Alla salute i napoletani ci tengono più dei settentrionali, però non sono salutisti, la malattia la considerano spesso un male necessario, sui rimedi della medicina tendono allo scetticismo. Parola di Renato de Falco, napoletanologo celebre che su Il napoletano e la salute terrà una conversazione venerdì 5 febbraio (ore 18) al Blu di Prussia, a Napoli (via Filangieri), introdotto da Imma Pempinello e su invito dell’associazione Mogli dei Medici Italiani. Le tesi esposte faranno riferimento alla tradizione di proverbi e detti partenopei per la quale De Falco - 81 anni e una lunga carriera da avvocato alle spalle - è ricercatore e riconosciuto maestro e alla quale ha dedicato vari volumi, tra i quali va ricordato innanzitutto l’Alfabeto napoletano, più volte pubblicato da Colonnese in edizioni via via riviste e arricchite. «Anche nel caso della salute la tradizione napoletana tende al fatalismo» spiega De Falco, anticipando qualche qualche tema dell’incontro. «Sa che la giovinezza, la maturità, la vecchiaia con i suo malanni, sono condizioni alle quali non si può sfuggire ”’O primmo miedeco è Dio”, il primo medico è Dio, dice la tradizione. E negli strati popolari l’atteggiamento verso i professionisti della medicina è spesso beffardo. Sino alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento il medico si riconosceva anche da evidenti segni esteriori. Portava in genere la barba, un cappello duro, un soprabito lungo, una borsa sussiegosa». In che consiste per la tradizione napoletana il pensare alla salute? «Soprattutto nel non lasciarsi condizionare dalla malattia, nel non darle un peso eccessivo. Che la salute sia considerata preziosa lo dimostra un saluto molto diffuso a Napoli come ”Statte buono”, Statti bene, il ”Vale” dei latini. Che ha anche un valore di augurio spirituale, è un’esortazione a stare bene nel corpo e nell’animo. E nelle espressioni, nei detti napoletani i riferimenti alla salute sono frequentissimi. Io ne ho trovati circa 300. Anche se si nomina un morto si ha cura di augurare salute all’interlocutore, dicendo, per esempio, ”chillo poi, salute a vuie, non ce sta cchiù”, quello, salute a voi, non c’è più». Questi detti hanno varie funzioni? «Sono soprattutto constatazioni, a volte forniscono indicazioni sul modo di gestire la vita appunto senza lasciarsi condizionare. Una dominante è, come ho detto, il fatalismo. Significative sono le parole attribuite a un non meglio identificato medico di Nola, cittadina che godeva fama di avere buoni medici: ”Chesta è ’a ricetta e Dio t’a manna bona”, questa è la ricetta e Dio te la mandi buona. Qui anche il medico sa che la propria scienza vale poco e non è accompagnata dalla buona sorte o dalla provvidenza»". Per la tradizione guarire è anche frutto di un miracolo? «I miracoli in fondo per i napoletani non sono eventi molto strani. Intorno alla loro esistenza lungo la storia si sono addensate tante minacce, tra dominazioni, guerre, miserie, carestie, epidemie, che già arrivare alla fine di una giornata poteva, in molti periodi, considerarsi un miracolo. Tuttora noi persone che viviamo a Napoli siamo operatori quotidiani di miracoli... miracoli di adattamento, di sopportazione. Miracoli che derivano da una filosofia spicciola dell’”accussì adda ì”, così deve andare, che può aiutarci a vivere ma può indebolire le speranze e l’impegno per cambiamenti positivi». E questo si rispecchia anche nei suggerimenti pratici sulla salute? «Sì. Le antiche nonne quando un bambino accusava un malessere gli dicevano ”Sana, sana comm’è venuto accussì se ne va”, guarisci, guarisci, come il male è venuto così se ne va. Ma non mancano le regole specifiche. A stare bene può servire, per esempio, avere ”zuoccolo, cappiello e casa a Sant’Aniello”, cioè andare in giro ben calzati, ben vestiti e abitare in una zona di Napoli, Sant’Aniello, che era ritenuta salubre. Né manca la psicologia che per esempio insegna ”’A fissazione è peggio della malattia”, fissarsi di star male è peggio che essere ammalati, perché la cura è più difficile».