Il Cinema Don Bosco Digital propone: "Gli equilibristi" "Ribelle - The Brave" "Romanzo di una strage"

0 views
Skip to first unread message

Francesco Baietto

unread,
Sep 25, 2012, 8:23:49 AM9/25/12
to cinema-don-b...@googlegroups.com
Gli equilibristi

Trama:
Giulio (Valerio Mastandrea) ha quarant'anni e una vita apparentemente tranquilla. Una casa in affitto, un posto fisso, un'auto acquistata a rate, una figlia ribelle ma simpatica e un bimbo dolce e sognatore, una moglie (Barbora Bobulova) che ama e che tradisce. Giulio viene scoperto e lasciato e la sua favola improvvisamente crolla. Ma cosa accade ad una coppia che ai nostri giorni "osa" separarsi? Gli Equilibristi attraverso una carrellata di eventi ora tragici ora ironici, ci accompagna per mano nel mondo di un uomo che di colpo scopre quanto sia labile il confine tra benessere e povertà.

Scheda:
Titolo originale: Gli equilibristi
Nazione: Italia
Anno: 2012
Genere: Drammatico
Durata: 100'
Regia: Ivano De Matteo
Sito ufficiale:  
Cast: Valerio Mastandrea, Barbora Bobulova, Rosabel Laurenti Sellers, Maurizio Casagrande, Rolando Ravello, Grazia Schiavo, Antonio Gerardi, Antonella Attili, Stefano Masciolini, Giorgio Gobbi, Francesca Antonelli, Damir Todorovic, Antonio Tallura, Paola Tiziana Cruciani, Daniele La Leggia, Lupo De Matteo
Produzione: Rodeo Drive
Distribuzione: Medusa Distribuzione
Data di uscita: Venezia 2012

Orari:
Sabato
 29 set
 21,15
Domenica 
 30 set
21,15
Lunedì 
01 ott
 21,15

Recensione

Sembrerebbe una famiglia felice, quella di Giulio, sua moglie e i loro due figli con cui ha un bel rapporto di confidenza ma anche autorevolezza. In realtà sui titoli di testa abbiamo visto lui, in un flashback, con un’altra donna in un ufficio deserto, a consumare un rapporto sbrigativo e, si capirà poi, frutto di leggerezza e non di passione. Una leggerezza che ha incrinato quell’unità familiare: la moglie Elena (interpretata da Barbora Bobulova), silenziosa e tesa, non riesce a reggere quell’immagine di felice unità e non sa dimenticare il tradimento. Giulio se ne va di casa, forse pensando a una crisi passeggera, addolorato ma dignitoso nel fare tutto quel che può per non far mancare nulla a moglie e figli, cui cerca di non far pesare la situazione. Ma lo stipendio da impiegato all’ufficio postale è troppo basso e le spese cui far fronte sono troppe, e ci si mette anche l’orgoglio (che gli impedisce, per esempio, di accettare i soldi della suocera per il dentista del figlio). Elena non sembra accorgersi delle privazioni che via via Giulio deve imporre a se stesso, tra situazioni grottesche (il collega che lo ospita in casa, con la madre malata e il badante straniero), lavori notturni che gli tolgono il sonno e la serenità, rapporti di amicizia che saltano e pericoli crescenti di fare sciocchezze o mettersi nei guai. Solo la figlia adolescente sembra capire, in parte, i problemi del padre. Che a un certo punto tira su un muro anche con lei.
È un film profondamente contemporaneo Gli equilibristi, presentato a Venezia 2012 nella sezione Orizzonti. Si parla di crisi, di un padre separato che non ce la fa ad andare avanti (sembra la versione drammatica della commedia di Carlo Verdone Posti in piedi in Paradiso, che pure non mancava di spunti seri), di gente semplice che rischia di perdere il poco che ha costruito e finire in povertà. Gente che pensa di poter separarsi “serenamente”, con dignità e generosità verso moglie e figli, scoprendo poi – come afferma un compagno di sventura al protagonista – che “il divorzio è per i ricchi, quelli come noi non se lo possono permettere”. Con 1.200 euro al mese è dura sopravvivere, continuare a pagare il mutuo della casa dove vivono moglie e figli, l’auto a rate, un appartamento per sé. E poi la gita scolastica o il dentista dei figli e tanto altro. A un certo punto anche i pochi euro di un gioco per il figlio fanno saltare i nervi.
Ma se il tema della crisi economica ha il suo peso, il regista Ivano De Matteo riesce, grazie anche alla straordinaria interpretazione di un intenso Valerio Mastandrea (bravissima anche l’attrice che interpreta figlia, la giovane Rosabell Laurenti Sellers), a focalizzare l’attenzione dello spettatore sulla crisi personale, di Giulio ma anche di chi gli sta attorno: perché se l’uomo ha un orgoglio che gli fa spesso fare la cosa sbagliata, o non chiedere aiuto quanto dovrebbe (anche se ci prova, ma sempre fino a un certo punto: chiede un posto dove dormire o un lavoro extra, ma mai compagnia e sostegno perché crede sempre di farcela), la moglie non si accorge di quel che succede (e sì che basterebbe fare due conti: incongruenza del film o volontaria rappresentazione di una distrazione ai limiti dell’insensibilità?). Sono tante le situazioni in cui il film colpisce duro nella spirale di caduta di quest’uomo che finisce sempre più in basso.
Quel che rende Gli equilibristi un bel film, da vedere, è lo sguardo appassionato e partecipe del regista alle sofferenze di questa famiglia (con tocchi di grande sensibilità, come l’espressione del figlio più piccolo spaventato dalla rottura che percepisce tra i genitori), le piccole e grandi solidarietà di alcuni e il cinismo e la freddezza di altri, lo squarcio di società rappresentato con la semplicità dei narratori non ideologici di una volta. De Matteo sa infatti alternare dramma e commedia – a tratti si sorride e perfino si ride, perché la vita è così e alterna momenti duri a frangenti buffi o surreali – come i film italiani che hanno fatto grande il nostro cinema del dopoguerra (e non è una guerra, la situazione di crisi attuale?): riuscendo quindi, come si diceva per quei film, in un’alternanza non forzata tra il riso e il pianto. E ha il coraggio di mostrare, in una scena significativa e non di contorno, preti e suore (il riferimento è alla comunità di Sant’Egidio, conosciuta personalmente dal regista) come figure per una volta non negative in un film italiano importante, in aiuto a chi cade suo malgrado in disgrazia. Soprattutto l’autore sa come chiudere una storia, senza annullarne le premesse ma anche senza incanalare vite e destini per forza in uno sfacelo abbrutente e senza prospettive. I finali aperti, in genere, ci piacciono molto, quando questa non è una scelta fine a se stessa ma serve a lasciare uno spazio di libertà ai personaggi e allo spettatore. Quello del film di Ivano De Matteo ci fa provare una tenerezza senza fine per il suo protagonista.

Antonio Autieri



Ribelle - The Brave

Trama:
Determinata a costruirsi la propria strada nella vita, Merida si oppone a una secolare tradizione sacra ai signori della terra: il massiccio Lord MacGuffin, il burbero Lord Macintosh e l'irascibile Lord Dingwall. Le azioni di Merida involontariamente scatenano il caos e la furia del regno, e quando si rivolge a una eccentrica donna anziana, Wise Woman, per chiederle aiuto, il suo sfortunato desiderio viene esaudito. Il conseguente pericolo costringe Merida a scoprire il significato del vero coraggio al fine di distruggere una tremenda maledizione prima che sia troppo tardi.

Scheda:
Titolo originale:  Brave
Nazione:  U.S.A.
Anno:  2012
Genere:  Animazione
Durata:  100'
Regia:  Mark Andrews, Brenda Chapman
Social network:  facebook, twitter
Cast (voci):  Kelly Macdonald, Emma Thompson, Billy Connolly, Julie Walters, Kevin McKidd, Craig Ferguson, Robbie Coltrane
Produzione:  Pixar Animation Studios, Walt Disney Pictures
Distribuzione:  Walt Disney Studios Motion Pictures Italia

Orari:

 

Domenica 
  30 set
 17,30




Recensione
[tratta da http://www.sentieridelcinema.it/recensione.asp?ID=1855]

Se il contrasto (che spesso diventa vero e proprio scontro) tra padri e figli è un tema più volte visitato al cinema, meno usuale è vedere sul grande schermo un film di animazione che ha come soggetto gli opposti desideri di una madre e di una figlia (ma, come hanno dimostrato film come Alla ricerca di Nemo o Up, rappresentare i legami familiari con taglio originale e realistico al tempo stesso è uno dei grandi talenti della Pixar). In un immaginario Medio Evo, sul trono di Scozia regnano Fergus e la sua consorte Elinor. La loro primogenita Merida è una vivace ragazzina con un’incontenibile chioma di ricci rossi e un eguale desiderio di avventura: cavalca con la perizia e la resistenza di un guerriero, è un arciere imbattibile e non ha paura di niente, un po’ come il re suo padre, che per difendere la famiglia da un enorme orso selvaggio perse una gamba. Ma, come accade a tutte le principesse delle fiabe, arriva un giorno in cui la ragion di stato esige che la primogenita assicuri continuità al regno, e che quindi dei pretendenti giungano coi loro clan per disputarsi la sua mano. Ma sarà che la ragazzina non si sente affatto pronta per il grande passo, sarà anche che i pretendenti sembrino uno più imbranato dell’altro, il fatto è che Merida pare non abbia alcuna intenzione di scegliere, suscitando la costernazione di tutti, nonché l’imbarazzo dei suoi genitori.
Ribelle – The Brave inizia su uno sfondo alla Braveheart, prosegue su una traccia magica che sembra contraddire il realismo tipico delle storie Pixar, ma a un certo punto svela il suo vero cuore: appunto il rapporto madre-figlia, con l’adolescente incompresa che prima rifiuta e poi abbraccia il modello rappresentato da una madre finalmente riconosciuta. Un’esaltazione della famiglia meno lineare ma anche più originale del solito, regalata anche dall’ambientazione temporale, che riporta a tempi dai costumi molto meno raffinati dei nostri (i clan scozzesi non erano certo campioni di diplomazia). E che si sofferma giustamente sul “genio femminile”, la capacità di governo delle donne che deriva da una profonda consapevolezza della maternità e che sola riesce ad aver ragione delle intemperanze maschili (a tutte le età, da quelle dei tre pestiferi piccoli gemelli, fratelli di Merida, al massiccio Fergus, certo più bravo a maneggiare la spada che la parola). Il risultato è di grande efficacia, perché diverte nella prima parte ed emoziona profondamente quando l’intreccio anche drammatico (che colpo al cuore quando la figlia – ogni figlia – urla alla madre tutta la sua distanza da lei) si scioglie fino alla tenerezza reciproca delle due protagoniste.
Girato con la consueta maestria dalla Pixar, che esalta panorami, scene di movimento e caratterizzazione dei personaggi, il film può contare anche sul notevolissimo cortometraggio d’introduzione (secondo l’usanza della casa): è La luna, poetico esordio alla regia dell’animatore genovese Enrico Casarosa che per questa opera breve ha ricevuto una nomination all’Oscar

Beppe Musicco


CINEFORUM

Vi ricordiamo inoltre che è ancora possibile abbonarsi al cineforum del martedì: consulta qui i film in programmazione.

26 film al costo di € 40,00 con in omaggio 5 ingressi per il weekend.

Le schede dei film del cineforum


Martedì 02 ottobre - 18,30 e 21,15

Romanzo di una strage


Trama:
Milano, 12 dicembre 1969. Subito dopo l'esplosione alla Banca Nazionale dell'agricoltura di piazza Fontana - che uccide 14 persone (salite a 17) e ne ferisce 88 - le indagini della Questura sono tutte orientate verso la pista anarchica. Il commissario Luigi Calabresi e i suoi superiori, Marcello Guida e Antonino Allegra, sono convinti della matrice anarchica della strage cosi come delle decine di bombe esplose in città negli ultimi mesi.
Fra i fermati c'e Giuseppe Pinelli, un anarchico non-violento che Calabresi stima e sa perfettamente estraneo alla strage. E invece arrestato Pietro Valpreda, un ballerino senza scritture, spesso in contrasto con Pinelli: il colpevole ideale, il mostro riconosciuto dal tassista Rolandi che l'ha accompagnato in banca pochi minuti prima dello scoppio.
Per ottenere da Pinelli la conferma della pericolosità di Valpreda, continuano a trattenerlo oltre i limiti di legge. Dopo 3 giorni di digiuno e insonnia, Pinelli precipita la notte del 15 dalla finestra dell'ufficio di Calabresi. Il commissario non e nella stanza ma - grazie ai goffi tentativi della Questura di giustificare l'accaduto - finisce per essere indentificato come il diretto responsabile.
A Treviso i giudici Pietro Calogero e Giancarlo Stiz - grazie alle rivelazioni di Guido Lorenzon - scoprono una galassia di giovani neonazisti senza partito e senza collare, pronti - di fonte alle lotte studentesche e operaie del '68/'69 - a gesti clamorosi. Pur coperti e infiltrati dai servizi segreti, alcuni di loro hanno lasciato tracce evidenti. Giovanni Ventura e Franco Freda vengono arrestati insieme ad altri complici.
Calabresi continua a indagare sulla strage. Ora dubita della sua matrice anarchica e pensa piuttosto a legami col traffico internazionale d'armi. Segue la nuova pista fino al Carso dove, due giorni prima di essere assassinato, scopre un deposito clandestino d'armi in uso anche ai neonazisti. Il 17 maggio 1972 Calabresi é ucciso sotto casa.

Scheda:
Titolo originale:  Romanzo di una strage
Nazione:  Italia
Anno:  2012
Genere:  Drammatico
Durata:  130'
Regia:  Marco Tullio Giordana
Sito ufficiale:  www.corriere.it/romanzodiunastrage
Cast:  Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Michela Cescon, Laura Chiatti, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, Giorgio Colangeli
Produzione:  Cattleya, Rai Cinema
Distribuzione:  01 Distribution


Recensione

Marco Tullio Giordana è un regista che ama spesso rievocare pagine della storia italiana. In Maledetti vi amerò era l’inizio del terrorismo, in Pasolini, un delitto italiano il processo sull’omicidio Pasolini, in I cento passi (che lo segnalò come un regista ormai maturo), il delitto di Peppino Impastato da parte della mafia, in La meglio gioventù la storia di alcuni giovani e delle loro speranze nate negli anni 60 e le successive delusioni; infine, in Sanguepazzo, modesto melò con Zingaretti e Bellucci, la tragedia di due divi del cinema anni 40 compromessi col fascismo e uccisi dai partigiani. Ora il suo film forse più complesso e ambizioso, o quanto meno rischioso: in Romanzo di una strage si riapre la ferita di Piazza Fontana, ovvero l’attentato che il 12 dicembre 1969 a Milano fece morire, nella Banca dell’Agricoltura adiacente all’Arcivescovado e a due passi dal Duomo, 17 persone. Ma le vittime innocenti, si dice da tempo, furono 19: pochi giorni dopo, tra i tanti fermati tra i circoli anarchici, c’era il ferroviere Giuseppe Pinelli. Che dopo tre giorni di duro interrogatorio – si voleva sapere da lui se il colpevole fosse il sospettato Pietro Valpreda, che fu poi arrestato e, dopo vari processi, assolto solo dieci anni dopo – volò da una finestra della Questura: suicidio, malore o omicidio dei poliziotti? Se ne parla da 40 anni, anche se tutte le sentenze hanno escluso la terza, e più terribile ipotesi (puntando sul malore) e soprattutto hanno scagionato il commissario Luigi Calabresi, in quel momento non presente nella stanza in cui avvenne il terribile fatto. Nonostante ciò, da allora partì il linciaggio della sinistra contro Calabresi, in particolare di quella extraparlamentare a cominciare da Lotta Continua (ma seguita da ambienti “perbene”, soprattutto tra intellettuali, giornalisti e artisti); fu il commissario, ucciso nel maggio 1972, la 19ma vittima. 
Tutto questo lungo preambolo, a una recensione molto più lunga del normale per un film così complesso, per aprire il primo fronte critico: se Giordana finalmente certifica, da sinistra, l’innocenza di Calabresi (come gli ha riconosciuto il figlio Mario, direttore de La Stampa e autore del bel libro Spingendo la notte più in là), beccandosi per per questo le accuse dei nostalgici della teoria del commissario “torturatore”, dall’altra lascia molto sullo sfondo quel linciaggio, tanto da far pensare a chi non sa che l’omicidio fosse dovuto ai sospetti di Calabresi – che pure c’erano – su un possibile connubio tra neofascisti (Freda e Ventura, la cui colpevolezza emerse anni dopo le assoluzioni, non poterono più essere puniti), servizi segreti deviati e apparati dello Stato dentro il Ministero dell’Interno; con tanto di scoperta dell’esistenza di Gladio (che assurdità…). Quando invece le sentenze definitive, dopo le confessioni nel 1988 del pentito Leonardo Marino, portarono ad attribuire l’omicidio allo stesso Marino e al trio Sofri-Bompressi-Pietrostefani (di cui solo Sofri ha scontato interamente i 22 anni di condanna). Conseguenza di quella devastante campagna d’odio di cui fu fatto oggetto per la morte di Pinelli. Per chi non sa o non ricorda, il quotidiano di Sofri e C. scrisse: «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito. Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte...». E ancora:«Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati. Ma è questa, sicuramente, una tappa fondamentale dell’assalto dei proletari contro lo Stato assassino».
Giordana invece, e questo è da apprezzare, non solo è netto sull’innocenza di Calabresi ma lo rappresenta come Pinelli, entrambi vittime innocenti – che pure nel frangente decisivo si trovano a scontrarsi, nonostante si stimassero a vicenda – e anche pedine inconsapevoli di logiche malate all’interno dei rispettivi “gruppi” (elementi deviati nella Polizia e nello Stato, anarchici violenti oltre agli infiltrati neofascisti tra di loro anarchici). E, in un’analisi schiettamente cinematografica, sono due personaggi resi al meglio da Valerio Mastandrea (la vera sorpresa del film, in un ruolo sobrio e mai sopra le righe, anche troppo secondo la vedova Calabresi) e da Pierfrancesco Favino, ancora una volta bravissimo. Ma sono tanti gli interpreti eccellenti: dalle rispettive mogli (bravissima Michela Cescon/Licia Pinelli, misurata Laura Chiatti/Gemma Calabresi), a Fabrizio Gifuni nei panni di Aldo Moro, e poi gli ambigui Giorgio Colangeli e Giorgio Tirabassi, l’onesto magistrato Luigi Lo Cascio, Thomas Trabacchi che fa il giornalista Marco Nozza (tra i più attivi nell’indagare per anni), e altri attori meno noti. Nota deludente, non tanto per l’attore quanto per la sorprendente banalità del tratteggio, è il grande Omero Antonutti che fa un Saragat banale e unidimensionale, e storicamente poco attendibile (ma è la colpa è di Giordana e dei suo cosceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia) 
Non è l’unica pecca del film, anzi: se la rievocazione visiva e narrativa è convincente e riesce a comunicare l’angoscia di un Paese sull’orlo di una guerra civile, che sprofondò pochi anni dopo negli anni di piombo con gruppi terroristici rossi e neri (ma sembra che nel ’68-’69 gli eversori fossero a destra, e invece c’è chi sognava la rivoluzione rossa con metodi violenti), Romanzo di una strage ha molti momenti didascalici, utili per chi non conosce fatti e personaggi ma stucchevoli per un pubblico avvertito;: quando non ridicoli e sommari, come certi riassuntini di momenti storici. In sintesi: affresco riuscito, ma con tanti dettagli poco curati e superficiali.
Ma a lasciare perplessi sono l’accumulo di tesi, giudizi e amnesie irritanti. Se la teoria del doppio attentato (uno di destra, mortale, l’altro anarchico e solo dimostrativo) ha fatto discutere moltissimo, e se in una storia così confusa certi dettagli sono impossibili da decifrare a chi non ha seguito minuziosamente un iter giudiziario così opaco, basta qualche conoscenza storica sommaria per demolire il ritratto come si diceva banale del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, che sembra quasi tentato da una strategia della tensione in virtù del suo viscerale anticomunismo (retaggio forse dell’antipatia per questo coraggioso uomo politico, che nel 1948 salvò l’Italia uscendo dal Partito Socialista filocomunista e alleandosi con il suo Partito Socialdemocratico alla Democrazia Cristiana); possibile liquidare così uno degli statisti principali, e sincero difensore della democrazia, che l’Italia abbia avuto? E anche la figura di Aldo Moro, nonostante la bravura “mimetica” di Gifuni, è viziata da troppo “senno di poi” (il futuro martire delle BR sembra già consapevole della propria futura tragedia). Soprattutto, Moro – qui visto quasi come un “progressista”, quando la “contestazione” del ’68 lo dipingeva come acerrimo nemico – è rappresentato come un politico un uomo alle soglie della disperazione, che auspica confusamente un’apocalisse italiana per ripartire da zero. Del suo reale pensiero e della sua fede cristiana, manco a dirlo, nemmeno un accenno.

Antonio Autieri


Reply all
Reply to author
Forward
0 new messages