-Giovanni mi ha detto che è festa.
-Giovanni mi ha detto che sia festa.
Google riporta 639 occorrenze di "mi ha detto che è" e 0 di "mi ha detto che
sia" quindi suppongo che sia giusta la prima ma dopo il "che" non ci vuole
sempre il "sia"?
Lau
> -Giovanni mi ha detto che č festa.
> -Giovanni mi ha detto che sia festa.
Ohibň: Lauretta, io sono convinto che tu non abbia mai sentito dire
"Giovanni mi ha detto che sia festa". Come puň esserti venuto un dubbio
simile?
Diresti "ti ho detto che tu sia in ritardo"?
> Google riporta 639 occorrenze di "mi ha detto che č" e 0 di "mi ha detto che
> sia"
Per fortuna. Su Internet si leggono delle cose "atroci"; questa volta
ci č andata bene...
quindi suppongo che sia giusta la prima ma dopo il "che" non ci vuole
> sempre il "sia"?
No, perché?
E' vero che esistono dei verbi che alcuni (almeno la mia maestra delle
elementari, se non ricordo male) definiscono "dubitativi" (altri usano
altre definizioni, credo e piů precise): fra questi verbi dubitativi io
metto:
credere,
dubitare,
pensare,
ritenere,
e, anche se non si tratta di dubbi:
essere sicuri;
questi verbi reggono dei congiuntivi, senza dubbio (anche se so che la
discussione potrebbe essere sanguinolenta...) ed ecco che si dice:
io credo che tu sia bella;
io dubito che tu sia bella,
io penso che tu sia bella,
io ritengo che tu sia bella;
io sono sicuro che tu sia bella..
"Sapere", per esempio non regge congiuntivo:
"Io so che tu sei bella"
ma
"non so se tu sia bella" esprime u ndubbio, e in questo caso il
congiuntivo ci sta tutto.
Non mi viene in mente altro, ma sul sito www.mauriziopistone.it credo ci
siano altri esempi.
P
La prima
> Google riporta 639 occorrenze di "mi ha detto che è" e 0 di "mi ha detto che
> sia" quindi suppongo che sia giusta la prima ma dopo il "che" non ci vuole
> sempre il "sia"?
Non sempre. Vedo che e' giorno. Spero che sia un buon giorno. ecc..
Ciao,
Filippo
Aaaaahhh!!! Ahhhhh!!!! Nooooo!!! No, "credere" NO! :)
"Io credo che tu sei il Cristo": ma non senti come stonerebbe "io credo che
tu *sia il Cristo"?
---
Lo so, "credere" ha anche un significato dubitativo, al giorno d'oggi. Ma
non dovrebbe, perché credere è "ritenere vero o veritiero". Se lo ritengo
vero, non lo dubito, no? Anche se, son d'accordo con te, oggi si usa
tranquillamente al posto di "ritenere", punto e basta. Che sia indice della
nostra società sempre e solo aperta al dubbio e non mai alle certezze?
> questi verbi reggono dei congiuntivi, senza dubbio (anche se so che la
> discussione potrebbe essere sanguinolenta...)
Ovviamente, sorrido :) Perché subito hai trovato chi non è d'accordo su di
un verbo... ma amichevolmente, mica voglio veder correre il sangue! :)
[...omissis...]
> io sono sicuro che tu sia bella..
Ecco, ecco: "sono sicuro che tu sei bella" a me suona un po' meglio che non
"sono sicuro che tu sia bella". Se son sicuro, non ne dubito. O almeno, non
ne dovrei dubitare.
O no?
Sta di fatto che, in realtà, anch'io spesso uso il congiuntivo con "credere"
e "esser sicuro". Perché? Ma perché sono pieno di contraddizioni, che
diamine.
Ciao
Ale
> > altre definizioni, credo e più precise): fra questi verbi dubitativi io
> > metto:
> > credere,
>
> Aaaaahhh!!! Ahhhhh!!!! Nooooo!!! No, "credere" NO! :)
Gasp!
> "Io credo che tu sei il Cristo": ma non senti come stonerebbe "io credo che
> tu *sia il Cristo"?
Mumble...
Io credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore della cielo e della
terra etc: effettivamente in questa accezione "credo" ha la valenza che
tu riporti, ovvero ritenere vero e veritiero.
Ma quanto il Cristianesimo ha modificato la lingua? Pensiamo, appunto, a
parole come credere; o fratellanza; fede; amore; religiosità; santo,
santità...
> Lo so, "credere" ha anche un significato dubitativo, al giorno d'oggi. Ma
> non dovrebbe, perché credere è "ritenere vero o veritiero".
Eh, eh, eh... sottilmente hai riportato una sola accezione del verbo
"credere".
L'ElettroGarzanti, riporta, all'accezione 2:
> 3 immaginare, essere d'opinione (seguito da proposizione oggettiva,
> per esprimere probabilità, dubbio, speranza, timore)
Se lo ritengo
> vero, non lo dubito, no? Anche se, son d'accordo con te, oggi si usa
> tranquillamente al posto di "ritenere", punto e basta.
Ma anche in latino era così, se non ricordo male. Essere creduto morto è
una forma continuativa del latino, e in questo caso quel "essere
creduto" significa che vi è un legittimo dubbio sulla morte di qualcuno.
Che sia indice della
> nostra società sempre e solo aperta al dubbio e non mai alle certezze?
Questa è una bella osservazione.
> Ovviamente, sorrido :) Perché subito hai trovato chi non è d'accordo su di
> un verbo... ma amichevolmente, mica voglio veder correre il sangue! :)
Grunt!
> Ecco, ecco: "sono sicuro che tu sei bella" a me suona un po' meglio che non
> "sono sicuro che tu sia bella". Se son sicuro, non ne dubito. O almeno, non
> ne dovrei dubitare.
Uhm... conosci una ragazza per telefono: come fai ad essere sicuro che
sia bella? Puoi averne una sensazione; e allora dirai "sono sicuro che
tu sia bella" che significa, in parole povere, "mi auguro vivamente che
tu sia bella"; similmente alla frase "sono sicuro che tu sia una persona
onesta": in che contesti la usi un'espressione come questa?
P.
Il congiuntivo quindi si usa esclusivamente dopo i verbi "dubitativi"??
Che ne dite invece di questa frase:
"L'assistenza telefonica si è limitata a farmi verificare che la suoneria
'è' configurata attiva (e lo è)".
Giusta?
Lau
"Filippo Cintolesi" <cint...@physchem.ox.ac.uk> wrote in message
news:3BAF47F3...@physchem.ox.ac.uk...
> ---
> Lo so, "credere" ha anche un significato dubitativo, al giorno d'oggi. Ma
> non dovrebbe, perché credere è "ritenere vero o veritiero". Se lo ritengo
> vero, non lo dubito, no? Anche se, son d'accordo con te, oggi si usa
> tranquillamente al posto di "ritenere", punto e basta. Che sia indice della
> nostra società sempre e solo aperta al dubbio e non mai alle certezze?
>
Se ne sei cosi' sicuro, perche' allora non lo "sai"?
Ciao,
Filippo
La prima, perché si tratta di un fatto. A grandi linee, il congiuntivo
dovrebbe adoperarsi nelle subordinate che esprimono un concetto di
probabilità o certezza, oppure un'opinione:
È possibile che tu ABBIA ragione.
È cosa certa che tu ABBIA ragione.
Tutti sono convinti che tu ABBIA ragione.
È logico che tu HAI ragione.
Mi pare di ricordare che ci fossero anche alcune congiunzioni (dette in
alcune lingue, i cui esperti di grammatica sono più svegli,
'sottogiunzioni') che reggono incondizionatamente il congiuntivo, come
'affinché'. Io non riuscirei mai a ricordarmele tutte, comunque...
> Google riporta 639 occorrenze di "mi ha detto che è" e 0 di "mi ha detto
> che sia" quindi suppongo che sia giusta la prima ma dopo il "che" non
> ci vuole sempre il "sia"?
Dipende dal 'che': se è pronome relativo, di solito no (ma mi pare ci siano
regole ed eccezioni anche qui, su cui non sono sicuro). Se è congiunzione,
vedi sopra.
Se vuoi chiarirti i dubbi (non che io abbia le idee chiare, eh!), ti
consiglierei di dare un'occhiata ai corsi di italiano in rete per stranieri,
alla sezione grammatica. Le spiegazioni che danno sulle grammatiche per
italiani di madrelingua mi sono sempre sembrate un po' fumose, mentre i
corsi per stranieri di solito presentano la materia in modo più organico. Mi
pare che il sito dell'associazione Dante Alighieri abbia qualcosa in
merito...
Comunque, visto che nessuno, o quasi, sa come adoperarlo, non credete tutti
voi che varrebbe la pena di abolirlo, il congiuntivo? Il mondo è pieno di
lingue senza questa inutile zavorra...
Ciao,
-Federico
--
______________________________________
|-Kial cxiuj gxeneraligas cxiam?
| http://www.federicozenith.net
|
> [...]
> Che ne dite invece di questa frase:
> "L'assistenza telefonica si è limitata a farmi verificare che la suoneria
> 'è' configurata attiva (e lo è)".
> Giusta?
Io userei il congiuntivo imperfetto: in logica "consecutio" col
passato espresso nella principale:
"... si è limitata a ... che la suoneria fosse ..."
"... si limita a ... che la suoneria sia ...".
--
Ciao,
Mariuccia®_my opinions do not necessarily have to be true.
> [...]
> Comunque, visto che nessuno, o quasi, sa come adoperarlo, non credete tutti
> voi che varrebbe la pena di abolirlo, il congiuntivo?
Grazie al cielo non dipende da noi :))
> Il mondo è pieno di
> lingue senza questa inutile zavorra...
Il congiuntivo sarà anche una zavorra, ma è una zavorra che ancora
molti, per fortuna, preferiscono tenersi :))
IMO, l'italiano senza congiuntivi sarebbe brutto e piatto. IMO :)
"Ben vengono le discussioni"
"Ben vengano le discussioni".
È solo un esempio, banalissimo, ma credo renda l'idea.
> "Paolo Bonardi dallo Spaventoso Ipogeo e Dimenticato" <pb...@mac.com> ha
> scritto nel messaggio news:xHHr7.38482$P04.2...@news2.tin.it...
> > In article <3baf4...@corp-news.newsgroups.com>,
> > "Lauretta" <la...@hotmail.com> wrote:
> [...omissis...]
> > altre definizioni, credo e più precise): fra questi verbi dubitativi io
> > metto:
> > credere,
>
> Aaaaahhh!!! Ahhhhh!!!! Nooooo!!! No, "credere" NO! :)
> "Io credo che tu sei il Cristo": ma non senti come stonerebbe "io credo che
> tu *sia il Cristo"?
> ---
> Lo so, "credere" ha anche un significato dubitativo, al giorno d'oggi. Ma
> non dovrebbe, perché credere è "ritenere vero o veritiero". Se lo ritengo
> vero, non lo dubito, no? Anche se, son d'accordo con te, oggi si usa
> tranquillamente al posto di "ritenere", punto e basta. Che sia indice della
> nostra società sempre e solo aperta al dubbio e non mai alle certezze?
La questione non è tanto semplice e quando si parla di verbi che esprimono
credenze o conoscenze si finisce sempre per fare filosofia del linguaggio.
Ad ogni modo, a mio modo di vedere, l'aspetto principale che distingue
l'uso del congiuntivo da quello dell'indicativo non è tanto la certezza o
il dubbio che caratterizza lo stato mentale del soggetto quanto il tipo di
*presupposizioni* che l'enunciato possiede.
Ad esempio, se dico:
Tizio è assolutamente certo che la luna sia rotonda
*non* sto presupponendo che la luna sia rotonda. Infatti potrei
continuare il discorso dicendo: "Però la luna non è rotonda e Tizio si
sbaglia".
Mentre se dico
Tizio sa con certezza che la luna è rotonda
sto presupponendo che la luna lo sia.
Entrambi gli enunciati possono essere usati per descrivere lo stesso
identico stato mentale di Tizio (assoluta certezza che la luna sia
rotonda), tuttavia hanno diverse presupposizioni.
> > questi verbi reggono dei congiuntivi, senza dubbio (anche se so che la
> > discussione potrebbe essere sanguinolenta...)
>
> Ovviamente, sorrido :) Perché subito hai trovato chi non è d'accordo su di
> un verbo... ma amichevolmente, mica voglio veder correre il sangue! :)
>
> [...omissis...]
> > io sono sicuro che tu sia bella..
>
> Ecco, ecco: "sono sicuro che tu sei bella" a me suona un po' meglio che non
> "sono sicuro che tu sia bella". Se son sicuro, non ne dubito. O almeno, non
> ne dovrei dubitare.
> O no?
Quando gli esempi sono fatti con la prima persona, il soggetto
dell'enunciato coincide con il parlante e le cose si fanno più complicate.
Confronta invece:
Tizio è sicuro che lei è bella
Tizio è sicuro che lei sia bella
Ora, io trovo che la seconda sia comunque migliore, ma se dovessi trovare
una giustificazione alla prima direi che questa suggerisce fortemente
l'idea che anche il parlante ritenga che "lei sia bella" e dia questo
fatto come presupposto.
Max
Anche quel "fossero" mi suona sospetto. Forse che l'abbia usato al posto di
"siano" per dire implicitamente che "e se ci fossero sarebbe diverso"?
Lau
Questo è concettualmente un imperativo. Basterebbe 'spostare' formalmente le
forme del congiuntivo a quelle dell'imperativo non già esistenti, e
rimarrebbe in vigore la forma ora usuale.
Del resto, le due frasi che hai scritto sono di significato diverso.
Si vede che per te è 'brutta e piatta' ('brutta' ci arrivo che è un giudizio
soggettivo, definiscimi però cosa intendi per 'piatta') se non suona come
sei abituata a sentirla, ma pensa per esempio agli immigrati, che la lingua
devono impararsela, quanto devono faticare per non sentirsi correggere.
Io penso che sia molto più fastidiosa una lingua senza regole facili e
certe, che una lingua che offende una 'tradizione stabilita' o dei criteri
di bellezza, che peraltro sono del tutto soggettivi e legati all'abitudine.
Secondo me, una lingua è in primis un attrezzo per esprimere i propri
pensieri. Una lingua che fa pensare più al suo utilizzo che non ai pensieri
di chi parla, non è una gran lingua. Certo, ce ne sono di peggiori
dell'italiano.
Se CoMuNqUe Ti SeMbRa UnA lInGuA pIaTtA, sI PuÒ sEmPrE rImEdIaRe
ArTiFiCiOsAmEnTe.
:-))
Diciamo che non ero sicuro di ricordarmi bene.
> Anche quel "fossero" mi suona sospetto.
E anche tu mi suoni sospetta. E non so perché.
P.
... al contrario: dipende esclusivamente da noi.
> > Il mondo è pieno di
> > lingue senza questa inutile zavorra...
>
> Il congiuntivo sarà anche una zavorra, ma è una zavorra che ancora
> molti, per fortuna, preferiscono tenersi :))
>
> IMO, l'italiano senza congiuntivi sarebbe brutto e piatto. IMO :)
Sarebbe anche piu' brutto e piu' piatto mettendoceli
dappertutto - ovvero ogni volta che appare un "che" -
come facevi tu prima.
Ciao, Carlo
>Io penso che sia molto piů fastidiosa una lingua senza regole facili e
>certe
quale lingua ha regole facili e certe?
--
Maurizio Pistone - Torino
strenua nos exercet inertia Hor.
mailto:scri...@mauriziopistone.it
http://www.mauriziopistone.it
Questo è concettualmente e praticamente falso. L'imperativo non
c'entra, qui si ha valore ottativo (ben diverso).
Certo, perdendo il congiuntivo si perderebbe la differenza. Che
peccato sarebbe!
>Si vede che per te è 'brutta e piatta' ('brutta' ci arrivo che è un giudizio
>soggettivo, definiscimi però cosa intendi per 'piatta')
Per me: che limita le possibilità espressive... e, di riflesso,
inibisce le capacità intellettuali.
>se non suona come
>sei abituata a sentirla, ma pensa per esempio agli immigrati, che la lingua
>devono impararsela, quanto devono faticare per non sentirsi correggere.
Ma ti contraddici: non sei tu a sostenere che i corsi d'italiano per
stranieri siano 'organici', e quelli per madrelingua 'fumosi'?
E poi, mi sembra una motivazione... così... profonda...
Per imparare bene cinese e giapponese, io ci metterei qualche vita,
credo...
>Io penso che sia molto più fastidiosa una lingua senza regole facili e
>certe, che una lingua che offende una 'tradizione stabilita' o dei criteri
>di bellezza, che peraltro sono del tutto soggettivi e legati all'abitudine.
Non solo a quella, per fortuna. Anzi.
>Secondo me, una lingua è in primis un attrezzo per esprimere i propri
>pensieri.
Per la maggior parte delle persone, i gesti andrebbero benissimo.
>Una lingua che fa pensare più al suo utilizzo che non ai pensieri
>di chi parla, non è una gran lingua. Certo, ce ne sono di peggiori
>dell'italiano.
Ci sono pensieri semplici e pensieri complessi. E poi ci sono le
sciocchezze.
--
Bye.
Lem
Le risposte con 'R: ' finiscono automaticamente nel mio
killfile. Per conoscere e risolvere il problema causato
da OE: http://www.vene.ws/mail/r-out.asp
Salve!
Scenari.
1) L'assistenza telefonica mi suggerì (allora) di verificare quale
fosse (allora) lo stato dello suoneria, al fine, casomai,
d'attivarla.
Dirò: l'assistenza telefonica si limitò a farmi verificare che la
suoneria fosse attiva.
2) L'assistenza telefonica, che già lo sapeva per vie sue, attirò
(allora) la mia attenzione sul fatto che la segreteria era attiva
(allora)...
Dirò: l'assistenza telefonica si limitò a farmi verificare che la
suoneria era attiva...
3) L'assistenza telefonica mi ha (appena) suggerito di verificare
(entro breve) quale sia (attualmente) lo stato dello suoneria, al
fine, casomai, d'attivarla.
Dirò: l'assistenza telefonica si è limitata a dirmi di verificare
che la suoneria sia attiva.
N.B.: non 'a farmi verificare', perché devo ancora verificare.
4) L'assistenza telefonica, che già lo sa per vie sue, ha (appena)
attirato la mia attenzione sul fatto che la segreteria è attiva
(attualmente)...
Dirò: l'assistenza telefonica si è limitata a farmi verificare che
la suoneria è attiva...
[A tutti: òcio, che siamo in xpost...]
--
Bye.
Lem
'CLOCK is what you make of it: partecipa ad un progetto diffuso'
Distributed computing: http://www.aspenleaf.com/distributed/
Salve!
No. Varrebbe la pena di insegnarlo.
Ma no, e' la consecutio: c'erano ai tempi della scuola, quando le ha
studiate.
Ciao,
Filippo
> Io penso che sia molto più fastidiosa una lingua senza regole facili e
> certe, che una lingua che offende una 'tradizione stabilita' o dei criteri
> di bellezza, che peraltro sono del tutto soggettivi e legati all'abitudine.
> Secondo me, una lingua è in primis un attrezzo per esprimere i propri
> pensieri. Una lingua che fa pensare più al suo utilizzo che non ai pensieri
> di chi parla, non è una gran lingua. Certo, ce ne sono di peggiori
> dell'italiano.
>
Problema tuo che fai a cazzotti col congiuntivo. Per altri potrebbe
essere un rapporto idilliaco.
Ciao,
Filippo
> On Mon, 24 Sep 2001 18:52:23 +0200, Federico Zenith wrote:
> >Comunque, visto che nessuno, o quasi, sa come adoperarlo, non credete tutti
> >voi che varrebbe la pena di abolirlo, il congiuntivo?
>
> Salve!
> No. Varrebbe la pena di insegnarlo.
"Varrebbe la pena insegnarlo". ;-)
Ciao,
Filippo
> Secondo me, una lingua č in primis un attrezzo per esprimere i propri
> pensieri. Una lingua che fa pensare piů al suo utilizzo che non ai pensieri
> di chi parla, non č una gran lingua. Certo, ce ne sono di peggiori
> dell'italiano.
Dimenticavo di riportare il parere di un tale che conosco, di Durham,
sul ruolo delle lingue: "The first duty of a language is to hinder
of its comprehension by foreigners". Pensa un po'.
Ciao,
Filippo
> Mariuccia Ruta:
> > Grazie al cielo non dipende da noi :))
> ... al contrario: dipende esclusivamente da noi.
Da *voi*, vorrai dire: io non parteciperò ai lavori.
> > IMO, l'italiano senza congiuntivi sarebbe brutto e piatto. IMO :)
> Sarebbe anche piu' brutto e piu' piatto mettendoceli
> dappertutto - ovvero ogni volta che appare un "che" -
Non ricordo d'aver mai detto o avvalorato nulla di simile. Anzi.
Ho sempre sostenuto -e non ho ancora cambiato parere- che nel dubbio
sarà sempre meglio ripiegare sull'indicativo.
> come facevi tu prima.
Come facevo io prima?! Prima quando?
>
> Ciao, Carlo
--
Ciao,
Mariuccia®
Salve!
Vanno bene entrambe le forme.
1) (Il congiuntivo) varrebbe la pena_di_insegnarlo.
Posso anche dire: (il congiunivo) varrebbe la pena che lo
s'insegnasse.
Pensa anche a 'non NE vale la pena', che s'affianca a 'non vale
la pena'.
Altri esempi dal De Mauro: valeva proprio la pena di visitare
quella città, non vale la pena di prendersela tanto, non vale la
pena che tu venga fin qui.
2) Insegnarlo varrebbe la pena (che ne deriverebbe) > varrebbe la
pena insegnarlo.
Generalizzando e semplificando:
se [A (o fare A)] vale la pena [di fare A], allora è un bene fare A.
> "Mariuccia Ruta":
> > Il congiuntivo sarà anche una zavorra, ma è una zavorra che ancora
> > molti, per fortuna, preferiscono tenersi :))
> >
> > IMO, l'italiano senza congiuntivi sarebbe brutto e piatto. IMO :)
> > "Ben vengono le discussioni"
> > "Ben vengano le discussioni".
> > È solo un esempio, banalissimo, ma credo renda l'idea.
>
> Questo è concettualmente un imperativo. Basterebbe 'spostare' formalmente le
> forme del congiuntivo a quelle dell'imperativo non già esistenti, e
> rimarrebbe in vigore la forma ora usuale.
> Del resto, le due frasi che hai scritto sono di significato diverso.
E quale sarebbe la differenza di significato?
> Si vede che per te è 'brutta e piatta' ('brutta' ci arrivo che è un giudizio
> soggettivo, definiscimi però cosa intendi per 'piatta') se non suona come
> sei abituata a sentirla, ma pensa per esempio agli immigrati, che la lingua
> devono impararsela, quanto devono faticare per non sentirsi correggere.
Gli immigrati, cosi come hanno fatto gli emigranti italiani, dovranno
faticare comunque: non è certo il congiuntivo lo scoglio piú arduo
dell'italiano come lingua straniera. Inoltre, visto che dovremmo
preoccuparci di render la lingua facile agli immigrati, che cosa
facciamo con quelli nella cui lingua esiste già il congiuntivo?
> [...]
> Se CoMuNqUe Ti SeMbRa UnA lInGuA pIaTtA, sI PuÒ sEmPrE rImEdIaRe
> ArTiFiCiOsAmEnTe.
> :-))
LOL! :)
>
> Ciao,
> -Federico
--
Ciao,
Mariuccia®
> [...]
> Nel caso in cui a una festa Giovanni dicesse: "Sia festa!"
Bisognerebbe dire a Giovanni che con una frase simile qualcuno
potrebbe scambiarlo per il Creatore ;))
> e la sua frase venga riportata ad altri festeggianti che non hanno sentito,
Nel caso in cui tale frase venisse riportata ad ignari festaioli...
> come si dovrebbe dire:
>
> "Giovanni ha detto che sia festa"
Giovanni ha detto che si festeggi / che bisogna festeggiare / che si
faccia festa.
>
> "Giovanni ha detto: "Sia festa!"
Giovanni ha detto: "Festa sia!"
>
> o entrambe sono corrette?
Nessuna delle due, IMO. Non le ho mai sentite. Tutt'al piú:
"E festa sia", se si sta accondiscendendo a una richiesta.
>
> Lo so, è un esempio limite, [...]
Io lo definirei un esempio da non seguire :))
--
Ciao,
Mariuccia®
Be', non so se hai già notato ma ho una signature in esperanto... :-)
comunque, delle lingue che conosco, inglese e norvegese mi pare abbiano una
grammatica più semplice, anche se non immune da eccezioni.
Gxis,
"Lauretta" <la...@hotmail.com> ha scritto nel messaggio
news:3baf4...@corp-news.newsgroups.com...
> Quali delle seguenti 2 frasi è grammaticalmente corretta?
>
> -Giovanni mi ha detto che è festa.
> -Giovanni mi ha detto che sia festa.
>
> Google riporta 639 occorrenze di "mi ha detto che è" e 0 di "mi ha detto
che
> sia" quindi suppongo che sia giusta la prima ma dopo il "che" non ci vuole
> sempre il "sia"?
>
> Lau
Lauretta.
Google aiuta, ed in questo caso ha ragione.
Giovanni mi ha detto_ che E' festa.
Non sempre dopo il *che* segue l'Indicativo, ma penso che altri ti ABBIANO
già RISPOSTO. ( ho usato il congiuntivo perché lo suppongo ma non ne sono
certa, nin avendo letto tutti i post.
--
lu.
*L'anima sarà semplice com'era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera,
come vien l'acqua al cavo della mano.*
G. D'Annunzio
http://web.tiscali.it/LucianaGrazioli
> > "Io credo che tu sei il Cristo": ma non senti come stonerebbe "io credo che
> > tu *sia il Cristo"?
> Ma quanto il Cristianesimo ha modificato la lingua? Pensiamo, appunto, a
> parole come credere; o fratellanza; fede; amore; religiosità; santo,
> santità...
>
> > Lo so, "credere" ha anche un significato dubitativo, al giorno d'oggi. Ma
> > non dovrebbe, perché credere è "ritenere vero o veritiero".
Ma, scusate, il Cristianesimo non c'entra. Il fatto piu' banale e' che
in italiano il verbo "credere" si usa nel senso di entrambi i verbi
latini "credo" (assertivo) e "puto" (dubitativo). E di fatti il Simbolo
nella sua versione latina recita "Credo in unum Deum" e non "Puto in
unum Deum".
--
----------------------------------------------------------------------
nos...@ifctr.mi.cnr.it is a newsreading account used by more persons to
avoid unwanted spam. Any mail returning to this address will be rejected.
Users can disclose their e-mail address in the article if they wish so.
> On Mon, 24 Sep 2001 18:52:23 +0200, Federico Zenith wrote:
> >Comunque, visto che nessuno, o quasi, sa come adoperarlo, non credete
tutti
> >voi che varrebbe la pena di abolirlo, il congiuntivo?
>
> Salve!
> No. Varrebbe la pena di insegnarlo.
A me risulta che viene insegnato...
Diciamo, piuttosto, che varrebbe la pena impararlo !!!...
--
Er Roscio.
Anche qui discordo: quella dell'assistenza telefonica è una *verifica*,
non un *controllo".
Mi spiego. Io *verifico* qualcosa che *mi aspetto* che sia a posto,
mentre *controllo* SE qualcosa è o non è a posto.
Quindi, bene il passato per la consecutio, ma non il congiuntivo
(è un po' come il verbo "credere"...)
--
Er Roscio.
Roscio wrote:
> "Mariuccia Ruta" wrote:
> > Lauretta(?) wrote:
> > > [...]
> > > Che ne dite invece di questa frase:
> > > "L'assistenza telefonica si è limitata a farmi verificare che la
> > > suoneria 'è' configurata attiva (e lo è)".
> > > Giusta?
> >
> > Io userei il congiuntivo imperfetto: in logica "consecutio" col
> > passato espresso nella principale:
> > "... si è limitata a ... che la suoneria fosse ..."
> > "... si limita a ... che la suoneria sia ...".
>
> Anche qui discordo: quella dell'assistenza telefonica è una *verifica*,
> non un *controllo".
>
> Mi spiego. Io *verifico* qualcosa che *mi aspetto* che sia a posto,
> mentre *controllo* SE qualcosa è o non è a posto.
>
> Quindi, bene il passato per la consecutio, ma non il congiuntivo
> (è un po' come il verbo "credere"...)
Non capisco: che succede col verbo credere? Non si usa il congiuntivo?
Io l'ho sempre usato.
Volevo aggiungere un commento sul tempo usato: sara' anche un passato
quello che e' nella reggente, ma non riesco a togliermi la sensazione
di stonatura che mi da' quel "si e' limitata...che fosse". Penso che
sia quel passato prossimo (che per me si ostina a mantenere un legame
con il momento presente; e' un passato, si', ma prossimo, e non tanto
per l'ammontare assoluto di tempo trascorso, quanto per la relazione
che l'azione descritta mantiene con il tempo presente). Non so quanto
la consecutio temporum latina se la cavi, immune, con un tempo che in
latino non esisteva neppure. In sintesi: al mio orecchio se metto "...che
fosse" non piace molto quel "si e' limitata" (mi aspetterei un'azione
nela principale descritta da un "si era limitata", o "si limito'").
Inoltre (adesso sto mettendo insieme le due cose del tempo e del modo) se
si vuole essere "attuali" e far finta che il passato remoto neppure
esista, si sia conseguenti e si faccia piazza pulita anche del
congiuntivo.
Imvho
Ciao,
Filippo
> Filippo Cintolesi wrote:
> >"Varrebbe la pena insegnarlo". ;-)
>
> Salve!
> Vanno bene entrambe le forme.
Ciao, davvero? Allora devo essere un folle, perche'
"vale la pena di" mi suona proprio falso. Una volta
sintonizzatomi con il pelo nell'uovo, s'intende.:-)
>
> 1) (Il congiuntivo) varrebbe la pena_di_insegnarlo.
> Posso anche dire: (il congiunivo) varrebbe la pena che lo
> s'insegnasse.
> Pensa anche a 'non NE vale la pena', che s'affianca a 'non vale
> la pena'.
> Altri esempi dal De Mauro: valeva proprio la pena di visitare
> quella città, non vale la pena di prendersela tanto, non vale la
> pena che tu venga fin qui.
>
> 2) Insegnarlo varrebbe la pena (che ne deriverebbe) > varrebbe la
> pena insegnarlo.
>
> Generalizzando e semplificando:
> se [A (o fare A)] vale la pena [di fare A], allora è un bene fare A.
> --
Semplicemente spiegherei la stonatura che "vale la pena di" mi provoca,
con l'osservazione che tutte quelle infinitive (insegnarlo, arrivare fin
qui, prendersela tanto, ecc..) sono il soggetto di "vale": la tal cosa
[andare, prendersela, impararlo...] vale la tal altra cosa [la pena che
l'accompagna]. Ma evidentemente sono un po' settario, se e' vero
--come mi sembra vero-- che anche "la tal cosa [la pena di andare, di
fare, ecc] vale [in se' e per se']" ha il suo senso.
Ciao,
Filippo
Satanico, eh? Prova a mettere il mio nome in Word e a trasformarlo in
Wingdings o in Webdings... scoprirai cose interessanti. :)
A parte scherzi, è vero: è stata mia disattenzione o fretta. Io, comunque,
preferisco usare "credere" nel suo significato primo, ossia "ritenere vero",
e usare il solo "ritenere" (o "pensare", "stimare" eccetera secondo il
contesto) quando invece esprimo un dubbio o una possibilità. Ma non sono
sempre coerente; l'uso (abbondante) che si fa di "credere" nel significato
(attestatissimo, quindi valido) di "ritenere", "pensare" macchia anche la
mia purità.
> Uhm... conosci una ragazza per telefono:
Al massimo per ciat :)
> come fai ad essere sicuro che
> sia bella? Puoi averne una sensazione; e allora dirai "sono sicuro che
> tu sia bella" che significa, in parole povere, "mi auguro vivamente che
> tu sia bella"; similmente alla frase "sono sicuro che tu sia una persona
> onesta": in che contesti la usi un'espressione come questa?
Be', siamo di nuovo lì: se son sicuro, son sicuro. A meno che non usi, come
tu dici, "esser sicuro" al posto di "sperare vivamente", ossia con un
significato traslato. Ma "Son sicuro che ti ho già visto da qualche parte"
(sì, OK, ammetto la leggera forzatura; normalmente direi "di averti già
visto"), se indica il fatto che son davvero sicuro, regge, nella mia testa,
l'indicativo.
Ma è vero: "credere", "esser sicuro" molto spesso indicano un dubbio (in
positivo), come fossero "ho buone ragioni per credere", "ho la speranza di
avere la certezza". Son forme medie, in effetti.
Ciao
Ale
--
Namarië Valinor
No, infatti, la questione non è semplice.
> Ad esempio, se dico:
>
> Tizio è assolutamente certo che la luna sia rotonda
>
> *non* sto presupponendo che la luna sia rotonda. Infatti potrei
> continuare il discorso dicendo: "Però la luna non è rotonda e Tizio si
> sbaglia".
>
> Mentre se dico
>
> Tizio sa con certezza che la luna è rotonda
>
> sto presupponendo che la luna lo sia.
Sì. Ma in questo caso entra in gioco un altro elemento: stai riportando
l'opinione di un terzo. Il quale può avere la certezza assoluta di una
verità, che però, all'atto pratico, si rivela infondata. E' una sorta di
discorso indiretto. Ed è uno dei casi tipici in cui si usa il congiuntivo.
Il nostro prof di greco e latino c'insegnava, al liceo, che in latino il
congiuntivo ha (quasi) sempre almeno due motivi d'essere: la sintassi da un
lato, e la logica dall'altro. Se viene a mancare uno dei due, si preferisce
l'indicativo. E riportare le opinioni di un altro era appunto uno dei motivi
logici che inducevano all'uso del congiuntivo.
Come per le frasi che tu riporti: Tizio è certo che la luna sia rotonda ha
dalla sua la sintassi *e* la logica (riporto un'opinione di Tizio, con la
quale magari non concordo), Tizio è certo che la luna è rotonda suppone,
come giustamente argomenti, che io condivida la sua opinione.
>
> Quando gli esempi sono fatti con la prima persona, il soggetto
> dell'enunciato coincide con il parlante e le cose si fanno più complicate.
O più semplici, dipende dai punti di vista. Si spera (ma non è certo ^_^)
che io conosca le mie opinioni e le condivida.
> Confronta invece:
>
> Tizio è sicuro che lei è bella
>
> Tizio è sicuro che lei sia bella
>
> Ora, io trovo che la seconda sia comunque migliore, ma se dovessi trovare
> una giustificazione alla prima direi che questa suggerisce fortemente
> l'idea che anche il parlante ritenga che "lei sia bella" e dia questo
> fatto come presupposto.
Esatto. Concordo in pieno.
Nel caso che?
Ciao
Ale
--
Namariė Valinor
> Comunque, visto che nessuno, o quasi, sa come adoperarlo, non credete tutti
> voi che varrebbe la pena di abolirlo, il congiuntivo? Il mondo č pieno di
> lingue senza questa inutile zavorra...
Il mondo č anche pieno di lingue che non hanno gli articoli, né
determinativi né indeterminativi.
Forse vale la pena di abolirli anche in italiano.
Per cui si puň cominciare a pensare lingua che in futuro diventa lingua
molto facile da parlare: cosě poveri extracomunitari non hanno piů
problema di imparare noiosi articoli che tutto mondo sa essere inutili
come congiuntivi.
Poi possiamo pensare che anche coniugazione di verbi č inutile: dialetti
di isola filippina di Ilo Ilo non avere coniugazioni; allora perché non
essere gentili con nostri amici filippini e togliere coniugazioni di
verbi? Cosě amici filippini che lavorare qui in Italia non avere
problema di impare verbi.
E che dire di preposizioni articolate? Sapere tu quante lingue non
avvere preposizioni articolate? Ma ecco soluzione: naturalmente, aboliti
articoli, abolite anche preposizioni articolate: allora si potere fare
legge che obbligare italiani a parlare come filippini, cosě filippini
potere parlare piů facilmente.
Ma io pensare anche che forme come "bellissimo, meglio, ottimo,
migliore, pessimo, peggiore ecc." non essere necessarie: io credere che
č sufficiente scrivere "piů" e "meno" e "molto". In questo modo non
esistere piů nemmeno persone stupide e persone intelligenti: pensare tu
a frase come "Tizio č piů molto intelligente"; "Caio č meno molto
intelligente". Chi essere intelligente?
E poi io pensare anche a contrari di parole: bello e brutto. Che orrore!
Come fare albanese a ricordare tutte queste cose? Noi allora fare legge
che dire che contrario di "bello" essere "sbello"; contrario di "bianco"
essere "sbianco" cosě risolvere anche problema linguistico di negri, no?
E cosě chi non essere cretino diventare scretino, cosě cretini essere
contenti che anche scretini avere dentro loro nome parola cretini.
E vantaggio nascere ancora di piů con parole "piů" e " meno" che
diventare "piů" e "spiů": allora "Caio č spiů molto intelligente" e
Tizio diventare uguale a Caio: intelligenti uguali.
E poi, orrore!, "consecutio temporum"!
Ecco nuova legge:
dato che verbi non avere piů conigazioni, non piů necessari tempi di
verbi: tutti verbi diventare sfiniti presenti o participi spresenti
(sfiniti essere contrario di finiti; spresenti essere contrario di
presenti); ecco nuova consecuzio:
se io mangiato ieri, stare bene;
se io smangiato smolte bistecche in sprimi giorni, ora essere spiů
smagro ;
detto a Luca che se stati incontrati soggi potuto andare mangiare panino
bar.
Ma ora non avere piů tempo: promettere che domani avere nuove idee per
nuove leggi che scrivere su questo gruppo.
P.
> Ma ora non avere più tempo: promettere che domani avere nuove idee per
> nuove leggi che scrivere su questo gruppo.
>
Mica male. Sdimenticare però semplificazione ortografia e sinserimento
preposizione "di", ke comunqe già attiva almeno su scatole prodotti soffuer.
Come kiamare qesto? Neolingua?
Subscribe. ;)
> > Quindi, bene il passato per la consecutio, ma non il congiuntivo
> > (è un po' come il verbo "credere"...)
>Non capisco: che succede col verbo credere? Non si usa il congiuntivo?
>Io l'ho sempre usato.
Il verbo credere ha due accezioni: quella di "essere profondamente convinti
di"
e quella di "ritenere che".
A seconda di quale si usa, si deve usare l'indicativo o il congiuntivo
(almeno, credo... :-)))))
--
Er Roscio.
Be', mi pare che il primo sia la descrizione di un evento e il secondo un
comando o un'augurio.
> > Si vede che per te è 'brutta e piatta' ('brutta' ci arrivo che è un
giudizio
> > soggettivo, definiscimi però cosa intendi per 'piatta') se non suona
come
> > sei abituata a sentirla, ma pensa per esempio agli immigrati, che la
lingua
> > devono impararsela, quanto devono faticare per non sentirsi correggere.
>
> Gli immigrati, cosi come hanno fatto gli emigranti italiani, dovranno
> faticare comunque: non è certo il congiuntivo lo scoglio piú arduo
> dell'italiano come lingua straniera.
So per certo di un caso di una studente di scambio che ha fatto un corso di
lingua _solo_ sul congiuntivo.
Il che è interessante, visto che ora lei azzecca tutti i congiuntivi mentre
la maggior parte degli italiani no; in compenso le è rimasto l'accento
norvegese e la tendenza a dire 'ci' invece di 'gi'. :-)
Ciao,
Bella questa :-)
Lasciami indovinare, questo ha cercato di imparare il tedesco? ;-)
È vero, ma spesso sono lingue che hanno altri metodi di determinazione, più
o meno implicita. In norvegese 'una ragazza' è 'ei jente', 'la ragazza'
'jenta'. Quindi, rimosso l'articolo, rimane una forma di determinazione
simile a una declinazione.
> [...]
Buffo post e anche un po' polemico il tuo, ma d'altra parte proporre di
abolire il congiuntivo in xpost su icli non poteva esimermi dal confrontarmi
con reazioni di questo tipo.
Il mio punto è che la maggior parte degli italiani, gente che la lingua la
respira dalla nascita, ha problemi ad azzeccare il congiuntivo. Qualcosa che
non va c'è, visto che - come dimostra questo thread - anche persone di
elevata istruzione ogni tanto si fanno prendere dai dubbi.
Al che mi sorge un dubbio: a che serve 'sto congiuntivo? In inglese e nelle
lingue scandinave, per esempio, del congiuntivo non rimangono che tracce,
che per giunta coincidono coll'infinito (ad eccezione dello svedese, che
comunque cambia solo una 'a' in 'e'). Eppure non mi sembra che
l'espressività delle lingue ne soffra.
A questo punto, mi rimane in piedi un'ipotesi: che il congiuntivo abbia la
stessa funzione degli ideogrammi kanji in giapponese, perfettamente inutili
ma 'prestigiosi', segno che chi li sa usare può permettersi di studiare cose
di fatto inutili, tanto per perdere tempo, e per poi mostrare quanto è degno
appartenente dell'alta società: i poveri, infatti, non possono certo ambire
a un'istruzione del genere.
Mi sembra quindi che il congiuntivo sia una espressione di una lingua
classista, nel senso peggiore del termine.
Ma sono pronto a ricredermi se mi dimostri che il congiuntivo risulta
indispensabile a qualcosa. :-)
ciao
>delle lingue che conosco, inglese e norvegese mi pare abbiano una
>grammatica più semplice
non so del norvegese, ma mi sembra che l'inglese, quanto a semplicità
grammaticale, sia un po' duro. Senza toccare la questione della
pronuncia e della grafia, che è come sparare sugli azzoppati, su una
vecchia grammatica trovo, per il passato:
the simple past
the past continuous
the present perfect
the present perfect continuous
the past perfect
the past perfect continuous
più altre forme come used to... che può essere sostituito, in casi a
me sconosciuti, da would...
Io personalmente trovo che la lingua più semplice, come regolarità
grammaticale, sia il tedesco.
--
Maurizio Pistone - Torino
strenua nos exercet inertia Hor.
mailto:scri...@mauriziopistone.it
http://www.mauriziopistone.it
Dai, hai capito benissimo quello che volevo dire.
> [...]
> >Si vede che per te è 'brutta e piatta' ('brutta' ci arrivo che è un
giudizio
> >soggettivo, definiscimi però cosa intendi per 'piatta')
>
> Per me: che limita le possibilità espressive... e, di riflesso,
> inibisce le capacità intellettuali.
Ah-ah-ah. Qui andiamo sullo spinoso. Questa è l'ipotesi di Sapir-Whorf, che
al momento giace nel discredito, anche se non è mai stata messa alla prova.
Vedi al link:
http://www.best.com/~donh/Esperanto/EBook/chap03.html#loglan
Comunque, la gazza ladra ruba anche se non sa come si dica furto.
Secondo me una lingua può inibire solo le capacità espressive, quelle
intellettuali sono al di là della 'barriera linguistica'. Insomma, è
capitato a tutti di avere una parola sulla punta della lingua.
> >se non suona come
> >sei abituata a sentirla, ma pensa per esempio agli immigrati, che la
lingua
> >devono impararsela, quanto devono faticare per non sentirsi correggere.
>
> Ma ti contraddici: non sei tu a sostenere che i corsi d'italiano per
> stranieri siano 'organici', e quelli per madrelingua 'fumosi'?
'Fumosi' perché si rifanno all'esperienza di chi sta imparando. Un Kazako
che impara l'italiano deve imparare tutto, la sintassi, le coniugazioni
eccetera. E probabilmente avrà un controllo della grammatica superiore al
99,5% degli italiani, perché loro non hanno mai avuto bisogno di imparare
così bene la grammatica.
Ciò non toglie che sia una gran faticaccia, e sia anche frustrante impararsi
poi qualcosa - come il congiuntivo - il cui uso varia da regione a regione
se non addirittura da persona a persona.
Per esempio, quando io ho imparato il norvegese, mi sono trovato davanti la
parola 'så'. Essa ha i significati di: 'dopo', ed è un avverbio, che quindi
in posizione iniziale della frase provoca l'inversione verbo-soggetto delle
lingue germaniche; 'quindi' (consequenziale) come congiunzione, che non
modifica la sintassi della frase seguente, che risulta essere tecnicamente
una coordinata; 'affinché' come 'sottogiunzione', che modifica la sintassi
mettendo gli avverbi prima anziché dopo il verbo come usuale, in quanto la
frase risulta essere una subordinata; ed è anche il preterito di 'å se',
cioè vedere, che non c'entra nulla ma fa comunque casino.
Tu immagina il mio disappunto, dopo che io mi sono imparato a memoria le
regolette sopra (sempre più facili del congiuntivo italiano, eh!), quando ho
scoperto che i norvegesi commettevano uno strafalcione dietro l'altro, e
usavano sempre la forma avverbiale, anche se intendevano le altre.
Non credo di aver mai sentito una volta un uso di 'så' inteso come
'sottogiunzione' che non fosse scorretto.
Vabbè mi sono dilungato e chiudo qui.
> E poi, mi sembra una motivazione... così... profonda...
> Per imparare bene cinese e giapponese, io ci metterei qualche vita,
> credo...
Scusa, mi sfugge quello che intendi dire.
> >Secondo me, una lingua è in primis un attrezzo per esprimere i propri
> >pensieri.
>
> Per la maggior parte delle persone, i gesti andrebbero benissimo.
Dipende dai concetti che vuoi esprimere. Prova a dire a gesti 'Gli spazi di
Sobolev, Hk, sono spazi di funzioni quadrato-integrabili secondo Lebesgue le
cui derivate fino all'ordine k sono ancora funzioni quadrato-integrabili
secondo Lebesgue'. È un esempio estremo, ma capita.
Ciao,
>A questo punto, mi rimane in piedi un'ipotesi: che il congiuntivo abbia la
>stessa funzione degli ideogrammi kanji in giapponese, perfettamente inutili
>ma 'prestigiosi', segno che chi li sa usare può permettersi di studiare cose
>di fatto inutili, tanto per perdere tempo, e per poi mostrare quanto è degno
>appartenente dell'alta società: i poveri, infatti, non possono certo ambire
>a un'istruzione del genere.
In Giappone la scuola dell'obbligo insegna circa 2000 kanji. Con tutti
gli omofoni che ci sono in quella lingua, non è affatto vero che i
kanji siano "inutili ma prestigiosi". Sì, ci sono kanji desueti che
vengono usati soltanto da pochi eletti, ma i 2000 di base sono
indispensabili (e per il madrelingua medio, neanche sufficienti).
>Mi sembra quindi che il congiuntivo sia una espressione di una lingua
>classista, nel senso peggiore del termine.
>
>Ma sono pronto a ricredermi se mi dimostri che il congiuntivo risulta
>indispensabile a qualcosa. :-)
Bonardi già mostrato congiuntivo snecessario. Io fatto altri
sinserimenti, ora lingua tuttotutto sclassista.
Qualcun altro
P.S. Occhio a crosspost e followup.
Sono molte forme, ma sono tutte regolarmente derivate: prendi presente,
passato, ne fai prima il perfect e poi il relativo continuous a tutti e
quattro.
È un sistema abbastanza modulare, a me non pare affatto sia uno scoglio.
Comunque sono daccordo che la pronuncia e la grafia siano ributtanti. :-)
Comunque noi, mi pare, abbiamo 110 forme per ogni verbo regolare. In inglese
non credo si raggiungano le 5.
> Io personalmente trovo che la lingua più semplice, come regolarità
> grammaticale, sia il tedesco.
[ribaltamento dalla sedia]
[faticoso riissamento sulla sedia]
[rilettura incredula e nuovo ribaltamento]
[riissamento... be' avete capito]
Scusa, per curiosità, ma tu lo parli il tedesco?
No, dico, HAI PRESENTE com'è fatto?
Hai presente come viene costruito il passivo futuro?
Hai presente l'uso dei verbi separabili e la sintassi delle subordinate?
E hai presente, puntualmente, quanti strafalcioni commettano i tedeschi
stessi con la loro grammatica?
Se sì, ed hai espresso la tua opinione consapevolmente - fatti vedere da uno
bravo ;-)))
Ciao,
>Scusa, per curiosità, ma tu lo parli il tedesco?
>No, dico, HAI PRESENTE com'è fatto?
>Hai presente come viene costruito il passivo futuro?
>Hai presente l'uso dei verbi separabili e la sintassi delle subordinate?
>E hai presente, puntualmente, quanti strafalcioni commettano i tedeschi
>stessi con la loro grammatica?
E va bene. Allora ripieghiamo su una lingua talmente rozza e semplice
che è stata inventata da un popolo di analfabeti di professione pirati
o contadini, e di uso così pratico che è stata per secoli il normale
mezzo di comunicazione fra dozzine di etnie delle più diverse lingue
madri: il greco antico.
>Mi sembra quindi che il congiuntivo sia una espressione di una lingua
>classista
Tutte queste considerazioni sulle lingue classiste perché difficili,
dimenticano un fatto elementare: che le lingue nascono ad un certo
punto, perché se ne sente l'esigenza, e nascono nella coscienza comune
di milioni di parlanti, i quali non fanno progetti a tavolino
("mettiamoci pure il congiuntivo, così freghiamo i poveracci") ma
vanno inconsapevolmente a ricercare nella loro memoria storica (la
lingua che sta tramontando) le forme di cui sentono il bisogno per
esprimere quello che hanno in testa (la lingua che sta nascendo). La
lingua italiana è stata inventata da gente che usava il congiuntivo
senza nemmeno sapere che si chiamava congiuntivo - per la stessa
ragione per cui i greci hanno usato l'ottativo aoristo medio
asigmatico per molti secoli prima di sapere che si chiamava ottativo
aoristo medio asigmatico, e i latini hanno usato i verbi deponenti per
secoli prima di riflettere sul fatto che venivano coniugati come i
verbi passivi pur avendo significato attivo. Più in generale, quelli
che hanno inventato il greco, il latino, l'italiano e tutte le altre
lingue del mondo, non sapevano neanche che esistesse qualcosa che si
chiama grammatica, e se usavano il congiuntivo ecc. è semplicemente
perché gli veniva bene così. Poi sono arrivati i grammatici, a dire
che il congiuntivo si deve usare per forza, poi ancora quelli di Icli,
a dire che il congiuntivo si deve abolire.
>
> Il mio punto è che la maggior parte degli italiani, gente che la lingua la
> respira dalla nascita, ha problemi ad azzeccare il congiuntivo. Qualcosa che
> non va c'è, visto che - come dimostra questo thread - anche persone di
> elevata istruzione ogni tanto si fanno prendere dai dubbi.
>
> Al che mi sorge un dubbio: a che serve 'sto congiuntivo? In inglese e nelle
> lingue scandinave, per esempio, del congiuntivo non rimangono che tracce,
> che per giunta coincidono coll'infinito (ad eccezione dello svedese, che
> comunque cambia solo una 'a' in 'e'). Eppure non mi sembra che
> l'espressività delle lingue ne soffra.
>
> A questo punto, mi rimane in piedi un'ipotesi: che il congiuntivo abbia la
> stessa funzione degli ideogrammi kanji in giapponese, perfettamente inutili
> ma 'prestigiosi', segno che chi li sa usare può permettersi di studiare cose
> di fatto inutili, tanto per perdere tempo, e per poi mostrare quanto è degno
> appartenente dell'alta società: i poveri, infatti, non possono certo ambire
> a un'istruzione del genere.
>
> Mi sembra quindi che il congiuntivo sia una espressione di una lingua
> classista, nel senso peggiore del termine.
>
Permettimi di non essere d'accordo con la drasticita' delle tue conclusioni.
Io credo che abbiano problemi ad azzeccare il congiuntivo le persone che non
sono abituate a usarlo, che non l'hanno "respirato dalla nascita", per dirla
con le tue parole, cioe' che per esprimere i propri pensieri non ne hanno
avuto mai bisogno. Perche' questo e' il punto, a mio avviso: e' il rispondere
a una esigenza ben precisa, che fa di una lingua (e quindi anche di una sua
minima parte, come puo' essere il congiuntivo, o il passato remoto, o altri
arnesi "sotto accusa") un qualcosa di vivo e in buona salute. Che e' stato
tra l'altro --e non e' un'opinione mia, ma la sottoscrivo ampiamente-- il
motivo della lunga sopravvivenza dei dialetti in Italia: possedevano una tale
ricchezza di espressione, una tale estensione di registri, e al tempo stesso
una tale *precisione*, che nell'ambito dei mestieri di tradizione millenaria,
soprattutto quelli connessi all'agricoltura, sono stati la lingua di riferimento
fino a ieri (cioe' fino a quando quei mestieri non sono scomparsi).
Per il congiuntivo (cosi' come per il passato remoto) vale lo stesso discorso.
E' evidente che se le forme al congiuntivo devono essere un mondo semanticamente
a se', senza comunicazione con quello delle corrispondenti forme all'indicativo,
senza fornire un qualcosa "in piu'", ma soltanto qualcosa di "diverso"
(prestigioso
dici te), allora si' che si tratterebbe di nient'altro che di un gallone
da portare piu' o meno impettiti. Ma e' nella possibilita' di esprimere una
sfumatura diversa, o di esprimerla in modo piu' efficace, o piu' economico
rispetto alla forma all'indicativo, che sta la possibile (e a mio avviso
attuale)
ricchezza del congiuntivo. Non quindi la' dove tutti concordano nel ritenere
"errato" l'uso dell'indicativo, ma al contrario proprio dove si e' affermato
un uso parallelo delle due forme, si puo' trovare la ragion d'essere del
congiuntivo.
Certo, si cambia. Non solo come societa' da una generazione all'altra, ma anche
come
individui nel corso degli anni. Io mi ricordo molto bene di quando "cambiai
regione",
al tempo dell'universita'. E ricordo perfettamente le fitte che mi provocava
sentir
dire "e' meglio che vai..", tanto per fare un esempio. Oppure "allora ce lo dico
al
Paolo" (e non mi riferisco all'articolo davanti a Paolo). Oppure sentir salutare
con "buongiorno" alle due del pomeriggio. E al tempo stesso ricordo gli sguardi
e le prese di culo quando salutavo i compagni di corso che avrei rivisto
alle tre del pomeriggio (magari era mezzogiorno) con un "allora ci vediamo
stasera"
("ah si'? che si fa? usciamo?"). Per non parlare di quando "osavo" chiamare
guanciale quel che loro chiamavano cuscino, scodella cio' che per loro era
un impersonalissimo "piatto fondo", o mestolo il loro "cucchiaio di legno"
mentre mi veniva porto quello che chiamavo (e chiamo, cazzo! ;-) ) ramaiolo.
Ora di questi chock culturali tendono a essercene di meno, io stesso ho
contaminato
moltissimo il mio linguaggio, la percentuale degli "adesso" che la spuntano
sugli
"ora", o dei "cadere" che hanno la meglio su "cascare", e' aumentata e non di
poco.
Ma sentir dire che tutto cio' non e' altro che inutile orpello o addirittura
istituzione
classista, francamente non lo posso accettare. Guarda che col congiuntivo (e col
passato remoto, aridanghete) e' esattamente la stessa cosa: sono strumenti che
servono
a scopi precisi. Chi e' abituato a servirsene, se ne viene privato si sente come
ti sentiresti te se ti togliessero le scarpe mentre cammini.
Tu hai parlato di istruzione elevata. Ma io potrei farti conoscere non una ma
decine di persone di istruzione minima e di estrazione sociale cosiddetta
"umile"
(che immagino dovrebbe essere il contrario di "appartenente all'alta societa'"),
tanto per essere chiari: braccianti agricoli, scalpellini del selciato, manovali
...,
e farteli sentir parlare un italiano magari segnato da certi termini
vernacolari,
con una pronuncia magari fortemente "riconoscibile", ma strutturalmente
corretto,
con un impiego assolutamente perfetto del congiuntivo, del passato remoto, della
consecutio e cosi' via. E impiegare anche termini che un'altra persona,
semplicemente abituata a sentire un altro dialetto in bocca a persone che fanno
quei lavori, potrebbe benissimo prendere come "letterari" (e' successo).
Per concludere (e ora la faccio veramente finita): io mi guardo bene anche solo
dal
tentare di dimostrare la "necessita'" del congiuntivo (e del eccetera eccetera).
Mi limito a suggerire che ognuno guardi nel piatto suo e mangi pure come
gli conviene, e soprattutto come gli riesce; se viene bene, se no (come diceva
Toto' in Miseria e nobilta') "desisti".
Ciao,
Filippo
>Il mondo è anche pieno di lingue che non hanno gli articoli, né
>determinativi né indeterminativi.
>Forse vale la pena di abolirli anche in italiano.
[...]
>Ma ora non avere più tempo: promettere che domani avere nuove idee
per
>nuove leggi che scrivere su questo gruppo.
Caro Paolo,
il tuo brano era divertente, ma tutto sommato avresti fatto prima a
citare (postare? quotare?) il vecchio "Zang zang tumb tumb" di F.T.
Marinetti.
Mi ricordo che c'era un manifesto della grammatica futurista, forse
qualcuno di voi lo può recuperare in rete?
--
Ciao
Frank S.A.M.
> Il mio punto è che la maggior parte degli italiani, gente che la lingua la
> respira dalla nascita, ha problemi ad azzeccare il congiuntivo.
la *respira*, ma, in genere, non la *legge*:
http://www.alice.it/statist/reading/155_8.htm
un saluto,
Gianfranco Romano.
> Nel caso in cui a una festa Giovanni dicesse: "Sia festa!" e la sua frase
>venga riportata ad altri festeggianti che non hanno sentito, come si
>dovrebbe dire:
>
> "Giovanni ha detto che sia festa"
>
> "Giovanni ha detto: "Sia festa!"
>
Entrambi sono corrette.
In particolare la seconda, come pure
"Giovanni ha detto: "Io saressi piů meglio di te",
ammesso lo abbia detto.
--
Bye
Vitt
>Al che mi sorge un dubbio: a che serve 'sto congiuntivo? In inglese e
>nelle
>lingue scandinave, per esempio, del congiuntivo non rimangono che
>tracce,
>che per giunta coincidono coll'infinito
Caro Federico,
Non conosco le lingue scandinave ma in inglese non c'è coincidenza con
l'infinito:
"If I had a million dollars"
"If I were you"
>Ma sono pronto a ricredermi se mi dimostri che il congiuntivo risulta
>indispensabile a qualcosa. :-)
Nulla è veramente indispensabile in una lingua, ma io penso che il
pensiero "derivi" dal linguaggio e non viceversa (in sintesi noi non
traduciamo i pensieri in frasi, ma impariamo a pensare attraverso il
linguaggio, anche se so che intuitivamente sembra vero il contrario),
e quindi non sempre una semplificazione rappresenta un miglioramento.
--
Ciao
Frank
Perché ti arrendi così, Maurizio?
Tu hai detto che trovi che "la lingua più semplice, come regolarità
grammaticale, sia il tedesco".
Non hai detto che il tedesco ha una grammatica semplice.
Hai parlato di "regolarità grammaticale" e la tua affermazione è
giustissima.
Infatti la pur complessa grammatica tedesca ha, sì, moltissime regole, ma
pochissime eccezioni.
Ciao,
Roger
--
rugf...@tin.it
Togliere 99 per rispondere direttamente
>
> Il migliore di tutti, Pablo Bonardi ha scritto...
> Caro Paolo,
> il tuo brano era divertente [e io ti invidio la tua geniale creatività] ,
> ma tutto sommato avresti fatto prima a
> citare (postare? quotare?) il vecchio "Zang zang tumb tumb" di F.T.
> Marinetti.
> Mi ricordo che c'era un manifesto della grammatica futurista, forse
> qualcuno di voi lo può recuperare in rete?
Oplà:
http://www.tabulafati.it/marimani.htm
Ricordo che d'Annunzio chiamava Marinetti "il cretino fosforescente".
Per chi non avesse un navigatore sotto mano, ecco il testo completo:
Filippo Tommaso Marinetti
MANIFESTO TECNICO
DELLA LETTERATURA FUTURISTA
In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato il ventre
dalla testa dell’aviatore, io
sentii l’inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero.
Bisogno furioso di liberare le
parole, traendole fuori dalla prigione del periodo latino! Questo ha
naturalmente, come ogni
imbecille, una testa previdente, un ventre, due gambe e due piedi piatti,
ma non avrà mai due ali.
Appena il necessario per camminare, per correre un momento e fermarsi quasi
subito sbuffando!...
Ecco che cosa mi disse l’elica turbinante, mentre filavo a duecento
metri sopra i possenti
fumaiuoli di Milano. E l’elica soggiunse:
1. Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso,
come nascono.
2. Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente
al sostantivo e non lo
sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo
all’infinito può, solo, dare il
senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la
percepisce.
3. Si deve abolire l’aggettivo perché il sostantivo nudo conservi il
suo colore essenziale.
L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è incompatibile con la
nostra visione dinamica,
poiché suppone una sosta, una meditazione.
4. Si deve abolire l’avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l’una
all’altra le parole. L’avverbio
conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.
5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve
essere seguìto, senza
congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-
torpediniera,
donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto.
Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza del
mondo, la percezione per
analogia diventa sempre più naturale per l’uomo. Bisogna dunque sopprimere
il come, il quale, il
così, il simile a. Meglio ancora, bisogna fondere direttamente l’oggetto
coll’immagine che esso
evoca, dando l’immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale.
6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi,
gli avverbi e le congiunzioni,
la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno
stile vivo, che si crea da
sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi
movimenti e indicare le loro
direzioni, s’impiegheranno i segni della matematica: +--x: = > <, e i segni
musicali.
7. Gli scrittori si sono abbandonati finora all’analogia immediata.
Hanno paragonato per
esempio l’animale all’uomo o ad un altro animale, il che equivale ancora,
press’a poco, a una
specie di fotografia. Hanno paragonato per esempio un fox-terrier a un
piccolissimo puro-sangue.
Altri, più avanzati, potrebbero paragonare quello stesso fox-terrier
trepidante, a una piccola
macchina Morse. Io lo paragono, invece, a un’acqua ribollente. V’è in ciò
una gradazione di
analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre più profondi e
solidi, quantunque
lontanissimi.
L’analogia non è altro che l’amore profondo che collega le cose
distanti, apparentemente
diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile
orchestrale, ad un tempo
policromo, polifonico e polimorfo, può abbracciare la vita della materia.
Quando, nella mia Battaglia di Tripoli, ho paragonato una trincea irta
di baionette a
un’orchestra, una mitragliatrice a una donna fatale, ho introdotto
intuitivamente una gran parte
dell’universo in un breve episodio di battaglia africana.
Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsimonia,
come diceva Voltaire.
Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La poesia deve essere un
seguito ininterrotto
d’immagini nuove, senza di che non è altro che anemia e clorosi.
Quanto più le immagini contengono rapporti vasti, tanto più a lungo
esse conservano la loro
forza di stupefazione. Bisogna — dicono — risparmiare la meraviglia del
lettore. Eh! via!
Curiamoci, piuttosto, della fatale corrosione del tempo, che distrugge non
solo il valore espressivo
di un capolavoro, ma anche la sua forza di stupefazione. Le nostre orecchie
troppe volte entusiaste
non hanno forse già distrutto Beethoven e Wagner? Bisogna dunque abolire
nella lingua ciò che
essa contiene in fatto d’immagini stereotipate, di metafore scolorite, e
cioè quasi tutto.
8. Non vi sono categorie d’immagini, nobili o grossolane, eleganti o
volgari, eccentriche o
naturali. L’intuizione che le percepisce non ha né preferenze né partiti-
presi. Lo stile analogico è
dunque padrone assoluto di tutta la materia e della sua intensa vita.
9. Per dare i movimenti successivi d’un oggetto bisogna dare la catena
delle analogie che esso
evoca, ognuna condensata, raccolta in una parola essenziale.
Ecco un esempio espressivo di una catena di analogie ancora mascherate
e appesantite dalla
sintassi tradizionale.
«Eh sì! voi siete, piccola mitragliatrice, una donna affascinante, e
sinistra, e divina, al volante di
un’invisibile centocavalli, che rugge con scoppî d’impazienza. Oh! certo,
fra poco balzerete nel
circuito della morte, verso il capitombolo fracassante o la vittoria!...
Volete che io vi faccia dei
madrigali pieni di grazia e di colore? A vostra scelta, signora... Voi
somigliate, per me, a un
tribuno proteso, la cui lingua eloquente, instancabile, colpisce al cuore
gli uditori in cerchio,
commossi... Siete in questo momento, un trapano onnipotente, che fora in
tondo il cranio troppo
duro di questa notte ostinata... Siete, anche, un laminatoio, un tornio
elettrico, e che altro? Un
gran cannello ossidrico che brucia, cesella e fonde a poco a poco le punte
metalliche delle ultime
stelle!...» (Battaglia di Tripoli.)
In certi casi bisognerà unire le immagini a due a due, come le palle
incatenate, che schiantano,
nel loro volo tutto un gruppo d’alberi.
Per avviluppare e cogliere tutto ciò che vi è di più fuggevole e di
più inafferrabile nella materia,
bisogna formare delle strette reti d’immagini o analogie, che verranno
lanciate nel mare misterioso
dei fenomeni. Salvo la forma a festoni tradizionale, questo periodo del mio
Mafarka il futurista è
un esempio di una simile fitta rete d’immagini:
«Tutta l’acre dolcezza della gioventù scomparsa gli saliva su per la
gola, come dai cortili delle
scuole salgono le grida allegre dei fanciulli verso i vecchi maestri
affacciati al parapetto delle
terrazze da cui si vedono fuggire sul mare i bastimenti...».
Ed ecco ancora tre reti d’immagini:
«Intorno al pozzo della Bumeliana, sotto gli olivi folti, tre cammelli
comodamente accovacciati
nella sabbia si gargarizzavano dalla contentezza, come vecchie grondaie di
pietra, mescolando il
ciac-ciac dei loro sputacchi ai tonfi regolari della pompa a vapore che dà
da bere alla città. Stridori
e dissonanze futuriste, nell’orchestra profonda delle trincee dai pertugi
sinuosi e dalle cantine
sonore, fra l’andirivieni delle baionette, archi di violini che la rossa
bacchetta del tramonto
infiamma di entusiasmo E il tramonto-direttore d’orchestra, che con un
gesto ampio raccoglie i
flauti sparsi degli uccelli negli alberi, e le arpe lamentevoli degli
insetti, e lo scricchiolio dei rami, e
lo stridio delle pietre. È lui che ferma a un tratto i timpani delle
gamelle e dei fucili cozzanti, per
lasciar cantare a voce spiegata sull’orchestra degli strumenti in sordina,
tutte le stelle dalle vesti
d’oro, ritte, aperte le braccia, sulla ribalta del cielo. Ed ecco una gran
dama allo spettacolo...
Vastamente scollacciato, il deserto infatti mette in mostra il suo seno
immenso dalle curve
liquefatte tutte verniciate di belletti rosei sotto le gemme crollanti
della prodiga notte». (Battaglia
di Tripoli.)
10. Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto
dell’intelligenza cauta e guardinga,
bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di
disordine.
11. Distruggere nella letteratura l’«io», cioè tutta la psicologia.
L’uomo completamente
avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una
saggezza spaventose, non
offre assolutamente più interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella
letteratura, e sostituirlo
finalmente colla materia, di cui si deve afferrare l’essenza a colpi
d’intuizione, la qual cosa non
potranno mai fare i fisici né i chimici.
Sorprendere attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi
la respirazione, la sensibilità e
gl’istinti dei metalli, delle pietre, del legno, ecc. Sostituire la
psicologia dell’uomo, ormai esaurita,
con l’ossessione lirica della materia.
Guardatevi dal prestare alla materia i sentimenti umani, ma indovinate
piuttosto i suoi
differenti impulsi direttivi, le sue forze di compressione, di dilatazione,
di coesione e di
disgregazione, le sue torme di molecole in massa o i suoi turbini di
elettroni. Non si tratta di
rendere i drammi della materia umanizzata. È la solidità di una lastra
d’acciaio, che c’interessa per
se stessa cioè l’alleanza incomprensibile e inumana delle sue molecole o
dei suoi elettroni, che si
oppongono, per esempio, alla penetrazione di un obice. Il calore di un
pezzo di ferro o di legno è
ormai più appassionante, per noi, del sorriso o delle lagrime di una donna.
Noi vogliamo dare, in letteratura, la vita del motore, nuovo animale
istintivo del quale
conosceremo l’istinto generale allorché avremo conosciuti gl’istinti delle
diverse forze che lo
compongono.
Nulla è più interessante, per un poeta futurista, che l’agitarsi della
tastiera di un pianoforte
meccanico. Il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e
si ricompone senza
intervento umano. Ci offre anche lo slancio a ritroso di un nuotatore i cui
piedi escono dal mare e
rimbalzano violentemente sul trampolino. Ci offre infine la corsa d’un uomo
a 200 chilometri
all’ora. Sono altrettanti movimenti della materia, fuor dalle leggi
dell’intelligenza e quindi di una
essenza più significativa.
Bisogna inoltre rendere il peso (facoltà di volo) e l’odore (facoltà
di sparpagliamento) degli
oggetti, cosa che si trascurò di fare, finora, in letteratura. Sforzarsi di
rendere per esempio il
paesaggio di odori che percepisce un cane. Ascoltare i motori e riprodurre
i loro discorsi.
La materia fu sempre contemplata da un io distratto, freddo, troppo
preoccupato di se stesso,
pieno di pregiudizi di saggezza e di ossessioni umane.
L’uomo tende a insudiciare della sua gioia giovane o del suo dolore
vecchio la materia, che
possiede un’ammirabile continuità di slancio verso un maggiore ardore, un
maggior movimento,
una maggiore suddivisione di se stessa. La materia non è né triste né
lieta. Essa ha per essenza il
coraggio, la volontà e la forza assoluta. Essa appartiene intera al poeta
divinatore che saprà
liberarsi dalla sintassi tradizionale, pesante, ristretta, attaccata al
suolo, senza braccia e senza ali
perché è soltanto intelligente. Solo il poeta asintattico e dalle parole
slegate potrà penetrare
l’essenza della materia e distruggere la sorda ostilità che la separa da
noi.
Il periodo latino che ci ha servito finora era un gesto pretenzioso
col quale l’intelligenza
tracotante e miope si sforzava di domare la vita multiforme e misteriosa
della materia. Il periodo
latino era dunque nato morto.
Le intuizioni profonde della vita congiunte l’una all’altra, parola
per parola, secondo il loro
nascere illogico, ci daranno le linee generali di una psicologia intuitiva
della materia. Essa si rivelò
al mio spirito dall’alto di un aeroplano. Guardando gli oggetti, da un
nuovo punto di vista, non
più di faccia o per di dietro, ma a picco, cioè di scorcio, io ho potuto
spezzare le vecchie pastoie
logiche e i fili a piombo della comprensione antica.
Voi tutti che mi avere amato e seguìto fin qui, poeti futuristi, foste
come me frenetici
costruttori d’immagini e coraggiosi esploratori di analogie. Ma le vostre
strette reti di metafore
sono disgraziatamente troppo appesantite dal piombo della logica. Io vi
consiglio di alleggerirle,
perché il vostro gesto immensificato possa lanciarle lontano, spiegate
sopra un oceano più vasto.
Noi inventeremo insieme ciò che io chiamo l’immaginazione senza fili.
Giungeremo un giorno
ad un’arte ancor più essenziale, quando oseremo sopprimere tutti i primi
termini delle nostre
analogie per non dare più altro che il seguito ininterrotto dei secondi
termini. Bisognerà, per
questo, rinunciare ad essere compresi. Esser compresi, non è necessario.
Noi ne abbiamo fatto a
meno, d’altronde, quando esprimevamo frammenti della sensibilità futurista
mediante la sintassi
tradizionale e intellettiva.
La sintassi era una specie di cifrario astratto che ha servito ai
poeti per informare le folle del
colore, della musicalità, della plastica e dell’architettura dell’universo.
La sintassi era una specie
d’interprete o di cicerone monotono. Bisogna sopprimere questo
intermediario, perché la
letteratura entri direttamente nell’universo e faccia corpo con esso.
Indiscutibilmente la mia opera si distingue nettamente da tutte le
altre per la sua spaventosa
potenza di analogia. La sua ricchezza inesauribile d’immagini uguaglia
quasi il suo disordine di
punteggiatura logica. Essa mette capo al primo manifesto futurista, sintesi
di una 100 HP lanciata
alle più folli velocità terrestri.
Perché servirsi ancora di quattro ruote esasperate che s’annoiano, dal
momento che possiamo
staccarci dal suolo? Liberazione delle parole, ali spiegate
dell’immaginazione, sintesi analogica
della terra abbracciata da un solo sguardo e raccolta tutta intera in
parole essenziali.
Ci gridano: «La vostra letteratura non sarà bella! Non avremo più la
sinfonia verbale, dagli
armoniosi dondolii, e dalle cadenze tranquillizzanti!». Ciò è bene inteso!
E che fortuna! Noi
utilizziamo, invece, tutti i suoni brutali, tutti i gridi espressivi della
vita violenta che ci circonda.
Facciamo coraggiosamente il «brutto» in letteratura, e uccidiamo dovunque
la solennità. Via! non
prendete di queste arie da grandi sacerdoti, nell’ascoltarmi! Bisogna
sputare ogni giorno
sull’Altare dell’Arte! Noi entriamo nei dominii sconfinati della libera
intuizione. Dopo il verso
libero, ecco finalmente le parole in libertà!
Non c’è, in questo, niente di assoluto né di sistematico. Il genio ha
raffiche impetuose e torrenti
melmosi. Esso impone talvolta delle lentezze analitiche ed esplicative.
Nessuno può rinnovare
improvvisamente la propria sensibilità. Le cellule morte sono commiste alle
vive. L’arte è un
bisogno di distruggersi e di sparpagliarsi, grande innaffiatoio di eroismo
che inonda il mondo. I
microbi — non lo dimenticate — sono necessari alla salute dello stomaco e
dell’intestino. Vi è
anche una specie di microbi necessaria alla vitalità dell’arte, questo
prolungamento della foresta
delle nostre vene, che si effonde, fuori dal corpo, nell’infinito dello
spazio e del tempo.
Poeti futuristi! Io vi ho insegnato a odiare le biblioteche e i musei,
per prepararvi a odiare
l’intelligenza, ridestando in voi la divina intuizione, dono caratteristico
delle razze latine. Mediante
l’intuizione, vinceremo l’ostilità apparentemente irriducibile che separa
la nostra carne umana dal
metallo dei motori.
Dopo il regno animale, ecco iniziarsi il regno meccanico. Con la
conoscenza e l’amicizia della
materia, della quale gli scienziati non possono conoscere che le reazioni
fisico-chimiche, noi
prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo
libereremo dall’idea
della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione
dell’intelligenza logica.
MILANO, 11 Maggio 1912
DIREZIONE DEL MOVIMENTO FUTURISTA:
Corso Venezia, 61 - MILANO
> [...] [scusa gli ampi cut]
> E' evidente che se le forme al congiuntivo devono essere un mondo
semanticamente
> a se', senza comunicazione con quello delle corrispondenti forme
all'indicativo,
> senza fornire un qualcosa "in piu'", ma soltanto qualcosa di "diverso"
> (prestigioso
> dici te), allora si' che si tratterebbe di nient'altro che di un gallone
> da portare piu' o meno impettiti. Ma e' nella possibilita' di esprimere
una
> sfumatura diversa, o di esprimerla in modo piu' efficace, o piu' economico
> rispetto alla forma all'indicativo, che sta la possibile (e a mio avviso
> attuale)
> ricchezza del congiuntivo. Non quindi la' dove tutti concordano nel
ritenere
> "errato" l'uso dell'indicativo, ma al contrario proprio dove si e'
affermato
> un uso parallelo delle due forme, si puo' trovare la ragion d'essere del
> congiuntivo.
E su questo ci possiamo anche trovare d'accordo; se il congiuntivo può
sostituirsi all'indicativo, allora abbiamo due registri diversi e
effettivamente l'uso del congiuntivo renderebbe altre sfumature.
In norvegese effettivamente hanno due modi di dire 'la mia vita', il primo
'mitt liv', che è più formale e coincide con le forme svedese e danese,
mentre il secondo è 'livet mitt', che deriva dai dialetti locali. Preso atto
della doppia lezione, hanno fatto che decretare accettabili entrambe le
forme, con la conseguenza che la prima si ritrova più nei libri e nei
discorsi dei politici, la seconda nel linguaggio parlato e informale. Ci
sono anche altre parti del linguaggio che hanno avuto uno sviluppo simile,
ma non ruberò altro spazio...
Tuttavia, mi lascia perplesso il rapporto costi / benefici: un metodo per
elevare il registro, a prezzo di un sistema per determinare quando esso (il
metodo) può venir usato, che quasi nessuno tra le persone di madrelingua
comprende completamente.
E rimane che nessuno, tra i meno fortunati, potrebbe accedere al livello
'alto' del registro. Quindi, rimane ancora una differenza di classe.
> E ricordo perfettamente le fitte che mi provocava sentir
> dire "e' meglio che vai..", tanto per fare un esempio. Oppure "allora ce
lo dico
> al
> Paolo" (e non mi riferisco all'articolo davanti a Paolo). Oppure sentir
salutare
> con "buongiorno" alle due del pomeriggio. E al tempo stesso ricordo gli
sguardi
> e le prese di culo quando salutavo i compagni di corso che avrei rivisto
> alle tre del pomeriggio (magari era mezzogiorno) con un "allora ci vediamo
> stasera"
> ("ah si'? che si fa? usciamo?"). Per non parlare di quando "osavo"
chiamare
> guanciale quel che loro chiamavano cuscino, scodella cio' che per loro era
> un impersonalissimo "piatto fondo", o mestolo il loro "cucchiaio di legno"
> mentre mi veniva porto quello che chiamavo (e chiamo, cazzo! ;-) )
ramaiolo.
> Ora di questi chock culturali tendono a essercene di meno, io stesso ho
Scusa, avevo già notato che eri un po' pignolo sull'italiano, e va bene, ma
dove l'hai studiato, all'Accademia della Crusca? :-)
(confido in un tuo typo per la grafia di "chock" ;-)
> Guarda che col congiuntivo (e col
> passato remoto, aridanghete) e' esattamente la stessa cosa: sono
> strumenti che servono a scopi precisi.
> Chi e' abituato a servirsene, se ne viene privato si sente come
> ti sentiresti te se ti togliessero le scarpe mentre cammini.
Metti che le scarpe siano piene di sassolini, non è neanche una brutta
sensazione. :-)
Pensa per esempio al poveraccio che, privo di mezzi, è costretto a sentirsi
un imbecille ogni volta che commette un errore che è e rimane errore di
forma, e che non porta, nella stragrande maggioranza dei casi, a un diverso
significato della frase (giustamente, come dici tu, porta invece a un
diverso registro).
> Tu hai parlato di istruzione elevata. Ma io potrei farti conoscere non una
ma
> decine di persone di istruzione minima e di estrazione sociale cosiddetta
> "umile"
> (che immagino dovrebbe essere il contrario di "appartenente all'alta
societa'"),
> tanto per essere chiari: braccianti agricoli, scalpellini del selciato,
manovali
> ...,
> e farteli sentir parlare un italiano magari segnato da certi termini
> vernacolari,
> con una pronuncia magari fortemente "riconoscibile", ma strutturalmente
> corretto,
> con un impiego assolutamente perfetto del congiuntivo, del passato remoto,
della
> consecutio e cosi' via. E impiegare anche termini che un'altra persona,
> semplicemente abituata a sentire un altro dialetto in bocca a persone che
fanno
> quei lavori, potrebbe benissimo prendere come "letterari" (e' successo).
Certo, il congiuntivo non è l'unica cosa che indica una persona 'istruita';
c'è anche tutto il resto della grammatica e le varie cavalline storne; e
certamente il congiuntivo non se lo sono inventato a tavolino, qualcuno lo
deve pur aver usato. Su questo nessuno può contestare.
Ciao,
Sulla 'nascita' delle lingue non ci metterei la mano sul fuoco che sia stata
la 'coscienza comune di milioni', non foss'altro che non mi è chiaro come
milioni di persone si dovrebbero mettere d'accordo. Quando le lingue sono
nate, un milione di persone era forse la popolazione mondiale, d'altra
parte.
Poi, le lingue si evolvono, con molti meccanismi di cui tu sei sicuramente
al corrente, ma anche con il processo di imitazione dei più celebri, e
quindi imitati, tra coloro che parlano la lingua. Se Cicerone avesse fatto
uno strafalcione di latino, si sarebbe detto che era una licenza poetica,
non un errore; e ci sarebbe allora stato, nel medioevo, qualcuno pronto a
riprenderlo, e a decidere che si dovesse interpretare come un caso
particolare del latino corretto.
> i quali non fanno progetti a tavolino
> ("mettiamoci pure il congiuntivo, così freghiamo i poveracci") ma
Forse non a tavolino, ma inconsciamente si nutre un senso di superiorità
verso chi non parla la lingua correttamente ("Figliolo, devi imparare il
congiuntivo, altrimenti sembrerai un povero pezzente ignorante").
> vanno inconsapevolmente a ricercare nella loro memoria storica (la
> lingua che sta tramontando) le forme di cui sentono il bisogno per
> esprimere quello che hanno in testa (la lingua che sta nascendo). La
> lingua italiana è stata inventata da gente che usava il congiuntivo
> senza nemmeno sapere che si chiamava congiuntivo - per la stessa
> ragione per cui i greci hanno usato l'ottativo aoristo medio
> asigmatico per molti secoli prima di sapere che si chiamava ottativo
> aoristo medio asigmatico, e i latini hanno usato i verbi deponenti per
> secoli prima di riflettere sul fatto che venivano coniugati come i
> verbi passivi pur avendo significato attivo. Più in generale, quelli
> che hanno inventato il greco, il latino, l'italiano e tutte le altre
> lingue del mondo, non sapevano neanche che esistesse qualcosa che si
> chiama grammatica, e se usavano il congiuntivo ecc. è semplicemente
> perché gli veniva bene così. Poi sono arrivati i grammatici, a dire
> che il congiuntivo si deve usare per forza, poi ancora quelli di Icli,
> a dire che il congiuntivo si deve abolire.
Grazie per avermi promosso a membro onorario di icli, ma io di solito posto
da sci. :-)
Ciao,
Provo a chiarire meglio quello che intendo.
La forma che ti piace, e che uso spesso anch'io, va benissimo. In
quella forma l'infinitiva è certamente il soggetto di 'valere', anche
se messo alla fine della frase:
vale = predicato
la pena = c.ogg.
'fare qualcosa' = sogg.
In questo caso sottintendo un complemento di specificazione: la pena
di che cosa? La pena di quel qualcosa, intrinseca al fare quel
qualcosa, ovvero 'la fatica stessa di farlo'.
Quindi: fare qualcosa vale la pena (di fare quel qualcosa).
La forma che ho usato io, invece, sottintende il soggetto ('fare
qualcosa o 'qualcosa'), ed esplicita il complemento di
specificazione:
vale = predicato
la pena = c.ogg.
'di fare qualcosa' = compl.spec.
Quindi: (qualcosa - o fare qualcosa) vale la pena di fare qualcosa.
Come già chiarito, 'di fare qualcosa' non è soggetto. Forse ora
questa forma ti sembrerà meno stonata. :)
A parte gli esempi che ti ho già portato, tratti dal De Mauro,
eccone un altro illustre:
'Eva' (Verga): ...non valeva proprio la pena di venir qui...
Per quanto riguarda la diffusione di 'vale la pena fare' e 'vale la
pena di fare', mi pare siano altrettanto comuni, sul web.
Ciò non toglie che ciascuno di noi possa trovarsi a proprio agio più
con l'una che con l'altra, e comportarsi di conseguenza. :)
--
Bye.
Lem
Su it.news.votazioni è in corso la CFV per it.comp.software.p2p.
L'articolo ha ID: <MK.it.comp.so...@news.nic.it>.
Chi fosse interessato al gruppo e volesse votarlo, legga bene le
istruzioni presenti nell'articolo linkato. Se avesse bisogno di
assistenza, sono disponibile in privato.
Scusa se la mia risposta al tuo commento sul tedesco era un po' 'agitata',
ma effettivamente mi ha impressionato leggere un commento del genere proprio
sul tedesco.
Sul greco antico, be', non ho la minima idea di come sia la sua grammatica,
e mi permetto boriosamente, e di ciò scusami, di dire che non mi sento un
gran buco dentro. ;-)
Se comunque discutiamo della lingua con la maggior eleganza grammaticale,
non posso fare a meno di portare come esempio l'esperanto, anche se altre
lingue pianificate come il Volapük e il Loglan / Lojban hanno ciascuna il
loro fascino, sebbene manchino della schietta semplicità dell'esperanto.
Ammetto che stavo pensando all'ottativo ("God save the queen"). Comunque,
non vengono definite nuove desinenze né radici, e la forma coincide con il
past simple. 'If I were you' è al limite di un'espressione fissa, ma qui ci
avventuriamo in un campo minato.
> >Ma sono pronto a ricredermi se mi dimostri che il congiuntivo risulta
> >indispensabile a qualcosa. :-)
>
> Nulla è veramente indispensabile in una lingua, ma io penso che il
> pensiero "derivi" dal linguaggio e non viceversa (in sintesi noi non
> traduciamo i pensieri in frasi, ma impariamo a pensare attraverso il
> linguaggio, anche se so che intuitivamente sembra vero il contrario),
> e quindi non sempre una semplificazione rappresenta un miglioramento.
Non credo, con questo ragionamento arriveresti all'assurdo che nessuno ha
mai potuto iniziare a pensare, visto che all'inizio non c'erano lingue.
La lingua è un'invenzione dell'uomo, e pure una parecchio complicata.
Modificarla e migliorarla nel corso dei millenni non è stata un'operazione
semplice. E per avere il linguaggio, uno deve aver prima il concetto da
esprimere, altrimenti come fa a definire il linguaggio?
Ciao,
> Se comunque discutiamo della lingua con la maggior eleganza grammaticale,
> non posso fare a meno di portare come esempio l'esperanto, anche se altre
> lingue pianificate come il Volapük e il Loglan / Lojban hanno ciascuna il
> loro fascino, sebbene manchino della schietta semplicità dell'esperanto.
Ahimè: non eri tu che sottolineavi che il congiuntivo, essendo forma
prevalentemente usata dalle "classi colte"? Incollo quanto scritto da te:
> A questo punto, mi rimane in piedi un'ipotesi: che il congiuntivo abbia
> la stessa funzione degli ideogrammi kanji in giapponese, perfettamente
> inutili ma 'prestigiosi', segno che chi li sa usare può permettersi di
> studiare cose di fatto inutili, tanto per perdere tempo, e per poi
> mostrare quanto è degno appartenente dell'alta società: i poveri,
> infatti, non possono certo ambire a un'istruzione del genere.
>
> Mi sembra quindi che il congiuntivo sia una espressione di una lingua
> classista, nel senso peggiore del termine.
Riletto quanto sopra, non puoi portarmi come esempio di una "lingua
elegante" una lingua che non esiste e che è stata studiata a tavolino da
intellettuali e tecnici.
Questa è lingua classista. Un contadino non parlerà mai l'Esperanto; chi ha
tempo per studiarlo e una buona dose, forse, di affettazione, studia
l'Esperanto, alla faccia del classismo. Non credi?
P.
Ma che dici? Cosa significa "tracce"? Il punto e' che un
modo di esprimere il congiuntivo in inglese e nelle lingue
scandinave comunque C'E'. Altrimenti, seguendo questo tuo
modo di "ragionare", si puo' dire che anche in italiano
del congiuntivo sono restate solo tracce - perche' si fa
solo cambiando una "o" in "i" (io mangio, che io mangi...).
> Eppure non mi sembra che l'espressività delle lingue ne soffra.
Non ne soffre, perche' il congiuntivo c'e'.
> A questo punto, mi rimane in piedi un'ipotesi: che il congiuntivo abbia la
> stessa funzione degli ideogrammi kanji in giapponese, perfettamente inutili
> ma 'prestigiosi', segno che chi li sa usare può permettersi di studiare cose
> di fatto inutili, tanto per perdere tempo, e per poi mostrare quanto è degno
> appartenente dell'alta società: i poveri, infatti, non possono certo ambire
> a un'istruzione del genere.
>
> Mi sembra quindi che il congiuntivo sia una espressione di una lingua
> classista, nel senso peggiore del termine.
A questa massa di stronzate ha risposto bene Filippo...
> Ma sono pronto a ricredermi se mi dimostri che il congiuntivo risulta
> indispensabile a qualcosa. :-)
Ma nulla e' indispensabile: nemmeno l'intero linguaggio
e' indispensabile - non hai visto come se la cavano bene
le capre? Bee-ee-ee!, Bee-ee-ee! E di che altro hanno
bisogno, dopotutto? No?
Ciao, Carlo
Credevo di essere incluso, quando hai scritto "noi". :-)
OK, dipende solo da noi altri - non da te.
> > > IMO, l'italiano senza congiuntivi sarebbe brutto e piatto. IMO :)
>
> > Sarebbe anche piu' brutto e piu' piatto mettendoceli
> > dappertutto - ovvero ogni volta che appare un "che" -
>
> Non ricordo d'aver mai detto o avvalorato nulla di simile. Anzi.
> Ho sempre sostenuto -e non ho ancora cambiato parere- che nel dubbio
> sarà sempre meglio ripiegare sull'indicativo.
Scusa, ti avevo confuso con un'altra... Lauretta, Mariuccia,
ma sceglietevi dei nomi normali, cazzo!
> > come facevi tu prima.
>
> Come facevo io prima?! Prima quando?
Lascia perdere, sono solo un po' confuso.
Ciao, Carlo
Chiacchierando.
Ciao, Carlo
Avete "ragione" tutti e due: uovo, gallina...
Ma, tipicamente, viene dimenticato completamente il
punto fatto da "frank", e lui ha fatto benissimo a
sottolinearlo - altrimenti ci toccherebbe sentire e
risentire le tue stupide banalita'.
Ciao, Carlo
>Quando le lingue sono
>nate, un milione di persone era forse la popolazione mondiale, d'altra
>parte.
Non sto parlando delle lingue in generale, sto parlando della lingua
italiana. Va be', non è nata la lingua italiana. Sono nati i dialetti.
Molti dei quali - non voglio dire tutti, non li conosco - hanno
sicuramente sempre avuto il congiuntivo. Il piemontese ce l'ha. Il
toscano ce l'ha. Penso anche molti altri.
Tu dici: in ogni regione (in ogni vallata, in ogni quartiere) c'è
stata una combriccola di furbacchioni che si sono messi d'accordo
dicendo:"dài, inventiamo il congiuntivo, così vedi che figuracce gli
facciamo fare, a questi zoticoni!".
Può darsi.
>Ammetto che stavo pensando all'ottativo ("God save the queen").
Ma neppure in questo caso c'è coincidenza con l'infinito. A meno che
tu non voglia dire che coincide con l'infinito anche l'indicativo
presente (I save, you save...).
>Comunque,
>non vengono definite nuove desinenze né radici, e la forma coincide
>con il
>past simple. 'If I were you' è al limite di un'espressione fissa, ma
>qui ci avventuriamo in un campo minato.
La lingua è *sempre* un campo minato. :o))
[...]
>> Nulla è veramente indispensabile in una lingua, ma io penso che il
>> pensiero "derivi" dal linguaggio e non viceversa
[...]
>Non credo, con questo ragionamento arriveresti all'assurdo che
>nessuno ha
>mai potuto iniziare a pensare, visto che all'inizio non c'erano
>lingue.
So benissimo che il mio ragionamento è controintuitivo, ma neppure la
tua posizione è esente da problemi.
Per esporre il mio punto di vista avrei bisogno di tempo e di una
forza di concentrazione che al momento non ho. Mi limiterò a sollevare
alcuni punti controversi (anche banali, se vuoi, ma più significativi
di quanto non appaia a prima vista).
1. Immagina di nascere in un'isola deserta, e di essere allevato dalla
lupa capitolina (o dalle scimmie, se preferisci Tarzan). Quale sarebbe
la qualità dei tuoi pensieri? Non si può certo dire che tu avresti gli
stessi pensieri (e soprattutto concetti) che hai adesso, e che ti
mancherebbe solo lo strumento per esprimerli.
2. Suppongo che tu reputi il pensiero una dote più o meno universale,
comune a tutti gli uomini (escludiamo ovviamente le gravi patologie).
L'esempio più banale che mi viene in mente è questo: generalmente gli
anglofoni antepongono l'aggettivo al sostantivo, noi italiani facciamo
il contrario. Cosa vuol dire questo? Forse che gli inglesi pensano
cavallo+bianco, poi fanno un attimo di pausa, invertono i due termini
e poi dicono "white horse"? Ovviamente scegliendo lingue extraeuropee
si possono fare esempi molto più raffinati. A me pare ovvio che la
struttura del pensiero *segue* la struttura del linguaggio appreso.
Ricordo che alcuni anni fa l'allora ministro della cultura francese,
Jack Lang, affermò che la lingua francese era un'ottima lingua (o
forse addirittura perfetta), poiché segue esattamente la struttura del
pensiero. La trovai un'uscita sublimamente sciocca. Non ti sembra una
castroneria?
3. Perché alcuni termini stranieri sono intraducibili? Sette anni
passati in paesi anglofoni mi hanno convinto che un inglese *non ha*
il concetto di "simpatico" (sì lo so, mi piacciono gli esempi banali;
ma se ci pensi puoi trovarne di più sofisticati).
Cosa vuol dire "logos"? I miei studenti di filosofia me lo chiedono,
ma io non sono mai soddisfatto delle mie spiegazioni, e mi rendo conto
che in fondo in fondo neppure io riesco a cogliere in tutta la sua
ricchezza il senso di questo termine basilare per i miei studi.
Siamo sempre al punto di partenza: manca il termine, manca il
concetto.
>[...] E per avere il linguaggio, uno deve aver prima il concetto da
>esprimere, altrimenti come fa a definire il linguaggio?
Giustamente tu mi chiedi: come può nascere il termine, se non c'è
prima un concetto ad esso sotteso?
Il problema esiste, e non voglio nascondermi dietro a un dito.
E' vero che c'è un problema uovo-gallina, come dice Carlo Izzo con la
sua solita verve aggressiva.
Tuttavia, se si esamina il problema a fondo (ma ora non ho proprio la
forza per farlo), si vedrà che immaginare il linguaggio come una serie
di "etichette" da applicare ai nostri concetti mentali porta a delle
contraddizioni insormontabili: il linguaggio non potrebbe mai essere
appreso in questo modo. Il linguaggio si apprende nel suo insieme,
cogliendo le sue interconnessioni.
Per carità, non ti ho propinato una teoria che sia farina del mio
sacco: è solo dopo aver sputato sangue per quattro mesi sulle
"Ricerche filosofiche" di Wittgenstein che mi sono convinto che la
teoria tradizionale (che tra l'altro sembrerebbe dettata dal buon
senso) non poteva reggere.
Molti problemi rimangono comunque insoluti, ma del resto il linguaggio
(e su questo pare siamo d'accordo) è davvero uno dei grandi misteri
che riguardano l'uomo.
--
Ciao
Frank
Urca!
Carlo, vedo che col tempo non sei migliorato. :o))
Due anni fa ti chiedevo di far da mediatore con G (giovanni giordano,
ricordi?), e allora, a meno che si parlasse delle Nubi di Oort, avevi
ancora qualche sprazzo di cortesia. ;o)))
---
Passatela bene
Frank
Federico Zenith wrote:
>
> "frank ruscalla" <rusc...@iol.itZZZ> skrev i melding
> news:FQ2s7.42992$P04.3...@news2.tin.it...
> >
> > Nulla è veramente indispensabile in una lingua, ma io penso che il
> > pensiero "derivi" dal linguaggio e non viceversa (in sintesi noi non
> > traduciamo i pensieri in frasi, ma impariamo a pensare attraverso il
> > linguaggio, anche se so che intuitivamente sembra vero il contrario),
> > e quindi non sempre una semplificazione rappresenta un miglioramento.
>
> Non credo, con questo ragionamento arriveresti all'assurdo che nessuno ha
> mai potuto iniziare a pensare, visto che all'inizio non c'erano lingue.
Si tratta di fattori che si sono influenzati reciprocamente: l'uomo ha
inventato il linguaggio perchè aveva qualche cosa da comunicare, e poi
grazie al linguaggio ha sviluppato il pensiero, sempre più astratto, la
cui esistenza sarebbe impossibile senza linguaggio, come ha detto Frenk.
Aggiungerei lo sviluppo della sensibilità della capacità di movimento
della mano e quello della corteccia cerebrale.
Uso della mano, corteccia cerebrale e linguaggio sono i tre fattori
principali che, ripeto, influenzandosi reciprocamente, hanno determinato
l'evoluzione della specie umana.
> E per avere il linguaggio, uno deve aver prima il concetto da
> esprimere, altrimenti come fa a definire il linguaggio?
Non credo che un qualche ominide ad un certo punto abbia pensato:
sediamoci intorno al fuoco e inventiamo un linguaggio. All'inizio si
sarà trattato di indicare qualche oggetto (magari facendo un verso
particolare) poi qualche azione semplice e così via.
Per avere un "concetto" bisogna già avere un linguaggio.
> Ciao,
> -Federico
Ciao
Karla
>
*HM*
Come esperantista convinto a questo punto dovrei partire con una predicozzo
collerico.
Cerco di trattenermi, chiamate la neuro se sclero troppo.
Andiamo per punti su ciò su cui siamo in disaccordo:
1- l'esperanto non esiste (AAAAAGGGHHH!)
al momento ci sono circa 2 milioni di persone al mondo che parlano
esperanto. Ci sono numerose stime che indicano che questo numero è vicino
alla realtà, ma ovviamente un censo non è mai stato eseguito. Gruppi
esperantisti si trovano un po' dappertutto, con concentrazione leggermente
più elevata in Europa orientale ed in Giappone.
Un aneddoto: si racconta che Umberto Eco, prima di essere un sostenitore
dell'esperanto, usasse come argomentazione contro l'esperanto che "non è
possibile far l'amore in esperanto". Secondo la storia, ricevette una
lettera da una ragazza, che alquanto imbarazzata, fece capire che... avete
capito.
Mi permetto di consigliarti di dare un'occhiata a:
http://www.esperanto.net/veb/faq.html
È una FAQ che dovrebbe chiarirti i dubbi riguardo all'esperanto.
2- L'esperanto è studiato a tavolino da tecnici.
La storia dell'esperanto è stata piuttosto convulsa ai suoi inizi.
L'oculista Lazar Zamenhof, ebreo e polacco, e quindi un po' spaesato nel
paese in cui si era trovato a vivere, la russia zarista, aveva deciso che
l'unico modo per evitare i conflitti tra le varie etnie che popolavano la
sua zona era fornir loro una lingua comune, credendo che la maggior parte
degli odii fosse dovuta all'incomprensione reciproca.
Inizialmente pensò al greco o latino antico, dopo poche ore che ebbe
ricevuto il privilegio di accedere al loro insegnamento decise che era
meglio fare una nuova lingua, che fosse facile per tutti a impararsi. Dopo
di lui, la lingua fu considerata 'proprietà di chi la parla' e alcune
modifiche furono effettivamente apportate (oggi si usa di più il caso
accusativo, ad esempio); ci fu anche uno scisma piuttosto drammatico con
l'ala 'europeo-occidentale' del movimento che diede origine a una nuova
lingua, l'Ido (che però non ebbe mai molto successo).
Se avessi curiosità di leggerti tutta la storia, c'è una storia delle lingue
pianificate dal Volapük al Klingon su:
http://www.best.com/~donh/Esperanto/EBook/chap03.html
3- Un contadino non parlerà mai esperanto.
Se per questo non parlerà mai inglese. Di certo per imparare l'esperanto, è
noto che ci vogliono da 5 a 10 volte meno il tempo necessario ad imparare
un'altra lingua etnica; Tolstoij lo imparò in un fine-settimana (la
grammatica e il vocabolario di base, non proprio tutto, si intende).
Il tempo per studiare l'esperanto è non solo poco, ma ci sono ricerche che
indicano che è ben speso: pare sia più utile studiare l'esperanto per 6 mesi
e una lingua straniera per 18, che solo la lingua straniera per 2 anni;
sembra che la regolarità dell'esperanto favorisca una maggiore comprensione
dei concetti grammaticali, che poi vengono ri-applicati alle altre lingue.
I dati che avevo visto io si riferivano ad americani che volevano imparare
francese.
Più nel merito dell'origine del post:
Stavamo discutendo della lingua più semplice, dal punto di vista della
regolarità grammaticale (Vedi post di Maurizio, che indicava il tedesco).
Io, che ho questo agosto ho fatto 3 settimane di tedesco a 7 ore il giorno
ad Heidelberg, non mi picco (non ancora ;-) di saperlo parlare; ma ho
un'idea di come funziona, ed è tutto fuorché regolare. Quindi mi è cascata
un po' la mascella. Maurizio ha fatto allora l'esempio del greco antico, ed
io, non avendolo studiato, non ho gli strumenti per giudicare la veridicità
dell'affermazione. Quindi, visto che si parlava di regolarità grammatica, ho
ritenuto opportuno citare le lingue pianificate.
Ho poi soggiunto, <polemica>da bravo ignorantone qual sono che non sa nulla
di cavalline storne,</polemica> che la semplicità dell'esperanto a me sembra
un ottimo esempio di eleganza.
Se poi il tuo concetto di eleganza non è nelle semplicità delle forme ma
negli arabeschi grammaticali o in chissà cos'altro, la tua opinione ha certo
dignità di cittadinanza come tutte le altre ed è bene che sia così; ti dirò
di più, la rispetto, e dico sul serio.
Caro Roger,
Perdonami se rispondo direttamente io.
Non avendoti incontrato prima non conosco di te nulla; non ti suoni pertanto
offensiva la mia domanda riguardo a quanto tedesco ti è capitato di
studiare.
Come ho già scritto in un altro post, ho passato quest'estate 3 settimane di
corso intensivo in Germania; e, anche se, ripeto, non posso dire di parlarlo
fluentemente, ho una vaga idea di come la lingua si comporti.
Certo, tra regole ed eccezioni è un po' un balletto di convenzioni: basta
prendere l'eccezione e chiamarla 'regola per certi casi', ed ecco che
abbiamo due regole integrate (leggi: una regola complicata) e nessuna
eccezione.
Tuttavia, come esempio, ti pregherei - nel caso tu avessi studiato tedesco -
di cercare di ricordare quali siano le regole per la formazione del plurale.
Se non ti ricordi o non hai studiato tedesco, te le dico io: non ci sono.
Tutti i plurali vanno imparati a memoria, e sono tutti, fondamentalmente, un
cumulo soverchiante di 'eccezioni'.
Certo parlare di eccezioni senza regole è un po' anomalo, ma credo che tu
abbia capito ciò che intendo, vero?
(a scanso di equivoci: ci sono delle parole prevedibili, come quelle che
finiscono in -ung [femminili e con plurale in -en] o quelle straniere
[plurale in -s], ma non è il caso generale)
(se qualcuno mi vuole svergognare trovandomi una regola, per quanto
complicata, che sia generale, a me va benissimo, eh!)
> "Mariuccia Ruta":
> > > > [...]
> > > > "Ben vengono le discussioni"
> > > > "Ben vengano le discussioni".
> > > > [...]
> > E quale sarebbe la differenza di significato?
>
> Be', mi pare che il primo sia la descrizione di un evento e il secondo un
> comando o un'augurio.
Differenza che si puň cogliere solo grazie al congiuntivo. O no?
> So per certo di un caso di una studente di scambio che ha fatto un corso di
> lingua _solo_ sul congiuntivo.
> Il che č interessante, visto che ora lei azzecca tutti i congiuntivi mentre
> la maggior parte degli italiani no;
Vuoi vedere che fra un po' gli stranieri (studiosi e diligenti)
conosceranno l'italiano meglio degli italiani stessi?
> Ciao,
> -Federico
--
Ciao,
MariucciaŽ
> Credevo di essere incluso, quando hai scritto "noi". :-)
>
> OK, dipende solo da noi altri - non da te.
Ma io non demordo e continuerò a "remar contro" :))
> > Non ricordo d'aver mai detto o avvalorato nulla di simile. Anzi.
> > Ho sempre sostenuto -e non ho ancora cambiato parere- che nel dubbio
> > sarà sempre meglio ripiegare sull'indicativo.
>
> Scusa, ti avevo confuso con un'altra... Lauretta, Mariuccia,
> ma sceglietevi dei nomi normali, cazzo!
A causa della mia nonna paterna, il mio è normale da quando son nata.
>
> Ciao, Carlo
--
Ciao,
Mariuccia®
> Caro Roger,
> Perdonami se rispondo direttamente io.
> Non avendoti incontrato prima non conosco di te nulla; non ti suoni
pertanto
> offensiva la mia domanda riguardo a quanto tedesco ti è capitato di
> studiare.
La tua domanda non mi suona offensiva, ma caschi male.
Io, il tedesco, lo parlo e lo scrivo correntemente.
> Come ho già scritto in un altro post, ho passato quest'estate 3 settimane
di
> corso intensivo in Germania; e, anche se, ripeto, non posso dire di
parlarlo
> fluentemente, ho una vaga idea di come la lingua si comporti.
Accipicchia!
3 settimane di corso intensivo!!
Ma non mi dire!!!
> Tuttavia, come esempio, ti pregherei - nel caso tu avessi studiato
tedesco -
> di cercare di ricordare quali siano le regole per la formazione del
plurale.
> Se non ti ricordi o non hai studiato tedesco, te le dico io: non ci sono.
> Tutti i plurali vanno imparati a memoria, e sono tutti, fondamentalmente,
un
> cumulo soverchiante di 'eccezioni'.
> Certo parlare di eccezioni senza regole è un po' anomalo, ma credo che tu
> abbia capito ciò che intendo, vero?
Ti ripeto: sei cascato male.
> (a scanso di equivoci: ci sono delle parole prevedibili, come quelle che
> finiscono in -ung [femminili e con plurale in -en]
Per combinazione, sul genere femminile delle parole con desinenza -ung
esiste un'eccezione, che tu conoscerai certamente, vero?
E tutto quello che hai saputo trovare per confutare la mia tesi che in
tedesco esistono poche eccezioni alle moltissime regole è stata la
formazione del plurale dove, come giustamente dici, non esistono regole?
> Ciao,
> -Federico
Infatti, Frank.
Un'accreditata teoria fa proprio riferimento all'ottica 'differenziale',
per così dire. La varietà del linguaggio moltiplica le differenze
possibili, e nelle differenze fra parole starebbero i concetti stessi.
Su ciò i miei ricordi sono piuttosto vaghi, tempo permettendo ripescherò
i testi di riferimento. Per ora invento un po' (oh mamma!).
Se uso la parola /albero per indicare tutte le piante grosse, di
qualsiasi tipo, trascurerò le *pur* *visibili* differenze. Se introduco
anche la parola /arbusto, le differenze diverranno manifeste e rilevanti
per tutti, ed anche /albero avrà un diverso, più specifico significato.
Parole e concetti procedono assieme: quando si crea una nuova parola
(o quando se ne leva una) si modifica la portata del significato delle
parole 'contigue', se mi faccio intendere. Si crea spazio per un concetto
nuovo, che si assesterà nel corso del tempo; o, se invece riassumiamo due
concetti con una sola parola (cancellando l'altra dalla mente), si avrà
alla fine in concetto unico. Ci sono situazioni, nella storia, che più o
meno repentinamente hanno portato all'attenzione dei parlanti differenze
che prima non erano percepite, pur essendo percepibili o teoricamente
intelligibili. Per esse non c'erano parole, e sono state create.
Il fatto è che, una volta create le nuove parole, le differenze da
esse realizzate restano patrimonio consolidato, anche in assenza di
quella particolare situazione d'evidenza, che ne ha favorito la
visibilità.
Se mi permetti, un parallelo colla geometria razionale può essere
d'aiuto. Partendo da pochissimi elementi dati (concetti primitivi e
postulati), si costruisce un castello di teoremi e di definizioni
che sono solo, è vero, diverse rielaborazioni di quanto si aveva in
partenza, ma nondimeno sono nuovi nella loro capacità informativa
sintetica. Se uno non studia la geometria euclidea, può comunque
ricostruirla tutta da solo, o costruirne un'altra che gli piaccia di
più. E' un po' improbabile che ne abbia la capacità, però, e gli ci
vorrebbe comunque molto tempo. Se invece sale sulle spalle di chi l'ha
preceduto, sarà tanto di guadagnato.
Imparare un teorema è una cosa, scoprirlo è un'altra.
Lo stesso è per le parole. Servono, altrimenti non sarebbero nate.
Se ce ne sbarazzassimo perché ora non sembrano utili, dovremmo
ricrearle da zero quando servissero ancora (sempre che ce ne
accorgessimo). Certo: il nome d'una specie estinta, forse, non ha più
alcuna ragion d'essere. Ma qui si parla addirittura di strutture
sintattiche, non di semplici parole. La capacità di esprimere ed
elaborare concetti deriva dalla capacità di metterne insieme altri
più semplici, in maniera nuova ma *sintetica*: il tempo e le
connessioni sinaptiche sono risorse scarse - sì, so che ne sono
l'esempio vivente ;) - e abbiamo bisogno di scorciatoie.
Con dieci cifre (ma ne basterebbe una) possiamo scrivere infiniti
numeri naturali:
1) avere più cifre (=parole) consente maggiore sintesi: scrivo 7 e
non 111 (in base 2) o ******* (in base 1);
2) avere più operazioni (strutture sintattiche) consente maggiore
sintesi: 4^4 è meglio di 4x4x4x4. E' comodo avere quel ^;
3) la sintesi, a volte, è l'unico modo per esprimere qualcosa: se
voglio scrivere 999^264^399^911^777, o lo scrivo così - o in modo
analogo - o non lo scrivo proprio, perché è un numero di una
quantità assurda di cifre. Non solo: senza questa notazione
sintetica, non riuscirei neppure ad immaginare un numero così,
tantomeno a *distinguerlo* da 123^222^443^555^888: entrambi
ricadrebbero nell'esageratamente grande, e si perderebbe la
differenza;
4) sì: c'è chi non sa far di conto, e vive tuttavia. Che non sia una
buona ragione per abolire la tavola pitagorica, mi pare di tutta
evidenza. ;)
Mi fermo qui. Anche perché starei per concludere che, se avessimo
sette mani con sette dita snodate ciascuna, saremmo tutti molto più
intelligenti, il calcolo matriciale verrebbe affrontato in prima
elementare ed avremmo già capito come passare le vacanze estive dalle
parti di Proxima Centauri. Ma forse saremmo già estinti per lo stress:
tutti quei guanti spaiati! - o forse dis-SETT-ati, mi mancano parola e
concetto. ;)))
--
Bye.
Lem
Su it.news.votazioni è in corso la CFV per it.comp.software.p2p.
L'articolo ha ID: <MK.it.comp.so...@news.nic.it>.
Chi fosse interessato al gruppo e volesse votarlo, legga bene le
istruzioni. Se avesse bisogno di assistenza, sono disponibile in
privato.
> "Mariuccia Ruta":
> > Io userei il congiuntivo imperfetto: in logica "consecutio" col
> > passato espresso nella principale:
> > "... si č limitata a ... che la suoneria fosse ..."
> > "... si limita a ... che la suoneria sia ...".
>
> Anche qui discordo:
E dove sta il problema? Io ho detto ciň che direi io. LOL Scusa il
gioco di parole :))
> quella dell'assistenza telefonica č una *verifica*,
> non un *controllo".
Boh. Io l'ho interpretata come un invito a verificare nel senso di
controllare se tutto era a posto. O che tutto fosse a posto :))
Sul contesto e sulla logica non mi ero soffermata per niente.
>
> Mi spiego. Io *verifico* qualcosa che *mi aspetto* che sia a posto,
> mentre *controllo* SE qualcosa č o non č a posto.
>
> Quindi, bene il passato per la consecutio, ma non il congiuntivo
> (č un po' come il verbo "credere"...)
Ti sei spiegato e ti ringrazio, ma io penso che ciascuno ha le proprie
convinzioni e il proprio modo di interpretare. Voglio dire che tu
potrai anche aver ragione, ma non mi sembra che io abbia torto. O
forse si? Mah!
Mi sta bene anche la spiegazione che ha dato Lem. E anche la tua mi
sta bene :))
> --
> Er Roscio.
--
Ciao,
MariucciaŽche esce di casa alle sei del mattino
e quando non esce ci pensano telefono
e posta elettronica a farla lavorare :))
> "Mariuccia Ruta":
> > > Nel caso in cui a una festa Giovanni dicesse: "Sia festa!"
> > Nel caso in cui tale frase venisse riportata ad ignari festaioli...
>
> Nel caso che?
Mi avevi insinuato il dubbio, Ale.
Perň, pur avendo io ripetuto alla lettera (a pappagallo? :)) quella
locuzione, adesso che mi ci fai riflettere, non ci trovo nulla di
errato. A me sembra corretta. Boh! :))
> Ciao
> Ale
>
> --
> Namarië Valinor
> --
> Ciao,
> MariucciaŽche [...]
Mi scuso per la firma impropria lasciata distrattamente :(
--
Ciao,
MariucciaŽ
> "Mariuccia Ruta":
> > Io userei il congiuntivo imperfetto: in logica "consecutio" col
> > passato espresso nella principale:
> > "... si è limitata a ... che la suoneria fosse ..."
> > "... si limita a ... che la suoneria sia ...".
>
> Anche qui discordo:
E dove sta il problema? Io ho detto ciò che direi io. LOL Scusa il
gioco di parole :))
> quella dell'assistenza telefonica è una *verifica*,
> non un *controllo".
Boh. Io l'ho interpretata come un invito a verificare nel senso di
controllare se tutto era a posto. O che tutto fosse a posto :))
Sul contesto e sulla logica non mi ero soffermata per niente.
>
> Mi spiego. Io *verifico* qualcosa che *mi aspetto* che sia a posto,
> mentre *controllo* SE qualcosa è o non è a posto.
>
> Quindi, bene il passato per la consecutio, ma non il congiuntivo
> (è un po' come il verbo "credere"...)
Ti sei spiegato e ti ringrazio, ma io penso che ciascuno ha le proprie
convinzioni e il proprio modo di interpretare. Voglio dire che tu
potrai anche aver ragione, ma non mi sembra che io abbia torto. O
forse si? Mah!
Mi sta bene anche la spiegazione che ha dato Lem. E anche la tua mi
sta bene :))
> --
> Er Roscio.
--
Ciao,
Mariuccia®
> "Mariuccia Ruta":
> > > Nel caso in cui a una festa Giovanni dicesse: "Sia festa!"
> > Nel caso in cui tale frase venisse riportata ad ignari festaioli...
>
> Nel caso che?
Mi avevi insinuato il dubbio, Ale.
Però, pur avendo io ripetuto alla lettera (a pappagallo? :)) quella
locuzione, adesso che mi ci fai riflettere, non ci trovo nulla di
errato. A me sembra corretta. Boh! :))
> Ciao
> Ale
>
> --
> Namarië Valinor
--
Ciao,
Mariuccia®
Sì, era ovviamente una ripetizione di quanto era già stato scritto dal tuo
interlocutore, quindi retoricamente corretta. E non è, secondo me, sbagliata
la forma "in cui". Solo, a mio avviso, è stilisticamente, forse, meno
elegante, con la ripetizione della preposizione. Ma forse suona strana solo
al mio orecchio; è un po' come altre forme, come "nella misura in cui", alla
quale preferisco "nella misura che", o "a seconda di", alla quale preferisco
"secondo", o "a seconda che", alla quale preferisco "secondo che".
Questioni di lana caprina, probabilmente. :)
> Ammetto che stavo pensando all'ottativo ("God save the queen"). Comunque,
SHAVE :-)
> Ricordo che d'Annunzio chiamava Marinetti "il cretino fosforescente".
> Per chi non avesse un navigatore sotto mano, ecco il testo completo:
> Filippo Tommaso Marinetti
> DIREZIONE DEL MOVIMENTO FUTURISTA:
> Corso Venezia, 61 - MILANO
61 ? dov'e' il 61 ? secondo il mio navigatore ATM
http://www.atm-mi.it/giromilano/navigatore.asp?Place=MILANO&ContextName=c0003df813bb18a1d
sta all'altezza del Civico Planetario Ulrico Hoepli, cioe' venendo da
piazzale Oberdan prima di arrivare in via Borghetto ... ma ... essendo
dispari, dalla parte opposta ... ma da quel lato ci sono solo i Giardini
Pubblici (e appunto il Planetario).
> > On Mon, 24 Sep 2001 21:41:28 +0200, Federico Zenith wrote:
> > Per la maggior parte delle persone, i gesti andrebbero benissimo.
>
> Dipende dai concetti che vuoi esprimere. Prova a dire a gesti 'Gli spazi di
> Sobolev, Hk, sono spazi di funzioni quadrato-integrabili secondo Lebesgue le
> cui derivate fino all'ordine k sono ancora funzioni quadrato-integrabili
> secondo Lebesgue'. È un esempio estremo, ma capita.
>
Scusa se mi trovo ancora a contraddirti, ma mi sembra che hai scelto un esempio
poco felice. Per quanto astrusa suoni "a voce" un'asserzione matematica, in
realta'
i matematici la esprimono perfettamente (e con la massima economicita') proprio
"a gesti". I loro gesti, naturalmente, che e' un complesso di notazioni fatto
piu' per essere "visto", "rimirato", se vuoi, e anche "goduto" perche' no?,
e la topologia e' proprio un ambito che si presta a quest'esperienza un
po'..zen.
Ma difficilmente si presta a essere "recitato". E men che meno ad essere
parafrasato
come hai appena fatto tu.
Se c'e' una cosa che la lingua parlata di tutti i giorni si presta a comunicare,
questa --ritengo-- ben difficilmente e' la complessita' (o meglio: l'
astrattezza)
delle matematiche.
Ciao,
Filippo
>
> Tuttavia, come esempio, ti pregherei - nel caso tu avessi studiato tedesco -
> di cercare di ricordare quali siano le regole per la formazione del plurale.
> Se non ti ricordi o non hai studiato tedesco, te le dico io: non ci sono.
> Tutti i plurali vanno imparati a memoria, e sono tutti, fondamentalmente, un
> cumulo soverchiante di 'eccezioni'.
> Certo parlare di eccezioni senza regole č un po' anomalo, ma credo che tu
> abbia capito ciň che intendo, vero?
> (a scanso di equivoci: ci sono delle parole prevedibili, come quelle che
> finiscono in -ung [femminili e con plurale in -en] o quelle straniere
> [plurale in -s], ma non č il caso generale)
>
> (se qualcuno mi vuole svergognare trovandomi una regola, per quanto
> complicata, che sia generale, a me va benissimo, eh!)
>
Vabbe', non capisco perche' insisti con questo plurale. Se proprio vogliamo
sparare contro la regolarita' della grammatica tedesca, mi pare che
potremmo tirare in ballo i verbi, che costituiscono l'ossatura della
lingua come in poche altre fra quelle mainstream in Europa, e che vanno
presi e imparati di sana pianta. A parte questo anch'io ho avuto la netta
impressione di una prevalente regolarita'.
Ma non capisco bene che c'entri la regolarita' (agli occhi di uno straniero)
di una lingua con il suo potersi affermare o meno come lingua franca.
Forse che la lingua inglese e' "regolare"? La chiamerei una lingua ideografica,
quasi,
e mi riferisco alla pronuncia (17 possibili modi di pronunciare il nesso
"-ough", sempre quel tizio di Durham mi diceva...). Ma qualcosa di simile
mi pare esista anche a livello morfologico, e' una lingua profondamente
idiomatica.
Questo ha impedito che diventasse l'inter-lingua? Come impedi' forse a una
lingua
in cui si declina(va)no anche gli articoli, che possedeva un numero
supplementare
oltre al singolare e al plurale, e una coniugazione in piu' oltre all'attivo
e al passivo, di diventare e rimanere l'interlingua del mediterraneo per piu'
di sei o sette secoli? O all'arabo, la cui grammatica e' difficilissima, di
diventare
uno strumento unificante, di affermarsi come la lingua della Conquista e di
essere parlata (ancora oggi) dall'Atlantico al Golfo Persico?
Ciao,
Filippo
> > DIREZIONE DEL MOVIMENTO FUTURISTA:
> > Corso Venezia, 61 - MILANO
>
> 61 ? dov'e' il 61 ? secondo il mio navigatore ATM
> http://www.atm-mi.it/giromilano/navigatore.asp?Place=MILANO&ContextName=c0003d
> f813bb18a1d
> sta all'altezza del Civico Planetario Ulrico Hoepli, cioe' venendo da
> piazzale Oberdan prima di arrivare in via Borghetto ... ma ... essendo
> dispari, dalla parte opposta ... ma da quel lato ci sono solo i Giardini
> Pubblici (e appunto il Planetario).
Se percorri via Visconti di Modrone lasciandoti alle spalle largo
Augusto e dirigendoti verso Fatebenefratelli, incroci corso Venezia che
ti si apre a destra. Sull'angolo opposto dell'incrocio v'e una casa che
fa angolo e sulla quale una lapide ricorda che Marinetti abito li.
Io ritengo che con la di allora numerazione delle vie di Milano quello
fosse il numero 61 di corso Venezia. Puoi controllare sul tuo Navigatore
Satellitare e Temporale?
Ricordo anche che Marinetti mori nel 1944 nella Milano devastata dai
bombardamenti aerei alleati (nulla di nuovo sotto il sole, dunque) e che
i suoi funerali solenni si svolsero all'interno del Castello Sforzesco
dove, di fronte a una folla accorsa, Benito Mussolini celebro l'orazione
funebre del Fosforescente.
P.
Scusa, ma tu sei quello che dovrebbe saperne di piů; la storia delle lingue
penso tu la conosca bene; ma a me era stata raccontata la storia
dell'indoeuropeo.
Cioč - ho sempre pensato io - la gente ha parlato 'come veniva' finché, o ai
tempi dei latini o dei greci, qualcuno ha cercato di trovare una ratio nella
lingua, e ha inventato la grammatica. La lingua perň ha continuato ad
evolversi, ed i patrizi, per far vedere che loro mica erano dei buzzurri,
continuavano a parlare la colta lingua imparata dai maestri e parlata dai
padri della patria, mentre i buzzurri plebei andavano avanti, senza
istruzione, a parlare come veniva.
Dimmi un po' tu dove sto sbagliando allora.
Scusa, ma tu sei quello che dovrebbe saperne di piů; la storia delle lingue
Certo, infatti in inglese e nelle lingue scandinave questa è l'unica traccia
che rimane del congiuntivo, che per il resto è stato dimenticato.
> > So per certo di un caso di una studente di scambio che ha fatto un corso
di
> > lingua _solo_ sul congiuntivo.
> > Il che è interessante, visto che ora lei azzecca tutti i congiuntivi
mentre
> > la maggior parte degli italiani no;
>
> Vuoi vedere che fra un po' gli stranieri (studiosi e diligenti)
> conosceranno l'italiano meglio degli italiani stessi?
Mi sa che è già così... chi la lingua la impara in casa, non la impara da
dei laureati in italiano (di solito), chi la impara in classe sì. A me è
capitato, dopo un anno di studio del norvegese, di sgamare continuamente
errori a chi più a chi meno.
Il che dà una certa sensazione di onnipotenza, non lo nascondo ;-)
Sì, ci siamo intesi.
> 1. Immagina di nascere in un'isola deserta, e di essere allevato dalla
> lupa capitolina (o dalle scimmie, se preferisci Tarzan). Quale sarebbe
> la qualità dei tuoi pensieri? Non si può certo dire che tu avresti gli
> stessi pensieri (e soprattutto concetti) che hai adesso, e che ti
> mancherebbe solo lo strumento per esprimerli.
E fin qui è chiaro. Alla nascita non abbiamo concetti in testa. Se si viene
allevati in un ambiente con un linguaggio o povero o inesistente, il
pensiero ne risente, perché - suppongo - il flusso di informazione dalla
lupa, che potrà anche essere colta e ben istruita, è inibito da una barriera
comunicativa; quindi non si parla -> non si impara -> non si ragiona.
> 2. Suppongo che tu reputi il pensiero una dote più o meno universale,
> comune a tutti gli uomini (escludiamo ovviamente le gravi patologie).
> L'esempio più banale che mi viene in mente è questo: generalmente gli
> anglofoni antepongono l'aggettivo al sostantivo, noi italiani facciamo
> il contrario. Cosa vuol dire questo?
Azzardo: semplice abitudine?
> Forse che gli inglesi pensano
> cavallo+bianco, poi fanno un attimo di pausa, invertono i due termini
> e poi dicono "white horse"? Ovviamente scegliendo lingue extraeuropee
> si possono fare esempi molto più raffinati. A me pare ovvio che la
> struttura del pensiero *segue* la struttura del linguaggio appreso.
Effettivamente io ho imparato solo lingue straniere germaniche, dove
l'aggettivo arriva prima del sostantivo. Quando ho imparato l'esperanto,
dove il posizionamento è libero, devo dire che mi sono sorpreso di quanto mi
dovessi sforzare per metterlo dopo.
> Ricordo che alcuni anni fa l'allora ministro della cultura francese,
> Jack Lang, affermò che la lingua francese era un'ottima lingua (o
> forse addirittura perfetta), poiché segue esattamente la struttura del
> pensiero. La trovai un'uscita sublimamente sciocca. Non ti sembra una
> castroneria?
A me sembra una sciocchezza sublimamente francese :-), non me ne vogliano i
francofoni.
> 3. Perché alcuni termini stranieri sono intraducibili? Sette anni
> passati in paesi anglofoni mi hanno convinto che un inglese *non ha*
> il concetto di "simpatico" (sì lo so, mi piacciono gli esempi banali;
> ma se ci pensi puoi trovarne di più sofisticati).
> Cosa vuol dire "logos"? I miei studenti di filosofia me lo chiedono,
> ma io non sono mai soddisfatto delle mie spiegazioni, e mi rendo conto
> che in fondo in fondo neppure io riesco a cogliere in tutta la sua
> ricchezza il senso di questo termine basilare per i miei studi.
Se posso, permettermi di essere testardo: tu, quando hai imparato la tua
lingua, hai visto la parola logos, e anche la parola simpatico, usata in
diversi contesti, ed estrapolato da lì un concetto. Io penso sia quel
concetto che ti risulta intraducibile. Se, invece del greco 'logos', ti
avessero presentato e spiegato per anni l'italiano 'cippalippa', saresti a
spiegare ai tuoi studenti cosa sia mai il cippalippa.
E loro, ancora, chiederebbero spiegazioni su cosa esso significhi. Forse un
po' meno per non dar l'aria di essere ignoranti della propria lingua.
Quello che voglio dire è che sono d'accordo che chi usa una lingua ha la
tendenza di pensare per 'frasi fatte'; e non solo le frasi, anche per
'sintassi fatta'. Questo siccome definire un'intera lingua è un compito
arduo e peraltro inutile, ognuno si deve pur abituare a quello che fanno gli
altri, e stabilire un protocollo di comunicazione comune. Però è anche vero
che, senza nessuno che avesse cominciato e tutti gli altri che avessero
continuato, non si sarebbe arrivati da nessuna parte.
Ripensandoci: tu hai detto che il pensiero 'deriva' dal linguaggio; ed io
sono d'accordo che ci sia un'influenza dal linguaggio al modo di pensare.
Però va anche nell'altra direzione (forse non ogni cinque minuti), cioè che
quando si deve esprimere un concetto nuovo, si deve necessariamente
aggiungere il termine; certo, usando le strutture della lingua, di solito,
perché è più comodo. Ma se un cavernicolo sa solo dire sostantivi come
'lepre tana albero', ad un certo punto gli verrà pure in mente che le
preposizioni possono avere un uso, per spiegare che la lepre è nella tana
sotto l'albero. Ovvio che è molto più probabile che sia qualcun'altro ad
avere l'idea e lui a copiare, ma anche prima lui sapeva dov'era la tana
della lepre, pur non potendolo comunicare.
(Potrebbe anche inventare un complicatissimo sistema di casi oppure usare
delle postposizioni, il mondo è bello perché e vario!)
> Tuttavia, se si esamina il problema a fondo (ma ora non ho proprio la
> forza per farlo), si vedrà che immaginare il linguaggio come una serie
Capisco benissimo che non si abbia voglia di passare ore a discutere su
usenet, è interessante ma c'è anche la vita, no? :-)
Se però tu potessi a questo punto indicarmi un testo sull'argomento, né
eccessivamente approfondito né troppo criptico per un profano, te ne sarei
grato.
...Qualcosa tipo 'Language theory for dummies' :-)
Complimenti allora.
> [...]
> Per combinazione, sul genere femminile delle parole con desinenza -ung
> esiste un'eccezione, che tu conoscerai certamente, vero?
Ovviamente no. Almeno non mi viene in mente.
> E tutto quello che hai saputo trovare per confutare la mia tesi che in
> tedesco esistono poche eccezioni alle moltissime regole č stata la
> formazione del plurale dove, come giustamente dici, non esistono regole?
No, esistono molte regole, che peraltro non coprono tutti i sostantivi - e
questo lo sai - ed esse hanno pure delle eccezioni, lo dici tu stesso.
Pensa alla n-Deklination: č un'eccezione alla regola, con le sue regole
proprie, e a sua volta con le sue eccezioni (Friede, Buchstabe...), che a
loro volta hanno l'eccezione di Herz.
Credo ci sia un problema di definizione: tu dici che ci sono molte regole,
ed immagino che tra queste regole tu includa anche, per esempio, quelle per
Herz, o per il plurale.
Ma con questa definizione, tu ottieni un numero di regole soverchiante.
Io, poverello e anima semplice, quando vedo che una parte della lingua non
si comporta come il resto senza una ragionevole giustificazione, parto
subito a dire che č un'eccezione. Che poi abbia la sua regola, tanto meglio.
Roger, mi viene un sospetto... sei di madrelingua tedesca? Perché sembra
quasi che
su queste eccezioni, o regole come si vogliano chiamare, tu non abbia
faticato.
> No, esistono molte regole, che peraltro non coprono tutti i sostantivi - e
> questo lo sai - ed esse hanno pure delle eccezioni, lo dici tu stesso.
> Pensa alla n-Deklination: è un'eccezione alla regola, con le sue regole
> proprie, e a sua volta con le sue eccezioni (Friede, Buchstabe...), che a
> loro volta hanno l'eccezione di Herz.
Egregi, la conversazione è diventata talmente specialistica e allargata
alla linguistica in generale che credo sia il caso di fare follouàp su
it.cultura.linguistica; che ne dite? Ci pensate voi?
P.
> Egregi, la conversazione è diventata talmente specialistica e allargata
> alla linguistica in generale che credo sia il caso di fare follouàp su
> it.cultura.linguistica; che ne dite? Ci pensate voi?
Giusta osservazione.
Per parte mia, comunque, il discorso finisce qui.
> P.
> > Per combinazione, sul genere femminile delle parole con desinenza -ung
> > esiste un'eccezione, che tu conoscerai certamente, vero?
>
> Ovviamente no. Almeno non mi viene in mente.
Der Sprung
> [...]
> Roger, mi viene un sospetto... sei di madrelingua tedesca? Perché sembra
> quasi che
> su queste eccezioni, o regole come si vogliano chiamare, tu non abbia
> faticato.
Non sono di madrelingua tedesca, ma sono vissuto tra Germania ed Austria per
qualche anno e lavoro costantemente a contatto con tedeschi e austriaci.
Tu insisti sulla formazione del plurale dei sostantivi, dove le poche regole
esistenti sono artificiose e che rappresenta, però, un'infinitesima parte
della complessa grammatica tedesca.
Io insisto nel dire che, in tedesco, ci sono molte regole con relativamente
poche eccezioni, quindi condivido l'affermazione di Maurizio quando dice
che, secondo lui, la lingua più semplice, come regolarità
grammaticale, è il tedesco.
>Un aneddoto: si racconta che Umberto Eco, prima di essere un sostenitore
>dell'esperanto, usasse come argomentazione contro l'esperanto che "non è
>possibile far l'amore in esperanto". Secondo la storia, ricevette una
>lettera da una ragazza, che alquanto imbarazzata, fece capire che... avete
>capito.
No, almeno io.
--
Bye
Vitt
>Bravo! tiratela!
>
>
>
????
--
Bye
Vitt