Palazzo Zevallos di Stigliano e l'ultimo Caravaggio - Napoli, via Toledo 185

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Roberto Piantedosi

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Jun 27, 2009, 6:24:07 PM6/27/09
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Da: http://www.palazzozevallos.it/il_palazzo.asp


In “Rome, Naples et Florence en 1817” Stendahl, giunto a Napoli il 9 febbraio, subito annota:

«Eccoci al Palazzo degli Studj, si volta a destra, è la via Toledo. Ecco una delle grandi mete del mio viaggio, la strada più popolosa e allegra del mondo».

La strada in cui sorge il palazzo aveva rappresentato nel corso del XVI secolo la “spina dorsale” del piano di rinnovo urbano voluto dal vicerè, don Pedro de Toledo, non appena insediatosi a Napoli, agli inizi del 1533. Sfarzosamente lastricata di pietra vesuviana – in un tempo in cui le strade di Parigi e Londra erano degli sterrati sconnessi – la via riprendeva il tracciato della soppressa murazione aragonese dal monastero di Santo Spirito fino al convento di Monteoliveto e di lì proseguiva in linea retta fino alla nuova porta Reale. Via Toledo costituiva quindi il collegamento fra le aree più settentrionali della città e il centro rappresentativo e direzionale, intorno a Castel Nuovo e al porto.

Sul bordo della regolare scacchiera dei “quartieri spagnoli”, in un primo momento sede degli alloggi per l’esercito, la via, di insostituibile valore strategico-difensivo, ben poco si conciliava tuttavia con il proposito iniziale di farla divenire cerniera di alta qualità architettonica e sociale. Non trovò quindi immediati riscontri l'iniziale piano di don Pedro che prevedeva di attirare qui le famiglie napoletane nobili più in vista.

 

Palazzo Zevallos sorse sul lato orientale di via Toledo, nel blocco compreso tra le vie della Concezione e di Santa Brigida. tra il 1637 e il 1639, per opera di Cosimo Fanzago (Clusone 1591 – Napoli 1678)

http://it.wikipedia.org/wiki/Cosimo_Fanzago ,

un architetto e scultore proveniente da Bergamo che si era radicato nella città divenendo uno degli interpreti più originali del barocco napoletano. Il nuovo, sontuoso edificio risponde ai tentativi di ammodernamento in chiave barocca della strada che cercavano di sopperire alla sua mancata caratterizzazione nobiliare.

Per percepire l'originario assetto della costruzione occorre riferirsi a un’incisione di Paolo Petrini, datata 1718, l’unica testimonianza iconografica che ci sia pervenuta a documentare con qualche attendibilità il progetto realizzato da Cosimo Fanzago. L’incisione porta in calce la seguente scritta: «Facciata del Palagio del Principe Sonnino Colonna» e, in corpo più piccolo, «questo è nel tutto meraviglioso poiché l’altezza è superiore ad ogni altro che si vede in Città ed è si bene architettato, stimandosi il disegno esser dell’istesso Cavalier Fontana».

La didascalia esalta dunque la mole insolita della fabbrica e attribuisce il progetto – del tutto impropriamente – a Domenico Fontana, architetto del nuovo palazzo vicereale costruito a partire dalla fine del Cinquecento. Il palazzo si eleva sulle botteghe del piano terreno con un primo mezzanino, un piano nobile ed un secondo mezzanino; la facciata, scandita da un ritmo regolare e simmetrico delle aperture, è segnata al centro dal bellissimo portale in marmo e piperno, unico elemento superstite di mano dell’architetto bergamasco, e da slanciate paraste che la segnano verticalmente.

Cornici di un sobrio classicismo qualificano finestre e balconi, illeggiadrite da volute nelle finestre del secondo mezzanino. Nelle intenzioni di Fanzago è fin troppo evidente come ogni ambizione di magnificenza fosse stata affidata al sontuoso disegno del portale.

Fortemente rappresentativo dello status sociale e della ricchezza della famiglia che vi abitava, qui si ritrova la tipica maniera del Fanzago di giocare con l'effetto cromatico del contrasto tra i materiali: i due pilastri laterali, nei quali il marmo bianco si alterna a bugne in pietra di piperno, racchiudono un’arcata a tutto sesto e sorreggono un architrave che accoglie il monumentale fastigio centrale con lo stemma gentilizio affiancato da due anfore. Vi si riconoscono tutti gli elementi del fantasioso stile barocco del Fanzago: le carnose e plastiche ghirlande di frutta si armonizzano felicemente con le volute ioniche, i mascheroni con le fauci aperte, volti vagamente antropomorfi compaiono rispettivamente nei capitelli, al di sotto dello stemma e di profilo nella parte inferiore del fastigio, confondendosi perfettamente con elementi fogliacei e ornamentali.

Lo stemma centrale - con i simboli della famiglia Colonna, quindi aggiunto successivamente alla realizzazione del portale -, è sormontato da un’aquila bicipite ed è affiancato da piccoli stendardi decorati da mezze lune e da due stemmi laterali, uno papale ed uno allusivo al regno austriaco. La presenza di queste decorazioni che accompagnano l’arma nobiliare alludono alla battaglia di Lepanto del 7 ottobre del 1571, nella quale i Turchi vengono sconfitti dalla flotta voluta da papa Pio V, comandata da Don Giovanni D’Austria, figlio di Carlo V, della quale Marcantonio Colonna aveva il ruolo di Capitano Generale (della coalizione faceva parte anche la Repubblica Veneta, sotto la guida di Sebastiano Veniero). L’aver voluto inserire simbolicamente nello stemma di famiglia questi elementi relativi ad un evento storico così importante, si configura dunque come un omaggio ad un membro della famiglia che si era distinto per le sue gesta eroiche.

 

 

Il primo proprietario: Giovanni Zevallos

I documenti sul palazzo non sono avari di informazioni. In un manoscritto risalente al 1639 leggiamo infatti, relativamente al fondatore, Giovanni Zevallos: «...guadagnò infinite ricchezze, con le quali poté fabbricare quel sontuoso, e gran palazzo in Strada Toledo, che rende ammirazione a chi lo vede»; una fonte successiva riferisce che «da povero e miserabile Uffiziale della scrivania di Razione con i partiti di Corte si aveva accumulato un fondo di 600 mila ducati» e che aveva speso oltre 70 mila scudi per la costruzione di questo palazzo. L’esistenza dell’edificio nel 1639 è confermata da un atto notarile del 10 febbraio dello stesso anno, mentre da una perizia di due anni prima si deduce che già esisteva, in loco, una casa di proprietà di Zevallos, ma non ancora il palazzo vero e proprio, che avrebbe subito numerosi danni durante la sommossa popolare del 1647, la cosiddetta rivolta di Masaniello.

 Alla morte di Giovanni Zevallos, il figlio Francesco ereditò e dissipò in breve tempo tutti gli averi paterni. Il palazzo, intorno al 1653, fu venduto a Giovanni de Vandeneynden, facoltoso mercante fiammingo che si era arricchito al seguito di Giovanni. Il nuovo proprietario, a caccia di un titolo nobiliare, fece sposare con una Piccolomini il figlio Ferdinando, mentre le due figlie di quest’ultimo, Elisabetta e Giovanna, andranno in moglie, rispettivamente, al Marchese di Anzi, don Carlo Carafa, e al principe di Sonnino, don Giuliano Colonna.

La cosiddetta Platea delle Celse, un documento redatto nel 1682 per i Certosini di San Martino rappresenta il tratto di via Toledo che dal convento di San Tommaso d’Aquino arriva fino alla “Casa di Vandin” – che sta per Vandeneynden – cioè palazzo Zevallos. Sempre sullo stesso lato vengono segnalati: la casa del reggente, don Francesco Moles, quella di Francesco Antonio e Pietro Imparato, i due palazzi Tappia, uniti dal ponte, le carceri di San Giacomo e

l’omonimo ospedale con la chiesa della Concezione, costruita nel 1583 e demolita nel 1825. Dall’altra parte della strada è riportata tutta la zona dei “quartieri spagnoli” caratterizzata da un evidentissimo frazionamento immobiliare che rendeva estremamente difficile il sorgere di palazzi nobiliari.

 

 

I Colonna e la struttura del palazzo

 

Nel 1688 il palazzo diventa proprietà dei Colonna, dato che il principe di Sonnino, don Giuliano, aveva sposato Giovanna de Vandeneynden.

L’organizzazione interna dell’edificio è ricavabile da una preziosa descrizione contenuta in un documento notarile, datato 2 settembre 1688.

«Uno portone palaziato con ornamento di marmi e piperni lavorato con bugne, sopra del quale vi è un’arma di marmo con l’impresa del primo Padrone con festoni attorno, e due giarroni laterali»: il portale d’ingresso, l’unico elemento architettonico che rimarrà inalterato nel tempo. Da qui si entrava nell’atrio coperto a volta, con pilastri di piperno appoggiati alle pareti; a destra una scala portava alle stanze di servizio e alle cantine, composte da nove stanze, a sinistra si trovava la scala principale e, di fronte a questa si accedeva al cortile attraverso tre archi di piperno, un numero identico a quelli che lo concludevano, mentre sui prospetti laterali erano due. Gli ambienti che giravano intorno erano adibiti a rimesse; in più vi era una stalla molto grande, «capace di venti cavalli dove vi sono due stanze piccole ad uso di pagliera». Un cortile più piccolo era collocato all’estrema destra del palazzo, su cui affacciava la «Cocina principale a la mia con tavola di marmo con tutte comodità».

L'ammezzato si raggiungeva attraverso le scale già menzionate, il piano nobile solo da quella principale, «la quale è tutta pipernata con balaustrata alli lati di marmo bianco, palausti di misco». L’appartamento al primo piano si apriva con una grande sala coperta a «lamia di canna», da cui si sviluppavano gli ambienti più importanti, per posizione, grandezza, luminosità, garantita da quattro balconi su via Toledo e da due sul cortile, della residenza. A destra della sala si disponevano un'anticamera ad angolo, tre stanze in successione, affacciate su via della Concezione e, aldilà di un passetto, la galleria con tre balconi sul cortile grande e tre finestre su vico Fico. A sinistra due anticamere, prospicienti via Toledo, la prima delle quali con finestra sulla cappella, e due ulteriori camere, che conducevano alla seconda galleria, sicuramente più piccola della prima, ma più riccamente decorata.

Al pianterreno il palazzo si affacciava con tredici botteghe su via Toledo e con altre cinque su via della Concezione. Anche ciò concorreva alla stima complessiva dell’edificio, che all’epoca ammontava a 61.100 ducati.

I Colonna affidarono a Luca Giordano

http://it.wikipedia.org/wiki/Luca_Giordano ,

pittore celeberrimo la cui scelta conferma, una volta di più, le ambizioni della committenza, la decorazione del grande appartamento nobiliare, oggi purtroppo perduta.

Da documenti d'archivio e dalla testimonianza settecentesca del biografo del Giordano, De Dominici, sappiamo che l'artista, il più grande esponente del barocco napoletano, fu chiamato a decorare il soffitto su incannucciata della galleria principale, così come altre parti del palazzo. [...] al Principe di Sonnino – scrive il De Dominici - dipinse a fresco alcuni ovati nelle logge con favolose Deità sognate da’ Gentili; e in un arco di esse dipinse ad olio un convito, con una scala donde vengono le vivande, e vi ha espresso un Nano, con altre figure curiose; quali rappresentar volesse un banchetto di persone mediocri, in cui si ammira la letizia, e la giocondità che destano ne’ riguardanti il riso [...], quest'ultima scena, senza dubbio, un omaggio a Paolo Veronese e in particolare alla maestosa Cena in casa di Levi oggi alle Gallerie dell’Accademia a Venezia.



Lo smembramento della proprietà

 

L’unità familiare dei Colonna di Stigliano fu spezzata nel 1831 per volontà della principessa donna Cecilia Ruffo, moglie del defunto principe don Andrea, che decise di espropriare il palazzo a danno dei figli. A testimonianza dell'evento resta la descrizione di tutte le parti del palazzo messe sotto esproprio, a eccezione di due quartini al primo piano ammezzato e di gran parte delle botteghe.

Le modifiche riguardarono la divisione dei vani in diversi appartamenti da dare in affitto. Se nel Seicento esistevano due soli appartamenti, al piano nobile e a quello superiore, e tutti gli altri locali contenuti nei piani ammezzati erano di servizio ai due principali, nell’Ottocento queste unità furono divise in appartamenti più piccoli, fittati a inquilini diversi.

Il piano nobile fu dunque diviso in quattro diversi appartamenti, perdendo così la primitiva identità architettonica. La sala e le due gallerie secentesche scomparvero inevitabilmente in questo nuovo tipo di organizzazione, e con esse le ricche decorazioni che li avevano resi gli ambienti più rappresentativi della casa. Non si fa più alcun cenno, per esempio, alle lamie dipinte da Luca Giordano, che dovettero apparire inadeguate alla nuova funzione dello spazio.

Il palazzo, messo in vendita quasi per intero (la principessa conservò per sé un solo appartamento), trovò vari acquirenti.

 

 

Le modifiche ottocentesche della famiglia Forquet

 

Nel 1831 il noto banchiere Carlo Forquet acquistò il primo piano nobile più altri locali, che poi lasciò in eredità ai figli Giacomo e Francesco. Diverse le modifiche apportate in questo frangente: la più significativa fu la riunione del piano nobile in un unico appartamento con quattro ingressi e la definizione di un ulteriore appartamento da affittare che aveva ingresso «a sinistra del primo riposo della scala grande».

Nello stesso anno il cavaliere Ottavio Piccolellis acquistò i due appartamenti siti al piano ammezzato e raggiungibili dalla scaletta di marmo posta alla destra del porticato, riunendoli in un’unica abitazione. Le restanti parti furono vendute dalla famiglia dei principi Colonna di Stigliano solo alcuni anni dopo.

I nuovi proprietari decisero di rimodernare completamente il vecchio palazzo, e a tal scopo si affidarono all’architetto Guglielmo Turi. Sebbene il suo progetto - che prevedeva il mascheramento de «la mostruosità del grande spazio che resta fra le finestre del piano nobile e la cornice superiore, cambiandosi le proporzioni degli attuali balconi, ed innestandovi alcune altre decorazioni» - non venisse realizzato, la facciata cambiò completamente aspetto, perdendo irrimediabilmente i caratteri fanzaghiani, a eccezione del portale che fu conservato nella sua originaria struttura.

Tra gli anni trenta e gli anni novanta dell’Ottocento i Forquet rinnovarono i cicli decorativi interni, affidando il nuovo apparato di affreschi e stucchi a tre artisti all'epoca molto stimati: i pittori Giuseppe Cammarano, Gennaro Maldarelli e lo stuccatore Gennaro Aveta. Tutti membri e professori dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, questi maestri sono presenti negli stessi anni e nei decenni successivi del secolo, nei più importanti cantieri attivi in città, con commissioni di grande prestigio sia da parte della Corte che dai privati.

Restituite allo loro originaria configurazione, a seguito del recente intervento di restauro, le decorazioni interessano diversi ambienti del palazzo ai quali viene attribuita, a seconda delle destinazioni, una denominazione mediante raffigurazioni simboliche; un uso questo, ricorrente e caratteristico nel corso dell’Ottocento.

 

 

Il passaggio alla Banca Commerciale Italiana

 

Il penultimo capitolo della storia del palazzo ha inizio il 13 dicembre del 1898, quando la Banca Commerciale Italiana – nata quattro anni prima a Milano – acquista il primo piano nobile e gli altri locali di proprietà dei Forquet.

Undici anni dopo, e precisamente il 16 febbraio 1910, l'Istituto, «volendo estendere il proprio impianto, per maggior comodità del pubblico, e per più largo assestamento dei propri uffici esistenti nei locali di sua proprietà nel palazzo già Stigliano in via Roma n. 185», decise di acquisire anche un altro appartamento, e a tal scopo, come attesta l’Atto di compravendita stilato in quel giorno, fece «richiesta al costituito signor Eugenio Massa di voler ad essa vendere quello di sua proprietà, sito al piano ammezzato a destra del porticato del detto palazzo». Negli anni successivi, e precisamente fra 1919 e 1920, furono acquistate le rimanenti parti del palazzo, più tutte le botteghe a piano terreno.

Completata l'operazione, la Banca Commerciale affidò la totale ristrutturazione del palazzo all’architetto Luigi Platania, in modo da adeguarlo alle funzioni della sua nuova destinazione d’uso. Per la prima volta, nel corso di tre secoli, il palazzo subì radicali trasformazioni nell'assetto funzionale e nei corredi decorativi.

È questo il momento in cui il cortile fanzaghiano viene trasformato e adibito a salone per il pubblico; le pareti vengono tutte rivestite in marmo, nel chiaro intento di sottolineare, anche attraverso l’uso dei materiali, la trasformazione dello spazio nell’interno architettonico di un istituto di credito;

il piano ammezzato aperto e trasformato in balconate (sorta di palchi teatrali) di gusto Liberty e il grande spazio vuoto viene coperto dal lucernario vetrato – disposto all’altezza del solaio del piano nobile –, decorato secondo il gusto degli anni, tra Belle Époque e floreale; due grandi vetrate policrome sono aggiunte a schermare le arcate tra salone e vestibolo e, in quest'ultimo, a Ezechiele Guardascione (Napoli, 1875-1948), pittore di scuola vedutistica assai tarda, sono affidati i due grandi dipinti ad olio. In particolare queste due opere hanno un sapore antico; il pittore infatti ritrae idealmente in una delle due tele parte del cortile fanzaghiano del palazzo ed inserisce con un tocco di fantasia un paesaggio di rovine con colonne e trabeazioni antiche, costruendo una sorta di “capriccio” alla maniera dei pittori del Sei e Settecento; nell’altra raffigura una Veduta marina mettendo in evidenza tracce di reperti classici.

Il nuovo scalone d'onore monumentale, di una singolare foggia tra neoclassico e Liberty, con grandi lampade d’ottone con globi di vetro bianco agli angoli della balaustra, risponde al gusto per un pastiche stilistico, assai di moda in questa stagione. Al piano nobile sono state mantenute le pareti e la volta del vano preesistente, decorato a stucchi e affrescato da Giuseppe Cammarano nel 1832 con la rappresentazione dell’Apoteosi di Saffo.

 

 

La Galleria di Palazzo Zevallos Stigliano e il martirio di Sant’Orsola

http://www.palazzozevallos.it/interno_galleria.asp?q_idmnu=3

 

La Galleria di Palazzo Zevallos Stigliano  offre la possibilità di ammirare l'estremo capolavoro della stagione artistica di Caravaggio: il Martirio di sant'Orsola, ultima opera dipinta da Michelangelo Merisi

http://it.wikipedia.org/wiki/Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio

nel 1610, poche settimane prima della sua drammatica e solitaria morte.

Analogamente ad altri interventi dettati dall’attenzione verso la pubblica fruizione del proprio patrimonio artistico – tra gli altri, le Gallerie di Palazzo Leoni Montanari a Vicenza -, Intesa Sanpaolo destina un apposito spazio dello storico edificio a divenire una specifica sezione di carattere museale che convive con le normali funzioni istituzionali.

Dopo quasi cinquecento anni di vita avventurosa e tormentata il dipinto approda alla quiete e al calore di una residenza - la stessa per il cui decoro era stato acquistato nel 1972 dalla Banca Commerciale Italiana - ritrovando la città nella quale venne ideato e dipinto.

Al termine di un impegnativo restauro, realizzato tra il 2003 e il 2004, che ha risarcito uno degli episodi più intriganti della vicenda umana e artistica di Michelangelo Merisi, e la successiva esposizione in importanti mostre in Italia e all’estero, la tela viene oggi proposta al pubblico accompagnata da un ricco apparato illustrativo e da  sussidi multimediali che ne approfondiscono le incredibili peripezie di trasmissione proprietaria, di restauro, di comprensione critica.

Anche solo la possibilità di vedere ricostruita tale vicenda rende straordinariamente densa la visita dello spazio espositivo di Palazzo Zevallos Stigliano, che per accogliere degnamente l’illustre ospite è ritornato allo splendore che merita. Gli accurati lavori di restauro che Intesa Sanpaolo ha fatto realizzare nello storico edificio hanno restituito a nuova dignità l’intero edificio secentesco, ma in particolare sono gli apparati decorativi ottocenteschi del piano nobile ad avere ritrovata intatta la tavolozza originaria.

La sezione espositiva è impreziosita dalla presenza, in una sala affacciata su via Toledo (“la strada più popolosa e allegra del mondo” diceva Stendahl), di un corpus di vedute sette e ottocentesche della città di Napoli e del territorio campano di Gaspar van Wittel, olandese di Amersfoort, che in Italia cambiò il suo nome in Gaspare Vanvitelli 

http://it.wikipedia.org/wiki/Gaspar_van_Wittel

e che ebbe una discendenza illustre: suo figlio Luigi

http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Vanvitelli ,

pittore e architetto, fu il progettista della Reggia di Caserta. L’altro pittore presente nella sezione è ancora un olandese, Anton Smink Pitloo, fra i più sensibili interpreti del trapasso dal vedutismo illuminista al moderno paesaggismo.

Luci accecanti, dolci, avvolgenti; ombre taglienti, dense, impenetrabili: è Napoli la protagonista implicita del percorso museale e questo incontro fra Intesa Sanpaolo e Napoli è l’armonico dialogo fra una banca che aspira ad un’autentica cultura sociale e una città che, attraversata da tante dominazioni, ha sempre mantenuto una identità culturale e una unicità che le hanno consentito di non abdicare mai al ruolo di capitale.

Una città il cui grande cuore d’ora in avanti accoglierà e proteggerà l’ultimo, lancinante grido di un artista immenso contro l’oscurità assoluta del male.

 

 

I restauri recenti

 

La scelta di Intesa Sanpaolo di adibire a funzioni museali un'area del piano nobile del palazzo ha comportato un'impegnativa stagione di lavori che hanno riguardato la definizione dell'allestimento museografico - che si deve agli architetti Silvana Sermisoni e Andrea Nulli -, l'adeguamento tecnologico del percorso museale secondo adeguati standard di conservazione e sicurezza, e il restauro dei cicli decorativi ottocenteschi, curato da Vincenzo Centanni.

Si è così giunti al recupero della sorprendente e in precedenza molto attutita cromia degli ambienti del percorso museale. Le Sale sono tornate a essere una vivace sintesi di gusto neoclassico, di memorie anche più remote, e insieme di una perdurante sensibilità per cromatismi accesi; si è recuperata l'originaria energia dei colori – dominano il rosso pompeiano, il verde, l'azzurro intenso - in elegante contrasto con il nitore degli stucchi, liberati di una mortificante scialbatura; sono riemerse le dorature in foglia d'oro, le calde venature in finto marmo dei pilastri, l'originale gioco d'ombre con preziose lumeggiature, occultati nel corso del tempo da una pittura a tempera con effetti di raggelato accademismo.

 

 

 

L'ambiente dello scalone d'onore

 

L’ambiente su cui si apre lo scalone d'onore al piano nobile ha mantenuto gli apparati decorativi di primo Ottocento.

Dipinta a tempera su carta, la grande volta è opera di Giuseppe Cammarano, che firma e data l’intervento nel 1832. Al centro della volta domina l’Apoteosi di Saffo, inquadrata da una cornice dorata di spiccato gusto Impero: la poetessa in abiti classicheggianti è rivolta verso il dio Apollo seduto sulle nuvole sullo sfondo di un cielo dorato popolato dalle figure delle Muse; un putto regge la cetra, simbolo di Apollo, sulla quale compaiono le iniziali CF che si riferiscono al banchiere Forquet, committente dell’opera. Di spiccato stile accademico, con accentuate influenze classiche, la raffigurazione sembra tuttavia rendere omaggio anche alla pittura barocca del Giordano, che era presente nel palazzo con sue opere, cui rimanda l’atmosfera dorata che permea i fondi, le nuvole e il cielo.

Le pareti sono invece dipinte a tempera da Gennaro Maldarelli, stretto collaboratore del Cammarano. Qui le figure femminili delle Muse appaiono come un chiaro riferimento all’arte del Canova e sono disposte in alternanza con un complesso ornato di candelabre, ovali, animali, vasi di fiori, elementi vegetali, puttini danzanti; nell’insieme i dipinti restituiscono un ambiente di grande pregio, grazie anche ad una collocazione accanto e al di sopra dello scalone illuminato da lampade di ottone di gusto Liberty, che risalgono all’ultima fase dei lavori nel palazzo risalente agli inizi del Novecento.

Pur sottoposti a periodici interventi di manutenzione (uno dei quali è documentabile al 1959, sulla base dei dati affiorati proprio durante l'ultimo restauro sulla volta), le decorazioni avevano perduto ormai, infatti, gran parte della profondità e varietà cromatiche, con conseguenti effetti di generale appiattimento. Il recente restauro, tanto qui come del resto nelle sale del piano nobile, ha provveduto al fissaggio della pellicola pittorica a tempera, al consolidamento dei supporti cartacei (in carta francese) dei soffitti, alla pulitura delle volte incannucciate, alla ridipintura delle porzioni cromatiche più spente. In particolare sulle pareti, sono stati recuperati i fondi di una delicata tonalità verde muschio e, soprattutto, l'originale gioco d'ombre e le preziose lumeggiature in oro dei fregi con medaglioni a figure allegoriche.

 

 

La sala degli amorini

 

La sala prende il nome dalla gioiosa presenza di putti nella decorazione della volta, riportata, insieme al ricco fregio parietale, all'originaria ricchezza cromatica.

Qui, assieme ai pannelli illustrativi dedicati alla Sant’Orsola di Caravaggio, è esposta anche una rarissima incisione di Alessandro Baratta (1629) che rappresenta la città di Napoli a una data molto prossima a quella dell'esecuzione del Martirio (1610), se appena teniamo conto dei lunghi anni necessari alla sua preparazione.

Il punto d’osservazione prescelto da Baratta è posto idealmente al centro del golfo di Napoli, in asse con il Castel Sant’Elmo e ad un’altezza tale che la città è colta in tutto il suo sviluppo, da Posillipo, sulla sinistra, a Poggioreale sulla destra. In questa tavola, si può vedere via Toledo, al centro del disegno, che taglia in due la regolare scacchiera dei quartieri Spagnoli. Sulla destra, è il centro antico, segnato dai tre decumani. In primo piano è il Castel Nuovo, chiamato dai napoletani: il Maschio Angioino; sulla sinistra c’è il palazzo vicereale, alle pendici del Castel Sant’Elmo. In basso, in pieno mare, il Castel dell’Ovo.

Questa prospettiva a volo d'uccello ci offre la possibilità, da un lato, d’individuare via Toledo e l'area dove fu costruito palazzo Zevallos, dall’altro, di capire la vastità della città, nel Seicento, allora, capitale del vice-regno spagnolo e una tra la più popolose e ricche città Europee.

 

 

La sala degli stucchi

 

La piccola stanza rettangolare era destinata a camera padronale (con l'alcova posta nella rientranza ora occupata da un camino in marmo bianco, con a lato due cani a tutto tondo); fu realizzata nello stesso anno dello scalone (1832) da Gennaro Aveta, professore all'Accademia di Belle Arti di Napoli, maestro tra i più attivi nella decorazione delle residenze private partenopee, nel quarto e nel quinto decennio del XIX secolo. Il recente restauro ha recuperato la cromia di fondo dell'ambiente sin qui molto attutita: un intenso azzurro in elegante contrasto con il nitore degli stucchi (prima scialbati). È stata restituita almeno una parte delle dorature in foglia che impreziosivano la sala. Sono riemerse le calde venature in finto marmo dei pilastri, a lungo occultate da una pittura a tempera.

La sala è tornata a essere una vivacissima sintesi di gusto neoclassico e di memorie più antiche: sul soffitto la decorazione a stucco, con tracce d'oro, mostra una figura femminile alata, con la fronte decorata da fiori di oppio, che stringe a sé due putti dormienti ed è affiancata da una civetta. Il gruppo rappresenta simbolicamente il Sonno o la Notte, e riprende in modo palmare un gruppo in marmo realizzato nel 1815 dallo sculture danese Bert Thorvaldsen. Il soggetto deriva dalle cosiddette oscilla pompeiane, caratteristici ornamenti sospesi con catene fra le colonne dei peristili.

La volta e le fasce sommitali delle pareti presentano una decorazione sovrabbondante: fiori di papavero, ciclamino, campanula, ma anche pipistrelli, rondini, fanciulle che reggono coppe e cigni sormontati da puttini. I bassorilievi sulle pareti riecheggiano una serie di gruppi mitologici di Antonio Canova (le Grazie, Amore e Psiche, Marte e Venere, Leda e il cigno), forse ispirati dalla presenza a Napoli, nell'attiguo palazzo del marchese di Salza sempre in via Toledo, di un'opera del grande artista, ossia il gruppo marmoreo con Venere e Adone, oggi al Musée d'Art et Histoire di Ginevra.

Su una delle pareti non scandite da pilastri e lesene è stato collocato, in un apposito allestimento, il Martirio di sant'Orsola di Caravaggio.

 

 

La sala degli uccelli e la sezione vedutistica

 

Nella sala degli uccelli sono state recuperate le cromie originarie - da un lilla slavato a una più luminosa tonalità in cui si integrano verdi, arancio, con inserti di rossi e di azzurri sulla volta -: ciò consente di apprezzare maggiormente l'apparato ornamentale che alterna ai motivi ornitologici che danno il nome all'ambiente la presenza di amorini e raffinate panoplie, con frecce e fiori. In questa sala viene esposto un importante gruppo di vedute di Napoli e del territorio vicino tra Sette e Ottocento, con opere di van Wittel e Pitloo.

In questa sala viene esposto un importante gruppo di vedute di Napoli e del territorio vicino tra Sette e Ottocento, con opere di van Wittel e Pitloo.

La Veduta del Largo di Palazzo di Gaspar van Wittel, opera capitale di questa sezione, si situa all'avvio del Settecento e mostra uno spirito nuovo nella rappresentazione della città rispetto all'epoca precedente, quando era stata la raffigurazione cartografica a dettare i punti di vista per le opere pittoriche di intonazione vedutistica, diversamente da quanto accade a Roma o a Venezia: non più dunque la ripresa frontale della lunga facciata del Palazzo Reale, ma un punto di vista molto angolato, che sottolinea il ruolo scenografico dell'edificio nel grande invaso dell'attuale piazza del Plebiscito. La situazione che il dipinto ci consegna è assai diversa da quella attuale: sulla tela, al termine della facciata del Palazzo, è possibile riconoscere l'antica sede vice-reale, eretta dopo il 1533 per volontà di Pedro de Toledo ma poi demolita (1837) quando sull'area sorse il Teatro San Carlo. Più ancora, il lato sinistro della veduta ci restituisce una serie di edifici ecclesiastici sostituiti in epoca neoclassica dal complesso di San Francesco di Paola, con le lunghe ali a perimetrare la chiesa e la piazza.

L'opera di van Wittel è nota in almeno quattro esemplari, tutti fondati sul disegno preparatorio conservato a Napoli, nel Museo di San Martino: quello più vicino al dipinto Intesa Sanpaolo, datato 1706, si trova nel Museo di Cincinnati (Ohio). Fu realizzato a Roma: l'artista olandese vi si era nuovamente trasferito dopo che, nel 1702 era stato rimosso dall'incarico il vicerè che lo aveva invitato a Napoli nel 1699, trasformandolo in una sorta di pittore di corte.

 

 

La Napoli di Caravaggio

 

All'inizio della sala degli amorini è esposta una rarissima incisione di Alessandro Baratta (1629) che rappresenta la città di Napoli a una data prossima a quella dell'esecuzione del Martirio (1610), se teniamo conto dei lunghi anni necessari alla sua preparazione. La città è raffigurata con una puntuale attenzione al tessuto urbano e alla sua posizione nel Golfo; la ripresa a volo d'uccello, dal mare, consegna un documento prezioso per osservare l'area dove, di lì a pochissimi anni, sarebbe sorto palazzo Zevallos; essa testimonia altresì la grandezza e la densità della capitale, all'epoca una delle più ricche e la più popolosa città dell'intero continente, fornendoci implicitamente le ragioni della scelta di Caravaggio nel momento in cui l'artista era stato costretto ad abbandonare Roma.

Il 24 ottobre 1609 gli informatori romani del Duca di Urbino avevano avvisato il loro signore che Caravaggio «è stato ucciso o sfregiato a Napoli». Non era morto; ma gli estremi autoritratti, nel Davide con la testa di Golia e nel Martirio di sant'Orsola, rivelano che la misteriosa e spietata aggressione sulla porta dell'osteria del Cerriglio non aveva mancato di molto l'obiettivo.

Caravaggio aveva dovuto abbandonare Roma da qualche anno e definitivamente: il 28 maggio del 1606 aveva ucciso Ranuccio Tomassoni, un uomo d'arme legato alla potente fazione spagnola cui si appoggiava papa Paolo V Borghese, ed era stato condannato al bando capitale, il che significava che chiunque poteva, nelle terre pontificie, eseguire immediatamente una sentenza di morte. Dopo qualche mese, dal 23 settembre è a Napoli, dove realizza rapidamente una serie di dipinti che segneranno indelebilmente la scena figurativa partenopea: le Sette Opere di Misericordia per il Pio Monte, la Crocifissione di Sant'Andrea ora a Cleveland, le Flagellazioni di Capodimonte e di Rouen, la Madonna del Rosario (ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna).

La tappa successiva è Malta: qui un anno dopo diviene cavaliere dell'Ordine militare (e come tale firma la straordinaria Decollazione del Battista della Valletta); di lì a poche settimane, tuttavia, per un misterioso affronto a un confratello più potente, è giudicato da una commissione, incarcerato e, l'1 dicembre 1608, condannato alla privatio habitus, ossia all'espulsione dall'Ordine, tornando così alla mercé del potere pontificio e della vendetta spagnola. Caravaggio nel frattempo è già evaso, grazie a qualche protezione che non lo aveva abbandonato. Prima dell'ultimo ritorno a Napoli fa tappa a Siracusa, Messina, Palermo, lasciando in ogni città dolenti capolavori, dal Seppellimento di santa Lucia alla Resurrezione di Lazzaro. Nella capitale partenopea, dove si rifugia nel palazzo della marchesa di Caravaggio, Costanza Colonna Sforza, il Martirio di sant'Orsola risulta l'estremo impegno documentato dell'artista.

Nel frattempo il cardinal Scipione Borghese aveva interceduto con successo presso lo zio papa, per fargli revocare la pena capitale e consentirgli il ritorno a Roma. Il pittore si sarebbe sdebitato offrendogli il celeberrimo David con la testa di Golia, dove il suo autoritratto come Golia è pressoché identico alla figura che compare alle spalle di sant'Orsola e recandogli personalmente, su una feluca analoga a quella che aveva portato a Genova il Martirio, il San Giovanni Battista, tuttora alla Galleria Borghese. Ma nel corso di quest'ultimo viaggio, secondo la testimonianza per altro equivoca delle fonti, Caravaggio trova morte improvvisa a Porto Ercole.

 

 

Perché sant'Orsola? Le ragioni del soggetto

http://it.wikipedia.org/wiki/Martirio_di_sant%27Orsola

 

Rispetto a diverse opere dell'ultimo periodo dell'artista, per questo dipinto si dispone di molti documenti, ritrovati poco meno di trent'anni fa. Soltanto da allora il dipinto si è imposto all'attenzione della critica nella sua inoppugnabile autografia. Era stato in precedenza attribuito da Roberto Longhi a Bartolomeo Manfredi, poi esposto a Napoli, nel 1963, con un incongruo riferimento a Mattia Preti, e finalmente rivendicato a Caravaggio, per ragioni stilistiche, da Mina Gregori nel 1974: la proposta della studiosa è stata confermata con il rinvenimento di un folto dossier documentario da Vincenzo Pacelli (1980).

I documenti forniscono luogo e data dell'esecuzione, la Napoli della tarda primavera del 1610; il nome del committente, il principe genovese Marcantonio Doria, figlio del doge Agostino; le circostanze dell'invio della tela nel capoluogo ligure (compresi i nomi della barca e del capitano che la guidava); alcuni dettagli sulla tecnica. A tutto ciò si aggiunge un titolo, che appare già nel 1620 in un inventario dei beni di Casa Doria: sant'Orsola confitta dal tiranno, indicazione in apparenza didascalica e descrittiva, in realtà preziosa per intendere una scelta iconografica insolita e controcorrente, come spesso accade nella ricerca caravaggesca.

La scelta del soggetto si deve al committente. Marcantonio Doria aveva sposato Isabella della Tolfa, vedova del principe di Salerno Agostino Grimaldi. La figlia di Isabella e di Agostino, Anna - figliastra dunque del Doria, ma da lui amata come «figlia carissima»: così leggiamo nel suo testamento -,  nel momento in cui era entrata nel monastero napoletano di Sant'Andrea delle Dame aveva assunto il nome religioso di Suor Orsola. L'affetto per la figliastra è il motivo della devozione di Marcantonio per sant'Orsola: lo apprendiamo dal post scriptum di un documento fondamentale, la lettera che l'11 maggio 1610 Lanfranco Massa, il suo procuratore napoletano, invia per ragguagli allo stesso Doria.

 

La scena è ridotta a cinque personaggi, uno dei quali ci trasmette l'estremo convincente autoritratto dell'artista. Malgrado l'esistenza di una tradizione consolidata Caravaggio omette ogni riferimento alle undicimila vergini martiri che, secondo il racconto della duecentesca Legenda aurea di Jacopo da Varazze, avevano accompagnato Orsola, figlia del re di Bretagna, sotto le mura della città di Colonia assediata dagli Unni: ciò ha determinato qualche incertezza tra i moderni studiosi dell'opera in merito all'esatta decifrazione del soggetto.

Ciò che vediamo è solo il terribile epilogo della vicenda. Dopo la strage il re barbaro propone alla giovane di divenire sua sposa e ne riceve in cambio uno sguardo sprezzante di sfida: «veggendosi schernito - scrive ancora Jacopo -, diede di mano ad uno arco e trafissela d'una saetta, e così compiette il suo martirio».Ecco l'origine, nell'inventario genovese, del titolo del dipinto:  sant'Orsola confitta dal tiranno.

Nel dipinto il dramma è consumato. Orsola osserva il dardo conficcato nel seno, il sangue che scorre.L'esigenza di mettere uno di fronte all'altra i protagonisti e di dare a ciascuno un fisico e concreto risalto ha costretto il pittore ad avvicinarli. Vediamo l'arco, ma non esiste lo spazio per vibrare il colpo.Per la prima volta, e proprio nel suo ultimo dipinto, Caravaggio non ci mostra un'azione nel momento in cui essa si compie, ma piuttosto i suoi effetti.

Con una simile impaginazione Caravaggio si mostra attento al dibattito teologico sulla raffigurazione dei santi sviluppatosi dopo il Concilio di Trento. La Chiesa mirava a ricondurre episodi troppo marcatamente celebrativi a una maggiore razionalità storica:

nel caso di Orsola era opportuno insistere sulle cause di fondo del martirio (la difesa della fede e della castità), mostrarsi evasivi sulle forme concrete del supplizio e piuttosto scettici sulla straripante presenza delle altre undicimila compagne della santa. In assenza di certezze storiche il pittore si affida al racconto di Jacopo da Varazze, ma ne presenta solo gli elementi a suo avviso inoppugnabili.

 


http://www.palazzozevallos.it

http://it.wikipedia.org/wiki/Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio

http://www.caravaggio.rai.it


 

Galleria di Palazzo

Zevallos Stigliano

sede museale

di Intesa Sanpaolo

Via Toledo, 185

80132 Napoli

 

Orari di visita:

Tutti i giorni

10.00 - 18.00

chiuso la domenica

Ingresso: 3 Euro

 

Informazioni e

prenotazione gruppi

numero verde

800 16052007

Possibilità di prenotare visite guidate per gruppi

di min 15/max 25 persone, euro 30,00 a gruppo

in...@palazzozevallos.com

 


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