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La guerra dei morti - 2 Capitolo

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Ladro d'Anime

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Nov 5, 2022, 12:39:42 PM11/5/22
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Un uomo in età avanzata osservava dal balcone del suo palazzo le luci
della città accendersi in lontananza. Essere re era qualcosa di ambito,
un’occupazione che prometteva agi, ricchezze, soddisfazioni di ogni
tipo. Qualsiasi monarca poteva ottenere queste cose, ma essere un buon
re significava bere l’amaro calice delle preoccupazioni, della
responsabilità e dei rimorsi. Ed erano proprio questi, i rimorsi, a
turbarlo.
Balar lo aveva sempre servito bene in passato, nonostante disapprovasse
il conflitto e molte delle scelte che aveva preso in questi anni. Ma che
avrebbe dovuto fare? La guerra l’aveva soltanto ereditata, non era stato
lui a dichiararla e solo con la vittoria, solo con la definitiva
sconfitta del nemico, poteva ritenere chiusa la partita.
“Cosa la turba, maestà?” domandò una voce all’interno.
“Niente, Nicia, riflettevo sul presente del nostro paese e sul futuro.”
“Dalla sua espressione, immagino siano pensieri cupi.” affermò
sconcertato il consigliere.
“Forse… forse avrei dovuto davvero prestare ascolto al consiglio di
Balar. La guerra dura da troppo tempo, sarebbe saggio porvi termine il
prima possibile.”
“Ne convengo, ma non vuole vincerla questa guerra? Non porterebbe
maggiori benefici al regno un trionfo, piuttosto che un traballante
accordo di pace?”
L’espressione del re si fece pensosa.
“Può darsi, ma spesso un re si pone delle domande: questo trionfo varrà
la vita di tanti innocenti? E come verrò giudicato dai posteri? Mi
considereranno un tiranno senza cuore? Un macellaio, un egoista?”
“Suvvia, maestà, non si abbatta, io sono suo amico e sono qui per
consigliarla per il meglio. Non si preoccupi del giudizio altrui: gli
uomini sono in egual misura buoni e malvagi. Se vinceremo, gli storici
si soffermeranno sulle sue qualità enfatizzando all’opposto la malvagità
dei nostri nemici. Dopotutto sono solo i vincitori a scrivere la storia,
mentre i perdenti si limitano a subirla.”
Il re sorrise e guardò con riconoscenza il consigliere.
“Mi servi davvero bene Nicia, hai la capacità di dire sempre la cosa
giusta.”
“Sono solo un umile servitore di vostra maestà. Ora non pensi più alla
guerra e a tutto il resto. Vada a riposarsi e che un buon sonno le porti
consiglio!”
Il monarca annuì e si diresse con espressione stanca verso i suoi
appartamenti.
Nicia guardò il sovrano allontanarsi, rimase in silenzio per alcuni
minuti, poi si concesse un sospiro. Quei momenti di depressione si
stavano rivelando davvero un problema, pensò il consigliere, auspicando
che la moralità del suo sovrano, che spesso affiorava proprio in quei
frangenti, rimanesse ben celata nei suoi abiti eleganti.
Non molto lontano dal palazzo reale, che sorgeva su una collinetta al
riparo dall’afrore di uomini e animali che riempiva la capitale, vi
erano anche numerose costruzioni che erano riservate ai membri della
nobiltà del regno. In una di esse, sotto un pergolato fiorito, si stava
godendo il tramonto il decano dei consiglieri, Abelardo. Lo raggiunse,
introdotto da uno dei servi, un aitante ufficiale di circa quarant’anni:
Balar era, infatti, assai orgoglioso della sua forma fisica ed era
riuscito, nonostante l’età, a mantenere l'aspetto asciutto della sua
gioventù.
Vedendolo il vecchio sorrise:
“Ti trovo bene, ragazzo mio, vieni a sederti qui vicino a me: non ho più
l’età per alzare la voce e soprattutto non ho più l’età per origliare da
lontano.”
“Magari avessero tutti questa abitudine!” disse in maniera enigmatica il
generale.
A pochi metri da loro il servo che aveva introdotto Balar, nascosto
dietro una finestra, trasalì.
Vedendo lo sguardo serio del generale, Abelardo scoppiò a ridere. Una
risata calda, priva di ipocrisia. Poi si piegò e scribacchiò qualcosa,
con fare distratto.
“Tua moglie e i tuoi figli? Da molto tempo non ho occasione di vederli,
mi ero anzi appuntato qualcosa a loro riguardo…”
In un tavolo di fronte a lui si trovavano numerose pergamene. Abelardo
vi rovistò con attenzione, ma porse, invece, a Balar il foglio nel quale
aveva appena trascritto qualcosa.
Lascia perdere, so ormai da anni che Nicia lo paga per spiarmi. Se lo
allontanassi, assolderebbe un altro. Meglio affrontare un male
conosciuto: un’abitudine dettata dalla senilità, credo.
“Riferirò sicuramente il tuo messaggio, ma sono preoccupato, per loro e
per tutti noi.”
“Fai bene a esserlo. Sono tempi cupi, ma non devi preoccuparti. Assolvi
al compito che ti ha affidato il re, al resto penserò io.”
Quello fu l’unico riferimento alla pressante situazione del regno. La
conversazione, infatti, imboccò altre strade e dopo circa un’ora di
futilità, Balar si congedò dall’anziano consigliere.

Venne deciso di non divulgare le decisioni del consiglio e soprattutto
l’intenzione di assoldare il Ladro d’Anime. Si temevano reazioni
violente da parte del popolo, già contrariato per la situazione bellica
difficile e per la pesante e iniqua tassazione che tale situazione aveva
comportato. Questo mago godeva, infatti, di una fama particolarmente
oscura, peggiorata in quegli ultimi anni a tal punto da farlo diventare
il classico spauracchio alle quali le mamme sovente ricorrono per tenere
buoni i loro bambini. Addirittura, pur nella molteplicità delle
religioni, si era tramutato in una sorta di emblema unificante del male
e da messaggero della morte, come in passato, ora veniva più spesso
descritto come l’agente dei demoni in terra. Nell’esagerazione e nel
grottesco in cui cade il più delle volte la propaganda in tempo di
guerra, in qualche occasione, strilloni al servizio del re avevano
addirittura identificato la figura dello stregone Remigio con il tanto
vituperato Ladro d’Anime. Ora, come si può ben capire, sarebbe stato
molto difficile “riciclare” la sua immagine e renderla gradita al popolo.
Non erano, però, simili problemi a preoccupare seriamente Nicia: la
notizia dell’attacco ad Alaysia aveva scatenato il malcontento dei
profughi provenienti dall’est. Essi si chiedevano come mai, con le loro
province invase, il re distogliesse truppe preziose per una inutile e
dispendiosa campagna militare (si noti come nessuno si sia preoccupato
di contestare le modalità di una simile campagna...).
Con suo enorme sgomento, inoltre, egli scoprì che la maggior parte delle
unità a presidio della capitale provenivano proprio dalle province
orientali. Che fare allora? Come al solito, però, l’astuto consigliere
aveva una soluzione pronta: mentre la campagna contro Alaysia sarebbe
stata portata a termine senza intoppi, sarebbe stato formato un corpo di
spedizione, composto essenzialmente da soldati orientali, con il compito
di arginare l’invasione dei non-morti. I vantaggi di questa soluzione
erano ben chiari: da una parte si allontanavano truppe potenzialmente
infedeli, dall’altra si dimostrava al popolo che il re stava facendo
tutto il possibile per far fronte al pericolo.
Lo stato maggiore, messo al corrente di un simile progetto, inorridì e
con ogni probabilità non si sarebbe trovato nessun generale disposto a
condurre quello che era unanimemente definito un suicidio. Ancora una
volta, però, Nicia aveva un asso nella manica...

“Entri generale Galdor, la stavo aspettando.”
Un uomo di circa trent’anni dalla corporatura massiccia fece il suo
ingresso nella sala. Pareva un po’ intimidito dallo sfarzo e rimase lì
rigido e a disagio fino a quando Nicia gli fece segno di sedersi.
Il consigliere porse allora al generale alcuni rotoli di papiro.
“Sono i rapporti che provengono dal fronte orientale,” spiegò. “Volevo
li leggesse prima di ascoltare la mia proposta.”
Galdor si fece attento.
“Ho bisogno di un uomo fidato, un uomo che accetti un compito per molti
ritenuto impossibile: voglio che lei guidi un esercito contro il nemico
che avanza da est.”
Galdor era lì, incredulo, di fronte all’occasione che tanto aspettava:
le stime dei suoi nemici, tutti quegli inutili zeri scomparvero di
fronte alla gloria di quella campagna. Gonfiò il petto e affermò con
sicurezza.
“Non dubiti di me, consigliere, sarò all’altezza del compito.”
Nicia sorrise compiaciuto e aggiunse:
“Sarò sincero con lei, generale Galdor: l’impresa è ardua. Molti suoi
colleghi più anziani l’hanno definita addirittura folle.”
Galdor sbuffò con disprezzo.
“Quei vecchi citrulli hanno ormai il fegato pieno di ragnatele. Ci
penserò io a prendere a calci nel sedere quei cadaveri puzzolenti. O
meglio prenderò a calci quel che potrò...” e concluse quella frase con
una grassa risata.
Nicia lasciò terminare quel ruvido sfogo con espressione un po’ contrariata.
“Voglio il meglio da lei, generale, si ricordi a chi deve la sua posizione.”
“Può fidarsi ciecamente di me, consigliere, non la deluderò.” affermò
sicuro Galdor.
“Me lo auguro.” concluse Nicia e osservò con un certo compiacimento il
tronfio generale uscire dalla stanza.

In tutta onestà, non si poteva definire Galdor un cattivo soldato anche
se mancava di esperienza e , come tutti i giovani, aveva una eccessiva
considerazione delle sue capacità.
Tale sfrontata sicurezza può sembrare eccessiva anche per un uomo come
lui: egli, però, non poteva certo lasciarsi scappare un’occasione così
importante per emergere; inoltre, il nostro buon consigliere, in un
eccesso di prudenza, aveva fatto edulcorare ad arte gli ultimi rapporti
provenienti dall’est, ridimensionando notevolmente il numero degli invasori.
Dopo poche settimane di preparativi, l’esercito, con la benedizione del
re e dei principali esponenti religiosi locali, partì. Questi ultimi,
certo in buona fede, pensarono bene di offrire anche qualcosa di più
concreto di una semplice benedizione e affidarono alcune reliquie, tra
le quali spiccava l’indice di San Paucezio ai cappellani militari
dell’armata. Il dono, di pessimo auspicio visti gli avversari che ci si
apprestava ad affrontare, venne accolto dal generale Galdor con un certo
imbarazzo ed egli pare abbia commentato, in privato, con alcuni suoi
ufficiali:
“Come se non avessimo già abbastanza ossa di cui occuparci.”
Alcuni burloni della capitale non persero occasione per sfruttare
l’episodio, sostenendo che la vera intenzione dei religiosi era di
restituire a quelle reliquie la loro interezza originaria. Certamente,
sostenevano, tra tanti cadaveri che l’esercito avrebbe incontrato, si
sarebbe trovato un corpo adatto nel quale inserirle.
A capo del gruppo di cappellani militari, con il loro prezioso fardello,
venne posto un manaco di nome Iulius, un uomo dall’apprenza mite e
indolente, con una voce così fioca, che sembrava dovesse farsi largo a
forza dal suo collo ossuto; ma che sapeva trasformarsi e scaturire
potente quando era sul pulpito, come se fosse alimentata dalla forza
della fede.

Il monaco Iulius era fiero di quell’incarico, e sprezzante nei riguardi
del pericolo che l’attendeva. In groppa al suo asinello cavalcava
orgoglioso, come se fosse ricoperto di tutto punto con una corazza
d’acciaio. La sua altera sicurezza fu addirittura contagiosa,
trasmettendo alle truppe la convinzione che il dio Aban fosse dalla loro
parte. Ma Iulius non era mai stato un uomo d’azione, come non era mai
stato una persona pragmatica. Non conosceva i pericoli insiti in una
battaglia, come ignorava le traversie e le difficoltà della vita. La
polla di calma fatta di tranquilla quotidianità dell’esistenza monacale
lo avevano preservato come in un bozzolo.
Dopo aver sfilato con orgoglio di fronte alla cittadinanza che si era
accalcata ai margini della strada, guidando la lunga serpentina di
uomini d’armi, continuò imperterrito e orgoglioso a condurre l’esercito,
come se la sua fede dovesse fungere da avanguardia a quell’armata,
dispensando contemporaneamente a destra e a manca benedizioni di ogni
tipo, ma anche consigli e severi rimbrotti.
Galdor osservò con divertimento quell’entusiasmo, ma si guardò bene
dall’infrangere la cornice di illusioni che Iulius si era creato. Del
resto solo un uomo ingenuo e non avvezzo alla comprensione della natura
umana, poteva invitare un rude soldato dall’esimersi dal saccheggio o
dalla formicazione.
Mentre rifletteva su questo, Galdor eruppe in una improvvisa risata:
difficilmente le sue truppe avrebbero corso questo rischio.

Furono necessarie alcune settimane di marcia per raggiungere la zona
delle operazioni che si dimostrò, con grande sorpresa di Galdor,
incredibilmente deserta. Egli, dunque, fece accampare l’esercito nei
pressi di un villaggio, ora in stato di abbandono, e cercò di farsi
un’idea più precisa della situazione inviando gruppi di esploratori
nella campagna circostante. Dopo tre giorni di snervante attesa, una
pattuglia ritornò al campo...

“Arrivano degli uomini a cavallo, generale, e sembrano vivi!” affermò
con concitazione una sentinella.
Un paio di soldati, cavalcando a rotta di collo giù da una collinetta,
si stavano avviando verso l’accampamento come fosse una meta agognata. I
cavalli sembravano stremati ed erano coperti di schiuma, ma non avevano
bisogno di morsi e fruste: era il terrore a spronarli.
“Sono dei nostri stolto! Ti pare che dei cadaveri possano cavalcare?
Aprite i portoni della palizzata!” ordinò Galdor con fermezza.
Una volta all’interno, stanchi e affannati, quegli uomini chiesero
dell’acqua, che bevvero con avidità.
“Morti, signore!” affermò uno di loro dopo aver ripreso fiato. “Sono
circa a una ventina di miglia da qui.”
“Quanti sono?” domandò Galdor.
“Tanti: centinaia, migliaia...” affermò uno di loro.
“Sii più preciso!” gli intimò il generale.
“Signore, non mi sono fermato a contarli, ma è come se tutti i morti del
mondo avessero abbandonato i loro sepolcri per raggiungerci.”
“Colonnello Britvas!” ordinò Galdor. “Faccia uscire l’esercito in ordine
di battaglia e lo faccia in fretta, per Aban!”
In poche ore l’intera armata fu pronta, schierata in buon ordine e
iniziò l’attesa...
L’esercito avversario non fu subito visibile, ma un odore nauseante
giunse ben presto alla portata dei soldati. Era quel lezzo di
putrefazione che i militari incalliti erano certo abituati a sentire;
ora, però, l’intensità di questo odore era tale che molti uomini furono
colpiti da violenti e incontrollati conati di vomito. Quando finalmente
il nemico apparve, lo spettacolo lasciò intimoriti e stupefatti gli
astanti. L’orizzonte era letteralmente ricoperto da forme grottesche,
una volta sicuramente di aspetto umano, ma che ora ne conservavano solo
la parvenza. Il loro incedere era lento e incerto e i loro movimenti
erano altrettanto maldestri, ma avanzavano verso di loro come spinti da
una volontà soprannaturale.
“Pronti con le catapulte e le baliste!” gridò il generale.
“Catapulte e baliste pronte!” rispose un artigliere.
“Al mio ordine tirate!” urlò ancora, poi, quando giudicò che il nemico
fosse alla distanza giusta disse. “Ora! Tirate!”
Galdor riponeva enorme fiducia in queste macchine, generalmente usate
negli assedi, ma che lui aveva fatto montare su carri o aveva dotato di
ruote. I rapporti che aveva ricevuto enunciavano chiaramente la lentezza
di movimenti dei non-morti; inoltre, egli, non del tutto alieno da studi
alchemici, sapeva che la decomposizione rilasciava nell’aria un gas
infiammabile. Le macchine d’assedio, dunque, vennero caricate con
proiettili incendiari che immediatamente trasformarono in torce
centinaia di corpi. Dopo questo incoraggiante successo, però, le fiamme
si attenuarono fino a spegnersi e i non-morti, che avevano cessato la
loro avanzata, ripresero ad avvicinarsi. Il fenomeno, di chiara origine
soprannaturale, era da attribuirsi all’intervento di qualche mago se non
dello stesso Remigio e denotava un macroscopico errore di valutazione
del generale che avrebbe dovuto prevedere una simile eventualità.
Gli arcieri, allora, scoccarono le loro frecce che, però, si
dimostrarono del tutto inefficaci non riuscendo nemmeno a rallentare
l’enorme massa avversaria. La cavalleria, disposta ai lati dello
schieramento, stretta da ogni parte e impossibilitata a manovrare venne
subito annientata. Nonostante ciò, il nucleo dell’esercito di Galdor,
costituito dalla fanteria pesante, resse all’iniziale urto con il
nemico. Le ossa dei morti venivano infrante con straordinaria facilità
dalle spade e dalle mazze dei suoi soldati, con scene che rasentavano
spesso la farsa. Era possibile vedere qua e là arti, ormai resi
scheletrici dalla decomposizione, animarsi convulsamente anche se
frammentati in più parti. Ma le forze iniziarono gradualmente a venir
meno e le braccia dei soldati, con il passare del tempo, divenivano
sempre più pesanti. Circondati da ogni parte, l’unico obbiettivo era
diventato quello di aprirsi un varco e cercare una via di fuga, ma ci si
rese ben presto conto che era ormai troppo tardi anche per questo.
Galdor, a pochi metri dalla prima linea, guardava incredulo la colossale
sconfitta che si stava profilando. Vedendo alcuni ufficiali del suo
seguito che lo stavano osservando, cercò di ricomporsi, consapevole che
doveva essere d’esempio ed incoraggiamento per i suoi sottoposti, ma gli
sforzi di Galdor dovettero essere vani, se uno di loro si fece coraggio
e gli chiese:
“Generale, cosa possiamo fare, siamo circondati da ogni lato!”
Galdor parve non sentirlo, e quando, per la seconda volta, l’ufficiale
ripetè la domanda, non riuscì a fare altro che guardarlo con occhi
vacui, come se non avesse compreso. Infine sussurrò, in maniera quasi
impercettibile:
“Morire...”
Detto questo, si tolse il mantello e l’elmo crestato che connotavano il
suo rango, e imbracciando la spada, si diresse verso il fulcro della
battaglia, perdendosi nella calca.
A poca distanza dalla linea di battaglia si trovava anche il monaco
Iulius, svetolando alcune reliquie che teneva strette al pugno come se
fossero il suo personale stendardo. I soldati, vedendo il religioso
disarmato, ma nel fitto della mischia, ammirati per il suo sprezzo del
pericolo si sentirono incoraggiati a difenderlo. Ma l’umana volontà
nulla può quando entrano in gioco forze soprannaturali e se Aban aveva
davvero un posto nell’empireo celeste, doveva essere affacendato
altrove: può forse un dio misericordioso rimanere insensibile di fronte
alle sofferenze dei suoi figli?
Questi dubbi affiorarono ben presto nella mente di Iulius, mitigando
fino a soffocare il fuoco della fede che ardeva dentro di lui. Tutto
quel dolore, quella disperazione, quelle urla, come potevano rimanere
inascoltate? Il muto interrogativo di Iulius rimase tale, perchè il
religioso si trovò ben presto solo, circondato da innumerevoli schiere
di cadaveri ed ebbe soltanto il tempo di piangere e stringere al petto
quelle poche ossa, emblema di una fede ormai sopita.
La battaglia, iniziata la mattina di quel giorno, a pomeriggio inoltrato
si poteva già definire conclusa e i non-morti, terminata la strage, si
erano ormai allontanati. Il luogo dello scontro era coperto di cadaveri,
ma la presenza dei resti dei non morti abbattuti dava al terreno più la
parvenza di una necropoli dissacrata che di un campo di battaglia Come
d’abitudine in quel triste periodo, il Ladro d’Anime fece la sua
apparizione. Forse aveva assistito sin dall’inizio allo scontro, forse
no; comunque, egli esplorò attentamente il luogo in cui questo era
avvenuto, ma si interessò solo dei morti dell’esercito di Galdor. Tra i
tanti corpi inanimati che giacevano sul campo, intravide un uomo privo
di armatura che indossava il saio tipico dei monaci. Incuriosito, il
mago si avvicinò e si accorse che l’uomo teneva convulsamente qualcosa
in una mano. Quando aprì il pugno del morto vi scorse delle ossa, più
precisamente delle falangi.
“Poveri stolti!” commentò. “Hanno cercato di fermare il mare con un dito.”
Forse, in altre occasioni, egli avrebbe accompagnato queste parole con
una risata sarcastica, ma si trattenne, più rispetto dell’uomo che
giaceva ai suoi piedi che delle sue convinzioni. Era, infatti, assai
raro vedere qualcuno morire per i propri ideali e dopo aver
delicatamente richiuso il suo pugno, si allontanò.

Quando la notizia della sconfitta raggiunse la capitale, venne accolta
con scene di panico e di isteria collettiva. Erano pochi coloro che
piangevano i loro cari: i soldati, come si diceva, erano quasi tutti
originari dell’est. I cittadini, tuttavia, temevano per la loro sorte e
chi non poteva fuggire, chi non disponeva di carri, chi non aveva l’età
per intraprendere un lungo viaggio si considerava già morto e
compiangeva sé stesso con urla degne di una prefica.
Il re e il suo primo consigliere, stranamente, non si mostrarono troppo
turbati; anzi, per calmare gli animi, venne annunciato che il sovrano
avrebbe tenuto un discorso l’indomani mattina nella piazza principale.
All’ora stabilita una grande folla si era riunita per ascoltare le
parole del re: i continui rovesci militari avevano, ovviamente, creato
un clima generale di rassegnazione e scoramento, ma i cittadini della
capitale, molti dei quali nati e cresciuti in città, erano per la
maggior parte ancora restii ad abbandonare i propri beni per una incerta
fuga e nutrivano ancora speranze nel loro sovrano.

“Gente di Milasia!” Esordì il re.
“Cittadini Milasiani! Il momento è grave. Tutti ormai sappiamo della
terribile sconfitta patita dal nostro esercito. Non è questo, però, il
momento della retorica e delle tronfie parole di conforto, quindi sarò
il più breve e conciso possibile. I nostri soldati sono morti con onore,
affrontando un nemico spregevole e malvagio che si è valso dell’aiuto
dei morti per ottenere la vittoria. L’acciaio non può nulla contro la
magia, per questo dobbiamo opporre magia a magia. Il male incombe su di
noi, ma noi ricorreremo a un male più grande per prevalere sui nostri
avversari. Ho dato, dunque, mandato ad alcuni emissari di contattare il
Ladro d’Anime per ottenere il suo aiuto. Non temete! Nulla è ancora
perduto!”

In sede di redazione del discorso, ovviamente curato dal nostro Nicia,
venne considerato più prudente non svelare le vere ragioni
dell’invasione di Alaysia e per questo motivo il sovrano non si dilungò
nello spiegare le modalità d’ingaggio del mago. Le falle retoriche nelle
parole del re erano evidenti: qualche coscienzioso sacerdote avrebbe
potuto contestare l’esigenza di opporre il male al male; senza contare
che, a proposito della recente sconfitta, qualcuno avrebbe potuto
osservare che non era una novità l’uso della magia nei combattimenti.
Bisogna, però, considerare il clima di terrore e paura che aleggiava in
città.

Terminato, dunque, il discorso, il popolo rimase in silenzio per qualche
istante, ma poi prese ad acclamare il sovrano e a invocare l’aiuto del
Ladro d’Anime. Si può dire, dunque, che l’operazione propagandistica
aveva avuto pieno successo, con grande soddisfazione del re e del suo
primo consigliere che l’aveva ordita.
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