edevils ha scritto:
> è un errore?
> Così pare sostenere un blog linguistico.
"che" sta per "quale", per cui la costruzione più facile da analizzare
è quella in cui è seguito da un sostantivo: "che uomo!", come a dire
"quale uomo!".
Se il sostantivo non c'è, è semplicemente sottinteso dal contesto.
"che bello!": se lo dice una signora davanti a un uomo (oppure se il
contesto chiarisce che la signora sta parlando di un uomo) sta per
"che bell'uomo!".
> Niente paura! Il registro colloquiale non deve generare tali
> preoccupazioni. È importante che si stia attenti a certe forme, quando si
> scrive o si tiene una conferenza.
La mia avversione per la grammatica normativa mi induce a ribaltare
il punto di vista. La gente respirava anche prima che i chimici scoprissero
l'ossigeno, e parlava molto prima che comparissero i grammatici. Il nostro
apparato linguistico sa distinguere le categorie grammaticali, e noi
arriviamo a posteriori a spiegare come funziona il linguaggio.
Ora, se io comincio ad analizzare la lingua italiana e mi rendo conto che
"che" funge (fra le varie cose) da aggettivo interrogativo e esclamativo,
quando lo vedo usare con un altro aggettivo non dico che "è sbagliato",
ma cerco di capire come fa l'apparato linguistico a ottenere quella
costruzione, e dopo un po' capisco che ci dev'essere un sostantivo
sottinteso dal contesto.
Sarebbe come se un chimico, entusiasta per avere appena scoperto l'ossigeno,
cominciasse a dire che c'è una parte della popolazione che non respira come
dovrebbe perché quel tipo di respirazione non si inquadra in ciò che egli ha
già capito dell'ossigenazione del sangue. Siccome la gente respira da
milioni di anni, è lui che deve studiare meglio: evidentemente certi
fenomeni un po' più complicati non li ha ancora compresi.
Invece impera Procuste: se la realtà non si inquadra nelle mie teorie è la
realtà che deve cambiare.
A questo punto uno potrebbe dirmi: «Ma allora Pioggia per te va tutto bene,
e gli insegnanti non dovrebbero mai correggere i loro allievi?».
Io non escludo che la grammatica normativa abbia una funzione, ma è una
funzione esclusivamente sociolinguistica. Sono le norme che regolano i
processi di inclusione ed esclusione sociale basati sul linguaggio.
Quando ero piccolo ci avevano insegnato che era un errore grave scrivere
"sé stesso" e "famigliare", mentre oggi queste assurdità sono superate.
Un mio coetaneo che è cresciuto in una grande città mi diceva che a lui il
veto su "sé stesso" il maestro non lo pose in modo categorico, per cui non
sono sicuro che sia solo una questione generazionale. Comunque sia,
nel paesino in cui sono cresciuto io le persone colte non scrivevano
"sé stesso", e chi lo scriveva passava da ignorante, per cui andava
stigmatizzato come "errore". Ma era appunto una questione sociale.
Io spero che fra qualche anno in Italia venga sdoganato definitivamente
"qual'è" (che secondo me, per varie ragioni che ora non sto a spiegare, è
più sensato di "qual è"), ma fino ad allora sappiamo benissimo che chi
scriva "qual'è" passa da ignorante, e se sta facendo un concorso pubblico
rischia di essere escluso anche per ragioni come questa. E così torniamo
alla faccenda dell'inclusione e dell'esclusione sociale.
Qualche giorno fa mi sono trovato a leggere una ricerca fatta da un ragazzo
giovane e molto intelligente, che però non è cresciuto in una famiglia
borghese, per cui si firma scrivendo il cognome prima del nome. Non gli ho
detto che "è sbagliato", ma non potevo nemmeno lasciare che si esponesse
alle fauci di coloro che l'avrebbero certamente irriso, per cui gli ho
illustrato la faccenda da un punto di vista puramente sociolinguistico,
spiegandogli che chi ha avuto una certa formazione culturale usa segni come
quello per sapere chi sei e da dove vieni. Questa cosa peraltro l'ha
appassionato parecchio, e credo che non si dimenticherà mai più la mia
spiegazione, mentre se gli avessi detto semplicemente che "è sbagliato"
forse se lo sarebbe dimenticato subito dopo (anzi, ora ricordo che quando
gliel'ho fatto notare gli è venuto in mente che anche altri in precedenza
gli avevano detto che "era sbagliato", ma non aveva capito perché,
e così gli era sfuggito).
Quindi non è nemmeno il caso di parlare di grammatica descrittiva e
normativa.
La cosiddetta "grammatica descittiva" è semplicemente l'atteggiamento
scientifico applicato al linguaggio: c'è la realtà dei fatti e poi ci sono
le nostre teorie che cercando di spiegarla, e quando le nostre teorie non
spiegano si vede che ci sono ancora delle cose che non abbiamo capito,
per cui dobbiamo continuare a ragionarci su.
(A proposito di "su", è evidente che in italiano esistono la preposizione
atona "su" e l'avverbio tonico "sù", e io quando spiego la grammatica dei
dialetti romagnoli ho l'estrema necessità di distinguere chiaramente le due
particelle, per cui avrei bisogno di scrivere "su" e "sù", ma i grammatici
italiani hanno deciso che "sù" è una roba da ignorati, per cui mi tocca
stare attento).
Invece la cosiddetta "grammatica normativa" non è altro che la descrizione
delle norme sociolinguistiche di inclusione ed esclusione. Ora, se questa
descrizione avesse il coraggio di dichiararsi per quel che è, anch'essa
potrebbe ricondursi all'approccio scientifico, perché è certamente
importante sapere qual è la reazione dei vari ambienti socio-culturali
italiani di fronte a un "qual'è". E chi studia queste cose fornisce al mondo
una conoscenza che altrimenti esso non avrebbe.
Ma allora bisogna chiamarla col suo nome: sociolinguistica, non grammatica.
Altrimenti diventa un'operazione ideologica.
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Saluti.
D.