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Pirandello e Eliot. Alienazione

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Fabio Sgro

unread,
Jun 15, 1999, 3:00:00 AM6/15/99
to
Cosa pensate del parallelo tra questi due autori?
Qualcuno č in grado di spiegarmi chiaramente Il concetto di alienazione in
questi due autori?
chi volesse puň rifarsi all'Hegel e a Marx

Grazie tante ho enorme bisogno di queste informazioni al piů presto.

codiali saluti
Fabio

Alessandro Aldrighetti

unread,
Jun 17, 1999, 3:00:00 AM6/17/99
to
Luigi Pirandello
(Girgenti, Agrigento, 1867 - Roma, 1936)

Anche per Pirandello, come per il contemporaneo Svevo, vale la definizione
di scrittore isolato, difficile da costringere negli schemi di uno specifico
movimento letterario.
La singolarità di questo autore è dovuta, in parte, alle vicende spesso
travagliate della sua vita, che contribuirono a orientarlo fin dalle prime
opere a una riflessione sull’esistenza, sul ruolo dell’uomo nella società e
sul destino che lo attende, per giungere a concludere, con una sorta di
distacco, che non è possibile trovare alcuna soluzione positiva alla crisi
che coinvolge e sconvolge i singoli individui, il tessuto sociale, le
istituzioni. Intellettuale che rifiuta il ruolo positivo e attivo in cui
credono altri uomini di cultura del primo Novecento, nel suo pessimismo
radicale Pirandello si riserva solo il compito di osservatore lucido e
penetrante, di testimone attento e consapevole della crisi in cui si dibatte
la sua epoca, e coglie acutamente la spersonalizzazione e l’alienazione dell
’uomo moderno, senza credere nella possibilità concreta di un cambiamento o
di un riscatto.
La poetica pirandelliana si basa su alcuni complessi nuclei concettuali, che
cercheremo di esporre con la massima linearità possibile.
Il primo cardine del suo pensiero è il cosiddetto vitalismo, vale a dire la
tesi secondo cui la vita non è mai né statica né omogenea, ma consiste in un
continuo, inafferrabile divenire, in una incessante trasformazione da uno
stato all’altro.
Nella vita e nel suo flusso eterno, Pirandello avverte da un lato disordine,
casualità e caos, dall’altro percepisce disgregazione e frammentazione.
Questi elementi, però, non si fermano alla realtà esterna: anche l’
individuo, al suo interno, manca di unità e di compattezza, si sfalda e si
disgrega in frammenti incoerenti. Tuttavia, secondo lo scrittore, ciascuno
di noi tende a fissarsi e irrigidirsi in una forma che vorrebbe presentarsi
come unitaria, organica e compatta. Inoltre, tutti coloro che ci osservano,
ci attribuiscono una forma diversa da quella in cui noi stessi ci
riconosciamo; per di più, anche la società, con le sue regole e istituzioni,
ci impone una “maschera”. Di conseguenza, ognuno tende a deformare la realtà
secondo la personale visione del mondo, e l’immagine di ciascuno cambia con
il mutare della prospettiva. Solo l’ipocrisia delle istituzioni, delle
ideologie e delle regole che l’uomo stesso si è dato tiene uniti questi
frammenti in una apparenza, dietro la quale tuttavia scorre inarrestabile la
vita. L’uomo, a dispetto dei suoi sforzi, non riesce a penetrare fino in
fondo nel labirinto delle apparenze, né a conoscere ciò che è racchiuso in
quelle forme di cui egli è responsabile ma anche prigioniero; per questo si
dibatte, impotente, nella loro trappola, ed è costretto a subire quelle
leggi che sente false, ma che rappresentano la sua unica possibile identità.


1867- 92
Il nome della villa materna che dette i natali a Luigi Pirandello, “il Caos”
(in provincia di Agrigento), contiene un singolare annuncio di quello che
sarà uno dei motivi centrali dell’ispirazione dello scrittore, ossia la
riflessione sulle contraddizioni e sul disordine della realtà. Pirandello,
dunque, nasce al “Caos” il 28 giugno 1867, da un’agiata famiglia di fervente
tradizione patriottica. Il padre, che intende impiegarlo come amministratore
nell’azienda familiare, lo avvia a studi di indirizzo tecnico, ma il giovane
rivela presto una spiccata passione per gli studi umanistici. Per questo
passa al ginnasio e poi al liceo di Palermo, per iscriversi infine, nel
1886, sia alla facoltà di lettere che a quella di legge della stessa città.
Da qui si trasferisce a Roma, ma per contrasti con un professore conclude
gli studi all’università di Bonn, dove approfondisce i suoi interessi
filologici (si laurea nel 1891 proprio con una tesi di filologia romanza)
rimanendovi in seguito come lettore di italiano per un anno. Ha iniziato
frattanto a comporre poesie, la maggior parte delle quali confluiranno nella
raccolta Elegie renane, pubblicate nel 1895.

1893
Nel 1893 torna in Italia e si stabilisce a Roma, dove insegnerà lingua e
letteratura italiana all’Istituto superiore di magistero dal 1897 al 1922.
Nello stesso anno scrive il suo primo romanzo, Marta Ajala, pubblicato solo
nel 1901 con il titolo L’esclusa.
Grazie all’amicizia con Luigi Capuana, partecipa intensamente alla vita
giornalistica romana, ed entra in contatto con gli ambienti letterari della
capitale. Fra l’altro, fonda con Ugo Fleres il giornale letterario “Ariel”,
attraverso il quale lotta per il rinnovamento dell’arte poetica in una
direzione diversa dalle posizioni, in quel momento egemoni, del
dannunzianesimo.

1894 - 1902
Nel 1894, ad Agrigento sposa Maria Antonietta Portulano, dalla quale avrà
tre figli, Stefano (che diventerà a sua volta romanziere e commediografo con
lo pseudonimo di Stefano Landi), Fausto (che sarà un pittore affermato), e
infine Lietta. Prosegue la sua attività letteraria, scrivendo saggi critici,
novelle, poesie e il romanzo breve Il turno (1902).

1903
Il 1903 è un anno tragico per la famiglia Pirandello: una frana distrugge la
zolfara in cui erano stati impiegati i capitali del padre e la dote della
moglie, la quale, alla notizia, rimane immobilizzata per sei mesi alle gambe
ed inizia a dare segni di paranoia, che si aggraverà con il tempo fino a
manifestarsi in una gelosia ossessiva. La malattia di Maria Antonietta, che
acuirà in Pirandello la tendenza alla riflessione sul significato dell’
esistenza e sulla natura del reale, diventerà materia di ispirazione
artistica: fra i temi che più frequentemente ricorrono nella meditazione
dello scrittore, ricordiamo in particolare la follia e il concetto della
famiglia come istituzione soffocante, che condiziona l’uomo fisicamente e
intellettualmente.
La perdita delle rendite della zolfara procura a Pirandello disagi economici
tali che è costretto ad integrare lo stipendio profondendo maggiore impegno
nell’attività letteraria.

1904 - 1922
Nel 1904 esce a puntate sulla rivista “Nuova Antologia” Il fu Mattia Pascal,
e negli anni che seguono lo scrittore darà alle stampe varie raccolte di
novelle, poi riunite sotto il titolo Novelle per un anno, comprendenti 241
testi: un numero abbastanza inferiore rispetto al progetto iniziale che ne
prevedeva 365, uno per ogni giorno dell’anno. Pubblica anche saggi critici,
tra i quali (nel 1908) il fondamentale L’umorismo, i due romanzi Suo marito
(1911) e I vecchi e i giovani (1913); per di più lavora in campo
cinematografico come sceneggiatore.
Intanto, prosegue e amplia anche la produzione teatrale, che diventerà ben
presto il suo principale impegno. L’esordio era avvenuto nel 1910 con gli
atti unici La morsa e Lumíe di Sicilia, in cui, come nei successivi Liolà, ’
A giarra (La giara), ’A birritta cu’ i ciancianeddi (Il berretto a sonagli,
steso prima in siciliano e poi in italiano), l’autore si muove ancora, per
ambiente e lingua, in una dimensione regionale. Solo nel 1917, con Così è
(se vi pare), inizia la fase più complessa del suo teatro, dalla quale
nasceranno i capolavori in lingua. Tra questi vi sono: Ma non è una cosa
seria e Il giuoco delle parti, ambedue del 1918; L’uomo, la bestia e la
virtú del 1919; Sei personaggi in cerca d’autore (messo in scena al “Teatro
Valle” di Roma nel 1921, subisce un clamoroso insuccesso, mentre pochi mesi
dopo, al “Manzoni” di Milano, ottiene un altrettanto clamoroso successo).
Segue l’Enrico IV, che nel 1922, alla prima rappresentazione milanese,
decreta la fortuna internazionale dell’autore.
Nonostante i riconoscimenti come autore, per Pirandello sono anni
travagliati: durante la guerra, il figlio Stefano viene fatto prigioniero e
internato in un campo di concentramento; più tardi, l’aggravarsi della
malattia mentale della moglie rende inevitabile il ricovero in una casa di
cura.

1923 - 24
Pirandello continua a scrivere soprattutto per il teatro, e dal 1923 –
abbandonato l’insegnamento – segue la messa in scena delle sue opere in
Europa, in America e in Giappone, e riscuote ovunque un enorme successo.
Nel 1924, proprio poco dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, Pirandello
chiede la tessera del partito fascista: un gesto al quale il regime darà una
vasta eco. L’episodio è stato a lungo discusso, ma ne restano tuttora oscure
le motivazioni, non solo perché, pur evitando ogni polemica con il regime,
lo scrittore si manterrà sempre estraneo a qualunque forma di propaganda o
di partecipazione diretta alla vita politica, ma soprattutto se si considera
che la sua intera opera, tesa a criticare e a smascherare la falsità delle
istituzioni sociali, cozza contro l’ipocrisia e la vuota retorica dell’
ideologia fascista.

1925
Nel 1925 Pirandello assume la direzione artistica del “Teatro d’arte di
Roma”, dove allestirà spettacoli tratti dal suo repertorio e da quello di
altri autori moderni e significativi. In tal modo egli approfondisce la sua
esperienza di uomo di teatro, tenendo, fra l’altro, corsi di recitazione.
Come prima attrice scrittura la giovane Marta Abba, che da quel momento
diventa la sua ispiratrice e con la quale avrà un lungo e intenso rapporto
affettivo. Nel 1928 scrive Questa sera si recita a soggetto, rappresentata
per la prima volta in tedesco a Königsberg nel 1930.
Nel 1934 lo scrittore, che già nel 1929 era entrato a far parte dell’
Accademia d’Italia, viene insignito del Premio Nobel per la letteratura, che
consacra la sua fama in campo internazionale.
L’amarezza dovuta alla rottura della relazione con Marta Abba, fa sì che
Pirandello continui a lavorare senza sosta, non solo curando i suoi
interessi teatrali, ma seguendo gli adattamenti cinematografici delle sue
opere. Proprio mentre a Cinecittà assiste alla lavorazione di un film tratto
da Il fu Mattia Pascal, contrae una polmonite e muore nel dicembre del 1936,
lasciando incompiuto l’ultimo lavoro, il dramma I Giganti della Montagna.

Anche per Pirandello, come per il contemporaneo Svevo, vale la definizione
di scrittore isolato, difficile da costringere negli schemi di uno specifico
movimento letterario.
La singolarità di questo autore è dovuta, in parte, alle vicende spesso
travagliate della sua vita, che contribuirono a orientarlo fin dalle prime
opere a una riflessione sull’esistenza, sul ruolo dell’uomo nella società e
sul destino che lo attende, per giungere a concludere, con una sorta di
distacco, che non è possibile trovare alcuna soluzione positiva alla crisi
che coinvolge e sconvolge i singoli individui, il tessuto sociale, le
istituzioni. Intellettuale che rifiuta il ruolo positivo e attivo in cui
credono altri uomini di cultura del primo Novecento, nel suo pessimismo
radicale Pirandello si riserva solo il compito di osservatore lucido e
penetrante, di testimone attento e consapevole della crisi in cui si dibatte
la sua epoca, e coglie acutamente la spersonalizzazione e l’alienazione dell
’uomo moderno, senza credere nella possibilità concreta di un cambiamento o
di un riscatto.
La poetica pirandelliana si basa su alcuni complessi nuclei concettuali, che
cercheremo di esporre con la massima linearità possibile.
Il primo cardine del suo pensiero è il cosiddetto vitalismo, vale a dire la
tesi secondo cui la vita non è mai né statica né omogenea, ma consiste in un
continuo, inafferrabile divenire, in una incessante trasformazione da uno
stato all’altro.
Nella vita e nel suo flusso eterno, Pirandello avverte da un lato disordine,
casualità e caos, dall’altro percepisce disgregazione e frammentazione.
Questi elementi, però, non si fermano alla realtà esterna: anche l’
individuo, al suo interno, manca di unità e di compattezza, si sfalda e si
disgrega in frammenti incoerenti. Tuttavia, secondo lo scrittore, ciascuno
di noi tende a fissarsi e irrigidirsi in una forma che vorrebbe presentarsi
come unitaria, organica e compatta. Inoltre, tutti coloro che ci osservano,
ci attribuiscono una forma diversa da quella in cui noi stessi ci
riconosciamo; per di più, anche la società, con le sue regole e istituzioni,

ci impone una “maschera”. Di conseguenza, ognuno tende a deformare la realtà
secondo la personale visione del mondo, e l’immagine di ciascuno cambia con
il mutare della prospettiva. Solo l’ipocrisia delle istituzioni, delle
ideologie e delle regole che l’uomo stesso si è dato tiene uniti questi
frammenti in una apparenza, dietro la quale tuttavia scorre inarrestabile la
vita. L’uomo, a dispetto dei suoi sforzi, non riesce a penetrare fino in
fondo nel labirinto delle apparenze, né a conoscere ciò che è racchiuso in
quelle forme di cui egli è responsabile ma anche prigioniero; per questo si
dibatte, impotente, nella loro trappola, ed è costretto a subire quelle
leggi che sente false, ma che rappresentano la sua unica possibile identità.
La vita di Pirandello, in apparenza, risponde ai canoni di una convenzionale
“rispettabilità”, ma nel fondo del suo animo si può scorgere l’insofferenza
per i legami sociali, la tendenza alla trasgressione e alla libertà, il
rifiuto delle regole, contro cui egli muove la sua critica impietosa e
corrosiva. Egli sente infatti i rapporti sociali come una ragnatela di
convenzioni inautentiche, a cui contrappone un anelito di sincerità, una
costante aspirazione alla spontaneità; il rifiuto delle forme, dei ruoli e
delle ipocrisie imposti dall’organizzazione sociale è dunque il cardine
intorno a cui ruota tutta la sua opera.
Le trappole del formalismo scattano soprattutto all’interno del nucleo
familiare, dove le insofferenze, i rancori e le ipocrisie si ingigantiscono;
ma non meno soffocante è la gabbia della società piccolo borghese, che
impone una vita stentata, misera, frustrante. A questo proposito, il
pessimismo dello scrittore è totale: egli non riesce a vedere nessuna via d’
uscita concreta, nessuna forma di società diversa. I suoi personaggi, posti
in situazioni paradossali, costituiscono sempre un caso che svela la
contraddittorietà dell’esistenza. Essi capiscono e mettono a nudo il
carattere fittizio del meccanismo sociale, ma non hanno nulla da sostituire
al gioco delle apparenze. La critica resta perciò sterile, e l’autore non
propone soluzioni, anzi, sul piano ideologico si attesta su posizioni
conservatrici, lasciando aperta come unica strada di fuga, quella che
conduce verso l’irrazionale.
Dal rifiuto della società organizzata nasce una figura ricorrente in
Pirandello, quella del “forestiere della vita”, l’uomo cioè che si isola e
si esclude, colui che guarda vivere gli altri e se stesso dall’esterno,
quasi da lontano, con un atteggiamento “umoristico”, in una prospettiva di
autoestraniazione. Proprio per questo, gran parte della produzione di
Pirandello si fonda sul contrasto fra realtà e apparenza, fra vero e falso,
sulla idea del “doppio”, dell’immagine speculare: l’individuo, diviso in due
all’interno della sua coscienza, si sdoppia anche nell’esistenza reale.
A dispetto dell’apparente organicità dei modelli imposti dalla vita e dalle
norme, Pirandello non ha fiducia nelle possibilità di organizzare il reale
in un preciso quadro di riferimento e in schemi ordinati, e mette in crisi l
’idea di una realtà oggettiva, definita, che si possa conoscere e
interpretare in modo univoco mediante gli strumenti della razionalità
scientifica.
Il relativismo nel sostenere che è impossibile giungere a stabilire una
verità, insieme al soggettivismo, legano Pirandello al clima culturale del
primo Novecento, cioè alla fase in cui si compie la crisi del Positivismo e
delle sue certezze; in questo senso, la critica agli schemi di
rappresentazione e di analisi della realtà dell’Ottocento in Pirandello è
ancora più drastica che in Svevo, ed egli interpreta in modo originale l’
atmosfera decadente, traendo dall’esperienza concreta del suo tempo i
suggerimenti per un’analisi lucida e amara della natura ambigua e sfuggente
della realtà. Tuttavia, se per alcuni motivi la sua posizione rientra nell’
ambito di quello che si è soliti definire Decadentismo, sotto altri aspetti
egli lo ha già superato. Lo scrittore non crede, ad esempio, in un rapporto
organico tra uomo e natura e, tranne che in rarissimi momenti (ad esempio
nel finale di Uno, nessuno e centomila), non trova nella natura un rifugio o
un conforto.
Pirandello è stato considerato un autore “filosofico”, più attento ai
contenuti che alle soluzioni stilistiche; egli infatti non si limita a
teorizzare le sue concezioni, ma le usa come materia, ne fa l’oggetto stesso
delle proprie opere. Tuttavia, vale la pena ricordare che egli non è un
filosofo, ma un artista che ha consegnato il proprio pensiero alla
rappresentazione letteraria.
Con Pirandello, la letteratura italiana esce dall’ambito nazionale e
acquista respiro europeo: egli infatti sconvolge l’impianto del romanzo e
della narrativa tradizionali, sottraendosi all’oggettività del Verismo; dall
’ambientazione regionale prende piuttosto lo spunto per sviluppare con
coerenza il suo discorso sulla condizione umana, dando vita a personaggi nei
quali l’unità psicologica e morale si spezza, e si dissolve per sempre l’
organicità che garantiva unitarietà e certezze al paradigma dell’uomo
romantico.
D’altro canto, egli interviene con profonde modifiche anche nella struttura
del teatro borghese, introducendovi novità nei contenuti e tentativi audaci
sul piano delle soluzioni tecniche. Dal punto di vista strutturale,
Pirandello vuole superare la finzione scenica e rifiuta i meccanismi
convenzionali del teatro, che implicano, da parte dello spettatore, l’
accettazione passiva di quanto si rappresenta sul palcoscenico.
Questa scelta si integra perfettamente con l’attività di novelliere e di
romanziere, poiché in tutti i campi in cui lavora lo scrittore attua la sua
poetica “umoristica”, rovesciando dall’interno le forme narrative offerte
dalla tradizione per farne strumenti di discussione e di dissacrazione della
norma.

I fondamenti teorici della concezione del mondo di Pirandello sono
riscontrabili nel saggio L’umorismo (pubblicato nel 1908), nel quale lo
scrittore espone, discute e codifica la sua poetica. La prima parte è
storica, perché dedicata all’esame delle varie forme assunte dall’umorismo
nel corso del tempo, e ad analizzare l’opera di vari umoristi italiani e
stranieri.
Nella seconda parte, di carattere teorico, Pirandello distingue due stadi
dell’osservazione del reale, che egli definisce “avvertimento del contrario”
e “sentimento del contrario”.
L’avvertimento del contrario, sostiene l’autore, si ha quando ci accorgiamo
di una stonatura nella realtà che ci circonda, e percepiamo in un
comportamento o in un fatto una incongruenza che ci sconcerta e ci induce a
reagire in modo istintivo e immediato, come quando, vedendo una vecchia
signora troppo truccata e vestita in modo inadatto alla sua età, ci mettiamo
a ridere. Quando in un’opera la descrizione si limita a questa primo stadio
si ha il “comico”.
Se però superiamo quella impressione superficiale e la trasformiamo in
riflessione, all’“avvertimento del contrario” subentra il “sentimento del
contrario”: ciò accade quando ci soffermiamo a pensare, ad esempio, “perché”
la signora agisce in quel modo, scoprendo che forse non prova nessun piacere
ad agghindarsi così, e magari ne soffre, ma lo fa per un disperato tentativo
di mantenere vivo l’amore del marito, più giovane di lei. Mettendo in luce
tutto ciò, si fa umorismo.
L’umorismo si attua in due tempi e implica la scomposizione della realtà per
cogliere i mille aspetti dai quali, come sappiamo, essa è costituita, e che
si nascondono dietro le “forme”, ovvero dietro i concetti e gli ideali a cui
l’uomo vorrebbe restare coerente. Pertanto il compito dell’umorismo è quello
di ricercare le cause vere di ogni comportamento – al di là delle finzioni
sociali, della “maschera” che ciascuno di noi si impone – e quindi di
rilevare gli elementi paradossali della vita, di farci osservare noi stessi,
di “farci sentire vivere” nel momento in cui viviamo, smontando le
costruzioni illusorie e liberandoci da quei formalismi e da quelle
convenzioni che ci tengono prigionieri.
Tuttavia l’interiorità dell’uomo non si manifesta mai tutta insieme, e
quello che noi cogliamo e crediamo sia il tutto, è solo una parte. Per
questo motivo l’individuo può avere di sé soltanto una conoscenza relativa.
Ad ogni modo, quando l’individuo riesce ad abbandonare il suo ruolo, a
infrangere la barriera delle convenzioni e a togliersi la “maschera”, viene
crudelmente alla luce tutta l’inconsistenza della vita, la sua mancanza di
senso e di scopo, e l’essere umano si rivela per quello che è: falso,
inutile, o infelice.
La critica che Pirandello muove alle illusioni dell’uomo è lucida e
definitiva, e la sua esigenza di verità può apparire crudele, ma proprio
perché mette a nudo la sofferenza dei suoi simili, l’autore dimostra una
partecipazione accorata, una sincera pietà per i suoi personaggi, nei quali
“vita” e “forma” sono in continuo contrasto: personaggi lacerati, messi
improvvisamente di fronte alla scoperta della frantumazione della loro
identità e alla crisi di quelle certezze che la “forma” sembrava loro
garantire: non a caso le creature di Pirandello sno caratterizzate dalla
“pena di vivere così”, e i loro volti che si rivelano quando si strappano la
maschera, sono “un misto di riso e pianto”.

Pirandello si dedicò alla composizione di novelle durante tutta la sua
attività di scrittore, anche quando privilegiò altri generi letterari. Non
di rado esse ebbero un’origine occasionale, come la richiesta di
pubblicazione da parte di quotidiani o riviste, tuttavia lo scrittore riesce
sempre a trasformare il semplice aneddoto umoristico, da cui prende le
mosse, in un punto di partenza per una riflessione sui caratteri drammatici
della condizione umana. Altre volte Pirandello descrive situazioni e
ambienti cittadini, i cui protagonisti appartengono al mondo squallido della
piccola borghesia frustrata, legata a convenzioni e pregiudizi (ad esempio,
nelle novelle La patente e La signora Frola e il signor Ponza, suo genero),
ma anche qui il discorso si allarga progressivamente ad abbracciare una
visione generale del mondo e dei rapporti sociali.
Novelle per un anno è il titolo che Pirandello dette alla raccolta completa
delle sue novelle, che uscirono in due grossi volumi, il primo edito nel
1937, il secondo nel 1938 dopo la morte dell’autore. Lo scrittore siciliano
aveva ben presto manifestato l’intenzione di riunire insieme le sue novelle;
così nel 1894 aveva pubblicato Amori senza amore, una raccolta cui ne
seguirono numerose altre, che per lo più presero il titolo dal racconto più
significativo che contenevano. Sarebbe vano cercare di rintracciare all’
interno delle diverse raccolte un filo tematico o una rigida organizzazione.
In una prima fase, le varie vicende muovono da temi e strumenti narrativi di
derivazione veristica e naturalistica, in cui domina il “bozzetto”. Più
tardi, l’autore colloca i suoi personaggi sullo sfondo di grigi ambienti
borghesi, privilegiando il piccolo mondo impiegatizio. In tutti i casi,
però, il racconto pirandelliano si sviluppa ben presto nella direzione più
consona agli interessi dello scrittore, e individua nei vari temi prescelti
gli aspetti comici, patetici o drammatici, insistendo sui risvolti
paradossali delle vicende narrate. Infatti l’autore sottolinea sempre il
capriccio del caso, che mette in moto eventi dolorosi e tragici; inoltre
coglie impietosamente il carattere assurdo o ridicolo della vita; i
personaggi descritti con un misto di ironia e di pietà, denunciano
metaforicamente l’impossibilità di liberarsi dalla prigionia delle
“maschere” imposte dal meccanismo sociale. Talvolta, una scintilla fa
emergere nell’individuo una coscienza del proprio stato più lucida (ad
esempio, nella Carriola): da qui nasce un senso di acutissimo dolore
rispetto ai comportamenti artificiosi imposti dall’ignoranza, dal cinismo o
dall’indifferenza della società.
I personaggi delle novelle pirandelliane avvertono con sofferenza la falsità
dei rapporti sociali e il peso soffocante delle convenzioni, e talora
compiono tentativi di evasione o di rivolta (come nel Treno ha fischiato),
che non di rado sfociano nella pazzia o nel suicidio. Sono rarissime le
occasioni in cui esiste una possibilità di consolazione, ad esempio, nel
contatto con la natura: e anche allora (valga l’esempio di Ciàula scopre la
luna) si tratta di sprazzi, di “barlumi”.
L’evoluzione della novellistica pirandelliana porta ad accentuare l’
inverosimiglianza dei personaggi e delle situazioni, rendendone così più
esplicito il carattere paradossale; in alcuni testi le connotazioni
fantastiche e bizzarre sembrano addirittura anticipare l’impostazione del
Surrealismo.
Inoltre, la critica ha isolato un gruppo di novelle in cui Pirandello
privilegia, rispetto alla trama, la riflessione sui modi e sulle tecniche
del narrare e discute problemi generali di natura estetica. In esse il
racconto è poco più di un pretesto e serve non tanto a riferire una storia,
quanto piuttosto a descrivere l’operazione narrativa. Questi testi sono
stati chiamati, proprio per questo, “metanovelle”, e la loro impostazione li
collega da vicino alla saggistica.
Lo stile è coerente all’ideologia e alla tematica: Pirandello, sempre
critico nei confronti della tradizione, ripudia “lo scriver bello” e sceglie
una lingua media, vicina al parlato, distante dalla retorica di tipo
letterario, ma anche dal dialetto. Le note umoristiche e grottesche con cui
vengono descritti personaggi, ambienti e situazioni aggiungono forza all’
espressività della sintassi e del lessico.

I romanzi di Pirandello sono uno specchio del suo modo di intendere la
realtà, rappresentata attraverso un costante affinamento delle tecniche e
degli strumenti narrativi. Partendo dall’eredità ricevuta dal Realismo e dal
Naturalismo, ben presto l’autore si allontana da quei modelli ed elabora in
forma del tutto originale tanto i motivi che più gli stanno a cuore (l’
incomunicabilità, la disgregazione della coscienza, la follia), quanto lo
stile, che è costantemente ispirato all’atteggiamento “umoristico” verso l’
uomo e la realtà che lo circonda. Nei primi romanzi, i connotati
naturalistici degli ambienti e dei personaggi sono ancora percepibili, ma
con Il fu Mattia Pascal, Pirandello si libera definitivamente di qualsiasi
traccia dell’esperienza ottocentesca, e stravolge gli spazi narrativi
offertigli dalla tradizione, che a suo giudizio tendono a limitare la
sincerità dell’opera d’arte.
I personaggi che egli crea sono antieroi votati all’inettitudine e alla
follia, i quali, spesso per caso, sono posti di fronte all’assurdità, all’
incessante mutevolezza e precarietà dell’universo, e altrettanto casualmente
e inaspettatamente scoprono l’inconsistenza della loro identità e della loro
stessa immagine, e reagiscono con una vibrante ma vana protesta interiore, o
si “dimettono” dalla vita, si staccano da essa limitandosi ad osservarla
dall’esterno e quasi da lontano.
Il dramma della gelosia, argomento consueto della narrativa realistica,
viene analizzato da Pirandello nel suo primo romanzo, L’esclusa, ma subisce
un significativo spostamento d’accento.
L’esclusa, composto nel 1893, portava originariamente il titolo Marta Ajala,
e fu pubblicato a puntate dal giugno all’agosto del 1901 sulla “Tribuna”.
Solo qualche anno dopo (1908) venne edito in volume, e una redazione
corretta apparve nel 1927.
La protagonista è ingiustamente sospettata di tradimento dal marito, che la
caccia di casa. Si rifugia allora presso la famiglia originaria, dove è
accolta affettuosamente dalla madre e dalla sorella, ma non dal padre, che
la ripudia. A dispetto dell’ostilità che la circonda in paese, Marta
reagisce, riprende a studiare, si diploma e ottiene un posto di maestra che
le permette di provvedere alla madre e alla sorella, rimaste in miseria dopo
la morte del padre. Ma l’ambiente comincia a pesarle ed ella decide di
trasferirsi a Palermo, dove l’uomo che la corteggiava quando ancora viveva
con il marito le procura un impiego. La donna, provata dall’“esclusione”,
cede alle profferte di lui, e proprio quando ha commesso quell’adulterio che
in precedenza le veniva a torto imputato, il marito la perdona e la accetta
di nuovo in casa.
Il romanzo sembra legarsi a temi e modi ancora ottocenteschi, sia per la
scelta di un argomento classico come l’adulterio, sia per la tecnica
narrativa in terza persona e per l’uso frequente del discorso indiretto
libero. Tuttavia, nel libro sono già presenti tutte le componenti essenziali
dell’ideologia pirandelliana, che appare particolarmente evidente nella
voluta assurdità della vicenda. Di rilevante interesse è la dinamica
psicologica della protagonista, una donna intelligente e sensibile, di
mentalità aperta, ostacolata e oppressa da molte figure maschili legate ad
una concezione arcaica dei rapporti familiari e sociali.

Il romanzo (composto nel 1895 e pubblicato nel 1902) affronta il tema del
caso, per svilupparne gli aspetti imprevedibili e paradossali.
Per ragioni di interesse, Stellina viene data in sposa dal padre,
Marcantonio Ravì, ad un vecchio ricco, nella prospettiva che, rimanendo
presto vedova e benestante, possa sposare Pepè Alletto, un giovane nobile ma
senza mezzi, creduto da Ravì l’innamorato della figlia. Ma Pepè dovrà
aspettare molto, perché nella vicenda si insinua l’avvocato Ciro Coppa, che
fa sciogliere il matrimonio del vecchio possidente e sposa Stellina, per
morire roso di gelosia mentre discute una causa in tribunale. Solo a questo
punto verrà davvero il turno di Pepè. Il breve romanzo, che pure racchiude,
come il precedente, il nocciolo della visione del mondo di Pirandello,
mantiene però un tono più leggero e divertito, con una più evidente
insistenza sui risvolti comici e grotteschi.

Quegli elementi fondamentali della concezione pirandelliana del mondo che
sono già presenti nei primi due romanzi, appaiono perfettamente elaborati
nel terzo, dove la riflessione sull’uomo e sulla vita si matura e si
articola in una struttura più complessa e ricca di significati.
La storia, come sempre paradossale, ha per protagonista Mattia Pascal,
bibliotecario nel paesetto di Miragno, in Liguria. Oppresso da un matrimonio
infelice e da una suocera che lo maltratta, dopo un ennesimo litigio
familiare Mattia fugge da casa con pochi soldi in tasca, ma la sorte lo
porta a Montecarlo, dove vince un’ingente somma di denaro al Casinò. Decide
allora di tornare al suo paese per ostentare l’inaspettata fortuna di fronte
alla moglie e alla suocera; ma mentre è in viaggio, gli capita di leggere su
un giornale la straordinaria notizia della propria morte. Così, all’
improvviso, egli concepisce l’idea di sparire per sempre e di ricominciare a
vivere sotto una nuova identità. Sceglie un nome diverso, Adriano Meis, e si
stabilisce a Roma, in una pensione tenuta dal signor Paleari e dalla figlia
di lui, Adriana, della quale si innamora. Ben presto, però, Mattia si
accorge che gli è impossibile condurre una nuova vita come Meis: non ha
documenti che comprovino la sua esistenza, non può quindi trovare un lavoro,
né sposarsi con Adriana, né denunciare un furto del quale è rimasto vittima.
Finge dunque il suicidio per rinascere come Mattia Pascal. Torna al paese, e
qui scopre che la moglie si è risposata. Sebbene legalmente egli abbia la
possibilità di far annullare il secondo matrimonio, si rende conto di non
poter distruggere quella nuova famiglia. Così, il “fu” Mattia Pascal si
rassegna a vivere con una vecchia zia, trascorrendo gran parte del tempo in
biblioteca in compagnia del curato, con l’aiuto del quale scrive questa sua
incredibile vicenda dietro la promessa che ne manterrà il segreto come in
confessione. Il manoscritto, poi, lo lascerà alla biblioteca, con l’obbligo
che nessuno lo apra se non dopo cinquant’anni dalla sua “terza, ultima e
definitiva morte”.
Per vari motivi, Il fu Mattia Pascal (pubblicato nel 1904) può essere
considerato una premessa fondamentale a tutta la prosa italiana del
Novecento, il capostipite del cosiddetto antiromanzo, ossia di quella forma
narrativa che non deve rispettare un ordine logico e una struttura
sequenziale, come era invece tenuto a fare il romanzo naturalista.
L’autore usa tecniche narrative analoghe a quelle che saranno impiegate da
Svevo nella Coscienza di Zeno (1923): non narra una storia oggettiva,
ordinata secondo una linea cronologica, ma segue il libero associarsi delle
idee, proprio dell’immaginazione.

Il racconto è condotto dal punto di vista del “personaggio”, e l’intreccio è
basato sull’intervento continuo di colui che sta narrando in prima persona
le vicende delle quali è già stato protagonista. L’enunciazione si organizza
sotto forma di un flusso di eventi e di pensieri spesso privi di connessioni
cronologiche e disposti secondo un procedere casuale.
Il racconto comincia quando la vicenda è conclusa, e procede “all’indietro”,
con una serie di anticipazioni e di recuperi temporali, analoghi ai
flashback cinematografici, attraverso i quali il soggetto narrante rivive il
passato e compie l’analisi di sé in una visione “obliqua”, estraniata,
segnalata metaforicamente anche da un suo occhio “sbalestrato” (strabico).
Il romanzo si articola in una struttura circolare costituita da 18 capitoli,
che sono suddivisi, grosso modo, in quattro momenti speculari: comincia
infatti con la presunta scomparsa di Mattia Pascal, cui segue la nascita di
Adriano Meis; il terzo momento è la fittizia morte di Meis, il quarto la
rinascita di Mattia. La costruzione circolare e la struttura simmetrica del
testo contribuiscono a sottolineare l’idea-base del romanzo, ossia che la
condizione dell’esistenza è, di fatto, immutabile.
Mattia Pascal è un tipico uomo del Novecento, privo di certezze, la cui
esistenza è in gran parte affidata all’imprevedibile intervento del caso. I
rapporti con la suocera, la vincita al gioco, l’equivoco della morte, che
determinano la nascita dell’“alter ego” e il tentativo di crearsi una nuova
vita come Adriano Meis, sono altrettanti momenti in cui viene affermata la
prevaricazione della sorte sulla libertà di scelta e di decisione di Mattia.
Egli è insomma un io privo di identità: perduta la consistenza anagrafica, è
senza più essere; quando la ritrova è, ma ancora una volta solo come fu.
Mattia Pascal incarna il classico “personaggio-ombra” pirandelliano,
titolare di una vita “vista vivere” e, quindi, ridotta a pura apparenza.
Il carattere del personaggio è coerente all’idea che Pirandello ha dell’
uomo; infatti, Mattia è un inetto che ha avuto una serie di occasioni, ma le
ha sfruttate solo in apparenza. Liberato dalla famiglia, dalla società,
dalla storia, poteva cercare una identità autentica e tentare una sfida
radicale contro il mondo; al contrario, riesce solo a reincarnarsi, ma non a
trasformarsi. Secondo Pirandello, infatti, l’uomo appare, ma non è; uscendo
da sé, Mattia può solo essere la maschera, il fantasma di sé. Egli è votato
alla sconfitta e non può diventare eroe positivo.
Questo personaggio scisso è cosciente della sua estraneità, del suo essere
“inventato”. Per questo non può vivere, ma solo narrare di se stesso, del
suo io destituito di identità.
Il lessico è grigio, pacato, volutamente privo di rilievo drammatico, ma è
reso particolarmente espressivo da improvvise coloriture dialettali,
neologismi o termini ormai desueti. La lingua mescola abilmente vari
registri, facendosi di volta in volta comica o patetica, ironica o
drammatica.
Allo stesso modo, l’andamento sintattico è sinuoso, spezzato, e alterna un
periodare freddo, analitico ad uno istintivo, immediato, che risponde agli
impulsi, ai sentimenti, alle passioni che ispirano il personaggio di momento
in momento. Il tono, a volte è discorsivo, a volte paradossale. L’
immediatezza del pensiero e la spontaneità del parlato sono rese attraverso
l’uso costante del presente, al cui interno, però, convivono e si nascondono
tre diversi livelli temporali: quello corrispondente al momento in cui il
testo è stato scritto, quello vissuto dall’autore e infine quello vissuto
dal personaggio.

Apparso a puntate sulla “Rassegna contemporanea” dal gennaio al novembre del
1909, e poi nel 1913 in due volumi, I vecchi e i giovani è un romanzo in
qualche modo atipico nella produzione di Pirandello. Esso mette in luce il
calo di fiducia nei confronti dello stato liberale attraverso il confronto
tra due generazioni: i vecchi che hanno fatto il Risorgimento, e assistono
al crollo dei propri ideali, e i loro figli e nipoti, che vivono una
situazione di incertezza interiore e non sanno decidere tra conservazione e
rivoluzione.
Ingiustamente trascurato dalla critica, I vecchi e i giovani è un’opera che
dimostra come Pirandello abbia la lucida consapevolezza che la crisi dell’
uomo moderno, oltre che un’esperienza essenzialmente individuale, è anche
una condizione verificabile storicamente.
Suo marito viene pubblicato nel 1911, e nel 1941 esce un’edizione postuma
che presenta il rifacimento di alcuni capitoli e il titolo mutato in
Giustino Roncella nato Boggiolo. In questo romanzo Pirandello torna a
narrare una vicenda paradossale. Giustino Boggiolo, impiegato dell’archivio
notarile e marito di una scrittrice di grande talento, Silvia Roncella,
lascia il lavoro per fare l’agente pubblicitario e finanziario della moglie.
Il nuovo ruolo lo inorgoglisce perché egli è convinto di essere un elemento
indispensabile ai fini del successo di Silvia, mentre non si accorge che
tutti ridono alle sue spalle per questa mera illusione. Il suo impegno
diventa così pressante che finisce per trascurare completamente la moglie,
la quale prende la decisione di lasciarlo. Nemmeno il funerale del
figlioletto servirà a far riavvicinare la coppia: per Silvia è ormai
impossibile vivere con un uomo il cui unico pensiero e interesse è quello di
affidarle carte, appunti, calcoli che “forse le potrebbero servire” nella
sua professione.
Le concezioni pirandelliane risaltano con grande chiarezza anche nel romanzo
Quaderni di Serafino Gubbio operatore (il testo, del 1925, era uscito la
prima volta nel 1915 con il titolo Si gira).
Il protagonista racconta in prima persona la sua storia. Serafino Gubbio,
perfetto operatore cinematografico, ha con la cinepresa un rapporto alienato
e distorto, tanto che alla lunga egli diventa quasi una componente
indispensabile dello strumento, e perde la capacità di “guardare” veramente
le cose: riesce solo a “vederle” con il medesimo distacco dell’obiettivo.
Così, anche quando la realtà diventa terribilmente tragica perché nel corso
della ripresa finale del film La donna e la tigre l’attrice Varia Nesteroff
viene uccisa sul set dall’amante geloso – l’attore Aldo Nuti –, il quale
muore a sua volta sbranato dalla tigre che egli avrebbe dovuto abbattere,
Serafino continua a filmare la scena con estrema freddezza; per il terrore
perde la parola, ma si compiace di ciò perché, “solo, muto e impassibile”,
ha tutte le caratteristiche dell’operatore modello.
Il romanzo, oltre a testimoniare l’attenzione e l’interesse dell’autore per
la nuova forma d’arte, la cinematografia, rappresenta anche una decisa
denuncia dello stato di spersonalizzazione e di asservimento a cui la
civiltà delle macchine rischia di condurre l’uomo.

Uno, nessuno e centomila, pubblicato a puntate sulla “Fiera letteraria” nel
1925-1926 e sempre nel 1926 in volume, è, secondo le parole dello stesso
Pirandello, “il romanzo della scomposizione della personalità”. L’autore vi
porta alle estreme conseguenze il suo discorso sull’“essere” e sull’
“apparire”, e sulla “maschera” che l’uomo è costretto a portare per
continuare a vivere.
Il protagonista, Vitangelo Moscarda, detto Gengè, si accorge, quando la
moglie glielo fa notare, di avere il naso un po’ storto. L’osservazione, in
sé banale, lo mette in crisi, poiché all’improvviso egli si rende conto di
non avere l’aspetto univoco che ha sempre creduto, ma quello che ognuno vede
in lui; in altre parole, di non essere “uno” ma “centomila”, e quindi
“nessuno”. Ha inizio così una sua lucida follia, che lo spinge a compiere
azioni imprevedibili e, secondo il punto di vista comune, del tutto prive di
logica, come quella di sfrattare un inquilino per poi regalargli la casa, o
di chiudere la banca che dirige. La moglie, ben presto stanca, lo lascia; il
paese lo commisera come pazzo. Gengè si riduce a stare in un ospizio,
rifiutando il suo nome e la sua soggettività per vivere esperienze mai
provate in un’esistenza completamente nuova. Immedesimandosi nella natura,
egli scopre di volta in volta le sensazioni diverse che gli offre il
contatto con il mondo degli animali e delle cose, e può vivere rinnovandosi
giorno dopo giorno, senza avere né un passato né un futuro.
Uno, nessuno e centomila contiene e riassume in sé tutti i motivi
fondamentali dell’“esistenzialismo” pirandelliano, dall’intervento iniziale
del caso, che determina lo sviluppo al tempo stesso ironico e tragico della
vicenda, all’insistenza sul dramma dell’individuo che si rende conto della
sua inconsistenza e di essere ridotto a una semplice “maschera” nel continuo
“gioco delle parti” in cui consiste la nostra illusoria esistenza. Ma la
perdita di identità e la tragedia della continua scomposizione della propria
vita, quel “vedersi vivere” che ricorre in tutti i personaggi pirandelliani,
giunge in questo romanzo a soluzioni nuove: il protagonista di Uno, nessuno
e centomila trova, in fondo, una possibilità di salvezza abbandonando le
regole e gli obblighi dettati dalla ragione e rifugiandosi in una dimensione
puramente sensoriale, di istintiva identificazione con le forze della
natura.

Maschere nude è il titolo che Pirandello attribuì alla raccolta delle sue
opere teatrali: un titolo che vuol ricordare come l’uomo sia costretto ad
indossare una “maschera”che lo immobilizza in un ruolo, in una parte, e che
proprio mentre sembra garantire uno spessore oggettivo all’esistenza, la
rende invece falsa e fittizia. L’uomo però, a prezzo di un’acuta sofferenza,
riesce talvolta a strapparsi la “maschera” facendo emergere la sua nudità, e
scatenando la tragedia dell’alienazione, dell’incomunicabilità e della
solitudine, che caratterizzano la condizione umana.
Dalla vasta produzione teatrale di Pirandello, nella quale figurano testi in
lingua e in dialetto e molte riduzioni da novelle, scegliamo di commentare,
a titolo indicativo, alcune opere maggiori che si incentrano sui temi
privilegiati della sua visione della vita: il motivo della scomposizione
dell’io, della molteplicità delle forme e delle maschere, del contrasto tra
realtà ed apparenza, motivi tutti che testimoniano lo stato di alienazione e
di sofferenza dell’uomo contemporaneo.

Il dramma, in tre atti, composto nel 1917 e tratto dalla novella La signora
Frola e il signor Ponza, suo genero, è imperniato sul tema ricorrente delle
molte verità.
Un rispettabile pubblico funzionario, il signor Ponza, e sua suocera, la
signora Frola, appena giunti in una cittadina di provincia suscitano
curiosità e sospetto fra i pettegoli e gretti rappresentanti della piccola
borghesia locale, i quali non si capacitano come mai il signor Ponza abbia
preso in affitto due quartierini, uno per sé ed uno per la suocera, e che
nel suo tenga relegata la moglie, che non esce mai e che mai fa visita alla
madre. Costretti a giustificarsi, il signor Ponza e la suocera dichiarano
entrambi che l’altro è affetto da una forma non pericolosa di pazzia, che lo
porta a credere, l’uno, che la prima moglie sia morta e che quella con cui
ora vive sia la seconda; l’altra, che sua figlia non sia mai morta. Vane
sono le ricerche d’archivio, poiché tutti i documenti sono andati distrutti
durante un grave disastro. Nemmeno la convocazione forzata della signora
Ponza porta alla verità, poiché ella, presentandosi sulla scena con il volto
velato tanto da escludere il suo riconoscimento oggettivo, dichiara di non
essere nessuno in sé: “Per me – sostiene infatti la donna –, io sono colei
che mi si crede”.
Il motivo di fondo del dramma, l’impossibilità di risalire al vero, poiché
esso non è univoco, ed esistono tante verità quanti sono coloro che la
cercano o credono di possederla, è centrale in tutta l’opera pirandelliana;
la realtà, sostiene Pirandello, ha mille facce, poiché ognuno ne ha una sua
visione e la interpreta in modo personale. Un altro dato essenziale nella
riflessione dell’autore si accompagna a questo: il peso delle convenzioni
sociali, che imprigionano l’uomo e alle quali è impossibile sottrarsi. In
questo quadro, assume particolare rilievo la collocazione siciliana: la
provincia insulare, grigia e angusta, ancorata a pregiudizi arcaici, diventa
l’ambiente ideale per rappresentare una dolente condizione umana.

Il dramma, in tre atti, fu rappresentato la prima volta nel 1921 al “Teatro
Valle” di Roma: al calare della tela il tumulto del pubblico, costante
durante tutta la rappresentazione, divenne ira, tanto che l’autore dovette
essere scortato. Pochi mesi dopo, invece, ottenne un clamoroso successo al
“Teatro Manzoni” di Milano.
Una compagnia teatrale sta provando Il giuoco delle parti di Pirandello
quando sul palcoscenico si presentano sei “personaggi”: il Padre, la Madre,
il Figlio, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Essi dichiarano che l’
autore, dopo averli creati nella sua fantasia, non ha voluto o potuto
stendere il testo in cui avrebbe dovuto farli agire. Pure, essi si sentono
vivi, e perciò chiedono al capocomico di mettere in scena la loro storia,
che essi raccontano in modo disorganico, interrompendosi continuamente a
vicenda.
Il Padre, che ha avuto il Figlio dalla Madre, ha lasciato che questa,
innamoratasi del suo segretario, andasse a vivere con lui, avendone altri
tre figli: la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Dopo molti anni, il
Padre per caso ha incontrato la Figliastra in una casa d’appuntamenti, dove
è costretta a prostituirsi da quando le è morto il padre naturale, e solo l’
intervento della Madre ha evitato che si consumasse un rapporto dalle
connotazioni incestuose. Il Padre, pentito e addolorato, ha accolto in casa
propria la Moglie e i figli non suoi, creando una situazione difficilissima:
il Figlio si è chiuso in se stesso, mentre la Figliastra gli continua a
dimostrare un’aperta ostilità.
Il capocomico, colpito dalla vicenda, accetta di metterla in scena, a patto
che siano i suoi attori a recitare. Iniziano dunque le prove, ma vengono di
continuo interrotte dalle obiezioni e proteste dei “personaggi”, che non si
riconoscono nell’interpretazione degli attori, ed insistono perché siano
essi stessi a recitare, in quanto il dramma, anziché “rappresentato”,
sarebbe “vissuto” direttamente: solo loro possono vivere la propria vita.
Alla fine il capocomico si lascia convincere, e durante una ennesima lite
tra il Padre, la Madre, il Figlio e la Figliastra, la Bambina cade in una
vasca da giardino e muore. Il Giovinetto, che non si è mosso per salvarla,
si uccide con una pistola. Né il capocomico né gli attori sanno più se
quanto è accaduto sia realtà o finzione. Oppresso come da un incubo, il
capocomico fa accendere le luci in sala, e finalmente la tensione si
scioglie. Restano sulla scena le ombre del Figlio, della Madre e del Padre,
mentre risuona la stridula risata della Figliastra.
Molta della produzione di Pirandello potrebbe essere definita
“metaletteraria”, poiché si risolve in una continua riflessione su se stessa
e sui meccanismi della letteratura in generale. L’apice di tale riflessione,
tuttavia, è rappresentato proprio da questo dramma, con cui Pirandello dà
inizio al suo progetto di “teatro nel teatro”, che costituisce una delle
maggiori novità del suo modo di intendere questo genere letterario. Infatti
egli distrugge la costruzione scenica tradizionale, abolisce la suddivisione
in atti e scene, e trasforma lo spazio teatrale in un luogo di confronto tra
varie interpretazioni della realtà. Per questo egli colloca la vicenda dei
suoi “personaggi” all’interno di una prova teatrale, e rappresenta non un’
azione già scritta, ma una storia che si costruisce a poco a poco. I
protagonisti sono da un lato coloro che dovrebbero dare concretezza ai
“personaggi”: gli attori; dall’altro i “personaggi”, che proprio perché tali
possono vivere nell’eternità dell’arte, ma l’autore ha rifiutato di fissare

sulle pagine la loro storia.
L’opera porta alle conseguenze più radicali le concezioni di Pirandello
intorno all’idea che l’arte non può interpretare la vita, e che esiste una
scissione tra la vita e la forma, tra l’autenticità della persona e la
“maschera” che la società le impone. D’altro canto, nei Sei personaggi in
cerca d’autore il drammaturgo siciliano sviluppa anche la sua idea
dissacrante dell’arte, applicando con il massimo rigore la poetica dell’
umorismo, che scompone la personalità umana e le toglie la maschera,
mettendo a nudo la fragilità che essa nasconde.

Enrico IV è un dramma in tre atti, scritto nel 1921 e rappresentato la prima
volta nel febbraio del 1922 al “Teatro Manzoni” di Milano, con un successo
che le cronache del tempo definirono “memorabile”.
Il protagonista è un giovane aristocratico romano che durante una festa in
costume, in cui veste i panni di Enrico IV, cade da cavallo e, impazzito in
seguito al trauma ricevuto, crede di essere davvero l’imperatore di Svevia.
Per vent’anni la famiglia ne asseconda la follia, ricostruendo intorno a lui
l’ambiente medievale. Un giorno arrivano alla villa umbra Matilde Spina,
fidanzata di “Enrico IV” al tempo della caduta, con la figlia diciannovenne
Frida, avuta dall’amante Belcredi, e un medico che vuole tentare di guarire
il folle sottoponendolo ad uno shock: Frida, che somiglia moltissimo alla
madre da giovane, dovrà presentarsi a “Enrico” nelle vesti che Matilde
indossava il giorno della caduta; contemporaneamente la vera Matilde dovrà
mostrarsi nel suo aspetto attuale e nei suoi abiti moderni. Però le cose non
vanno secondo le previsioni perché “Enrico” non è più pazzo: da otto anni è
tornato in sé, ma rendendosi conto di essere solo, anziano, con tutti quegli
anni di vita non vissuti, si è trovato costretto a continuare nella finzione
per difendersi dalla vita, per guardarla dal di fuori, da “esiliato”, per
“vedersi vivere” e nello stesso tempo per prendersi una rivincita nei
confronti dei “savi” che gli ruotano intorno, obbligati a recitare per lui
un’interminabile farsa. Ma ora, nauseato per la mascherata che gli hanno
ordito gli amici falsamente premurosi, non vuole più fingere. Egli rivela
anche di sapere che la sua caduta da cavallo non fu accidentale, ma
provocata da Belcredi che voleva per sé Matilde, per cui adesso gli sembra
giusto che sia sua Frida. Abbraccia la ragazza; Belcredi gli si oppone, ed
egli lo trafigge con la spada. A questo punto, non gli resta altra via che
quella di ricominciare a fingersi pazzo, imprigionato per sempre in una
forma fittizia, ma libero dalla realtà.
In Enrico IV i motivi pirandelliani sono svolti in una dimensione
profondamente tragica: “Enrico IV” vive il suo dramma in modo terribile
perché, diversamente da altri personaggi, egli è cosciente di indossare una
“maschera”, ma è altrettanto consapevole che non può farne a meno: in essa
ha trovato, paradossalmente, l’unica difesa dalla vita che lo ha ingannato,
ma anche la costrizione a rimanere cristallizzato dentro una forma che gli
sottrae così la possibilità di vivere veramente.

Negli anni che seguono la stesura dell’Enrico IV, Pirandello ripropone e
approfondisce nel corso di una ricchissima produzione quegli argomenti che
ormai costituiscono definitivamente la sua visione del mondo. Tra le molte
opere, alcune sembrano compiacersi un po’ troppo vistosamente del gusto del
paradosso o degli intrecci macchinosi, come accade, ad esempio, in Diana e
la Tuda (1926); altre, tra le quali Vestire gli ignudi (1922), Come tu mi
vuoi (1930) e Trovarsi (1932), pur senza raggiungere l’altezza dei
capolavori, confermano la maestria dell’autore nel caratterizzare personaggi
colpiti e lacerati dalla fatica e dal dolore dell’esistenza. Il teatro
pirandelliano annovera anche numerosi atti unici, molti dei quali tratti da
novelle. La misura breve propria del genere stimola l’autore a tracciare con
sintesi fulminante il profilo di personaggi indimenticabili, come lo Zi’
Dima della Giara (1925) e, soprattutto, il Chiàrchiaro della Patente (1918),
figura con cui Pirandello tocca il vertice di un umorismo amaro e intriso di
dolente umanità.
Un posto a sé spetta alla cosiddetta trilogia di quelli che Pirandello
definisce “miti”, costituita dai tre drammi, La nuova colonia, Lazzaro e I
Giganti della Montagna.
Il significato attribuito dall’autore al termine “miti” non è del tutto
chiaro, ed è ancora oggetto di discussione da parte della critica. Il
contenuto delle tre opere – che affrontano temi sociali, religiosi, di
teoria dell’arte – e soprattutto l’ambientazione primitiva, magica e
popolare lasciano pensare al desiderio dello scrittore di sviluppare il
proprio pensiero in una prospettiva diversa dal passato, aprendosi alla
sperimentazione di forme teatrali nuove. Questo cambiamento di prospettiva
non incide però sul pessimismo pirandelliano, e non modifica in alcun modo
la sua visione negativa del mondo e della vita umana.
Nella Nuova colonia (1928), ispirato al mito della convivenza sociale, lo
scrittore prefigura un tentativo utopistico di tornare ad un’esistenza
incorrotta da parte di un gruppo di contrabbandieri e di una prostituta su
un’isola deserta. L’esperienza fallisce per il sopraggiungere di altri
uomini legati alle antiche consuetudini di corruzione, e l’opera si conclude
con lo sprofondamento dell’isola durante un terremoto, dal quale si salvano
solo la donna con il suo bambino: la società è dunque immodificabile e solo
l’istinto della maternità è degno di essere salvato dalla distruzione.
Ispirato al mito della fede è Lazzaro. All’interno di un rapporto
conflittuale tra i membri di una famiglia, il figlio, che ha rifiutato la
religiosità bigotta e repressiva del padre e ha cercato un rapporto più
sincero con Dio, compie un miracolo facendo camminare la sorellina
paralitica: segno di una presenza divina attiva nella natura.
I Giganti della Montagna (iniziato nel 1931) è rimasto interrotto al secondo
atto; il finale è stato ricostruito a grandi linee dal figlio di Pirandello,
Stefano.
È il più complesso e interessante dei tre “miti”; in esso Pirandello
riprende il tema che gli è caro: il rapporto tra arte e vita.
La protagonista è la contessa Ilse, un’attrice che con la sua compagnia
giunge in un luogo remoto abitato dal mago Cotrone e dai suoi seguaci. La
donna vuole rappresentare un testo teatrale illudendosi di fare rivivere,
così, l’autore, che si è ucciso per lei (il testo, La favola del figlio
cambiato, è in realtà di Pirandello). Invano il mago Cotrone cerca, prima di
far fuggire gli attori con paurose apparizioni, poi di convincerli a restare
nel suo mondo magico, fuori della realtà: Ilse vuole partire, ed ottiene di
essere condotta da lui presso i Giganti della Montagna, gente feroce e
invisibile, che vuole dominare la Terra, e che acconsentirà alla
rappresentazione della favola presso il popolo. Ma al momento della recita,
il pubblico fischia e impedisce lo svolgimento dello spettacolo; anzi, alla
fine Ilse resta uccisa insieme con due compagni.
Pirandello riconferma con I Giganti della Montagna la sua convinzione che
arte e vita non possono conciliarsi, e sembra profetizzare – attraverso la
sorte di Ilse e della sua compagnia – la morte dell’arte stessa. Ma al di là
del significato del testo, è interessante rilevare che l’autore, in questa
fase della sua produzione, affida alla complessa simbologia dei “miti” l’
aspirazione irrealizzabile a superare l’angoscia della vita e il conflitto
con la realtà, e si indirizza verso uno stile surreale, che porta a
conseguenze esasperate i caratteri paradossali e grotteschi delle sue opere
precedenti.


MARXISMO E REVISIONISMO
Tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del nuovo secolo, in seno al
movimento socialista si apre un ampio dibattito teorico, nel quale si
delineano forti tendenze alla “revisione” di quegli elementi del marxismo
che sembravano contraddetti dai più recenti sviluppi economici e politici.
La solidità del sistema capitalistico non lasciava prevedere nessuno sbocco
catastrofico, mentre il rafforzamento delle istituzioni rappresentative e l’
allargamento della partecipazione popolare avrebbe favorito l’attenuazione
delle differenze di classe, l’innalzamento del tenore di vita dei lavoratori
e la legislazione sociale, diminuito e non accentuato il divario tra miseria
e ricchezza. Sulla base di queste analisi si poteva escludere l’
ineluttabilità di una crisi finale della società capitalistica e dunque la
necessità di una rivoluzione per sovvertirla, al contrario sarebbe stato
possibile lavorare per migliorarla dall’interno, adattandola agli ideali
socialisti di emancipazione.
Il massimo interprete del “revisionismo” è il tedesco Eduard Bernstein, che
sviluppa le proprie teorie all’interno del saggio I presupposti del
socialismo e i compiti della socialdemocrazia, pubblicato nel 1899. In esso
respinge il postulato, non tanto di Marx quanto dei suoi interpreti
“ortodossi”, relativo alla “teoria del crollo”, cioè alla fine prossima e
catastrofica del sistema capitalistico e la teoria marxiana del
valore-lavoro, assegnando alla socialdemocrazia un ruolo di guida nel
processo di democraticizzazione della società, rinunciando ad ogni pretesa
rivoluzionaria. Le posizioni dei “revisionisti”, che trovano particolare
seguito in Germania e che saranno condannate dall’Internazionale socialista,
si rifanno sotto il profilo filosofico all’evoluzionismo positivista, mentre
sotto il profilo strettamente politico finiscono per confondersi con il
riformismo democratico.
In seno alla socialdemocrazia tedesca, il suo massimo esponente, Karl
Kautsky, si batte vigorosamente contro le deviazioni revisioniste, animando
il dibattito teorico. Il gruppo a lui legato, nel quale figurano anche
August Bebel e il futuro “spartachista” Wilhelm Liebknecht, rappresentava la
cosiddetta “ortodossia”, dove già nei primi anni del Novecento era prevalsa
una interpretazione dottrinaria e schematica del marxismo, impoverita dalla
commistione con motivi di matrice positivista. Altro importante contributo è
dato dal marxista austriaco Viktor Adler.
Negli stessi anni prendono corpo all’interno del movimento socialista
correnti di sinistra che si oppongono sia alla pratica revisionista che all’
ortodossia di Kautsky. Il contributo più interessante viene dato da Rosa
Luxemburg, attiva prima in Polonia e poi nella Germania. Ella accentua l’
impostazione classista, l’esaltazione della lotta eversiva e dello scontro
frontale tra borghesia e proletariato, mentre a partire dal 1904 polemizza
con le tendenze “ultracentraliste” della concezione leninista del partito,
alla quale oppone l’azione diretta e spontanea della classe lavoratrice, la
sola depositaria dell’iniziativa rivoluzionaria. I congressi dell’
Internazionale sono le occasioni per il confronto fra le varie tesi emerse
in seno al marxismo, dove i contrasti tra correnti si faranno sempre più
marcati, fino ai drammatici esiti portati dallo scoppio della prima guerra
mondiale.

LE SFIDE IDEOLOGICHE
Alla fine del primo conflitto mondiale si assiste in tutta Europa a una
radicalizzazione dello scontro politico che in molti casi sfocia in vere e
proprie guerre civili. La situazione di generale conflitto trova in parte
giustificazione nei gravi problemi economici e sociali lasciati dal
conflitto: le numerose distruzioni, la forte disoccupazione, il processo
inflativo, la questione del reinserimento dei reduci nella vita civile. D’
altra parte, però, gioca un ruolo decisivo la crisi dei sistemi politici
liberali già iniziata nei primi anni del secolo e accelerata dalla guerra.
Il liberalismo, dottrina e movimento politico tipicamente ottocentesco, si
dimostra incapace di rispondere alle nuove domande che salgono
prepotentemente dalla società. Lo sviluppo della società di massa, indotto
dai processi di modernizzazione e dallo stesso conflitto mondiale, pone alle
classi dirigenti di tutto il mondo la necessità di approntare delle
politiche capaci di garantire il controllo sociale e la vita democratica
attraverso la mediazione dei conflitti. Questa sfida non sempre viene
raccolta dalla cultura liberale, ancora troppo legata a una vecchia
concezione dello Stato e a un’idea altrettanto superata della libertà
individuale.
Alla crisi della cultura liberale corrisponde una ripresa del marxismo e
delle organizzazioni del movimento operaio che a esso si richiamano. Nata e
sviluppatasi nella seconda metà dell’Ottocento, la cultura politica marxista
aveva vissuto prima della guerra una forte crisi di identità, ma, grazie
alla rivoluzione sovietica del 1917 e alla capacità di interpretare i
bisogni delle masse, nel dopoguerra essa vive un momento di grande
diffusione e di grande vitalità. In questi anni il marxismo assume caratteri
molto radicali (nascono ovunque i partiti comunisti) e, a partire dal
modello sovietico, propone prassi politiche di carattere rivoluzionario. La
socialdemocrazia, che rappresenta un’evoluzione democratica e
tendenzialmente liberale del marxismo, viene spesso messa in minoranza dalle
frange più estreme e, comunque, sembra anch’essa incapace di elaborare
risposte adeguate ai problemi del tempo.
In questo contrasto tra le forze rivoluzionarie che si richiamano al
marxismo e le classi dirigenti liberali si inserisce nel dopoguerra un
movimento dai caratteri compositi: il fascismo. Inizialmente i riferimenti
ideologici di questo movimento politico sono per lo più strumentali, attinti
sia dalle culture di destra che da quelle di sinistra, ma presto esso si
svela come la più potente forza di reazione contro i mutamenti dei rapporti
di forza sociali. In alcuni paesi la classe dirigente crede di trovare nel
fascismo, nel frattempo cresciuto grazie al consenso dei ceti medi, un
baluardo contro i pericoli di rivoluzione sociale e, di fatto, gli affida la
guida dei governi. È il primo passo verso la formazione dei regimi
totalitari.

PAOLO VOLPONI
(Urbino, 1924 - Ancona, 1994)

Paolo Volponi è nato a Urbino nel 1924. Laureatosi in legge nel 1947, dal
1956 fino al 1971 si occupa dei servizi sociali e delle relazioni aziendali
alla società Olivetti; passa poi alla Fiat con incarichi analoghi. Raggiunge
una fama immediata con il suo primo romanzo, Memoriale, pubblicato nel 1962,
che gli fa vincere nel 1963 il Premio Marzotto. Due anni dopo ottiene il
Premio Strega con La macchina mondiale, e nel 1975 il Premio Viareggio per
Il sipario ducale. Assume poi l’incarico di consigliere di amministrazione
della Rai, dal quale si dimette nel 1978. Nel 1983, viene eletto senatore
indipendente nelle liste del PCI, a cui è da sempre legato, ma in seguito,
per disaccordi profondi con la linea del neonato PDS, se ne dissocia e
aderisce a Rifondazione comunista. Membro del comitato di direzione di
“Alfabeta”, vi pubblica articoli di politica e di cultura militante oltre
alla sua più recente produzione poetica. Il romanzo La strada per Roma è del
1991 ed ottiene il Premio Strega. Lo scrittore è morto ad Ancona nel 1994.
L’esordio poetico di Volponi risale al 1948, con la raccolta di rime Il
ramarro, di impostazione dichiaratamente postermetica, alla quale seguono L’
antica moneta (1955) e Le porte dell’Appennino (1960). Altri volumi di versi
sono Poesie e poemetti 1946-1966 (1980), Foglia mortale (1974), Con testo a
fronte. Poesie e poemetti (1986) e infine Nel silenzio campale (1990).
Nei versi di Volponi la parola ha sempre un valore pregnante, dovuto ad un
evidente gusto per la ricerca linguistica, al quale si affianca un senso
profondo del paesaggio, spesso ravvivato dalla presenza di animali, che l’
autore osserva e ritrae con affettuosa partecipazione.
Dopo la popolarità raggiunta con Memoriale (1962), rafforzata dal successivo
La macchina mondiale (1965), i romanzi pubblicati negli anni Settanta –
Corporale (1974), Il sipario ducale (1975) e Il pianeta irritabile (1978) –
confermano Volponi come uno dei maggiori narratori del nostro tempo. La sua
produzione prosegue poi intensa nel corso degli anni: oltre alle poesie,
pubblica i romanzi Il lanciatore di giavellotto (1981), Le mosche del
capitale (1989), La strada per Roma (1991).
I romanzi di Volponi hanno per oggetto l’alienazione, un tema che lo
scrittore analizza all’interno della civiltà moderna e di un sistema
politico e sociale che egli – sebbene abbia ricoperto a lungo importanti
incarichi manageriali nel campo dell’industria – ha sempre giudicato con
grande severità.
Il mondo del lavoro e l’alienazione dell’individuo nella società
neocapitalistica sono i cardini sui quali ruota Memoriale (1962), che resta
ancor oggi un libro fondamentale sull’argomento. Volponi vi descrive, in
forma di narrazione-confessione, la vita di fabbrica e il processo di
alienazione non solo e non tanto da un punto di vista oggettivo, ma
attraverso la lente interiorizzata e deformante del protagonista, il primo
dei numerosi disadattati che popolano la sua narrativa: un personaggio
incapace di adeguarsi ai frenetici ritmi imposti dalla tecnologia, per il
quale il lavoro di fabbrica diventa motivo di angoscia esistenziale, che
altera il suo equilibrio psicologico trasformandolo in vittima di una
nevrosi visionaria.
Uno schema formale analogo torna nella Macchina mondiale e in Corporale,
anche se soprattutto il primo si arricchisce di una più forte componente
visionaria e i personaggi, forse meno realistici ma più complessi di quelli
di Memoriale, acquistano uno spessore narrativo e una carica simbolica assai
maggiori. Particolarmente interessante è Corporale, il cui protagonista,
Gerolamo Aspri, intellettuale di sinistra ossessionato dal terrore di un’
esplosione atomica e tormentato dall’idea di costruirsi un rifugio
antinucleare, è l’emblema delle tensioni e delle paure di tutta l’umanità di
fronte alla minaccia di una catastrofe mondiale.
Nei romanzi successivi, dal Sipario ducale al Lanciatore di giavellotto, lo
scrittore abbandona i modelli del Neosperimentalismo e, pur restando fedele
al tema dell’alienazione e del rapporto conflittuale con la società e con la
vita, ricorre a schemi narrativi più tradizionali. Risvolti nettamente
autobiografici presenta infine Le mosche del capitale (1989), drammatica
testimonianza della “delusione storica” subita dai militanti del ’68 e dell’
amaro fallimento ideale di quegli intellettuali che durante gli anni
Settanta avevano sperato di costruire, attraverso la contestazione, una
nuova società dai connotati meno disumani e alienanti.

in bocca la lupo


Fabio Sgro <06798...@iol.it> ha scritto nel messaggio
<7k5do5$lr8$1...@aquila.tiscalinet.it>...


>Cosa pensate del parallelo tra questi due autori?

>Qualcuno è in grado di spiegarmi chiaramente Il concetto di alienazione in
>questi due autori?
> chi volesse può rifarsi all'Hegel e a Marx
>
>Grazie tante ho enorme bisogno di queste informazioni al più presto.
>
>codiali saluti
>Fabio
>
>

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