Daria.
Ma la storia di Asia comincia molto prima. Inizia con la bambina dagli
occhi muschio-e-menta che passa ore alla finestra a guardare nella
piazza dove di fianco all'aiuola sostano alcuni tassì. Due, tre,
mai
di più. Dall'aiuola si innalzano alcuni giovani pini ad ombrello e
la
terra è cosparsa di ghiaia, al di là si intravede il
muro di un
giardino. L'estate, quando si sporge, la bambina arriva a vedere uno
scorcio dei prati di Valle Giulia e il fioraio che ha il banco
all'inizio della discesa verso viale delle Belle Arti. Il palazzo dove
abita non ha giardino, è un palazzo alto di marmi e uno
scuro
corrimano di noce africano gira lungo le scale. Nell'ascensore chiuso
come una scatola sono incastrate alcune stampe della campagna romana e
un sedile di pelle imbottito. Su quel sedile siede sempre Ulpiana
quando tornano a casa.
In realtà la storia comincia ancora prima, al tempo del matrimonio
di
Daria e Luciano. Il "matrimonio d'amore" come dicevano i cugini
Dolidoff, non senza una certa ironia riguardo a quell'amore anche da
parte delle zie Varvara e Lisa. Le "tantinettes" come venivano
chiamate. Un diminutivo gentile per le due sorelle che mai si erano
volute sposare per non perdere il loro glorioso cognome dopo che la
Rivoluzione le aveva costrette alla fuga. Ricche ereditiere senza
più
eredità che avevano resistito a lungo prima di imbarcarsi per la
rotta
Odessa-Costantinopoli, il sacchetto dei gioielli cucito addosso.
Non si lasciavano mai; e quel giorno avevano parlottato a lungo nella
loro impossibile lingua mista di russo e di francese mentre
l'occhialino aveva seguito critico il giovane sposo che si inchinava,
baciava mani, si muoveva leggero con le scarpe di coppale nero che
scricchiolavano lucenti. Il tight tagliato da Caraceni, la nuca
azzurrognola dove la macchinetta per rasare i capelli aveva
più
infierito.
Sarcastico anche lo zio ebreo di Kiev che non sopportava l'odore delle
tuberose, l'unico che avesse salvato quasi per intero il suo
patrimonio. Si era appartato in un angolo offeso: tuberose ovunque,
perfino al centro del buffet tra vassoi di galantina e fagiani
ricreati con le loro piume dorate. Tuberose intense, carnose come la
giovane sposa dalle guance rotondette e gli occhi lunghi e sottili
chiusi nella piega delle palpebre. Possibile una tale mancanza di
riguardo? "Oh zio Lev, non te la prendere, me ne ero dimenticata..."
Una nuova generazione decisa a farsi avanti a ogni costo, pronta a
usare i merletti delle tovaglie di famiglia come a sbandierare le
azioni della miniera in Siberia diventate pura carta straccia.
Daria si china sulla poltrona e lo bacia sui baffi le sue labbra
scottano come avesse la febbre, poi le labbra scendono sul naso, il
naso no dice lo zio Lev; si sente sudato e la scaccia come fosse una
mosca, Daria ride, quell'accattivante, irresistibile suono dalla sua
gola. "Ma almeno i confetti li vuoi?" "Qui, - risponde lo zio Lev, -
me li devi portare qui" e il grosso indice punta il palmo arrossato
della mano quasi lui volesse su quella mano Daria intera con il
vestito da sposa e il merletto. Daria si drizza, le gambe scattano
nelle calze di seta bianca, oscilla il piccolo diadema intrecciato di
fiori d'arancio. Una giravolta ed è già via, il vestito corto
davanti
si allunga in una coda frusciante che sembra partire dal piccolo
sedere eretto. Lo zio Lev sbuffa, lo sparato del tight lo soffoca e il
frastuono del salone è simile a quello di una grande voliera. Lei
è
tornata dal marito appena sposato e gli si stringe al braccio mentre
da lontano le zie Varvara e Lisa richiamano la sua attenzione agitando
l'occhialino: sta arrivando Aliona Bobrinska. Lenta, bionda, solare.
Tre volte bacia Luciano sulle guance e il suo profumo sembra chiamare
a una intimità più profonda. L'intimità di Aliona
Bobrinska. Non male:
le aigrettes del cappello come immense ciglia solleticano il viso di
Luciano. Un attimo; e la Bobrinska ha già notato le sue
ghette
perfette, la perla sul raso grigio della cravatta e quel sorriso quasi
disumano nella sua lucente compattezza: uno sposo bruno olivastro per
una sposa bianco-magnolia.
Una giovane coppia riprodotta in formati diversi dove Daria siede su
una sedia di tipo imperiale e Luciano è ritto al suo fianco.
Console
di fresca nomina porta sul risvolto del tight il distintivo fascista e
schiude a perenne ricordo le labbra sul candido semicerchio dei denti.
Daria è seria, le mani raccolte sul mazzolino di fiori d'arancio,
al
dito il rubino regalato dallo zio Lev.
Poi ci furono le fotografie scattate in viaggio di nozze quando la
felicità era d'obbligo: Daria con un ombrellino da sole e un
vestito
bianco orlato di probabile blu. Daria e Luciano insieme fra le palme
di un albergo a Rabat. Luciano in costume da bagno di maglia serrato
in vita dalla cintura bianca, il petto in fuori e il sorriso
condiscendente verso la sposa-fotografa. Ancora lei, un asciugamano
copre a malapena l'abbondanza dei seni. Una fotografia vergognosa; le
zie Varvara e Lisa chiudevano in fretta l'album. Poi tornavano a
riaprirlo, l'occhialino puntato su quella mano che reggeva sì e
no
l'asciugamano. "A Rabat, hai detto?" come se il luogo determinasse la
perdizione. "Sì, sì, a Rabat". Le tantinettes tornavano a
girare le
pagine spesse e verdastre: ecco Daria in mare fino alle anche, la
cuffia di gomma come una buccia sulla testa da cui sono sparite
perfino le orecchie. Ride, la bocca è grande, gli incisivi
distanti
fra loro, le mani si intrecciano sul ventre sporgente. "Oh..." si
lasciava sfuggire zia Varvara disgustata: il costume di lana disegna
rotonda la pancia: là dentro è racchiusa Asia.
Lo zio Lev veniva quasi ogni sera. Al suo suono imperioso del
campanello seguiva poco dopo il suo tonante "Daria, dov'è
Daria?"
mentre Ulpiana cercava sulla cassapanca un angolo libero dove posare
il soprabito e il cappello, la sciarpa di seta bianca. La bambina Asia
lo guarda, le piace l'odore dei baffi dello zio Lev, tabacco e lavanda
insieme, e aspetta che lui si chini a baciarla. Ogni volta un brivido
al contatto peloso della sua testa (Lev, ha detto Ulpiana, significa
leone in russo). Daria arriva, esuberante e carnosa come il giorno
delle tuberose e lo zio Lev l'accoglie nelle sue braccia. É troppo
per la bambina che vorrebbe una madre sottile e malinconica. La casa
si riempie delle loro voci. Gridano, ridono. Più ancora
quando
arrivano i cugini Dolidoff e a tavola ruttano e scoreggiano come se
fosse la cosa più naturale del mondo.
Daria suonava l'arpa e lo zio Lev le sedeva accanto fumando e al
chiasso subentrava il suono equoreo e gutturale delle corde, il fumo
amaro del sigaro. Daria sfilava le scarpe e i piedi si muovevano
sottili seguendo il ritmo delle note; a volte toglieva anche le calze
abbandonandole in un mucchietto in terra, le gambe bianchissime e i
piedi improvvisamente selvaggi, lo zio Lev la guardava tirando lunghe
boccate dal sigaro, le note come piccoli scoppi di mortaretti. "Che
razza di musica, spaventi la bambina!" le diceva in russo ma i suoi
occhi brillavano. Daria si fermava lasciando quasi crollare la testa
contro le corde dell'arpa, i capelli che scoprivano la nuca incavata
nel mezzo; e non si capiva se ridesse o piangesse.
In cucina Ulpiana girava la maionese mentre con l'altra mano lasciava
gocciolare l'olio dall'ampollina, la ciotola stretta fra le gambe.
Asia la guardava con i gomiti appoggiati sul tavolo. "Impazzisce?"
chiedeva speranzosa. Momentaneamente sospeso ogni interesse per la
finestra sulla piazza. Di là, dal salotto, non arrivava
più alcun
rumore; il silenzio rotto solo dal battere del cucchiaio di legno
nella ciotola fra le gambe di Ulpiana.
I cugini Dolidoff erano principi (ma in Russia, spiegava Daria, era
facile essere principi) e Ulpiana era tenuta a dargli il loro giusto
titolo anche se il più giovane, Dolenga, prima di pranzo, entrava
in
cucina dove lei stava friggendo le patate e le mangiava una via
l'altra, attento a non scottarsi le dita. Ogni tre o quattro che
metteva in bocca, come atto supremo di gentilezza, quasi si rivolgesse
alle pentole di alluminio tristemente appese al muro, "Très
bon!"
sospirava, precipitoso in quella erre.
"Al principe io gli darei un pugno in bocca" diceva Ulpiana con le
lacrime agli occhi non appena lui usciva pulendosi l'unto delle dita
al canovaccio Ma a tavola, quando le patate si sparpagliavano rade nel
piatto offerto da Ulpiana, nessuno diceva niente perché il
cugino
Dolenga mentre scappava dalla Rivoluzione era stato infilzato da una
baionetta che ispezionava il carro dove era nascosto; e da allora
qualcosa non aveva più funzionato, le parole gli uscivano
a
singhiozzo. Così lui aveva scelto il silenzio. E anche se era
bello,
bruno, pallido, era come se tanta bellezza non contasse più nulla,
si
fosse inabissata e perduta nell'indifferenza del mondo.
L'altro invece, il maggiore, Alec, era zoppo e parlava sempre di
donne. Sembrava che tutte lo volessero sposare o almeno "fare coppia"
con lui. Erano tante, non si sapeva mai quante. Daria lo ascoltava
appoggiando il mento sulla mano e quando rideva comparivano gli
incisivi larghi fra loro, un piccolo spazio che rendeva quel sorriso
così particolare. Che forse anche lei voleva "fare coppia" con
il
cugino Alec? La bambina Asia la guardava con apprensione. Lo zio Lev
accigliato rincorreva nel piatto le polpette che si sfacevano fra i
piselli, poi raccorpava il tutto e lo succhiava veloce dalla
forchetta, "Cus!" (balle) diceva con il boccone ancora in bocca.
Parola magica che faceva diventare paonazzo il cugino Alec. Lo zio Lev
levava lo sguardo verso Daria, ogni cibo sparito nel folto dei baffi.
"Cus!" ripeteva trionfante, e scoppiava in una risata.
A quel tempo Luciano aveva già lasciato la casa. Era stato
nominato
primo segretario a Helsinki e Daria non lo aveva seguito. Il viaggio
troppo lungo aveva detto, e il clima cattivo per la bambina. Ogni
tanto tornava in Italia ma invece di abitare con loro andava a casa
della madre. "Per via dell'ordine" diceva Ulpiana; e non si capiva se
si trattava di ordine domestico o altro ordine supremo che riguardava
la sua carriera. Da loro veniva "a pranzo" e Ulpiana metteva il fiocco
pulito in testa ad Asia poi cercava di riordinare l'ingresso ficcando
ogni cosa nella cassapanca. Dalla finestra Asia lo vedeva scendere dal
tassì dal lato opposto della piazza per comprare il giornale,
poi
traversare a piedi in fretta come se fosse perennemente in ritardo, il
lungo cappotto color miele che ondulava nel passo. Il suo cappello
cambiava spesso, talvolta erano berretti sportivi come quando era
tornato da Londra e la gente si voltava a guardarlo. Ma se era estate
portava il panama bianco con un nastro a righe, nessuno lo aveva come
lui e Asia lo riconosceva dal momento che la sua testa sbucava dal
tassì, ancora prima che si avviasse verso il giornalaio. Subito
gli
guardava le mani per capire dal volume del pacco la consistenza del
regalo. Ma quando composta e gentile gli andava incontro nell'ingresso
ogni speranza si affossava: era sempre la medesima scatola di biscotti
Lazzaroni che lui aveva comprato al volo passando con il tassì
di
fronte a Ruschena e di cui ora si dilungava a magnificare i pregi, il
sorriso malizioso rivolto a Ulpiana che immaginava futura predatrice,
la mano a sollevare furtiva il coperchio di latta.
Mangiavano loro tre, Daria nel mezzo, alternando una conversazione
stentata al coscienzioso masticare di primo, secondo con contorno e
dolce. Cibi che tradivano l'apprensione e la confusione di Ulpiana e
scendevano faticosamente nello stomaco di Luciano che mai avrebbe
ruttato come i cugini Dolidoff e si limitava a un leggero sussulto, il
viso olivastro colpito dalla luce delle grandi finestre impassibile
nelle sue sfumature marmoree; e nulla sembrava turbare la quiete del
pranzo scandito dal rumore delle posate nei piatti e il tono finto
scherzoso di Luciano riservato ad Asia, i passi di Ulpiana un poco
strascicati che morivano una volta arrivati al tappeto.
I pasti con i cugini Dolidoff erano invece tutt'altra cosa. Non di
rado a loro si univa Aliona Bobrinska e allora si preparavano gli
antipasti con ogni genere di funghi: porcini, gallinacci, boleti
gialli, chiodini. I funghi marinati o salati venivano serviti insieme
alla panna acida che faceva storcere con disgusto la testa a Ulpiana.
Restavano in quelle occasioni a tavola finché la luce obliqua
del
pomeriggio non arrivava a sfiorare il rosso cardinalizio del tappeto;
e per rendersi interessante il cugino Alec cominciava a parlare di
Hitler. Diceva che li avrebbe riportati tutti in Russia e loro
avrebbero riavuto gli zuccherifici e probabilmente anche le miniere
d'oro in Siberia. Discorsi che facevano infuriare lo zio Lev che
sbatteva allora la forchetta sul piatto e digrignava i denti. Hitler,
gridava, di sicuro non avrebbe restituito niente a nessuno, anzi
avrebbe portato via loro quello che ancora possedevano. La Bobrinska,
sazia di antipasti, i grandi occhi inteneriti dal vino, sorrideva
indulgente. Tutti sapevano che molto giovane aveva simpatizzato per
Kerenskij e la sua parte di azioni della miniera in Siberia l'aveva
già perduta il padre in speculazioni sbagliate. Poi ruttava
dolcemente
guardando il muto Dolenga e Asia avvertiva il suo fiato di cetriolini
e funghetti. Ma la discussione poteva farsi più aspra e il cugino
Alec
levare oscure minacce, allora lo zio Lev lasciava piombare il pugno
sul tavolo e tutto tremava, il vino sembrava sul punto di dilagare
sulla tovaglia e la Bobrinska aveva un fremito, il collo le si
riempiva di macchie. Solo Daria non mostrava nessuna apprensione;
perfino la volta che lo zio Lev lanciò il tovagliolo in faccia
al
cugino Alec e lui si alzò per prenderlo a schiaffi, lei chiusa
fra
loro due invece di spaventarsi scoppiò a ridere eccitata come
una
bambina. Che ne sapeva lei delle miniere in Siberia, degli
zuccherifici! La Russia era ormai solo un lontano ricordo di estati
polverose: Kamenka, il cavallino Tadeus...
Quando tutti erano andati via Asia si installava nella poltrona vicino
alla radio e mentre il sole si ritirava lentamente inondando di una
luce infuocata la stanza, assaporava l'odore di tutte quelle presenze.
Un odore che si annidava nelle tende che la polvere aveva reso fragili
e bastava un niente a lacerarle, nel tappeto dove vecchie molliche e
indecifrabili frammenti di cibo facevano ormai talmente parte della
trama che sarebbe stato impossibile snidarli; e d'altronde nessuno ci
pensava mai. Ulpiana rientrava per rimettere i piatti nella credenza e
immaginando che si fosse immalinconita la circondava con il suo corpo
grasso e giovane. La carne delle braccia che traboccava dalle maniche
rimboccate l'avvolgeva allora come un'onda mentre la sua voce le
sussurrava all'orecchio: "ciazzi, ciazzi", storpiatura di quel Shatzi
in auge nei pochi anni che una bambinaia tedesca aveva abitato la
casa, quando ancora Daria e Luciano giocavano alla felicità.
Un periodo testimoniato da una ultima serie di scatti della Kodak dove
papà e mamma tengono in braccio Asia, le teste così
vicine da
confondersi insieme. O fanno con lei un castello di sabbia al Lido di
Venezia. O ancora a Parigi dove Luciano e Daria si tengono a braccetto
davanti all'Opérà. Ma proprio a Parigi era avvenuta una
delle loro
prime, memorabili litigate, e Daria aveva lanciato dalle finestre del
Grand Hotel un intero servizio della colazione, vassoio incluso.
La bambina Asia poggia la fronte al vetro, conta le gocce di pioggia
che cadono in una ciotolina poggiata sul davanzale. Lo zio Lev scende
da un tassì che va ad affiancarsi all'altro lungo l'aiuola.
Ulpiana
stira quelli che chiama "i vecchi stracci", abiti di seta o di voile
con la fodera strappata tenuta insieme da una spilla da balia. Daria
suona l'arpa e quando sente il campanello si interrompe per andare
incontro allo zio Lev; e dopo poco la musica ricomincia al punto
là
dove si era interrotta. Lo zio Lev ama ascoltarla seduto nella
poltrona dai braccioli dorati, il sigaro fra i denti. Se non sopporta
l'odore delle tuberose sa apprezzare quel vago effluvio che emana dal
rossetto una volta passato sulle labbra. Ma il meglio, dice, è
la
cipria di Caron. Prende Asia sulle ginocchia e la fa dondolare al
suono dell'arpa, a Asia piace lo zio Lev e non trova niente di strano
nel fatto che la mamma lo abbracci e lo tenga stretto al suo corpo
caldo. Ma Daria lo fa raramente, non forse così spesso come lo zio
Lev
desidera, e continua a suonare con gli occhi bassi, le note come
cascatelle d'acqua, fonde e sublimi. Chi ama adesso la mamma se non
ama più Luciano e quando lo vede gli occhi le si rinserrano ancora
di
più nella piega delle palpebre, metallici, viperini? Forse il
cugino
Alec che non vuole "fare coppia"? O il conte Salazar che abita
l'appartamento di fronte e le apre premuroso la porta dell'ascensore,
la scorta fino alla soglia di casa fermandosi discreto davanti al
disordine selvaggio del loro ingresso?
Ulpiana non sa. Alle domande del portiere disegna con l'indice una
piccola croce sulle labbra a significare: nulla, non dico nulla. Mai
una volta che sia sul punto di tradirsi anche se il portiere sembra
volere da lei soltanto una conferma. L'ascensore sale e Ulpiana non ha
parlato; e una volta in casa, mentre ai vetri si fa buio, siede sulla
cassapanca dell'ingresso da cui ha tirato fuori il sacchetto grigio
delle pezze. Là pigiati uno sull'altro ci sono i ritagli lucidi
di
fodera e gli avanzi di vestiti morti da tempo. La sua vocazione
sarebbe stata essere sarta e ora le forbici intagliano gale e volants,
velluti che drappeggia sul bambolotto rosso di Asia. Increspa,
arriccia, e intanto sorride a una interna immagine di romantici abiti
da "Casta Diva", i denti che si accavallano e si diramano in direzioni
impreviste, impreziositi da un canino d'argento. Qui facciamo uno
sbuffo dice, qui invece lasciamo che cada lo strascico. Ma poi tutto
resta abbandonato sulla cassapanca perché lei deve mettere a
cuocere
le patate o sbucciare i piselli. In verità perché Ulpiana,
come Daria,
ha in odio ago, filo e ditale. Una triade che sembra impossibile da
raggiungere anche quando piena di buona volontà lei si mette a
frugare
in matasse ingarbugliate, fili così strettamente congiunti da
creare
una specie di bolo quale esiste nello stomaco dei ruminanti. L'unico a
riemergere ogni volta, liscio e perfetto, è l'uovo per rammendare
le
calze a testimonianza di un tempo quando il padrone abitava ancora la
casa e per necessità di carriera esigeva calcagni
perfettamente
protetti.
"Donne senza padrone, case senza portone" diceva il portiere ogni
volta che all'ora del pranzo Ulpiana gli passava davanti affannata
perché aveva dimenticato di comprare lo zucchero o il pane. "Va'
là
tu, va' là..." gli rispondeva lei col fiato corto e il grembiule
nero
che spuntava dal paltò. Meglio non averlo per casa il padrone, il
bel
Luciano che quando arrivava non faceva che mandarla a comprare le
sigarette, i giornali, le aringhe per fare la salsa come la facevano a
Helsinki.
Delle donne di Luciano, e pare ne abbia una miriade, Ulpiana si ferma
a parlare per delle mezz'ore perfino con il fioraio. Non è chiaro
se
siano donne fatali come Greta Garbo o piuttosto simili alla manicure
del negozio di parrucchiere di via Flaminia. Oscuro anche il loro
luogo di origine mentre precisi sono i mille dettagli della loro vita
dissoluta. Anche la fonte di così minuziose notizie non viene
mai
citata. Non è di sicuro Daria. Nella bianca fronte dove
piovono
leggere le onde tinte di henné quei nomi ronzano impercettibili
simili
ai moscerini per poi scattare fuori all'improvviso, infetti del suo
disprezzo. Un attimo, e già il lampo sdegnoso dello sguardo li
ha
schizzati via.
Per una giovane americana avevano litigato quella volta a Parigi,
erano volati schiaffi, vassoi e tazzine. Daria aveva avuto il labbro
spaccato. Ma dopo c'era stato ancora quello che lo zio Lev chiamava
"il basso sentimento". "Zio Lev, tu la ami la mamma?" Non era solo
curiosità quella di Asia, le sarebbe piaciuto che lo zio Lev
fosse
stato suo padre. "Moltissimo, non si vede?"
Daria esce con un "vecchio straccio" di Paquin regalato dallo zio Lev,
allo scollo un fiore di strass. Bianca e bruna Daria, il vestito a
perline una notte stellata. Lei è la luna e le braccia sono la
via
lattea che percorre il cielo. Il conte Salazar le apre svelto
l'ascensore, sembra che sia sempre là dietro la porta a spiare
quando
lei esce. La scorta fino al tassì e richiude con garbo lo
sportello,
il grande guscio verde si porta via Luna-Daria col suo profumo di
cipria Caron. Il conte Salazar è ora solo sulla strada e si fa
vento
con il cappello mentre il pechinese compare e scompare sulla ghiaia
dell'aiuola fra i giovani pini ad ombrello. Sere di giugno già
pesanti
di caldo e di odori, le ultime lucciole a intermittenza fra l'erba di
Valle Giulia.
É appena cominciato, deve essere accaduto da uno o due giorni. Non ci
sono Kodak questa volta a scattare la grande storia, non mazzi di
tuberose. Una gardenia appassisce nel bicchiere del bagno, il vestito
a perline è buttato sul letto. Lo zio Lev è taciturno,
ha sempre
considerato Daria come sua proprietà. Adesso si scopre che è
lui a
pagare Ulpiana, i "vecchi stracci" e il cappotto della bambina.
Perfino gli antipasti quando viene Aliona Bobrinska. Daria piange ma i
suoi occhi sono pieni di gioia, la gioia fatica a nascondersi dietro
quelle lacrime e lei batte nervosa il piede in terra. Scarpe di
capretto rosso. Da baldracca, dice lo zio Lev che non conosce mezze
misure.
Si sono incontrati in casa dei Dolidoff, lui le sedeva di fronte e lei
parlava, non la smetteva un momento colta nell'onda del suo sguardo
affascinato e curioso. Uno sguardo forte ma nello stesso tempo
indifeso. Un uomo non più giovane, diverso dai soliti che
si
incontrano dai cugini Dolidoff e Daria dà il meglio di sé
come un
attore alla prima. Intercala in russo (lei che il russo lo ha sempre
parlato così poco, in Italia fin da piccola con "maman" che
soffriva
di febbri reumatiche) mentre la Bobrinska che regge in grembo il
cagnolino risponde lenta nel suo italiano slavizzato, la seta grigia
del vestito che scivola sui grandi seni liberi e morbidi.
Daria avverte che è lei la complicazione maggiore, lei lo ha
scoperto
e non sembra disposta a tollerare intrusioni. Anche a lui di sicuro la
Bobrinska piace se quando passa dietro la sua poltrona le lascia
scivolare le dita nel collo, qualcosa che è a metà fra una
carezza e
un segno più intimo. E intanto dai suoi discorsi viene fuori che
è
appena tornato dalla Francia e simpatizza per il Fronte Popolare.
Questo raggela subito la serata e spegne ogni entusiasmo nei fratelli
Dolidoff: lo ha portato quella vecchia sovversiva della Bobrinska, non
è donna che si possa più invitare. E poi il suo cane puzza.
Daria è ora assorta in un gioco di pazienza, le dita spostano dei
dadi
su una minuscola scacchiera d'avorio mentre sotto l'arco sottile delle
sopracciglia gli occhi si sollevano lunghi e intensi fra le palpebre
sfumate di blu. Degli occhi dove il desiderio è un pesciolino che
c'è
e poi si nasconde. "Lei si chiama Sansone?" (così ha sentito
dalla
Bobrinska). "Sì, lo so, è un nome che non c'entra con me..."
Sorride,
è magro, un po' curvo, non reggerebbe due pugni del vecchio zio
Lev.
Adesso Daria vorrebbe che il suo sguardo non la lasciasse un attimo,
che si rivolgesse solo a lei e a versarle da bere fosse solo la sua
mano lunga e scarna. Sporge le labbra con la sigaretta e aspetta che
gliela accenda tanto le piace questo signore che dice di chiamarsi
Sansone e ha così poco in comune con un gigante.
"Sansone è soltanto il mio cognome, - le aveva detto più
tardi quando
erano rimasti soli sulla terrazza, - ad Aliona piace chiamarmi
così,
il mio nome è Pietro" (in breve tempo quel Pietro sarebbe
diventato
semplicemente Pit). Daria ha appoggiato le dita sulle sue lasciandole
poi salire lungo il polso, quasi un solletico lieve. L'uomo la guarda:
che vuole da lui, è senza lavoro, senza soldi e ha una sola
grande
passione. "La politica?" lei chiede. "No" ha risposto con voce fredda;
Daria lo guarda: una parola che fatica a uscirgli dalle labbra tanto
è
appesantita dalla retorica. "Cosa allora?" insiste, le dita tenere sul
suo polso. "La libertà" ha detto in fretta; e la mano è
scivolata via
da sotto quella di Daria. La luce intermittente del faro del Gianicolo
illumina i giardini che degradano verso Trastevere, passa un attimo
sui loro visi prima di lasciarli di nuovo nel buio. "Credo che
tornerò
in Francia" ha detto ancora. "Insieme ad Aliona?" ha chiesto in un
soffio. Lui non ha risposto ma Daria ha già deciso, le pupille
immerse
in quello spazio scuro dove le cupole si levano nere sulla distesa
opaca dei tetti, il fascio di luce del faro che va e viene come
un'onda di risacca.
Così era cominciato, davanti allo zio Lev e alla Bobrinska con
il
cagnolino in grembo e i seni languidi sotto la seta. Il giorno dopo
già l'arpa restava silenziosa e Daria si misurava un vestito
dopo
l'altro, nessuno sembrava andarle bene, la pelle delle spalle percorsa
da brividi come folate di vento. Il rossetto disegnava le labbra, due
tondi petali di geranio. "Oh zio Lev, oggi non ho tempo, ti
farà
compagnia Asia..." Un bacio in fretta che lasciava un segno come una
ferita sulla guancia dello zio Lev.
La sera al ritorno si era sfilata le scarpe lasciandole rovesciate sul
tappeto, era caldo e aveva spalancato le finestre, ogni traccia di
rossetto sparita dalla sua bocca. "Non fare la sciocca Daria,
entreranno le zanzare" lo zio Lev rimasto ad aspettarla è
pallido,
Ulpiana porta in tavola una orrenda frittata sconnessa, lo zio Lev
grida. Daria è silenziosa, neanche i suoi piedi fanno rumore quando
si
alza per rispondere al telefono. "Chi era?" chiede lo zio Lev.
"Milena, vuole che domani l'accompagni a comprare un cappello".
Com'è
brava a mentire, la breve onda color mogano che oscilla lungo la
guancia. Anche per proteggere lo zio Lev un tempo aveva mentito senza
mai tradirsi. Tornando a sedere al suo posto fa il solletico nel collo
di Asia, Asia insacca la testa e ride con una certa apprensione. Ride
anche Daria. "Non è divertente come è sensibile al
solletico questa
bambina?" "Sarà come la madre" risponde lo zio Lev, lui non ride,
la
mano possente a scacciare delle inesistenti zanzare.
Fu a quel tempo che Daria smise di tingersi i capelli e li
lasciò
tornare al loro colore naturale. Prima li tagliò cortissimi,
nessuno
li portava così e a rimanere esterrefatto fu il conte Salazar
quando
se la ritrovò davanti con la falda del cappello che non copriva
più
nulla. Via le onde, via tutto, gli zigomi alti e il naso sbucavano
come se avessero forato la carta che li teneva avvolti. Era stato per
quello là, quel sovversivo che non sopportava il finto
dell'henné; e
lei gli aveva offerto la testa al sacrificio come Santa Cecilia.
In realtà un pomeriggio bellissimo con le forbici fredde nel
collo
mentre le onduline scivolavano in terra simili a tante virgole. Le
mani prima caute di Pit e poi sempre più veloci, la risata, lo
stupore
davanti allo specchio. E ancora e ancora tra un abbraccio e un altro,
le labbra che le passavano sulla testa e si riempivano di capelli e di
nuovo scendevano e correvano lungo la schiena.
Quando lo zio Lev l'aveva vista si era limitato a un sorriso di
compatimento: sei una piccola idiota Daria, perfino Asia ha
più
cervello di te. Ma ora lo zio Lev non viene più tutti i giorni,
anche
i cugini Dolidoff si vedono poco mentre le zie Varvara e Lisa chiamano
di continuo al telefono e vogliono sapere da Ulpiana dov'è
Daria,
perché è sempre via. É inverno e in ingresso
le galosce si
afflosciano vicino al portaombrelli, Daria dimentica di infilarle, due
galosce piccole e molli con il buco per il tacco. Si bagnerà i
piedi
dice Ulpiana, prenderà anche lei l'influenza. Asia è a letto
e lo zio
Lev siede a farle compagnia. Non sa raccontare favole lo zio Lev, non
conosce nessun gioco, legge il giornale e sta lì, grande e
arrabbiato,
con qualche colpo di tosse. "Speriamo non sia morbillo" dice. Asia
muove sul letto gli animali di legno della fattoria facendoli andare
sulla coperta lungo le collinette sollevate dalle gambe, Ulpiana porta
il tè ma il tè si fredda senza che lo zio Lev lo beva,
scricchiolano a
tratti le pagine del giornale. Fuori è buio e la pioggia
ha
ricominciato più forte, batte contro la finestra e cola
giù in
rigagnoli, Asia e lo zio Lev guardano i vetri scintillare. "Meno male
che li lava la pioggia" dice a un tratto Asia. Allora lo zio Lev ride,
la sua grossa testa irsuta sussulta a lungo "Meno male, meno male..."
ripete ammiccando ad Asia. Ulpiana immobile sulla porta, mortalmente
offesa.
La piazza, i tassì, la pioggia come filtrasse da un setaccio
intorno
al lampione: il conte Salazar è fermo sotto l'ombrello nell'attesa
che
il pechinese compia i suoi riti. Daria ha un impermeabile di incerata
nera a pois bianchi, viene da Parigi. É un regalo di Pit. Pit ha
sollevato Asia fra le braccia, l'ha tenuta alta mentre lei scalpitava
e scalciava per essere rimessa giù, Pit si divertiva alla sua
furia.
Non odora di tabacco, non ha baffi e la mamma, dice Ulpiana,
è
diventata pazza. Quando siede talvolta a suonare l'arpa gli occhi si
spalancano nel vuoto, sognano. I capelli le sono ricresciuti in tanti
ricciolini castani con qualche filo bianco nel mezzo e quando esce, da
sotto il berretto, il suo è il viso pallido di un Pierrot. Un
Pierrot
stralunato e impaziente Il corpo è ora smagrito da un nuovo gioco
di
muscoli. Forse mangiano anche poco loro due, mandorle, fichi secchi,
una banana. Dove lo trovano il tempo di cucinare; e i soldi per andare
al ristorante lei certo non può chiederli allo zio Lev.
La Bobrinska telefona, le ingiurie in russo si possono sentire a un
metro di distanza, Daria mette giù il ricevitore. Un pomeriggio
la
Bobrinska è arrivata e ha suonato il campanello. Asia l'ha
vista
arrampicata sul paletto della porta di servizio, l'occhio allo
spioncino: la Bobrinska è là maestosa e profumata che
cammina
impaziente su e giù. "Non credo che la signora torni presto, -
ha
detto Ulpiana mentre la Bobrinska entrava di prepotenza, - è
andata
dal medico". "Non importa, l'aspetto" ha risposto la Bobrinska
togliendosi la mantella con il collo di volpe, la bella bocca
imperiosa. Ulpiana l'ha fatta entrare in salotto e ha richiuso la
porta, poi è tornata a stirare. Ma poco dopo la Bobrinska è
comparsa
sulla porta del guardaroba e se l'è presa con lei. "Ruffiana, - le
ha
gridato, - sei una ruffiana" e Ulpiana voleva colpirla con il ferro da
stiro. Alla fine la Bobrinska ha riafferrato la sua mantella e se ne
è
andata minacciando di andare alla polizia e denunciare Ulpiana
perché
con quel ferro da stiro poteva anche ucciderla. La porta aveva
sbattuto con fracasso alle sue spalle e il conte Salazar era uscito
fuori a vedere cos'era tutto quel baccano, Asia e Ulpiana lo avevano
poi sentito aggirarsi inquieto sul pianerottolo finché Daria non
era
tornata. E solo allora aprendo la porta del salotto avevano trovato
tutti i vetri delle fotografie in pezzi e l'arpa con le corde
strappate. Ulpiana si era messa a piangere ma Daria l'aveva consolata
dicendole che alla polizia sarebbe andata lei a denunciare la
Bobrinska.
Ma come si può entrare in un Commissariato quando si è persa
la testa
per un uomo che è in tutti gli schedari dell'Ovra? E poi che importa
a
Daria dei vetri delle fotografie, qualcuno anzi era già rotto, e
per
le corde dell'arpa Ulpiana non si doveva disperare, le avrebbe rifatte
nuove. Bellissime.
Basta che Pit non veda più quella strega. "Mai più, lo
giuri?" Pit le
prende la testa fra le mani, giurerebbe per lei in questo momento
qualsiasi cosa, disposto a rinunciare alla morbida Aliona come a
qualunque altra. "Per sempre?" Pit ride: che brutta parola questa,
Daria, per sempre esiste solo nella morte.
Pit è improvvisamente ripartito per la Francia: Nizza, Marsiglia e
poi
chissà dove ancora. Daria non ha più voglia di uscire e in
cucina fra
pentole e ciotoline, odore di fritto, non fa che preparare ogni sorta
di cibi. Al mattino Asia e Ulpiana devono andare al mercato e comprare
sedani e carote, verze, cipolle. Tante cipolle. Dal tritacarne
avvitato al tavolo fuoriescono di continuo vermicelli di manzo, di
pollo, di maiale, e si comincia al momento del caffellatte a pensare
cosa mangiare a mezzogiorno e cosa la sera e i tegami si accumulano
nell'acquaio. Daria impartisce gli ordini: sbucciami le patate dice a
Ulpiana, affetta le carote, sottili, no, non così! Gira, gira
in
fretta, più in fretta... e il viso tondo e appuntito si copre
di
sudore chino sui fornelli.
É tornato lo zio Lev, sono tornati i cugini Dolidoff e si sta a
tavola delle ore, niente sembra essere più importante delle polpette
e
del semolino dolce. Neanche Hitler, neanche l'Asse Roma-Berlino-Tokio.
Lo zio Lev ha riacquistato la sua aggressiva e tonante vitalità e
come
ai bei tempi Asia gli balla sulle ginocchia. Per Natale lo zio Lev le
ha promesso un grammofono. "Rosso, - lei grida, - lo voglio rosso!" "E
alla mamma, cosa regaliamo alla mamma?... Cosa vuoi Daria?" Daria si
gira con l'aria più innocente del mondo, il collo tondo e un occhio
un
poco volpino. "Cosa voglio? Una pelliccia!" "Ohibò!" lui non
può fare
a meno di esclamare. "Lunga, - dice ancora Daria lasciando vedere i
due incisivi larghi nel sorriso, - ampia, con un bel revers".
Con quella pelliccia sarebbe andata in Francia. La pelliccia
è
importante quando si viaggia in un paese del nord e si hanno pochi
soldi, il riscaldamento costa caro. La pelliccia la si può usare
come
coperta, ci si può avvolgere dentro in due e stare a lungo
senza
sentire mai freddo. Sono andati a sceglierla tutti e tre insieme, Asia
in mezzo fra lo zio Lev dritto e elegante, la pelle maculata
dall'età,
e Daria snella sui tacchi alti, le belle gambe divise dalla riga
sottile delle calze e una grande sciarpa color "fruit de la passion".
L'atelier è sontuoso e subito le loro voci si affievoliscono tra
i
larghi tappeti persiani, i gesti misurati che si riflettono negli
specchi tra il moltiplicarsi dei cristalli del lampadario.
Daria vuole provare ogni genere di pellicce e gira ruotando sui
tacchi, la testa rivolta allo specchio lungo a terra: mantelle di
volpe argentée, cappe di ermellino, lucidi breitschwanz. Il
viso
tagliato dalle fessure degli occhi emerge radioso da tutto quel pelo,
la lingua che inumidisce di continuo le labbra per dargli risalto; e
lo zio Lev seduto con Asia sul divano di velluto la guarda senza
più
pensare ai soldi che dovrà spendere.
Daria aveva poi scelto un castorino. "Questa" aveva detto sorprendendo
tutti (ma non era l'unica che avrebbe avuto l'approvazione di Pit?) e
lo zio Lev si era chiuso a parlottare con la direttrice dell'atelier.
Nell'euforia della giornata le regalava anche un colbacco. "Ma zio
Lev, non lo voglio". Lui glielo calcava in testa e Daria si schermiva
ridendo, in realtà felice anche se di quel colbacco non sapeva
che
farsene. Al ritorno avevano preso un tassì e Daria aveva
chiacchierato
eccitata mentre lo zio Lev si era acceso il sigaro, gli occhi che la
guardavano simili a due piccole fiamme nel viso irsuto, la sciarpa di
seta bianca al collo. Fuori, per strada, gli strilloni gridavano le
ultime notizie della sera, c'erano state le proposte di pace del
Giappone alla Cina e il nome Manciukuò vibrava nell'aria ferma
e
fredda simile a una parola magica. La parola-simbolo di un gioco che
suggellava un pomeriggio esaltante e irripetibile.
Prima di Natale la Bobrinska mandò una scatola di gelatine in segno
di
riconciliazione, ma appena Daria la vide prese la scatola e la
vuotò
nel secchio della spazzatura. Sotto lo sguardo desolato di Ulpiana le
piccole forme gialle, rosa, di un verde trasparente simile a uva,
finirono tra le bucce delle patate e gli ossi del pollo. Hanno il
malocchio disse Daria, e ordinò che il secchio venisse
vuotato
immediatamente. Allo zio Lev invece la Bobrinska mandò un
bigliettino
mettendolo in guardia contro il tradimento del suo stesso sangue.
Come ogni anno il giorno del Natale russo, il "Ded Moroz", si
riunirono in casa delle tantinettes. Era la prima volta che Daria e
Aliona si rincontravano e si baciarono sulle guance; ma le mani della
Bobrinska erano sudate e Daria ritrasse in fretta le sue.
Pochi mesi sono bastati a far tornare le guance di Daria tese e
rotonde, le candele le fanno splendere come fossero unte. Questo
è
l'ultimo "Ded Moroz" con lo zio Lev, nessuno ancora lo sa, neanche
Daria, e lui siede simile a Giove con le ghette di camoscio chiuse da
tanti bottoncini color perla, offrendo impassibile la guancia da
baciare a quanti vengono a ringraziarlo dei regali. Un sole tiepido e
giallo riverbera nelle due teste di leone soffiate d'oro nel vetro
della grande porta che divide il salotto dalla sala da pranzo e subito
muore nello scuro della tappezzeria, nella penombra affogata di
frange, tra i tavolinetti di ogni forma e dimensione dove si affollano
le fotografie di bambini diventati adulti e poi a loro volta genitori
di altri bambini. Tante, e di formato diverso, testimoniavano
nell'impasto ingiallito della carta del trascorrere della vita mentre
la Storia, quella importante, era rappresentata da giovani ufficiali
della guardia con lo sguardo spavaldo e la mano sull'elsa della spada.
Tra queste, sparse qua e là, comparivano le vedute delle case
di
campagna che con ogni probabilità erano ora diventate scuole e
ospizi
per vecchi. Erano case per la maggioranza in legno con verande e
colonne, e più che feste o grandi merende evocavano odori di mucche
e
abbaiare di cani, russare di contadini sotto gli alberi. Ma su tutte
dominava il ritratto di "tante Sacha", i giri di perle al collo quanti
erano stati gli anni che aveva servito come dama di corte la Zarina.
Una Zarina un poco grassa contornata dal grappolo bianco delle
bellissime figlie. Solo lo Zar, ritto nella tunica bianca dei
fucilieri, con in braccio lo zarevich, possedeva un tavolinetto tutto
per sé; e una spessa cornice di ebano nero ne sottolineava il
lutto
perenne che le tantinettes si portavano in cuore.
Tra quei ritratti, nel giorno del "Ded Moroz", le tantinettes
collocavano le candele colorate e le ciotoline di dolci di fichi, di
datteri, di noci, preparati da settimane, piccoli e duri; e come
veniva buio zia Varvara accendeva le candele una per una. Non di rado
qualcuna urtata dai bambini che si rincorrevano oscillava paurosamente
sollevando ogni volta il dilemma se spegnere le candele o frenare
quelle corse rovinose. Bambini che già non parlano più il
russo e a
malapena ne capiscono qualche parola, frugano fra i dolci di semolino
a cercare il torrone, l'uva secca. Rovesciano distratti le fotografie.
Lo zio Lev seduto in un angolo guarda impassibile tutto
quell'agitarsi, ogni tanto qualcuno si avvicina e ricordandosi che lui
è stato un tempo un grande estimatore del Mikado crede di
fargli
piacere a citare i successi dell'armata del Sol Levante, lui dondola
impaziente il piede con la bella ghetta e lo guarda lievemente
sarcastico: che imbecilli questi "dvoryane", buoni un tempo solo a
frustare i loro servi!
Più tardi Aliona Bobrinska si era messa al piano e le mani paffute
si
erano allargate sulla tastiera. Andavano e venivano, affondavano nei
diesis e la voce accompagnava le note di vecchie canzoni russe mentre
il naso sottile aspirava l'aria pesante di candele e di dolci. Due
narici di grande bellezza che sembravano inebriarsi della sua bravura,
del suo biondo fascino, della sua voce sensuale e profonda. Daria le
voltava le pagine dello spartito e la pace sembrava regnare tra le due
cugine, illanguidirsi nelle teste di leone soffiate d'oro nel vetro
della grande porta. Ma a un tratto la Bobrinska si era interrotta,
girata sullo sgabello aveva chiamato intorno a sé i bambini.
"Qui,
presto, tutti qui" aveva detto con tono autoritario, le narici un poco
frementi. E quando li aveva avuti tutti intorno con le camicie di seta
che strabordavano dai calzoncini di velluto e i fiocchi molli giù
dai
capelli sudati, le mani avevano cominciato a battere decise sui tasti
le note di "Faccetta nera". "Non c'è nulla di meglio per tenere
buoni
i bambini" aveva dichiarato rivolta al suo pubblico, la scollatura
generosa offerta al piacere dello sguardo.
Asia si era radunata con gli altri intorno al piano e adesso cantava
anche lei cercando di indovinare le parole dalle labbra di chi le
stava vicino, il corpo ricco di carne di Aliona Bobrinska che
ondeggiava sullo sgabello da cui il sedere traboccava simile a un
soufflé. Ma una mano l'aveva tirata via di forza, Asia si era
girata:
lo zio Lev era alto sopra di lei, aveva già infilato il cappotto e
la
sciarpa pendeva bianca tra i bottoni. Il sigaro stretto tra i denti.
Pit tornò alla fine di gennaio. Quando squillò il telefono
Daria aveva
appena finito di girare la manovella del grammofono nuovo. Asia
lasciò
cadere la puntina sul disco e la voce del Trio Lescano coprì quella
di
Daria al telefono. Affascinata dal ruotare lustro e appena ondulante
del disco, lei non vedeva Daria nel corridoio con la testa ripiegata
sul ricevitore. "Ma Pippo, Pippo non lo sa, che quando passa ride
tutta la città..." gracchiava il Trio Lescano e quando la carica
era
finita Asia aveva chiamato a gran voce la mamma perché tornasse
a
ridarla. Finalmente Daria era ricomparsa sulla porta: era pallida ma
qualcosa vibrava come cristallo e trasformava quel pallore in luce.
"É tornato" aveva detto. "Chi?" a Asia non importava chi fosse
tornato, voleva solo rimettere il disco e stava cercando faticosamente
di girare la manovella. "Pit" aveva detto Daria in un soffio; e
già
era in camera che apriva e chiudeva i cassetti, cigolava l'anta
dell'armadio. Asia neanche ricordava più chi fosse Pit.
"Ulpiana,
Ulpiana, aveva gridato esultante, - vieni. Ci sono riuscita da sola!"
Ulpiana era allora arrivata portando una fetta di panettone per la
merenda e lo sguardo aveva seguito stupefatto la puntina infilare,
dopo un primo sbando, il solco giusto.
Asia è andata ad appoggiare la fronte al vetro, le dita spulciano
le
uvette dalla pasta molle e sbriciolosa del panettone: le bambine del
piano di sopra tornano a casa per mano alla mamma, le bambine
Cristofani. Il ragazzo del fioraio passa in bicicletta con un sacco di
iuta sulla testa, "si crede bello come un Apollo e saltella come un
pollo..." canta il Trio Lescano, Daria dal marciapiede fa cenno al
tassì di accostarsi, ha l'impermeabile a pois ma ha di
nuovo
dimenticato le galosce e la pioggia batte sul tetto del tassì. Poi
lo
sportello si richiude e le ruote schizzano l'acqua sull'aiuola.
"E adesso chi glielo dice allo zio Lev?" Ulpiana si era lasciata
cadere sulla seggiola, il corpo che sembrava aver perso ogni struttura
portante come ancorato alle spesse lenti di miope. Il grammofono aveva
finito la carica e la voce del Trio Lescano sprofondava in una caverna
di boati. Dall'angolo con via Mangili sbucava lo zio Lev, il grande
ombrello nero che gocciolava l'acqua.
Quella volta Pit portò via Daria con sé. La Bobrinska
celebrò
l'avvenimento invitando tutti gli esuli russi a Roma. Si parlò
molto
dell'Anschluss e si discusse accanitamente di Hitler, la speranza di
un capovolgimento generale che si scontrava ora con l'antica
avversione per la Germania. Aliona Bobrinska era la più animata,
un
inaspettato mutamento di rotta la portava a entusiasmarsi per il
cancelliere del Terzo Reich sembrandole la vecchia simpatia per
Kerenskij conciliabile con il progetto di una Russia liberata dai
Soviet; e la parola "nazionalsocialismo" suonava dolce nelle esse fra
le sue labbra. Daria venne appena nominata, la Bobrinska lasciò
capire
che era "perduta". Era passata dall'altra parte: in Francia, coi
comunisti.
É una donna matura Aliona ma ancora molto bella, con un piccolo naso
aquilino dalle narici vibranti e una bocca piena e amara. I suoi
fianchi sono forti e il seno grande ma pieno di grazia. Anche
intellettualmente si ritiene più dotata della cugina e adesso
vuole
che tutti, nessuno escluso, siano testimoni della sua superiorità.
Il
tono è appena distratto, lei solleva indietro la fronte come
se
dovesse liberarsi di piccoli pensieri importuni e la schiena affonda
tra i cuscini e gli scialli variopinti: quel nome, Daria, che sembrava
sfuggirle inavvertito di bocca. Lieve, vano.
Lo zio Lev non è venuto, lui non vuole far parte del Gran
Giurì che
fra un "kiesel" all'arancio e una tazza di tè decreta l'espulsione
di
Daria. Non può dimenticare di essere stato in gioventù un
grande
amatore e se anche la scelta di Daria lo umilia e lo ferisce riconosce
in lei qualcosa che gli è familiare. E poi Hitler non sarà
certo il
salvatore del popolo russo, non restituirà a nessuno
né gli
zuccherifici né le miniere in Siberia. Sono già in vigore
le leggi
razziali e lui ha cominciato da tempo a trasferire il suo patrimonio
al di là dell'Atlantico. Fra non molto partirà per Parigi,
e da lì,
senza incontrare più Daria, per Le Havre dove si imbarcherà
su uno
degli ultimi transatlantici diretti a New York.
Aliona Bobrinska adagiata sul divano di broccato giallo, le
sopracciglia un poco perverse corrugate a dimostrazione del suo
disprezzo per chi tradisce "la causa russa", parla della nuova
enciclica del Papa contro il comunismo. Quale poi sia "la causa russa"
non lo si sa ancora bene e lei meno degli altri dopo la fronda
giovanile per i menscevichi. Il cugino Dolidoff, lo zoppo Alec, le si
china accanto con la testa rotonda di brillantina, il profumo
dolciastro di principe in esilio, e a voce bassa si informa sulle
attività di questo Sansone mentre guarda nella scollatura generosa
i
due seni bianchi e rotondi. Soppesa, valuta. Se mai spia dell'Ovra lo
fu per soldi, quello fu il cugino Alec.
Pit e Daria a Parigi. Prima di andarsene Daria ha abbracciato Ulpiana
che piangeva. "Che fai sciocca, spaventi la bambina..." Mille
raccomandazioni di mettere il catenaccio la sera e non dare ad Asia il
cioccolato perché le guasta i bei dentini. Non ha detto quando torna
e
adesso nelle lettere piene di baci e abbracci non racconta quello che
fa, la gente che vede, non descrive il quartiere dove abita. La
felicità ha pudore a mostrarsi, ha anche tanta paura. Non è
più una
ragazza Daria, i capelli bianchi ha smesso di contarli, per ognuno che
ne strappa ne ricrescono sette. Fa freddo a Parigi, la gente parla di
guerra. Lei ha conosciuto altri russi che certo non piacerebbero allo
zio Lev e tantomeno alle tantinettes. Dite allo zio Lev, scrive, che
sono molto arrabbiata perché non mi ha mai risposto.
Ma lo zio Lev si prepara a partire, i suoi milioni già in salvo in
una
banca di New York. Asia è delusa perché neanche lo zio Lev
la porta
con sé. Va, le dice, con una vecchia amica dei tempi di Kiev.
Siedono
lui e Asia a mangiare una cassata al Caffè Esperia, è la
fine di
maggio e a scuola Asia è stata punita, la maestra l'ha messa dietro
la
lavagna. "Male, - dice lo zio Lev, - molto male..." ma si capisce che
già non gliene importa più niente. Gli alberi del
Lungotevere
riversano i loro rami oltre il parapetto, le prime rondini stridono
veloci sui tetti, la cassata ha dei canditi che Asia mette da parte
per mangiarli tutti insieme e intanto guarda lo zio Lev che porta
ancora le camicie con il collo duro e ha le mani curate e le unghie
lucidate con la pelle di camoscio dalla manicure. La cassata si
scioglie lentamente nel piattino, il cameriere si inchina deferente in
attesa di una mancia che spera come sempre lauta. É un habitué
lo zio
Lev, da quel tavolino per anni ha guardato passare le belle donne. Un
poco del cioccolato della cassata gli è restato sui baffi, lui
si
accende il sigaro. Una malinconia senza forma, senza peso e Gontorni
si accompagna allo stridere delle rondini, ai platani rigogliosi. É
un vento leggero che sfiora la fronte e rende più opaco lo
sguardo.
Malinconia e basta.
Anche il conte Salazar è triste, è morto il suo pechinese.
Mentre sale
in ascensore insieme ad Asia, le chiede della mamma, quando torna.
Sempre Asia dà la medesima risposta: non lo so. Ulpiana sta zitta;
a
lei il conte Salazar non rivolge mai la parola, neanche un buon giorno
o un buona sera, appena un leggero battito di ciglia segnala che ha
avvertito la sua presenza. I tassì sono fermi accanto
all'aiuola,
nessuno li prende più.
Ma la storia con Pit non era durata a lungo. Non si era mai saputo se
era stato lui a convincere Daria a tornare perché un
fuoriuscito,
soprattutto nell'imminenza di una guerra, non ha tempo per star dietro
alle donne. O se era stata Daria perché non tollerava di dividerlo
con
nulla. Era tornata, tutto qui, e la vita ricominciava come prima. Solo
che adesso non c'era più lo zio Lev.
Anche i cugini Dolidoff erano stati risucchiati da qualche misterioso
spiffero e facevano solo brevi apparizioni; sempre trovavano una scusa
per non fermarsi a pranzo. Ma Daria sembrava non dargli importanza,
qualcuno l'aveva informata della riunione dalla Bobrinska e lei aveva
adesso altri amici. Come la zia Beba per esempio, la sorella di
Luciano che si era trasferita da poco a Roma con il marito e aveva
sempre bisogno di comprare qualcosa. Daria la accompagnava a scegliere
i mobili, i cappelli, i vestiti. Aveva zia Beba due gemelli e una
bambina di un anno, un'altra prossima ad arrivare e con Daria andavano
alla ricerca di giacche, cappottini, incerate che subito diventavano
gialle e dure. A settembre i tedeschi avevano invaso la Polonia e
Stalin se ne era presa una fetta, c'era rimasto poco spazio per le
speranze. Nei negozi i prezzi salivano vertiginosamente e zia Beba
comprava di tutto, intere pezze di stoffa e scarpe a crescere.
Adesso che non c'è più lo zio Lev a pagare il
riscaldamento o i
cetriolini per gli antipasti, Luciano si è deciso a passare un
congruo
assegno mensile purché Daria non faccia altre sciocchezze e la
bambina
non rimanga di nuovo sola con quell'idiota di Ulpiana. Luciano è
stato
trasferito a Berlino, un buon avanzamento in carriera ma una zona che
scotta, e Asia ogni sera deve pregare Gesù-bambino perché
protegga il
papà esposto a tanti pericoli; ma tutto il suo cuore è per
Daria che
suona l'arpa senza più lo zio Lev accanto o parla in francese con
zia
Beba e le lacrime rendono sperduti i suoi lunghi occhi argentati. Il
conte Salazar si è fatto più intraprendente e l'ha
invitata a una
prima all'Opera, lei ha indossato stancamente il vestito a perline.
Adesso quando salgono in ascensore lui azzarda qualche complimento sul
cappello o il colore di una sciarpa. Daria sorride senza entusiasmo,
il viso appuntito e pallido.
Dalla Francia si è portata un album dalla copertina di cretonne
a
fiori, dentro sono riposti dei dischi che lei sfila con cautela per
metterli sul grammofono di Asia. Dischi dai nomi magici di "Paese
desolato" e "Paese bramoso"; e alla bambina che si annoia e vorrebbe
le canzonette che tanto piacciono anche a Ulpiana, spiega che quella
musica è stata scritta da un grande compositore quando era poco
più di
un ragazzo, dei "rêves d'hiver" felici e infelici insieme, gli occhi
negli occhi di Asia per trascinarla con sé in tanta sublime armonia.
"Rêves d'hiver? Mah!" diceva Ulpiana al tentativo di Asia di
comunicarle l'entusiasmo della mamma, la mano che lasciava cadere con
calma le patate nell'olio bollente adesso che il bruno Dolenga non
compariva più sulla porta della cucina. "Rêves, - le spiegava
Asia, -
significa sogni" e gli occhi guardavano le bollicine d'olio gonfiarsi
intorno alle patate.
Sogni che a volte Daria cerca di ripercorrere con le dita, piccoli
strappi alle corde dell'arpa nelle sere invernali umide sull'aiuola
dove si aggira inquieto il nuovo cagnolino del conte Salazar. Sere
buie e subito cancellate dal calare fragoroso delle persiane che
Ulpiana va chiudendo zelante quasi lei fosse la nuova vestale
dell'oscuramento.
Ma l'estate seguente la ruota aveva già ripreso a girare. Daria
aveva
un nuovo amore. Questa volta è un giovane medico chiamato sotto
le
armi con il grado di sottotenente. Sottotenente Tardinelli dice
Ulpiana come se annunciasse il generale Cadorna. Daria si è tinta
i
capelli di biondo e passa con lui interi pomeriggi a studiare le
malattie tropicali; e quando torna a casa invece di correggere sul
quaderno di Asia le "i" che mancano a ciliegia o ad arancio, oppure
l'accento dimenticato su qualche verbo, racconta alla bambina i
misteri dell'ameba e della filariosi. La filariosi è un
verme
tropicale, le spiega, che una mosca deposita in forma di uovo sotto la
pelle, soprattutto dove è più facile, fra l'unghia e la
carne, e per
questo i negri che vanno sempre a piedi nudi sono le vittime
predestinate. Una volta sotto la pelle quelle uova si schiudono e dei
piccoli vermi cominciano a camminare lungo il corpo, provocano
gonfiori e infiammazioni. A volte perfino la cecità e la morte.
A Asia quel biondo di Daria non piace ma non glielo dice e a scuola la
maestra le scarabocchia tutto il quaderno di blu per quelle "i"
dimenticate o gli accenti che mancano. Ulpiana si lamenta che i piedi
le fanno male, dovrebbe stare più seduta sospira, decidersi
finalmente
a fare la sarta. Ma Daria non le dà ascolto tanto le piace parlare
del
sottotenente medico che vuole andare in Africa a curare i negri e
invece gli tocca fare la guerra. Tadeus ha studiato per guarire dice,
non per uccidere.
Tadeus, così lei lo ha subito chiamato sembrandole quel
nome,
Giampaolo, lungo e noioso. Tadeus, un suono unico e dolce, un suono
che al sottotenente di fresca nomina piace tanto gli sembra pieno di
tenerezza. É di sette anni più giovane di Daria,
così ha detto
Ulpiana che è andata a guardare i documenti nel pastrano
militare
sulla cassapanca. Ma anche se è più giovane sembra amare
Daria come
nessuno l'ha mai amata prima. Non si spaventa del disordine
dell'ingresso o delle scarpe rovesciate una qua e una là, non
si
spaventa neanche della panna acida che accompagna i cetrioli e delle
polpette di pesce con la gelatina di frutta. A differenza del conte
Salazar saluta sempre Ulpiana e le dà del "lei" contravvenendo
ogni
disposizione ministeriale che vorrebbe almeno il "voi". Ad Asia ha
regalato un bambolotto di celluloide con il porte-enfant e il biberon.
E passata l'estate e Daria ancora non si è stancata del
sottotenente
medico che studia l'ameba e la filariosi. É stata la prima estate di
guerra; ma che si combatta da qualche parte pochi se ne sono accorti
anche se la distribuzione delle maschere antigas ha provocato molti
commenti e perfino le bambine Cristofani si sono fermate a parlarne
con Asia nell'androne. La propaganda tappezza i muri delle strade e
sembra che la guerra la debbano fare tutti, anche i figli della lupa e
le "rondinelle", così la maestra chiama a scuola le Piccole
Italiane.
Asia nonostante i numerosi segni blu sul quaderno è
faticosamente
entrata in seconda elementare. Luciano è sempre a Berlino ma zia
Beba
è incaricata di far arrivare ogni mese il suo assegno e i soldi
non
mancano. Si trovano fra i cuscini del divano, nella credenza, nelle
tasche del cappotto di Asia o in fondo al cassetto della toilette fra
i vecchi rossetti di quando Daria si tingeva con l'henné, bruna
e
bianca come la luna.
Lei ha smesso di prendere i tassì e sembra non avere più
fretta,
qualche volta aspetta il filobus anche un quarto d'ora. Asia la saluta
da dietro la finestra e lei risponde con un cenno della mano pronta a
balzare su non appena il filobus si ferma con grande stridore di
freni. La sera quando torna siede a suonare l'arpa, dice che le
concilia il sonno, e le note simili a cascatelle d'acqua rompono la
monotonia del buio. Delle notti Asia si alza dal letto e la guarda
riflessa nella specchiera: scalza, il rossetto, o quello che ne
è
rimasto, che si riflette tra le appliques insieme al biondo un poco
volgare dei capelli. Le braccia che circondano l'arpa e le dita come
pesciolini di neve: Pit, Pit, Pit chiamano nella notte. A volte le
braccia ricadono giù e Daria si prende il viso fra le mani, gli
occhi
chiusi. Una stanchezza mortale.
Tadeus era stato destinato in Libia e Daria era andata ad
accompagnarlo a Napoli dove il piroscafo aspettava alla banchina con
l'immensa fiancata grigia. Migliaia di caschi coloniali stretti
insieme simili a un immenso cesto di uova, sahariane sudate e corde
grosse come cosce che strattonavano e cigolavano nello sciacquettio
unto del mare. Gli ordini venivano urlati da un capo all'altro del
porto e gli scarponi rombavano sulle passerelle, sulla lunga litania
degli abbracci, delle raccomandazioni, delle lacrime. Sbuffi laceranti
di vapore.
Il sottotenente Tardinelli la teneva stretta. Al momento della
separazione gli sembrava che il mondo precipitasse. L'avrebbe persa e
mai più ritrovata. Non riusciva a staccarsi da quel corpo un
poco
molle con la pancia segnata sotto la seta del vestito, le spalle
larghe e forti. La baciava sulla bocca mentre la lingua cercava la
separazione fra i due incisivi. Il suo segno inconfondibile: la punta
della lingua tentava il varco con tenerezza. Lui amava i suoi occhi
impenetrabili nel loro colore d'argento, perfino i suoi vestiti
così
spesso in disordine, le scarpe quasi sempre slacciate.
Daria si lasciava stringere e provava pena di non soffrire abbastanza.
Intorno altre donne si disperavano, i visi sconvolti dal pianto, lei
faceva fatica a mostrare apprensione. Così brava a dire bugie,
così
pigra a fingere. "Stanotte, non dimenticare mai questa notte" le dice
Tadeus con la bocca all'orecchio; e a lei di colpo sembra sconveniente
che la stringa così in pubblico e si irrigidisce in un soprassalto
di
pudore. Tadeus le solleva il mento, gli occhi guardano nei suoi, lei
si divincola "Tutta questa gente..." dice tirandosi indietro: lo vede
in mezzo agli altri così simili a lui, la stessa nuca rasata,
lo
stesso casco, la stessa divisa umida di sudore. É troppo giovane
pensa, non mi sono mai piaciuti gli uomini troppo giovani... e di
quella notte che per Tadeus è tanto importante lei ricorda solo
la
nausea sottile, qualcosa che girava nello stomaco. Forse il pesce non
troppo fresco.
Aveva voluto fare le cose in grande Tadeus e l'aveva portata nel
più
bell'albergo del Lungomare di Napoli. Una vasta stanza tappezzata di
azzurro dove le finestre guardavano la distesa dell'acqua sotto la
luna e tutta la notte erano rimasti tra il frusciare delle lenzuola
senza mai accendere la luce, solo quel chiarore fosforescente
là
fuori. Anche nel sonno Tadeus l'aveva tenuta stretta come se avesse
avuto paura di perderla, lei si sentiva soffocare fra quelle braccia.
Un grande caldo e poi freddo quando l'alba aveva inghiottito la luna e
un odore di mare e di fradicio era strisciato dentro con la prima
luce. Si era alzata e aveva chiuso la finestra, un gesto quasi di
rabbia mentre Tadeus che tante cose sapeva sull'ameba e la filariosi,
la terzana maligna, dormiva come si dorme quando si è giovani
e
l'illusione del possesso ottenebra la mente. Nel primo chiarore del
giorno il suo torace si disegnava forte, scuro, segnato nel mezzo da
piccoli riccioli neri che si allargavano come una croce verso le
spalle (oh il torace di Pit, esile, un po' incavato, con il cuore che
lei sentiva quando appoggiava la testa sul duro delle costole!).
Adesso sulla banchina mentre gli ordini di imbarco chiamano gli ultimi
rimasti, lui si raccomanda di scrivergli. "Vai a imbucare a San
Silvestro, - le dice, - così sei sicura che arriva prima".
Questo
sarebbe un piccolo atto di amore e il sorriso cerca di vincere la
sofferenza del distacco, gli occhi guardano le labbra di Daria che
dicono sì, sì, e non ha capito che lei dice sempre di
sì perché al
momento le sembra facile ma poi dimentica e fa come le pare.
"Tardinelli, due elle, ricordalo". Qualcuno spinge via Daria, lui le
afferra la mano, la stringe, adesso anche Daria si aggrappa, vorrebbe
dargli un ultimo bacio ma già un cordone di marinai blocca chi
resta
da chi parte: Tadeus!... grida.
Ma non si chiamava così anche il cavallino su cui montava bambina
a
Kamenka l'estate, il cavallino bianco che saltava un ostacolo via
l'altro? La nave è partita con il suo carico di caschi tra
lo
sbandierare dei fazzoletti, i canti, il ribollire del mare. Il
capitano medico fa chiamare il sottotenente Tardinelli e lo rimprovera
per essersi comportato in pubblico con molta poca decenza. Per non
dire di peggio. Che pessimo esempio per la truppa. "E poi chi era, la
signora?" Tardinelli arrossisce "La mia fidanzata" risponde, e come
pronuncia questa parola si sente di colpo felice quasi che il
dichiararlo davanti al capitano lo liberi da ogni dubbio. "Anche se
è
la sua "fidanzata", veda un'altra volta di comportarsi in pubblico
diversamente". Il capitano è tornato a fissare l'oblò da cui
sfugge il
mare liscio e deserto "In privato poi, - aggiunge senza guardarlo, -
faccia pure quello che vuole". Scattano i talloni del giovane
sottotenente che esce dalla stanza, al capitano la sua "fidanzata" non
piace, un rapporto della polizia segreta lo ha informato che
Tardinelli ha per amante una russa di dubbia moralità, già
moglie di
un diplomatico, che a Parigi è stata in contatto con
ambienti
sovversivi.
La nausea della notte all'Hotel Vesuvio non era il pesce guasto. Il
fastidio e il senso di soffocamento non derivavano dal troppo
trasporto di Tadeus. Ulpiana è uscita per uno dei suoi
interminabili
giri che si concludono con l'acquisto di una lampadina e di un paio di
solette per le scarpe. Daria è sul letto pallida e sudata e per
farla
guarire Asia le ha preparato una limonata calda, Daria vorrebbe berla
per fare contenta la bambina ma sa che le basterebbe un solo sorso per
rivoltarle lo stomaco. Un opaco sole autunnale scivola lungo le tende
polverose, fa brillare gli specchi della toilette, l'odore del vomito
è nel parquet, è in bagno, annidato negli interstizi: quando
i conati
sono così improvvisi non si fa neanche a tempo ad arrivare
al
lavandino. Daria è incinta e Tadeus ancora non lo sa
perché è in
missione a Massaua. Daria lo ha scritto allo zio Lev, a Denver, in
Colorado dove lo zio Lev si è stabilito in attesa di andare in
Florida
con la sua vecchia amica di Kiev; ma nessuno sa se, e quando, quella
lettera arriverà. Asia si muove in punta di piedi, non ricorda di
aver
mai visto la mamma malata e si sente importante, gira e rigira il
cucchiaino nel bicchiere, mette altro zucchero. Nel silenzio della
casa il rumore di quel cucchiaino dà a Daria un brivido di
disgusto,
si alza di scatto e va in bagno. Tutto è così veloce che
Asia resta
con il bicchiere in mano, uno schizzo della limonata sul pavimento. Il
viso di Daria adesso è contratto, livido, sembra ad Asia
orribile.
Forse sta per morire pensa; e le bacia le mani, il petto, la pancia,
perché questo non avvenga mai.
Abortire? Daria non si è fermata su questo pensiero neanche
un
momento. E perché dovrebbe se anche la gatta, senza meraviglia
di
nessuno, semina i suoi neonati nella cesta della biancheria o in fondo
a un armadio? A Luciano tornato in sede per un breve periodo va
spiegando le ragioni per cui mai e poi mai si farà toccare da una
di
quelle fattucchiere con gli aghi da calza. "Ma esistono ottimi medici,
per Dio!" urla Luciano con gli occhi piccoli di rabbia. "Che me ne
faccio io, dei tuoi schifosi medici!" lei grida, i capelli un poco
tinti e un poco no, il vestito slacciato che le pende da ogni parte,
le occhiaie gonfie. Adesso le loro urla le sente il conte Salazar, la
signora Cristofani al piano di sopra. "Ma ti rendi conto di quello che
sarebbe?" "Certo, non sono una vigliacca come te, io". Non si sente
adesso più per niente malata ma piena di furore. Luciano la
guarda
"Sei una bestia" dice scandendo lento le sillabe. Lei si
è
allontanata, le mani tremano mentre toccano gli oggetti sulla
consolle, sotto l'incavo delle sopracciglia lo sguardo punta il vuoto
mentre le cellule del cervello marciano a tutto andare, elaborano una
delle "sue" idee, la coagulano in un attimo: basta che lui, Luciano,
non faccia storie e riconosca il bambino come suo. Non occorre altro,
non succederà niente, nessuno scandalo. "Ma tu sei pazza, pazza
da
manicomio!"
Daria si è calmata di colpo, l'idea si completa e si illumina
nel
metallo dello sguardo: Luciano non hai altra scelta. Tanto che gli
importa se non è suo, si è mai occupato di Asia? Adesso
Luciano
vorrebbe picchiarla, lei lo sfida pallida "Puoi solo ammazzarmi" dice
con voce piana. "Io lo faccio, lo faccio uno di questi giorni, ti
spacco la testa!" Ma non deve essere tanto facile, le mani che sanno
reggere l'arpa con tanta perizia, dai polpastrelli induriti dalle
corde, sono capaci di gesti improvvisi e violenti.
In cucina Ulpiana piange, il suo grosso corpo sussulta dalla schiena
ai polpacci "É cattivo quello, è cattivo, io lo so..." Il
suo amore
per Daria non ha confini, le radici si diramano nella casa, nel
palazzo, nel quartiere, si abbarbicano ad Asia, a Tadeus, a quel
bambino che ancora non è. "Io ti faccio interdire, ti rispedisco
fra
quei selvaggi da dove sei venuta" urla Luciano e dal salotto la sua
voce percorre come una saetta la casa, sfiora i piatti a scolare sul
lavandino, percuote i tegami di alluminio alla parete. "Ti faccio
vedere di cosa sono capace!" Ulpiana si copre gli occhi con la mano
"Vai di là, vai un po' a vedere" sussurra ad Asia: forse
l'innocenza
fermerà quel demonio. Ma Asia non si muove, il freddo le blocca
le
gambe "Vedrai, - mormora cercando di tirare via la mano dal viso di
Ulpiana, - dice così solo per dire". Trema. Diventerà
orfana: niente
più Daria, niente più Luciano. Solo Ulpiana.
Chi esultava era il sottotenente Tardinelli di ritorno da Massaua.
Voleva sapere "quando" Daria pensava fosse potuto accadere, che bello
scriveva, se fosse stato l'ultima notte che avevano passato insieme!
Come questo avrebbe aggiunto valore a quel bambino, lo avrebbe
circondato di un'aureola magica. Com'è grande ora? chiedeva
più
avanti. Come un chicco d'uva gli rispondeva Daria. E tramite un
collega che tornava in Italia, Tadeus le mandava un chicco in avorio
legato da un filo d'oro. Ma intanto il bambino è cresciuto e Daria
non
entra più nei vestiti, inizia l'inverno e non c'è cappotto
che le si
chiuda, lei porta in giro la sua indubbia rotondità con la
stessa
naturalezza con cui un tempo portava il pacchetto delle paste e il
conte Salazar le apriva galante la porta dell'ascensore.
Sono ricomparse le zie Varvara e Lisa e tirano fuori dalla carta
velina una piccola coperta da culla in lana gialla dall'orlo di seta.
Una volta è venuto il cugino Dolidoff, il bel Dolenga, e in
mano
reggeva un barattolo di caramelle Baratti simile a un cilindro.
Qualcosa di molto elegante confezionato con un nastro azzurro. É
ormai certa una guerra all'est e anche l'Italia prepara un'armata da
inviare oltre i Carpazi per sottomettere le incivili popolazioni
slave, insegnare loro l'uso dell'orologio e degli apparecchi radio.
Questo non può lasciare indifferenti le zie Varvara e Lisa o il
muto
Dolenga, perfino Aliona Bobrinska è disposta a rivedere ogni torto.
La
Grande Madre lontana, perduta in ricordi di una lancinante nostalgia,
li fa sentire fratelli di fronte a questi italiani che rappresentano i
russi come trogloditi e che si rivelano essere, più che
dei
liberatori, dei rozzi e prepotenti aggressori. E anche Daria è
in
qualche modo una loro vittima, con quell'orrendo marito che vorrebbe
farla abortire... "Un sadico" dice Aliona Bobrinska che ama le parole
forti.
Zia Beba invece si è schierata con il fratello e nemmeno per Natale
si
è fatta viva. É saltato perfino il rituale regalo per Asia.
Siamo in
guerra ed è tempo di sacrifici dice la maestra a scuola, una
bambola
in meno può significare qualche sciarpa in più, dei guanti di
lana per
i nostri valorosi soldati al freddo sui monti della Grecia. Una maglia
di lana, dei calzerotti.
Sono le zie Varvara e Lisa ad arrivare con i regali la vigilia di
Natale. Quest'anno non ci sarà festa a casa loro per il "Ded
Moroz",
troppi dispiaceri e soprattutto sempre meno "argent" per comprare la
farina per i blinis e almeno poco, poco di panna. La bambola per Asia
l'hanno confezionata con le loro mani, non si tiene dritta ma in
compenso ha guance rubiconde e un vestito di velluto quale mai Ulpiana
sarebbe stata capace di cucire. Il vino l'ha portato il cugino Dolenga
con il naso affilato dal freddo.
Alla fine di gennaio poi arrivarono i regali di Tadeus. Non scelse un
buon periodo per tornare in licenza, altri erano i pensieri di Daria
in quel gennaio. Tadeus aveva un regalo per tutti, anche per Ulpiana,
era abbronzato e magro, così attraente che la signora
Cristofani
quando lo incontrò nell'androne si sentì arrossire. Solo
Daria, Daria
dal cuore duro non si commosse. Scartò i regali, ammirò i
colori delle
stoffe, guardò Tadeus sistemare in salotto il nuovo
radiogrammofono
con il giradischi elettrico, ma non volle uscire con lui. Si sentiva
stanca, aveva mal di reni e il viso gonfio inghiottiva ogni lampo
dello sguardo. Si lasciò baciare nel collo e sulla bocca
schiudendo
appena le labbra; e quella sera il conte Salazar giurò di
aver
incontrato il sottotenente al casino di via degli Avignonesi.
Tadeus tornò tutti i giorni della licenza. Pioveva sempre e
dopo
mangiato Asia andava a fare i compiti, Daria si raggomitolava sul
divano con un plaid sulle gambe. Sorrideva appena con i due incisivi
larghi fra loro. Tadeus le sedeva accanto e metteva per lei i dischi
sul nuovo grammofono. Erano soprattutto dischi d'opera perché
quelli
amava Tadeus e a Daria andava bene qualsiasi cosa. Soffriva di mal di
testa e aveva spesso bisogno di chiudere gli occhi, certe volte si
addormentava sul divano e Tadeus le carezzava la testa abbandonata sul
suo petto, il grammofono che suonava l'"Aida". Nessuno sa se il
sottotenente continuasse a concludere le sue visite a via degli
Avignonesi, il conte Salazar aveva una certa età e non ci andava
più
di un paio di sere al mese. La signora Cristofani incontrò
il
sottotenente nell'androne ancora tre volte, se lo ricordò in
seguito.
Una volta di lunedì e poi ancora il venerdì e il sabato
successivi.
Tadeus era in divisa e portava un impermeabile allacciato in vita. Era
un giovane gentile e il sabato l'aiutò a portare su la bambina
più
piccola che era scivolata in una pozzanghera. La bambina piangeva e
non voleva più camminare, lui la prese in braccio e salì
con lei i
pochi gradini per deporla sul sedile imbottito dell'ascensore. "Mi
dispiace" gli disse la signora Cristofani mentre l'ascensore saliva
cercando di pulirgli l'impermeabile che si era sporcato di fango. "Non
è niente" Tadeus le sorrise e per consolare la bambina le
mostrò su
una delle stampe incorporate nella parete dell'ascensore un vecchio
casale dove le due finestre formavano rispettivamente una A e una O.
La signora Cristofani si divertì alla scoperta, Tadeus le
spiegò che
dovevano essere le iniziali del proprietario, probabilmente un Orsini.
Data la strettezza dell'ascensore i loro visi erano molto vicini e
ancora una volta la signora Cristofani divenne rossa. Sicuramente
avrebbero simpatizzato, Tadeus notò il suo corpo pieno e giovane e
gli
occhi "spagnoli". Una cicatrice all'angolo della bocca. Ma il tempo
era contro di loro.
Un bambino al quale fu imposto il nome di Andrea fu tutto quanto
rimase del sottotenente medico Tardinelli caduto in Cirenaica durante
l'offensiva di Rommel. La sua morte tolse una delle principali
preoccupazioni a Luciano, almeno da quella parte non avrebbe avuto
seccature; e nella breve lettera che scrisse a Daria si lasciò
andare
a esprimere liberamente il suo pensiero. Si diceva anche disposto a
una sorta di compromesso: era in ballo il destino di Asia e avrebbe
dimostrato a tutti, lei per prima, quanto erano ingiuste le sue accuse
di non essersi mai occupato della bambina.
Tadeus cadde il venti di giugno sulla pista Capuzzo, nel tratto che
collegava l'incrocio chiamato dagli inglesi "Knightbridge". Più
che
cadere fu sepolto dalla sabbia e non si seppe mai se il carro del
Royal Thank Regiment puntò di proposito la fascia bianca con
il
simbolo della Croce Rossa o se gli occhi del "Desert Rat", accecati
dalla sabbia, non la videro. Il blindato leggero venne prima colpito e
si rovesciò, Tadeus fu gettato fuori rotolando ai margini della
pista,
ferito o forse solo svenuto. L'autista dell'autoblindo riuscì
a
mettersi in salvo ma non ebbe il tempo di far niente per lui; e man
mano che i cingoli avanzavano una colata di sabbia scendeva sul corpo
disteso nella cunetta come sul fondo di una immensa clessidra. Tadeus
fu sommerso da una pioggia "simile a polenta", come disse a Ulpiana il
portiere. Fu questione di attimi, e il casco, gli occhiali da sole, la
sahariana dalle molte tasche, scomparvero nella sterminata distesa
giallo ocra nel rumore sinistro delle lamiere dell'autoblindo che si
accartocciavano.
Al servizio funebre nella chiesa di piazza Ungheria andarono solo
Ulpiana e Asia. Tadeus aveva lasciato per Daria una fidanzata giovane
e ricciuta che ora con un velo nero in testa prendeva parte al lutto
della famiglia insieme a quelli che erano stati gli amici di Tadeus
prima che incontrasse Daria. Alla bambina accompagnata dalla domestica
nessuno fece caso e Ulpiana poté piangere tutte le lacrime che
aveva
in cuore per la morte del sottotenente e la cattiveria del mondo.
Stavano in uno degli ultimi banchi e Asia non faceva che strattonare
la manica del cappotto di Ulpiana per domandarle qualcosa. "Stai
zitta, - lei la rimproverava, - in chiesa non si parla" e con quella
manica andava ad asciugarsi le lacrime. Asia guardava la luce
scivolare sui mosaici azzurri quasi la chiesa fosse stata una immensa
piscina dove l'organo allargava onde di lamenti e le lamelle di sole
che guizzavano sull'oro disseminato fra le pietruzze azzurre
disegnavano mille pesciolini preziosi. Ma dov'era Tadeus? Sotto quel
drappo nero, aveva detto Ulpiana, c'era solo una bara vuota. Dove
allora? "Il defunto" tuonava il prete con i paramenti a lutto. Una
parola che era un tonfo sordo un precipitare nel fondo dell'abisso.
Daria era rimasta a casa. Gli alberi nel giardino dall'altra parte
della piazza levavano alte le foglie rigogliose dell'estate, appena
mosse da un vento leggero. Il bambino era grasso e lungo e per casa
aleggiava il suo odore di pipì misto a quello del latte rancido.
La
signora Cristofani, appena aveva saputo della morte del sottotenente,
aveva suonato alla porta con un terribile senso di pena. Una
confidenza che non si era mai presa; ma la signora Cristofani era
giovane e impulsiva e il campanello aveva suonato più volte.
Daria
immobile sul letto non si era mossa.
Per lei erano giorni spaventosi. Avrebbe voluto chiudere gli occhi e
perdersi con il bambino nel buio del sonno. Non vedere, non sapere,
non provare più nulla. Le dita lisciavano la stoffa leggera
della
vestaglia disegnata di draghi e uccelli, qualcosa di fantastico ma
anche vagamente infernale che Tadeus le aveva portato dall'Africa,
qualcosa che lei ora sentiva addosso come una seconda pelle che non si
sarebbe tolta mai più mentre due opposte realtà si
scontravano e le
laceravano il cervello, si mescolavano contaminandosi a vicenda. Dopo
quasi tre anni di silenzio Pit era tornato a farsi vivo e la sua
lettera era arrivata bruciando ogni dolore alle spalle: ti amo,
scriveva, non riesco a vivere senza di te. Non raccontava nulla della
sua vita e parlava solo di loro due, del rimpianto e del desiderio. La
lettera veniva dalla Francia di Pétain e il timbro era
illeggibile,
non portava data e neanche un indirizzo al quale rispondere. Daria la
stringeva sotto al cuscino fino a sentirla scricchiolare fra le dita.
Ma come dimenticare l'altro pensiero, quello atroce di Tadeus? Tadeus
così come era stato in quella grande stanza sul mare a Napoli.
Tadeus
grande, forte, quasi repellente nella sua gioventù mentre quella
luna
di latta scivolava sulle lenzuola.
I momenti della sua vita con Tadeus ricompaiono adesso come
dagherrotipi dove si sono invertiti i chiari e gli scuri, squarciano
il sonno la notte e di giorno bloccano all'improvviso un gesto,
sospendono a metà una frase. É Ulpiana che chiede cosa
comprare per
la cena, o lei che grida ad Asia di smetterla con quel grammofono.
Tadeus il giorno che l'ha conosciuto, la prima volta che si sono
baciati. Tadeus e la sua voce, la timidezza di alcuni suoi gesti e
l'allegra aggressività di altri. Le loro risate e le loro fughe
fuori
Roma quando le sembrava di amarlo, lo stordimento dei loro primi
incontri. Tadeus nell'ingresso che si toglie il cappotto militare, le
mani che posano il berretto cercando un angolo libero sulla
cassapanca, scure e gentili. E a un tratto quel corpo crolla, rotola,
la sabbia ottura ogni fessura, è nelle narici, nella bocca,
nelle
orbite degli occhi. "Simile a polenta" ha detto il portiere a Ulpiana.
Entra nella giubba fra quei piccoli ricci bruni e sudati. Oh no! lei
piange con la testa dentro il cuscino, le dita strette alla lettera di
Pit.
Le mani frugano impazienti e tirano fuori i dischi dall'album con la
copertina di cretonne a fiori, l'ansia accelerata dei pensieri che si
perde nella calma malinconica e vasta dell'inverno, nell'onda lenta di
quel "Paese brumoso" reso roco dal troppo ascolto. Lei ha imparato a
riprodurne il motivo sull'arpa. É stato facile e il suono si fa
più
distinto, limpido e come lucente.
Ma la sofferenza è tutta mentale, il cuore non c'è. É
ripugnante lei
pensa, mi faccio orrore. Invece va davanti allo specchio e si guarda i
fianchi, la vita ingrossata dalla gravidanza dove quei draghi e quegli
uccelli si avvoltolano chiassosi. Il cervello le scoppia, detesta
l'estate, le giornate che non hanno fine, i mazzolini di fiori
raccolti da Asia nel suo cieco amore quando va con Ulpiana a portare a
spasso il piccolo Andrea; e poi le appoggia sul comodino. Detesta il
volo dei pipistrelli e l'odore dei pini alla sera. Certe mattine
scende e apre con impazienza la cassetta della posta, il portiere la
guarda. Il cuore le batte, il nuovo pechinese del conte Salazar abbaia
iroso nel vano del portone.
Adesso il conte Salazar non apre più la porta dell'ascensore, se
sta
per uscire e vede Daria sul pianerottolo torna indietro e aspetta che
lei sia scesa. Quando Asia e Ulpiana lo incontrano nell'androne fa
appena un lieve scatto con la piccola testa brizzolata, gentiluomo
costretto a una promiscuità degradante. É tornato l'inverno
e nella
luce azzurrina dell'oscuramento l'androne diventa una tomba dove Asia
e Ulpiana sono schiacciate dalla medesima oscura colpa. L'ascensore
impiega un tempo lunghissimo per arrivare, cigolano e gemono le corde
al di là della porta, il bambino in braccio a Ulpiana ciondola
la
grossa testa pelata, il conte Salazar è immobile, tetro nelle
sue
rughe, e appena l'ascensore si ferma sul pianerottolo esce per primo
scostandole, quasi uno sculettamento per saluto.
Solo la signora Cristofani sembra dimostrare una certa simpatia. Ha
appena trent'anni, e anche se ha scarsa familiarità con la musica,
nei
lunghi momenti di inerzia quando le bambine giocano tranquille in
camera o ricercano con fatica al pianoforte le loro note stentate, a
volte i "sogni d'inverno" la assalgono con le loro forme mutevoli,
brumose, l'orrore e il sublime che premono ai vetri, paurosamente
vicini. E quando incontra Asia e Ulpiana che escono con la carrozzina
si ferma con le bambine a guardare il piccolo Andrea, gli occhi umidi
e bruni che trasfigurano il grande evento della vita così prossimo
a
quello della morte. Le bambine la tirano per un braccio, un momento
lei dice, guardate com'è bellino... e le mani carezzano leggere
le
dita grassocce di Andrea aggrappate alla copertina lavorata
all'uncinetto dalla zia Varvara Nikolaevna. Asia e Ulpiana la
contemplano riconoscenti; ma come la signora Cristofani sparisce con
le bambine che le trotterellano al fianco torna quel senso di
oppressione, di inappartenenza, la carrozzina spinta da Ulpiana che
traballa su e giù dai marciapiedi.
Denver, Colorado, c'è scritto sulla cartolina dello zio Lev,
l'ultima
che abbia fortunosamente varcato l'Atlantico. Ma lo zio Lev non
può
più nulla, neanche sa, dice Ulpiana, che adesso c'è un altro
bambino e
Asia ha avuto gli orecchioni. Né immagina che Daria, la sua
prediletta
Daria, è costretta ad alzarsi la notte e nella semioscurità
compare in
una confusione di capelli e di seni nudi, ostinata nel voler nutrire
almeno con un poco del suo latte quel bambino che non porta il nome di
nessuno, figlio di un uomo rimasto sepolto sotto la sabbia del deserto
e concepito con il desiderio rivolto a un altro. Un bambino che Daria
ama di un amore esclusivo e geloso, pieno di tenerezza.
Ma la soluzione c'è: la carrozzina corre giù lungo il
marciapiede in
una bella giornata di azzurri e di grigi, di gialli invernali con
suoni squillanti nell'aria. Si sente in basso sferragliare la
circolare e fermarsi stridula sulle rotaie. La carrozzina prende
velocità, è un vagoncino sconnesso (è stata la
carrozzina di Asia) e
le ruote un poco sgangherate sobbalzano sulle asperità del
percorso.
Passa un tassì e l'autista si sporge a guardare
esterrefatto
quell'insolita corsa, poi frena di colpo. Ulpiana è in cima
alla
strada che parla con il fioraio, forse si lamenta ancora dei suoi
piedi. Asia urla, un acuto tale che sembra lacerarle il petto. Ulpiana
e il fioraio si girano e attraverso le lenti Ulpiana guarda attonita
la bambina immobile e terrorizzata nel suo cappotto: la carrozzina
è
sparita. Un attimo; e la vede in basso che scaracolla, sbatte, si
arresta contro un alberello. Qualcosa sobbalza di giallo.
A Ulpiana fu necessario dare da bere e rinfrescarle le tempie con
l'acqua. Anche Asia fu fatta sedere sullo sgabello del fioraio tra i
garofani e le calendule mentre il tassista rimetteva ordine con mani
inesperte nella carrozzina sconvolta. Solo Andrea, l'immortale Andrea,
strillava in braccio al fioraio, le guance rosse di freddo.
Ieri pomeriggio scriveva Asia a scuola, mio fratello Andrea è morto
in
viale Martiri Fascisti, vicino al fioraio. "Ma che fai, - l'aveva
rimproverata la maestra, - non si scrivono certe sciocchezze". Asia
aveva allora strappato il foglio dal quaderno che a furia di
sottrazioni si era ridotto sottile come una sogliola e aveva rintinto
il pennino nel calamaio: ieri pomeriggio, aveva riscritto, mio
fratello Andrea è "quasi" morto in viale Martiri Fascisti, vicino
al
fioraio.
Mai gli avverbi, che confondeva sempre con le preposizioni, le erano
parsi tanto utili.
É stata la morte di Tadeus o la lettera di Pit? L'affannosa ricerca
di qualcuno che potesse darle qualche notizia (Daria si è
persino
piegata a telefonare ad Aliona Bobrinska) oppure l'ansia per quel
corpo che rotola giù e la sabbia soffoca e inghiotte? Daria
è
cambiata, il latte è andato via e la figura è tornata
snella come
quando era ragazza. Ma la carnosità è andata perduta per
sempre, non
più tuberose e splendore. Gli anni sono nei piccoli ventagli di
rughe
intorno agli occhi, nelle due linee verticali ai lati della bocca. Nel
colore della pelle, in un certo modo di camminare quando è stanca.
Ma
sono soprattutto gli occhi, come se una spugna fosse passata a
portarne via lo smalto.
É tornato Luciano, è in Italia per una breve vacanza. Lui e
Daria
discutono. Soldi, sempre soldi; a Daria non bastano mai, lui è
sempre
meno disposto a tirarli fuori. Forse prova anche un poco di pena per
quella ragazza invecchiata con cui una volta fece un viaggio d'amore a
Rabat e che a Parigi per gelosia mise a soqquadro un intero albergo.
Una ragazza aggressiva, sensuale. Totale, da mettere paura. Alla fine
smorza la voce, va bene le dice, va bene, ti darò quello che
chiedi.
Ma deve portare via Asia, la sua famiglia lo esige. Sua madre, sua
sorella Beba; ragioni dinastiche come nelle grandi famiglie. Daria
ride sprezzante, lei, sì, che viene da una grande famiglia,
tanti
servi, ville in Crimea, posate d'oro e cavallini bianchi su cui
montare nel parco. La so, la so questa storia, Luciano diventa
insofferente, finiamola una buona volta, non c'è più niente,
non più
posate d'oro né servi, non ci sono cavalli, diademi, guardati...
La
porta davanti allo specchio, Daria piange, lui la consola stringendola
fra le braccia, le asciuga le lacrime. D'accordo per Asia, dice Daria,
ma solo per quest'estate. Non lo guarda, le dita tormentano il
fazzoletto.
Non guarda Asia quando torna a casa da scuola con Ulpiana. Asia
mangia, la forchetta squassa la frittata di zucchine. "Ti piace il
mare?" le chiede Luciano. "Oh sì, molto, - risponde con la
bocca
piena, - la mamma ha detto che appena possibile ci porta a Ostia". "Ma
io dico un mare vero, con il porto, le navi. Sei mai stata su una
gondola?" "No". "Ti piacerebbe una volta farci un giro?"
"Sì,
moltissimo". Daria si alza a prendere il sale, sempre Ulpiana
dimentica il sale dice. É una bella giornata e passando tira le
tende, il sole colpisce Asia e lei stringe gli occhi per il fastidio.
Ma quando Ulpiana porta in tavola le ciliegie si tira su diritta "Le
abbiamo comprate noi, - urla trionfante, - io e Ulpiana". Non è
una
bambina che a tavola sappia stare composta, colpa anche dello zio Lev
che l'ha sempre viziata. "E se la mamma non potesse portarti al mare,
non ti piacerebbe andarci con la zia Beba? Magari anche con me?" Asia
sorride imbarazzata, compiacente, il pollice spinge sulla forchetta
quello che resta della frittata. "Beh, non è possibile, - dice, -
non
posso lasciare Andrea..." Bugiarda anche lei come la madre, insaccata
nella seggiola.
A luglio di quell'anno Ulpiana tornò in vacanza al suo paese. A
Roma
rimase Daria con Andrea. Prima di partire per Roccaraso la signora
Cristofani passò a salutarla. Portava in regalo dello zucchero e
per
tutto il tempo della visita le due bambine rimasero sedute in pizzo al
divano, inorridite dal disordine della casa e dal volume della musica
che Daria non abbassò neanche per un momento.
La musica è la grande passione di Daria in questa estate
del
millenovecentoquarantatre. Non tanto l'arpa che è faticosa con
quel
caldo e lei suona solo la notte, quanto i dischi conservati nell'album
dalla spessa copertina di cretonne a fiori. La musica calma Andrea le
rare volte che piange, la musica mette in fuga i due insetti che le
scavano un tunnel nel cervello: uno nero, luttuoso e gelato, l'altro
incandescente, pieno di lampi e sussulti. E nella solitudine della
casa le note la inseguono da una stanza all'altra senza smettere mai.
Si lava poco e il sudore impregna i draghi e gli uccelli della
vestaglia. I capelli le prudono per il caldo. Come ai tempi di Pit
mangia un pomodoro, del miele, la frutta le rare volte che passa un
carrettino a venderla. Dei fichi secchi. Niente deve distrarla da
Andrea e dalla musica. La musica è felicità, liberazione,
ordine
supremo e geometrico. Senti Andrea? Il bambino scalcia, lei lo tira su
e lo bacia tuffandogli il viso nel collo. Sempre le ha dato grande
piacere sentire sotto le labbra la pelle di seta dei bambini, la loro
carne che cede morbida; e se non avesse paura di fargli male gli
darebbe dei piccoli morsi come fanno gli animali con i loro cuccioli.
Quando il suono lugubre della sirena fa precipitare giù i
pochi
inquilini rimasti, si stende sul letto e aspetta che tutto sia finito.
Solo una volta è scesa in cantina mentre le bombe cadevano fitte
su
San Lorenzo; era mattina e i colpi si ripercuotevano fondi facendo
oscillare la lampadina appesa in alto, lei come una regina era rimasta
seduta in un angolo con il bambino sulle ginocchia rifiutandosi di
prendere parte alla paura degli altri. Una certezza folle che niente
le poteva accadere prima di aver rivisto Pit. Ma il pomeriggio che la
radio aveva annunciato la caduta di Mussolini non aveva resistito e
aveva lasciato Andrea alla portiera per uscire e avere altre notizie.
Era arrivata fino a Trastevere e si era mescolata alla gente, in piedi
nei bar aveva ascoltato i comunicati alla radio, i commenti di chi le
stava intorno e la guardava curioso, così insolita e stranamente
bella
nel vestito troppo largo, lungo sulle ginocchia, gli occhi brillanti
di speranza. E solo tardi era tornata verso casa risalendo lentamente
su da viale delle Belle Arti tra i palazzi con le serrande abbassate
nel silenzio caldo e pesante, un solo pensiero che ingigantiva e
batteva le ali nel cervello.
Fra lei e il conte Salazar è lotta aperta. Passi per l'arpa che
Daria
suona la notte, sono note dolci e leggere che entrano attraverso i
vetri aperti. Passi ancora per le rare volte che mette i brani d'opera
che tanto piacevano a Tadeus. Ma quelle note che lei ama
ossessivamente, quel "Paese brumoso e desolato", il conte Salazar lo
trova una lagna intollerabile. Chiama il portiere perché vada su e
le
dica di abbassare il volume, non è un caseggiato di periferia il
loro.
Il portiere suona alla porta, Daria compare nella sua vestaglia di
draghi e uccelli, altera come sua nonna quando comandava a Kamenka. Il
portiere balbetta qualcosa, lei non abbassa di un tono il volume. Il
conte Salazar afferra il telefono, la minaccia, Daria mette giù
il
ricevitore, lui richiama e lei lascia il ricevitore staccato: musica
rara, preziosa in questo basso tempo di bollettini di guerra, che
quella bestia si rifaccia un poco l'udito! Dalla finestra il suono si
allarga sulla piazza, investe le cicale sui pini, l'asfalto sconnesso
che nessuno ripara più.
Così fu anche il pomeriggio che telefonò Pit. Daria era
sicura che
fosse ancora il conte Salazar e non rispose, erano le tre e accanto a
lei sul letto il bambino giocava con i piedi nudi per nulla turbato da
quel divampare di note. Pit lasciò che il telefono squillasse a
lungo,
Daria alzò il ricevitore e lo posò sulla mensola: il conte
Salazar
poteva ora conoscere la sublime armonia, l'Angelo e Lucifero nel
paesaggio gelato dei sogni.
Pit seppe così che era in casa e nella Roma assediata dal caldo
di
agosto camminò rasentando l'ombra dei muri, la giacca gualcita
di
tela. Il conte Salazar pensò che ora si esagerava, infilò i
pantaloni
e tirò su le bretelle, adesso sarebbe andato a dirgliene due a
quella
pazza. Suonò e Daria lo vide dallo spioncino, rimase immobile e
non
aprì, lui si accorse che era dall'altra parte e come un
antico
guerriero che finalmente si decida a sfoderare la spada sibilò fra
i
denti la parola che aveva in gola da tempo: puttana!
Daria è tornata a raggomitolarsi sul letto, il dolore è anche
questo,
anche se di natura diversa, e la mano forza rabbiosa la manopola del
grammofono, la musica scoppia nella casa, che il conte Salazar crepi
con il suo cagnetto!
Questo era troppo, il conte afferrò la giacca e seguito dal
pechinese
scese le belle scale elicoidali dal corrimano di noce. Il portiere si
scosse ai suoi passi e si allacciò in fretta i bottoni della
divisa;
ma troppo furore aveva il conte Salazar per badargli e sotto un sole
appena inclinato sul suo asse cominciò a scendere in mezzo alla
strada
seguito dal pechinese ansante.
In quel momento saliva il filobus con Pit, l'autista scansò con
una
bestemmia il conte Salazar e il cagnolino. Loro non si videro, il
conte accecato dalla troppa luce, Pit stretto al corrimano ansioso di
non perdere la fermata, unico passeggero insieme alla bigliettaia. Il
portiere ancora preoccupato per la divisa in disordine guardò
appena
Pit e lui cominciò a salire in ascensore senza neanche uno
sguardo
alla stampa del Piranesi dove le due finestre portavano, in rigidi
cornicioni di pietra, le iniziali di un antico Orsini. Il dilagare
della musica che riempiva stranamente il palazzo semideserto.
Quando suonò alla porta Daria non si mosse nella certezza che
fosse
ancora il conte Salazar. Pit riprovò due, tre volte; e tutto si
decise
in quei pochi istanti, nel sole che entrava tra le stecche della
serranda e rigava il letto scomposto, le ultime note del disco e gli
occhi sgranati di Andrea, bruno-oro come quelli di Tadeus. Fu il
carattere di Daria la spinta determinante. Quella sua
impulsività
vendicativa che molti anni prima le aveva fatto scaraventare dalla
finestra di un albergo a Parigi l'intero servizio della colazione.
Allacciò la vestaglia e diede uno strappo alla porta: lo
avrebbe
atterrito di ingiurie.
Il bambino ora piange, la musica è finita, è rimasto solo il
frusciare
della puntina. Pit è invecchiato, la giacca gli sciacqua addosso,
una
giacca molle, gualcita, lui le prende il viso fra le mani. "Lo zio Lev
è partito, - lei dice, - è andato a Denver, in Colorado"
e non sa
perché gli dice proprio questo, la voce che stenta a uscirle
dalla
gola, gli occhi argento e polvere un poco spaventati fra le palpebre.
Neanche una lacrima; è pallida per la furia di un istante prima,
le
labbra tremano e non riescono a baciarlo.
Quella sera presero su Andrea, faceva molto caldo e solo per
precauzione si portarono la copertina gialla lavorata all'uncinetto
dalla zia Varvara. Presero il pupazzo rosso che era stato di Asia ma
lasciarono l'album dei dischi, la carrozzina, la vestaglia con i
draghi e gli uccelli. Una vecchia millecento con le bombole sul tetto
li aspettava accanto al giornalaio. Quando il conte Salazar
tornò
reggendo la giacca sulle spalle il ponentino scivolava sulle cime
degli alberi e come un'acqua sottile rinfrescava l'asfalto nell'aria
azzurra della notte prossima a venire. I bambini del portiere
cantavano il girotondo intorno al lampione e l'androne ornato da un
mosaico finto romano era silenzioso, così la bella scala dal
corrimano
di noce africano. Quella pazza aveva finalmente spento il grammofono.
Il conte Salazar aprì la porta dell'ascensore seguito dal
pechinese,
era contento e fischiettava.