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"subordinate implicite" e preposizioni

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Davide Pioggia

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Apr 19, 2011, 10:53:03 AM4/19/11
to
Com'è noto la grammatica tradizionale introduce la distinzione fra
subordinate esplicite e implicite, e considera implicite quelle
associate a un infinito, a un participio o a un gerundio.
Scrive Serianni:
«31. Le subordinate si dicono:
a) _Esplicite_, se contengono un verbo di modo finito
(indicativo, congiuntivo, condizionale).
[...]
b) _Implicite_, se contengono un verbo di modo indefinito
(infinito, participio, gerundio)»
(L. Serianni, _Grammatica italiana_, Torino: UTET, 1988, pag. 461).

Serianni fa poi numerosi esempi di subordinata implicita in tutto il
capitolo XIV, come questa: «mi sembra di essere tornata bambina»
(pag. 476, par. 67).

Che cos'è grammaticalmente quel "di" che regge "essere tornata"?

All'inizio del capitolo IX Serianni scrive:
«1. La congiunzione è una parte del discorso invariabile che serve a
collegare sintatticamente due o più parole (o gruppi di parole) di una
frase, oppure due o più frasi di un periodo» (pag. 305).

Questa definizione viene ripresa anche dal _Vocabolario Treccani_, che
pone in questi termini la distinzione fra "preposizione" e "congiunzione":

- «*preposizione* [...] In grammatica, parte invariabile del discorso,
costituita da una parola accessoria che, premessa a un nome, a un pronome o
a una espressione nominale, serve a precisarne la funzione sintattica»
http://www.treccani.it/vocabolario/preposizione/

- «*congiunzione* [...] In grammatica [...], parte invariabile del discorso
che serve a congiungere fra loro due elementi simili di una proposizione, o
due membri di un periodo»
http://www.treccani.it/vocabolario/congiunzione/

Ora, se è vero che la preposizione è seguita da un'«espressione nominale»
(Treccani), e se è vero che le subordinate - implicite o esplicite che
siano - «contengono un verbo» (Serianni), allora una "parte del discorso"
che sia seguita da un verbo non può essere una preposizione. Dovremo dire,
piuttosto, che è una congiunzione, perché se è vero che "di essere tornata
bambina" è una subordinata implicita, allora abbiamo un periodo costituito
da due frasi, e ciò che congiunge «due o più frasi di un periodo» (Serianni)
è appunto una congiunzione.

Lo stesso Serianni sembra essere consapevole di questa implicazione logica,
e infatti all'inizio del capitolo IX, dove definisce la congiunzione e ne
spiega l'uso, fa una serie di esempi nei quali «gli stessi elementi
lessicali possono trovare impiego ora come congiunzioni, ora come
preposizioni» (pagg. 306-307). Ecco uno di questi esempi:
«(1) (congiunzione): "ti sentirai più tranquillo _dopo_
aver sostenuto l'esame"
(2) (preposizione): "ti sentirai più tranquillo _dopo_ l'esame"»
(pag. 306).

Come si vede la regola viene applicata in modo rigoroso: quando "dopo" è
seguito da un nome ("l'esame") diciamo che è una preposizione, e se invece è
seguito da un verbo ("aver sostenuto") diciamo che è una congiunzione.
Infatti in quest'ultimo caso "dopo" introduce una subordinata implicita
associata a "aver sostenuto".

Ebbene, se questa è l'implicazione logica delle definizioni che abbiamo
visto fin qui, allora tornando alla frase «mi sembra di essere tornata
bambina» dovremmo dire che "essere tornata" è il verbo di una subordinata
implicita, e siccome si tratta di un verbo, e non di una espressione
nominale (altrimenti sarebbe un complemento, non una subordinata), dobbiamo
dire che "di" non è una preposizione, ma una congiunzione, e precisamente è
la congiunzione che introduce la subordinata «collega[ndo] sintatticamente
[...] due [...] frasi di un periodo».

Serianni però non sembra essere disposto a portare avanti l'implicazione
logica fino a questo punto, tant'è che proprio nel presentare quell'esempio
scrive: «Nel costrutto implicito l'infinito è di regola preceduto dalla
preposizione _di_». Dunque in questo caso "di" sarebbe una preposizione.

Lo stesso problema si trova sfogliando il _Vocabolario Treccani_,
perché dopo aver dato le definizioni di "preposizione" e "congiunzione" che
ho citato sopra quando andiamo a consultare le voci "a", "di" eccetera
leggiamo:

«*a* prep[osizione] [...] Seguita da verbi all'infinito, introduce
proposizioni: finali (o che comunque contengono un'idea di moto, proprio o
fig.): _Fatti non foste a viver come bruti_ (Dante); _mandare a studiare, a
lavorare_; [...], condizionali [...], temporali [...]»
http://www.treccani.it/vocabolario/a2/

«*di* prep[osizione] [...] Dinanzi a un infinito e in dipendenza da verbo o
locuz. di sign. verbale, introduce proposizioni soggettive (_gli sembrava
di aver capito_), oggettive (_ho il dubbio di avere sbagliato_), o finali
(_ti prego di lasciarmi in pace_)»
http://www.treccani.it/vocabolario/di1/

Come si vede il _Vocabolario_ fa tutta una serie di esempi di proposizioni
che la grammatica tradizionale definisce "subordinate implicite". Ma se sono
tali allora:
1) "a" e "di" sono seguite da un verbo, non da una espressione nominale, e
come tali non mi sembra che si possano considerare delle preposizioni,
stando alla stessa definizione che il _Vocabolario_ dà di "preposizione";
2) "a" e "di" introducono delle proposizioni, e come tali congiungono due
frasi dello stesso periodo, per cui - stando alla definizione che il
_Vocabolario_ dà di "congiunzione" - mi sembra di poter dire che si tratta
proprio di congiunzioni.

Queste mi sembrano essere le implicazioni logiche dell'impostazione
tradizionale: se l'infinito, il participio e il gerundio sono a tutti gli
effetti dei modi della coniugazione verbale, e in quanto tali sono voci
verbali, allora l'infinito presente nelle subordinate implicite è
un'espressione verbale, non un'espressione nominale.

È pur vero che l'infinito può anche essere sostantivato, ma quando è usato
in senso sostantivato di solito prende l'articolo. Non solo, ma se è vero
che l'infinito può essere inteso in un senso o nell'altro, dovremmo dire
comunque chiaramente se in una frase lo vogliamo considerare in un senso
o nell'altro. Ad esempio se nella frase «mandare a lavorare» si vuole
considerare il secondo infinito con valore sostantivato, allora possiamo
ben dire che "a" è una preposizione, perché è seguita da una espressione
nominale, ma allora - ipso facto - non possiamo più dire che "a lavorare" è
una subordinata implicita, perché abbiamo appena deciso di considerare
"lavorare" come un sostantivo, e non come una voce verbale (ancorché di
"modo indefinito"). Dunque «mandare a lavorare» sarebbe un'unica frase,
nella quale l'infinito "mandare" sarebbe considerato come voce verbale,
mentre l'infinito "lavorare" sarebbe considerato come sostantivato, e "a"
sarebbe una preposizione che regge questa espressione nominale, che
a questo punto farebbe da complemento.

Quando si avanzano queste obiezioni alla grammatica tradizionale molti
tentano di eluderle dicendo che l'infinito, il participio e il gerundio non
sono "parti del discorso" appartenenti a una categoria ben definita, ma che
invece "partecipano di diverse nature", sicché certe implicazioni logiche
sarebbero troppo riduttive e schematiche.

Ma a me non sembra che il linguaggio sia una faccenda nella quale si possa
sospendere il rigore logico a favore delle "categorie non ben definite".
Non mi pare, infatti che ci sia la benché minima arbitrarietà sintattica
nell'uso dell'infinito, del congiuntivo e del gerundio. Tutti noi sappiamo
dire immediatamente se una certa costruzione che fa uso dell'infinito è
grammaticale o meno, e lo sappiamo dire da quando abbiamo imparato a
parlare, molto prima che ci venisse insegnata la grammatica. Non c'è dunque
alcuna arbitrarietà né alcuna indefinitezza nelle proprietà grammaticali
dell'infinito, e se la nostra impostazione conduce a delle difficoltà
logiche e concettuali il problema non sta nella struttura grammaticale della
nostra lingua, ma sta nel modo in cui noi l'abbiamo analizzata. I fenomeni,
di per sé, non contengono contraddizioni, né sono intrinsecamente
indefiniti, ma semmai siamo noi che ci ritroviamo in mano conclusioni
contraddittorie o concetti indefiniti per non aver fornito definizioni
rigorose e/o per aver fatto una serie di assunzioni che tutte insieme non
sono compatibili con i fenomeni, per cui bisogna rinunciare a qualcuna
di esse.

D'altra parte, come abbiamo visto, lo stesso Serianni quando analizza "dopo"
si mantiene rigorosamente coerente con le definizioni date, e dice che può
essere una congiunzione o una preposizione a seconda che sia seguito da
"aver sostenuto l'esame" o da "l'esame". Ma se questo vale per "dopo",
perché non dovrebbe valere anche per "di" e per "a"? Per questo io mi
aspetterei che chi si attiene ai presupposti della grammatica tradizionale
dica coerentemente che le "proposizioni implicite" che contengono l'infinito
sono introdotte dalle *congiunzioni* "a", "di" eccetera.

Questo per essere coerenti con i propri presupposti. Chi invece trova
inaccettabili queste implicazioni logiche più che rifugiarsi in una presunta
"natura una e bina" potrebbe piuttosto interrogarsi sui fondamenti della
grammatica tradizionale.

--
Saluti.
D.

Maurizio Pistone

unread,
Apr 19, 2011, 11:21:18 AM4/19/11
to
Davide Pioggia <duca_...@yahoo.com> wrote:

> D'altra parte, come abbiamo visto, lo stesso Serianni quando analizza "dopo"
> si mantiene rigorosamente coerente con le definizioni date, e dice che può
> essere una congiunzione o una preposizione a seconda che sia seguito da
> "aver sostenuto l'esame" o da "l'esame". Ma se questo vale per "dopo",
> perché non dovrebbe valere anche per "di" e per "a"? Per questo io mi
> aspetterei che chi si attiene ai presupposti della grammatica tradizionale
> dica coerentemente che le "proposizioni implicite" che contengono l'infinito
> sono introdotte dalle *congiunzioni* "a", "di" eccetera.

tutto questo va bene, come va bene il fatto che la natura di
"preposizioni" di queste parolette può essere giustificata dalla natura
"sostantivale" delle preposizioni implicite.

Molto più grezzamente: è uno dei tanti casi in cui la grammatica
tradizionale scolastica (ed il Serianni usa deliberatamente una
terminologia tradizionale) si trova in difficoltà quando incontra cose
che non possono essere agevolmente spiegate in termini di grammatica
latina. Poiché un'antica tradizione considerava il latino "lingua
universale", ciò che non c'è in latino non ha spiegazione.

L'uso delle preposizioni davanti all'infinito (e per estensione, davanti
agli altri modi verbali) è una delle più forti innovazioni introdotte
nelle lingue romanze dalle lingue germaniche (in inglese e ted.: to / zu
+ inf.)

Quindi ci teniamo le preposizioni davanti ai verbi.


--
Maurizio Pistone strenua nos exercet inertia Hor.
http://blog.mauriziopistone.it http://www.mauriziopistone.it
http://www.lacabalesta.it
http://blog.ilpugnonellocchio.it

Father McKenzie

unread,
Apr 19, 2011, 1:40:06 PM4/19/11
to
Il 19/04/2011 16:53, Davide Pioggia ha scritto:

> dire che "di" non è una preposizione, ma una congiunzione, e precisamente è
> la congiunzione che introduce la subordinata «collega[ndo] sintatticamente
> [...] due [...] frasi di un periodo».

in questo caso imho sì. Ribadisco che in bassa calabria questo tipo di
subordinate è sostituito dalla corrispondente esplicita, introdotta da
"mu" (o anche ma, u e simili): noi il problema l'abbiamo risolto in modo
radicale :))

--
Atti, 2:44-48 e 4:32-37

Father McKenzie

unread,
Apr 19, 2011, 1:43:15 PM4/19/11
to
Il 19/04/2011 17:21, Maurizio Pistone ha scritto:

> Quindi ci teniamo le preposizioni davanti ai verbi.

Frankly, I don't give a damn

Barone Barolo

unread,
Apr 19, 2011, 1:43:47 PM4/19/11
to
Il 19/04/2011 16:53, Davide Pioggia ha scritto:
> Ora, se è vero che la preposizione è seguita da un'«espressione nominale»
> (Treccani), e se è vero che le subordinate - implicite o esplicite che
> siano - «contengono un verbo» (Serianni), allora una "parte del discorso"
> che sia seguita da un verbo non può essere una preposizione.

Questo non è molto preoccupante, dato che l'infinito è un sostantivo
verbale. Infatti la distinzione tra proposizioni esplicite e implicite è
fondata proprio sul fatto che nelle seconde la funzione di predicato è
assunta da un elemento che, pur trovando posto nella coniugazione
verbale, grammaticalmente non è un verbo.

Infatti si può anche supporre che la costruzione "di + infinito" avesse
un carattere nominale più marcato, in cui per esempio il "di" poteva
essere spiegato come partitivo.

> Lo stesso Serianni sembra essere consapevole di questa implicazione logica,
> e infatti all'inizio del capitolo IX, dove definisce la congiunzione e ne
> spiega l'uso, fa una serie di esempi nei quali «gli stessi elementi
> lessicali possono trovare impiego ora come congiunzioni, ora come
> preposizioni» (pagg. 306-307). Ecco uno di questi esempi:
> «(1) (congiunzione): "ti sentirai più tranquillo _dopo_
> aver sostenuto l'esame"
> (2) (preposizione): "ti sentirai più tranquillo _dopo_ l'esame"»
> (pag. 306).

Questo è più preoccupante, dato che "dopo" può reggere solo nomi o verbi
al modo infinito. Dovremmo quindi dire che "dopo" è una preposizione
(impropria, derivante dalla funzione di avverbio), mentre la
congiunzione corrispondente è la locuzione "dopo che".

Ciao.

-- bb

edevils

unread,
Apr 19, 2011, 3:13:51 PM4/19/11
to
On 19/04/2011, Father McKenzie wrote:
> Il 19/04/2011 17:21, Maurizio Pistone ha scritto:
>
>> Quindi ci teniamo le preposizioni davanti ai verbi.
>
> Frankly, I don't give a damn

Ma, ma... Father McGable, non gli dici "my dear"? :-O


Father McKenzie

unread,
Apr 19, 2011, 4:19:06 PM4/19/11
to
Il 19/04/2011 21:13, edevils ha scritto:

> Ma, ma... Father McGable, non gli dici "my dear"? :-O

me mettess scuorn...

Davide Pioggia

unread,
Apr 20, 2011, 6:05:01 AM4/20/11
to
Maurizio Pistone ha scritto:

> Quindi ci teniamo le preposizioni davanti ai verbi.

Se è così, allora prendo il solito Serianni, il quale, dopo aver detto che
«[in] molti casi, gli stessi elementi lessicali possono trovare impiego ora
come congiunzioni, ora come preposizioni» (pag. 305-306), e dopo aver fatto
alcuni esempi con "dopo" e "senza", aggiunge:

«In questi passi, la differenza fra congiunzioni e preposizioni sta nella
presenza o assenza di un infinito nel segmento retto da _dopo_ e _senza_:
quando nel segmento dipendente vi è una frase implicita con predicato
all'infinito, l'elemento di collegamento è una congiunzione, che mette in
rapporto la frase principale con la subordinata. Abbiamo invece una
preposizione quando il segmento dipendente è un sintagma nominale»
(pag. 306).

La struttura logica di quest'ultima affermazione è la seguente:

SE
un elemento lessicale regge un segmento
in cui vi è un predicato all'infinito
ALLORA
quell'elemento è una congiunzione;
SE INVECE
un elemento lessicale regge un sintagma nominale
ALLORA
quell'elemento è una preposizione.

Osserviamo in particolare la prima implicazione:

regge infinito => è congiunzione, non preposizione

Invertendo l'implicazione (_modus tollens_), abbiamo:

NON è congiunzione, ma è preposizione => NON regge infinito

Come vedi chiunque tentasse di ragionare sulla grammatica, estendendo questo
ragionamento di Serianni anche all'elemento lessicale "di", concluderebbe
che la costruzione
preposizione + infinito
è impossibile. Di conseguenza trovandosi a fare un'analisi
logico-grammaticale direbbe che "di" è una congiunzione, e qui scoprirebbe
con grande disappunto che questo è "un grave errore per tradizione".

*****

Tempo fa ho fatto un "esperimento" con un paio di studenti delle scuole
superiori. Entrambi avevano lo stesso problema: andavano benissimo in
matematica, ma non erano mai riusciti ad intendersi con gli insegnanti di
italiano, e in particolare avevano delle grosse difficoltà a capire la
"logica" dell'"analisi logica".

Per aiutarli a dipanare le nebbie ho proceduto nel modo seguente:

1) Ho detto loro di fare uno sforzo per dimenticare tutto ciò che avevano
letto e sentito sulla grammatica fino ad allora, e li ho pregati di
limitarsi ad osservare come facevo a "smontare" alcune frasi complesse.
Detto questo, ho fatto alcuni esempi come quelli che faccio spesso in questo
gruppo, con la frase strutturata "ad albero" su più livelli gerarchici. Dopo
aver fatto tre o quattro esempi, a partire da casi più semplici fino a casi
più complessi, i ragazzi hanno detto che credevano di aver capito i criteri
generali del metodo («tu chiamale se vuoi, astrazioni» [para-cit]).

2) A questo punto li ho messi alla prova, proponendo loro il periodo
iniziale dei _Promessi sposi_:
«Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non
interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del
rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender
corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera
dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda
ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in
cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove
le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi
in nuovi golfi e in nuovi seni».
Dopo averci ragionato su una decina di minuti, sono riusciti a eliminare
tutti gli incisi cogliendo la struttura fondamentale della frase, che hanno
analizzato nel modo seguente:

Quel ramo del lago di Como vien
a ristringersi,
e a prender corso e figura di fiume;
e il ponte par
che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione,
e [che] segni il punto
in cui il lago cessa,
e [in cui] l'Adda rincomincia,
per ripigliar poi nome di lago
dove le rive lascian
l'acqua distendersi e rallentarsi...

3) Essendo arrivati fino a qui in pochi minuti (e i poveretti avevano quasi
le lacrime agli occhi per la commozione, poiché venivano da un intero
curriculum scolastico di frustrazioni) ho detto loro che ora ci attendeva il
compito più arduo, che era quello di esprimere questa struttura in una forma
che fosse accettabile secondo le categorie della grammatica tradizionale.
Ebbene, dopo più di mezz'ora i ragazzi erano ancora in alto mare, perché
qualunque cosa dicessero io ero in grado di dimostrare loro che avevo torto.
La struttura grammaticale l'avevano ben compresa, e anche in fretta, ma essa
era "indicibile".

Alla fine hanno capito. Hanno capito, cioè, che io potevo respingere
qualunque analisi in modo del tutto arbitrario, perché si poteva dire tutto
e il contrario di tutto. Volendo potevo respingere anche un'analisi fatta
secondo i dettami dell'analisi tradizionale, oppure potevo respingere tutte
le altre analisi fino a quando essi non fossero stati capaci di ripetere con
le parole "giuste" la liturgia dell'analisi tradizionale. Insomma, non
dovevo fare altro che "chiudere un occhio" sulle contraddizioni della
risposta che io volevo sentirmi dare, dopodiché tutte le altre risposte
sarebbero state "sbagliate", tranne quell'unica risposta che sarebbe apparsa
"giusta". Un po' come succede con quei sistemi giuridici che prevedono tutto
e il contrario di tutto, e che notoriamente si applicano ai nemici e si
interpretano per gli amici.

Le critiche che vengono rivolte alla grammatica tradizionale da molti di
coloro che hanno una formazione scientifica non sono infatti un puntiglio,
un voler rigirare il coltello nella piaga per individuare le incongruenze,
perché tutte le scienze hanno dei problemi irrisolti. Anche chi si occupa di
grammatica generativa, o più in generale chi tenta un approccio
strutturalista, ha ancora un bel po' di problemi da risolvere, e ci sono
diverse cose che non si sono ben comprese. Ciò che cambia però e
l'atteggiamento nei confronti della difficoltà concettuale.

Chi accetta l'approccio scientifico "non guarda in faccia a nessuno":
tu puoi anche aver vinto il Nobel per la Fisica, ma se scrivi un articolo in
cui c'è una contraddizione non ti viene fatto nessuno sconto, tant'è che i
fisici - pur con tutto il rispetto reverenziale che nutrono per Galileo -
non esitano a dire che la sua analisi del fenomeno delle maree era
inconsistente. Chi invece rifiuta l'approccio scientifico di fronte a una
difficoltà concettuale tende a replicare che: «si è sempre detto e fatto
così, e va bene così: vuolsi così colà dove si puote, e più non dimandare»
(che implica anche: «e più non ragionare»).

Sono le famose leggi _ad Auctoritatem_: c'è una qualche _Auctoritas_
da difendere (la grammatica tradizionale, o quel che è), e se questa
_Auctoritas_ propone un'analisi che presenta delle difficoltà concettuali la
si difende anche a costo di arrivare a pretendere di sospendere le leggi
delle logica. Si badi bene che io non sto semplicemente dicendo che la
grammatica tradizionale presenta delle contraddizioni. Non è questo il
problema, anche perché i ragionamenti che ho proposto in questi due articoli
potrebbero essere a loro volta sbagliati, contenere delle fallacie. È vero
che io "muovo l'accusa" nei confronti della grammatica tradizionale di
presentare delle incongruenze, ma io posso sbagliarmi, posso essere io a
ragionare male (ad esempio poco fa potrei aver applicato erroneamente il
_modus tollens_: ogni tanto mi è capitato), e in tal caso sarei ben felice
che qualcuno mi facesse vedere dove ho sbagliato, perché così potrei
risolvere i miei dubbi e le riappacificarmi con l'analisi tradizionale.
No, il problema è più profondo di così, ed è che chi difende la grammatica
tradizionale rifiuta proprio a priori il "processo della ragione" nei
confronti dell'_Auctoritas_: «Si è sempre detto che "di" è una preposizione,
e va bene così: non potete pretendere di applicare ad ogni cosa le vostre
diavolerie logico-matematiche». C'è anche chi scrolla le spalle e dice che
non gliene frega nulla di 'ste cose, ma se non gliene frega, allora perché
continua a ripetere che "di" è una preposizione? Se è veramente uno
stupendo anarchico, perché scrolla le spalle sono quando si mette in
dubbio la legittimità dell'_Auctoritas_, e non scrolla le spalle anche di
fronte alle pretese dell'_Auctoritas_?

Si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici.

--
Saluti.
D.

Davide Pioggia

unread,
Apr 20, 2011, 6:31:41 AM4/20/11
to
Barone Barolo ha scritto:

> Questo non è molto preoccupante, dato che l'infinito è un sostantivo
> verbale. Infatti la distinzione tra proposizioni esplicite e implicite è
> fondata proprio sul fatto che nelle seconde la funzione di predicato è
> assunta da un elemento che, pur trovando posto nella coniugazione verbale,
> grammaticalmente non è un verbo.

Ma se «grammaticalmente non è un verbo», e se noi *grammaticalmente*
associamo una preposizione ad ogni verbo, allora *grammaticalmente*
quella non è una subordinata.

Infatti la faccenda delle "subordinate implicite" da un punto di vista
*grammaticale* mi sembra piuttosto un "trucco", che si basa su una
equivalenza *semantica*.

Cioè, *semanticamente* queste frasi sono equivalenti:

penso di fare presto
penso che farò presto

ma *grammaticalmente* esse sono costruite in modo diverso, e se noi vogliamo
fare un'analisi *grammaticale* della prima non possiamo rimuovere il
problema sostituendola con un'altra che è solo *semanticamente* equivalente.

Altrimenti, se valesse questo principio, io potrei prendere questa frase:

ti sentirai più tranquillo dopo aver sostenuto l'esame

e osservare che semanticamente è equivalente a questa:

ti sentirai più tranquillo dopo l'esame

dopodiché, avendo potuto sostituire semanticamente "l'esame" ad "aver
sostenuto l'esame" lasciando invariato tutto il resto, ed essendo "l'esame"
un sostantivo, potrei dire che "aver sostenuto l'esame" è a sua volta un
sostantivo, o meglio un sintagma nominale.

Non solo, ma poiché avrei anche potuto dire:

ti sentirai più tranquillo dopo che avrai sostenuto l'esame

allora anche "che avrai sostenuto l'esame" sarebbe un sintagma nominale.

Se ci basiamo sull'equivalenza semantica per fare l'analisi
logico-grammaticale, allora possiamo veramente dimostrare tutto e il
contrario di tutto, perché l'equivalenza semantica consente di cambiare
la subordinazione in coordinazione e viceversa, consente di usare dei
complementi al posto delle subordinate eccetera eccetera.

Quando parliamo di "subordinata implicita" stiamo dicendo che un certo
segmento è *grammaticalmente* una proposizione subordinata solo perché
*semanticamente* può essere sostituito da una proposizione subordinata.

Ebbene, vale sempre questo principio?

Se vale sempre, allora ho appena fatto vedere che lo si può applicare in
modo del tutto arbitrario. E se invece non vale sempre, quali sono i casi
in cui vale, e perché non vale negli altri casi?

--
Saluti.
D.

Maurizio Pistone

unread,
Apr 20, 2011, 6:34:04 AM4/20/11
to
Davide Pioggia <duca_...@yahoo.com> wrote:

> Le critiche che vengono rivolte alla grammatica tradizionale da molti di
> coloro che hanno una formazione scientifica non sono infatti un puntiglio,
> un voler rigirare il coltello nella piaga per individuare le incongruenze,
> perché tutte le scienze hanno dei problemi irrisolti. Anche chi si occupa di
> grammatica generativa, o più in generale chi tenta un approccio
> strutturalista, ha ancora un bel po' di problemi da risolvere, e ci sono
> diverse cose che non si sono ben comprese. Ciò che cambia però e
> l'atteggiamento nei confronti della difficoltà concettuale.

approvo tutto quello che dici, e mi limito a quotare quest'unico
capoverso riassuntivo.

Mi permetto anche di ricitare alcune mie vecchie considerazioni in
proposito

http://tinyurl.com/2m7vs5

e in ogni caso ti esprimo tutta la mia invidia: la mia esperienza è
stata, purtroppo, quasi sempre dovermi scontrare con ragazzini che,
avendo imparacchiato il rosario del "chi/che cosa", di fronte a
qualunque sforzo di rendere un po' più "logica" l'analisi logica mi
rispondevano con squardi che le triglie bollite a confronto sono
discepole di Atena.

Ma alle difficoltà derivanti da una stratificazione secolare di
regolette scolastiche, si aggiunge in verità il fatto che finora non si
è ancora riusciti a dare (né forse mai si riuscirà) una spiegazione
rigorosa di tutti i fenomeni linguistici. Le lingue, e credo che questa
sia una caratteristica ineliminabile della mente umana, procedono un po'
per logica, un po' per analogia; il significato delle frasi è sempre un
po' da comprendere, un po' da immaginare; le definizioni degli oggetti e
dei concetti, ben lungi dal tracciare una netta linea di confine tra ciò
che è e ciò che non è quella cosa, lasciano ampi margini sfrangiati e
nebulosi.

Il poeta è colui che da tutte queste cose trae straniate evocazioni; il
grammatico è colui che, disperando di venirne a capo, si rifugia nella
regoletta che "è sempre stata così".

Father McKenzie

unread,
Apr 20, 2011, 11:55:20 AM4/20/11
to
Il 20/04/2011 12:34, Maurizio Pistone ha scritto:

> Il poeta č colui che da tutte queste cose trae straniate evocazioni; il
> grammatico č colui che, disperando di venirne a capo, si rifugia nella
> regoletta che "č sempre stata cosě".

E noi comuni mortali ci mangiamo pasta e alici e contenti stiamo :)
Post scrippitum, con rispetto: gli angeli, masculi o fimmini sono? :)

Roger

unread,
Apr 20, 2011, 1:41:33 PM4/20/11
to
Father ha scritto:

> [...]

> Post scrippitum, con rispetto: gli angeli, masculi o fimmini sono? :)

Sul sesso degli angeli si sono versati fiumi d'inchiostro.
Vuoi mica trovare qui la risposta! :-)

Ciao,
Roger

Enrico Gregorio

unread,
Apr 20, 2011, 1:45:47 PM4/20/11
to
Roger <rugfa...@tin.it> scrive:

Qui però non sprecheremmo inchiostro. Via con il dibattito,
astenersi perditempo.

Ciao
Enrico

orpheus

unread,
Apr 20, 2011, 1:58:37 PM4/20/11
to
Enrico Gregorio mercoledì 20/04/2011 alle 19.45.47 nel post su
it.cultura.linguistica.italiano ha scritto:
> Roger <rugfa...@tin.it> scrive:

Gli angeli sono quei pensieri che vengono in aiuto,
nei momenti di difficoltà, quando dal punto di vista
dell'ego non c'è più niente che si possa fare.
Possono assumere forma di uomo oppure di donna...
Ma può un pensiero avere sesso?

semi cit. da Rafael Alberti, mi pare,
ma posso essere anche io l'autore di
cotanta "laica" riflessione... mudestament
Credo di ricordare che la feci una 50ina
di anni fa, mentre leggevo "Degli angeli"

--
Ahimè, alla terra di quali uomini nuovamente son giunto?
Saranno violenti, selvaggi e ingiusti,
o amici degli stranieri e rispettosi degli dei?
(Odissea, l.VI, vv.119-121)


Davide Pioggia

unread,
Apr 20, 2011, 2:05:11 PM4/20/11
to
Enrico Gregorio ha scritto:

> Qui però non sprecheremmo inchiostro.
> Via con il dibattito, astenersi perditempo.

Dalle mie parti circola una vecchissima barzelletta che andrebbe
raccontata in dialetto, ma se ci si accontenta si può provare
a dirla anche in italiano.

Orbene, due cittadini si recano in campagna, e rimangono colpiti
dalla magnificenza di una grande quercia secolare. Dopo averne
lodato la bellezza, uno dei due dice all'altro:

«Chissà se questo albero è maschio o femmina».

Così i due cittadini si piantano proprio sotto la quercia e avviano una
lunga discussione per stabilire, appunto, il sesso dell'albero.

Dopo mezz'ora che discutevano passa da quelle parti un contadino,
e vedendolo arrivare uno dei due cittadini gli chiede:

«Scusi, buon uomo, lei sa dirci se questo albero è maschio o femmina?».

Il contadino risponde senza indugio:

«È maschio di sicuro!».

«Ecco, vedi? - dice uno dei due cittadini a quell'altro - te l'avevo detto
che era maschio!».

«Ma senta un po', buon uomo, come fa lei a capire che è maschio?»

«Eh - esclama il contadino - non vede che due coglioni che ha sotto?!».

--
Saluti.
D.

Father McKenzie

unread,
Apr 20, 2011, 2:17:58 PM4/20/11
to
Il 20/04/2011 19:58, orpheus ha scritto:

> Ma può un pensiero avere sesso?

La gran parte dei pensieri sì, direi, eccome :)
Quelli cui ti riferisci non so. Effettivamente, prendono le sembianze,
di volta in volta, delle persone da cui vorremmo un conforto in quel
momento.

> ma posso essere anche io l'autore di
> cotanta "laica" riflessione... mudestament

Te ne faccio un'altra:
"All'improvviso, Qualcuno alle mie spalle, Forse un angelo vestito da
passante, Mi portò via dicendomi così: Meraviglioso... Ma come non ti
accorgi di quanto il mondo sia meraviglioso..." (Domenico Modugno)

Esseri celesti, messaggeri di luce, ma anche il vicino di casa o un
passante sconosciuto: gli Angeli appaiono sotto molte forme. Siate
pronti a riceverli, poiche' vengono per noi dal Paradiso.
(P. Claudel)

orpheus

unread,
Apr 20, 2011, 2:26:09 PM4/20/11
to
Father McKenzie mercoledì 20/04/2011 alle 20.17.58 nel post su
it.cultura.linguistica.italiano ha scritto:
[...]

> Te ne faccio un'altra:
> "All'improvviso, Qualcuno alle mie spalle, Forse un angelo vestito da
> passante, Mi portò via dicendomi così: Meraviglioso... Ma come non ti accorgi
> di quanto il mondo sia meraviglioso..." (Domenico Modugno)

> Esseri celesti, messaggeri di luce, ma anche il vicino di casa o un passante
> sconosciuto: gli Angeli appaiono sotto molte forme. Siate pronti a riceverli,
> poiche' vengono per noi dal Paradiso.
> (P. Claudel)

Bella, grazie. Anche se la lettura può essere ugualmente laica,
e tocca un tema basilare, quale quello della nostalgia :-)

ADPUF

unread,
Apr 20, 2011, 5:48:54 PM4/20/11
to
Davide Pioggia, 12:05, mercoledì 20 aprile 2011:

> Maurizio Pistone ha scritto:
>
>> Quindi ci teniamo le preposizioni davanti ai verbi.
>
> Se è così, allora prendo il solito Serianni, il quale, dopo
> aver detto che «[in] molti casi, gli stessi elementi lessicali
> possono trovare impiego ora come congiunzioni, ora come
> preposizioni» (pag. 305-306), e dopo aver fatto alcuni esempi
> con "dopo" e "senza", aggiunge:

[...]

> No, il problema è più profondo di così, ed è che chi difende
> la grammatica tradizionale rifiuta proprio a priori il
> "processo della ragione" nei confronti dell'_Auctoritas_: «Si
> è sempre detto che "di" è una preposizione, e va bene così:
> non potete pretendere di applicare ad ogni cosa le vostre
> diavolerie logico-matematiche». C'è anche chi scrolla le
> spalle e dice che non gliene frega nulla di 'ste cose, ma se
> non gliene frega, allora perché continua a ripetere che "di" è
> una preposizione? Se è veramente uno stupendo anarchico,
> perché scrolla le spalle sono quando si mette in dubbio la
> legittimità dell'_Auctoritas_, e non scrolla le spalle anche
> di fronte alle pretese dell'_Auctoritas_?
>
> Si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici.


Hai mai provato a far conoscere a Serianni o ad altri grammatici
queste tue considerazioni?


--
"At the age of 17 I have finally been accepted by my family."
-- Exam howlers as noted by Eric W. N. Smith

Barone Barolo

unread,
Apr 21, 2011, 5:54:37 AM4/21/11
to
Il 20/04/2011 12:31, Davide Pioggia ha scritto:
> Ma se «grammaticalmente non è un verbo», e se noi *grammaticalmente*
> associamo una preposizione ad ogni verbo, allora *grammaticalmente*
> quella non è una subordinata.

E' obbligatorio che ogni proposizione abbia un predicato verbale, non
che ogni proposizione abbia un verbo.

> Infatti la faccenda delle "subordinate implicite" da un punto di vista
> *grammaticale* mi sembra piuttosto un "trucco"

E' un po' come la storia dei calabroni. Tu dici che per via della loro
forma, non possono volare, però loro non lo sanno e volano lo stesso.

> Cioè, *semanticamente* queste frasi sono equivalenti:
>
> penso di fare presto
> penso che farò presto
>
> ma *grammaticalmente* esse sono costruite in modo diverso, e se noi
> vogliamo
> fare un'analisi *grammaticale* della prima non possiamo rimuovere il
> problema sostituendola con un'altra che è solo *semanticamente*
> equivalente.

Infatti non lo facciamo.

di = preposizione
fare = sostantivo verbale, voce del verbo fare, infinito presente attivo.

che = congiunzione
farò = verbo, voce del verbo fare, indicativo futuro attivo, 3^ sing.

Non so dove ti ho dato l'idea di supportare un principio di sostituzione
semantica, o anche solo sintattica. Si analizza la frase data, non la si
modifica in alcun modo.

> Altrimenti, se valesse questo principio, io potrei prendere questa frase:
>
> ti sentirai più tranquillo dopo aver sostenuto l'esame
>
> e osservare che semanticamente è equivalente a questa:
>
> ti sentirai più tranquillo dopo l'esame
>
> dopodiché, avendo potuto sostituire semanticamente "l'esame" ad "aver
> sostenuto l'esame" lasciando invariato tutto il resto, ed essendo "l'esame"
> un sostantivo, potrei dire che "aver sostenuto l'esame" è a sua volta un
> sostantivo, o meglio un sintagma nominale.

Sì è corretto, ma l'analisi grammaticale richiede di scindere i sintagmi
nei più piccoli elementi di significato proprio.

> Non solo, ma poiché avrei anche potuto dire:
>
> ti sentirai più tranquillo dopo che avrai sostenuto l'esame
>
> allora anche "che avrai sostenuto l'esame" sarebbe un sintagma nominale.

Benvenuto nel mondo dell'analisi del periodo :-)

> Se ci basiamo sull'equivalenza semantica per fare l'analisi
> logico-grammaticale

No, non lo facciamo.

> Quando parliamo di "subordinata implicita" stiamo dicendo che un certo
> segmento è *grammaticalmente* una proposizione subordinata solo perché
> *semanticamente* può essere sostituito da una proposizione subordinata.

No. Stiamo dicendo che ruolo di predicato verbale è assunto da una
parola che ha la forma grammaticale di sostantivo (infinito), aggettivo
(participio), o avverbio (gerundio) invece che quella di verbo. Lo trovi
così assurdo?

> Se vale sempre, allora ho appena fatto vedere che lo si può applicare in
> modo del tutto arbitrario. E se invece non vale sempre, quali sono i casi
> in cui vale, e perché non vale negli altri casi?

E' un principio che non ale mai. L'analisi grammaticale, logica, e del
periodo, sono procedimenti sintattici e meccanici.

-- bb

Barone Barolo

unread,
Apr 21, 2011, 6:08:20 AM4/21/11
to
Il 19/04/2011 17:21, Maurizio Pistone ha scritto:
> Molto più grezzamente: è uno dei tanti casi in cui la grammatica
> tradizionale scolastica (ed il Serianni usa deliberatamente una
> terminologia tradizionale) si trova in difficoltà quando incontra cose
> che non possono essere agevolmente spiegate in termini di grammatica
> latina. Poiché un'antica tradizione considerava il latino "lingua
> universale", ciò che non c'è in latino non ha spiegazione.

Non è che non ci sia spiegazione: semplicemente non è una spiegazione
ovvia, e per pigrizia o convenienza, quella spiegazione non la cerchiamo.
A me pare che il fatto che "di" sia una preposizione anche quando
introduce una subordinata infinitiva, sia tranquillamente sostenibile.

> L'uso delle preposizioni davanti all'infinito (e per estensione, davanti
> agli altri modi verbali) è una delle più forti innovazioni introdotte
> nelle lingue romanze dalle lingue germaniche (in inglese e ted.: to / zu
> + inf.)

Ne sei sicuro? Io non molto.

In latino non si usano preposizioni davanti all'infinito soltanto perché
il modo indefinito usato in quella circostanza è il gerundio. Solo che
la vera innovazione stava proprio nel gerundio, che non fa parte del
sistema verbale dell'indoeuropeo. Se prendi il greco, l'uso di
preposizioni davanti all'infinito è la regola.

-- bb

Davide Pioggia

unread,
Apr 21, 2011, 7:16:58 AM4/21/11
to
Barone Barolo ha scritto:

> E' obbligatorio che ogni proposizione abbia un predicato verbale,
> non che ogni proposizione abbia un verbo.

Come definisci il "predicato verbale"?

Più precisamente, ce la fai a definirlo chiaramente senza ricondurlo
a un "verbo"?

>> non possiamo rimuovere il problema sostituendola con un'altra che è solo
>> *semanticamente* equivalente.

> Infatti non lo facciamo.
[...]


> Non so dove ti ho dato l'idea di supportare un principio di sostituzione
> semantica, o anche solo sintattica. Si analizza la frase data, non la si
> modifica in alcun modo.

Oh, ma di grammatiche che ti insegnano a riconoscere la subordinata
implicita sostituendo a essa una subordinata esplicita mi sembra che ce ne
siano parecchie.

Lo stesso Serianni, pur senza enunciare l'equivalenza, fa una lunga serie di
esempi in questo senso (vedi ad es. i riquadri a pag. 461).

Se poi prendiamo _La grammatica italiana_ di Battaglia e Pernicone
(Torino : Loescher, 1951) leggiamo:

«Viceversa è "implicita" la proposizione che ha il verbo nel modo *infinito*
(infinito, gerundio, participio) e sembra piuttosto un complemento anziché
una vera proposizione. Tuttavia è possibile tramutare una proposizione
"implicita" in "esplicita"...» (pag. 525)

e qui fa una serie di esempi che sono tutti basati sull'equivalenza
semantica.

Ti faccio anche osservare che Battaglia e Pernicone parlano di «verbo nel
modo *infinito*», dunque per loro un infinito, un gerundio e un participio
sono dei *verbi*, quando invece tu hai detto che:

«nelle [implicite] la funzione di predicato è assunta da un elemento che,
pur trovando posto nella coniugazione verbale, grammaticalmente non è un
verbo».

Orbene, è o non è un verbo?

Anche Serianni scrive:

«31. Le subordinate si dicono:

[...]
b) _Implicite_, se contengono un verbo in modo indefinito (infinito,
participio, gerundio)».

Anche qui io capisco che un infinito, un participio e un gerundio sono dei
*verbi*, quando invece tu dici che «grammaticalmente» non lo sono.

Come dovremmo riformulare quelle definizioni per renderle più chiare?

--
Saluti.
D.

Davide Pioggia

unread,
Apr 21, 2011, 7:25:24 AM4/21/11
to
Davide Pioggia ha scritto:

> e qui fa una serie di esempi che sono tutti basati sull'equivalenza
> semantica.

Anche più avanti questo criterio viene utilizzato in diverse occasioni.
Ad esempio qui:

«43. Si possono considerare come proposizioni relative *implicite* alcune
costruzioni con l'*infinito* o col *participio*, che si potrebbero risolvere
in altrettante proposizioni relative [...] 'Ho visto _arrivare tanta gente_'
= 'Ho visto tanta gente _che arrivava_' [...] 'Gli alunni _partecipanti_
alla gara' [...] = 'Gli alunni _che partecipano_' [...]». (pagg. 544-545).

--
Saluti.
D.

Davide Pioggia

unread,
Apr 21, 2011, 7:29:43 AM4/21/11
to
Barone Barolo ha scritto:

>> Lo stesso Serianni sembra essere consapevole di questa implicazione
>> logica, e infatti all'inizio del capitolo IX, dove definisce la
>> congiunzione e ne spiega l'uso, fa una serie di esempi nei quali «gli
>> stessi elementi lessicali possono trovare impiego ora come congiunzioni,
>> ora come preposizioni» (pagg. 306-307). Ecco uno di questi esempi:
>> «(1) (congiunzione): "ti sentirai più tranquillo _dopo_ aver sostenuto
>> l'esame"
>> (2) (preposizione): "ti sentirai più tranquillo _dopo_ l'esame"» (pag.
>> 306).

> Questo è più preoccupante, dato che "dopo" può reggere solo nomi o verbi
> al modo infinito. Dovremmo quindi dire che "dopo" è una preposizione
> (impropria, derivante dalla funzione di avverbio), mentre la congiunzione
> corrispondente è la locuzione "dopo che".

Temo di non aver capito la tua considerazione.

Secondo te Serianni fa bene o fa male a sostenere che quando "dopo" è
seguito da un infinito è una congiunzione, e non una preposizione?

--
Saluti.
D.

Barone Barolo

unread,
Apr 21, 2011, 10:57:50 AM4/21/11
to
On Apr 21, 1:16 pm, "Davide Pioggia" <duca_d_a...@yahoo.com> wrote:
> > E' obbligatorio che ogni proposizione abbia un predicato verbale,
> > non che ogni proposizione abbia un verbo.
>
> Come definisci il "predicato verbale"?

In effetti può essere anche nominale.

> Pi precisamente, ce la fai a definirlo chiaramente senza ricondurlo
> a un "verbo"?

E' quell'elemento della frase che asserisce qualcosa a proposito del
soggetto.
Può essere un verbo, un sostantivo verbale, un aggettivo verbale o un
avverbio verbale.

> Oh, ma di grammatiche che ti insegnano a riconoscere la subordinata
> implicita sostituendo a essa una subordinata esplicita mi sembra che ce ne
> siano parecchie.

Non mi sembra un modo scientificamente corretto di porre la questione.
La proposizione esplicita non è più basilare di quella implicita. In
effetti, non si capisce perché non si possa fare il contrario
(riconoscere la subordinata esplicita sostituendole quella implicita).
S

> Viceversa "implicita" la proposizione che ha il verbo nel modo *infinito*


> (infinito, gerundio, participio) e sembra piuttosto un complemento anzich

> una vera proposizione. Tuttavia possibile tramutare una proposizione


> "implicita" in "esplicita"... (pag. 525)
> e qui fa una serie di esempi che sono tutti basati sull'equivalenza
> semantica.

E' lecito fare esempi. Non credo comunque che le proposizioni
esplicite siano più primitive di quelle implicite.

> Ti faccio anche osservare che Battaglia e Pernicone parlano di verbo nel
> modo *infinito* , dunque per loro un infinito, un gerundio e un participio
> sono dei *verbi*, quando invece tu hai detto che:
>

> nelle [implicite] la funzione di predicato assunta da un elemento che,
> pur trovando posto nella coniugazione verbale, grammaticalmente non un
> verbo .
>
> Orbene, o non un verbo?

Dipende dalla definizione che assumi, ovviamente.
Le definizioni non possono essere corrette o scorrette. Possono però
rendere più eleganti o meno certe spiegazioni e certe regole.
Ad esempio, mi sembra che la mia definizione spieghi più elegantemente
l'utilizzo di preposizioni (invece di congiunzioni) davanti ai modi
indefiniti. Magari però in altri casi è meno elegante.

-- bb

Barone Barolo

unread,
Apr 21, 2011, 10:58:59 AM4/21/11
to
On Apr 21, 1:29 pm, "Davide Pioggia" <duca_d_a...@yahoo.com> wrote:
> Temo di non aver capito la tua considerazione.
>
> Secondo te Serianni fa bene o fa male a sostenere che quando "dopo" è
> seguito da un infinito è una congiunzione, e non una preposizione?

Male.

-- bb

Davide Pioggia

unread,
Apr 21, 2011, 12:51:51 PM4/21/11
to
Barone Barolo ha scritto:

>> Più precisamente, ce la fai a definirlo chiaramente


>> senza ricondurlo a un "verbo"?

> E' quell'elemento della frase che asserisce qualcosa
> a proposito del soggetto.

Prendiamo questa:

«C'era un bel cane».

Qui c'è un elemento della frase, e cioè "bel", che asserisce qualcosa a
proposito del soggetto, e precisamente asserisce che il cane era bello
(se non ci fosse "ben" non sapremmo che era bello, quindi "bel" asserisce
qualcosa). Dunque "bel" è un predicato verbale?

>> Ti faccio anche osservare che Battaglia e Pernicone parlano di verbo nel
>> modo *infinito* , dunque per loro un infinito, un gerundio e un
>> participio sono dei *verbi*, quando invece tu hai detto che:
>> nelle [implicite] la funzione di predicato assunta da un elemento che,
>> pur trovando posto nella coniugazione verbale, grammaticalmente non un
>> verbo .

>> Orbene, è o non è un verbo?

> Dipende dalla definizione che assumi, ovviamente.
> Le definizioni non possono essere corrette o scorrette.

Sono d'accordo. Ma come definiresti tu un "verbo"?

--
Saluti.
D.

Barone Barolo

unread,
Apr 21, 2011, 1:00:21 PM4/21/11
to
Il 21/04/2011 18:51, Davide Pioggia ha scritto:
> Qui c'è un elemento della frase, e cioè "bel", che asserisce qualcosa a
> proposito del soggetto, e precisamente asserisce che il cane era bello
> (se non ci fosse "ben" non sapremmo che era bello, quindi "bel" asserisce
> qualcosa). Dunque "bel" è un predicato verbale?

Non credo che esista un testo di grammatica che non si presti a questo
tipo di obiezioni, Davide. L'italiano non è un linguaggio formale, e non
andrebbe trattato come tale.

In un linguaggio formale, come quello della logica del primo ordine,
"bel" andrebbe in effetti tradotto come un predicato. E anche "cane":
"esiste x, tale che cane(x) e bello(x)".

> Sono d'accordo. Ma come definiresti tu un "verbo"?

Nella stessa maniera in cui lo definisci tu, togliendo infiniti,
participi e gerundi.

-- bb

Maurizio Pistone

unread,
Apr 21, 2011, 5:06:08 PM4/21/11
to
Barone Barolo <xelloss....@gmail.com> wrote:

> Se prendi il greco, l'uso di
> preposizioni davanti all'infinito è la regola.

in questo caso l'infinito è un vero verbo sostantivato, tant'è vero che
spesso è preceduto dall'articolo.

È diverso il caso dell'italiano (e delle altre lingue romanze), in cui
possiamo avere "di" ecc. non davanti ad un singolo verbo, ma ad una
proposizione infinitiva.

Inoltre c'è il caso dei verbi "fraseologici": incomincio a, finisco di
ecc. In latino la stessa costruzione si fa senza la preposizione. In
italiano solo un piccolo numero di verbi, i "servili", non più di mezza
dozzina, reggono un infinito senza preposizione.

Direi che in questo caso il parallelo con le lingue germaniche è
evidente.

Maurizio Pistone

unread,
Apr 21, 2011, 5:06:09 PM4/21/11
to
Barone Barolo <xelloss....@gmail.com> wrote:

> > penso di fare presto
> > penso che farò presto
> >
> > ma *grammaticalmente* esse sono costruite in modo diverso, e se noi
> > vogliamo
> > fare un'analisi *grammaticale* della prima non possiamo rimuovere il
> > problema sostituendola con un'altra che è solo *semanticamente*
> > equivalente.
>
> Infatti non lo facciamo.
>
> di = preposizione
> fare = sostantivo verbale, voce del verbo fare, infinito presente attivo.
>
> che = congiunzione
> farò = verbo, voce del verbo fare, indicativo futuro attivo, 3^ sing.
>
> Non so dove ti ho dato l'idea di supportare un principio di sostituzione
> semantica, o anche solo sintattica. Si analizza la frase data, non la si
> modifica in alcun modo.

invece è proprio questo il trucco.

Se l'analisi logica / analisi del periodo analizza non le parole, ma le
funzioni, allora è interessante vedere come si possono ottenere le
stesse funzioni con altre parole.

Penso di fare

è perfettamente equivalente a

penso che farò.

È in questo modo che io ho sempre spiegato la differenza tra frase
implicita e frase esplicita.

Nell'esempio citato, posso usare la frase impricita perché il soggetto
sottinteso della subordinata è lo stesso della frase principale; invece

penso che farai

non può essere convertita in forma implicita, poiché il soggetto cambia.

Maurizio Pistone

unread,
Apr 21, 2011, 5:06:08 PM4/21/11
to
Barone Barolo <xelloss....@gmail.com> wrote:

> E' obbligatorio che ogni proposizione abbia un predicato verbale, non
> che ogni proposizione abbia un verbo.

immagino che tu voglia dire che un predicato verbale può essere formato
da due verbi, non che ci può essere un predicato verbale senza verbo.

Maurizio Pistone

unread,
Apr 21, 2011, 5:06:09 PM4/21/11
to
Barone Barolo <xelloss....@gmail.com> wrote:

> Può essere un verbo, un sostantivo verbale, un aggettivo verbale o un
> avverbio verbale

sostantivo verbale, aggettivo verbale, averbio verbale, come dici
giustamente tu, si chiamano così proprio perché partecipano (di qui tra
l'altro il termine "participio") di entrambe le nature. L'infinito è sia
verbo, sia sostantivo ecc.

La complicazione sta nel fatto che non sempre è un fìfti-fìfti. In certi
casi prevale la natura sostantivale, in certi altri la natura verbale.

Altro esempio scolastico:

il fumo fa male
fumare fa male
fumare troppe sigarette fa male

nel secondo esempio l'infinito "fumare" può essere interpretato come
equilvalente del sostantivo "fumo"; nel terzo esempio "fumare" ha un
complemento oggetto, quindi è chiaramente un verbo.

Maurizio Pistone

unread,
Apr 21, 2011, 5:06:09 PM4/21/11
to
Davide Pioggia <duca_...@yahoo.com> wrote:

> «C'era un bel cane».
>
> Qui c'è un elemento della frase, e cioè "bel", che asserisce qualcosa a
> proposito del soggetto, e precisamente asserisce che il cane era bello
> (se non ci fosse "ben" non sapremmo che era bello, quindi "bel" asserisce
> qualcosa). Dunque "bel" è un predicato verbale?

non è un predicato verbale, perché non è un predicato.

Ogni elemento della frase fornisce una qualche informazione, ma questo
non vuol dire che ogni elemento della frase è un predicato.

Barone Barolo

unread,
Apr 21, 2011, 8:26:48 PM4/21/11
to
Il 21/04/2011 23:06, Maurizio Pistone ha scritto:
> Se l'analisi logica / analisi del periodo analizza non le parole, ma le
> funzioni, allora č interessante vedere come si possono ottenere le

> stesse funzioni con altre parole.

Sě d'accordo, ma l'obiezione era un'altra: Davide giustificava
l'esistenza delle subordinate implicite e la loro analisi con il
principio di sostituzione. Non vedo perché le subordinate esplicite
vadano considerate piů primitive di quelle implicite.

-- bb

Barone Barolo

unread,
Apr 21, 2011, 8:32:17 PM4/21/11
to
Il 21/04/2011 23:06, Maurizio Pistone ha scritto:
>> E' obbligatorio che ogni proposizione abbia un predicato verbale, non
>> che ogni proposizione abbia un verbo.
>
> immagino che tu voglia dire che un predicato verbale può essere formato
> da due verbi, non che ci può essere un predicato verbale senza verbo.

No, volevo proprio dire quello che ho detto. (A parte la specificazione
"verbale", che mi è scappato dalla tastiera come un lapsus)

Naturalmente questa affermazione ha senso solo insieme alla
classificazione che avevo dato prima:

"la distinzione tra proposizioni esplicite e implicite è fondata proprio
sul fatto che nelle seconde la funzione di predicato è assunta da un
elemento che, pur trovando posto nella coniugazione verbale,

grammaticalmente non è un verbo"

-- bb

Barone Barolo

unread,
Apr 21, 2011, 9:07:45 PM4/21/11
to
Il 21/04/2011 23:06, Maurizio Pistone ha scritto:
>> Se prendi il greco, l'uso di
>> preposizioni davanti all'infinito è la regola.
>
> in questo caso l'infinito è un vero verbo sostantivato, tant'è vero che
> spesso è preceduto dall'articolo.

Molte delle subordinate infinitive dell'italiano possono essere
analizzate alla stessa maniera. Praticamente sfuggono alla regola
solamente gli infiniti delle proposizioni oggettive/dichiarative
introdotte da "di", ma non fatico a credere che nel proto-romanzo il
ruolo di sostantivo del modo infinito fosse più chiaro anche in questo caso.

> È diverso il caso dell'italiano (e delle altre lingue romanze), in cui
> possiamo avere "di" ecc. non davanti ad un singolo verbo, ma ad una
> proposizione infinitiva.
>
> Inoltre c'è il caso dei verbi "fraseologici": incomincio a, finisco di
> ecc. In latino la stessa costruzione si fa senza la preposizione.

Sì, d'accordo.

> Direi che in questo caso il parallelo con le lingue germaniche è
> evidente.

In inglese, tuttavia, in molti di questi casi si usa il gerundio invece
della forma piena dell'infinito: I start --ing, I finish --ing.

Inoltre il parallelo è fuorviante perché mi sembra che le costruzioni si
siano formate in modo indipendente e non sovrapponibile. La forma piena
dell'infinito nelle lingue germaniche sembra facilmente analizzabile
come un supino ipertrofico.

-- bb

Father McKenzie

unread,
Apr 22, 2011, 1:59:03 AM4/22/11
to
Il 22/04/2011 02:26, Barone Barolo ha scritto:
> Non vedo perché le subordinate esplicite
> vadano considerate più primitive di quelle implicite.

Nella mia ingoranza, non vedo ragioni per affermare il contrario. Per un
calabrese, o per un albanese, le esplicite sono così "naturali", mentre
le implicite hanno come un sapore di costruito. Ammetto che lo stesso
non è necessariamente vero per tutti gli italiani; ma osservo che la
dualità di forme è concepibile solo quando il soggetto della principale
è lo stesso della sub, rappresenta quindi, in sostanza, un'eccezione,
mentre l'uso dei modi definiti sembra che sia la regola.

Father McKenzie

unread,
Apr 22, 2011, 2:04:52 AM4/22/11
to
Il 22/04/2011 07:59, Father McKenzie ha scritto:
> Per un
> calabrese, o per un albanese, le esplicite sono così "naturali"

cosentini esclusi

Maurizio Pistone

unread,
Apr 22, 2011, 3:05:51 AM4/22/11
to
Barone Barolo <xelloss....@gmail.com> wrote:

> "la distinzione tra proposizioni esplicite e implicite è fondata proprio
> sul fatto che nelle seconde la funzione di predicato è assunta da un
> elemento che, pur trovando posto nella coniugazione verbale,
> grammaticalmente non è un verbo"

continui ad insistere sul fatto che i modi indefiniti non siano veri
verbi.

Ma se rispetto ai modi finiti gli indefiniti non hanno le
caratterizzazioni di persona e numero (con la precisazione che dirò),
hanno tutte le altre caratterizzazioni dei verbi: hanno un tempo
presente o passato, una trasitività o intransitività, un diatesi attiva,
passiva o riflessiva).

Certo, tu puoi definire una forma come "essere stato bocciato" in questo
modo: nome verbale transitivo passivo tempo passato; ma mi sembra un
contorcimento inutile.

Quanto alla persona, è vero che manca la marca corrispondente, ma
restano le altre corrispondenze: "potrei sbagliarmi" come lo analizzi:
verbo servile + nome verbale di forma riflessiva e 1ª persona singolare?
È vero che un infinito non ha, dal punto di vista morfologico, la
persona; ma dal punto di vista sintattico ha quasi sempre un soggetto.
Con tutto quello che ne segue.

Maurizio Pistone

unread,
Apr 22, 2011, 3:05:51 AM4/22/11
to
Barone Barolo <xelloss....@gmail.com> wrote:

> Non vedo perché le subordinate esplicite

> vadano considerate più primitive di quelle implicite.

non sono più primitive, ma spesso sono più chiare: appunto, *esplicite*.

Barone Barolo

unread,
Apr 22, 2011, 3:16:33 AM4/22/11
to
Il 22/04/2011 09:05, Maurizio Pistone ha scritto:
>> "la distinzione tra proposizioni esplicite e implicite è fondata proprio
>> sul fatto che nelle seconde la funzione di predicato è assunta da un
>> elemento che, pur trovando posto nella coniugazione verbale,
>> grammaticalmente non è un verbo"
>
> continui ad insistere sul fatto che i modi indefiniti non siano veri
> verbi.

Dipende dalla definizione di verbo. Come ho detto, la mia definizione
spiega più elegantemente il fatto che con infiniti e participi non di
usino congiunzioni ma preposizioni.

Inoltre è noto che i modi finiti non sono nati dalla coniugazione
verbale, ma vi sono entrati molto lentamente. Non diremmo mai che
"direttore" è una voce del verbo "dirigere", no? Lo stesso valeva per
infinito, participio, gerundio, supino...

> Ma se rispetto ai modi finiti gli indefiniti non hanno le
> caratterizzazioni di persona e numero (con la precisazione che dirò),
> hanno tutte le altre caratterizzazioni dei verbi:

No, questo è totalmente marginale. Il punto è il significato base dei
modi indefiniti, che è nominale.

-- bb

Barone Barolo

unread,
Apr 22, 2011, 3:19:19 AM4/22/11
to
Il 22/04/2011 07:59, Father McKenzie ha scritto:
>> Non vedo perché le subordinate esplicite
>> vadano considerate più primitive di quelle implicite.
>
> Nella mia ingoranza, non vedo ragioni per affermare il contrario.

Father, i tuoi studi classici sono di certo sufficienti a sapere che in
latino esistevano delle subordinate implicite obbligate.

-- bb

Barone Barolo

unread,
Apr 22, 2011, 3:22:28 AM4/22/11
to
Il 22/04/2011 09:05, Maurizio Pistone ha scritto:
>> Non vedo perché le subordinate esplicite
>> vadano considerate più primitive di quelle implicite.
>
> non sono più primitive, ma spesso sono più chiare: appunto, *esplicite*.

Può darsi, almeno in certi frequenti casi. Ho mai detto il contrario?

-- bb

Father McKenzie

unread,
Apr 22, 2011, 3:48:37 AM4/22/11
to
Il 22/04/2011 09:19, Barone Barolo ha scritto:

> Father, i tuoi studi classici sono di certo sufficienti a sapere che in
> latino esistevano delle subordinate implicite obbligate.

il latino non è certo la ur-sprache: come si regolava il sanscrito, o il
protoindoeuropeo?

Barone Barolo

unread,
Apr 22, 2011, 4:16:48 AM4/22/11
to
Il 22/04/2011 09:48, Father McKenzie ha scritto:
>> Father, i tuoi studi classici sono di certo sufficienti a sapere che in
>> latino esistevano delle subordinate implicite obbligate.
>
> il latino non è certo la ur-sprache: come si regolava il sanscrito, o il
> protoindoeuropeo?

La domanda veramente è un'altra: come facevano i nostri antenati a
esplicitare ciò che non potevano esplicitare?
Mi sa che non lo facevano e basta...

-- bb

Father McKenzie

unread,
Apr 22, 2011, 4:20:14 AM4/22/11
to
Il 22/04/2011 10:16, Barone Barolo ha scritto:

> La domanda veramente è un'altra: come facevano i nostri antenati a
> esplicitare ciò che non potevano esplicitare?
> Mi sa che non lo facevano e basta...

I miei antenati ellenici lo facevano, e lo fanno tuttora.

Barone Barolo

unread,
Apr 22, 2011, 4:28:30 AM4/22/11
to
Il 22/04/2011 10:20, Father McKenzie ha scritto:
>> La domanda veramente č un'altra: come facevano i nostri antenati a
>> esplicitare ciň che non potevano esplicitare?

>> Mi sa che non lo facevano e basta...
>
> I miei antenati ellenici lo facevano, e lo fanno tuttora.

Io invece mi riferivo piů che altro ai miei antenati di lingua latina...

-- bb

Una voce dalla Germania

unread,
Apr 22, 2011, 4:42:00 AM4/22/11
to
Father McKenzie schrieb:


Per non parlare del giapponese, del turco, del cinese o
delle lingue polisintetiche.
O cercate una classificazione universale, e allora vi lascio
discutere quanto volete, perché è un argomento
interessantissimo, ma troppo teorico per i miei gusti, o
cercate di analizzare grammaticalmente l'italiano, e anche
qui confesso che la vostra discussione attuale se di più
infinito è una preposizione o una congiunzione è
affascinante, ma mi ricorda i teologi medievali che
discutevano del sesso degli angeli.

Ricordatevi che sono un traduttore, perciò tendo a esaminare
queste questioni da un punto di vista pratico, quello che mi
porta a ritenere fondamentale l'analisi logica del periodo,
nonostante i pistolotti di Maurizio, per capire le funzioni
delle varie parti delle frasi e rendersi conto, per esempio,
che una data preposizione ha spesso funzioni diverse, che in
altre lingue vengono tradotte in modi diversi, in parte
anche come risultato di una visione diversa del mondo. Un
aspetto molto trascurato nell'insegnamento delle lingue
straniere, mi sembra, che porta a cercare parallelismi
spesso inesistenti, tipo da = from.
Proviamo.
Vado dal dottore - I go from the doctor ???
Abito dalla mia amica - I'm living from my girl-friend ???
Sono appena tornato da Roma - I've just come back from Rome
Partirò da Milano - I'll start from Milan
Guardo dalla finestra - I'm looking from the window ???
Sto aspettando da due ore - I've been waiting from two hours ???
Un biglietto da dieci euro - A note from ten euro ???
La sala da pranzo - The room from lunch ???
Finché non si capisce che in gran parte di questi casi "da"
ha funzioni diverse e regge complementi diversi, come si fa
a rendersi conto che per un inglese le frasi e le
espressioni contrassegnate con ??? suonano mostruose,
assurde e ridicole?

Un'ulteriore complicazione, ma anche una grande apertura
mentale per chi entra a fondo nell'altra lingua, viene dal
fatto che l'analisi logica vale per una lingua, ma non
necessariamente per un'altra, proprio perché le lingue
riflettono in parte visioni diverse del mondo.
Vediamo queste due frasi:
Hai preso il vestito dall'armadio?
Hai preso il coltello dal tavolo?
Penso che siamo tutti d'accordo nel dire che dall'armadio e
dal tavolo sono complementi di moto da luogo.
In ungherese, però, lingua che usa spesso delle desinenze al
posto delle nostre preposizioni, la desinenza per il moto
dall'interno di un luogo è del tutto diversa da quella per
il moto da sopra un luogo.
Lo schema comprende tre desinenze per
porta dentro / sta dentro / prende (o va via) da dentro,
altre tre per
porta sopra / sta sopra / prende (o va via) da sopra
e ancora altre tre per
porta vicino a / sta vicino a / prende (o va via) da vicino a

Solo alcuni spunti di riflessione e un invito a ricordarci
sempre che la varietà linguistica dell'umanità è molto
superiore alla piccola sezione che si manifesta nelle lingue
indoeuropee.

Army1987

unread,
Apr 22, 2011, 6:26:52 AM4/22/11
to
On 19 Apr, 18:43, Barone Barolo <xelloss.metall...@gmail.com> wrote:

> Questo non è molto preoccupante, dato che l'infinito è un sostantivo
> verbale. Infatti la distinzione tra proposizioni esplicite e implicite è


> fondata proprio sul fatto che nelle seconde la funzione di predicato è
> assunta da un elemento che, pur trovando posto nella coniugazione

> verbale, grammaticalmente non è un verbo.

Non direi, dato che l'infinito può ad es. reggere complementi oggetti,
cosa che un sostantivo non può fare. Semmai direi che l'infinito con
tutta la roba che regge si comporta come un sintagma nominale (potendo
essere usato come soggetto, complemento oggetto, o essere retto da una
preposizione).

Cioè definirei un sintagma nominale come
[articolo] [aggettivi] sostantivo [aggettivi/complementi/subordinate
relative] | [complementi] infinito [complementi]
(dove | significa "oppure" e [ ] significa "opzionale").

Barone Barolo

unread,
Apr 22, 2011, 3:35:52 PM4/22/11
to
Il 22/04/2011 12:26, Army1987 ha scritto:
> Non direi, dato che l'infinito può ad es. reggere complementi oggetti,
> cosa che un sostantivo non può fare. Semmai direi che l'infinito con
> tutta la roba che regge si comporta come un sintagma nominale (potendo
> essere usato come soggetto, complemento oggetto, o essere retto da una
> preposizione).

A rose by any other name would smell as sweet. Ho detto le stesse cose
con parole diverse.

-- bb

ADPUF

unread,
Apr 22, 2011, 6:00:40 PM4/22/11
to
Una voce dalla Germania, 10:42, venerdì 22 aprile 2011:

>
> Un'ulteriore complicazione, ma anche una grande apertura
> mentale per chi entra a fondo nell'altra lingua, viene dal
> fatto che l'analisi logica vale per una lingua, ma non
> necessariamente per un'altra, proprio perché le lingue
> riflettono in parte visioni diverse del mondo.
> Vediamo queste due frasi:
> Hai preso il vestito dall'armadio?
> Hai preso il coltello dal tavolo?
> Penso che siamo tutti d'accordo nel dire che dall'armadio e
> dal tavolo sono complementi di moto da luogo.
> In ungherese, però, lingua che usa spesso delle desinenze al
> posto delle nostre preposizioni,


Si chiamano "desinenze"?
Io le chiamerei particelle enclitiche o suffissi.

> la desinenza per il moto
> dall'interno di un luogo è del tutto diversa da quella per
> il moto da sopra un luogo.
> Lo schema comprende tre desinenze per
> porta dentro / sta dentro / prende (o va via) da dentro,
> altre tre per
> porta sopra / sta sopra / prende (o va via) da sopra
> e ancora altre tre per
> porta vicino a / sta vicino a / prende (o va via) da vicino a


Il mio vallardino dice:
moto da luogo:
-ból, -ből = da, di, via da
-ról, -ről = da, di, via da
-tól, -től = da, di, via da
(non spiega la differenza)

moto a luogo:
-ba, -be = in, a
-ra, -re = su, sopra, in, a
-hoz, -hez, -hőz = presso, vicino a, da, a

stato in luogo:
-ban, -ben = in, a
-n, -on, -en, -őn = su, sopra, in
-nal, -nel = presso, accanto, da, a


> Solo alcuni spunti di riflessione e un invito a ricordarci
> sempre che la varietà linguistica dell'umanità è molto
> superiore alla piccola sezione che si manifesta nelle lingue
> indoeuropee.


Di questo relativismo me ne accorsi quando secoli fa lessi un
libro sulle lingue indiane d'America e sulla distanza siderale
che possono avere dalle nostre.


--
"takusariartorumagaluarnerpâ": Inuit word meaning "do you think
he really intends to go to search him?"
-- Franz Boas, linguist.

Sergio Gatti

unread,
Apr 22, 2011, 7:09:40 PM4/22/11
to
ADPUF schrieb:

> Si chiamano "desinenze"?
> Io le chiamerei particelle enclitiche o suffissi.

Io non le chiamerei mai particelle enclitiche.
Suffissi è meglio di desinenze, ma i suffissi non sono altro
che un tipo di desinenze. Sei più preciso. Grazie per la
correzione.


> Di questo relativismo me ne accorsi quando secoli fa lessi un
> libro sulle lingue indiane d'America e sulla distanza siderale
> che possono avere dalle nostre.

Lo sapete che nella Seconda Guerra Mondiale alcuni reparti
dell'esercito USA, invece di usare codici complicati per le
comunicazioni segrete, si limitarono a farle IN CHIARO, però
in Navajo, approfittando del fatto che è una lingua con una
grammatica e una fonetica particolarmente complesse e che
nessun tedesco o giapponese l'aveva studiata?

Father McKenzie

unread,
Apr 23, 2011, 4:04:01 AM4/23/11
to
Il 23/04/2011 01:09, Sergio Gatti ha scritto:

> Lo sapete che nella Seconda Guerra Mondiale alcuni reparti dell'esercito
> USA, invece di usare codici complicati per le comunicazioni segrete, si
> limitarono a farle IN CHIARO, però in Navajo

E se gli italiani le facessero in bergamasco?

Barone Barolo

unread,
Apr 23, 2011, 4:54:19 AM4/23/11
to
Il 23/04/2011 10:04, Father McKenzie ha scritto:
>> Lo sapete che nella Seconda Guerra Mondiale alcuni reparti dell'esercito
>> USA, invece di usare codici complicati per le comunicazioni segrete, si
>> limitarono a farle IN CHIARO, però in Navajo
>
> E se gli italiani le facessero in bergamasco?

O in calabrese :-))

-- bb

Roger

unread,
Apr 23, 2011, 4:58:29 AM4/23/11
to
Sergio Gatti ha scritto:

> ADPUF schrieb:

> [...]

> Lo sapete che nella Seconda Guerra Mondiale alcuni reparti dell'esercito
> USA, invece di usare codici complicati per le comunicazioni segrete, si
> limitarono a farle IN CHIARO, però in Navajo, approfittando del fatto che
> è una lingua con una grammatica e una fonetica particolarmente complesse e
> che nessun tedesco o giapponese l'aveva studiata?

Wakan tanka kici un

Ciao,
Roger
--
P.S. Cambiato nick?
O hai solo cambiato pc?

ADPUF

unread,
Apr 24, 2011, 5:47:36 PM4/24/11
to
Sergio Gatti, 01:09, sabato 23 aprile 2011:

> ADPUF schrieb:
>
>> Si chiamano "desinenze"?
>> Io le chiamerei particelle enclitiche o suffissi.
>
> Io non le chiamerei mai particelle enclitiche.
> Suffissi è meglio di desinenze, ma i suffissi non sono altro
> che un tipo di desinenze. Sei più preciso. Grazie per la
> correzione.


Grazie anche a te, io non sono un esperto.

Il vallardino usa "suffissi" per l'ungherese.


>> Di questo relativismo me ne accorsi quando secoli fa lessi un
>> libro sulle lingue indiane d'America e sulla distanza
>> siderale che possono avere dalle nostre.
>
> Lo sapete che nella Seconda Guerra Mondiale alcuni reparti
> dell'esercito USA, invece di usare codici complicati per le
> comunicazioni segrete, si limitarono a farle IN CHIARO, però
> in Navajo, approfittando del fatto che è una lingua con una
> grammatica e una fonetica particolarmente complesse e che
> nessun tedesco o giapponese l'aveva studiata?


Ci hanno fatto anche un film.

Ma io lo sapevo da anni, l'ho letto sul famoso libro di Kahn
sulla crittologia.

Ma ho qualche dubbio che in Navajo esistano parole
come "ricetrasmettitore" o "formaldeide" senza doverle prendere
in prestito dall'inglese o con qualche perifrasi (comee la
famosa "acqua di fuoco").


--
"De deux choses lune. L'autre c'est le soleil."
-- Jacques Prévert

Maurizio Pistone

unread,
Apr 25, 2011, 2:53:40 AM4/25/11
to
ADPUF <flyh...@mosq.it> wrote:

> Ma ho qualche dubbio che in Navajo esistano parole
> come "ricetrasmettitore" o "formaldeide" senza doverle prendere
> in prestito dall'inglese o con qualche perifrasi (comee la
> famosa "acqua di fuoco").

se ricordo bene, i Navajo non parlavano "in chiaro", ma usavano
perifrasi note solo a loro; "tartaruga" per carro armato ecc.

Ma anch'io so quella storia solo dal film.

Una voce dalla Germania

unread,
Apr 25, 2011, 3:48:31 AM4/25/11
to
Maurizio Pistone schrieb:

> ADPUF <flyh...@mosq.it> wrote:
>
>> Ma ho qualche dubbio che in Navajo esistano parole
>> come "ricetrasmettitore" o "formaldeide" senza doverle prendere
>> in prestito dall'inglese o con qualche perifrasi (comee la
>> famosa "acqua di fuoco").
>
> se ricordo bene, i Navajo non parlavano "in chiaro", ma usavano
> perifrasi note solo a loro; "tartaruga" per carro armato ecc.


Può darsi. Ma queste perifrasi, come quelle che sono ancora
oggi un procedimento produttivo per formare nuovi termini,
p. es. "etichette intelligenti", di solito si capiscono se
si conosce la lingua. I decrittatori tedeschi e giapponesi,
però, non sapendo il Navajo non avevano la minima idea che
QLNGOXIRZ (a scanso di equivoci, l'ho inventata io) volesse
dire "dieci tartarughe" e perciò non arrivavano nemmeno a
chiedersi cosa potesse significare "dieci tartarughe" in un
dispaccio radio dal fronte.

Roger

unread,
Apr 25, 2011, 4:16:24 AM4/25/11
to
Maurizio ha scritto:

> ADPUF wrote:

>> Ma ho qualche dubbio che in Navajo esistano parole
>> come "ricetrasmettitore" o "formaldeide" senza doverle prendere
>> in prestito dall'inglese o con qualche perifrasi (comee la
>> famosa "acqua di fuoco").

> se ricordo bene, i Navajo non parlavano "in chiaro", ma usavano
> perifrasi note solo a loro; "tartaruga" per carro armato ecc.

E i missili SCUD come li chiamavano? :-)

Ciao,
Roger

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