Ai Banchi Nuovi le piazzette da raccontare sarebbero tre, due con chiesa e una con palazzo: largo Santa Maria la Nova, con l’omonima, strepitosa, chiesa, con il cortile monumentale e la sala affrescata, in prestito da molti anni alla Provincia di Napoli; piazzetta Teodoro Monticelli che è tutta rappresentata nel bellissimo Palazzo Penna o Penne; e Largo Ecce Homo, confortato dalla vicina presenza, fra gli altri edifici sacri, della chiesa di Santa Maria dell’Aiuto, capolavoro barocco di Dionisio Lazzari. Si può forse scegliere? Non si può. Anche perché le tre piazzette hanno in comune una storia relativa alla toponomastica dell’intera zona, i Banchi Nuovi. Qui, a seguito di un diluvio quasi universale caduto su Napoli dal 9 al 10 ottobre 1569, che uccise ben ventiquattro persone, si trasferirono i mercanti che venivano dai cosiddetti Banchi Vecchi, dietro Santa Chiara, inaugurando un uso tutto nuovo della zona durazzesca su cui era sorto Palazzo Penne, ovvero il palazzo del diavolo. Certo, per difendersi da un palazzo diabolico, le chiese dovevano sorgere numerose, accorrere armate per ridare candore alla zona - un quartiere rimasto povero, nonostante le ricche costruzioni, tanto che, quando in Piazzetta Ecce Homo venne ad abitare, reduce dalla Grecia, Matilde Serao, la faccia dell’Ecce Homo custodito nell’omonima chiesetta indicava già nel detto popolare fame atavica, debolezza e privazioni. E se nella grandiosa chiesa dell’Aiuto trionfano le architetture del Lazzari, come nella marmorea Santa Maria La Nova regnano stupore e luce, secondo le direttive del barocco, è anche vero che i grandi quadri di Gaspare Traversi conservati in Santa Maria dell’Aiuto parlano d’altro: Traversi, solitamente cantore della piccolissima borghesia e del popolino, di sorridenti e beate facce sdentate su vestiti buoni, vestiti per la festa, di matrimoni combinati e spinette che stonano nei quartini, di cagnetti rosicchiaosso e matrone dal neo peloso, squillano, sia pur nel tema sacro, come trombe che annunziano il giudizio finale. Qui, raccontano, bisogna porre rimedio: alla peste, alla povertà, al malcostume. Si ride e si fa ammuina, sì, ma attenzione che tutto è apparenza. Tuttavia, tornando a Piazzetta Teodoro Monticelli, possiamo profittare almeno di un po’ di buone pratiche illuministiche: la piazzetta prende il suo nome da un famoso vulcanologo, docente, rettore e patriota brindisino, vissuto a cavallo fra diciottesimo e diciannovesimo secolo, che abitò palazzo Penna (o Penne) acquistandolo di ritorno dalla prigionia sull’isola di Favignana, accusato d’essere giacobino. Monticelli poté effettuare l’acquisto per merito dell’editto di Giuseppe Bonaparte che, abolendo gli ordini religiosi, sottraeva agli ultimi proprietari il palazzo adibito a convento. Il palazzo divenne così un visitato museo mineralogico con più di 16.800 pezzi esposti, riferimento per botanici, zoologi, astronomi. Prima però che la scienza risanasse il palazzo, la storia della piazza era tutta una tenebrosa leggenda che ancor oggi, intrufolandosi nel cortile abbandonato, si annusa fra pietre spezzate, tombini mal chiusi e antichi pozzi che, nella migliore tradizione medievale, conservano oscuri segreti. La storia narra che Antonio de Penna (o de Penne), segretario di stato di re Ladislao, invaghitosi di una bella fanciulla recalcitrante, avesse obbedito a un desiderio di lei (desiderio che a molti pretendenti veniva somministrato per tenere a bada i Proci), ovvero edificare un palazzo in una notte. E che vi vengano in mente le favole di Afanasev, le Veglie alla fattoria di Dikan’ka di Gogol o le novelle di Masuccio non importa: la leggenda vuole così e bisogna credere che il povero segretario, antesignano dei travet e dei burocrati messi in berlina ne Il naso o ne Il cappotto, avesse effettivamente stretto questo patto e tirato su il capolavoro durazzesco giunto, almeno in parte, fino a noi. Ma da buon passacarte Antonio de Penne aveva previsto anche una clausola, da rivelarsi al diavolo solo dopo la realizzazione dell’opera. Il bidone fu che la ragazza, patto o non patto, nonostante il palazzo fosse sorto come aveva richiesto, si era già promessa ad altri. Il segretario, masticando amaro, dovette perciò vedersela col demonio per il quale aveva preparato una prova: toccava al povero diavolo raccogliere un mucchio di grano sparso nel cortile e contarlo fino all’ultimo chicco, ne fosse mancato anche uno solo l’anima di de Penne non gli sarebbe più spettata. Per di più, il segretario aveva sparso nel cortile un bel po’ di pece e i chicchi restavano attaccati alle unghie del diavolo così che il conto non tornava mai. Con questo bell’espediente, Antonio de Penne se la cavò, il diavolo andò in fumo e in una vampata sparì dentro il pozzo che ancor oggi s’intuisce al centro del cortile. Oggi chi passa per la piccola piazza, dopo aver salito la pendenza di Largo Santa Maria La Nova, e si affaccia poi su piazzetta Ecce Homo ha forse l’ultima vera immagine della Napoli medievale, nonostante il barocco l’abbia ridisegnata: i vicoli, le scale, le volte, se eliminiamo cassonetti, abusivismi e i molti e vari segni della contemporaneità, somigliano a certi anfratti senesi, alle cupe discese dei villaggi dei Pirenei o del centro Europa, dove un’eco di zoccoli di cavallo permane. I pochi resti del periodo durazzesco si chiudono intorno a due epigrafi latine, una attribuita a Marziale: «Così il volto esprime un’espressione corrucciata e non guardi a queste cose con piacere: tu invidi tutti, nessuno te»; la seconda con la data di costruzione del palazzo, il 1409, e l’inizio del regno di re Ladislao, il 1389: «Nel ventesimo anno del regno di Re Ladislao le case sono state fatte; trascorrono 1604 lunghi anni (mille fluunt magni) senza che siano state lese da alcun evento (nullo sint turbine fracte)». Non il diavolo ma tale Antonio Baboccio da Piperno fu l’architetto, accanto alla cui opera sorge anche la bella chiesa del Seicento di San Demetrio e, di fronte, Palazzo Palmerice, edificio di tondo barocco sorto sulle linee di un odèion romano. Un bando del 1773 affisso all’esterno ordina al popolino il silenzio: avvisa tutti di non sedersi, non fare rumore e non dare fastidio sotto il palazzo. Oggi il silenzio invece incombe perché non sono più i Banchi Nuovi il cuore pulsante della città, nemmeno quello abitato dalla varia umanità di Matilde Serao. È un silenzio strano, un po’ spaventa.