Il Referendum plebiscito

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Armando Zenorini

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Dec 30, 2015, 10:34:45 AM12/30/15
to Comitato No Debito Veneto


Il Referendum plebiscito
Riforme. La stagione del populismo referendario... Il premier vanta il
«capolavoro parlamentare», celebra l’uomo solo al comando e tace le fragilità di
un sistema drogato dal maggioritario

Massimo Villone - Il Manifesto, 30/12/2015, Editoriale.
 
Se Renzi facesse di mestiere il bancario,venderebbe ai risparmiatori ignari
titoli spazzatura che hanno affondato quattro banche, note — grazie a papà 
Boschi — a tutti gli italiani. Nessuno meglio di lui porge argomenti privi di
pregio, mentre tace o occulta censure e rischi. Così è stato per le riforme nel
discorso di fine anno. Toni trionfalistici, in specie per l’Italicum, vero
«capolavoro parlamentare».
E certo di capolavoro si tratta, se tale è il bavaglio alle opposizioni, l’uso
spregiudicato in chiave di dittatura di maggioranza di norme e regolamenti, le
ripetute minacce di “tutti a casa” nell’ipotesi di un fallimento, e persino
qualche schiaffo alle presidenze delle assemblee, ancorché timide e prone ai
voleri governativi.
Cosa è mancato nel discorso del premier? Tutto il resto. Una minima serietà
avrebbe richiesto qualche argomento sul dissenso, e in specie sulla censura di
evidenti assonanze tra l’Italicum e il sistema dichiarato illegittimo con la
sentenza 1/2014 della Corte costituzionale. Ovvero sull’accusa di concentrazione
del potere e riduzione degli spazi di democrazia nella Costituzione che si
prefigura, o ancora di sinergia perversa con le altre riforme, dalla legge
elettorale alla pubblica amministrazione, alla scuola, alla Rai.
Cosa abbiamo, invece? L’annuncio ufficiale di una personale strategia
plebiscitaria del premier. Il primo atto sarà nell’ottobre 2016 il referendum
sulla revisione della Costituzione. Renzi ci informa che l’oggetto non sarà il
contenuto della riforma e la qualità della democrazia che da essa viene, ma la
conclusione della sua esperienza politica, e dunque crisi e nuove elezioni in
caso di sconfitta. E certo sa che seguiranno nel 2017 altri referendum,
abrogativi: scuola, Jobs Act, Italicum. È facile pensare che li veda come una
ininterrotta stagione di populismo referendario, utile a consolidare il rapporto
plebiscitario tra lui e gli elettori.
È già funzionale a questo l’autocelebrazione: con l’Italicum non finiremo come
la Spagna, e saremo in Europa un paese campione per stabilità. Meno male che tra
i paesi leader dell’Unione non lo segue proprio nessuno. Se affinità elettiva
vediamo, è con qualche giovane democrazia – si fa per dire — dell’Est europeo.
Per la Spagna, Renzi non dovrebbe chiedersi quale e quanta instabilità verrà
dalla necessità di coalizioni. Piuttosto, la domanda è: quale stabilità verrebbe
mai garantita se uno solo dei contendenti fosse stato alloggiato nelle stanze
del potere grazie ad artifici elettorali, ad esclusione di tutti gli altri? Come
si governa un paese che ha espresso un dissenso largamente maggioritario verso
chi occupa pro tempore le poltrone dell’esecutivo?
Questo è il nostro problema con l’Italicum. Un sistema già tripolare – e forse
quadripolare, se la sinistra ritroverà identità, coesione, leadership —
costretto dall’imbuto del ballottaggio nella semplificazione forzosa dell’uomo e
del partito soli al comando. Il punto non è la stabilità, ma la duratura
capacità di governo. Che si misura giorno per giorno nei cinque anni che seguono
la sera del voto. E non viene da un parlamento non rappresentativo, dall’ascolto
estemporaneo, dai blog e mailing list di governo, e ancor meno dalle comparsate
televisive.
Con Renzi una novità c’è davvero. Dai partiti a vocazione maggioritaria, un
tempo popolarissimi anche presso una certa sinistra, passiamo oggi ai governi a
vocazione minoritaria. Governi volutamente minoritari, perché fondati su uno
scambio consapevole tra consensi reali che in un modello proporzionale
condurrebbero a esiti di coalizione, e numeri parlamentari posticci e gonfiati
da artifici maggioritari che non danno legittimazione sostanziale e forza
politica a chi governa.
Il totem della vittoria artificialmente certa la sera del voto si accompagna di
fatto al fatale declino dei consensi nel corso del mandato. È un lento morire,
per le insoddisfazioni inevitabili e cumulative sulle politiche del governo. I
sondaggi di popolarità decrescente lo segnalano in ogni paese.
Un tempo, nella prima repubblica dei tanti governicchi, sarebbe stato
contrastato con un rimpasto, in un parlamento ampiamente rappresentativo e ad
opera di partiti saldamente radicati. Ma oggi è l’assioma di partenza che lo
impedisce. Come si fa a cambiare il volto di un esecutivo che si vuole
gratificato direttamente dal voto popolare e da un megapremio di maggioranza?
Certo il tema non è a misura di tweet, e quindi sfugge alla dimensione politica
del premier. Ma rende plausibile una sua affermazione: che il turno a Palazzo
Chigi sarà il suo ultimo mandato pubblico. Riteniamo probabile che gli italiani
lo collocheranno a riposo senza onori. Ma dobbiamo evitare – anche con i
referendum — che nel frattempo faccia troppi danni. Ed è ferale il dubbio che
sia più saggio di lui Berlusconi, che – come Renzi ricorda — si lamentava di
dover governare in coalizione, ma poi ha votato contro l’Italicum. Magari alla
fine ha capito.
 


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