Mestieri d’altri tempi. Alla riscoperta del saponaro e dell'uso sociale del baratto.

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Roberto Piantedosi

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Jan 17, 2010, 11:29:47 AM1/17/10
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Da Il Mattino del 5/1/2010



Susciterebbe, oggi, più stupore di un marziano. In un’epoca in cui il consumismo induce a disfarsi continuamente di abiti passati di moda o di oggetti ritenuti obsoleti; in un’epoca in cui l’accumularsi dei rifiuti nelle strade rende necessario l’intervento della protezione civile, lui, il saponaro, sembrerebbe altro che un marziano. Cosa ci fa quel viandante con quel rigonfio sacco di canapone gettato su una spalla? E perché urla: «Saponaro! Roba vecchia!»? Sì, deve essere un marziano, e se invece è un terrestre, è un matto da immobilizzare. Le strade di Napoli (come del resto anche quelle di altre città) erano percorse, fino agli anni del secondo dopoguerra, da un curioso tipo di ambulante che dava con orgoglio la sua voce. Si trattava, a dispetto degli equivoci che il linguaggio approssimativo poteva far sorgere, di un uomo che, praticando il baratto, offriva sapone di piazza (cioè sapone molle da bucato) ma anche in taluni casi piatti di ceramica scadente o lupini salati, in cambio di abiti fuori uso e di oggetti vecchi. A questa insolita figura di lavoratore autonomo, lo studioso Giovanni Leone ha dedicato un simpatico e meticoloso libro. Si avvale di una attenta prefazione di Rosario Bianco e s’intitola, ovviamente, Il saponaro (Rogiosi editore, pagg. 96, euro 12,50). Facendo tesoro di informazioni contenute in antichi testi, che vanno da quelli di Francesco Mastriani a quelli di Matilde Serao, ma anche a poesie di Raffaele Viviani e di Eduardo Nicolardi, Giovanni Leone ci restituisce un’immagine quanto mai viva del saponaro la cui attività e la cui formazione vengono esaminate in ogni aspetto. Scrisse il grande romanziere Francesco Mastriani: «La vita del cenciaiuolo è trista e solitaria. Benché ignaro dell’alta missione che la società gli affida, egli ne sente d’istinto l’importanza, ed è però il più grave e malinconico di tutti i vagabondi industriosi». Simbolo evidente di una società povera, il saponaro era, nella maggior parte dei casi un ex questuante che, inventandosi un lavoro, aveva cercato una sorta di promozione sociale. La conferma di ciò, arriva da una poesia di Raffaele Viviani intitolata appunto «’O sapunariello» e il cui protagonista recita: «Eramo ’a ciento e sidece pezziente; - facettemo ’nu tuocco pe’ vedè - ’a miez’ ’a nuie chi asceva presidente. - E, manco a dirlo, ’o tuocco ascette a me». A quanto pare, nell’Ottocento i saponari, dopo aver racimolato un buon numero di abiti usati, si munivano di detersivi fabbricati nei «bassi» di vico Ferrivecchi, di calata San Severo e di vico storto San Marcellino e passavano il tutto a certe donne del Lavinaio (ove scorreva un ruscello) che provvedevano a un’accurata pulitura della merce. Spesso il sapone di piazza veniva integrato con soda e cenere di camino. Infine i saponari andavano a rivendere tali indumenti ai cosiddetti «pannazzari», cioè ad alcuni commercianti delle traverse di via Medina i quali, dopo averli ulteriormente apprettati, li esponevano nelle loro umili vetrine. E chissà se non sia capitato che chi aveva ceduto un proprio abito vecchio a un saponaro, non lo ricomprasse, come nuovo di zecca, presso un pannazzaro di vico Travaccari o di vico Fontana a Medina.


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