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to andrea facchetti
O tutto o niente
0. L’albero dai due tipi di foglie
«Come è possibile?». Considero tra me e me, sotto l’albero, seduto su uno sgabello di legno. «Non si è mai vista una pianta con due tipi di foglie differenti. E poi così differenti: le une composte, con foglioline minute disposte parallelamente a destra e a sinistra; le altre, invece, vistosamente più grandi e spesse».
Sotto l’albero, seduto su uno sgabello di legno, un sabato pomeriggio di qualche mese fa, a Nhambata, riunito assieme alla comunità. A Nhambata sono arrivato al mattino presto, dopo 32 chilometri, dopo due ore di jeep, dopo aver inserito in vari tratti la trazione anteriore per uscire dal fango. È il primo mezzo a quattro ruote che percorre quello che resta della strada dopo tre mesi di piogge. Il 2019 è anno di elezioni politiche in Mozambico. Sotto l’albero a Nhambata parliamo di come stare nella società e nella politica da cristiani. Abbiamo preparato un piccolo opuscolo nella lingua Sena per le settanta comunità che compongono la parrocchia. Però, durante l’incontro, il mio sguardo si alza più volte a scrutare l’enigmatico albero dai due tipi di foglie differenti che mi sovrasta.
Terminato l’incontro, domando a pai Lencastre, l’anziano della comunità, come si può spiegare questo arcano della natura. Pai Lencastre che, da buon contadino e allevatore di capre, non deve avere grandi studi di botanica o scienze naturali alle spalle, alza lo sguardo ad indicare la sua testa incanutita ed afferma perentorio: «Padre, è come i capelli: quando si arriva ad una certa età, cambiano di colore!».
Pai Lencastre è fermamente convinto. Ma la sua determinazione, nonostante saldi fondamenti radicati nella saggezza senile e bucolica, mi lascia perplesso. Ecco allora che pai Albertino, che accompagnava la nostra conversazione di spalle, si gira ed esclama: «Padre, ma non vedi che sono due piante diverse? La seconda è una pianta che cresce sui rami delle altre piante. Nella lingua Sena si chiama “khoma”. Ha una semente molto piccola, portata dal vento o lasciata dagli uccelli quando si posano sui rami». Avrò fatto la figura dello scemo, ma ne è valsa la pena: alzo di nuovo lo sguardo e, finalmente, illuminato, comprendo. Questa “khoma” è una sorta di piccola pianta parassita che avvolge le sue radici innestandole perfettamente sui rami di altri alberi, tanto da sembrare un tutt’uno.
Dopo quasi otto anni in questa terra, anch’io mi sento un po’ "khoma": una piccola pianta che ha messo radici ed è cresciuta sui rami di un’altra più grande. Un parassita? Beh, “parassita” non è una parola bella. Forse, sono più prossimo ad uno stato di simbiosi: ricevo tutto dall’albero sul quale cresco e, al tempo stesso, faccio del mio meglio per dare tutto me stesso. Fino a diventare un tutt’uno.
1. Cresciuto durante un anno intenso
Siamo in piena estate. Il giorno di Natale, a mezzogiorno, qui in mezzo alla savana, sulle rive del grande fiume Zambesi, c’erano 51 gradi. E pensare che avevamo cominciato la messa alle 8 del mattino con una temperatura che, credevamo, avrebbe ragionevolmente garantito le condizioni minime di sopravvivenza. Tuttavia, due ore dopo, al momento della benedizione solenne, il fervore di fede, canto e tamburi distoglieva l’attenzione dai micidiali 40 gradi che andavano aumentando implacabilmente.
Queste settimane d’estate africana, nonostante il caldo tremendo, arrivano come una benedizione a rallentare un anno, il 2019, decisamente intenso, cominciato con un avvicendamento nella nostra comunità. Siamo rimasti in tre ma, a febbraio, p. Enrique è partito per Dondo, mentre è arrivato p. Innocent, congolese di 34 anni. Ho lasciato così la responsabilità dello studentato al nuovo arrivato ed ho assunto quella della scuola. In più, p. Bonanné, che è parroco, è stato in Italia per circa sei mesi per un corso di formazione e noi siamo rimasti in due col lavoro di tre.
Il grande caldo coincide con la stagione delle piogge. Poco prima che le piogge cominciassero, abbiamo terminato la seconda delle due visite annuali alle settanta comunità della parrocchia, la più distante delle quali si trova a 120 km da Chemba. Tanti fine settimana passati partendo il sabato mattina all’alba e tornando la domenica sera. Incontrando la vita, la fede, le sofferenze, le lotte, le speranze della gente semplice. Dormendo per terra in una capanna, mangiando con le mani quello che la gente offre con semplicità e generosità. Cercando e trovando Dio lì in mezzo.
Il grande caldo è anche il tempo delle ferie: l’anno scolastico comincerà ai primi di febbraio. I più giovani, dopo avere aiutato la famiglia nei campi preparando il terreno per la semina, se hanno amici o parenti in città, approfittano volentieri di queste settimane per andare a trovarli e per ovviare al ritmo quotidiano della campagna. Nel nostro caso “città” significa Beira, capoluogo della regione.
Beira è stata l’epicentro dell’uragano Idai che nel mese di marzo ha devastato tutta la zona centrale del paese. Sono stato a Beira a luglio e a dicembre. La città sta voltando pagina con una capacità, serenità e positività di rigenerarsi tutte africane. I tre missionari saveriani che sono a Dondo (30 km da Beira) stanno realizzando un buon lavoro con il contributo di umanità arrivato da tanti amici dall’Italia. In una prima fase, hanno aiutato le famiglie più colpite con beni di prima necessità. In questa seconda fase, stanno sostenendo alcune famiglie povere nella ricostruzione delle loro abitazioni. Al tempo stesso stanno portando avanti la ristrutturazione della chiesa, delle sale della parrocchia e delle cappelle delle dodici comunità urbane, fortemente colpite dall’uragano.
Beira dista 500 km da Chemba. Per chi non ha una macchina, i primi 40 km si fanno sul cassone posteriore di un camion. I restanti si percorrono comodamente stipati sul treno che due giorni a settimana viaggia sulla linea ferroviaria che, negli altri cinque giorni della settimana, trasporta il carbone dal giacimento minerario di Moatize al porto di Beira. Il treno è dotato di tre classi: la prima non esiste, la seconda sono vagoni letto, mentre la terza, che è molto economica, trasporta persone e galline. Cosa non si fa per vedere come è fatta la città? Auguri e buon viaggio. 2. Cresciuto tra i banchi di scuola
Elementari, medie, superiori. Così era quando stavo tra i banchi di scuola. Qui in Mozambico, invece, ci sono due livelli: la scuola primaria, dalla 1ª alla 7ª, e la scuola secondaria, dalla 8ª alla 12ª. La nostra è una scuola secondaria di tipo comunitario. Concretamente: lo stato paga lo stipendio ai professori e noi facciamo il resto: costruzione (venti anni fa), manutenzione delle strutture, gessi, biblioteca e libri, computer, zappe (c’è anche lezione di tecniche agricole), risme di fogli, fotocopiatrice, scope, lampade, registri di classe, aggraffatori. Ma, soprattutto, imprescindibile è il camice bianco per i professori.
Ebbene sì, manco fossero tutti infermieri, il camice bianco è una disposizione obbligatoria per tutti i professori, stabilita dal Ministero dell’Educazione e dello Sviluppo Umano della Repubblica del Mozambico. In un paese dove il tasso di analfabetismo nelle aree rurali è del 50,7% ma sale al 62,4% per le donne, in un sistema scolastico nel quale il rapporto professore - alunni è di 1 a 64 e nel quale il 38,6% dei bambini e ragazzi tra i 6 e 17 anni non vanno a scuola, ogni mattina la lezione non comincia senza che il professore vesta orgogliosamente il suo camice bianco. Status symbol e dress code, in questo caso, coincidono perfettamente.
Nell’anno scolastico 2019, terminato a dicembre, nella nostra scuola comunitaria in mezzo alla savana hanno studiato 855 alunni. Le dieci aule non sono sufficienti per tutti. Così, i più piccoli studiano al mattino, i più grandi al pomeriggio, mentre il corso notturno è frequentato dagli adulti. Ogni giorno, da lunedì a venerdì, la prima campanella suona alle 6.45 e l’ultima alle 22.30. Qualche mese fa abbiamo acquistato quindici computer di seconda mano provenienti dal Sudafrica ed è nata la sala di informatica. Non sarà come studiare informatica a New York ma, qui a Chemba, tra capre e baobab, una sala di informatica è già una mezza rivoluzione.
Da quattro anni, ogni lunedì, faccio lezione agli studenti della 10ª classe. Da allora mi dibatto con i problemi del sistema educativo mozambicano. Per dirla molto semplice: dopo dieci anni di scuola, c’è un numero consistente che ha difficoltà serie di lettura, scrittura e comprensione. È un problema strutturale e sistemico che dipende da una pluralità di fattori: la qualità pessima della formazione dei professori, il rapporto sproporzionato professore - alunno, la scarsa assiduità degli alunni, la distanza dalla scuola (alcuni percorrono a piedi ogni giorno 15 km di andata e altrettanti di ritorno), l’impiego dei bambini nel lavoro dei campi, i preconcetti culturali per i quali è un disvalore il fatto che le ragazzine studino.
«Va bene che è un problema generale e non spetta a noi risolverlo», ci siamo detti con la redazione di “Pa kwecha” – il primo giornale pensato, scritto e stampato da alunni di una scuola in mezzo alla savana – «però, noi, il problema, possiamo affrontarlo e contribuire a risolverlo qui a Chemba». Per prima cosa, è importante conoscere la realtà con i suoi numeri e dati. «Faremo, allora, quello che si chiama una ricerca statistica». Detto e fatto, abbiamo elaborato un questionario da sottoporre ai 200 alunni entrati nell’8ª classe. Genere, età, provenienza, lavoro dei genitori, lingua parlata in casa... Da questa prima parte della ricerca relativa alle variabili sociografiche, emerge che solo il 22% sono ragazze, che il 63,4% hanno il papà che come mestiere fa il contadino, mentre sono contadine ben il 90,7% delle mamme. L’86% parlano la lingua Sena in casa come lingua primaria, contro solo il 14% che parlano portoghese. Solo il 2%, nella loro vita, hanno letto un libro che non sia un testo scolastico.
In seguito, assieme ad alcuni professori, abbiamo elaborato due semplici test per valutare la capacità di lettura e comprensione di un testo e le competenze minime di matematica. Ebbene, il 30,4% non riescono a leggere neppure il titolo del testo di 3ª elementare “La gallina furba” e il 47,4% non comprendono quello che leggono. Tutto questo lavoro di elaborazione statistica dei dati non sarebbe stato possibile senza l’aiuto dall’Italia di Federica, amica dei tempi dell’università, aiutata da un professore di scienze politiche dell’Università di Bologna che neppure conosco. Qualcuno la chiama Provvidenza.
Il passo successivo è stato pubblicare i dati della ricerca nelle pagine centrali del giornale e organizzare un pomeriggio di studio per presentare ad alunni e professori il lavoro realizzato. Assieme ai ragazzi della redazione, abbiamo anche incontrato il provveditore distrettuale agli studi che ha prontamente convocato i direttori delle scuole primarie che non hanno alcun sussulto di coscienza se un bambino dopo sette anni di scuola non sa leggere la parola “gallina”. E che fare, allora, di questo 30,4% di alunni dell’8ª classe che non sanno leggere? Da maggio a novembre abbiamo organizzato per loro un corso di alfabetizzazione gratuito due pomeriggi a settimana nel quale, letteralmente, si è partiti dalla lettera “A”.
Alla fine, anche per i figli dei contadini di qua, vale quanto diceva don Lorenzo Milani ai suoi ragazzi di Barbiana: «Ogni parola che non impari oggi, è un calcio nel culo domani».
3. La pace è un albero e un signore anziano è venuto da lontano per farlo crescere…
Non capita tutti i giorni che un papa venga in Mozambico. E non manca di certo il desiderio di andare ad ascoltarlo, magari portando qualcuno dei ragazzi. Però da Chemba a Maputo sono più di 1500 km e almeno due giorni di viaggio. In più c’è la scuola che, papa o non papa, non si può chiudere; in più siamo rimasti in due e nei fine settimana siamo sempre nelle comunità; in più c’è il vescovo che viene in visita pastorale neanche una settimana dopo. Allora decidiamo che il papa lo si ascolta dalla televisione.
Francesco, in Mozambico, ci sta due giorni soli. Ma sono due giorni fitti fitti d’incontri, gesti e discorsi che centrano nel segno. Nello stadio dello Zimpeto, durante l’Eucaristia assieme a 70.000 persone, afferma che «il Mozambico possiede un territorio pieno di ricchezze naturali e culturali, ma paradossalmente con un’enorme quantità di popolazione al di sotto del livello di povertà». Il giorno prima, davanti alle autorità politiche, aveva individuato, senza mezze parole, le due cause di questo paradosso: «la tendenza a saccheggiare e depredare che, in genere, non è neppure coltivata da persone che abitano queste terre», accompagnata «dalla corruzione e dalla disparità di opportunità». Francesco ha una visione geopoliticamente chiara di come va il mondo e, senza citarli esplicitamente, denuncia i due meccanismi che stanno alla radice del neocolonialismo in Africa.
Di fatto, il Mozambico è il 6° paese al mondo e il 3° in Africa che ha ceduto più superficie di terra al land grabbing (focsiv 2018). I giacimenti di gas al largo delle coste mozambicane, stimati in 4.000 miliardi di m³, costituiscono una delle maggiori riserve del pianeta. Sono controllati da giganti quali: la statunitense Exxon Mobil, l’italiana Eni, la francese Total, la cinese Cnpc e la giapponese Mitsui. I russi si apprestano ad entrare nell’affare dei diamanti, dove già opera la britannica Gemfields. Le immense miniere di carbone nella provincia di Tete sono in mano all’indiana Jindal e alla brasiliana Vale. Benedetto da tante ricchezze, eppure il Mozambico, anche nel 2019, continua ad essere il decimo paese peggiore al mondo come indice di sviluppo umano (indice statistico composto che bilancia prodotto interno lordo pro capite, speranza di vita e tasso di alfabetizzazione). Il 43% dei bambini soffre di denutrizione cronica, la speranza di vita alla nascita è di 54 anni e, dopo la crisi economica del 2016, il 55% della popolazione vive in condizioni di povertà estrema.
Ma il tema centrale della visita di Francesco in Mozambico è quello della pace: “pace, speranza e riconciliazione” è infatti il motto del viaggio, che si inserisce nel solco di decenni caratterizzati da guerra, tensione politica e accordi di pace disattesi. Gli accordi di pace firmati a Roma nel 1992, pongono fine a sedici anni di guerra civile: il sangue di un milione di morti versato nella guerra fratricida tra Frelimo e Renamo, alimentata da capitali e armi dei signori della guerra fredda. Dopo di che, il paese respira un tempo di relativa tranquillità e prova a rialzarsi, fino al 2012, quando ricomincia la violenza tra i due soliti contendenti. Il Frelimo detiene il potere da quarant’anni: un potere conquistato ed esercitato con la forza e, spesso, con l’illegalità e la violenza. Un potere non solo politico, ma anche economico. In palio ci sono le immense risorse naturali del Mozambico. Il Frelimo è ormai una élite che controlla il paese e gestisce i contratti per spartirsi il bottino col capitale straniero. La Renamo non ci sta. Oppure, più prosaicamente, vuole la sua parte. Comincia così una guerra a bassa intensità caratterizzata da guerriglia nelle zone di foresta, rapimenti e omicidi selettivi nelle aree urbane. Nel settembre 2014 viene firmato un secondo accordo di pace. Ma dura poco. Un mese dopo ci sono le elezioni. Il Frelimo vince ma, come sempre, ricorrendo a brogli e soprusi. E ricomincia la guerriglia. Nell’agosto del 2019 il presidente della Repubblica Nyusi e il leader della Renamo firmano un terzo accordo di pace. La visita di Francesco, probabilmente, è stata pensata nella prospettiva di sigillare questo ultimo accordo.
Davanti alle autorità politiche, Francesco parla chiaro: «La pace torni ad essere la norma e la riconciliazione la via migliore per affrontare le difficoltà e le sfide che incontrate come nazione». Aggiunge che non si può «lasciare che il modo di scrivere la storia sia la lotta fratricida, bensì la capacità di riconoscersi come fratelli, figli di una stessa terra, amministratori di un destino comune». Tuttavia, pochi mesi dopo, si prende atto di come questo appello sia caduto nel vuoto. Se la pace è un albero, questo signore anziano è venuto da lontano per farlo crescere. Ma ha trovato il cuore indurito di chi si ostina a sradicare.
4. … Eppure qualcuno si ostina a sradicarlo
Le organizzazioni della società civile parlano «delle elezioni più fraudolente di sempre». Gli osservatori dell’Unione Europea, generalmente molto cauti nello sbilanciarsi, stavolta riferiscono in maniera inequivocabile di un «clima di paura, mancanza di uguaglianza di opportunità nella campagna elettorale e brogli evidenti da parte del partito al potere».
Il 15 ottobre, giorno delle elezioni politiche in Mozambico, era l’opportunità per il paese di dimostrare, prima di tutto a se stesso, a che punto era il processo democratico e, soprattutto se era davvero pronto per la pace. Invece, si è rivelato un’ennesima opportunità fallita, con responsabilità pesantissime del Frelimo, che ha affossato in un solo colpo il terzo accordo di pace in pochi anni, assieme a quella inezia di credibilità rimasta dopo gli scandali di corruzione, debiti pubblici occulti, frode e riciclaggio di denaro che vedono implicati ex ministri, due figli dell’ex presidente e nomi celebri dell’entourage.
Ma la truffa era già stata organizzata mesi prima, in maniera sistematica, dai vertici del partito: con le irregolarità nella fase di censimento pre-elettorale, comprando i voti dei poveri regalando magliette, cappelli, bici e moto, obbligando coercitivamente i funzionari pubblici a fare campagna e a votare Frelimo, ricattando gli anziani con la minaccia di ritirare loro il sussidio di anzianità, negando le credenziali a 3200 osservatori della società civile, molti dei quali proposti dalla Chiesa cattolica. E poi intimidazioni e violenze culminate una settimana prima delle elezioni con l’uccisione, in pieno giorno, di un osservatore elettorale da parte di un commando, poi rivelatosi appartenente alle forze speciali della polizia.
Per la prima volta, la Chiesa cattolica è stata soggetto attivo nel processo di osservazione elettorale attraverso le commissioni di Giustizia e Pace. Qui a Chemba, ho coordinato il lavoro di quattro osservatori che hanno accompagnato le fasi di censimento elettorale e di campagna elettorale. Dodici osservatori scelti tra i nostri parrocchiani avrebbero dovuto seguire il processo di voto e di spoglio nei 12 maggiori seggi sui 59 presenti nel distretto. Il giorno prima delle elezioni ricevo l’informazione che a 8 dei 12 osservatori, il governo non ha concesso la credenziale. Sono 8 tra quei 3200 sopra accennati.
Nel nostro distretto è successo quello che si è verificato in tutto il territorio nazionale: elettori che entravano nel seggio con decine di schede già votate a favore del Frelimo, urne elettorali scambiate prima della fase di spoglio, elettori dell’opposizione i cui nomi non comparivano nelle liste. Così, dopo le intimidazioni, ecco la frode sistematica. Il Frelimo vince col 73%, si impone in tutte le 12 regioni del paese e, di fatto, annulla l’opposizione in parlamento. Si ripete così il solito copione post-elettorale, con la Commissione Nazionale Elettorale e il Consiglio Costituzionale (marionette controllate dal Frelimo) che confermano i risultati e con la Renamo e gli altri partiti di opposizione che li rifiutano. Pochi giorni dopo le elezioni, ci sono i primi morti: veicoli della polizia e mezzi civili vengono attaccati nella regione centrale del paese, già palco di violenze negli anni passati. C’è chi accusa un gruppo di dissidenti della Renamo, ma anche chi parla di membri dell’esercito manovrati dal Frelimo per scompaginare le carte in tavola e destabilizzare ulteriormente il paese.
La pace è un albero e un signore anziano è venuto da lontano per farlo crescere. Qualcuno dal cuore indurito si ostina a sradicarlo. Così, la pace continua ad essere lontana in questo angolo di Africa.
Dare tutto e diventare tutt’uno. Iniettare speranza e vita nelle vene di questo mondo pazzo e meraviglioso
In questo strano tempo rallentato di gennaio, amo fare due passi al tramonto sulla riva del fiume, dopo la calura del giorno. Con le piogge, i colori sono più netti e nitidi: il verde dell’erba, l’azzurro del cielo, il bianco delle nuvole, il rosso del sole che scivola giù. I piedi passeggiano lenti e la testa passeggia a modo suo.
Sentirsi come pianta di “khoma”, sentirsi come questo arbusto che, nel mezzo della savana, cresce sui rami degli altri alberi. Imparare da lui, avvolgere e innestare le tue radici sull’albero della vita del mondo, fino a diventare un tutt’uno. Sentire che esistere è ricevere tutto e dare tutto, fino in fondo, senza risparmiare nulla per te. Dare tutto per le persone che ami, per tua madre e per tuo padre, per i tuoi figli, per tua moglie, per tuo marito, per coloro che la vita mette sulla tua strada, per chi è povero e solo. Dare tutto, fino a diventare tutt’uno. Essere forza positiva che inietta speranza e vita nelle vene di questo mondo pazzo e meraviglioso.
Chemba, 10 gennaio 2020
p. Andrea
Immagini
1. Nhambata. In primo piano, pianta di "khoma"
2. Noi tre
3. Al lavoro
4. La direzione. Foto di copertina dell'ultimo numero di "Pa kwecha".