Francesco Ramella (Università di Torino) - Contro la riforma Bernini: perché i professori faranno lezioni in piazza

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Sergio Brasini

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Sep 20, 2025, 2:26:53 PM (2 days ago) Sep 20
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Contro la riforma Bernini: perchè i professori faranno lezioni in piazza

Il nostro paese destina all’istruzione terziaria una quota di Pil tra le più basse dell’area Ocse, molto al di sotto della media europea. Le conseguenze sono un corpo accademico ridotto e squilibrato: quale futuro vogliamo dare all’istruzione universitaria nel nostro paese?

L’inizio del nuovo anno accademico nelle università italiane si annuncia tutt’altro che sereno. Alle tensioni legate al conflitto di Gaza, destinate a riaccendersi con le mobilitazioni studentesche pro-Pal, si aggiunge infatti la protesta dei precari della ricerca e della didattica. Un fronte ampio, che contesta la riforma del pre-ruolo voluta dalla ministra Anna Maria Bernini e il cronico sottofinanziamento dell’accademia italiana. A Torino l’assemblea dei precari ha indetto una settimana di agitazione in concomitanza con l’avvio delle lezioni. Una mobilitazione che non è rimasta isolata: a sostenerla sono anche molti professori e ricercatori di ruolo, i cosiddetti strutturati, titolari di una posizione stabile. Un appoggio non scontato, che rende la protesta più significativa e mostra come il malessere attraversi l’intero corpo accademico. Le forme scelte sono originali e trasformano l’inizio dei corsi in un banco di prova politico e simbolico: non solo una rivendicazione di categoria, ma anche un campanello d’allarme sul futuro dell’università. 
L’iniziativa, intitolata “Lezioni in piazza. Contro la precarietà e il definanziamento dell’Università”, partirà martedì 23 settembre. Le prime lezioni dell’anno non si terranno in aula: i docenti che aderiscono alla mobilitazione porteranno la didattica negli spazi pubblici della città, coordinati da un’app che aggiornerà in tempo reale orari e luoghi. Accanto alle lezioni all’aperto sono previste assemblee pubbliche: giovedì 25 sul rapporto tra guerra e università, venerdì 26 su precariato e finanziamenti. La mobilitazione sarà accompagnata da una campagna informativa nei campus e verso la stampa. Un’organizzazione capillare, pensata per innescare un ampio momento di confronto collettivo. 
Ma chi sono i “precari universitari”? Persone che lavorano negli atenei senza un contratto a tempo indeterminato, pur svolgendo ricerca e didattica. Vi rientrano gli assegnisti e i borsisti di ricerca, i ricercatori a tempo determinato (RTD-A, RTD-B, oggi RTT), oltre a migliaia di professori a contratto. Restano per anni in una fascia di incertezza, con prospettive di stabilizzazione ridotte. Chi arriva a un contratto RTD-B ha buone probabilità di diventare professore associato; tutti gli altri vivono in un limbo fatto di compensi modesti – tra i 1.200 e i 1.500 euro mensili – e rinnovi incerti. I numeri aiutano a capire la portata del fenomeno. Nel 2011 i ricercatori a tempo determinato erano 1.576, pari al 2,7 per cento del totale degli accademici. Nel 2024 sono decuplicati, rappresentando il 23,5 per cento del corpo docente. A questi si aggiungono oltre 30mila professori a contratto e quasi 25mila assegnisti: messi insieme, i precari costituiscono circa il 60 per cento dello staff accademico. 
Un’indagine conoscitiva del Senato ha certificato un dato impietoso: tra il 2012 e il 2020 appena il 19 per cento degli assegnisti ha trasformato l’assegno in un contratto da ricercatore a tempo determinato. È in questo contesto che si inserisce la riforma Bernini, diventata legge lo scorso giugno. L’obiettivo dichiarato è semplificare le tipologie contrattuali del pre-ruolo. Le figure previste diventano due: gli “incarichi post-doc”, destinati a dottori di ricerca o profili equivalenti, e gli “incarichi di ricerca” per laureati magistrali, entrambi della durata massima di tre anni. Per i post-doc è previsto un compenso analogo al primo stipendio dei ricercatori di ruolo, un miglioramento importante. Ma dietro questa apertura si nasconde una criticità: gli atenei non potranno spendere per gli incarichi pre-ruolo più di quanto abbiano speso, in media, negli ultimi tre anni per assegni di ricerca e contratti RTD-A. Il timore, più che plausibile, è che ciò riduca drasticamente il numero complessivo delle posizioni, in un sistema che avrebbe invece bisogno di nuove assunzioni e di un ricambio generazionale urgente. 
Qui si innesta il nodo centrale: il sottofinanziamento dell’università italiana. Il nostro paese destina all’istruzione terziaria una quota di Pil tra le più basse dell’area Ocse, molto al di sotto della media europea. Le conseguenze sono un corpo accademico ridotto e squilibrato. Il rapporto docenti/studenti – nonostante l’esiguità dei laureati italiani – è di circa 1 a 20, contro 1 a 11 in Germania e 1 a 15 nei paesi Ocse. L’età media dei docenti è 50 anni, che sale a 57 per i professori ordinari. E anche i “giovani” precari tanto giovani non lo sono: i ricercatori a tempo determinato hanno in media 40 anni, gli assegnisti 34. Alla luce di questi dati, le proteste appaiono fondate. La riforma Bernini non scioglie il nodo principale: l’assenza di un percorso chiaro, dignitoso e sostenibile verso la stabilità. I problemi strutturali – sottofinanziamento, esiguità e invecchiamento del corpo accademico – restano irrisolti. Dietro le rivendicazioni dei precari emerge una questione più ampia, che riguarda l’intero paese: quale futuro vogliamo dare all’università pubblica italiana?





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