei casi molto rari.
Ciao.
Sergio.
Se sei nel dubbio, usa sempre l'accento grave (`). È un errore minore. Lo
consigliava anche Salvatore Battaglia e un tempo veniva insegnato anche
nelle scuole di dattilografia.
Io sono avvantaggiato perché in toscano si sente benissimo la differenza tra
la -é e la -è. Questo non è vero in altre parti d'Italia, quindi puoi
scrivere sempre -è. Per le altre lettere accentate mi sembra che il problema
non si ponga neppure: s'usa sempre il grave.
L'uso dell'apostrofo al posto dell'accento è orribile e cerco d'evitarlo il
più possibile. Infatti, anche quando scrivo in ASCII per comunicare con
quelche utente Macintosh, scrivo <e`>, <caffe`> e non <e'>, <caffe'> che mi
farebbe pensare a *<é>, *<caffé>, forme sbagliate. Qualche volta mi concedo
lo sfizio di distinguere tra <perche'> e <cioe`>, da vero pignolone...
Ciao,
Paolo
> Esiste una regola semplice per capire quando necessita mettere l'accento
> acuto e quando quello grave, senza bisogno di andare a cercare nel
> vocabolario?
Provo ad abbozzarne una:
Tutte le parole che terminano in -ché (sicché, perché, giacché, poiché,
affinché ecc.) si scrivono con l'accento acuto.
Tutte le altre, con l'accento grave.
Roger
P.S. Ahimé, c'è un'eccezione!
Per noi del continente, invece, funziona così:
Accento acuto su:
Tutte le parole in -ché (perché, finché, ecc...)
I monosillabi "grammaticali" accentati (sé, né, ecc..., ma non "tè")
I composti di tre (ventitré) ecc...
I passati remoti (batté...)
Grave in tutti gli altri casi (caffè, è, ecc...)
--
"Partecipano al dibattito anche Pippo Franco, Pippo Baudo, Marcello
D'Orta e Nathalie Caldonazzo" (LA STAMPA, articolo sulla trasmissione
'Porta a Porta' dedicata alla riforma scolastica).
http://digilander.iol.it/mmanca
Ehm ehm... ahimč, aimč, ohimč, oimč... accento grave. :)
Altro che *una* eccezione, comunque: sé, né, -tré (composti di tre),
viceré, olé, ohé, temé, dové, poté...
Al contrario, direi che, in finale di parola, la lettera 'e' vuole
l'accento quasi sempre acuto (suono chiuso). L'accento grave (suono
aperto) si ha in 'č', in pochi nomi d'origine straniera (tč, caffč,
lacchč, purč, bidč, canapč, bebč...) ed in pochi nomi propri
(Averroč, Mosč, Giosuč...).
Invece, l'interiezione <beh> si scrive cosě, oppure <be'> (con
l'apostrofo).
--
Bye.
Lem
--------------- 'CLOCK is what you make of it' ---------------
Nuovi numeri primi, con Prime95: www.mersenne.org/freesoft.htm
Veramente credo proprio che gli spagnoli non c'entrino, o tutt'al più
abbiano consolidato un'abitudine linguistica già esistente, e che rimanda
molto più indietro nel tempo. La mancata distinzione /é/ :: /è/, /ó/ :. /ò/
nell'italiano regionale siciliano sarà senz'altro da ricollegarsi alla
situazione propria dei dialetti siciliani, caratterizzati (dico in linea di
massima: può darsi, non lo so, che localmente ci sia qualche eccezione) da
un sistema pentavocalico, diverso quindi dal sistema eptavocalico ch'è alla
base della maggior parte della neolatinità.
Mentre in italiano (standard) lat. /i/ ed /e:/ sono continuati normalmente
da /é/ (es.: lat. /nivem/ > it. /néve/, lat. /te:lam/ > it. /téla/),
diversamente da /e/ ed /ae/ continuati da /è/ (es. lat. /septem/ > it.
/sètte/, lat. /kaelum/ > it. /c^èlo/, invece in siciliano (e calabrese) lt.
/i/ ed /e:/ sono continuati da /i/, confondendosi quindi con /i:/ latino:
es. nivi, tila come filu (tolgo gli esempi siciliani dalla Grammatica
storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, di G.Rohlfs, dove tutta
la questione è ampiamente spiegata alle pp. 5 e segg.). Ne deriva quindi che
tutte le /e/ del siciliano, se in parole di tradizione popolare, risalgono
ad un unico fonema /è/, in cui s'erano già in fase latina confusi /ae/ ed
/e/ classici, senz'ulteriori distinzioni di grado d'apertura. Lo stesso
discorso vale per la vocale o.
(it. /ó/ < lat. /u/ e /o:/, it. /ò/ < lat. /o/; sicil. /o/ < lat. /o/
soltanto, perché /u/ /o:/ /u:/ > sicil. /u/).
Ci troviamo cioè di fronte al consueto fenomeno per il quale, apprendendo
un'altro idioma (in questo caso l'italiano standard) eminentemente per via
scritta il parlante vi trasferisce il sistema fonemico della sua lingua
materna (in questo caso il siciliano), eliminando distinzioni estranee a
quest'ultimo, specie se non chiaramente segnalate dall'ortografia.
Saluti G. Pontoglio
> Esiste una regola semplice per capire quando necessita mettere l'accento
> acuto e quando quello grave, senza bisogno di andare a cercare nel
> vocabolario?
Diciamo che (restando nel campo degli accenti obbligatorî, come scrivo
io non fa testo), la "o" ha sempre l'accento grave. La "e", invece, ha di
norma l'accento acuto (perché, giacché, poté, etc.), TRANNE:
- nella forma "è" del verbo "essere" (per distinguerla dalla congiunzione)
- in alcune parole di origine straniera, che bisogna necessariamente sapere,
ma poche delle quali sono di uso comune (caffè, tè - la bevanda - narghilè,
gilè - se lo scrivi italianizzato in questa maniera - bidè - idem - etc.)
- nella parola "ahimè" e, forse, in alcune altre onomatopee, ma si tratta di
linguaggio poco codificabile e molto variabile.
- in alcuni nomi proprî, specialmente di origine dialettale, ma qui non c'è
regola che tenga, bisogna saperli a memoria.
Comunque, in caso di dubbio è meglio usare l'accento grave, la
possibilità d'errore è minore.
Per quanto riguarda le altre tre vocali (a, i, u), il problema è minore,
visto che esiste un solo grado di apertura. C'è chi le segna tutte e tre
coll'accento grave, per comodità (sono in molti), chi è particolarmente
pignolo e, per maggiore precisione, segna col grave la "a", coll'acuto la
"i" e la "u". Fa' pure come credi, l'importante è essere coerenti.
Ciao,
Nicola
--
Multa non quia difficilia sunt non audemus, sed quia non audemus sunt
difficilia (Seneca).
Strano, vero? si dice "me" /'me/ con l'e chiusa ma "ahimč" /ai'mE/ con l'e
aperta.
>
>
> Altro che *una* eccezione, comunque: sé, né, -tré (composti di tre),
> viceré, olé, ohé, temé, dové, poté...
>
> Al contrario, direi che, in finale di parola, la lettera 'e' vuole
> l'accento quasi sempre acuto (suono chiuso). L'accento grave (suono
> aperto) si ha in 'č', in pochi nomi d'origine straniera (tč, caffč,
> lacchč, purč, bidč, canapč, bebč...) ed in pochi nomi propri
> (Averroč, Mosč, Giosuč...).
Anch'essi d'origine straniera (lingue semitiche: arabo ed ebraico).
Ciao,
Paolo
>Veramente credo proprio che gli spagnoli non c'entrino, o tutt'al più
>abbiano consolidato un'abitudine linguistica già esistente, e che rimanda
>molto più indietro nel tempo.
Facciamo meta' e meta'. Diciamo che il siciliano e' una realta'
sicuramente piu' complessa (ma non e' la sola) di tante altre lingue a
causa della grande varieta' di popoli che la hanno abitata,
conquistata e dominata.
>La mancata distinzione /é/ :: /è/, /ó/ :. /ò/
>nell'italiano regionale siciliano sarà senz'altro da ricollegarsi alla
[...]
>/i/ ed /e:/ sono continuati da /i/, confondendosi quindi con /i:/ latino:
>es. nivi, tila come filu (tolgo gli esempi siciliani dalla Grammatica
>storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, di G.Rohlfs, dove tutta
>la questione è ampiamente spiegata alle pp. 5 e segg.).
In effetti la lingua siciliana si e' formata in buona parte dal medio
e tardo latino (con influenze osco-umbre e liguri) a cui si
affiancarono influenze greche e germaniche (goti e visigoti).
Poi venne il periodo arabo ed un periodo di notevole splendore che
influenzo' moltissimo la parlata e la cultura. Alla caduta del dominio
arabo si assistette a quello che il Rohlfs chiamo' il periodo della
riromanizzazione. In questo periodo si ritorno' alla vecchia lingua,
pero' molte parole rientrarono sia attraverso il volgare che
attraverso il francese e lo spagnolo. E fu in quel periodo (Federico
II) che, grazie agli uomini che popolarono la sua corte, il siciliano
suscito' l'attenzione dei fiorentini. Alla caduta di Federico seguì il
dominio francese, che in parte influenzo' la lingua, e quello spagnolo
(circa 1400). Tale ultimo periodo, durante il quale ricordiamoci che
la lingua veniva trasmessa "a voce", duro' fino al 1860 (con due
interruzioni dei francesi e dei Savoia) e secondo me ebbe un effetto
pesante sulla fonetica, tanto da influenzarne anche la sacca
franco-gallica (piemontese-lombarda) della fascia (Valdemone) che va
da Sanfratello a Piazza Armerina (dove e' rimasta forse solo la "ü"
lombarda).
Quindi concludendo, non dico che l'accento fonico non sia perso per la
riduzione vocalica dal latino, ma che sicuramente tale caratteristica
si sia riacquisita e rinforzata attraverso la parlata degli spagnoli.
>Ci troviamo cioè di fronte al consueto fenomeno per il quale, apprendendo
>un'altro idioma (in questo caso l'italiano standard) eminentemente per via
>scritta il parlante vi trasferisce il sistema fonemico della sua lingua
>materna (in questo caso il siciliano), eliminando distinzioni estranee a
>quest'ultimo, specie se non chiaramente segnalate dall'ortografia.
E qui siamo perfettamente d'accordo. Precisando pure che alle orecchie
della maggior parte dei siciliani, anche se segnalata, la differenza
non la si percepisce.
Ciao.
Sergio.
Fammi capire: siamo sordi?
:-)))))
Santino
Nooo... E' che abbiamo le orecchie meno larghe dei settentrionali :-D
Dear Father McKenzie,
e come le aveva le orecchie Eleanor Rigby?
cheese ........ formaggio!
Santino
Oddioddio! Due errori!
>affiancarono influenze greche e germaniche (goti e visigoti).
Vandali ed ostrogoti!
>E qui siamo perfettamente d'accordo. Precisando pure che alle orecchie
Agli orecchi!!!!!!! Avevo scritto un'altra cosa, poi ho corretto
e..... "aricchia" (auricula) in siciliano e' sostantivo femminile.
Ciao.
Sergio.
>Nooo... E' che abbiamo le orecchie meno larghe dei settentrionali :-D
Quindi quando mi "correggono" posso presentare il ..... certificato
medico? :-)))))
Ciao.
Sergio.
> > Nooo... E' che abbiamo le orecchie meno larghe dei settentrionali :-D
>
> Dear Father McKenzie,
> e come le aveva le orecchie Eleanor Rigby?
A occhio (!) direi contorte, visto che s'ostinava a conservare la faccia
in un barattolo presso la porta!
Salve!
Effettivamente per il senso estensivo di 'udito', in cui usi la
parola, il maschile mi pare l'unica possibilità: <essere duro
d'orecchie> non mi piacerebbe per niente.
Facendo un discorso più ampio, e riferendoci, invece, al significato
di 'organo dell'udito, padiglione auricolare', debbo dire che, pur
essendo lombardo, anch'io uso quasi sempre 'orecchie' (al singolare
quasi sempre 'orecchio').
A ben vedere, in latino si ha auric(u)la (femminile), che già Plauto
usò al posto di auris. La forma diminutiva era infatti preferita,
forse sulla scia di 'oculus'.
E' pure vero che in diversi dialetti italiani, come peraltro in
francese ed in spagnolo, anche al singolare si è mantenuto il
femminile.
> Il discorso lo avevo affrontato io ed in diverse riprese. Per noi
> siciliani, a meno di non aver fatto un corso di dizione, e'
> praticamente impossibile riconoscerli. Daltronde questa caratteristica
anche per noi milanesi
> l'abbiamo presa dagli spagnoli e quindi non da ieri. Fai come me,
non so da dove l'abbiamo presa, pero' c'e'
> normalmente segno solo le parole tronche con l'apostrofo, per le
concordo pienamente
--
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Uhm... non proprio sempre, direi. Mi viene in mente 'retró' (dal
francese).
Lem Novantotto wrote:
> On Sat, 11 Nov 2000 17:58:41 +0100, Nicola Nobili wrote:
> >la "o" ha sempre l'accento grave.
>
> Uhm... non proprio sempre, direi. Mi viene in mente 'retró' (dal
> francese).
Anche "metró" (metropolitana) e "gigoló".
Ciao,
Paolo
>I monosillabi "grammaticali" accentati (sé, né, ecc..., ma non "tè")
Speri di cavartela così facilmente? Specificare quali, Massimo,
specificare...
> Mi viene in mente 'retró' (dal
>francese).
Paltò, comò, gigolò. Le parole francesi italianizzate acquistano
l'accento grave.
E talvolta le doppie. Ricordo lo sconcerto di un piccolo gruppo di
colleghi, quando una simpatica insegnante di diritto, napoletana,
annunciò che andrebbe a preparare un gattò per il marito.
Maurizio Pistone - Torino
http://www.mclink.it/personal/MG5960
mailto:pis...@mclink.it
strenua nos exercet inertia Hor.
Scrivo solo perché ho notato che alcuni dizionari non accentano
alcuna di queste tre parole, mentre altri si comportano variamente.
Preferibilmente, essendo parole francesi, per quanto entrate da tempo
nel vocabolario italiano, accenterei metró e retró, per distinguerle
da metro e retro (la metropolitana vien detta pure "la metro", ma il
femminile si nota subito). Gigolo, non dando adito a fraintendimenti,
non l'accenterei. Va beh, ad libitum.
S'accenta, invece, 'ahó'.
--
Bye.
Lem
--------------- 'CLOCK is what you make of it' ---------------
Progetti per tutti i gusti: www.nyx.net/~kpearson/distrib.html
"Ché" (congiunzione causale)
"Sé stesso".
"Dí" (giorno)
"Lí" e "Là" (avverbi)
--
Ciao,
Mariuccia®
E' stato ben vero in molti casi (e forse si tratterà d'una tendenza
di lungo periodo), ma non capisco perché debba essere una regola,
visto che in italiano sono presenti entrambi i suoni ò e ó, e con
entrambi abbiamo dimestichezza.
Gateau l'ho sempre visto scritto gateau, a dir la verità.
Metrò, gigolò, retrò li sento poco o per nulla, e mi piacciono ancora
meno. Sul Gabrielli li trovo come metró, gigolo (pronuncia -ó),
retró. Su altri dizionari non sono accentati.
Tutti! Tè non c'entra perché ricade nella categoria delle parole
straniere.