Convegno per la pace a Gerusalemme

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Irene Lopez

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May 13, 2025, 1:34:23 PMMay 13
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Penso sia importante che si sappia - ma pochi ne parlano - che in Israele ci sono molte organizzazioni israelo-palestinesi che operano per il dialogo, per un futuro senza guerra per le giovani generazioni, perché solo così si potrà arrivare alla pace fra i due popoli. Ma è necessario che questi movimenti vengano appoggiati anche dall'estero, prima di tutto facendoli conoscere.

Ne scrive la giornalista Manuela Dviri, italiana, naturalizzata israeliana

Convegno per  la pace a Gerusalemme
Manuela Dviri 11 maggio 2025
Mercoledì pomeriggio e anche giovedì ero a dimostrare per gli ostaggi al ponte Begin con le famiglie ormai terrorizzate dalla decisione di Netanyahu di abbandonare gli ostaggi al loro destino e a una morte quasi certa.
E venerdì c’era un convegno a Gerusalemme. Dopo mille dubbi, (vado o non vado?) mi sono spostata col treno e sono arrivata alla Conferenza Popolare per la Pace che si è tenuta presso il centro congressi Binyanei HaUma, organizzata dall’iniziativa “È ora”, "It's time", una coalizione di 33 organizzazioni per la pace e convivenza. È stata una buona decisione.  La conferenza di quest’anno ha superato per dimensioni quella organizzata lo scorso anno a Tel Aviv dalla stessa coalizione, attirando un pubblico più ampio e variegato dal punto di vista politico e ideologico – dalla sinistra più o meno radicale fino a figure centrali dell’establishment israeliano, come l’ex Primo Ministro Ehud Olmert. Nella hall d’ingresso decine di organizzazioni avevano allestito stand per presentare le proprie attività ai partecipanti in una sorta di shuk di idee e iniziative. L’atmosfera era festosa , forse un po’ naif , di certo completamente priva di cinismo o disfattismo, che è la grande malattia degli oppositori all’attuale governo e alla sua politica.
L’obiettivo era di chiedere la fine dell’attacco a Gaza, il ritorno degli ostaggi tramite un accordo, la fine dell’occupazione e la promozione della soluzione dei due stati.
Non si è trattato di un escapismo del genere fatto apposta per tirarsi su il morale e passare la giornata con persone che la pensano come te in questi tempi oscuri e amari. Se la missione della protesta è di fermare la guerra e vedere tornare gli ostaggi, quello del convegno è stato di iniziare a costruire il futuro. E di capire come e cosa vogliamo in modo coerente.
 Nella sessione d’apertura di venerdì mattina, con una sala gremita da circa settemila persone tra cui moltissimi giovani, sono saliti sul palco ebrei e arabi, familiari di vittime e di ostaggi, politici e attivisti, abitanti della periferia israeliana, nuovi immigrati, rappresentanti dei vari gruppi per la pace, gruppi musicali che hanno suonato e cantato in arabo e in ebraico. Hanno parlato e discusso della realtà, dei massacri a Gaza e della fame inflitta ai palestinesi. Vi è stato un riconoscimento della gravità della situazione. L’energia era palpabile.
Abbiamo anche seguito un video saluto del presidente Macron che ha affermato che la guerra non è una fatalità e la pace è possibile e si è dichiarato al fianco di coloro che lottano per raggiungerla. Anche Abu Mazen nel suo saluto per video ha parlato di pace, e Yair Golan del partito dei democratici ha parlato di fine della guerra, di un’alleanza regionale, e della necessità di includere partiti arabi nel futuro governo mentre giovanissimi hanno parlato delle loro paure, che sono tante, e giustificate. Uno dei  discorsi principali (e dei più applauditi) è stato tenuto dal deputato arabo Ayman Odeh (Hadash). Secondo Odeh “La storia ricorderà: anche nel cuore della guerra – ebrei e arabi hanno continuato a credere l’uno nell’altro”. Odeh ha delineato una visione chiara di partenariato, giustizia e pace, sottolineando l’importanza storica dei cittadini arabi nella lotta per la democrazia:
“Senza di noi – ha detto- si può costruire una dittatura, ma non una democrazia. Si possono continuare le guerre – ma non ottenere la pace”.
Il parlamentare arabo israeliano Ahmad Tibi ha parlato invece del suo omonimo, un bimbo di nove anni, e della sorellina di otto, morti entrambi a Gaza, e del diritto alla vita di tutti, e del post-trauma in cui viviamo tutti. Anche lui è stato accolto da scroscianti applausi ai quali non è di certo abituato alla Knesset.
Si è parlato arabo e si è parlato ebraico, la musica era araba e ebraica, c’erano giochi per i bambini e tra i partecipanti c’erano giovani e giovanissimi che in una delle sale si sono scatenati a ballare con una rapper palestinese.
 Mentre tornavo a casa alla stazione di Tel Aviv è suonato l’allarme.
Erano di nuovo gli Houti.
Sabato sera, ormai riposata, ero di nuovo davanti al teatro Habima a Tel Aviv alla “solita” dimostrazione del sabato per poi avviarmi con la intera folla verso il “ponte Begin”. Lavorare per la resistenza a questo governo, e contro l’indifferenza di chi rimane a casa  pur identificandosi nella protesta, sta diventando sempre più faticoso, a volte non se ne può più. Poi lungo la strada, che mi sembra non finisca mai, ho incontrato il gruppo più coinvolgente e commovente che si possa immaginare. E mi sono ripresa. Era una fila lunghissima di uomini e donne silenziosi con una candela accesa in mano e la foto di un bambino morto.
Un bambino palestinese. Ogni uomo e ogni donna con una foto di un bambino palestinese morto.
E ora, domenica pomeriggio, torno al ponte Begin davanti al ministero della difesa con il solito bastone di bambù e la foto di uno degli ostaggi.
 

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