Ecco alcune informazioni storiche e artistiche sulla Basilica:
da
http://www.italiamedievale.org/sito_acim/contributi/formis.html
A metà altezza, lungo il declivio occidentale del monte Tifata, nei pressi
di Caserta, sorge la basilica benedettina di Sant’Angelo in Formis, dedicata
all’Arcangelo Michele. Le origini dell’edificio sono tuttora ignote, anche
se gli studiosi tendono ad attribuirne la fondazione ai Longobardi, come si
deduce dalla dedica e da alcuni elementi, come un capitello a “fibula
alveolata” trasformato in acquasantiera.
L’edificio appare espressamente menzionato, per la prima volta, in un
documento della prima metà del X secolo, con cui il vescovo di Capua, Pietro
I, concesse ai monaci dell’abbazia di Montecassino, la chiesa di San Michele
Arcangelo, prima detta ad arcum Dianae nei documenti coevi, poi, in quelli
successivi, ad Formas, e, infine, Informis, o in Formis. Assai controversa è
l’interpretazione etimologica: alcuni studiosi, basandosi sul significato
del vocabolo latino forma, ossia acquedotto, hanno ipotizzato che tale
denominazione fosse legata alla presenza di falde o di condutture d’acqua
nel territorio circostante; altri, invece, attenendosi al significato della
parola informis, ossia privo di forma, e quindi spirituale, propendono per
un’interpretazione “teologica”. Nel 943 il vescovo di Capua, Sicone, più
volte accusato di negligenza nell’esercizio dei suoi poteri, si impossessò
della chiesa, sottraendola ai monaci di Montecassino. In quello stesso anno
i monaci cassinesi fecero ricorso al pontefice Marino II, il quale ingiunse
al vescovo la restituzione dell’edificio.
Nel 1065 la chiesa, divenuta nel frattempo nuovamente di proprietà
vescovile, fu ceduta a Riccardo Drengot, principe normanno di Capua e conte
di Aversa, affinché questi, desideroso di purificare la propria anima dai
peccati di una vita violenta, vi costruisse un cenobio.
L’anno successivo Riccardo, avendo constatato con meraviglia come il luogo
fosse particolarmente adatto ad ospitare una struttura del genere, concesse
al cenobio, da lui stesso costruito, i diritti relativi a diverse sue
proprietà. Nel 1072, infine, Riccardo concesse all’abate di Montecassino,
Desiderio, il cenobio con tutte le sue pertinenze. Fu probabilmente proprio
in quella occasione che l’abate Desiderio iniziò la ricostruzione del
complesso monastico fin dalle fondamenta.
Il ruolo di fondatore svolto dall’abate viene confermato non solo dall’epigrafe
incisa sull’architrave del portale, che potrebbe essere posteriore al 1087,
giacché lo descrive con termini che lo ricordano come personaggio morto, ma
anche dagli affreschi dell’abside centrale, nei quali l’abate è
rappresentato con il modello della chiesa tra le mani e con il nimbo
quadrato, che lo qualifica come personaggio vivente all’epoca dell’esecuzione
dei lavori.
La basilica fu costruita nel luogo in cui, in età classica, sorgeva un
tempio dedicato a Diana, divinità della caccia, alla quale tutto il monte
Tifata, un tempo ricoperto di boschi, era consacrato. Di questo tempio sono
stati riutilizzati nell’edificio romanico alcuni elementi, come le colonne,
i capitelli (alcuni dei quali parzialmente rilavorati), e gran parte del
pavimento in opus sectile, integrato con alcuni cocci in epoca medioevale.
La parte frontale di un sarcofago strigliato orna l’altare.
L’edificio è a tre navate, con quella centrale larga il doppio delle
laterali, e segue il modello architettonico benedettino – cassinese con l’abside
centrale più larga e più alta delle laterali; tuttavia, rispetto alla
planimetria della basilica di San Benedetto a Montecassino, ricostruita dall’abate
Desiderio tra il 1066 e il 1071, questa chiesa è priva di transetto.
Come si è prima detto, molti pezzi che compongono la scultura architettonica
dell’edificio risalgono all’età classica, e gli unici elementi realizzati
appositamente per questa chiesa sono il portale e i capitelli situati
accanto all’abside centrale. Si tratta essenzialmente di capitelli corinzi
caratterizzati da un fogliame piatto e bidimensionale.
E’ probabile che la costruzione dell’edificio sia stata condotta a termine
prima della morte di Desiderio nel 1087. Questa ipotesi potrebbe essere
confermata dal fatto che tanto l’archivolto del portale, quanto la cornice
marcapiano del vicino campanile, costituiti dalla sovrapposizione di una
fila di dentelli, di un tortiglione, e di una fila di ovoli, sono
strettamente affini al coronamento esterno delle tre absidi di San
Liberatore alla Maiella, la cui costruzione è datata a partire dal 1080, ed
il cui committente viene indicato dalle fonti essere l’abate Desiderio di
Montecassino.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che il portico antistante la facciata sia
stato ricostruito verso la fine del XII secolo in seguito al crollo del
campanile che, nel modellino stretto tra le mani di Desiderio, raffigurato
nell’abside centrale come fondatore, compare sul fianco sinistro dell’edificio.
Si tratta, comunque, di un’ipotesi priva di riscontri materiali e
documentali. Tale portico (o nartece) precede un portale di gusto
tipicamente cassinese poiché riprende, da tale tipologia, sia l’idea di
racchiudere l’architrave e gli stipiti in semplici cornici lineari,
conferiscono all’insieme un aspetto unitario, sia quella di decorare l’archivolto
con la cosiddetta “cornice benedettina”.
L’architrave reca incisa l’iscrizione che rievoca Desiderio come fondatore
della basilica. Il testo è il seguente: “CONSCENDES CELUM, SI TE COGNOVERIS
IPSUM/ UT DESIDERIUS QUI SANCTO FLAMINE PLENUS/ COMPLENDO LEGEM DEITATI
CONDIDIT EDEM/ UT CAPIAT FRUCTUM QUI FINEM NESCIAT ULLUM” ( CELUM e EDEM non
sono errori di trascrizione). La traduzione dovrebbe essere, pressappoco, la
seguente: “ Salirai al cielo, se conoscerai te stesso, come Desiderio che,
pieno di Spirito Santo, adempiendo alla legge, edificò il tempio a Dio,
affinché colga il frutto che non conosce fine”. Ritengo priva di fondamento
l’ipotesi secondo cui l’iscrizione, che rievoca l’abate come personaggio
defunto, sia stata incisa su un architrave più antico, e che i suoi
caratteri rimandino al XII secolo, giacché il titulus, ossia l’iscrizione
dedicatoria che corre lungo la parte mediana dell’abside centrale, e che
divide in due fasce gli affreschi che la ornano, presenta caratteri molto
simili.
Di grande interesse è il ciclo di affreschi che abbellisce l’interno dell’edificio.
L’attenzione del visitatore è immediatamente catturata dal Cristo
Pantocratore che giganteggia nel catino absidale, circondato dai simboli dei
quattro Evangelisti. Nella fascia inferiore sono, invece, rappresentati i
tre Arcangeli (nell’ordine: Gabriele, Michele e Raffaele), affiancati dall’abate
Desiderio a sinistra (raffigurato con il modello della chiesa tra le mani),
e da San benedetto a destra. Anche nell’abside destra l’affresco è diviso in
due fasce sovrapposte: in quella superiore vi è raffigurata la Vergine col
Bambino fiancheggiata da due angeli ai quali si aggiungono, nella fascia
inferiore, sei santi.
Lungo la parete di sinistra si possono trovare molte tracce, tra l’altro ben
conservate, di un ciclo di affreschi rappresentante episodi del Vecchio
Testamento. Sulle pareti laterali della navata centrale sono raffigurati
episodi del Nuovo Testamento. Sulla base del tradizionale e logico
presupposto di un inizio dei lavori di costruzione della chiesa, avvenuto
nella zona presbiteriale intorno al 1072, poiché gli affreschi venivano
eseguiti dopo l’innalzamento delle murature, è possibile ritenere che la
loro stesura sia stata avviata poco dopo la fondazione dell’edificio nella
zona absidale, per poi estendersi alle pareti perimetrali, alla
controfacciata, e a quelle interne del cleristorio. Gli affreschi, che
ornano l’interno della basilica, furono probabilmente realizzati da alcune
botteghe locali, che operarono ispirandosi a modelli bizantini. Va infatti
osservato come l’uso di schemi bizantini, evidenziato dalla suddivisione
dell’intero ciclo pittorico in pannelli mediante colonnine dipinte, e dalla
disposizione delle figure all’interno dei singoli riquadri (si noti, ad
esempio, la scena della Crocifissione), sia attenuato da un primo, seppur
timido, tentativo di caratterizzazione delle figure, reso evidente dal rosso
che colora le guance dei personaggi, e dalle rughe che, con tratti
fortemente marcati, ne segnano i volti. Simili caratteristiche si ritrovano
anche nel grande affresco della controfacciata, che raffigura il Giudizio
Universale, e che ricalca lo schema iconografico bizantino, particolarmente
diffuso in quel periodo; infatti, anche in questo caso le scene si
suddividono in fasce sovrapposte. In alto, tra le finestre, sono raffigurati
i quattro angeli con le trombe del Giudizio; nella fascia centrale vi è
rappresentato Cristo Giudice con la mandorla apocalittica, tra gli Apostoli
seduti sui troni; più in basso i Beati, ed infine i Dannati. Si deduce,
pertanto, basandosi sul dogma dell’Incarnazione, questo ciclo di affreschi
tende ad evidenziare il piano provvidenziale di Dio per la redenzione finale
e la salvezza eterna dell’umanità, attuato mediante il sacrificio di Cristo,
suo figlio.
Il contesto culturale e stilistico in cui tali botteghe si trovarono ad
operare, risulta ancora più chiaro se poniamo a confronto gli affreschi di
Sant’Angelo in Formis con le coeve miniature di produzione cassinese e, in
particolare, con quelle che ornano il codice Vat. Lat. 1202, donato al
convento dall’abate Desiderio. Le botteghe in questione risentirono, dunque,
di quel clima stilistico che affonda le sue radici nella cultura artistica
bizantina, e che risulta strettamente legato alla presenza di quegli artisti
bizantini, che l’abate Desiderio chiamò a lavorare nel cantiere della nuova
abbazia di Montecassino.
Le figure di Santi, dipinte nei pennacchi delle navate laterali, sono
successive all’Undicesimo secolo. Tale ipotesi potrebbe essere confermata
dal confronto con i Profeti dipinti nei pennacchi della navata centrale.
Risulta, infatti, evidente dal confronto non solo la posizione statica, ma
anche la maggiore imponenza di queste figure, che presentano caratteristiche
affini agli affreschi che ornano le lunette del portico, la cui
realizzazione è datata dagli studiosi tra il XII ed il XIII secolo.
Bibliografia:
Mario D’Onofrio, Valentino Pace, La Campania. Volume 4 di Italia Romanica,
Milano, 1997.
Gino Ragozzino, Persistenze e novità nella storia religiosa di Sant’Angelo
in Formis, in Misteri e presenze. La civiltà di Sant’Angelo in Formis, a
cura di Antonio Ianniello, Napoli, 2002.
Si consiglia inoltre:
Giancarlo Bova, Capua cristiana sotterranea. Sant'Angelo in Formis. Cultura
santità territorio, Napili, 2002.