partito pirata

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max roch

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Sep 27, 2011, 3:36:28 AM9/27/11
to bar-sport, pinobrino
ma nessuno parla mai di ciò che sta avvenendo in Islanda.

P.S. peccato che già hanno fatto il partito pirata in Italia!


Piccola personale intro all'articolo che segue:

I mezzi per creare un nuovo panorama politico ci sono tutti ma siamo noi effettivamente in grado di usarli?
 e soprattutto siamo in grado di metterci in gioco nel farlo liberarndoci da anni ed anni di servilismo culturale?


Nel "caso Islandese" 
il risultato socio-culturale innovativo deriva dal controllo dello stato da parte di una lobby molto ristretta, quasi familiare; ma in Italia anche se non è propriamente lo stesso questa situazione si ritrova in proporzioni più dimensionate in molti luoghi!.

Spero che la lettura di questo resoconto sià da sprone a farci coraggio, essere più fiduciosi nelle nostre possibilità ed a utilizzare meglio e perseguendo obiettivi più precisi, i mezzi a nostra disposizione.

Massimiliano


La lezione della Rivoluzione Islandese

Matteo Arisci

settembre 20, 2011



Se non fosse per l'apporto di musicisti quali i Sigur Ros o Bjork o per le bizze dei suoi impronunciabili vulcani in grado di minacciare le rotte aeree di mezza Europa, non ci sarebbe reale motivo di interessarsi della piccola e fredda Repubblica d'Islanda sulla stampa internazionale.

Eppure quanto accaduto negli ultimi anni sull'isola ghiacciata può essere considerato talmente "straordinario" da non poter essere ignorato.

L'esperimento su cui tanti osservatori hanno puntato  recentemente il dito è quello della riscrittura della Costituzione.

Un gruppo di 25 costituenti, eletti tra una rosa di 500 candidati, hanno prodotto un nuovo testo che verrà presentato nel parlamento di Reykjavik ad ottobre.

La vera novità è stata la partecipazione alla stesura del documento degli stessi cittadini tramite i social network: è il primo esperimento di "intelligenza collettiva" (o se volete di Crowd-sourcing) applicato a una legge fondamentale.

Gli entusiasti sostenitori del potere taumaturgico di Facebook, Twitter e simili lodano l'esempio islandese come caso di democrazia diretta da prendere a modello e replicare, dimenticando che questa innovativa espressione di cittadinanza è facilitata da fattori quali lo scarso numero di abitanti (poco più di 300.000) e gli altissimi livelli di istruzione.

Altro fattore sottaciuto è il fatto che alle stesse elezioni per l'assemblea costituente ha partecipato solo il 36% degli aventi diritto, non propriamente un successo.

L'altro aspetto, decisamente più significativo ed interessante, è quello relativo al default pilotato che ha spinto l'Islanda a non accettare le ricette proposte dalle istituzioni internazionali e a rifiutare gli assunti liberisti.

Per comprendere meglio il "gesto rivoluzionario" è necessario fare qualche passo indietro.

Sino alla fine del secolo scorso, l'isola nordica ha vissuto di pesca e di alcune industrie altamente specializzate ed  è stata in grado di creare un sistema energetico invidiabile, dove più della metà del fabbisogno derivava da fonti rinnovabili legate alla geotermia. Un cineasta islandese, Andri Magnason, ha commentato: "avevamo un status da fine della storia". In altri termini uno Stato funzionante, welfare tipicamente nordico ed efficiente, flat tax, ottimo sistema educativo e una disoccupazione all'1%.

A partire dai primi anni del 2000 il governo islandese opta per una serie di liberalizzazioni e privatizzazioni (soprattutto bancarie)  su larga scala. L'Islanda diventa presto un piccolo paradiso di investimenti e profitti finanziari. Le multinazionali come l'Alcoa arrivano a sfruttare le risorse energetiche e le tre banche Landsbanski, Glitnir e Kaupthing, "liberate" per poter operare all'estero, cominciano a "giocare sul mercato", offrendo tassi di interesse estremamente vantaggiosi e sfruttando una moneta locale, la Krona, fluttuante nei mercati.

L'Islanda diviene il Paese del "carry trade", una forma di speculazione in cui si contraggono prestiti bancari in un Paese e li si depositano poi in un altro, lucrando così sul differenziale del tasso di interesse: con interessi al 5% divenne vantaggioso, ad esempio, prendere un prestito al 2% in uno dei tanti Paesi dell'UE e depositare i soldi in una delle tre banche islandesi per poter poi guadagnare sulla differenza oltre che sul cambio vantaggioso della Krona.

Con simili giochi di prestigio, nel 2010 le "tre sorelle islandesi" potrebbero arrivare a contrarre debiti per 120 miliardi di dollari (una somma equivalente a 10 volte il Pil nazionale).

Sino a quando l'economia globale regge, il piccolo Stato ha il vento il poppa e il Pil cresce con tassi superiori al 5% annuo. Le agenzie di rating promuovono a pieni voti le performance e la stabilità del sistema finanziario islandese con la classica tripla A, nonostante l'agenzia Fitch nel 2006 si domandava se un indebitamento di miliardi di dollari da parte delle banche fosse stato sostenibile per uno Stato di quelle dimensioni.

Con l'esplosione della bolla immobiliare prima e con quella dei subprime poi, l'Islanda  ha però risentito immediatamente dei contraccolpi della crisi americana e sono emersi i primi segnali di insolvenza. Il Fondo Monetario è stato costretto ad intervenire a più riprese insieme al sostegno di prestiti da altri Paesi, mentre le centinaia di migliaia di correntisti esteri (soprattutto olandesi e inglesi)  hanno preteso i loro crediti. I prestiti dell'FMI  hanno comportato ovviamente un prezzo da pagare sotto forma di ricette economiche da attuare:  sono state proposte le tipiche misure di austerity e di tagli alla spesa. La situazione è diventata drammatica; la disoccupazione è passata dall'1% al 9% e molti islandesi hanno iniziato ad emigrare: nel 2009 saranno circa 1600 (ossia un abitante ogni 200) a scappare verso la Norvegia.

Il governo si è impegnato a ripagare i 3,5 miliardi di dollari di debiti in Olanda e Gran Bretagna, mettendo in conto di prelevare dei "contributi" spalmati su 15 anni dalle tasche dei cittadini. Dopo settimane di protesta, che si sono rese responsabili delle dimissioni del governo di centro-destra, due referendum popolari (il primo del marzo 2010 e il secondo nel marzo 2011) hanno evitato il provvedimento. Si è formato dunque un nuovo governo di centro-sinistra guidato da Johanna Sigurdadottir, primo ministro donna ed omossessuale.

Il nuovo esecutivo adotta da subito misure draconiane, ma non verso i cittadini, quanto piuttosto verso coloro che sono stati ritenuti  colpevoli della crisi:  sono stati portati a giudizio ex-membri dell'esecutivo e banchieri (per quelli in fuga  sono stati poi emessi mandati di cattura internazionali).

Contemporaneamente le tre banche sono state condotte strumentalmente al "fallimento": è default!

Gli islandesi non ripagheranno i debiti contratti dai privati.

Il Fondo Monetario ha "abbandonato" il Paese, ponendo fine agli aiuti condizionati: piuttosto che l'Austerity, i cittadini hanno scelto una via più "rischiosa", ma che tuttavia tentava di punire i "veri responsabili"- i privati.

Da qui la scelta di una nuova costituzione che recepisca delle leggi in grado di tutelare in futuro da nuove catastrofi speculative.

Per quanto si possa discutere sulla praticabilità di queste scelte in contesti diversi da quelli del piccolo Stato nordico (dove la crisi in questione è sostanzialmente confinata ai privati), il caso della rivoluzione islandese porta con sé delle lezioni importanti: la coraggiosa scommessa di andare controcorrente e di non adottare scelte imposte dall'esterno dev'essere ancora vinta. Ma in tutto questo c'è un segnale particolarmente interessante: dal 2009 l'Islanda ha chiesto di entrare nell'Unione Europea col fine di guadagnare poi l'entrata nel sistema della moneta unica. In un momento in cui proprio l'Euro e l'Europa tergono in uno stato comatoso, la piccola isola che va controcorrente ha deciso di scommetterci, convinta dal fatto che questa scelta possa garantire maggiore stabilità futura. Proprio per questo la Rivoluzione Islandese ha forse qualcosa di importante da insegnarci. - meridiano.
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