La deportazione di Roberto Camerani

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Pier Luigi Fanetti

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Nov 26, 2021, 4:03:12 PM11/26/21
to R-esistiamo
La Fondazione Memoria della Deportazione ha deciso di ristampare in questa nuova edizione il diario Il viaggio di Roberto Camerani, che fu antifascista, resistente, deportato a Mauthausen e, dopo la Liberazione, tra i massimi testimoni della deportazione.
Il volume riproduce anche le immagini di alcuni dei documenti originali, che la figlia Adele lo scorso anno ha donato al nostro archivio.
Le parole di Camerani saranno negli anni a venire una fonte importante, soprattutto per chi vorrà ricostruire e approfondire la storia della deportazione dall’Italia di prigionieri per motivi politici, per chi cercherà di ritrovarvi tracce di luoghi, situazioni e persone, che Roberto ha vissuto e raccontato.
La sua è certamente una testimonianza tra tante, e tutte oggi fondamentali per ricostruire su di esse una vicenda altrimenti documentabile solo dalle residue, sia pur inconfutabili, tracce d’archivio, che ci restituiscono i nomi, a volte le condizioni di vita, ma non le vite e gli ideali che le hanno guidate.
Ma ciò che lo ha distinto, tra molti altri deportati, negli anni della testimonianza, furono la sua capacità comunicativa e la sua naturale empatia col mondo giovanile.
«Forse avrei mai scritto niente», scrive, «se non fossi stato stimolato a farlo da quella straordinaria scolaresca di Colle Val d’Elsa, III Media, anno 1978/79 che venne a scovarmi per uno di quei casi strani della vita».
E così fu. Roberto da allora non si fermò, non smise mai di incontrare giovani nelle scuole, di accompagnarli a Mauthausen, mostrando loro luoghi ed evocando memorie, e discutendo con loro non solo le atrocità della propria esperienza, ma anche le sue ragioni storiche.
Si tratteneva spesso, e con determinazione, soprattutto nel confronto con chi era più diffidente e meno disponibile ad accogliere e a far propria quella memoria.
Morì a Cernusco sul Naviglio, vicino a Milano, dove a lungo visse, il 20 luglio 2005. Aveva ottant’anni. Ricorda Valeria Palumbo di non avere mai visto «tanti ragazzi dire addio a un signore che aveva molti anni sulle spalle», «riempivano la chiesa e allungavano il corteo funebre oltre la piazza».

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