(da: Mario Buonoconto – Napoli esoterica – Tascabili Economici Newton - 1996, Roma - Newton Compton editori s.r.l. – pp. 56-58)
Le ritualità del fuoco riproposte sotto il velo di feste religiose della tradizione cattolica, che in epoca paleocristiana ha assorbito e rivestito, per così dire, di “sacre vesti” moltissimi rituali pagani precristiani, si ritrovano, seppur con connotazioni diverse, in tutte le civiltà contadine della nostra terra campana.
In particolare, la sera del 17 gennaio, giorno dedicato a Sant’Antonio Abate, era d’uso ed è, per la verità, tuttora in uso in alcuni dei quartieri più popolari di Napoli, nonché in provincia, dove spesso oggi sopravvivono tante di quelle antiche tradizioni un tempo vivissime tra il popolo napoletano, in improvvisati falò nei vicoli e nelle piazze della città bruciare vecchie sedie, tavoli sgangherati e tutte le varie suppellettili di legno delle quali ci si voleva disfare e che si accatastavano durante l’anno in attesa “d’ ’o cippo ‘e Sant’Antuono”.
L’origine pagana della pira risulta evidente, anzi in quest’ottica acquisiscono una valenza alchemica le ritualità riguardo al fuoco purificatore: il fuoco distrugge tutto ciò che non risulta più utile, quanto cioè è, in effetti, “morto”, divora tutto quanto gli viene offerto, rigenerando poi la vile materia, per così dire, “ingerita”. Le copiose ceneri dei “cippi” venivano infatti divise poi tra le donne dei vicoli perché elemento necessario alle “culate”, colate cioè di acqua bollente sulla cenere posta sui panni sporchi nei tradizionali mastelli detti “cufenature”, trasformandosi in liscivia profumata, quindi nelle schiume biodegradabili e purificanti, che venivano in seguito fatte scorrere lungo i vicoli fino alla fogna più vicina.
Una chiara simbologia alchemico-templare della festa la si può altresì cogliere a cominciare dalla stessa rappresentazione iconica del Santo: tradizionalmente un vecchio barbuto con un bastone (l’abacus degli antichi iniziati) ed il libro della Sapienza (l’antico grimorio degli alchimisti) sormontato dalla fiamma dell’adepto; accanto al Santo un maiale accucciato ai suoi piedi.
Da questa evidente simbologia alchemica all’antica arte della farmacopea esoterica il passo è breve, ricordando la tradizione di quel lardo “trattato” che i monaci speziali preparavano nella spezieria del convento annesso alla chiesa di S. Antonio Abate e che veniva usato per lenire le acute sofferenze di quell’herpes chiamato da sempre a Napoli “ ‘o ffuoco ‘e Sant’Antuono”.
Un ulteriore elemento tipico della simbologia alchemico-templare-esoterica, oltre al volto barbuto del Santo, simbolo di saggezza, caro ai Templari, al bastone simbolo di comando sulle forze occulte, al Libro Sacro simbolo di conoscenza iniziatica, è il tau, notissimo segno di chiara origine templare, ricamato sul saio dei monaci speziali di S. Antonio e dello stesso Santo, spesso associato in alto con la fiammella che si trova anche sul Libro Sacro. E questo segno doveva trovarsi impresso sul maiale che veniva offerto al convento affinché se ne ricavasse il grasso necessario agli unguenti. In mancanza di qualcosa che somigliasse, anche molto approssimativamente, al segno, si accettava qualsiasi bestia segnata in modo insolito.
E’ interessante anche questa simbologia del maiale, animale che divora tutto ciò che gli viene offerto: frutta marcia, verdure andate a male, resti dei pasti; come il fuoco dei “cippi”; entrambi si nutrono di risultanze domestiche che altrimenti andrebbero buttate perché divenute vili, ed entrambi, il fuoco ed il maiale, rigenerano la materia “ingerita”, producendo, in quest’ultimo caso, cibo, grasso e il lardo che i monaci impiegavano nella loro spezieria.
Un intero borgo, ‘o buvero ‘e Sant’Antuono, fiorì in epoca angioina intorno alla chiesa ed allo spedale, voluti nel 1370 dalla regina Giovanna I su di una precedente chiesetta voluta nel 1313 da re Roberto il Saggio per i monaci Antoniani. Le cronache non dicono su cosa fu edificata la primitiva struttura religiosa, ma è facile immaginare che i mastri costruttori medievali di cattedrali francesi, venuti ad operare a Napoli al seguito dei d’Angiò, scegliessero il luogo con tutta l’antica sapienza iniziatica che quelle corporazioni possedevano da sempre; siamo inoltre proprio negli anni della condanna e delle successive persecuzioni dei Templari e molti di essi, fuggendo i roghi francesi, si rifugiarono in altri ordini monastici, portando con sé i loro tesori di conoscenza.
Il fatto è che ben presto i monaci napoletani di S. Antonio cominciarono a produrre il magico unguento che riusciva a lenire “ ‘o ffuoco d’ ‘a carne”, ingratamente detto di S. Antonio, come se il Santo ed i suoi monaci lo procurassero invece di contrastarlo.
Tra alterne vicende storiche, i monaci di S. Antonio Abate continuarono ad occuparsi del fuoco di S. Antonio, sino almeno a tutto il XIX secolo, anche se, una volta perdute le antiche conoscenze esoteriche, si limitavano ad offrire un simbolico pezzetto di lardo avvolto nell’immaginetta del Santo, che difficilmente, fatta salva la buona volontà e la devozione, otteneva alcun beneficio, tanto da far nascere tra il popolo il gustoso detto “so’ rummaso c’ ‘o llardo int’ ‘a fiura” (son rimasto col lardo nel santino) a significare il totale fallimento di una operazione ritenuta, in origine, facilitata da qualche aiuto potente e/o superiore.