ma nessuno
parla mai di ciò che sta
avvenendo in Islanda.
P.S.
peccato che già hanno fatto il partito pirata in Italia!
Piccola
personale intro all'articolo che segue:
I mezzi per creare
un nuovo panorama politico ci sono tutti ma siamo noi effettivamente in
grado
di usarli?
e soprattutto siamo in grado di metterci in gioco nel
farlo liberarndoci da anni ed anni di servilismo
culturale?
Nel "caso
Islandese" il
risultato socio-culturale innovativo deriva dal controllo dello stato da
parte di una lobby molto ristretta, quasi familiare; ma in Italia anche
se non è
propriamente lo stesso questa situazione si ritrova in proporzioni più
dimensionate in molti luoghi!.
Spero che la lettura di questo
resoconto sià da sprone a farci coraggio, essere più fiduciosi nelle
nostre possibilità ed a utilizzare meglio e perseguendo obiettivi più
precisi, i mezzi a nostra disposizione.
Massimiliano
La lezione della
Rivoluzione Islandese
Matteo Arisci
settembre
20, 2011
Se non fosse per l'apporto di musicisti
quali i
Sigur Ros o Bjork o per le bizze dei suoi impronunciabili vulcani in
grado di minacciare le rotte aeree di mezza Europa, non ci sarebbe reale
motivo di interessarsi della piccola e fredda Repubblica d'Islanda
sulla stampa internazionale.
Eppure quanto accaduto negli ultimi
anni sull'isola ghiacciata può essere considerato talmente
"straordinario" da non poter essere ignorato.
L'esperimento su
cui tanti osservatori hanno puntato recentemente il dito è quello della
riscrittura della Costituzione.
Un gruppo di 25 costituenti,
eletti tra una rosa di 500 candidati, hanno prodotto un nuovo testo che
verrà presentato nel parlamento di Reykjavik ad ottobre.
La vera
novità è stata la partecipazione alla stesura del documento degli stessi
cittadini tramite i social network: è il primo esperimento di
"intelligenza collettiva" (o se volete di Crowd-sourcing) applicato a
una legge fondamentale.
Gli entusiasti sostenitori del potere
taumaturgico di Facebook, Twitter e simili lodano l'esempio islandese
come caso di democrazia diretta da prendere a modello e replicare,
dimenticando che questa innovativa espressione di cittadinanza è
facilitata da fattori quali lo scarso numero di abitanti (poco più di
300.000) e gli altissimi livelli di istruzione.
Altro fattore
sottaciuto è il fatto che alle stesse elezioni per l'assemblea
costituente ha partecipato solo il 36% degli aventi diritto, non
propriamente un successo.
L'altro aspetto, decisamente più
significativo ed interessante, è quello relativo al default pilotato che
ha spinto l'Islanda a non accettare le ricette proposte dalle
istituzioni internazionali e a rifiutare gli assunti liberisti.
Per
comprendere meglio il "gesto rivoluzionario" è necessario fare qualche
passo indietro.
Sino alla fine del secolo scorso, l'isola
nordica
ha vissuto di pesca e di alcune industrie altamente specializzate ed è
stata in grado di creare un sistema energetico invidiabile, dove più
della metà del fabbisogno derivava da fonti rinnovabili legate alla
geotermia. Un cineasta islandese, Andri Magnason, ha commentato:
"avevamo un status da fine della storia". In altri termini uno Stato
funzionante, welfare tipicamente nordico ed efficiente, flat tax, ottimo
sistema educativo e una disoccupazione all'1%.
A partire dai
primi anni del 2000 il governo islandese opta per una serie di
liberalizzazioni e privatizzazioni (soprattutto bancarie) su larga
scala. L'Islanda diventa presto un piccolo paradiso di investimenti e
profitti finanziari. Le multinazionali come l'Alcoa arrivano a sfruttare
le risorse energetiche e le tre banche Landsbanski, Glitnir e
Kaupthing, "liberate" per poter operare all'estero, cominciano a
"giocare sul mercato", offrendo tassi di interesse estremamente
vantaggiosi e sfruttando una moneta locale, la Krona, fluttuante nei
mercati.
L'Islanda diviene il
Paese del "carry trade", una forma
di speculazione in cui si contraggono prestiti bancari in un Paese e li
si depositano poi in un altro, lucrando così sul differenziale del tasso
di interesse: con interessi al 5% divenne vantaggioso, ad esempio,
prendere un prestito al 2% in uno dei tanti Paesi dell'UE e depositare i
soldi in una delle tre banche islandesi per poter poi guadagnare sulla
differenza oltre che sul cambio vantaggioso della Krona.
Con
simili giochi di prestigio, nel 2010 le "tre sorelle islandesi"
potrebbero arrivare a contrarre debiti per 120 miliardi di dollari (una
somma equivalente a 10 volte il Pil nazionale).
Sino a quando
l'economia globale regge, il piccolo Stato ha il vento il poppa e il Pil
cresce con tassi superiori al 5% annuo. Le agenzie di rating promuovono
a pieni voti le performance e la stabilità del sistema finanziario
islandese con la classica tripla A, nonostante l'agenzia Fitch nel 2006
si domandava se un indebitamento di miliardi di dollari da parte delle
banche fosse stato sostenibile per uno Stato di quelle dimensioni.
Con
l'esplosione della bolla immobiliare prima e con quella dei subprime
poi, l'Islanda ha però risentito immediatamente dei contraccolpi della
crisi americana e sono emersi i primi segnali di insolvenza. Il Fondo
Monetario è stato costretto ad intervenire a più riprese insieme al
sostegno di prestiti da altri Paesi, mentre le centinaia di migliaia di
correntisti esteri (soprattutto olandesi e inglesi) hanno preteso i
loro crediti. I prestiti dell'FMI hanno comportato ovviamente un prezzo
da pagare sotto forma di ricette economiche da attuare: sono state
proposte le tipiche misure di austerity e di tagli alla spesa. La
situazione è diventata drammatica; la disoccupazione è passata dall'1%
al 9% e molti islandesi hanno iniziato ad emigrare: nel 2009 saranno
circa 1600 (ossia un abitante ogni 200) a scappare verso la Norvegia.
Il
governo si è impegnato a ripagare i 3,5 miliardi di dollari di debiti
in Olanda e Gran Bretagna, mettendo in conto di prelevare dei
"contributi" spalmati su 15 anni dalle tasche dei cittadini. Dopo
settimane di protesta, che si sono rese responsabili delle dimissioni
del governo di centro-destra, due referendum popolari (il primo del
marzo 2010 e il secondo nel marzo 2011) hanno evitato il provvedimento.
Si è formato dunque un nuovo governo di centro-sinistra guidato da
Johanna Sigurdadottir, primo ministro donna ed omossessuale.
Il
nuovo esecutivo adotta da subito misure draconiane, ma non verso i
cittadini, quanto piuttosto verso coloro che sono stati ritenuti
colpevoli della crisi: sono stati portati a giudizio ex-membri
dell'esecutivo e banchieri (per quelli in fuga sono stati poi emessi
mandati di cattura internazionali).
Contemporaneamente le tre
banche sono state condotte strumentalmente al "fallimento": è default!
Gli
islandesi non ripagheranno i debiti contratti dai privati.
Il
Fondo Monetario ha "abbandonato" il Paese, ponendo fine agli aiuti
condizionati: piuttosto che l'Austerity, i cittadini hanno scelto una
via più "rischiosa", ma che tuttavia tentava di punire i "veri
responsabili"- i privati.
Da qui la scelta di una nuova
costituzione che recepisca delle leggi in grado di tutelare in futuro da
nuove catastrofi speculative.
Per quanto si possa
discutere
sulla praticabilità di queste scelte in contesti diversi da quelli del
piccolo Stato nordico (dove la crisi in questione è sostanzialmente
confinata ai privati), il caso della rivoluzione islandese porta con sé
delle lezioni importanti: la coraggiosa scommessa di andare
controcorrente e di non adottare scelte imposte dall'esterno dev'essere
ancora vinta. Ma in tutto questo c'è un segnale particolarmente
interessante: dal 2009 l'Islanda ha chiesto di entrare nell'Unione
Europea col fine di guadagnare poi l'entrata nel sistema della moneta
unica. In un momento in cui proprio l'Euro e l'Europa tergono in uno
stato comatoso, la piccola isola che va controcorrente ha deciso di
scommetterci, convinta dal fatto che questa scelta possa garantire
maggiore stabilità futura. Proprio per questo la Rivoluzione Islandese
ha forse qualcosa di importante da insegnarci. - meridiano.