Da Il Mattino del 30/12/2009
La Napoli più bella è stata e
continua a essere quella che si conservava nel cuore degli emigranti,
quando gli emigranti eravamo noi. La nostalgia, certo, rende tutto
più intenso e caro, pure la "zella" inestirpabile di queste terre
amate e disprezzate, dove il calore del tufo giallo può diventare
una prigione e il cielo azzurro una trave di fuoco che brucia la
pelle e i sentimenti. Loro se ne andavano, disperati e diseredati,
«carne ’e maciello», ma se ne andava anche Napoli stessa, davanti
ai loro occhi che faticavano a restare asciutti, e prendeva la forma
sempre più piccola del porto con quel puntino rosso
dell’Immacolatella Vecchia. Quella Napoli che scompariva dalla
realtà e dallo sguardo diventava una città invisibile, racchiusa in
parole e canzoni.
Napule ca se ne va, anche nel senso che svanisce, sopraffatta dall’irruenza della vita e del tempo degli uomini, è il titolo di una canzone, ma anche di un libretto che raccoglieva cartoline e poesia, versi potenti come solo potevano essere quelli di Ferdinando Russo, l’anti-Di Giacomo, immagini dove l’oleografia diventava documento, posa gaglioffa, forza vitale che faceva compagnia nelle notti fredde di Brooklyn o nei pomeriggi spaesati di Buenos Aires. Napule ca se ne va, che ora è stato scovato e riproposto dalla Stamperia del Valentino di Paolo Izzo (pagg. 105, euro 12) e affidato alle cura di Maria Russo Dixon, altro non era che un souvenir, proprio così, venduto nel porto tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, come oggi si vendono dvd ai viaggiatori nelle stazioni e negli aeroporti. Un prodotto commerciale, spudoratamente ruffiano, nel quale l’intraprendente editore Ragozzino raccoglieva tipi e situazioni della città che l’emigrante lasciava (o il turista trovava). Il molo angioino allora traboccava di disperati che salpavano per «terre assaie luntane» sui leggendari bastimenti. Gente che si apprestava a perdere «patria, casa e onore», che non voleva dimenticare il colore, l’odore e la voce ammaliatrice della sirena che l’aveva scacciato, ma che non volevano lasciare tutto da quest’altra parte dell’Atlantico. Molti amavano farsi fotografare con il Vesuvio alle spalle per avere con sé l’icona del «paese d’o sole». Fu da questa banale osservazione che nacque l’idea di creare un pacchetto ad hoc, con foto stampate a Genova e versi scritti da un napoletano, che come scrive la Russo Dixon, «amava più la Napoli degli ostricari che quella solare dei turisti». E ai clienti, quel profumo, quell'odore, con tutte le puzze del marcio che potevano provenirne, interessava. Era un prodotto usa e conserva. Ma purtroppo è quasi del tutto sparito, finito nelle mani di accorti collezionisti. La ristampa, anastatica solo per le foto (nella pagina di destra c’è il testo nudo e crudo), ripropone una quarantina di poesie che Russo e Ragozzino riunirono nel libretto. Sono rarità, perché sono quasi sempre sfuggite alle raccolte più note e diffuse. E traggono la forza, anzi la moltiplicano perché s’intrecciano con le immagini, sfuggendo al ruolo di didascalie, anzi riducendo le foto a cristallizzazione di un tipo (che da lì a pochi anni sarebbe diventato uno stereotipo). E sì, c’è la capera («chillo ’o capillo è comme ’o nnammurato») e ci sono gli scugnizzi («na streppa ’e nu fenucchio è n’allegrezza»). E poi ’o pazzariello («Currite! Mò s’è aperta, sta cantina!») e ’o purmunaro («Si nun ’o trovo a vennere, l’acciro!»), c’è Posillipo («’O sole squaglia ’argiento e ’o mena a mare») e ’o vico ’e Griece dove «campa na gente ca nun se capisce». E via andare sulle tracce di universo che già a Napoli faceva molto Little Italy, come in uno specchio fatato che riflette ciò che si sarà dove non si è più, rendendo immortale l’effimero. Forza della poesia e di un poeta che ha sempre preferito sporcarsi le mani con il ventre di quella Napoli che la sua amica Matilde Serao frustava dalle pagine del «Mattino». La «zumpata» (il famigerato duello tra guappi), ma anche le imprese di Linardo, eroe potente e gaglioffo («Na notte, pe passà d’ ’a Francia ’a Spagna, chisto Linardo, neh, che te cumbina? Caccia sta spata, e taglia na muntagna!»), creano una mitologia che fa molto «Gangs of New York», ché dall’altra parte del mare non si trascinerà solo la nostalgia, ma pure la canaglia.