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Quando i comunisti italiani insultavano gli esuli istriani

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Theo Gattler

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Sep 23, 2014, 11:19:30 AM9/23/14
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esuli-istriani/
Quando i comunisti italiani insultavano gli esuli istriani

Di Eugenio Cipolla, il 16 luglio 2014
3cb3fa3e868d4d408bab2a0433b8d14c-1Il treno procedeva lento. Partimmo
da Fiume, destinazione: la Toscana. Dovevamo attraversare l’Italia
che noi immaginavamo generosa e ospitale. Sulle carrozze da carro
bestiame che ci portavano laggiù, c’erano per lo più vecchi, donne e
bambini come me, stipati come sardine. Eravamo infreddoliti,
affamati, i più piccoli piangevano perché man-cava il latte. «Va
bene» pensai «prima o poi ci fermeremo». La prima sosta, per scendere
a sgranchirci le gambe e mangiare qualcosa, fu a Bologna. Finalmente
la stazione.
Il treno rallentò piano piano fino a fermarsi. Ad accoglierci
trovammo tanta gente, con le bandiere rosse. Le stesse di Tito. Non
capivo. Allora mi girai verso la mamma e le chiesi: «Mamma, ma il
treno si è sbagliato? Siamo tornati a Fiume?». No. Erano gli operai e
i ferrovieri comunisti che improvvisavano uno sciopero per impedire
al convoglio di fermarsi nella loro città. «Fascisti, viaaa!»
gridavano. «Siete tutti criminali fascisti!» La nostra patria era
affamata, diffidente. Diversi erano convinti che chi fuggiva
dall’Istria «rossa», dal paradiso del comunismo, fosse un criminale.
Alle dame di carità, arrivate in stazione per darci latte e coperte,
fu impedito di avvicinarsi. Nemmeno il latte ai bambini. Le porte del
treno rimasero chiuse. Non so neanche quante ore passarono, il
viaggio mi parve infinito.

Alla fine io, la mia famiglia e qualche centinaio di «pericolosi
nazionalisti» arrivammo al campo profughi di Laterina, vicino ad
Arezzo. Attraversammo un grande cancello verde, sorvegliato da
carabinieri armati di mitra e circondato da filo spinato. Non ci
aspettavamo una casa, ma nemmeno un campo di concentramento! In quei
ventidue baracconi abbiamo vissuto per quasi dieci anni. Balle di
paglia come materassi, un bagno in comune per venti persone. Con le
coperte appese ai fili di ferro, ogni famiglia cercò di creare la
propria «casa», innalzando dei piccoli divisori tra una «stanza» e
l’altra. Così, giusto per avere un minimo di intimità. Anche se poi
si sentiva tutto: chi parlava, chi litigava, chi rimproverava i
figli, chi la notte cercava di fare l’amore. Magari uno starnutiva e
dal fondo della baracca un altro rispondeva: «Salute!». E poi
l’odore. A ripensarci, me lo porto dietro da una vita intera. Forte,
acre e dolce, uno strano miscuglio del cibo della mensa, della
naftalina del mio vestito, l’unico che avevo, e di quello ancora più
forte, imbarazzante, dei miei capelli. Che non potevano essere
lavati.


Ci siamo vergognati a lungo e abbiamo continuato a portare la
vergogna dentro. Ancora oggi mi sento quell’odore addosso, e non se
ne vuole andare: è l’odore del campo profughi. Mi ricordo il freddo
del 1956, il gelo dentro le baracche senza riscaldamento, e quella
notte che per caso sentii mio padre raccontare a voce bassa che
vicino a Trieste, nel campo profughi di Padriciano, Marinella era
morta di freddo. E questo nome, Marinella, io non lo posso più
scordare. Aveva un anno, Marinella. A sedici gradi sottozero, con la
neve che entrava da porte e finestre, non aveva resistito. Purtroppo
non fu la sola. Per i nostri vecchi era dura: morivano di malinconia.
Mio nonno, per esempio, nel momento stesso in cui arrivammo al campo
profughi smise di parlare. Mai più ho sentito una sola parola uscire
dalla sua bocca. Tutti i giorni lo vedevo camminare avanti e indietro
per i lunghissimi corridoi dei cameroni, poi di botto si fermava
davanti a una finestra, fissava un punto nell’infinito, per ore e
ore. Si asciugava le lacrime col dorso delle mani. Così come i nostri
vicini, che a Fiume possedevano un bel palazzo signorile e ora si
ritrovavano pezzenti. Persone come mio suocero, che in Istria aveva
dei pescherecci e ora faceva il facchino. Per noi piccoli invece era
diverso. C’era la scuola, un campo dove giocare a pallone. Sembrava
di vivere in campeggio.

I nostri genitori, quanti sacrifici hanno fatto per tirare avanti! Si
sono adattati a qualsiasi lavoro pur di non farci mancare
l’indispensabile. Andavano persino a spalare la neve. L’inverno
pregavano Iddio che nevicasse perché per spalare gli davano duemila
lire a notte, e con duemila lire si sopravviveva. Molti si sono
rimboccati le maniche, sono stati capaci di inserirsi. Altri invece
si sono lasciati andare, privi della forza di ricominciare. Tanti
padri si uccisero con l’alcol, alcune donne si tolsero la vita per il
dolore dello sradicamento: come Giovanna, esule da Buie d’Istria,
ritrovata impiccata a un ulivo perché le mancava troppo la sua terra.
Anche loro, in qualche modo, morti di esodo. Vittime, queste, mai
considerate. Per la gente del luogo eravamo «gli slavi», «gli
zingari», «i banditi giuliani». Ci chiamavano così. Col tempo hanno
imparato a conoscerci, abbiamo dato pure noi il nostro contributo
alla società, e siamo stati apprezzati. Fu un esodo, il nostro, che
nessuno portò mai nelle piazze. Ma noi esuli non abbiamo mai
protestato.

Ci vergognavamo, ci sentivamo quasi in colpa per il disturbo:
«Scusate, se ci hanno strappato la nostra terra». Ma nessuno riuscì a
strapparci la nostra dignità. A Fiume ci sono tornato per la prima
volta a sessant’anni. Ho trovato una città molto diversa da quella
che avevo lasciato cinquant’anni prima. Eppure, riconoscevo ogni
sasso. Sono arrivato fin sotto casa di mia nonna senza sbagliare
strada neanche una volta. Casa mia. Nella «città vecia». Un portone
in stile veneziano del Settecento, le scale ancora in legno. Le
stesse che ho fatto milioni di volte, su e giù. Mentre ero li,
immobile, dalla porta uscì una donna: «Sta oces ti?» mi chiese. «Che
vuoi?» Il mio primo istinto fu di risponderle male, invece me ne
scappai via. Come un ladro.

[brano tratto dal libro “Magazzino 18” di Simone Criticchi]

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