Storie napoletane: Arenella, l'antico villaggio soffocato dal cemento.

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Roberto Piantedosi

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Feb 6, 2010, 1:01:27 PM2/6/10
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Da  Il Mattino del 31/1/10
 
C’era una volta l’antico villaggio dell’Arenella, immerso nel verde e negli orti, dove si coltivava con profitto e si arrivava solo a dorso di mulo, per assenza di strade. C’era una volta dalle parti di piazzetta Arenella la masseria dove nacque il 20 o il 21 luglio 1615 il pittore e poeta e teatrante Salvator Rosa. La casa c’era ancora nel 1938, poi, come da alcuni decenni si era deciso, ovvero dai tempi del Risanamento, iniziò l’urbanizzazione del quartiere e l’antica masseria fu abbattuta. Si pensò, ai primi del secolo scorso, che questa bella collina ubertosa fosse adatta per diventare una piacevole zona residenziale e anche per costruirvi, data l’aria salubre, qualche ospedale meglio esposto delle antiche cliniche o lazzaretti del centro di Napoli. Pare impossibile che in settant’anni l’Arenella, così chiamata perché zona di deposito dei detriti che con le piogge scendevano dai Camaldoli, sia diventata un gigantesco e lugubre quartiere dormitorio, trafficato, puzzolente e iper-cementificato. Oggi, al posto delle vigne, delle antiche case, dei panorami in distanza dipinti dai maestri degli ultimi due secoli, innamorati delle prospettive aeree e arcadiche della Napoli di collina, è possibile visitare labirintici condomini, parchi asserragliati sulla collina dove ogni metro quadro è conteso da auto, motociclette e spazi privati, appartamenti abitati dagli idealisti studenti di liceo di un tempo, dai loro nonni, perché tanti sono i vecchi, e da famiglie invischiate ogni giorno in una routine senz'aria, ma affollata di negozi, supermercati e acquisti. Non c'è più un filo d'erba a piazzetta Arenella e nelle zone circostanti. Di Salvator Rosa è rimasta da qualche parte una statua; dei tratturi per asini oggi si sente la mancanza mentre si scalano le strade dedicate ad architetti e pittori (via Domenico Fontana, via Battistello Caracciolo) bestemmiando fra scali di prima e seconda, tossendo e preparandosi la fossa. Di piazzetta Arenella oggi si può dire che c'è una grande e famosa friggitoria, che in zona ci sono scuole e un cinema, che ci sono, come si dice di solito, tutti i servizi. Manca solo un po' di bellezza. Però, nei parchi condominiali che la circondano si possono mandare i figli da una palazzina all'altra, per le feste di compleanno, per fare i compiti, per sognare un mondo a misura di Vomero, che con l'antico etimo del vomere per l'agricoltura più nulla ha a che fare. Fa ancora più strano che in questo periodo, nella non lontana Villa Floridiana, siano esposte le eleganti masserizie secentesche e settecentesche che si usavano nei rari palazzi della zona e nella città marina: cassettiere di legno intarsiate che illustrano il diluvio universale e che su ogni cassetto immaginano coppie di cervi, farfalle, grifoni, lupi, anatre, leoni, daini, cinghiali, draghi, colombe, aquile, scimmie e dromedari; coltelli d'argento con la lama in forma di spuma marina, reliquiari preziosi, sedie impuntate di pelle fiorata, scacchiere di madreperla, alzatine d'argento, trionfi di corallo e specchiere trapanesi. In una stanza, incantevole, gli allestitori hanno simulato un cofanetto di gioie, una privatissima wunderkammer, il cui tetto si solleva perché due occhi gulliveriani ci osservino mentre spiamo i servizi di tazze e di piatti disposti per le gioie culinarie della nobiltà. Un quadro all'ingresso mostra l'interno di una casa secentesca: grandi quadri alle pareti, pochi mobili, un cagnetto accovacciato e una finestra da cui si spia una abbondante e verdescente natura. Da molte case dell'Arenella un tempo si sarebbe potuto vedere altrettanto, oltre al panorama del golfo. Si stringe lo sguardo a pensare alle vetrinette che le case intorno alla piazza senz'altro conservano, segni di una borghesia resistente, legata agli ori e alle gioie, come nei racconti di Domenico Rea, alle piccole cose, non tutte belle, ereditate dai nonni e dalle zie, alle collezioni ossessive di dischi in vinile, di scadenti o buoni pezzi di Capodimonte, ai servizi di piatti, bicchieri e tazzine, ai portaombrelli con i bastoni per passeggi che non si fanno più, il tutto illuminato da neon, da lampadari di Murano o d'ottone o di design anni Settanta. La televisione è accesa, le medicine, tante, troppe, sul comò, la cucina con gli odori stagnanti del già cotto o con la perfetta asetticità dei detergenti fabbricati nei paesi dell'Est e rivestiti di marca occidentale. Aromi sintetici, modernità uniforme e insieme vecchie stampe, angoli bui, carte da parato che non si possono cambiare, qualche veduta di Napoli com'era, bicchieri d'acqua sempre pieni (come nel capolavoro di Manlio Santanelli, Regina madre) per anziane signore avvampate. Nessun rumore e tanta confusione. Dove c'è pace, c'è qualche pensiero che travaglia una famiglia, liti sopite, discorsi mai compiuti, un alone di morte offuscato col Vetril. Pure, si va in piazzetta Arenella al cinema, al teatro, a fare spese, come se niente fosse, perché davvero niente poi è. Gli ospedali salubri idealmente immaginati negli anni Venti sono un reticolo nascosto più in alto, un dedalo di strade che fingono il verde fra case cubiche di sofferenza. È come se il Vomero si fosse ammalato, non si sa bene di cosa e in quest'eterna attesa di prognosi sciolta i colori s'incupiscono anche sulle belle e rare case liberty, sui resti di vetrata colorata; e bisogna proprio correre alla Floridiana o scappare alla Certosa di San Martino per riprendere aria, per rialzare il cuore, perché pare impossibile che per cose così futili come il guadagno, la speculazione, la pretesa di avere il balcone o di stare vicino «ai servizi» una città si sia giocata la luce, l'aria pulita, la bellezza, il silenzio.



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