Carnevale a cavallo ‘a Vecchia……. un antico rito napoletano.
(da: Mario Buonoconto – Napoli esoterica – Tascabili Economici Newton - 1996, Roma - Newton Compton editori s.r.l. – pp. 25-28)
A Napoli i tradizionali riti carnascialeschi sono da sempre stati connaturati più che al periodo del Carnevale vero e proprio, come lo si conosce e lo si festeggia in età moderna, alla settembrina festa di Piedigrotta. Questa festa religiosa ha da sempre “nascosto” sotto l’aspetto devozionale alla Madonna “ ‘e Pederotta” una sfrenatezza nei modi e nei costumi da parte del popolino, che tradizionalmente si concedeva libertà mai usate nel corso dell’anno, eredità di retaggi millenari di antiche ritualità pagane legate ai culti dionisiaci praticati nell’antichissima Crypta Neapolitana che proprio a Piedigrotta aveva il suo ingresso.
Il periodo del Carnevale a Napoli, quindi, almeno fino agli inizi del secolo scorso, non era una ricorrenza riconosciuta e festeggiata come nel resto d’Italia; solo gli appartenenti al ceto più colto e borghese lo festeggiava, mentre per il popolo, il mettersi in maschera, il lanciare stelle filanti e coriandoli, l’assordare per giorni i concittadini, forzosamente tolleranti, con “trummette” e “putipù”, “cuffiare” (prendere in giro) i passanti, avveniva soltanto in occasione della festa di Piedigrotta, secondo l’ancestrale tradizione edonistica-orgiastica di origine pagana già ricordata.
Quello che si conosceva del Carnevale, ai vecchi tempi, come festa, ruotava essenzialmente attorno alle cosiddette “cuccagne”, feste organizzate dai sovrani stessi o dalla nobiltà cittadina nelle principali piazze della città, al fine di compiacere, divertire e, così accattivandosene la benevolenza, sfamare il popolino, atavicamente affamato ed indigente.
Ma mentre quasi del tutto ignorato dal popolo napoletano era il Carnevale, non lo era, invece, la successiva Quaresima. Rigorosi nel farsi segnare, in tutte le chiese della città, la croce di cenere sulla fronte prona, ritualità religiosa del Mercoledi delle Ceneri, primo giorno della Quaresima, i napoletani correvano però subito a festeggiare il rituale pagano del Carnevale a cavallo ‘a Vecchia, dove alcuni figuranti rappresentavano, con l’ausilio di due gambe finte incrociate all’altezza del ventre, subito al di sotto di una finta testa di strega, l’antica maschera a cavalcioni della ghignante vecchiaccia sdentata. Il figurante, che era vestito nella parte superiore del corpo (testa, braccia e torso) da Pulcinella, sembrava terminare nelle gambe incrociate sulle spalle della finta vecchia, per continuare, nella parte inferiore del corpo, vestito da donna con relativi zoccoli. Questa particolare maschera rappresentava l’unico accenno ufficiale al Carnevale (Pulcinella) che si accavallava alla Quaresima (l’orrenda vecchiaccia) in un androgino di chiara derivazione pagana che fondeva la memoria dell’ermafrodito dei riti dionisiaci al “Rebis alchemico”. Il figurante quaresimale avanzava danzando una tarantella lenta, ritmata, spesso caratterizzata solo da un oscillare del corpo a gambe ferme, come la danza di alcune maschere popolari sarde, anch’esse di antichissima origine rituale.
E’ interessante notare come a Napoli l’inizio di un periodo di austerità penitenziale nascesse “divertito” con codazzo di scugnizzi e dei più violenti lazzari, schiamazzanti ed invadenti. Davanti ai bassi, dove la mascherata si fermava, venivano offerti “ ‘e salatielli” (i lupini inteneriti nell’acqua e addolciti con il sale) unico accenno al pasto povero dei quaresimali osservanti. Spesso sui saporiti lupini si tracannavano generose “langelle” (brocche) di frizzante Gragnano e secco Asprino, gli ottimi vini dei poveri, che creavano una vivace atmosfera, molto poco penitente, ma che, tuttavia, aveva il merito di durare poco.
La memoria alchemica del “Rebis” del Carnevale a cavallo ‘a Vecchia, così viva nel popolino, aveva altresì riscontro nel rituale “borghese” della “Rotura della Pignata”, che appunto nel periodo quaresimale, ancora più in aperto contrasto con lo spirito di rigorosa e severa meditazione di valori spirituali, riuniva le famiglie degli amici e parenti più cari per allegre riunioni che, dopo balli, canti, cene opulente e relative generose libagioni, vedeva i più piccoli di casa, opportunamente bendati, tentare di colpire con un bastone (“ ‘a mazza ‘e scopa”) una pentola di coccio sospesa ad una corda e contenente dolciumi e giocattoli. Nelle famiglie più abbienti la “pignata” poteva contenere denaro ed anche qualche gioiello, ma in questo caso la “rottura d’’a pignata” era riservata, contro il rito, esclusivamente agli adulti.
Antiche memorie esoteriche affiorano all’analisi di questo sereno rituale domestico: dall’Athanor alchemico alla cornucopia della mitologia magica che si ritrova nei riti dell’abbondanza dei misteri dionisiaci, ne scaturisce così un desiderio orgoglioso e atavico di praticare propri “riti”, stratificati nella memoria di una civiltà millenaria, contro le malinconie religiose dei digiuni e delle astinenze, un inconscio ritorno liberatorio ad una sana allegria panteistica che trova nel Sole la sua gioia naturale di vita. Tutto questo connaturato all’ancestrale esoterismo che da millenni contraddistingue il popolo napoletano.