abc <
x...@xx.it> wrote:
> > Oro di Napoli, L' Dolorose e tardive spiegazioni ad una intelligente
> > signora (200)
>
> Cosa scrive riguardo alla trasposizione cinematografica del suo libro?
DOLOROSE E TARDIVE SPIEGAZIONI AD UNA INTELLIGENTE SIGNORA
La Signora Hilda L. mi scrive: A suo tempo vidi il film "L'oro
di Napoli", ma il Suo libro, che forse contiene la risposta a una
domanda che Le farò, non lo avevo letto; e mi è tuttora ignoto. Non sono
meridionale; vivo da parecchio nel Sud, eppure molte cose non hanno
ancora finito di sorprendermi. L'episodio del film che m'interessò
maggiormente fu quello in cui appariva Silvana Mangano. Ed ecco il punto
che non mi riusci chiaro: quando Teresa, dopo essere fuggita nella
notte, si calma si rassegna e torna indietro un balcone s'illumina e il
portone si apre. Chi era cosi certo che la poveretta sarebbe tornata?
Non ho seguito l'atteggiamento della suocera e del marito, o invece era
naturale, fatale (secondo l'animo napoletano) che lei s'arrendesse e
accettasse quel martirio? La prego, soddisfi come può, nella sua rubrica
cinematografica, la curiosità di un'affezionata lettrice.
Signora mia, che tristezza. Quando il film tratto dal mio piu
fortunato volume di racconti napoletani fu presentato, io non volli,
s'intende, parlarne da critico. Dissi: fate conto, amici, che il peggio
del film sia colpa mia, e che il poco o molto che esso ha di buono, sia
merito di Zavattini e De Sica. Non potevo essere meno vanitoso, credo.
C'è chi si uccide col revolver, c'è chi si uccide con i barbiturici o
gettandosi dalla terrazza, ma c'è chi (io, io) si uccide con l'umiltà.
La Sua lettera, gentile signora Hilda, e magari anche l'odierna giornata
di libeccio, m'inducono a legare e a imbavagliare la modestia,
finalmente, e a dire pane al pane e vino al vino del libro e del film
chiamati "L'oro di Napoli". Ehi, barbiere, lascia stare guance e mento,
radimi la lingua. "L'oro di Napoli" fu stampato da Bompiani, dopo un
biennio di anticamera, nella primavera del 1947. Lo avevo offerto invano
a Mondadori e a Garzanti: novelle?, dissero, per carità. La media
critica lo sbirciò appena; i grossi nomi, tranne Bo e Carrieri e
Vigorelli e Quasimodo e Rusconi i quali mi assegnarono il Premio Paraggi
a mezzo con Landolfi, lo ignorarono. Che altro c'è sul medagliere
dell'"oro di Napoli"? Tre non richiesti e lusinghieri biglietti: di
Corrado Alvaro, di Alfredo Gargiulo, di Vincenzo Cardarelli. Finito?
Macché, il libro aveva soltanto cominciato a vivere nel momento stesso
in cui qualunque suo rinomato coetaneo riceveva dal pubblico di ogni
ceto l'olio santo e l'estrema unzione. Dieci anni sono trascorsi:
Bompiani, in questi giorni, cura la ventunesima edizione dell'"Oro di
Napoli", esauritosi per la ventesima volta. Un libro che non ha mai
smesso, dal '47 a oggi, di essere venduto un libro che ricorre e
ricorrerà puntualmente oso affermare, come le tasse. Perche? È' una
domanda che nessun pontefice letterario si rivolge. Ma il nostro è un
paese dove Panzacchi ebbe, dalla Cultura e dai Governi, piu lodi e
riverenze di Leopardi. Qui Giovanni Verga diceva a Ferdinando Martini:
<<Ossequi, Eccellenza>>. Forse gli baciava la mano.
Ho divagato, Signora Hilda, mi scusi. Veniamo al film. lo e
Zavattini, che fummo gli sceneggiatori commettemmo un grosso errore. Non
avremmo dovuto abbandonarci alla suggestione panoramica del titolo, che
ci obbligò ai capitoletti, al frammento. La penna è una cosa,
l'obiettivo cinematografico un'altra. Scorci e sintesi e inviti a
immaginare (che spesso formano il pregio di un libro) non sono
concepibili in un racconto visivo. Ma anche ridotta alla nuda sostanza,
ciascuna vicenda, originariamente stivata per miracolo in cinque o sei
paginette, esigeva un intero film. Non ebbe, invece, che dai trecento ai
seicento metri di pellicola, quanti ne usa una belva dei cortometraggi
(aiutata dalle iperboli di Giacomo De Benedetti) per informarci che la
neve alpina scintilla, o che il gregge pascola. Dunque complessi
antefatti enunziati in quattro parole, abbreviazioni, sigle di gente e
di sfondi, caratteri e luoghi intravisti e perduti, come le stelle
cadenti. Quando un personaggio accennava a delinearsi, zac, bisognava
congedarlo a mazzate Nel mio libro la figura del conte giocatore ha,
rispetto al film, questa piccola differenza: che io l'ho mostrato, ora
con pietà e ora con ferocia, dalla gioventù alla vecchiaia; ho detto
com'era giunto a quella sua mortificante e puerile abiezione. Idem il
pizzaiuolo becco, il vessato pazzariello e il saggio rionale, quel
filosofo da tre soldi che fu abbozzato magistralmente da Eduardo De
Filippo nel film. Abbozzato, ecco la parola. Fatti e persone del mio
volume ebbero sullo schermo qualche valido e anche geniale abbozzo (De
Sica è De Sica); niente di più. E, insisto, la colpa fu degli
sceneggiatori e del produttore. O io e Zavattini avremmo dovuto
scegliere e sviluppare un solo racconto ("Personaggi in busta chiusa" ad
esempio, che ha materia per due film), o il produttore avrebbe dovuto
concederci ("Oro di Napoli"? e "Oro di Napoli" sia) tre ore e mezzo di
spettacolo. Ma di Dino De Laurentiis (che noia fonica, Dino, tutte
queste "d" del tuo nome), parlerò in seguito. Veniamo a Teresa.
Nel mio libro, Teresa, come nel film, è una di quelle. Ma il
racconto è imperniato su Nicola Giraci. Io lo presento addirittura
bambino. Ha una rozza bilancia in corpo, l'animale. Presume di
legiferare. Non è il Vito Amante del "Voto" digiacomiano, l'infermo che
geme: <<Santi guaritemi, e sposerò una donnaccia>>. E' semplicemente un
fanatico, un derviscio della giustizia. Offre le nozze a Teresa perché
deve punirsi di aver indotto a morire una verginella. Teresa, quando
apprende la verità, grida: <<Sono il tuo carcere? Lascia fare a me>>. E
comincia puntgliosamente, accanitamente a ingannarlo. Giraci vacilla, ma
si processa di nuovo e il verdetto è che la moglie ha ragione. <<Sconta,
don Nicola, sconta>>, egli mormora; e lui e Teresa (che lo ama)
continueranno a fraintendersi e a patire, finché non saranno abbastanza
indeboliti, e costretti ad aggrapparsi l'uno all'altra per non cadere.
Ne film, essendoci la Mangano, puntammo su Teresa. L'epilogo a cui ci
affezionammo era questo. La donna, uscita di impeto, riconosceva nel
gelo e nel vuoto della città addormentata la sua malinconica, squallida
vita. La casa di Giraci era un porto limaccioso, nebbioso, ma un porto.
Un ancoraggio. Forza, Teresa: non è avvenuta la tua promozione a donna,
ma Giraci ti ha offerto almeno l'agiatezza, la quiete, l'acre piacere di
essere tua. Dunque Teresa, velata di lacrime, correva zoppicando (il
tacco smarrito) verso il portone. Bussava, bussava: e lentamente, su
quel battere del picchiotto, il quadro s'oscurava. Nel buio, per qualche
attimo, si protraevano i colpi. Avrebbero o non avrebbero aperto? Ciò,
per De Sica per Zavattini e per me, non era importante. Volevamo quella
resa incondizionata, e basta. Per noi tutto si concludeva, fra la
polvere e la cartaccia smosse dal vento, nell'angosciosa opzione di
Teresa: due croci e lei che piangendo sceglieva. Ma Dino De Laurentiis
venne e vide; le ghiacciate spesse lenti che blindano i suoi occhi
avevano un che di minerale. E addio.
Rieccoci a Napoli, a girare da capo il finale dell'epilogo, come
lo imponeva Dino. Si accende una luce: il portone si dischiude; entra,
Teresa, entra.
<<E poi?>>, mi chiede la Signora Hilda L., affacciata da una
balza, da un picco di ottime ragioni Ah cara e gentile Signora, ah. De
Laurentiis, al pari di Selznick o di Mayer o di qualunque altro scià
cinematografico, è De Laurentiis. L'arte, questi uomini, la concepiscono
e la frequentano come Nerone. L'empio Dino inflisse all'"Oro di Napoli"
tagli belluini, soppresse il brano del funeralino (che era bellissimo) e
giurò che il film non sarebbe piaciuto a anima viva. Che brutti ricordi.
Un paio di volte, mentre si girava, Dino mi ricevette e parlò con me.
Severo corrucciato, eccelso come Giove sulla nube. <<Canaglia, mi hai
derubato>>, pareva che mi dicesse. Avevo la gola ridotta a una delle
meno accessibili crune d'ago. Mamma mia. Dei temi della nostra apparente
conversazione, De Laurentiis era digiuno come il Conte Ugolino ma il
pezzente cinematografico sembravo io; per poco non m'inginocchiavo
singhiozzando: <<Perdonami>>. Niente, il cine ma è quello che è perché
gli autori dei film sono i produttori: uomini di cifre, abili
organizzatori, chiocce di miioni finti o veri, ma estranei tanto alla
penna quanto alla macchina da presa e che non hanno mai saputo
raccontare un filo d'erba a nessuno. I produttori vengono a sapere dopo
lunghi anni e dopo montagne di premi, che Fellini ha ingegno e che la
Masina è formidabile: cento lettere anonime avrebbero forse anticipato i
loro favorevoli giudizi attuali sulla coppia del giorno. Si dirà: ma gli
editori? Sono letterati gli editori? No (in generale), ma accolgono o
respingono un libro; non lo vivisezionano.
--
http://www.albertofarina.tk