Il volume
riproduce anche le immagini di alcuni dei documenti originali, che la figlia
Adele lo scorso anno ha donato al nostro archivio.
Le parole di
Camerani saranno negli anni a venire una fonte importante, soprattutto per chi
vorrà ricostruire e approfondire la storia della deportazione dall’Italia di
prigionieri per motivi politici, per chi cercherà di ritrovarvi tracce di
luoghi, situazioni e persone, che Roberto ha vissuto e raccontato.
La sua è
certamente una testimonianza tra tante, e tutte oggi fondamentali per
ricostruire su di esse una vicenda altrimenti documentabile solo dalle residue,
sia pur inconfutabili, tracce d’archivio, che ci restituiscono i nomi, a volte
le condizioni di vita, ma non le vite e gli ideali che le hanno guidate.
Ma ciò che
lo ha distinto, tra molti altri deportati, negli anni della testimonianza,
furono la sua capacità comunicativa e la sua naturale empatia col mondo
giovanile.
«Forse avrei
mai scritto niente», scrive, «se non fossi stato stimolato a farlo da quella
straordinaria scolaresca di Colle Val d’Elsa, III Media, anno 1978/79 che venne
a scovarmi per uno di quei casi strani della vita».
E così fu.
Roberto da allora non si fermò, non smise mai di incontrare giovani nelle
scuole, di accompagnarli a Mauthausen, mostrando loro luoghi ed evocando
memorie, e discutendo con loro non solo le atrocità della propria esperienza,
ma anche le sue ragioni storiche.
Si
tratteneva spesso, e con determinazione, soprattutto nel confronto con chi era
più diffidente e meno disponibile ad accogliere e a far propria quella memoria.
Morì a
Cernusco sul Naviglio, vicino a Milano, dove a lungo visse, il 20 luglio 2005.
Aveva ottant’anni. Ricorda Valeria Palumbo di non avere mai visto «tanti
ragazzi dire addio a un signore che aveva molti anni sulle spalle», «riempivano
la chiesa e allungavano il corteo funebre oltre la piazza».